Agrigento ricorda Franco La Rocca Le immagini si inseguivano sullo specchio delle illusioni. La Signora assorta intrecciava il filo del pensiero con le trame della visione e sognava, rifletteva, recuperava il senso del tempo e della realtà, e veloce intraprendeva una nuova avventura nell’universo dell’immaginario. Un cavaliere, sconosciuto, irrompe nel mistero del dialogo muto che si sta svolgendo fra la signora e l’illusione. Si avvicina allo specchio e cerca di capire, il gioco delle immagini che si inseguono lo prende. È sorpresa, la signora. Lo osserva, lo interroga. Conversano. I silenzi danno ritmo al loro pensiero, si scontrano in divertimenti di intellettuale sfida. Il cavaliere è maestro nell’arte della dialettica sottile, è ironico di dolce suono. La loro intesa è trappola e tranello, una scacchiera sulla quale agili si muovono e nessuno dei due riesce a concludere l’ultima mossa. Trascorre lungo tempo eppure brevissimo. Il sole sta cancellando le opalescenze della luna. – Signora, devo partire. Il tempo si è sciolto nella clessidra del nostro immaginario. – Cavaliere, chi sei? – Mi chiamo “L’inespugnabile” come la rocca del tuo castello segreto. – Cavaliere, porta con te lo specchio delle illusioni. Lì continueremo ad osservare il cielo e la terra. Giuliana Scimè
Agrigento 17 Giugno 1993 49
Chi vi parla non è, per sua natura, consenziente alle commemorazioni, ai ricordi. E certo non per quell’indifferenza palese che ormai sovrasta tutto o per quella negligenza che la società d’oggi riversa sui sentimenti. Forse è la vilipesa consistenza di questi affetti che oggi fa superare la mia stessa diffidenza. Non è facile dare una definizione di amico. Personalmente faccio una netta distinzione tra amicizia e conoscenza. L’amicizia è, appunto, uno di quegli affetti che non ha bisogno di essere quantificato nel tempo. Anche in tempi brevi ci si riconosce; si valutano inconsapevolmente le affinità, le visioni del mondo, l’idea, non so, della cultura. E su quest’ultima mi sono incontrato con Franco La Rocca, diversi anni fa. Mediatore di questo incontro fu un suggerimento di Sciascia che, a conoscenza dell’attività del Centro “Pier Paolo Pasolini”, valutò l’opportunità di farmi curare, parallelamente alla sezione di fotografia, una linea sulla pittura che fosse il più possibile professionale e nello stesso tempo propositiva nei confronti della espressione figurativa siciliana. Così mi conobbi con Franco. Meglio sarebbe dire lo riconobbi. Egli non se ne accorse mai. Almeno così credo. Ed io non glie ne parlai. Ma lo rividi ragazzo per le vie di Palermo attento a non perdere l’autobus che ci avrebbe portato nello stesso quartiere. E il ricordo mi colpì improvvisamente, come l’immagine chiara di un mattino ritrovato per caso. Accadde quando vidi per la prima volta suo figlio Leonardo. Furono i capelli scuri, ricci e compatti sul volto illuminato dagli occhi mobilissimi, a riportarmi a quell’immagine così distante e così palpabile. Non è facile dare un giudizio sulla personalità di Franco. Ma c’era una qualità caratteriale, che consentiva di definire Franco La Rocca una persona “vera”.
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Di una verità – direi – biologica, scorta in quella sua schiettezza dei giudizi e anche sul fatto che mai – pur essendo uomo che viveva di libri e di programmazione culturale – tentò di costruirsi un abito da intellettuale. La sua ironia era, tutto sommato, il prodotto di un’esorcizzazione continua nei confronti del male e di quella preoccupante ipocrisia sociale che Franco definiva spesso con il termine di “doppiezza”. Egli si divertiva a smontare la stessa cultura, come in un gioco, senza nessuna malizia, quasi con fanciullesca spensieratezza. Quando Valentino Bompiani parlava di Pirandello d’una cosa riferiva con trepidante convinzione: dell’idea pirandelliana di morte. Cioè di quella paura che il grande drammaturgo avvertiva con la perdita degli amici: un mondo personale che a poco a poco si svuotava. Oggi abbiamo perso un po’ di noi stessi nella consapevolezza della perdita di un amico, in quanto proprio noi non abiteremo più la sua casa interiore. Ma Franco – almeno finché saremo noi tutti vivi – abiterà il nostro ricordo, ma non in senso passivo, piuttosto suggerendoci un gesto, una parola, un sorriso, una battuta salace. Non so se la morte è –
come voleva John Donne – quel breve sonno che poi ci fa destare eterni; ma so che l’eternità, cui noi avvertiamo il profumo intenso, è fatta di pieghe sottilissime e arcane. E tra queste riposano le ombre di coloro che – come Franco – ci lasciano anche la più piccola idea di verità. E ciò non serve soltanto a noi, ma alle ombre stesse che così potranno continuare la loro corsa verso l’esistenza. Aldo Gerbino