franco-la-rocca-53_54

Page 1

1994

Ricordare Franco La Rocca è ancora una emozione, un dolore che il tempo, il distacco, l’oblio naturale ed umano non modificano, non attenuano. Franco è morto giovane e senza che una malattia – breve o lunga – avesse potuto attenuare lo stupore, lo sgomento, l’angoscia per l’irreparabile. Franco è morto mentre viveva intensamente. Giovinezza e vitalità mal si accordano con la rassegnazione alla morte. Ma così è stato. E in ciò risiede lo specifico, oserei dire il razionale della nostra emozione e del nostro dolore. Da un anno quell’uomo giovane, vivace, combattivo, persuasivo e convincente per la forza di un ragionare rigoroso intrecciato di fine ironia, onnipresente e creativo non è più. Se la consuetudine alla vicende umane

dolorose, se l’assuefazione alla tragedia umana, ci fossero estranee, dovremmo rivivere la sua scomparsa nella incredulità e nella meraviglia. Ma così è. E resta un sentimento grigio, severo e silenzioso di consapevolezza di un mistero che si ripeterà per ciascuno. Franco La Rocca era attento e creativo. Così mi ritorna in mente in modo pregnante, come se fosse stato il suo tratto peculiare. È il ricordo centrale e primario del suo modo di essere. Quando Franco – nella seconda metà degli anni ‘70 – giunse in Agrigento, inerme di sostegni e di accreditamento, trovò un deserto culturale e una tenace, quando invisibile e paradossalmente ignara, ragnatela tesa a custodire una dominante stagnazione. Vi dicevo che Franco giunse in Agrigento assolutamente inerme: aveva un contratto a termine con la Regione Siciliana di operatore culturale ed avrebbe dovuto promuovere iniziative culturali in particolare con il Comune di Agrigento che – sulla carta – era il possibile e più importante interlocutore. Bisogna rifarsi a quel tempo per capire. In quel tempo – la seconda metà degli anni ‘70 – la città di Agrigento non aveva una biblioteca, se si esclude la Lucchesiana che custodisce opere non certo fruibili da un grande pubblico, opere che vengono consultate per ricerche specifiche e con una latitudine informativa assai ristretta. Mancava completamente un servizio bibliotecario. Ma, soprattutto, mancava la mentalità, il progetto, la capacità operativa. La classe amministrativa era anchilosata in un dominante notabilato e programmaticamente non andava al di là della gestione di un bilancio finanziario quasi totalmente finalizzato alla retribuzione degli impiegati ed al finanziamento di

scarsi e modesti servizi essenziali. La burocrazia era disorganizzata, demotivata ed immobilista ed assolveva un ruolo virtuale. Franco La Rocca comprese che la sua condizione di operatore regionale precario ben difficilmente avrebbe potuto inserirsi validamente nella operatività municipale sia per l’afasia di una burocrazia virtuale sia per la lentezza di percezione e la carenza progettuale di una classe di amministratori in larga misura ottusa e per deficit culturale e per debolezza politica. Franco capì che non avrebbe potuto tracciare itinerari progettuali ed operativi da altri percorribili, capì che la strada maestra era quella di sostituirsi a quanti erano virtualmente preposti ad un compito ed a un ufficio. Capì, inoltre che le novità politiche emergenti trasversalmente nel partito di governo e nei partiti di opposizione della sinistra potevano essere utilizzate per una svolta nella carentissima attività culturale della città. In quel contesto e per quelle intuizioni Franco La Rocca riuscì a dare il meglio ed in tempi brevi: assunse il posto di Direttore di Biblioteca al Comune e – utilizzando gli strumenti legislativi per l’occupazione giovanile – costruì ed addestrò una squadra di operatori culturali molto valida. Per far questo erano necessarie qualità di determinazione, di creatività, di laboriosità, di innovazione e di progettualità. Ed Egli le possedeva in sommo grado. Così comincia e si svolge la vicenda agrigentina di Franco. Io vivo da sempre in questa città e da trentacinque anni frequento il Consiglio Comunale ed il Consiglio Provinciale e da trentacinque anni vivo ed osservo la temperie politica ed amministrativa di questo territorio. Il caso La Rocca è unico e forse irripeti-

53


1994 bile: la prassi di queste contrade è la cooptazione e poi la fedele esecuzione del ruolo. Franco la Rocca rovesciò quella prassi: non si fece cooptare e non si dispose nella subalternità. Egli aveva un progetto: lo impose, lo diresse e lo portò a termine. Converrete che non è attitudine diffusa, che non è pratica corrente, che non è operazione gradita a chi ritiene di esercitare il potere. Il progetto era il sistema bibliotecario inteso come struttura dinamica e in sintonia con le esigenze dell’utente. Potrebbe sembrare che io stia ripercorrendo l’itinerario di una carriera. No. Io mi propongo di descrivere una personalità, un modo di essere, uno stile di disposizione nei confronti di un progetto e di tutte le resistenze che solitamente vi si frappongono specie quando questi è di pubblica utilità ed a gestione non privatistica. Anche in questo caso La Rocca è unico. Egli era straordinariamente moderno: aveva compreso, da attento e consapevole uomo di progresso che l’unico modo per far funzionare un servizio pubblico è quello di gestirlo con stile e prassi manageriali; aveva compreso che per tutelare e sviluppare un segmento dello stato sociale ( ed i servizi culturali ne sono parte) bisognava servire e non servirsi, lavorare e far lavorare non lucrando un monotono ritmo a bassa produttività. Egli aveva capito che una struttura da sola non fa servizio e che sono necessari cultura, informazione, scambio ed attenzione al rapido svolgersi delle cose; altrimenti la struttura diventa un piccolo o grande monumento in cui si officia l’esistente e si contempla se stessi. Ma egli era colto, estremamente informato ed attentissimo al volgere ed al mutare dei gusti, delle situazioni ambientali, del costume,

54

della crescita culturale e sociale dell’utenza. Come può essere definita una persona che ha questa visione progettuale, questa capacità gestionale, questa sensibilità culturale? Io la definirei un manager. E Franco La Rocca fu un manager che si occupava di un segmento dello stato sociale, con una specifica professionalità. Franco La Rocca era, altresì, animato da una pulsione forte e costante. Una pulsione che veniva dall’adolescenza e da una esperienza di vita che potremo definire “da strada”. Sì. Era uomo colto e di studi attenti. Ma per temperamento ed umanità era “uomo” da strada. E nelle strade meridionali aveva maturato e sviluppato una forte e costante passione civile. Non amava parlarne perché temeva enfasi e retorica, ma la viveva con silenziosa perseveranza. La sua passione civile, colta e matura, aveva ingredienti elementari e vorrei dire emotivi: Franco percepiva l’ingiustizia, la prevaricazione, l’arroganza, la negligenza e l’omissione, la povertà e l’impotenza dei deboli e le viveva con sdegno e rabbia mal dissimulate. Ma era consapevole e sapeva bene che la mera contestazione serviva a ben poco. E quegli ingredienti emotivi e primari vennero sublimati in operatività culturale e didattica in senso lato. Capì che la sua passione civile poteva percorrere itinerari congrui e produttivi ripetendo in altri ambiti la dominante connotazione di operatore culturale che tanti frutti aveva dato e dava nell’applicazione professionale. Venne eletto Presidente del Centro Culturale “Pier Paolo Pasolini” ed in quella veste profuse ancora le sue assolutamente rare doti di organizzazione e di promotore. E lì la sublimazione della pulsazione civile raggiunse vertici di efficienza, ope-

ratività, incisività e spessore assolutamente superiori. Al solito, circondato da amici validissimi, riuscì a promuovere il Centro al livello di una delle più importanti e significative istituzioni culturali della città. Dalla sociologia all’ecologia, dalla fotografia alla pittura, dalla saggistica alla letteratura, nel Centro “Pasolini” si realizzò un tessuto culturale che consentì all’istituzione di occupare un ruolo ed una funzione non seconde ad altre istituzioni culturali operanti nel mezzogiorno d’Italia. Anche il Centro “Pasolini”, così come il sistema bibliotecario circostanziale, nasce dal nulla. Franco La Rocca non ereditò mai nulla né gli venne regalato alcunché. Forse per questo il suo modo di essere non mutò nel tempo e non si appannò nel compromesso e nella condiscendenza. Rigoroso, esigente, lineare e di parte. Sì, Franco fu uomo di parte che non si sciolse nel conformismo e che vigilò costantemente rotta, direzione e qualità di posizione. Questa è la mia sintesi, questo è il ricordo che impetuosamente mi è tornato alla mente quando Mara Barbagallo mi chiese – facendomi grande onore – di ricordarlo. Ma c’è un lascito, una proiezione di Franco La Rocca che resta oltre l’opera? Bisogna cercarli nell’essenza morale dell’uomo e del cittadino. Franco era anche un uomo che coltivava nel quotidiano e nell’ordinario una grande virtù: la cultura del lavoro e la pratica del dovere. Per quella virtù dobbiamo chiamarlo e ripensarlo Maestro. 17 Maggio 1994 Fausto D’Alessandro


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.