ildopoconcilio

Page 1

ENZO DI NATALI

IL DOPO CONCILIO AD AGRIGENTO E I CATTOLICI DEL DISSENSO prefazione di Francesco Michele Stabile

Centro Culturale Editoriale Pier Paolo Pasolini Agrigento 1


Copyright © 2004 Centro Culturale Editoriale “Pier Paolo Pasolini” - Agrigento. La pubblicazione è stata realizzata con il contributo dell’Assessorato regionale beni culturali, ambientali e pubblica istruzione. La pubblicazione è disponibile nel sito www.centropasolini.it Di Natali, Enzo Il dopo Concilio ad Agrigento dei cattolici del dissenso / Enzo Di Natali, – Agrigento: Centro culturale editoriale Pier Paolo Pasolini, 2003. 1. Chiesa e società - Agrigento - 1970. ISBN 88-85418-12-0 282 CDD-20 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana

2


Prefazione

La necessità di raccogliere l’esperienza delle comunità ecclesiali locali maturata dopo il concilio si fa sempre più urgente dal momento che ancora sono in vita i protagonisti di quella stagione. Tra qualche anno potrebbe diventare difficile raccogliere testimonianze e documenti. Si tratta infatti di frammenti di storia locale che facilmente possono disperdersi se non si ha la volontà e la pazienza di ricostruire diocesi per diocesi gli interventi dei vescovi, la geografia dei gruppi spontanei, i dibattiti, le varie iniziative che cambiavano la vita interna della Chiesa e aprivano le comunità religiose alla società. È quindi per ogni verso apprezzabile il tentativo di Enzo Di Natali di ricostruire gli anni del dopoconcilio nella diocesi di Agrigento. L’apparente unanimismo della Chiesa di papa Pacelli sembrò dissolversi con il concilio, ma soprattutto con l’allargamento di orizzonti ecclesiologici nuovi che coinvolsero le chiese italiane. Il concilio aveva aperto al mondo cattolico internazionale una visione di Chiesa che non era più dettata dalla Curia romana, ma si ricostruiva con la varietà delle esperienze delle chiese locali della vecchia Europa e più ancora delle chiese del Terzo Mondo. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 si diversificano in Italia le strade all’interno delle comunità cattoliche. Una strada è quella proposta dalla Conferenza episcopale italiana con i suoi piani pastorali, l’altra strada è quella dei gruppi e movimenti spontanei che contestano in modo radicale l’assetto istituzionale della Chiesa ed esprimono un dissenso profondo soprattutto sulle scelte politiche e sociali delle comunità ecclesiali. Questi processi hanno ripercussioni all’interno della comunità ecclesiale di Agrigento dove il vescovo Giuseppe Petralia, per altro un intellettuale fine e coraggioso, non riesce a trovare una modalità di dialogo con i gruppi più avanzati e radicali della sua diocesi. 3


Che cosa ha influito nelle formazione di questi gruppi? Sicuramente la teologia politica e la teologia critica del Nord Europa trovano un terreno adatto per le inquietudini che travagliavano alcune frange del clero e dei laici cattolici, stretti sempre più nell’abbraccio asfissiante del partito unico, nella delusione dei problemi sociali non risolti come l’emigrazione che spopolava i paesi dell’Isola, in una cultura teologica scolastica che non dava risposte alla sete di significato dell’esistenza, che poneva il confronto con il pensiero moderno, e al bisogno di democrazia e di giustizia in cui era cresciuta una parte del giovane clero. La Sicilia non era capace di elaborare risposte teologiche per il fragile e tradizionale retroterra culturale del suo clero, ma era però terreno sensibile all’aria del dissenso per le contraddizioni sociali e religiose che in essa persistevano. La teologia critica e politica di J. B. Metz e di Moltman sfocia, in alcuni gruppi, nell’accettazione della teologia della liberazione di origine sudamericana e si apre all’analisi marxista che viene accettata come analisi appropriata per ricostruire le cause dei mali della società e anche dei mali della Chiesa. Una lettura materiale della storia, quindi, che spaventava i difensori della vecchia scolastica perché in qualche caso rischiava di dogmatizzare un solo approccio alla realtà fino alla giustificazione della rivoluzione armata, come aveva fatto il prete sudamericano Camillo Torres che scelse il mitra del guerrigliero. A Giulio Girardi che conciliava cristianesimo e marxismo, a dom Giovanni Franzoni che attaccava l’assetto istituzionale della Chiesa e gridava che la terra è di Dio, al card. Pellegrino e al vescovo Bettazzi si guardava come a nuovi maestri. Nel gruppo progressista agrigentino la preoccupazione iniziale era quella di parlare un linguaggio più vicino al mondo operaio con il quale si intendeva aprire un dialogo privilegiato. Si teorizzava una militanza che fondeva in unità la dimensione religiosa e la dimensione politico-sociale. Per la Chiesa di Agrigento e, con qualche particolare diversità, per le altre chiese di Sicilia, un primo problema da affrontare è la periodizzazione della recezione del concilio. Si può parlare di un primo 4


momento episcopale, che connota la seconda metà degli anni ’60, quando i vescovi avviano all’interno delle singole diocesi gli organismi di partecipazione ecclesiale, come i consigli pastorale e presbiterale, e danno indicazioni per una più intensa vita liturgica secondo i canoni conciliari e per nuove forme di evangelizzazione. Un secondo momento si comincia a delineare agli inizi degli anni ’70 in cui, all’interno delle comunità locali, si fa sentire sempre più la pressione dei gruppi di rinnovamento che inseriscono istanze radicali di cambiamento sul piano religioso e sociale. In un terzo momento, nella metà degli anni ’70, in alcune diocesi siciliane, e soprattutto ad Agrigento, ma anche a Trapani, si arriva alla rottura all’interno delle comunità diocesane tra vescovi e gruppi del dissenso. Alla fine di quel decennio si dissolve lentamente la carica radicale del dissenso dentro la Chiesa. Le avvisaglie del dissenso si manifestano in Sicilia con un certo ritardo rispetto al movimento che si era manifestato altrove già nel ’68. Ad Agrigento, ma anche in altre diocesi di Sicilia, le elezioni regionali del 1971 segnano un primo momento di rottura. L’invito da parte del clero a votare secondo coscienza e a fare una scelta religiosa fa da spia al rifiuto del collateralismo con la Democrazia Cristiana. Già allora si cominciava a delineare una frangia di dissenso all’interno della Chiesa locale che si faceva portatrice di alcune istanze del concilio Vaticano II alle quali sembrava i vescovi non fossero sensibili. Il primo punto era sicuramente il nodo ecclesiologico cioè come concepire la Chiesa. Alcuni partivano dalla politica per contestare il sistema istituzionale della Chiesa. All’inizio si esprimono solo suggestioni e sofferenze, ma poi a poco a poco si vanno cercando appoggi teoretici nelle nuove teologie per consolidare in una visione organica istanze ecclesiologiche e istanze sociali. In riferimento a queste giustificazioni teologiche anche all’interno dei gruppi del dissenso si notano diversità di accentuazioni tra chi proponeva una critica radicale del sistema ecclesiastico soprattutto sul piano sociale con l’utilizzo dell’ideologia e della prassi marxista e chi partiva dalla necessità di rendere credibile l’annunzio del vangelo per rinnovare la vita interna della Chiesa e per contestare le scelte politiche che si credeva avessero offuscato la sua credibilità religiosa. 5


L’ala più radicale ad Agrigento, come altrove, fu certamente rappresentata dai Cristiani per il socialismo. Diremmo perciò che si delinearono due indirizzi che a me appaiono speculari rispetto agli anni preconciliari. Come c’erano stati clero e laicato cattolico negli anni ’50 che credevano che la scelta politica di contrapposizione con le sinistre fosse decisiva per vincere il comunismo e salvaguardare la fede del popolo, mentre altri desideravano una linea più pastorale nella presenza della Chiesa nella società italiana, così ora si delineava un’ala progressista che faceva pure una scelta politica, ma di sinistra, e riteneva che una radicale lotta sociale e politica per il cambiamento della società italiana potesse essere l’inizio di un cambiamento anche dentro le strutture ecclesiali compromesse con il potere politico, e un’altra ala che scartava la scelta politica come scelta direttamente orientata alla riforma della Chiesa e puntava invece sulla necessità di una riforma interna attraverso una più coerente adesione al vangelo. Questo ritorno evangelico avrebbe avuto anche una ricaduta sul piano politico e sociale, in quanto la scelta preferenziale dei poveri avrebbe comportato un processo di liberazione di cui i cristiani non potevano non essere protagonisti. Si trattava quindi di accentuazioni diverse che comunque avrebbero portato a esiti diversi. In ogni caso da tutta l’ala conciliare si voleva realizzare concretamente nelle strutture ecclesiali la nuova ecclesiologia del popolo di Dio delineata dal concilio. La centralità della Chiesa non era data più alla gerarchia, ma al popolo di Dio nelle sue varie articolazioni. I gruppi spontanei non erano considerati un pericolo per la Chiesa, ma venivano anzi visti come segno di vitalità e di progresso dell’impegno dei laici nella Chiesa. Si doveva inoltre passare da una visione che metteva la Chiesa stessa al centro di tutto, a una visione che recuperava la centralità di Gesù Cristo. Una Chiesa quindi che non guarda a sè stessa e alla propria difesa istituzionale, ma si incarna come Cristo nella storia degli uomini. Ma se era una Chiesa incarnata dentro la storia, quale doveva essere il rapporto tra Chiesa e mondo? Le conseguenze si notavano anche sul piano pastorale, perché si denunziava la frattura tra teologia e dimensione sociale, l’intimismo 6


senza ricaduta nella vita pubblica, devozioni popolari e ritualismi da rievangelizzare e da aprire alla liberazione sociale. All’interno di questo quadro di riferimento la problematica sociale assumeva un ruolo rilevante che portava i gruppi spontanei, e in modo diverso anche gli stessi vescovi, su posizioni di denunzia dei mali della società. Diventava allora fondamentale la rottura esplicita del collateralismo con la DC chiarendo l’equivoco connubio tra unità di fede e unità politica che si era affermato con la direttiva romana che in caso di pericolo per la fede bisognava stringere i ranghi anche sul piano politico. Nei primi anni ’70 si afferma intanto una nuova figura di prete impegnato nel campo sociale, critico del sistema politico, intriso a volte di linguaggio rivoluzionario, che si rifaceva alla comunità di base come fonte di legittimazione del proprio operato e delle proprie scelte, più che all’autorità del vescovo. Il progetto di riforma della Chiesa voluto dal vescovo veniva scavalcato e connotato come di retrovia. Le occasioni di scontro all’interno della comunità ecclesiale di Agrigento furono due avvenimenti dei quali uno sconvolse tutta la Chiesa italiana. Lo scontro sul referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio fu devastante per la vita ecclesiale e portò divisioni e sofferenze in tutte le chiese locali. In modo particolare nella Chiesa di Agrigento vittima eccellente di questo scontro fu il prete Di Giovanna, direttore del giornale diocesano L’Amico del popolo che assunse una linea apertamente a favore della legge, mentre il vescovo Petralia era impegnato a salvaguardare la linea dell’episcopato italiano contrario alla legge. I risultati del referendum sul divorzio preoccuparono il vescovo. Il direttore venne esonerato dalla direzione del giornale, ma l’intervento repressivo del vescovo spinse tutta le redazione a lasciare il giornale. La frattura divenne contrapposizione perché il direttore con il gruppo redazionale, appoggiato da altri preti e laici, fondarono un nuovo giornale Scelta in contrapposizione a quello diocesano e su una linea di contestazione istituzionale e sociale. Il disagio provocato da questo intervento del vescovo fu espresso da un documento firmato nel 1975 da 60 preti in cui si denunziava il distacco della Chiesa e dei suoi organismi dal mondo contadino e ope7


raio. Era chiaramente una denunzia dei mali della diocesi e quindi una sconfessione dell’operato del vescovo Petralia. Mi pare, a distanza di anni, molto sereno il giudizio di Enzo Di Natali sull’operato del vescovo Petralia. Tentare di rileggere la sua azione nella globalità del suo ministero pastorale dà certamente un quadro ricco di iniziative importanti per la vita della diocesi. L’altro avvenimento di rottura coinvolse due preti legati a una comunità di base di Favara, legata ai Cristiani per il socialismo. Anche in questo caso non si capiva bene se la motivazione era preminentemente politica o dottrinale. Probabilmente ciò che preoccupava Petralia era la svolta a sinistra di questi preti e laici, il metodo di analisi e la metodologia di azione molto lontani dal tradizionale mondo ecclesiastico. Dopo il convengo ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana le spinte radicali tendono ad affievolirsi anche perché nel frattempo una consistente emorragia svuotava i presbiteri. Circa una ventina ad Agrigento furono i preti che lasciarono ufficialmente il ministero. Alcuni rimasero ancora a lottare, altri emigrarono per cercare una attività lavorativa. Venivano così meno forze vivaci che si sentivano troppo strette all’interno delle comunità ecclesiali o che venivano epurate dalla controffensiva episcopale soprattutto in alcune diocesi. Quando avremo una mappa più capillare della presenza del dissenso in Sicilia saremo in grado di dare un giudizio più sereno sulla sua efficacia e sui suoi limiti nel cambiamento di mentalità o di forme istituzionali. È comunque certo che la recezione del concilio in Sicilia si manifesta in una geografia articolata non solo tra diocesi e diocesi, ma anche all’interno di una stessa diocesi. Sarebbe molto utile quindi se si potesse raccogliere tutto il materiale reperibile e costituire fondi sia per la storia del movimento cattolico in Sicilia sia per la recezione del concilio in tutte le sue articolazioni, compresi i materiali del dissenso ecclesiale. Il materiale potrebbe essere raccolto o presso la Facoltà teologica di Sicilia o presso gli istituti teologici o presso gli archivi diocesani. Penso che sia nell’interesse di tutti salvare la memoria ed evitare che si ripeta in modo 8


incosciente la perdita di memoria come è avvenuto per il periodo modernista. Si potrebbe lanciare un invito, quasi un censimento, da rivolgere a tutti i protagonisti di quella stagione perchĂŠ vengano raccolti i materiali e vengano valorizzati e conservati. Siamo consapevoli che questa Chiesa si costruisce non solo con l’apporto ufficiale delle gerarchie ecclesiastiche, ma con le profezie e con le sofferenze di ogni credente che veramente ama la Chiesa, anche se in alcuni casi condannato a vivere ai margini della vita ecclesiale.

Francesco Michele Stabile storico FacoltĂ teologica di Sicilia

9


10


Introduzione

Il Concilio Vaticano II suscitò un fermento ecclesiale mai prima conosciuto soprattutto per aver coinvolto tutti i settori della vita ecclesiale: dalla liturgia alla catechesi, dalla dommatica alla morale, dall’ecclesiologia alla comprensione del mondo. In qualsiasi ambito si guardava al Concilio con grande interesse e ammirazione, anche dovuto al fatto che la Chiesa comprendeva che ormai un periodo storico era da tempo terminato e, pertanto, doveva adeguare le proprie strutture nonché il messaggio evangelico alle nuove sfide e ai nuovi impulsi che venivano dal mondo contemporaneo, se non voleva rimanere legata ad una visione ormai superata. Man mano che i nuovi documenti venivano approvati dai padri conciliari e promulgati dal pontefice, in ambito ecclesiale nasceva il desiderio di una maggiore conoscenza ed approfondimento. Dibattiti, incontri, convegni si moltiplicarono ovunque. Anche la stampa laica diede ampio risalto agli avvenimenti della Chiesa. Tuttavia bisogna evidenziare che il dopo Concilio segnò una delle fasi più controverse della vita della Chiesa di questo secolo, poiché sia i conservatori che i progressisti si appellavano allo stesso Concilio per ribadire le proprie posizioni, spesso divergenti, segno che non tutto fu possibile delineare in modo chiaro durante le sessioni conciliari. Il Concilio Vaticano II su alcuni argomenti dovette trovare un’intesa tra le due tendenze che indusse a pubblicare documenti in cui emerge una volta più marcatamente l’ala conservatrice e giuridica altre volte l’ala più progressista e carismatica. Artefice del rinnovamento conciliare nella diocesi di Agrigento fu il vescovo Giuseppe Petralia, che portò il “vento del Concilio”, e si distinse come vero padre conciliare con l’applicazione degli stessi documenti. Divise la diocesi in zone pastorali, formò il consiglio presbite11


rale, il consiglio Pastorale diocesano, e volle che ogni parrocchia avesse il proprio consiglio Pastorale, portò la teologia conciliare nei Comuni della diocesi con i corsi di formazione, rinnovò la catechesi e la vita liturgica, intraprese la vita missionaria. Queste sono alcune iniziative che ci fanno comprendere l’attività di questo vescovo contestato ma che sarà ricordato tra quelli che incisero maggiormente nella Chiesa agrigentina, quanto meno dal Concilio di Trento ai nostri giorni. Infatti, non fu un’operazione facile, malgrado l’ottimismo diffuso, voltare pagina ed introdurre le innovazioni conciliari. Egli, a differenza di altri vescovi che si mostrarono ora diffidenti, ora prudenti ora di prudentissima attesa1, avviò il rinnovamento conciliare in diocesi. Usi, costumi e fette di poteri venivano messi da parte. Ma non fu facile mediare tra le diverse anime presenti all’interno della Chiesa agrigentina, e far capire la portata della novità. Il fermento ecclesiale del dopo Concilio coinvolse anche il rapporto tra Chiesa e politica, dovuto anche alla svolta antropologica presente nella Gaudium et spes. In Italia, a vent’anni dalla vittoria della Democrazia Cristiana nei confronti del Fronte Popolare, non c’era più la compattezza del clero nel sostegno al partito dei cattolici, perché parecchi sacerdoti e laici avevano notato una linea politica non del tutto coerente con il messaggio evangelico e con l’insegnamento della Chiesa. Il correntismo politico, la conquista del potere, le promesse difficilmente mantenute, le crisi amministrative frequenti, avevano portato ad assumere un atteggiamento molto più critico. Un’inadeguata politica meridionalistica dei governi a guida democristiana non diedero le dovute risposte ai delicati problemi del Mezzogiorno, dove i paesi continuavano a spopolarsi a causa dell’emigrazione verso il triangolo produttivo ed industriale del Nord Italia o all’estero. Nella diocesi di Agrigento, a partire dal 1972, con il contributo di alcuni fatti di politica internazionale, alcuni sacerdoti, che guidavano comunità parrocchiali, assunsero un atteggiamento aspro fino alla rottura

1) Cfr A. Acerbi, I nodi delle dinamiche ecclesiali in Italia negli ultimi venticinque anni, in La chiesa italiana e l’informazione religiosa, Bologna 1981, 24.

12


con la Democrazia Cristiana e a invocare il pluralismo politico. Lo scontro si fece più intenso a partire dal referendum sul divorzio del 1974 che indusse il vescovo di Agrigento, Petralia, a prendere decisioni gravi come il licenziamento del direttore del settimanale diocesano L’Amico del Popolo. La nascita del settimanale Scelta segnerà la fase più acuta di tale situazione e registrerà il fermento dei Cristiani per il socialismo nella diocesi agrigentina. Lo scopo di questa pubblicazione è evidenziare le cause che stavano alla base dello scontro tra il vescovo Petralia e i cattolici del dissenso, senza entrare nel merito di chi avesse torto o ragione. E tra le cause che provocarono il dissenso in seno alla comunità diocesana vogliamo ricordare soprattutto un nuovo indirizzo teologico più marcatamente conciliare e diverso da quello che era stato diffuso prima del Concilio Vaticano II. Nella presente pubblicazione sono stati raccolti documenti e testimonianze che col passare del tempo si sarebbero perduti. Mi è stato possibile attingere al settimanale Scelta grazie a Luigi Ruoppolo che ne possiede una raccolta. La ricerca presenta dei limiti. Uno certamente è dovuto alla vicinanza dei fatti avvenuti e alla difficoltà di attingere a tutte le fonti archivistiche. Tuttavia nella ricerca faccio ampi riferimenti alle fonti ufficiali pubblicate, e che sono il Bollettino Ecclesiastico della Diocesi di Agrigento, il settimanale diocesano L’Amico del Popolo e il settimanale Scelta. Altre citazioni riguardano il mensile La via edito da don Gerlando Lentini, che in diverse occasioni intervenne con qualificati articoli, i quotidiani La Sicilia, Il Giornale di Sicilia, L’ora e L’Unità, questi ultimi diedero ampio risalto alle vicende qui trattate, soprattutto quando il vescovo Petralia assunse una posizione rigida nei confronti dei preti del dissenso. Ho avuto modo di attingere a carte minute, volantini e numeri unici, come Dai margini, conservati da Luigi Sferrazza. Le fonti sono state interamente consultate dal 1963 al 1978. Per comprendere bene il periodo storico ho ascoltato sacerdoti e laici che vissero direttamente quel delicato dibattito ecclesiale. Nei confronti delle valutazioni espresse, ho sempre assunto un atteggiamento equilibrato e distaccato, confrontando tutto quanto mi è stato detto con i do13


cumenti ufficiali pubblicati. Dunque, non è mia intenzione parteggiare per una posizione o per un’altra. Come dicevo, il mio intento è comprendere le teologie che stavano alla base dello scontro, salvaguardare le pubblicazioni anche minute, rilevare la fonte del cammino che segnerà la Chiesa agrigentina quantomeno negli anni ottanta. Il clero diocesano non si divise in modo netto tra difensori della linea Pastorale, ecclesiale e politica di Petralia e oppositori, perché c’era un numero di sacerdoti – oggi non facilmente quantificabile – che non si ritrovava né sulle posizioni di Petralia né su quelle del dissenso. Non mi è dato di sapere quale posizione assunse questo clero non schierato. A quanto sembra non subì passivamente o da semplice spettatore il confronto ma cercò, fin dove fu possibile, una via d’uscita, un’intesa, soprattutto quando era ancora possibile salvare la comunione ecclesiale. Considerato che diversi avvenimenti e circostanze sono state trattate da diversi punti di vista non è stato possibile evitare le ripetizioni. La presente pubblicazione si divide in due parti: la prima comprende il periodo dal 1964 al 1971, durante il quale maturarono i nuovi fermenti all’interno della comunità agrigentina senza però che si rompesse la comunione ecclesiale; la seconda parte interessa gli anni dal 1972 al 1977, periodo carico di tensioni e di incomprensioni che portò alla rottura della comunione ecclesiale e segnò la fase più dolorosa della storia della Chiesa agrigentina di questo secolo. Del tentato dialogo tra cultura cristiana e cultura marxista, Agrigento diventò uno dei più significativi laboratori politici dell’Italia degli anni di piombo, della crisi petrolifera, della crisi del centrosinistra e di una Chiesa che cercava una nuova collocazione in una società che andava cambiando. Leggendo la presente ricerca, è possibile conoscere uno dei periodi più intensi e travagliati del Novecento.

14


Un breve sguardo storico alla situazione italiana

A metà degli anni ’50 l’Italia ebbe uno sviluppo mai prima conosciuto che incise notevolmente sui costumi, sui rapporti sociali ed economici. Il cambiamento avvenne principalmente con l’assorbimento della mano d’opera da parte delle piccole imprese che si erano talmente moltiplicate, nel giro di pochi anni, fino a raggiungere il numero considerevole di 2.216.000. Anche se la piccola impresa fu il motore trainante dello sviluppo economico del Paese, tuttavia era la grande industria che ne traeva il merito, dovuto ad un doppio motivo: la piccola e la media impresa, spesso, lavoravano per conto della grande industria; dalla piccola impresa, con una cinquantina di dipendenti, era più difficile fare emergere l’uomo-simbolo del nuovo indirizzo economico del Paese. Le piccole imprese, che assorbivano un numero considerevole di lavoratori, erano dislocate nel Centro e nel Nord Italia, e prevalentemente nel triangolo industriale che comprende Torino, Venezia e Bologna; al Sud soltanto una piccola percentuale riuscì a organizzare simili esperienze. Tra il 1956 e il 1963 circa 600 mila siciliani lasciarono l’Isola in cerca di fortuna, creando problemi sociali rilevanti. Lo spopolamento delle campagne e lo sviluppo del settore terziario in Sicilia permisero, per la prima volta, che il prodotto lordo dell’industria superasse il prodotto lordo dell’agricoltura; un fatto non irrilevante perché era segno che la Sicilia stava, pur lentamente, cambiando; anche la linea politica del programma di Governo regionale, per la prima volta nella storia, non dava priorità alle problematiche agricole ma a quelle industriali. Lo sviluppo economico e il benessere economico diffuso in Italia incisero anche sui costumi, sulle relazioni sociali e sulla mentalità. Si diffuse, infatti, una mentalità di consumo, che corrisponde ad una logica di mercato: più si produce, più si consuma e più si guadagna per 15


poi produrre di più, per consumare di più e per guadagnare di più. Gli anni ’60 vedono anche la nascita del turismo di massa. Il desiderio dell’emigrato di trascorrere un breve periodo di vacanze nel paese d’origine importava usi e costumi delle grandi città del nord o dell’estero. E nuovi modelli di comportamenti venivano anche dai mezzi di comunicazione di massa come il cinema e la televisione. Cambiava anche il modello di famiglia con l’introduzione del divorzio nel 1970 confermato dal referendum del 1974. La vittoria del fronte divorzista, capeggiato dalla Lega Italiana Divorzio, indusse i vincitori della tornata referendaria a proporre la depenalizzazione e l’assistenza pubblica alle donne che abortiscono e a discutere su un altro grave problema sociale mai prima conosciuto: l’aborto appunto. Se in Italia, e in Sicilia, per la prima volta si parlava di questi problemi sociali era segno che il modo di pensare della società era ormai cambiato e che sollecitava la Chiesa a prenderne coscienza per adeguare l’evangelizzazione ai nuovi fermenti. In questo decennio, in Italia si registrò un fatto mai prima conosciuto dalla società agricola: il calo demografico e l’invecchiamento iniziale, ma progressivo, della popolazione. Per la prima volta iniziavano a scomparire le famiglie numerose per far posto a quelle nucleari con due figli. La famiglia numerosa, infatti, in quel lungo decennio, veniva considerata come un fatto sociale e culturale legata alla mentalità agricola e patriarcale. Lo sviluppo economico disorganico fece aumentare il divario tra il Nord e il Sud dell’Italia. Anche se il Sud e la Sicilia, non erano più quelli di una decina di anni prima, la forbice economica tra le due aree si allargava sempre più. Questo fenomeno suscitò dei gravi disagi che furono coagulati nella dialettica politica tramite i partiti e i sindacati, ma ci fu un settore della società, pur limitato, che scelse la strada del terrorismo. Sul finire degli anni ’60 tale fenomeno interessò l’area più industrializzata e più ricca del Settentrione. I terroristi di destra e di sinistra non erano giovani sprovveduti, ma studenti e docenti universitari che nella lotta armata avevano trovato la via per risolvere le contraddizioni presenti nell’Italia del miracolo economico o la possibilità di un’involuzione autoritaria. 16


Le Brigate rosse e altre organizzazioni terroristiche erano assenti nel Sud e in Sicilia. Si disse, in quel periodo, che le forze criminali operanti al Sud, come la mafia e la camorra, non permisero tale penetrazione. Dal punto di vista politico, sino alle elezioni del 1971, la Democrazia Cristiana era riuscita a guidare lo sviluppo economico dell’Italia, e la formula del centrosinistra aveva acquistato fiducia e simpatia presso gli elettori, ma la presenza dell’inflazione, dovuta all’aumento del petrolio, i rischi di licenziamento nelle grandi fabbriche del Nord, la concorrenza internazionale, la mancanza di una capacità di governo, il correntismo tra i vari settori dei partiti della maggioranza, il problema dell’ordine pubblico causarono una flessione elettorale della DC nelle elezioni politiche del 1972, a favore del Movimento Sociale Italiano. Era segno eloquente di una stanchezza da parte dei cittadini che cercavano altre formule politiche e sicurezza sociale. La protesta e il malessere sociale furono cavalcati dal Partito Comunista Italiano, che proprio a partire dal 1972 tenderà a raccogliere tutto il malessere sociale diffuso nel Paese, e raggiungerà l’apice con le elezioni amministrative del 1975, incamerando buona parte di consensi dell’elettorato moderato, che vedeva in esso la forza di cambiamento. La situazione italiana, ovviamente, si ripercosse anche in Sicilia, sia nei suoi aspetti positivi che negativi. Ma l’instabilità politica causò nell’Isola il più grave danno sociale, poiché non permise la realizzazione di tante indicazioni che venivano da oltre lo Stretto. Dal 1961 al 1971 in Sicilia ci furono 17 crisi di governo regionale e per 17 volte con tattiche i parlamentari regionali dovettero formare i nuovi governi stravolgendo programmi e promesse elettorali, allungando i tempi dell’approvazione delle leggi urgenti, soffocando la vita sociale, rafforzando la burocrazia e la corruzione. Il disagio siciliano trovò eco in alcuni uomini di cultura. Sono di quegli anni: Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia; Mafia e Politica di Michele Pantaleone; Rapporto sulla mafia di Mario Farinella; Carcere e mafia nei canti popolari siciliani di Antonino Uccello; Il caso Battaglia di Mario Ovazza; Spreco di Danilo Dolci; Lamento per il Sud di Salvatore Quasimodo; Stelle ed erbe di Sicilia di Antonino Cremona. Il benessere economico che coinvolse le popolazioni indusse ad in17


vestire i risparmi nell’edilizia: chiunque desiderava abitare in una casa confortevole. La costruzione di nuovi alloggi, purtroppo, non avvenne nel rispetto dell’ambiente. Così in un ventennio furono realizzati nuovi insediamenti urbani che deturparono l’ambiente. Agrigento fu vittima di questo ‘cemento selvaggio’ fino a subire la dolorosa frana del 1966 che fece temere il peggio per l’intero assetto della città. Appena due anni dopo, la provincia di Agrigento, fu colpita dal grave sisma del 1968 che distrusse interi paesi e danneggiò seriamente altri. Per alcuni decenni la Sicilia ha dovuto confrontarsi con la triste realtà del dopo terremoto, che ha evidenziato, oltre la lentezza burocratica dello Stato, l’inadempienza della classe politica. In ambito ecclesiale, l’evento che suscitò particolare entusiasmo fu l’esperienza del Concilio Vaticano II. Esso fu avvertito come una nuova pentecoste destinata a rinnovare la Chiesa, fin dal momento in cui Giovanni XXIII ne diede notizia al mondo intero. Il Concilio fu vissuto con interesse perché, alimentando speranze, prefigurava una nuova primavera della Chiesa.

18


Il ‘vento’ del Concilio ad Agrigento

Quando l’arcivescovo Giovanni Battista Peruzzo morì improvvisamente all’età di 85 anni la sera del 20 luglio 1963 lasciò una diocesi tutto sommato bene strutturata e con un desiderio di vivere il Concilio, del quale lo stesso Peruzzo in diverse circostanze aveva sottolineato l’importanza storica. Con Peruzzo la diocesi agrigentina aveva vissuto, nel trentennio di episcopato (1932-1963), malgrado le difficoltà dovute anche al secondo conflitto mondiale e allo sbandamento morale e politico del dopoguerra, uno dei periodi più fecondi della sua storia, ed aveva dimenticato così l’ultimo decennio del precedente vescovo Lagumina, che, pur dotto, non aveva compreso le nuove esigenze del clero e del popolo soprattutto dopo la guerra del 1915-18. Agli inizi degli anni ’60 il clero diocesano, abbastanza numeroso, lavorava soddisfatto nel campo dell’apostolato, dovuto anche all’erezione di nuove parrocchie, che in un trentennio avevano raggiunto il numero di 137. La cura Pastorale nei confronti dei contadini, costretti a causa del lavoro nei campi a rimanere in campagna, indusse Peruzzo a chiedere la costruzione di nuove parrocchie anche nelle zone agricole, dove la domenica un sacerdote si recava per la celebrazione della messa, il catechismo ai ragazzi e gli incontri per i soci di Azione Cattolica. Nell’ultimo periodo di vita di Peruzzo, tale associazione aveva raggiunto il massimo dei tesserati, l’organizzazione associativa risultava ben salda e non registrava segno di cedimento. Ovviamente, la consacrazione di cinque vescovi agrigentini, durante il suo episcopato, era il risultato di questo grande impegno di Peruzzo nella formazione del clero. Inoltre, la celebrazione dei congressi eucaristici e mariani degli anni precedenti aveva visto una partecipazione di fedeli mai prima cono19


sciuta, segno che le direttive di Peruzzo erano state seguite in larghissima misura dai sacerdoti. Questi ultimi si erano formati alla scuola di mons. Iacolino, che era stato prima padre spirituale e poi rettore del seminario. Egli aveva formato una schiera di sacerdoti alla povertà evangelica, alla rinuncia dei beni e, soprattutto, all’ubbidienza nei confronti dei superiori in cui vedevano la presenza del Signore. Sul versante politico Peruzzo aveva lasciato un clero compatto a sostegno della Democrazia Cristiana, baluardo contro il comunismo e per la difesa della libertà, anche se non erano mancate posizioni critiche sul modo con il quale aveva amministrato i Comuni della provincia. Alla morte di Peruzzo il seminario vescovile era gremito di seminaristi tra cui un bel gruppo di studenti di teologia che si preparava alla vita sacerdotale, segno che non si era ancora avvertita la crisi vocazionale. Dunque, in sintesi Peruzzo aveva lasciato una diocesi in piena fioritura al suo successore. Certamente nel suo ministero Pastorale non sono mancati dei limiti. Uno di essi è aver limitato ad una schiera di sacerdoti di specializzarsi nelle varie discipline teologiche che, certamente, avrebbe seriamente contribuito ad elevare il livello culturale del clero diocesano soprattutto in prossimità della celebrazione del Concilio Vaticano II. Considerato che il Concilio visse, negli anni cinquanta, la fase preparatoria, la presenza di un numero di sacerdoti nelle Facoltà teologiche romane sarebbe tornata a vantaggio della stessa Chiesa agrigentina, che non avrebbe vissuto la stagione del pre-Concilio nel silenzio e lo stesso Concilio come evento inaspettato. Consultando le fonti ufficiali pubblicate prima del Concilio non traspare un dibattito preconciliare vivace in Agrigento. Altro limite, legato al precedente, è che in Peruzzo, malgrado le 61 lettere pastorali, pur di grande valore per molti aspetti, non emerge una teologia della Chiesa locale. La teologia proposta da Peruzzo non si discosta da quella ufficiale e ripetitiva. Sul piano del governo Pastorale, conformemente alla visione ecclesiologica, le scelte decisionali erano troppo verticistiche e poco comunionali, come molti sacerdoti da me consultati hanno evidenziato. 20


A tre mesi di distanza dalla sua morte, mons. Giuseppe Petralia fu eletto vescovo di Agrigento il 14 ottobre 1963, e consacrato il 3 novembre dello stesso anno dal card. Ernesto Ruffini nella cattedrale di Palermo. Fece ingresso nella diocesi agrigentina il 7 Dicembre successivo, al canto dei primi vespri in onore dell’Immacolata. Dopo due mesi scrisse la prima Lettera Pastorale Unità nella carità in cui, tra i vari argomenti trattati, espresse le linee portanti della spiritualità sacerdotale e il modello di prete in un periodo carico di attese per le prime innovazioni introdotte dal Concilio Vaticano II in corso. Vogliamo soffermare la nostra attenzione sul modello di prete che Petralia presentava alla diocesi, fin dal suo ingresso, poiché il prete rimaneva determinante per il tipo di apostolato parrocchiale del periodo conciliare e post-conciliare: «si studino – scriveva il vescovo – di dare esempio di perfetto distacco dai beni di questo mondo, di spirito di povertà, di amore e di interessamento per i poveri, di predilezione per i più bisognosi, di affettuosa premura per gli ammalati, per gli orfani, per chiunque è afflitto dai bisogni materiali, dalle sventure della vita, dalle contraddizioni esterne e dalle pene dello spirito»2.

Da un’analisi integrale della Lettera emerge la figura del prete diocesano povero e dedito ai bisogni del popolo, un prete che si fa povero con i poveri, attento ai bisogni della gente, soprattutto di quello strato

2) G. PETRALIA, Unità nella carità, in B.E.A. 64 (1964), 20. Il vescovo Giuseppe Petralia nacque a Bisacquino, provincia di Palermo, arcidiocesi di Monreale, il 1° gennaio 1906. Perfezionò gli studi al seminario romano del Laterano dove conseguì il dottorato in Sacra Teologia. Fu ordinato sacerdote a Roma il 7 Aprile 1928 dal card. Pompili. Svolse il ministero sacerdotale per 17 anni nella sua diocesi d’origine, Monreale, e altri 17 anni a Palermo. Collaborò con Tradizione, Parva Lucerna, Frontespizio e Fides. Si mostrò valido direttore di Voce Cattolica. Fu docente nei seminari di Monreale e di Palermo, nella scuola di Servizio Sociale e nella Facoltà di Giornalismo di Palermo. Eletto vescovo il 14 ottobre 1963 venne consacrato nella Cattedrale di Palermo il 3 novembre 1963 dal card. Ernesto Ruffini, prese solennemente possesso della diocesi agrigentina il 7 dicembre 1963 dove rimarrà fino al 1980. Da vescovo emerito di Agrigento seguirà la vita ecclesiale nel suo insieme fino alla morte, avvenuta in Palermo nel luglio 2000. Le sue spoglie riposano nella cattedrale di san Gerlando di Agrigento.

21


sociale che viveva in condizioni non conformi alla dignità della persona umana. Pur non entrando nel merito di come questa presenza tra gli strati disagiati doveva svolgersi, il presule, seguendo la tradizione del modello del prete, povero e casto, indicava l’ambito in cui i sacerdoti dovevano esprimere maggiore attenzione per rendere fruttuoso il proprio ministero. Petralia succedendo a Peruzzo nella sede di san Gerlando, in pieno svolgimento del Concilio Vaticano II, in qualità di vescovo titolare parteciperà a tutte le sessioni conciliari, mostrandosi sensibile ed attento nell’applicazione dei documenti del Concilio e delle direttive di Paolo VI, e commentando benevolmente di volta in volta gli stessi documenti, tramite le lettere inviate alla diocesi, affinché chiunque potesse comprenderne il contenuto teologico e il valore per la vita della Chiesa. Lo stesso rinnovamento che attraversava la Chiesa universale, egli desiderava che arrivasse in Agrigento, tanto che dopo il motu proprio Sacram liturgiam di Paolo VI, sul rinnovamento della liturgia, chiese ai sacerdoti: «una partecipazione viva e attiva, intelligente e cosciente, al Sacrificio Eucaristico, ai Sacramenti, alla preghiera pubblica del Corpo Mistico»3.

Come applicare nel contesto agrigentino il rinnovamento conciliare? Non era facile far giungere il nuovo lievito soprattutto dove usi, costumi e mentalità avevano preso un certo sopravvento ed erano ben consolidate. Sicché Petralia istituì, tra l’altro, una Commissione diocesana per la liturgia, l’arte sacra e la musica secondo le disposizioni emerse al Concilio. Man mano che il Concilio approvava i nuovi documenti aumentava sempre più l’attenzione della Chiesa locale sui temi proposti dai Padri conciliari. A conclusione del Concilio, a partire dal 1966, ormai un certo fer-

3) ID., Lettera al clero sulla sacra liturgia, in B.E.A, 64 (1964), 54.

22


mento era diffuso ovunque, anche nella Chiesa agrigentina, soprattutto sui temi dell’ecumenismo, della liturgia e del laicato, temi che aprirono la cosiddetta stagione convegnistica. Validi ed attenti sacerdoti furono chiamati a trattare gli argomenti più complessi e interessanti in tutte le parti della diocesi, riscuotendo attenzione nel laicato ma anche in coloro che guardavano i fatti di Chiesa con un certo distacco. Anche la stampa, come il settimanale diocesano L’Amico del Popolo, si mostrò utile strumento per far giungere ovunque il nuovo cammino della Chiesa locale. Di questi incontri ne ricordiamo alcuni. Presso il palazzo vescovile si svolse il convegno regionale dei laureati cattolici sul tema Il laicato nel rinnovamento della Chiesa4. Anche don Stefano Pirrera pubblicò una serie di articoli sul settimanale diocesano L’Amico del Popolo sulla promozione del laicato alla luce dei documenti conciliari5. A Favara, con un’ampia partecipazione di sacerdoti, si svolse un convegno sulla Pastorale liturgica che si mostrò proficuo soprattutto per gli interventi qualificati e attenti. Dal 1965 si avviò la fase convegnistica del dopo Concilio poiché in qualsiasi settore della vita ecclesiale e sociale si voleva conoscere i nuovi indirizzi conciliari. Conoscere e approfondire furono le mète ambiziose che si propose Petralia il quale nell’assemblea plenaria del clero, svoltasi sullo spirito del rinnovamento, annunciava un corso rivolto ai sacerdoti, tenuto dallo stesso vescovo, per la conoscenza dei documenti6. Ebbe luogo anche un incontro di preghiera ecumenica: nella Chiesa di S. Rosalia di Agrigento, nel mese di gennaio 1966, si svolse per la prima volta l’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani. Nel corso di tale iniziativa furono sviluppati i temi sull’ecumenismo trattati dagli ultimi pontefici. Purtroppo non siamo in grado di sapere se partecipa-

4) Cfr. Il laicato nel rinnovamento della Chiesa, in A.d.P., 23-5-1965, 2. La vigilia della chiusura del Concilio, 7 dicembre 1965, Petralia scrisse la penultima lettera da Roma. Tale lettera riportava il significativo titolo L’ora dei laici in cui esaltava il ruolo del laicato evidenziato dal Concilio: cfr. I grandi temi del Concilio, Agrigento, 78, ( non c’è la data di pubblicazione ma avvenne nel 50° anniversario della ordinazione sacerdotale di Petralia). 5) Cfr. S. PIRRERA, Il laicato, in A.d.P., 6-2-1966, 1. 6) Cfr. Assemblea plenaria del clero, in A.d.P., 23-1-1966, 1.

23


rono rappresentanti di altre confessioni cristiane, quali temi specifici furono trattati e quali posizioni furono assunte7. Altre conferenze si svolsero in diocesi sulla natura della Chiesa e sul rapporto Chiesa-Mondo. Ad Aragona la dott.ssa Attardo, nella Chiesa di san Francesco, tenne incontri sulle note della Chiesa: una, santa, cattolica e apostolica e sul Corpo Mistico della Chiesa alla luce del Concilio Vaticano II8. A Sciacca mons. Angelo Ginex svolse diverse conferenze sul tema del laicato ai laureati cattolici, in cui metteva in risalto l’inserimento del laico nella Chiesa in forza dei suoi doni sacerdotali, profetici e regali. Prevalentemente in quel periodo fu l’Azione Cattolica che pose attenzione al ruolo del laicato e al rapporto Chiesa-Mondo alla luce del Concilio. E a conclusione di un convegno indicava alla diocesi il ruolo responsabile dei laici per la realizzazione dei consigli pastorali parrocchiali, in un periodo in cui lo stesso consiglio Pastorale diocesano, pur tra incertezze, doveva ancora avviarsi9. Nel giugno del 1966 Petralia, in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo, comunicò alla diocesi le iniziative pastorali per l’anno in corso, in linea con il rinnovamento conciliare che mirava ad una Chiesa in cui la comunione ecclesiale fosse tangibile. Per raggiungere questo scopo annunciò l’istituzione dell’ufficio liturgico, dell’ufficio Pastorale e del sinodo dei parroci sulla cui natura Petralia preferì essere esplicito negli interventi successivi. Erano i primi passi per l’istituzione dei consigli presbiterali e pastorali, che furono istituiti il 3 Novembre 1966 ad experimentum. La creazione del consiglio presbiterale in attuazione del decreto conciliare Christus Dominus, sostituiva il collegio dei canonici della cattedrale. Era formato da 20 sacerdoti: 7 nominati dal vescovo e 13 eletti dai sacerdoti, con lo scopo di offrire una diretta collaborazione al vescovo nel governo della diocesi. Invece il consiglio Pastorale era for-

7) Cfr. Dialogo ecumenico, in A.d.P., 16-1-1966, 1. 8) Cfr. T. VELLA, La Chiesa nel mondo, in A.d.P., 17-4-1966, 2. 9) Cfr. La Chiesa nel mondo, in A.d.P., 9-10-1966, 2.

24


mato da tutti i titolari degli uffici diocesani, e non sempre fu facile capirne e recepirne la natura e la funzione che si prefiggeva quantomeno fino al 1970 come vedremo successivamente10. L’istituzione dei due nuovi organismi diocesani fu considerata dal direttore del settimanale diocesano, Di Giovanna, un evento di Chiesa e il 3 novembre una data storica, anche se avvertiva la preoccupazione di uno svilimento qualora non fosse avvenuto un cambiamento di mentalità e di lavoro11. L’intenzione di Petralia era quella di superare l’isolamento in cui si trovava il sacerdote (creando momenti di vita comunitaria) e la sperequazione economica tra il clero, in modo che l’esercizio sacerdotale potesse avvenire con serenità12. La missionarietà fu un altro aspetto della vita ecclesiale di quel periodo particolarmente avvertito in diocesi, dopo il documento conciliare Ad gentes. Il can. Giuseppe Burgio si fece promotore dell’istituzione della Commissione missionaria parrocchiale che doveva essere il lievito per fermentare la comunità parrocchiale divisa in zone, affidate a zelatrici, in modo che i parrocchiani e i lontani ricevessero l’annuncio cristiano e vivessero la vita ecclesiale. In questo modo, la comunità ecclesiale agrigentina prendeva consapevolezza che la missionarietà non era più un argomento solo per gli infedeli lontani ma che le popolazioni agrigentine, a causa dei nuovi cambiamenti culturali e sociali, avevano bisogno di un nuovo annuncio del messaggio evangelico13. Accanto al problema urgente della missionarietà parrocchiale la comunità ecclesiale ne avvertiva un altro ad esso connesso: la formazione dei laici impegnati nell’opera missionaria e di apostolato. Pertanto, sotto il patrocinio dell’Azione Cattolica, si avviò il primo corso di teologia

10) 11) 12) 13)

Cfr. Al. Di., Costituzione dei consigli presbiterali e pastorali, in A.d.P., 30-10-1966, 1. Cfr. L.c. Cfr. Unità, santificazione, lavoro, in A.d.P., 30-10-1966, 1. Cfr. G. BURGIO, Parrocchie missionarie, in A.d.P., 5-2-1967, 2.

25


sull’apostolato dei laici, diretto da mons. Giuseppe Di Marco, e che si tenne a Favara prendendo i riferimenti dal decreto conciliare Apostolicam Actuositatem14. Avvenimento di rilievo nell’anno 1967 fu ‘l’anno della fede’ indetto da Paolo VI, e che fu recepito anche dalla Chiesa agrigentina con lo scopo di professare, rinvigorire e irradiare la fede cristiana in qualsiasi ambito della vita. Per raggiungere questo scopo Petralia indicò ai parroci i seguenti momenti di vita ecclesiale: 1) solenne concelebrazione nella festa di Cristo Re; 2) Congresso eucaristico-mariano a conclusione della missione catechetica da svolgere in ogni parrocchia nell’arco di una settimana sul tema: Cristo vivente nella Chiesa; 3) pellegrinaggio diocesano a Roma. Petralia, con tale programma, introduceva un metodo Pastorale nuovo poiché al congresso e al pellegrinaggio univa l’annuncio evangelico in modo che entrasse direttamente nelle case, nei posti di lavoro, nei circoli culturali e ricreativi tramite la missione della durata di una settimana15. Proprio la catechesi aggiornata, attenta alle trasformazioni culturali in atto, fu uno dei pilastri del magistero di Petralia, infatti, nel discorso programmatico, in occasione del quinto anniversario della sua consacrazione episcopale, la poneva al primo posto. Per la prima volta Petralia sottolineava il ruolo della famiglia nel dovere di educare i figli alla fede cristiana: «mancano talora catechisti e catechisti specializzati. Manca un impegno serio da parte delle famiglie cristiane. Manca unità organica tra il centro e la periferia per una catechesi sugli stessi grandi temi e con metodi efficaci»16.

14) Cfr. D. SERINA, Corso di studio sull’apostolato dei laici, in A.d.P., 2-4-1967, 2. 15) Cfr. L’Anno della fede in diocesi, in A.d.P., 6-8-1967, 1. Sulla fede del popolo cristiano nel 1969 faranno una verifica i vescovi siciliani che costateranno che malgrado i cambiamenti sociali e i costumi in Italia, i siciliani non avevano subito turbamenti sulla fede. Tuttavia essi evidenzieranno una fede ancora espressa in ritualismi vuoti che non incideva sulla vita, cfr. I Vescovi di Sicilia, Il credo del popolo di Dio, in B.E.A., 67 (1969), 25. 16) G. PETRALIA, Discorso programmatico, in B.E.A., 66, (1968).

26


A partire dal 1968 la Chiesa si fece più attenta nei confronti della famiglia minacciata dal tentativo di introdurre il divorzio in Italia. Petralia in diverse circostanze difese la famiglia17 in un periodo carico di incertezze e tensioni, soprattutto a partire dal 1970. Chiedeva ai parroci un triduo di preparazione, con spunti di riflessione per la giornata della famiglia indetta il 2 febbraio. I punti di riflessione dovevano essere presi dal documento Pastorale dell’episcopato italiano Matrimonio e Famiglia oggi in Italia. Il vescovo, vedendo all’orizzonte nuove minacce dirette verso l’istituzione familiare, avviò una missione ecclesiale a favore della famiglia per «promuovere una illuminata Pastorale del matrimonio e della famiglia che aiuti, da un lato, a promuovere il rischio di unioni instabili e infelici e, dall’altro, a formare genitori e figli alle semplici e grandi virtù che fanno dell’ecclesia domestica un vivaio di cittadini probi e cristiani valenti»18.

È interessante rilevare come Petralia univa la sacramentalità del matrimonio e la famiglia, poiché è proprio su di esso che sgorga e si costruisce la famiglia cristiana, contro una mentalità che si andava affermando, proprio sul finire degli anni ’60, che mirava a dividere la realtà matrimoniale e la famiglia per facilitare l’introduzione del divorzio tra i contraenti, marito e moglie, senza tenere presente tutte le conseguenze sull’intero nucleo familiare. La missione catechetica a favore del matrimonio e della famiglia, suggerita da Petralia ai parroci, non era apologetica ma propositiva poiché aveva come scopo la formazione cristiana del laicato in modo da costruire, con l’unione matrimoniale, la “Chiesa domestica”, terminologia molto cara ai padri della Chiesa e al Concilio. Altra novità tipicamente conciliare condotta dal vescovo Petra-

17) Cfr. L.c 18) G. PETRALIA, La famiglia, in A.d.P., 18-1-1970, 1, e cfr. ID., Giornata della famiglia, in B.E.A., gennaio - febbraio 1970, 20.

27


lia fu la divisione della diocesi in zone pastorali, create con l’intento di superare il distacco tra sacerdoti e vescovo, e sacerdoti tra loro, in modo da poter raggiungere la santificazione della propria vita, superando l’isolamento cui spesso si andava incontro. La divisione della diocesi in zone, in attuazione del documento conciliare Presbiterorum ordinis, fu un’altra gemma preziosa del rinnovamento conciliare in diocesi, rinnovamento ampiamente sostenuto da Petralia, che scriveva: «affinché i sacerdoti diocesani possano incontrarsi e rinnovarsi e crescere nei propositi di fedeltà e di apostolato, perché possano dalla comunione fraterna attingere coraggio, luce, entusiasmo, gioia…»19.

Abbiamo detto che la ricezione del Concilio non fu un fatto semplice ed automatico, malgrado il proficuo impegno del vescovo Petralia, ma passò, purtroppo, anche attraverso una fase piena di incertezze, perché, come ovunque, conservatori e progressisti cercavano di applicare i documenti conciliari secondo il proprio punto di vista. Le tensioni e le incomprensioni non ebbero soltanto come fonte l’interpretazione del Concilio, ma anche furono conseguenze di una tensione sociale e culturale che, a partire dagli anni sessanta, stava investendo tutta la società in una rapida trasformazione, tanto da coinvolgere anche la stessa comunità ecclesiale. Queste tensioni si acuirono al punto tale che sul finire del 1969 in diocesi il vescovo Petralia avvertì il dovere di pubblicare sul settimanale diocesano un articolo di fondo: Comunione e istituzione in cui precisava la natura della Chiesa e il ministero del vescovo: «Una comunità che presumesse celebrare il ministero Eucaristico o la semplice liturgia della Parola o dispensare la grazia dei sacramenti fuori, o peggio, contro il vescovo sarebbe un assurdo:

19) L.c

28


un corpo senza capo, un albero senza radici, un ruscello tagliato dalla sorgente. Né – bisogna precisare data la confusione delle lingue - siano equivalenti il rapporto del vescovo con la comunità e il rapporto della comunità verso il vescovo (…). Il vescovo crea la comunità con l’annuncio della Parola e la partecipazione alla grazia; nessuna comunità può creare il vescovo, anche se la designazione della persona avvenisse tramite la comunità (clero e popolo). La grazia e la potestà vengono sempre da Cristo attraverso l’ininterrotta successione apostolica»20.

Dopo aver sottolineato il rapporto vescovo-comunità, Petralia, attento ai cambiamenti culturali e sociali, indicava tutto quanto era oggetto di riforma nella Chiesa: «Quali sono dunque le strutture da cui la Chiesa tende a liberarsi sotto l’azione dello Spirito rinnovatore? Sono certe strutture ‘storiche’; nate da pesanti condizionamenti sociali. Modi di vivere il cristianesimo legati a modelli propri del feudalesimo, del rinascimento o anche della controriforma; un prevalere della apologetica sul dialogo, della precettistica o della casistica sulla legge dell’amore, del rubricismo sullo spirito della liturgia, un’assunzione sussidiaria di responsabilità temporale per la carenza degli ordinamenti civili, un ruolo dei laici inadeguato alla loro partecipazione al Sacerdozio di Cristo. Queste ed altre cose legate al tempo, quindi caduche, sono da rinnovare gradualmente ma fermamente nello spirito del Concilio e della vasta azione riformatrice dell’attuale Pontefice, sensibilissimo alla voce dello Spirito e ad ogni legittima istanza del nostro tempo, ma tenace custode del patrimonio autentico della Chiesa»21.

20) G. PETRALIA, Comunione e istituzione, in A.d.P., 13-10-1969, 1. 21) Ibid.,2 Secondo Petralia il compito del Concilio era arduo poiché doveva recuperare la dimensione carismatica che era stata messa in ombra a causa di un’accentuazione giuridica dovuta alla reazione alla riforma protestante: ID., I grandi temi, cit., 13.

29


Con Petralia, nello spirito conciliare, si inaugurò uno stile nuovo nel governo della diocesi: rendere conto di volta in volta del proprio operato al clero diocesano riunito in assemblea. Questa novità fu accolta con viva soddisfazione da un attento commentatore dei fatti di Chiesa come il direttore del settimanale, L’Amico del Popolo, Di Giovanna, che dalle colonne del scriveva: «Ma che un vescovo si incontri col suo clero per metterlo democraticamente al corrente del suo operato, anche se limitatamente ad un anno di attività, è un episodio che avvia, sul piano della concretezza e dell’attualizzazione il dialogo ‘sulla diocesi conciliare’ dove elementi di costituzionalità sono il vescovo e il popolo di Dio, di cui i sacerdoti sono immediati rappresentanti per diritto di vocazione e per titolo di scelta»22.

Su quali argomenti Petralia rendeva conto del proprio operato al clero riunito nell’assemblea del giugno 1969? Santificazione del clero, rinnovamento della catechesi e perequazione economica dei sacerdoti. Per la santificazione del clero, Petralia, per togliere il sacerdote dalla tentazione dell’isolamento, aveva diviso, come abbiamo visto, la diocesi in zone nelle quali i sacerdoti mensilmente partecipavano al ritiro spirituale predicato da un padre gesuita. Ai suoi sacerdoti Petralia chiedeva, inoltre, consigli per l’istituzione di un Fondo diocesano di solidarietà sacerdotale, e ricordava il buon esisto del corso di teologia per i laici affidato all’Azione Cattolica23. Dopo quattro anni dall’istituzione ad experimentum del consiglio Pastorale, avvenuto nel 1966, la diocesi eleggeva il primo consiglio Pa-

22) A. DI GIOVANNA, Chiesa locale, la sposa bella, in A.d.P., 29-6-1969, 1. 23) Cfr. G. PETRALIA, Bilanci e prospettive nella parola del vescovo, in A.d.P., 29-6-1969, 4. Il corso di teologia per il laicato nacque dall’accoglienza da parte del vescovo del documento della Conferenza Episcopale Italiana del 16-1-1968 Magistero e Teologia con il quale invitava la Chiesa locale ad una formazione del laicato con un metodo nuovo: dall’apologismo ed esposizione degli errori diffusi all’esposizione della verità interdisciplinare, dalla Bibbia alla dogmatica, dalla dogmatica alla morale, dalla morale alla vita liturgica, ascetica e apologetica, cfr. Corso di Teologia, in A.d.P., 5-1-1969, 2.

30


storale diocesano, in conformità al decreto Christus Dominus, con il compito di essere segno di comunione ecclesiale e organo di consultazione per elaborare, coordinare e attuare la Pastorale diocesana24. A differenza del consiglio Pastorale precedente, composto soltanto da una ventina di membri, il nuovo consiglio era costituito da sessanta membri così suddivisi: 29 sacerdoti, 5 suore e 26 laici che per la prima volta entravano a pieno titolo in un organo così importante per la vita della Chiesa locale. Il settimanale diocesano pur accogliendo con soddisfazione la formazione del nuovo consiglio non mancò, tramite il suo direttore, di fare rilievi ed esprimere preoccupazioni: «il numero dei componenti fa temere che le iniziative possano diluirsi nel commentarismo, nel bizantinismo interminabile, in un parlamentarismo senza facili vie d’uscita»25.

Troppo in verità era durato il periodo, ad experimentum, del precedente consiglio, se teniamo presente che proprio dal 1966 al 1970 iniziarono ad affiorare i problemi più delicati causati anche da una profonda trasformazione culturale. Il periodo prolungato del consiglio Pastorale, ad experimentum, con molta probabilità fece venire meno l’impegno in parecchi sacerdoti e laici, che vedevano nel consiglio democraticamente eletto la partecipazione diretta alla vita della Chiesa. Nel nuovo consiglio non mancarono difficoltà. Coordinato da mons. Giuseppe Di Marco, si riunì nei primi di giugno, ed emersero le prime incomprensioni sulla natura stessa del consiglio: mentre per Di Marco il consiglio Pastorale non aveva finalità organizzative e operative, ma era luogo di comunione della Chiesa, per il can. Burgio esso doveva favorire un’azione Pastorale unitaria oltre che una presa di coscienza del senso della comunione ecclesiale. Dal dibattito prevaleva la linea comunionale, proposta dal coordinatore Di Marco.

24) Cfr. Il Consiglio Pastorale, in A.d.P., 8-3-1970, 1. 25) Cfr. Costituito il Consiglio Pastorale, in A.d.P., 5-4-1970, 5.

31


Nel medesimo incontro emersero le seguenti esigenze ecclesiali: 1) realizzare la comunione ecclesiale, tramite il consiglio Pastorale; 2) promuovere l’aggiornamento del clero; 3) aggiornare la catechesi; 4) celebrare la liturgia come mezzo indispensabile per vivere la comunione ecclesiale26. Se il consiglio Pastorale cercava di coordinare l’attività ecclesiale sulla linea comunionale ciò era dovuto anche alla diffusa preoccupazione che coglieva la pluralità delle idee che si diffondeva come una grave forma di divisione, in una Chiesa in cui il pluralismo non era stato prima conosciuto. Lo stesso Petralia intervenne con un articolo sul settimanale in cui, dopo aver precisato il ruolo del vescovo, invitava la Chiesa agrigentina a rallentare le tensioni e a cercare l’unità sopra ogni cosa: «Non v’è dunque luogo nella Chiesa per le divisioni in gruppi o correnti. La varietà delle opinioni non nuoce, anzi può essere utile, salve le certezze di fede, e salva la vicendevole carità (…) Il vescovo, ogni vescovo, questo vescovo, non è né conservatore né progressista: è un testimone dell’eterna verità e della perenne novità del vangelo»27.

Petralia chiedendo alla Chiesa agrigentina l’unità sopra ogni cosa si rivolgeva prevalentemente ai sacerdoti poiché erano il fulcro dell’avvio di ogni unione o di ogni contestazione. Ma quale modello di prete Petralia proponeva per gli anni settanta? Un modello di prete “cultuale”, diverso da quel prete con più spiccata sensibilità sociale che aveva tratteggiato all’inizio del suo ministero episcopale in Agrigento; forse perché convinto che il prete più legato al culto era un antidoto sicuro contro contestazioni e incomprensioni, e per rallentare la tensione che stava germogliando in seno alla Chiesa. Il modello di prete espresso da Petralia, dunque, era ‘sacrale’, le-

26) Cfr. Le indicazione di base, in A.d.P., 28-6-1970, 1. 27) G. PETRALIA, Unità sopra tutto, in A.d.P., 8-1970, 1.

32


gato prevalentemente al culto, mentre si andava sempre più affermando un altro modello di prete: il prete d’avanguardia che lotta insieme ai poveri contro le ingiustizie sociali. Era questo il modello di prete “più gettonato” negli anni settanta, e che faceva più presa soprattutto tra i giovani che cercavano nell’impegno sociale e politico la realizzazione del messaggio cristiano. Sul modello di prete scriveva il vescovo: «vogliamo che abbia coscienza del carattere sacro e del ruolo specialissimo cui è chiamato: ossia continuatore del sacerdozio di Cristo, non per una designazione della comunità ma per una consacrazione sacramentale, per un carisma impresso con la luce e col fuoco dello Spirito, quindi proveniente dall’alto sulla linea di quella autorità apostolica che ha la sua fonte unica in Cristo Mediatore»28.

Petralia chiedeva preti totalmente impegnati nel servizio sacerdotale e non preti che dedicassero al ministero soltanto alcuni ritagli di tempo, infine, sosteneva: «Il prete ha la tremenda responsabilità di rendere credibile la Parola di Dio con un comportamento interiore ed esteriore, in cui sia visibile, senza possibilità di equivoci, il primato dello spirito sulla materia; della Grazia sulla natura. Egli deve essere perciò evangelicamente povero, umile, casto, magnanimo, ardente di amore per Cristo e per la Chiesa, votato con entusiasmo e con gioia al lavoro e al sacrificio. Egli deve essere sulla terra, così irta di problemi, di sofferenze, il testimone della pace, della gioia, della pienezza di vita, che costituiranno il Regno di Dio»29.

28) ID., Il prete che vogliamo, in A.d.P., 16/23-8-1970, 1. Lo stesso modello di prete “cultuale” legato all’altare, Petralia presentò ai giovani studenti di teologia nel corso degli esercizi spirituali del settembre 1978 ad Alessandria della Rocca. 29) L.c.

33


La crisi vocazionale degli anni ’70 fu motivo di preoccupazione dei vescovi che, in diverse occasioni, cercarono di capirne le cause. Anche Petralia si pose il problema, e trovò le cause dell’inquieta stagione della storia, che aveva svuotato i seminari, nei seguenti motivi: 1) l’edonismo sfrenato che aveva coinvolto la società; 2) un errato modo di intendere il rapporto sacerdote-mondo; 3) il rarefarsi delle figure significative di preti che avevano inciso tra i giovani: «In una società consumistica, rivolta alla soddisfazione delle crescenti esigenze non solo del necessario ma del superfluo e del voluttuario, il germe della vocazione al sacerdozio, alla vita missionaria, alla consacrazione religiosa, non trova il suo clima adatto»30.

Se l’edonismo sfrenato indusse a smarrire i valori del trascendente, anche il tentativo del sacerdote di imitare e confondersi col profano, secondo la diagnosi di Petralia, fece perdere la peculiarità propria del sacerdozio: «Il prete deve uscire dalla roccaforte, ma non perdere il suo carattere sacro (…) È avvenuto perciò che quel mondo stesso per il cui accostamento il portatore del sacro si è desacralizzato, ha perduto ogni stima e ogni amore per le vocazioni sacre»31.

È vero che tra gli anni ’60 e ’70 tale situazione distolse i giovani dai grandi ideali spirituali, tuttavia, sono parziali i tre motivi della crisi vocazionale evocati da Petralia per una tematica molto complessa in cui bisognava evidenziare la diminuzione demografica, l’emigrazione che aveva portato all’estero interi nuclei familiari, lasciando nei paesi prevalentemente gli anziani, la mancata figura del prete-sociale in un contesto culturale in cui i giovani spen-

30) ID., Lettera per la giornata mondiale delle vocazioni, in A.d.P., 2-5-1971, 1. 31) L.c.

34


devano le migliori energie nel socio-politico per una giustizia sociale globale. Mentre i giovani degli anni ‘60-’70 chiedevano modelli di preti sociali che lottano per la giustizia, fino a donare la propria vita col martirio, Petralia proponeva il prete cultuale e sacrale che guardava sì ai problemi sociali ma non ne faceva motivo del proprio ministero. In questo modo Petralia si poneva in una direzione diversa da quella emersa dal consiglio Pastorale diocesano che, nella riunione del maggio 1971 sul ruolo del presbitero in seno alla comunità diocesana, andava oltre il modello di prete cultuale chiuso in una ‘casta clericale’, e in linea di principio il consiglio si mostrava anche consenziente «che il sacerdote potesse esercitare una professione e fare le sue scelte politiche, in aggiunta al suo ministero»32.

ma solo per motivi contingenti, ad es. il numero ristretto di sacerdoti in confronto al lavoro Pastorale, preferiva che il sacerdote si dedicasse al ministero sacerdotale. Il consiglio Pastorale diocesano esprimeva una novità poiché, in linea di principio, prevedeva la possibilità d’inserimento del prete nel mondo del lavoro. Anche se il consiglio non motivava questa nuova scelta, essa nasceva dal desiderio di entrare nel mondo del lavoro per animarlo dal di dentro dopo averne conosciuto le problematiche e i travagli. E proprio in quegli anni nasceva in alcune parti del settentrione d’Italia il modello di prete-operaio che fu recepito in diocesi anche se non ci furono esperienze significative: qualche prete soltanto assunse l’impiego pubblico, mentre la stragrande maggioranza svolgeva l’insegnamento della religione nelle scuole. Il consiglio Pastorale tentò di proporre il modello di presbitero protagonista nelle questioni sociali ma che non sostiene pubblicamente nessun partito:

32) A.S., Professione Politica Celibato, in A.d.P., 30-5-1971, 2.

35


«il parroco non può disinteressarsi dei più gravi problemi sociali del suo popolo, dei poveri e degli oppressi, anche se pubblicamente non milita e non sostiene nessun partito»33.

In questo modo il consiglio Pastorale guardava alla parrocchia quale soggetto di aggregazione sociale e non più politico come era avvenuto soprattutto col modello di parrocchia espresso dal card. Ernesto Ruffini e recepito anche da Petralia. Aggiornamento del clero e catechesi furono le direttive dell’attività Pastorale espresse da Petralia all’assemblea plenaria del clero nell’ottobre 1970; due argomenti su cui da diversi anni aveva svolto prevalentemente il suo ministero episcopale. Con l’aggiornamento del clero mirava ad una formazione teologica, liturgica, catechetica e Pastorale dei sacerdoti più corrispondente alle linee teologiche del Concilio Vaticano II; mentre per la formazione spirituale sollecitava i preti a partecipare alle ‘giornate sacerdotali’ celebrate ogni mese nelle varie zone pastorali34. Accanto all’aggiornamento e alla formazione dei preti, Petralia, come abbiamo visto, poneva attenzione alla catechesi soprattutto per combattere l’ignoranza religiosa diffusa: «Tutti siamo convinti che oggi il popolo soffre penuria d’istruzione religiosa. L’analfabetismo religioso, diffuso anche tra le classi più colte, genera l’indifferenza, a volte l’ateismo, e avvia la società, un tempo cristiana, verso l’apostasia»35.

Per venire incontro a questo grave problema, nell’incontro di san Leone del 1970, annunciava la pubblicazione di un documento sul rinnovamento della catechesi con le seguenti mete diocesane: 1) promozione della catechesi familiare per scoprire la famiglia come Chiesa do-

33) L .c. 34) Cfr. Clero e catechesi, in A.d.P., 18-10-1970, 1. 35) L.c.

36


mestica; 2) formazione dei futuri sposi; 3) formazione degli animatori di catechesi; 4) incontri di insegnanti di religione; 5) missione catechetica che mirava a mobilitare le parrocchie sul tema della fede36. Per raggiungere queste mete, Petralia sollecitava una parrocchia missionaria rivolta alla famiglia che, riscoprendo la fede cristiana, diventa Chiesa domestica e luogo primario dell’annuncio evangelico. Considerato, inoltre, che la missione catechetica non poteva essere svolta in modo approssimativo e improvvisato, egli indicava ai parroci la necessità della formazione permanente degli animatori di catechesi i quali, durante l’anno, dovevano partecipare ad un corso di approfondimento che si teneva nelle varie zone pastorali della diocesi. Che il tessuto ecclesiale tradizionale della diocesi stava cambiando, emerse agli inizi del 1970 quando esplose la proliferazione dei gruppi spontanei che misero in discussione l’associazionismo cattolico, come ad es. l’Azione Cattolica che aveva formato il laicato cattolico nell’apostolato e nella missione. Petralia pubblicò un articolo per la giornata dell’Azione Cattolica in cui ne esaltava la funzione e nello stesso tempo mostrava diffidenza nei confronti dei gruppi spontanei: «discutibile è il principio da cui essi partono, che cioè solo nei piccoli gruppi informali si possa realizzare una esperienza di Chiesa: la Chiesa è comunità universale, nella quale le comunità particolari o locali o anche gruppi devono inserirsi in comunione di fede, di grazia, di carità»37.

Petralia indicava ai parroci di continuare a sostenere l’Azione Cattolica perché “era l’associazione che meglio garantiva ai laici l’esercizio del loro sacerdozio e della loro vocazione all’apostolato»38.

36) Cfr. L.c 37) G. PETRALIA, Una funzione non esaurita, in A.d.P., 8-11-1970, 1. A dir il vero Petralia nei confronti dei nuovi indirizzi teologici che si scostavano dal tomismo fu spesso diffidente, infatti, considerava la “nuova teologia” come il ritorno del modernismo sotto altre vesti, cfr. ID., I grandi temi cit., 8-9. 38) Cfr. L.c e ID., Vitale presenza in una Chiesa viva, in A.d.P., 10-11-1968, 1.

37


Mentre l’Azione Cattolica vedeva diminuire i propri scritti, per la prima volta, soprattutto nel settore dei giovani che non accettavano ormai una struttura associativa rigida, e che cercavano nei gruppi liberi e spontanei la propria creatività e impegno, soprattutto nel campo sociale, Petralia sosteneva l’associazionismo strutturato poiché era considerato il più sicuro, il più collaudato e sensibile alle direttive della gerarchia. La proliferazione dei nuovi gruppi spontanei non allarmò soltanto Petralia ma anche i vescovi siciliani che, nella quaresima del 1971, pubblicarono il documento sulla Chiesa particolare in cui misero in risalto, con sofferenza, un nuovo costume che si andava affermando nella vita ecclesiale: «Accanto a gruppi spontanei che vogliono conservare il vincolo di carità coi vescovi e col Papa, si sono visti sorgere, specialmente fuori d’Italia, dei gruppi di Chiesa, come sogliono chiamarsi, che si direbbero insofferenti di ogni rapporto di obbedienza verso coloro che lo Spirito Santo ha posto come vescovi a reggere la Chiesa di Dio (At 20,28) e persino verso Colui che, come successore di Pietro, è stato costituito da Cristo fondamento visibile della Chiesa e di tutto il popolo di Dio. Codesti gruppi sono quelli che si autodefiniscono ‘Chiesa delle catacombe’ o ‘Chiesa sotterranea’ con allusiva contrapposizione alla Chiesa gerarchica, che ritengono compromessa con le realtà temporali»39.

I vescovi ponevano in risalto la situazione conflittuale che stava emergendo tra i pastori della Chiesa e alcuni sacerdoti: «Purtroppo non mancano qua e là movimenti di idee tendenti a emancipare i presbiteri dalla responsabilità rispettosa e affettuosa col proprio vescovo. Il fenomeno si esprime variamente: o i pre-

39) C.E.S.I., La Chiesa particolare, in B.E.A., marzo 1971, 40.

38


sbiteri avallano dei gruppi che pretendono vivere una vita di Chiesa fuori o talvolta contro il vescovo, oppure alcuni, che sembrano vergognarsi del proprio ministero sacro, preferiscono delle attività lavorative e professionali alienanti dalla missione di salvezza ricevuta da Cristo»40.

Per i vescovi siciliani era ‘alienante’ il lavoro professionale dei sacerdoti anche con la buona intenzione di animare il mondo del lavoro dal di dentro. Nel documento i vescovi ponevano attenzione ai laici che, secondo la Lumen gentium, non erano soltanto i destinatari dell’opera della salvezza ma anche i ‘cooperatori’ della missione salvifica della Chiesa. La collaborazione dei laici trovava, nel pensiero dei vescovi, piena realizzazione nel consiglio Pastorale: «È nel Consiglio Pastorale che si incontrano i problemi e i bisogni, le aspirazioni e le iniziative della comunità; è lì che, nella riflessione della Parola di Dio e nella preghiera comune e nella frazione dell’unico Pane, matura un’autentica coscienza ecclesiale, che è il sentirsi uniti in Cristo per la costruzione di una società più fraterna, ‘germe e inizio’ del Regno di Dio (cfr LG n. 5)»41.

Sostenuto anche dall’orientamento dei vescovi siciliani, Petralia aveva indicato ai parroci l’istituzione dei consigli parrocchiali e interparrocchiali per una conduzione della parrocchia secondo l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, come emerge dalla seduta del consiglio Pastorale diocesano, presieduta dal vescovo che, insieme al consiglio, riteneva prioritari per la vita della diocesi il potenziamento della Pastorale verso la famiglia e del mondo del lavoro, e la continuazione della missione catechetica nelle parrocchie con il seguente tema: “ il cristiano e la vita di fede»42.

30) Ibidem, 47. 41) Ibidem, 51. 42) Cfr. Impegni a breve scadenza, in A.d.P., 21-2-1971, 1.

39


A partire da questa data, febbraio 1971, Petralia nel corso del suo ministero episcopale insisterà assiduamente per l’istituzione del consiglio Pastorale in tutte le parrocchie della diocesi, poiché in esso vedeva la realizzazione della comunione ecclesiale e lo strumento per le decisioni da assumere per la vita della stessa parrocchia orientata a riscoprire la sua natura missionaria. Perciò la missione catechetica non doveva essere svolta soltanto nell’ambito della Chiesa, come luogo di culto, ma nelle zone parrocchiali e doveva coinvolgere per la prima volta i capifamiglia perché «sono i primi responsabili dell’educazione alla fede dei propri figli»43.

Ovviamente la riuscita della missione catechetica parrocchiale dipendeva dalla formazione teologica dei catechisti che a quel tempo era carente, limitata, riferita soltanto al catechismo di san Pio X, ormai metodologicamente superato dal Concilio. Nacque l’esigenza di realizzare scuole formative. Dopo un periodo di riflessione, la diocesi agrigentina nel giugno 1971 realizzò la prima scuola per i catechisti in 21 comuni della provincia. I catechisti partecipavano periodicamente alle lezioni tenute da tre docenti. Insieme a questa esperienza furono istituiti in tutte le parrocchie i centri per catechisti con il compito di sensibilizzare tutti i laici della parrocchia alla missionarietà della vita cristiana44. La formazione permanente dei catechisti, tramite la scuola presente in 21 sezioni, con un numero considerevole di docenti, rimase un punto fermo nel programma Pastorale di Petralia che, in occasione dell’ottavo anniversario della sua consacrazione episcopale, il 3 novembre 1971, durante l’omelia la ricordò a tutti i presenti. L’istituzione della scuola per catechisti indusse i sacerdoti chiamati a svolgere le lezioni ad approfondire gli studi di teologia e la metodologia alla luce del Concilio

43) G. PETRALIA, La missione catechetica come mobilitazione di anime, in A.d.P., 28-2-1971, 1. 44) Cfr. G. DI FRANCO, Attività dell’ufficio catechistico, in A.d.P., 26-6-1971, 4.

40


Vaticano II, e provocò un’ondata di entusiasmo mai prima conosciuta che fece crescere il livello culturale nei sacerdoti. Se nell’anno precedente la missione catechetica era stata centrata sulla riscoperta della fede, la missione per l’anno 1971-72 fu orientata alla catechesi battesimale e prematrimoniale, poiché in questo modo era possibile formare i capifamiglia nell’educazione cristiana, fondamentale per la comprensione della Chiesa domestica45. Nuovi ardimentosi temi furono oggetto di ampia discussione al consiglio Pastorale diocesano mai prima pensati. Nella seduta di maggio 1971 affrontava il conferimento dell’ordine sacro a uomini sposati e l’atteggiamento da tenere nei confronti dei preti che lasciavano il ministero. Per il conferimento del sacerdozio agli uomini sposati il consiglio si esprimeva favorevolmente, e mostrava comprensione umana e cristiana nei confronti di quei preti che, dopo una sofferta e travagliata decisione, non esercitavano più il ministero: «non pochi di essi hanno scelto il celibato senza piena libertà e senza un’adeguata formazione che li preparasse a superare un mondo divenuto molto più aggressivo»46.

Certamente è da sottolineare la vivacità e la delicatezza degli argomenti discussi dal consiglio, segno che un cambiamento aveva interessato parroci e laici che cercavano di recuperare una presenza di Chiesa in un contesto che si avviava alla secolarizzazione47. Questo fermento ecclesiale trovò il suo momento critico a conclu-

45) Cfr. G. PETRALIA, Una comunità in cammino, in B.E.A., 64 (1971) 154. 46) A.S. Professione Politica Celibato, in A.d.P. 30 – 5 – 1971, 2. 47) Malgrado il consiglio Pastorale discutesse argomenti di rilievo non mancarono critiche alla conduzione della vita Pastorale diocesana, accusata di immobilismo. Don Gerlando Lentini, prendendo spunto dalla crisi finanziaria de L’Amico del Popolo, sostenne la tesi della imminente chiusura del giornale causata dalla sfiducia nei confronti del vescovo: “Una barriera di sfiducia, infatti, separa il clero e il laicato impegnato dal vescovo; donde la rassegnazione fatalistica ad una situazione stagnante, il disfattismo o tutt’al più la volontà di fare quel che si può in attesa di tempi migliori”, G. LENTINI, L’Amico del Popolo deve morire secondo la logica degli avvenimenti, in La via, novembre 1971, 1-3. Il disfattismo di Lentini fu rifiutato e criticato da Ave Gaglio, Antonino Rubino e Nicolò Inglese, cfr. Il dibattito è aperto, in La via, dicembre 1971.

41


sione del corso di aggiornamento del clero che si svolse nel mese di dicembre 1971 a Sciacca; i partecipanti firmarono un documento in cui, oltre a sottolineare il dilettantismo e l’improvvisazione delle prediche domenicali, si attaccava il clientelismo dei partiti, la mafia, il collateralismo politico della Chiesa e del prete, rivendicando un ruolo critico del prete nella denuncia dei mali della società: «non può restare indifferente di fronte all’attuale struttura politica e sociale isolana o provinciale, dove l’arrivismo e l’emarginazione degli umili, la mafia politica, la sottocultura, il disagio economico e il dilagare dell’immoralità condizionano a forme oppressive di alienazione politica le nostre popolazioni»48.

Il documento inoltre apriva al dialogo, nel comune impegno per la promozione umana, verso altri gruppi con ideologie diverse. Si trattò del primo tentativo di superare l’unità politica dei cattolici che aveva contrassegnato il mondo cattolico negli anni precedenti, per avviare un dialogo, senza confusioni ideologiche, avendo come scopo unico la promozione umana, considerata l’obiettivo fondamentale su cui ogni gruppo, anche di estrazione politica diversa, doveva confrontarsi. Il documento, oltre alla questione sociale e politica, poneva attenzione anche al tipo di religiosità diffusa negli ambienti ecclesiali. I firmatari lamentavano il mancato superamento della religiosità sacrale e rituale che aveva ridotto il cristianesimo a ‘ritualismo’ e a semplice codificazione morale49, e sollecitavano una nuova comprensione e funzione della comunità ecclesiale: «La comunità ecclesiale, pertanto, mentre include come elemento costitutivo della propria natura il vescovo e i presbiteri impegnati in un maggior servizio in sintonia con i vari bisogni della comu-

48) Sacerdozio e catechesi nel contesto agrigentino, in A.d.P., 12-12-1971, 1. 49) Cfr. L.c.

42


nità, esige che tutti i membri siano coscienti delle mete da raggiungere e si impegnino responsabilmente a collaborare per raggiungerle. I presbiteri riuniti a Sciacca, mentre riconoscono che le nostre parrocchie non possono ancora dirsi pienamente cristiane perché non sono espressione piena di comunità ecclesiale, anche se vi operano all’interno dei gruppi di Chiesa che sono una garanzia per il futuro, si richiamano al dovere di un impegno di riflessione, di preghiera e di azione per fare delle parrocchie un luogo di espressione ecclesiale di fede, di culto e di missione. Solo da queste comunità così definite possono nascere dei gruppi di catechisti concepiti non più come persone che hanno da insegnare delle formule e dei concetti intellettuali di fede, ma come cristiani che, condividendo in pieno la vita dei catechizzandi, trasmettono il messaggio che vivono ed approfondiscono nelle comunità d’origine. Si potrà avere il passaggio da una catechesi strutturata scolasticamente ad una catechesi che diventa momento forte di un piccolo gruppo che vive la sua fede nella comunità. Il cammino verso questa meta ci pone nell’urgenza di suscitare dei gruppi di catechisti compenetrati dal fatto di Cristo e preparati metodologicamente all’annuncio in situazioni concrete»50.

Con questo documento i preti firmatari iniziarono a riflettere sul rapporto Chiesa-vescovo in modo diverso da Petralia. Mentre per Petralia elemento costitutivo e fondamentale della Chiesa era il vescovo, poiché tramite il suo annuncio si fondava la comunità cristiana51, i sacerdoti firmatari, accanto al vescovo, ponevano i presbiteri, come se volessero dare a questi ultimi quel peso decisionale che non avevano avuto nel governo della Chiesa locale. Il documento di Sciacca esprime il desiderio di un rinnovamento ecclesiale che non sia calato dall’alto e che si concretizzi nelle comunità locali.

50) L.c 51) Cfr. G. PETRALIA, Comunione e istituzione, cit., 1.

43


Sul modo di considerare i gruppi di Chiesa, o spontanei, registriamo una differenza tra i firmatari del documento e Petralia. Mentre per quei sacerdoti i “gruppi spontanei” erano segno di vitalità e auspicio per il futuro, Petralia riconosceva credibile e valida soltanto l’Azione Cattolica, e mostrava diffidenza nei loro confronti, soprattutto sul modo come si svolgevano gli incontri e sulla mancanza di organizzazione all’interno dei “gruppi spontanei”. Possiamo concludere che il documento dei sacerdoti, che parteciparono al corso di aggiornamento a Sciacca, segnò uno spartiacque tra il periodo post-Concilio e l’inizio della contestazione, se pur in tono minore e in germe, nella Chiesa agrigentina, poiché emersero nuovi elementi anche nell’uso della terminologia. Infatti, per la prima volta entrarono nel lessico ecclesiale termini come prassi, liberazione globale, gruppi di base, comunità al positivo, vita borghese dei preti, moralismo dilettantistico, coraggio di proclamare la Parola di Dio… che furono diffusi anche con il contributo di don Luigi Sferrazza, che a Sciacca rese vivace il dibattito e la stesura del documento, come si evince da un articolo pubblicato sul settimanale L’Amico del Popolo in cui ricorrono contenuti e termini presenti nel documento. Il nuovo linguaggio presente nel documento, lo riscontriamo anche nei documenti e nelle riflessioni dei gruppi di base di quel tempo, segno, questo, che tra i sacerdoti firmatari cominciavano a circolare strumenti culturali ed esperienze che si collegavano alle comunità di base. In quell’articolo Sferrazza, commentando il documento dei preti, proponeva un’azione più incisiva che permettesse di superare l’immobilismo. L’obiettivo di Sferrazza era la necessità di affermare il principio di un rapporto nuovo nella comunità ecclesiale e gerarchia, dare un peso nuovo alla dimensione della comunità. Tutto ciò in contrapposizione alla concezione troppo gerarchica della struttura ecclesiale: «Il popolo di Dio – scriveva – aspetta con ansia una proposta concreta di liberazione globale e non può aspettare che la prassi per questa maturi nei documenti ufficiali. Del resto chi dà contenuto e valore a tutto quello che facciamo è Cristo che si incarna nella

44


dimensione del concreto e lì realizza la riconciliazione costruendo la comunione»52.

Per Sferrazza non occorreva l’input dall’alto ma era possibile agire in nome di Cristo e di una comunione espressa nei gruppi di base. A dir il vero, pur con un tono più conciliante, ma certamente fermo nei contenuti, contro le ingiustizie sociali e le fasce di povertà aveva preso posizione la comunità parrocchiale di Villaseta, quartiere nuovo di Agrigento, due anni prima. In quell’occasione la comunità parrocchiale, unita al Comitato Sviluppo Sociale del quartiere e alla Comunità evangelica valdese di Agrigento, aveva sottolineato in un documento la povertà persistente, l’oppressione dei poveri causata dalla disoccupazione che aveva generato emarginazione53. Anche se era stato un fatto isolato, poiché non si erano registrati posizioni analoghe in altri contesti ecclesiali, tuttavia è da evidenziare il punto d’incontro tra comunità valdese e comunità cattolica, segno che anche nelle piccole frazioni era arrivato il clima conciliare. Lo stesso direttore del settimanale cattolico Di Giovanna ne aveva sottolineato, oltre i contenuti, la novità: «è la prima volta che in seno al nostro piatto cristianesimo provinciale, si prende una iniziativa coraggiosa, unitamente ai fra-

52) L.S., Superare l’immobilismo, in A.d.P., 12-12-1971, 1. La posizione espressa da Sferrazza era completamente diversa da quella che aveva sostenuto Petralia. Infatti, il vescovo nella lettera Sentire cum ecclesia del 12 settembre 1965 aveva affermato che coloro che dal Concilio si aspettavano una “democratizzazione della gerarchia” rimanevano delusi. Il tentativo di riportare la Chiesa allo stile di vita apostolico era stato precedentemente considerato da Petralia un tentativo protestante: cfr. G. Petralia, I grandi temi cit., 32. La divergenza tra i firmatari del documento di Sciacca e Petralia coinvolgeva anche il rapporto Chiesa-Mondo. Nella lettera del 7 novembre 1965 egli guardava con sospetto i cosiddetti “incarnazionisti” cioè coloro che volevano un’incarnazione della Chiesa nel mondo, poiché temeva una perdita del valore soprannaturale e trascendentale della Chiesa a favore di un immanentismo storico e di un relativismo naturalistico. Il rinnovamento che Petralia auspicava era anzitutto spirituale:” il rinnovamento va compiuto anzitutto all’interno di noi, in un ritorno allo spirito del vangelo, che è spirito non edonistico, ma virilmente libero e forte, spirito di povertà, di integrità morale, di carità. (…) Maggiore santità e più aperto spirito ecumenico e missionario: ecco il vero rinnovamento; il resto non è che anarchia” G. PETRALIA, I grandi temi, cit., 55. 53) Cfr. I poveri e gli oppressi sono tra noi, in A.d.P., 28-12-1969, 2.

45


telli di un’altra confessione, per denunciare i tradimenti che, sul piano umano, avviliscono e mortificano la dignità della persona, mentre, sul piano cristiano e religioso, rendono inverosimile e poco attendibile l’ispirazione evangelica»54.

54) A.d.g., Cristianesimo scomodo, in A.d.P., 28-12-1969, 2. In quegli anni la comunità Valdese di Agrigento animata dal pastore Mario Berutti ha cominciato ad intrattenere rapporti organici con alcuni ambienti cattolici come aveva fatto qualche anno prima con il gruppo di Villaseta, ed in modo particolare con il gruppo della Comunità del Carmine di Favara e, successivamente con la comunità cristiana di base di Via Agrigento di Favara.

46


Una Chiesa più esigente verso la politica

Tra il 1964 ed il 1971 la Chiesa agrigentina attraversava un periodo complesso dal punto di vista politico. Infatti, la comunità ecclesiale passava da un sostegno a tutto campo nei confronti della Democrazia Cristiana ad un sostegno più critico, a tal punto che alcuni settori chiedevano la fine dell’unità politica dei cattolici. Erano gli anni in cui i problemi sociali, malgrado lo sviluppo economico, si aggravavano creando malcontento tra le popolazioni che vedevano crescere il divario tra un Nord industrializzato e un Sud sempre più spopolato. Il Mezzogiorno partecipava ad un benessere diffuso ormai largamente nel resto del Paese, ma ciò non dipendeva da uno sviluppo economico interno dovuto alla creazione di nuovi posti di lavoro ma grazie alle rimesse degli emigrati siciliani, e agrigentini, che lavoravano nel triangolo industriale del Nord, dove una borghesia industriale si consolidava sempre più con la manodopera del Sud, divenuto un eccezionale mercato di consumi. Le rimesse dei risparmi non arrivavano al Sud soltanto dal Nord Italia, ma anche dai Paesi esteri come l’Inghilterra, la Francia e la Germania. La questione meridionale, dunque, malgrado la riforma agraria, approvata in un periodo in cui la terra non svolgeva più quel ruolo sociale ed economico rilevante, non si era risolta politicamente, tramite un’azione di governo, ma attraverso la via emigratoria. Tutti questi problemi legati al Sud erano presenti nella coscienza ecclesiale che iniziò ad assumere per la prima volta in modo palese, sul finire degli anni sessanta, un atteggiamento critico nei confronti della Democrazia Cristiana, considerata incapace di risolvere i problemi del Mezzogiorno e intenta soltanto a consolidare una vecchia borghesia siciliana, che attingeva soltanto alle sovvenzioni, e alla burocrazia regionale che diventava punto forte della gestione del potere allontanando sempre più il cittadino dal Palazzo. 47


Si avvertiva un notevole affievolimento degli ideali cristiani nell’azione politica. Dunque il sostegno elettorale e politico alla Democrazia Cristiana diventò sempre più difficile nell’ultimo biennio degli anni ’60, e si accentuò in modo particolare per il rinnovo dell’Assemblea regionale del 1971 poiché le lunghe crisi di governo, spesso per lotte correntizie di conquista di potere e di assessorati, non davano un’adeguata risposta ai problemi urgenti della Sicilia. La mancata accoglienza degli appelli e delle denunce dei vescovi siciliani indusse, quindi, alcuni settori ecclesiali più avanzati e più sensibili ai problemi sociali, e per nulla ardimentosi di stare sul carro del vincitore, a rivedere il sostegno elettorale espresso verso la Democrazia Cristiana e a pensare a nuove scelte politiche in forza della maturità acquisita dal laicato cattolico e dalla coscienza umana e cristiana d’ogni singola persona. Se dal punto di vista politico-elettorale agli inizi degli anni ’70 si registrava in parecchi settori della Chiesa agrigentina una defezione nei confronti della Democrazia Cristiana, a causa delle lacerazioni interne al partito, tuttavia questi stessi settori si ricompattavano al momento in cui i partiti laici, per iniziativa del Partito Socialista, proponevano in Parlamento il disegno di legge a favore del divorzio che era considerato dagli ambienti ecclesiali un grave attentato contro la famiglia. Ecco come lentamente si passò da un sostegno silenzioso ad uno più critico. Dopo pochi mesi dal suo insediamento nella cattedra di san Gerlando, nel 1964 il vescovo Petralia, come abbiamo visto, aveva indirizzato una Lettera Pastorale alla Chiesa agrigentina: Unità nella Carità in cui, dopo aver presentato le linee teologiche dell’amore e della carità cristiana, aveva posto in evidenza le condizioni sociali non confortevoli della provincia, attribuendone la causa alla lotta di potere tra i partiti a discapito del bene comune55. Petralia ai politici cattolici indicava il criterio morale per distin-

55) Cfr. G. PETRALIA, Unità nella carità, cit., 1.

48


guere un’azione cristiana da una non cristiana, convinto che questo criterio potesse indurre i politici a superare le lotte e l’immobilismo politico: «non è cristiano chi subordina il bene della città, della regione, della nazione al proprio interesse e alla propria ambizione di potere. È cristiano, invece, chi è disposto a rinunciare a un incarico onorifico se questo dovesse essere il pomo della discordia che spezzerebbe la necessaria unità dei cattolici»56.

Se pur valido il principio morale per la valutazione di un atto politico, tuttavia nella Lettera Petralia si limitava ad un semplice invito rivolto a quei democristiani orientati anche a scelte non del tutto cristiane. S’invocava l’unità politica prevalentemente per combattere il comunismo e il laicismo dei partiti espresso nella mancata approvazione alla Camera dei Deputati dell’art. 88 del bilancio di previsione che prevedeva un sussidio supplementare di 149 milioni a favore delle scuole non statali. Don Alfonso Di Giovanna invitava dalle colonne del settimanale diocesano, in sintonia con “L’Osservatore Romano», i cattolici a prendere coscienza del laicismo che mortificava la libertà educativa, dopo aver rilevato il diritto della famiglia ad educare i propri figli57. L’acutizzarsi di alcuni problemi, dovuti anche alla trasformazione sociale, e la consapevolezza in Petralia di una raggiunta maturità del laicato cattolico avevano indotto a istituire la consulta sociale diocesana per studiare le soluzioni in campo sociale e per unire le “forze cattoliche nei momenti decisivi e nelle manifestazioni”58. L’unità delle forze cattoliche, punto cardine della Consulta, si focalizzava prevalentemente nelle consultazioni elettorali. E nel 1964, malgrado il tentativo in atto di creare un nuovo partito cristiano, Alfonso

56) L.c, 3. 57) Cfr. A. DI GIOVANNA, I cattolici posti di fronte, in A.d.P. 5-7-1964,1. 58) Cfr. Consulta Diocesana, in B.E.A., 64, 1964.

49


Di Giovanna in un articolo in cui ricordava il pericolo comunista, sollecitava i cattolici a non fare confusione soprattutto dopo la formazione del primo Governo di centrosinistra. Pertanto indicava come irresponsabile «chi accorda il voto ad altri partiti fuori della Democrazia Cristiana, che resta sempre il partito dei cattolici italiani»59.

I risultati elettorali, specialmente nei piccoli comuni, non sempre esprimevano una chiara maggioranza e un’opposizione. Nasceva, anche dietro le nuove aperture ai socialisti, il desiderio di formare giunte in cui, in forza di un programma comune, democristiani e comunisti potessero trovare un’intesa. Tale intesa doveva essere categoricamente e senza termini esclusa dal settimanale diocesano, L’Amico del Popolo, che scriveva in perfetta sintonia col pensiero del vescovo Petralia. Pertanto il settimanale diocesano elencava in tre punti le direttive rivolte ai democristiani sulla formazione delle giunte comunali e della giunta provinciale: 1) le giunte con i cattolici uniti erano le ideali; 2) tollerabili, ove altra soluzione non era possibile, le giunte di centrosinistra, ma i socialisti dovevano considerarsi anticomunisti; 3) inaccettabili le giunte della DC con voti determinanti dei comunisti. In tal caso era preferibile la DC all’opposizione60. Le direttive del settimanale, oltre ad evidenziare la chiusura totale nei confronti dei partiti comunisti, evidenziavano la mancata autonomia della politica nei confronti del magistero, e l’intransigenza del magistero su argomenti politici che interessavano la fede e la morale, perché un’apertura ai partiti comunisti veniva intesa come un riconoscimento ufficiale ai partiti marcatamente atei. Le direttive, come notiamo, non erano soltanto rivolte ai democristiani ma anche ai socialisti, i quali, se volevano entrare nelle giunte a guida democristiana “dovevano con-

59) A. DI GIOVANNA, Alle urne, in A.d.P., 22-11-1964, 1. 60) Cfr. Le difficili giunte, in A.d.P., 2-4-1965, 1.

50


siderarsi anticomunisti»: un modo chiaro di interferire anche nei rapporti politici tra i partiti. Agli inizi del 1965, malgrado la Chiesa agrigentina avesse escluso il dialogo con i comunisti nella formazione delle giunte, il cattolico prof. Riccio insieme al prof. Edoardo Pancamo, comunista, avevano promosso una serie di conferenze sul dialogo, che ovviamente fu visto con molto disappunto negli ambienti ecclesiali. La presa di posizione della Chiesa agrigentina non si fece attendere: l’articolista del settimanale diocesano rispondeva con una frase di Petralia: “un dialogo è da escludere: quello col comunismo in quanto ateo e materialista», detta al circolo di cultura di Ribera, in occasione della presentazione dell’Enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI, e considerava il prof. Riccio “sedicente cattolico»61. Come era avvenuto sotto il vescovo Peruzzo anche per Petralia l’impossibilità di un dialogo con il comunismo era dovuta, appunto, alla visione materialista della vita, causa di ateismo, elevato a dottrina. Pur continuando il sostegno di Petralia nei confronti della DC, tuttavia dopo due anni dal suo insediamento nella sede vescovile di Agrigento, il vescovo espresse giudizi più sofferti nei confronti della classe politica agrigentina: «è intelligente dinamica, capace, ma purtroppo è inquieta»62.

L’inquietudine nasceva dalla prevalenza di uno spirito di difesa sullo spirito sociale del bene comune. Detto in altri termini, Petralia, esperto giornalista, osservatore dei fatti sociali e politici, vedeva disatteso e mortificato quel principio morale che distingueva le azioni cristiane da quelle non cristiane, vedeva, nel prevalere dello spirito di gruppo sul bene comune, il tradimento politico dei cattolici verso la morale sociale cristiana che era alla base del partito stesso, che si sosteneva ormai solo in fun-

61) Cfr Dialogo impossibile tra comunisti e cattolici, in A.d.P., 16-4-1965,1. Il titolo dell’articolo è approssimativo perché sul settimanale diocesano il servizio giornalistico non recava nessun titolo. 62) Tre domande a S.E. Mons. Petralia, in A.d.P., 2-1-1966,1.

51


zione anticomunista e antilaicista, nei confronti di coloro che volevano introdurre a partire dal 1966 il divorzio in Italia. Infatti, da tale data le forze politiche laiche, guidate dai socialisti, iniziarono la campagna politica a favore del divorzio. Il direttore del settimanale cattolico Di Giovanna, in un suo editoriale, rimproverando i socialisti di malafede evidenziava che il Concilio con la Gaudium et spes aveva rifiutato ogni tipo di divorzio e ribadito l’indissolubilità del vincolo matrimoniale. Ai cattolici che guardavano con ammirazione le sollecitazioni divorziste dei socialisti don Alfonso Di Giovanna ricordava: «Quello che turba è la faciloneria con cui certi cattolici abboccano all’amo delle menzogne e all’errore, presenti talvolta con tali parvenze di verità (…) È necessario pertanto: 1) stare fermi nei principi della morale cristiana, che attinge la sua ragione d’essere dall’insegnamento diretto di Cristo Maestro; 2) controbattere gli errori con la forza della verità; 3) opporre la saldezza dell’unità di tutti i cattolici contro una minoranza di laicisti che vorrebbero disorientare gli animi per riuscire più facilmente ad aprire una breccia nella santità matrimoniale e familiare»63.

Sempre Di Giovanna, in un successivo articolo, sottolineava le conseguenze negative del divorzio: «Il divorzio in Italia, come del resto in tutti i paesi dove purtroppo la legge lo consente, non servirà né alla prosperità morale della comunità, né al progresso sociale di un paese, né alla sua civiltà. I sostenitori delle ‘ricomposizioni familiari’ sono convinti del contrario, tuttavia essi misconoscono che se la società si ispirasse alla legge naturale e divina troverebbe che il maggior dei suoi beni è appunto nello status quo dell’istituto familiare e non nei suoi facili riferimenti alternativi di mali maggiori»64.

63) A. DI GIOVANNA, No al divorzio, in A.d.P., 1-5-1966, 1. 64) ID., Scogli, in A.d.P., 22-5-1966, 1.

52


A partire dal 1967 però, con il contributo dell’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, il settimanale diocesano iniziò a divenire punto di riferimento critico nei confronti della politica, e della DC in particolare, per le mancate risposte concrete ai reali problemi sociali65. Quel malumore che ormai era diffuso, così, lentamente, iniziò a prendere corpo, a divenire coscienza critica, invito a ritornare alle fonti che avevano ispirato la nascita del partito dei cattolici secondo l’insegnamento della Chiesa. Dal 1967 in avanti nei confronti della DC, dunque, vedremo un discorso più critico ma che non andrà oltre una generica denuncia, perché ad ogni appuntamento elettorale, il vescovo non farà mancare l’appoggio al partito cattolico, considerato, tutto sommato, il partito che ancora garantiva gli interessi della Chiesa, la libertà democratica, l’Alleanza Atlantica, la difesa della vita e della famiglia soprattutto. Il sostegno al partito non era messo in discussione, anche se nell’intervista rilasciata dal vescovo Petralia al settimanale diocesano, in prossimità delle elezioni regionali per il rinnovo dell’Assemblea, ritenne opportuno fare delle precisazioni: se l’unità dei cattolici in politica era considerata un valore irrinunciabile – vista in funzione anticomunista - la Chiesa non poteva identificarsi con la Democrazia Cristiana. Infine, Petralia metteva a nudo il malcostume politico diffuso in Sicilia e i ritardi della Regione: «noncuranza del bene comune della Regione e, per converso, la cura affannosa di curare la propria clientela elettorale attraverso una miriade di favori particolari, che è giustificata in parte dallo stato di bisogno della gente isolana ma che comportano anche un appesantimento della burocrazia regionale e uno spreco di denaro pubblico»66.

65) Cfr. ID., Ci tocca, in A.d.P., 9-4-1967, 3. 66) I Cattolici e la politica, intervista a Mons Petralia, in A.d.P., 21-5-1967, 1

53


Rimaneva la preoccupazione per l’unità politica dei cattolici. In occasione delle elezioni politiche del 1968, egli, preoccupato dal modo errato di interpretare il documento della C.E.I. sulle “scelte consapevoli» dovute alla maturità del laicato, sottolineava che il documento “non autorizza nessuno a fare delle sperimentazioni pericolose e temerarie», pertanto, con insistenza, chiedeva alla comunità diocesana di perseguire il valore dell’unità in funzione dell’anticomunismo “per contrastare efficacemente un partito di massa qual è il comunismo»67. Il medesimo appello all’unità veniva rivolto dalla presidenza dell’Azione Cattolica agrigentina in un documento nel quale chiedeva la difesa della famiglia, un’attenzione al bene comune, la dignità del costume privato e pubblico, un impegno per lo sviluppo della Sicilia, un’azione per il potenziamento della scuola, dell’agricoltura, delle infrastrutture…68. Tale documento non passò inosservato, poiché Di Giovanna, sul settimanale diocesano, lo considerò “un fatto che – a nostro avviso – non si è verificato mai»69 poiché con esso finiva l’appoggio incondizionato alla Democrazia Cristiana, che aveva contraddistinto la presenza politica cattolica per un ventennio. Anche se i punti espressi dall’Azione Cattolica agrigentina facevano parte del programma politico nazionale della Democrazia Cristiana, adesso se ne chiedeva ampia realizzazione. Siamo di fronte ad una Chiesa che esige verifiche dell’operato politico ai responsabili. L’elettorato cattolico era convinto che le elezioni politiche del 1968 erano decisive per il rafforzamento o meno del fronte divorzista il quale, da qualche anno, diventava sempre più compatto sotto la spinta socialista, con il promotore on. Fortuna, e che consentiva al P.C.I. di uscire dall’isolamento politico in cui si trovava. Per impedire l’avanzata del fronte divorzista, l’unico rimedio rimaneva il sostegno alla Democrazia Cristiana, come sottolineava la presidenza dell’Azione Cattolica agrigentina:

67) Cfr. G. PETRALIA, I Cattolici e la vita pubblica, in A.d.P., 28-4-1968, 1. 68) Cfr. L’Azione Cattolica agrigentina e le elezioni, in A.d.P., 5-5-1968, 1. 69) Cfr. A. DI GIOVANNA, Cattolici sempre, conniventi mai, in A.d.P., 19-5-1968, 1.

54


«Se i comunisti, se i socialisti, se i repubblicani, se i liberali e i missini (che tutti vogliono il divorzio) dovessero aumentare, o anche soltanto non diminuire i loro voti, il Parlamento italiano (che nascerà dalle elezioni del 19 maggio) introdurrà anche in Italia la piaga del divorzio»70.

Le elezioni politiche del 1968 comunque lasciarono invariato l’equilibrio delle forze politiche presenti in Parlamento, ma ormai era mutato il costume politico causato da un decadimento, pur non consistente, degli ideali che fece svolgere la campagna elettorale in modo inconsueto: «Si è saputo di uomini politici – la cui base elettorale era molto compromessa in partenza – che hanno ottenuto favolosi successi elettorali perché hanno trovato facile mercato d’acquisto. In parole povere hanno comprato voti distribuendo decine di milioni. (…). Si è saputo -purtroppo- con ritardo che un valente avvocato è stato infilato in una lista a mò di ringraziamento per la valente difesa operata in un famoso processo nel quale importanti parlamentari erano imputati, e furono - ovviamente in forza della difesa - assolti.(…) Il fatto più grave poi è che in tutti i settori della vita pubblica si baratta tutto»71.

Anche se in Di Giovanna serpeggiava un certo malcontento per il decadimento dei costumi e dell’azione politica, tuttavia in tale tornata elettorale il settimanale non aveva fatto venire meno il sostegno alla Democrazia Cristiana. Anzi, dopo le elezioni chiedeva che il rilancio della politica partisse proprio dal partito dei cattolici, anche se lo stesso direttore nutriva dubbi a causa delle correnti e delle divisioni interne. In altre parole, egli vedeva, almeno in linea di principio, nel partito lo strumento politico per la conquista dello Stato e per l’af-

70) Il 19 maggio si decide il futuro della tua famiglia, in A.d.P., 19-5-1968, 1. 71) A. DI GIOVANNA, Costume elettorale, in A.d.P, 26-5-1968, 4.

55


fermazione della società cristiana, malgrado si fosse celebrato il Concilio Vaticano II. La prolungata crisi del Governo regionale agli inizi del 1969, dopo le dimissioni del presidente Carollo, aveva creato una situazione difficile e incontrollabile a tal punto che preoccupò seriamente i vescovi siciliani che, riuniti a Sciacca, diramarono un comunicato con il quale richiamavano i responsabili a superare la situazione di stallo dovuta: «alla lotta asperrima tra i partiti e tra le correnti di uno stesso partito, all’accentuazione marcatamente politica di un istituto che doveva essere prevalentemente amministrativo, ai clientelismi e ai personalismi, al gioco dei franchi tiratori, sono i gravi sintomi di un malessere che non trova uomini pronti ai rimedi»72.

Detto in altri termini, i vescovi denunciavano il comportamento deludente e mortificante di un’Assemblea regionale incapace di trovare i rimedi necessari per la soluzione dei problemi politici e sociali più urgenti, poiché aveva smarrito gli obiettivi fondamentali della politica, a tal punto che la dialettica interna nel partito di maggioranza, e tra i partiti, si era ridotta a clientelismo e personalismo, che esprimevano una lotta esclusivamente per la conquista del potere. In questo modo, dopo più di vent’anni dall’istituzione dell’Autonomia siciliana si coglieva la fine della spinta dell’autonomismo siciliano, che tante speranze aveva alimentato negli anni precedenti. Dopo vent’anni, alcuni fondatori dell’Autonomia erano scomparsi, come Guarino Amella, Enrico La Loggia, Salvatore Aldisio; altri erano stati eletti al Parlamento nazionale come Giuseppe La Loggia e Giuseppe Alessi; altri erano usciti dalla scena politica. La presenza del nuovo personale politico, nei vari partiti, non riuscì a controllare e a fermare la politica centralista del Governo; le segreterie regionali dei partiti ubbidivano ciecamente sempre più alle segreterie nazionali

72) Denuncia dell’Episcopato siciliano, in A.d.P., 16-2-1969, 1.

56


e alle proprie correnti; la stessa Autonomia non riuscì a dare lo sviluppo tanto desiderato dai siciliani. Il comunicato dei vescovi non passò, ovviamente, inosservato. Infatti le Acli regionali accolsero la sollecitudine e l’analisi dell’episcopato siculo, e in un documento proposero una politica di pianificazione per il progresso dell’Isola dopo aver sottolineato la fine del periodo del collateralismo con la Democrazia Cristiana73. Anche il settimanale diocesano L’Amico del Popolo diede risalto alla presa di posizione dei vescovi siciliani, e il direttore Di Giovanna, prendendo spunto del comunicato, metteva il dito sulla piaga del malaffare diffuso: “È sintomatico il fatto che nessun’altra istituzione è diventata tanto impopolare e simbolo di confusione e di involuzione, tra noi, quanto la “Regione»: l’autonomia è stata screditata sotto tutte le forme e con tutti i mezzi: pessima amministrazione, fallimenti degli enti finanziari e delle gestioni delle aziende regionali, panacea dell’industrializzazione che non arriva mai, burocratizzazione macroscopica della pubblica amministrazione (che si compone di 12 mila impiegati e che costa 6 miliardi), malcostume, bramosìa del potere clientelare sono alla base del permanente discredito»74.

La denuncia dei vescovi indusse la Chiesa a sostenere con sofferenza la Democrazia Cristiana nelle votazioni del maggio 1970 per il rinnovo del consiglio comunale e provinciale. La mancata realizzazione di opere, di infrastrutture, di sviluppo, la situazione di stallo nelle zone terremotate, l’emigrazione, la lotta interna nella DC avevano fatto assumere un atteggiamento più critico e sofferto:

73) Cfr. Le Acli propongono una nuova politica, in A.d.P., 2-3-1969, 6. In tale documento scrivevano le Acli: “al di fuori di ogni schematismo partitico ed ideologico, esiste la possibilità di promuovere un’azione di crescita civile, di partecipazione popolare e di mobilitazione allo sviluppo degli Enti Locali e di tutte le forze culturali e sociali dell’Isola”. 74) A. DI GIOVANNA, L’equivoco del potere, in A.d.P, 16-2-1969, 1.

57


«Siamo costretti a votare per un partito che non ha sufficientemente garantito le attese e le speranze degli agrigentini? Per il Partito che, pur avendo avuto cinque anni fa la maggioranza assoluta, senza i condizionamenti degli alleati di centrosinistra al Comune e all’Amministrazione provinciale, non ha saputo cogliere il momento opportuno, per dimostrare una forma molto approssimativa a quell’ideale, di retta conduzione della cosa pubblica? Per un partito che spesso nel passato ha abdicato ai suoi impegni per la “ragione delle correnti» e dell’interno travaglio che ne subisce? Purtroppo sì»75.

La giustificazione sofferta, “purtroppo sì», stava nella funzione anticomunista del Partito che «malgrado tutto ha costituito, in questi ultimi venticinque anni di storia italiana, il partito che è riuscito a fronteggiare le “avventure»»76.

Nel “purtroppo sì” espresso da Di Giovanna bisogna cogliere il punto sofferto nell’esprimere il consenso elettorale verso un partito che, per i settori più attenti e vivaci della comunità ecclesiale, si era mostrato disattento ai problemi, malgrado le promesse fatte ad ogni appuntamento elettorale. Un anno dopo il direttore Di Giovanna ritornò sulla questione del voto da esprimere, e lo fece in occasione del rinnovo dell’Assemblea regionale indetta per il 13 giugno 1971 con una posizione completamente nuova, superando quel sofferto “purtroppo sì”, che lo aveva caratterizzato l’anno precedente. Le continue crisi di Governo in cinque anni, l’immobilismo politico, le lotte correntizie all’interno della DC, per ottenere assessorati e sottogoverni per il bene personale a discapito del bene comune, gli ap-

75) Votare, ma per chi? in A.d.P., 31-5-1970, 1. 76) L.c

58


pelli inascoltati dei vescovi siciliani e i problemi insoluti indussero Di Giovanna ad assumere una posizione più critica e di distacco nei confronti della DC; ed egli trovava, a suo dire, spunto nel mancato orientamento elettorale dei vescovi rivolto ai cattolici “per votare bene», (verso la Democrazia Cristiana) e nella consapevolezza della gerarchia sulla maturità del popolo di Dio nel fare scelte politiche. Il settimanale, per le elezioni regionali del 1971, si appellava alla coscienza matura di ogni persona. Terminava, sotto la direzione di Di Giovanna, l’appoggio incondizionato del settimanale, che era intanto diventato punto di riferimento di molti cattolici definiti progressisti, alla Democrazia Cristiana, come era avvenuto negli anni precedenti più per i problemi di politica internazionale che per la capacità del partito di applicare le linee della dottrina sociale della Chiesa. La scelta di votare secondo coscienza era il punto di arrivo di una serie di riflessioni sociopolitiche espresse dal Di Giovanna, ma era anche il punto di partenza che l’avrebbe condotto alla scelta del Partito Comunista Italiano, poiché in Di Giovanna non era passato inosservato l’atteggiamento critico del PCI nei confronti di Mosca, dopo l’occupazione da parte dell’Armata Rossa della Cecoslovacchia nel 1968. A partire dal 1971 Di Giovanna, tramite il settimanale diocesano, sarà il riferimento di parecchi sacerdoti e laici cattolici, sensibili alle problematiche sociali e politiche ma che non si riconoscevano nell’azione della Democrazia Cristiana.

59


60


Fermenti ecclesiali

Nel biennio 1972-74 Petralia promosse con maggiore insistenza, rispetto agli anni precedenti, l’istituzione dei consigli pastorali in tutte le parrocchie della diocesi, poiché vedeva in essi la realizzazione della comunione e la partecipazione diretta dei laici alla vita ecclesiale, in virtù dei doni ricevuti dalla grazia battesimale. L’esperienza del consiglio Pastorale diocesano, malgrado le difficoltà iniziali e le incomprensioni sulla natura e sugli obiettivi da raggiungere, si era dimostrata proficua nella vita diocesana, poiché sacerdoti e laici avevano avuto la possibilità di portare il proprio contributo alle scelte pastorali; non solo, in esso Petralia aveva visto la realizzazione nella Chiesa locale della nuova ecclesiologia scaturita dal Concilio Vaticano II. Pertanto desiderava che i nuovi organismi di partecipazione arrivassero in tutte le parrocchie per il rilancio della missionarietà della parrocchia. Infatti, la missionarietà era legata al contributo di idee del laicato, che si era anche formato nei corsi di teologia (sorti in alcuni Comuni della diocesi) e nei corsi di catechesi svolti nei vicariati foranei. Da questa nuova formazione teologica Petralia si aspettava una rifioritura della vita diocesana, anche con la partecipazione responsabile del laicato alla vita parrocchiale tramite, appunto, i consigli pastorali. Affinchè il rinnovamento non si limitasse alle strutture di partecipazione ma anche alla vita cristiana, Petralia, in occasione della Settimana catechistico-liturgico indetta dal 18 al 23 settembre 1972, scrisse un articolo sul settimanale diocesano in cui, facendo ampi riferimenti al documento conciliare Sacrosanctum concilium, invitava la comunità ecclesiale a scoprire e a vivere l’autentica fede coniugando catechesi e preghiera: «Non altro è il dovere primario dei Pontefici, dei Vescovi, dei Sacerdoti, dei Missionari, dei Religiosi, delle Suore, dei laici im-

61


pegnati. Prima l’insegnamento, poi il culto. Evangelizzazione, come annuncio del mistero di salvezza, centrato in Cristo, catechesi, come esposizione ordinata delle verità rivelate che salvano, devono costituire il costante assillo della Chiesa in tutte le sue componenti»77.

Evangelizzazione e sacramenti erano i due obiettivi della comunità diocesana per un rinnovamento interiore e per superare una diffusa religiosità paganeggiante, per la quale lo stesso vescovo lamentava: «Purtroppo una dolorosa esperienza ci avverte che una vita di culto, anche intensa, è sempre esposta al rischio del formalismo e della esteriorizzazione, per difetto di contenuto vitale (…) Si guardi a tanta parte della vita religiosa del popolo che si dice cristiano: essa non è vita di fede, è solo costume. Non alimentati dall’ascolto della Parola di Dio, dalla quale nasce la fede (cfr Rom 10,17), i riti più santi, più salutari, si sono ridotti, nella mentalità di molti, in cerimonie quasi magiche»78.

L’istituzione dei consigli pastorali parrocchiali fu particolarmente laboriosa in diocesi e attraverserà quasi tutto il ministero episcopale di Petralia poiché non tutti i parroci si adeguarono alle nuove direttive del vescovo sostenute anche dai consigli presbiterale e Pastorale diocesano. In occasione della celebrazione del Giovedì Santo del 1973, nella Chiesa concattedrale di san Domenico, presentando il nuovo piano Pastorale, Petralia li indicò come strumenti necessari per trasformare la parrocchia da una posizione statica e immobile ad una dinamica: «L’immagine statica della vecchia società rurale si va trasformando, e per l’industrializzazione e per la mobilità demografica e soprattutto per l’emigrazione, in una società estremamente

77) G. PETRALIA, Evangelizzazione e sacramenti, in A.d.P., 10-9-1972, 1. 78) L.c

62


fluida; e la Chiesa chiamata a lievitare di verità e di grazia il mondo, non può restare arroccata nelle strutture immobili di un tempo, pena l’alienazione di gran parte degli uomini.(…) Sarà il Consiglio Pastorale che, irradiandosi alla periferia, con incontri di catechesi e di preghiera per famiglie o per quartieri o per categorie, raggiungerà i lontani e sveglierà gli indifferenti»79.

Gli interventi di Petralia sulla religiosità popolare, soprattutto quello espresso durante la celebrazione del Giovedì Santo, permisero a Di Giovanna di scrivere un articolo sul settimanale diocesano in cui individuava la responsabilità della miseria delle popolazioni in una falsa pratica religiosa intesa più come soddisfazione di bisogni personali o come strumento per rafforzare lo status quo dello sfruttamento80. A partire soprattutto dagli anni ’70 assisteremo al ritorno del metodo antico della riflessione teologica in cui la meditazione biblica era stata strettamente legata alla vita spirituale aperta alla dimensione sociale81. Solo attorno al XIV secolo era iniziata la separazione fra teologi e spiritualisti, e di questa separazione troviamo esempio nel libro Imitazione di Cristo che fortemente segnò la spiritualità cristiana degli ultimi secoli fino alle porte del Concilio Vaticano II. Il libro Imitazione di Cristo era il riferimento della perfezione interiore dell’anima senza incidenza nella vita sociale. Di Giovanna suggeriva, per un rinnovamento Pastorale, una spiritualità senza surrogati, mistificazioni e sostenuta dalla Parola di Dio: «Il rinnovamento Pastorale comporta una vera e propria rivoluzione interiore che si è soliti indicare col pregnante termine di conversione, che tuttavia non è da attribuire a coscienze in pena che deluse o annoiate del mondo decidono di lavarsene le mani e narcotizzarsi nell’illusione di attenderne uno migliore, bensì a

79) ID., Il Vescovo presenta il piano Pastorale, in A.d.P., 6-5-1973, 1. 80) Cfr. ADIGI, Rinnovamento Pastorale e strutture sociali, in A.d.P., 6-5-1973, 1. 81) Cfr. G. GUTIERREZ, Teologia della liberazione, Brescia, 1981, 12 e L. BOUYER, La spiritualità del Nuovo Testamento e dei Padri, Bologna, 1974.

63


spiriti coraggiosi che hanno la volontà di cambiare se stessi con una fede rinnovata, purificata da surrogati e da mistificazioni più o meno ingegnose, e attraverso il continuo confronto con la Parola di Dio che è più penetrante di una spada a doppio taglio»82.

Petralia e il direttore del settimanale avvertivano la medesima necessità di purificare la fede da tutte le incrostazioni e dai ritualismi esteriori che non rendevano un culto gradito a Dio; tuttavia Petralia e Di Giovanna proponevano due soluzioni diverse che rispecchiavano due spiritualità diverse che, a loro volta, approdavano a due diverse teologie. Mentre per Petralia si poteva avere una fede genuina tramite un accostamento consapevole ai sacramenti e alla vita liturgica, ma che non andava oltre l’ambito cultuale, per Di Giovanna il rinnovamento della fede poteva avvenire solo attraverso l’ascolto della Parola di Dio, che a sua volta doveva condurre il cristiano a testimoniarla negli ambienti sociali, per una liberazione dell’uomo dalle strutture di peccato e di ingiustizia. Alla base dell’esigenza di Di Giovanna c’era la nuova riflessione teologica (e la letteratura latino-americana) che aveva fatto il proprio ingresso nella comunità ecclesiale europea ma che era guardata con un certo distacco, se non proprio con diffidenza, negli ambienti ecclesiali. Sotto la spinta del Concilio e della Conferenza Episcopale latino-americana di Medellin del 1968 molti sacerdoti assunsero un atteggiamento critico nei confronti dei sistemi politici, e cambiarono anche il modo di valutare l’azione politica dei governanti. Si sviluppò anche un modello di prete orientato alla lotta socio-politica, partendo da motivazioni teologiche. Anche la catechesi favorì l’attenzione ai problemi concreti per una liberazione dalle strutture ingiuste. Un bestseller letto in quegli anni in molti ambienti fu il libro di Camillo Torres Liberazione o Morte tradotto in molte lingue83. A dire il vero anche Petralia avvertiva il disagio sociale delle popolazioni agrigentine, come aveva avuto modo di denunciare durante

82) ADIGI, Rinnovamento Pastorale, cit., 1. 83) Cfr. G. GUTIERREZ, Teologia, cit., 107.

64


l’omelia del Giovedì Santo del 1973 in cui aveva fatto una disanima dei problemi più gravi: «L’analisi della società agrigentina considerata sotto il profilo socio-religioso, ci offre con sufficiente approssimazione l’immagine di un popolo afflitto da mali antichissimi e recenti: l’agricoltura affetta da grave crisi; la grande industria limitata a zone ancora esigue; la piccola industria sempre minacciata e spesso in smobilitazione; il povero commercio; le altre attività come l’artigianato, gli impieghi, i servizi, il turismo in discreto aumento; preoccupante l’emigrazione di massa con effetti negativi sulla fede con grave danno dell’unità e della educazione dei figli»84.

Petralia, pur mostrandosi attento osservatore dei problemi della popolazione agrigentina non andava oltre la posizione di una generica denuncia, mentre Di Giovanna e il gruppo redazionale del settimanale iniziarono a fare una denuncia più consistente elencando i nomi dei responsabili del degrado ambientale e sociale, e le cariche istituzionali che ricoprivano. Il settimanale diocesano, da quel momento, iniziò ad essere malvisto dagli ambienti politici e finanziari che gravitavano attorno ai partiti di governo che ne prendevano sempre più le distanze. In occasione del decennio di consacrazione episcopale, Petralia, nella concattedrale di san Domenico, rivolse un discorso alla diocesi in cui, facendo un primo bilancio del suo ministero episcopale svolto ad Agrigento, ricordava i momenti difficili del dopo Concilio: «Il periodo post-conciliare, in cui si è svolto il nostro comune servizio, è stato segnato da vivi fermenti, certamente ispirati da un sincero desiderio di rinnovamento nella fede, nella carità, nella speranza cristiana anelante a quel Regno di Dio che è verità, giustizia, amore, e che si attua sin da questo tempo, che è il tempo

84) G. PETRALIA, Il Vescovo presenta il piano Pastorale, cit., 1.

65


della Chiesa. Il modo in cui si sono espressi tali fermenti ha creato talvolta tensioni e dolori. E di dolori anche il vescovo ha avuto la sua parte»85.

Come aveva fatto in altre circostanze, anche questa volta Petralia indicava nell’istituzione del consiglio Pastorale parrocchiale la via per dare un impulso nuovo di vitalità alla vita ecclesiale e alla diffusione della fede: «Senza di esso la parrocchia si consideri incompleta e mutilata»86.

La comunità cristiana di base di via Agrigento di Favara, nel documento La nostra speranza, redatto nella Pasqua del 1973, e successivamente presentato al Convegno nazionale delle comunità di base, svoltosi a Roma nel maggio successivo, definiva un “equivoco equilibrismo» il Piano di Rinnovamento Pastorale Diocesano del 5 aprile 1973, in cui, dopo aver presentato la Chiesa luce del mondo, affermava la sua neutralità politica e l’accoglienza interclassista, e che tutti, ricchi e poveri, potevano essere accolti: «La Chiesa – si diceva nel Piano di Rinnovamento – è luce del mondo e il sale della terra, perciò sarà sempre di fermento e di stimolo sulle persone responsabili. Non è il caso che essa faccia una scelta di classe o di partito po-

85) ID., Decennio episcopale, in B.E.A., 66, 1973, 219. Agli inizi degli anni settanta il clero diocesano poteva essere ricondotto a questi due schieramenti: in uno si raccoglieva l’ala intransigente, formato dal clero anziano, nell’altro l’ala innovativa formata dal clero giovane. Tra le due anime non sempre ci fu comprensione. Secondo don Stefano Pirrera il vescovo Petralia dopo una prima attenzione alle tematiche del clero giovane ritornò sui propri passi ponendosi sulle posizioni del clero anziano: “Il vescovo – scriverà Pirrera in occasione della commemorazione di Petralia – privo di sostegno da parte degli anziani, anzi sollecitato a romperla con i giovani e a vietare loro di riunirsi, senza la sua autorizzazione e presenza, si convinse che era bene ascoltare il “savio” consiglio, onde evitare il peggio”, S. Pirrera, La quiete dopo la tempesta, in A.d.P., 23 luglio 2000, 8. 86) G. PETRALIA, Decennio episcopale, cit., 220.

66


litico; è meglio anzi che si liberi da ogni compromesso. Tutti gli uomini di qualsiasi classe o partito hanno bisogno della salvezza di Cristo. Però per la Chiesa, perché pure si renda sempre più credibile, l’unica scelta permessa, anzi d’obbligo, è quella che ha fatto Gesù: i poveri, i sofferenti, gli ignoranti, i deboli, gli emarginati. Tale scelta è di preminenza e non di esclusione per le altre categorie di persone. Comunque i ricchi o i potenti nel senso di quelli che godono maggiore autosufficienza e autonomia e hanno in mano in diverso grado le leve del potere, possono essere accettati in quanto tali, purchè siano disposti ad essere strumenti di liberazione dei “poveri» e degli “oppressi”»87.

Facendo leva sul testo paolino di 1Cor. 11, 17-19 la comunità cristiana di base di Favara contestava la presenza del ricco nella vita della Chiesa, perché la sua stessa condizione sociale, quella di essere ricco, urtava contro la Parola di Dio e il sacramento dell’Eucarestia: «una Eucarestia che non suppone una fraternità realmente realizzata e una equa distribuzione dei beni della terra diventa una profanazione ed uno scandalo. La Chiesa sarà sempre più una nella misura in cui si impegnerà ad abolire le classi per la liberazione degli emarginati e sfruttati. L’accettazione del fatto della lotta di classe non sarà una scelta discriminatoria che vuole l’odio di una categoria di uomini ma la scelta della via che ci permette di realizzare le condizioni essenziali per una vera fraternità universale»88.

Dunque per la comunità cristiana, il Piano di Rinnovamento era inaccettabile su questo punto, perché oltre ad urtare contro la Sacra

87) Citazione presa dal documento della COMUNITÀ aprile 1973, 7. 88) Ibidem, 8.

CRISTIANA DI BASE

La nostra speranza,

67


Scrittura, profanava il sacramento, ma soprattutto rallentava la liberazione degli sfruttati, perché «tale gioco lo si fa sulle spalle di chi sfruttato aspetta ancora l’alba della liberazione e della luce che si dice di annunciare»89.

La scelta di classe della comunità di base è chiara, almeno a partire dal 1973, e trova il suo fondamento nella partecipazione al sacramento dell’Eucarestia, la cui partecipazione è preclusa ai ricchi a causa della condotta di vita divenuta una contro-testimonainza nei confronti del sacramento stesso. Il Piano di rinnovamento e la comunità cristiana di base di Favara presentano due diversi modi di considerare i ricchi. Mentre nel Piano la loro condizione non preclude la partecipazione alla vita della Chiesa, e dunque sentirsi cristiani, se diventano strumenti di liberazione, per la comunità cristiana il fatto di vivere nella ricchezza esclude intrinsecamente l’essere cristiano perché quella ricchezza impedisce la liberazione dei poveri. Mente nella proposta del Piano era presente una fiducia al buon uso dei mezzi posseduti, in quella della comunità cristiana proprio a causa delle ricchezze, fonte di sfruttamento, era esclusa qualsiasi fiducia. Non mancarono incomprensioni sul piano ecclesiologico; sorse, infatti, una tendenza che poneva prevalentemente attenzione ai carismi presenti e operanti nella vita ecclesiale, in opposizione però all’istituzione. Si voleva ad ogni costo liberare la Chiesa carismatica dall’istituzione e dalla legge, anche quella canonica. Per Petralia questo modo di intendere e di vivere i carismi, in opposizione alla Chiesa istituzionale, al magistero dei vescovi, era completamente sbagliato. Intervenne con una lettera al direttore del settimanale diocesano L’Amico del Popolo in cui, ricordando il XX anniversario della nascita del giornale, rifiutava la contrapposizione tra Chiesa istituzionale e Chiesa carismatica, poiché vedeva in questa contrapposizione un’aperta ostilità nei confronti della stessa gerarchia:

89) L.c.

68


«Non esistono due Chiese: una istituzionale e l’altra carismatica, una tradizionale e l’altra progressista, una diretta dalla gerarchia e l’altra dalla base (…) Esiste la sola Chiesa di Gesù Cristo, LG 8»90.

In occasione di tale ricorrenza Petralia chiedeva al direttore Di Giovanna di non farsi influenzare e tanto meno di scegliere un’ideologia diversa da quella propugnata dal vangelo: «Non si lasci tentare dalle ideologie di destra o di sinistra, né dalla ideologia marxista né da quella liberale ‘che si oppongono radicalmente o su punti sostanziali alla sua fede e alla sua concezione dell’uomo’( Paolo VI Oct.ad. 26). Non si faccia illudere da coloro che non credono in Dio e affermano di credere nell’uomo, hanno dimenticato il Regno di Cristo e perseguono un messianismo terrestre e, in ultima analisi, disumanizzante»91.

Come negli anni passati l’antisocialismo e l’anticomunismo di Peruzzo prevalentemente si fondavano su una concezione antropologica e su una funzione storica diversa, così Petralia, in sintonia con l’episcopato precedente, e con il magistero della Chiesa universale, rifiutava ogni apertura e collaborazione con l’ideologia marxista, particolarmente in vigore in quegli anni, anche in ambito agrigentino ed ecclesiale, poiché il rifiuto di Dio conduceva necessariamente ad una visione errata dell’uomo, dunque, in conclusione contro l’uomo. Petralia da questo punto di vista era profondamente coerente con se stesso. All’inizio del 1974 Petralia indirizzò alla diocesi la Lettera Pastorale La Grande Occasione in preparazione al giubileo del 1975, divisa in tre parti. La prima parte era un invito alla conversione del cuore per una rinascita spirituale. Il tema della cattedrale, luogo del Giubileo, permise a Petralia di sviluppare una delle più belle catechesi mistagogiche

90) ID., Verso il XX anno di vita, in B.E.A., 66, 1973, 228. 91) L.c.

69


che certamente contribuirono allo sviluppo della teologia della Chiesa locale. La seconda parte evidenziava i frutti della conversione per la crescita della Chiesa e del Regno di Dio. Petralia invitava tutti i fedeli a perseguire ad ogni costo l’unità della fede e della morale, mentre lasciava una pluralità di scelta nelle cose opinabili92. Tuttavia non indicava in concreto cosa intendesse con i termini, molto generici, cose opinabili. Ricollegandosi al discorso pronunciato nella concattedrale di san Domenico il 3 novembre 1973, Petralia tornava a sollecitare l’istituzione dei consigli pastorali parrocchiali per il rinnovamento delle parrocchie e della vita spirituale in diocesi, poiché in questi strumenti, osservava il vescovo, tutti i laici battezzati, in forza del sacramento del battesimo, sono chiamati ad operare per la Chiesa93. La terza parte della Lettera tratteggiava l’evangelizzazione e la catechesi orientate a scoprire il sacramento del battesimo, attraverso una catechesi sacramentale in cui la Chiesa viveva la propria dimensione missionaria. Il vescovo non chiudeva gli occhi sul grave momento ecclesiale, segnato da divisioni e chiusure in molti strati, e sperava che il clima fervente dell’Anno Santo, che si andava a celebrare, quanto meno potesse ricreare un clima sereno all’interno della comunità diocesana: «Chi può negare che vi siano in diocesi divisioni, se non proprie rotture, tendenze a isolarsi e a raggrupparsi, a volte per una certa autodifesa, a volte per tentare qualcosa di meglio fuori dell’ordinamento ecclesiastico? Si criticano le istituzioni, condannando tutto ciò che sa di ‘tradizionale’, come se nella tradizione tutto fosse sbagliato; si diffida di ogni disposizione che venga dall’alto, come se l’autorità avesse la sua origine dalla base. Tutto ciò non favorisce l’unità»94.

92) Cfr. ID., La Grande occasione, in B.E.A., 67, 1974. 93) Cfr. Ibid., 11. 94) Ibid., 9.

70


A differenza degli anni precedenti in cui Petralia aveva espresso tutto il sostegno verso l’Azione Cattolica e aveva diffidato dei gruppi spontanei e delle comunità di base, che erano sorte in alcune parrocchie, questa volta Petralia, nei confronti soprattutto delle comunità di base, non mostrando una diffidenza aprioristica, cercava di coglierne la positività nel contesto ecclesiale. Tuttavia per definirsi ecclesiali dovevano rispondere a tre criteri che per il vescovo erano irrinunciabili: 1) vita di fede, 2) vita di grazia, 3) vita di comunione. A me sembra il massimo che Petralia potesse concedere ai gruppi di base per essere considerati come ecclesiali. Questa volta manca quell’atteggiamento diffidente che aveva caratterizzato la scelta Pastorale del vescovo nei confronti di questi nuovi movimenti di spiritualità, quando in passato aveva messo al primo posto l’atto di ubbidienza in un periodo in cui non si capiva più cosa fosse l’ubbidienza e la disobbedienza era divenuta una forma di virtù. I principali scopi della Lettera erano la conversione, il superamento delle divisioni, la ricerca dell’unità, la concezione della Chiesa missionaria, la partecipazione dei laici alla vita parrocchiale tramite i consigli pastorali parrocchiali. La scelta religiosa, prevalente nella Lettera, non toccava l’ambito sociale e tanto meno quello politico, eccetto in un limitato inciso in cui si parlava della «animazione cristiana del mondo del lavoro, l’assistenza agli emigrati e alle loro famiglie, la presenza attiva tra i poveri e i sofferenti, tra gli analfabeti e i disoccupati, per la elevazione morale e materiale»95.

Dobbiamo rilevare che delle oltre quattromila parole di cui si componeva la Lettera La Grande occasione, scritta da Petralia in prossimità del Giubileo del 1975, dedicava soltanto 35 parole alla questione so-

95) L.c La Lettera Pastorale conta soltanto 12 citazioni bibliche tutte del Nuovo Testamento 4 di Paolo, 3 di Luca, 2 di Giovanni, 2 di Marco e 1 di Matteo; fonti patristiche: 2 di sant’Agostino; Magistero: 1 di Paolo VI.

71


ciale. Da ciò si deduce che la relativa attenzione sociale di Petralia in questa Lettera, scritta in un contesto molto difficile e ricco di lacerazioni e contrasti, era quasi del tutto assente. Siamo lontani da un tipo di teologia intesa come riflessione critica a partire dalle divisioni sociali per proporre un messaggio di liberazione dell’uomo, e che si era affermata proprio in quegli anni in America latina, e che aveva fatto il proprio ingresso in Europa96. La Lettera Pastorale in preparazione al Giubileo non sanava l’evidente frattura presente nella Chiesa agrigentina, infatti, ad un mese di distanza dalla sua pubblicazione cinquantadue sacerdoti scrissero un documento in cui ponevano in risalto gravi problemi ecclesiali, e che fu destinato a dividere maggiormente la delicata comunione ecclesiale. In tale documento, che sarà ricordato come il documento dei sessanta, i preti firmatari, che avevano l’età media di trentacinque anni, sfiduciavano Petralia sul modo di governare la diocesi. Infatti, scrivevano: «si rileva che esiste tra il clero diocesano un diffuso senso di profonda sfiducia sul modo di condurre il governo della diocesi e sulle strutture sui cui tale azione di governo poggia. Dette strutture, infatti, anziché essere strumento di comunione e di costante rinnovamento obbediscono alla logica del potere, del conservatorismo, dell’immobilismo e del quieto vivere»97.

Per i sacerdoti firmatari tale situazione portava all’isolamento e all’emarginazione sociale, senza creare possibilità di incontro con la classe operaia e contadina. Evidenziavano, inoltre, che ogni tentativo spontaneo di superare questo grave disagio veniva scoraggiato tramite la calunnia e il sospetto98.

96) Cfr. G. GUTIERREZ, Teologia, cit., 25. 97) Chiesa e società siciliana negli anni settanta, a cura di V.ARNONE, Ed. Thule, Palermo 1982, 62. 98) L.c.

72


Ma l’accusa più grave che veniva rivolta dal documento dei sessanta riguardava il modo della conduzione, dell’assegnazione e della trasparenza amministrativa della diocesi. Per quanto concerne la conduzione della diocesi: «L’assegnazione dei vari uffici presbiterali (Curia, Seminario, Parrocchie…) raramente rivela criteri di scelta rispondenti alle reali esigenze del bene comune e viene operata senza tenere minimamente conto del parere del clero e del popolo di Dio. Si ha piuttosto l’impressione che tali scelte rispondano a criteri clientelari, personalistici e interessati, spesso monopolizzati da noti protettori locali»99.

Ma era sulla trasparenza amministrativa che il documento dei sessanta nutriva dubbi e perplessità, soprattutto sull’impiego dei fondi pervenuti a favore della frana del 1966 e del terremoto del 1968: «I resoconti della “Cassa Unica» pubblicati di tanto in tanto dal Bollettino Ecclesiastico non sono esaurienti perché non vi sono contenute tutte le voci di bilancio della diocesi. Es.: Rendite, messe binate fondate, fondo di solidarietà per il clero, ODA, ecc. Non si conosce come sono stati impegnati i contributi pervenuti dalla S. Sede, da Enti ecclesiastici e civili in occasione della ‘frana’ e del ‘terremoto’»100.

Tra le proposte presentate, il documento dei sessanta chiedeva l’elezione di un nuovo consiglio presbiterale, senza membri di diritto e che rappresentasse realmente tutti i vicariati zonali presenti in diocesi. Chiedeva, inoltre, che le mansioni assegnate fossero ‘ad tempus’ e che le persone proposte presentassero alla comunità diocesana programmi

99) L.c. 100) L.c.

73


e finalità. Infine, si chiedeva un centro comunitario in cui il clero potesse incontrarsi per dialoghi più proficui. Il documento dei sessanta a livello ecclesiale fu recepito come un aperto scontro nei confronti di Petralia101. Esso segnò ancora una volta la comunità ecclesiale agrigentina. A differenza del documento di Sciacca del 1972, scritto a conclusione del corso di aggiornamento, questo nuovo documento rese palese la rottura nel presbiterio e nei confronti del vescovo, tanto che, come abbiamo visto, veniva sfiduciato sul modo di governare la diocesi. Mai si era arrivato a tanto. Si giunse così all’apice della crisi. Proprio lui, Petralia, che era stato l’artefice del rinnovamento conciliare, che aveva costantemente lavorato per la realizzazione delle zone pastorali, dei consigli pastorali parrocchiali, del consiglio presbiterale e del consiglio Pastorale diocesano, veniva sfiduciato su tutto quanto aveva tenacemente realizzato per adeguare la Chiesa agrigentina al rinnovamento conciliare, superando le non poche resistenze dei conservatori e dei diffidenti di madre natura. Se nel 1975, a dieci anni dal Concilio, questo padre conciliare, artefice del rinnovamento, veniva sfiduciato da sessanta sacerdoti, che erano i più giovani e i più vivaci, una comprensibile ragione doveva pur esserci. È difficile dare una spiegazione esaustiva ed organica, anche ascoltando alcuni firmatari del documento, perché ho ricevuto le più disparate motivazioni. A mio avviso un motivo valido, che fa comprendere la causa della divisione, sta nella crisi di sofferenza che il giovane clero viveva nella metà degli anni settanta. Esso vide sì la realizzazione delle strutture di partecipazione nella vita ecclesiale, ma non trovò gli adeguati spazi per poter esprimere le migliori energie, tanto che chiese che le ‘mansioni’ fossero assegnate ‘ad tempus’, cioè terminasse, e forse presto, l’identificazione di un determinato ufficio con la persona che lo gestiva come un affare proprio. Questo giovane

101) Ricordo che il vescovo ausiliare, mons. Luigi Bommarito, qualche anno dopo commentava questo documento con rammarico, e lo considerava come momento di spaccatura all’interno del presbiterio agrigentino. Ricordo, tuttavia, che Bommarito parlava di ottanta sacerdoti invece di sessanta.

74


clero chiedeva più spazi di responsabilità nella vita della Chiesa a preferenza della vecchia guardia. Ma dare spazi di responsabilità al clero giovane in quella delicata fase storica voleva dire anche accogliere i nuovi indirizzi pastorali e teologici che circolavano negli ambienti più attenti. È qui che il vescovo Petralia non volle rischiare preferendo quella parte di clero più collaudata e sicura. Il diffuso malcontento, a sua volta, fu anche strumentalizzato da quei settori del presbiterio che cercavano ogni buona occasione per mettere in difficoltà l’operato di Petralia.

75


76


I primi contrasti in ambito ecclesiale e il referendum sul divorzio

A partire dal 1972, molti settori della comunità diocesana vivranno la fede cristiana alla luce dell’impegno verso gli ambienti più sfruttati e malcapitati della realtà agrigentina, accentuando l’aspetto sociale e politico; non solo, anche tematiche nazionali e internazionali coinvolgeranno sempre più un numero di parrocchie, che chiederanno, tramite appositi documenti, la pluralità nelle scelte politiche e la fine di ogni collateralismo con la Democrazia Cristiana, additata di non aver saputo tradurre in atti concreti i principi fondamentali dell’insegnamento della Chiesa in campo sociale e di non aver dato risposte valide ai problemi sociali delle popolazioni agrigentine. Veicolo, fino al 1974, di questa fase sociale e di critica politica fu il settimanale diocesano L’Amico del Popolo che coagulò tutti quei settori vivaci, presenti anche nell’Azione Cattolica, e pubblicò una serie di articoli in cui si sottolineava la preferenza verso gli sfruttati e un certo distacco nei confronti dei ricchi. L’Amico del Popolo ospitò anche interventi di dom Franzoni che, a livello nazionale, era divenuto punto di riferimento di una “certa contestazione» all’interno della Chiesa italiana. Ma sarà in occasione del referendum sul divorzio del 1974 che si sancirà lo scontro tra il gruppo redazionale del settimanale e il vescovo Petralia poiché in quella circostanza il settimanale, prima invocando la libertà di voto per i cattolici, poi non manifestando nessun diretto impegno verso il fronte antidivorzista, di fatto, sceglierà a favore del mantenimento della legge sul divorzio. Al di là dei fatti contingenti, alla base dello scontro tra Petralia e il gruppo redazionale del settimanale diocesano c’era una diversa ecclesiologia, c’era un diverso modello di prete, una diversa spiritualità, una diversa concezione della morale sociale. Dunque se vogliamo capire i fatti che si svolgeranno soprattutto 77


nel biennio ’74 - ’76 dobbiamo avere presente quanto meno il 1972, anno in cui il clero più vivace e le comunità ecclesiali più sensibili e attente iniziarono ad esprimere un nuovo modo per valutare gli avvenimenti ecclesiali e politici. In alcune comunità ecclesiali si affermava il modello di prete impegnato prevalentemente nel sociale, e che combatte per la giustizia contro gli oppressori. Questo modello trovò la sua concretezza in Camillo Torres che venne paragonato a Che Guevara. Pur completamente diversi per formazione e per credo, tuttavia venivano accomunati da un unico desiderio: la libertà degli oppressi, come successivamente ricorderà Leonardo Boff: «Due figure storiche incarnano gli ideali della liberazione e continuano ad esercitare un impatto enorme sui gruppi impegnati nella ricerca di mutamenti qualitativi della società: Ernesto Che Guevara e il sacerdote colombiano Camillo Torres. Entrambi avevano fatto una scelta rivoluzionaria che si ispirava alla liberazione dei dimenticati nella nostra storia latinoamericana, i contadini, i proletari e i poveri. Furono uccisi nella lotta per questa causa»102.

Anche la rivista Rocca pubblicando un articolo di Juan Arias Cosa ha detto a noi preti, riferendosi al Sinodo dei vescovi, metteva in evidenza il modello di prete rivoluzionario, come Camillo Torres, che aveva fatto il proprio ingresso anche in Europa. L’articolo di Arias non passò inosservato. Uno dei vescovi italiani che subito prese posizione nei confronti del noto pubblicista Arias fu proprio Petralia che, scrivendogli, contestava due errori: la comunità di base come fonte di autorità, in opposizione al Magistero della Chiesa, e il modello di prete battagliero e rivoluzionario da lui proposto. In opposizione al modello di prete rivoluzionario Petralia ne indicava un altro:

102) L., BOFF, Quando la teologia ascolta il povero, Assisi, 1984, 22.

78


«Egli è un evangelizzatore: una voce libera che grida la verità e proclama la giustizia a chi vuole sentirlo e a chi non vuole sentirlo; che denuncia apertamente le discriminazioni sociali, le quali, prima di essere un’offesa all’uomo, sono un’offesa a Dio Giustizia e Amore; un testimone del Regno nella povertà, nella difesa degli umiliati e degli oppressi, nella carità che spera contro ogni speranza ed ha la certezza - fondata sulla grazia di Dio e sulla testimonianza degli uomini - che il lievito della verità e della grazia, immesso nella massa umana, la trasformerà più e meglio di tutte le rivoluzioni sociali»103.

Per Petralia, dunque, era compito del sacerdote elevare la voce contro le ingiustizie sociali, ma ciò era possibile farlo soltanto in nome del vangelo, senza ricorrere a nuovi modelli che non concordavano con la vita della Chiesa. Tuttavia Petralia non lasciava cadere la sua attenzione verso il prete del culto divino, in aperta opposizione al prete battagliero tipico della teologia della liberazione ormai giunta anche in Occidente. In quel periodo storico accanto al modello di prete battagliero prendeva sempre più piede la richiesta di autonomia del laicato nell’impegno politico, come da alcuni anni era avvenuto in Francia anche con il contributo del pensiero di J. Maritain, che nell’opera Umanesimo integrale, aveva delineato l’autonomia delle realtà temporali in quanto104 lo Stato e la Chiesa contribuiscono in modo diverso e con mezzi propri alla realizzazione del regno di Dio, nel quale l’uomo raggiungerà la piena liberazione. Tale concezione era stata ampiamente recepita da Y. Congar che diede un valido apporto al documento del Concilio Vaticano II Gaudium et spes, infatti, egli sosteneva: «La Chiesa, convertendo gli uomini alla fede e battezzandoli, secondo la missione che ha ricevuto dal suo Signore, si colloca o

103) G. PETRALIA, Una voce libera per la verità, in A.d.P., 23-1-1972, 3. 104) Cfr. C. MOLARI, Liberazione, in Nuovo Dizionario di Teologia, a cura di F. COMPAGNONI, G. PIANA, S. PRIVITERA, Cinisello Balsamo, 1990, 741.

79


si realizza come ordine portatrice di salvezza e di santità nel mondo. Operando sul terreno della civiltà, cioè nel temporale e nella storia, essa assolve la sua missione di essere l’anima della società umana»105.

Queste idee non erano nuove in campo ecclesiale, poiché fin dall’Ottocento circolavano in Francia con i cattolici liberali, pur in un contesto diverso, rappresentati dal Lamennais106, e che ponevano la libertà in armonia con il vangelo e la fine del cosiddetto “ tempo cristiano» in cui il potere politico era considerato inferiore a quello religioso e si rivendicava un potere diretto della gerarchia sul potere temporale107. Sulla rivendicazione di questa autonomia si muoveva anche il settimanale diocesano agrigentino con il suo gruppo redazionale. Il settimanale trovò favorevole occasione per evidenziare la necessità di cambiamento e il bisogno di autonomia, in forza del Concilio, durante il congresso provinciale delle Acli, al quale il settimanale diocesano appositamente dedicò ampio spazio. Nel dare la notizia di tale assise, mise in evidenza gli obiettivi che gli aclisti volevano raggiungere: scelta di classe, che significava “essere dalla parte di coloro che erano esclusi”, forza di cambiamento delle strutture che esigeva “un’opposizione all’attuale assetto capitalistico”, autonomia nelle scelte politiche che comportava la fine del collateralismo con la Democrazia Cristiana. Il congresso provinciale si svolse il 5 marzo 1972 sul seguente tema: Le ACLI movimento di ispirazione cristiana per un’alternativa al capitalismo in nome dell’uomo, e vide la partecipazione di molti aclisti della provincia malgrado le diffidenze sorte dopo la scelta socialista del movimento108. Mai come in questo momento si era raggiunto un perfetto accordo tra il gruppo redazionale del settimanale e le Acli.

105) Y. CONGAR, Esquisse d’une theologie de l’Actione Catholique, in Cahiers du clergè rural, 1958,351. Citazione presa da G. GUTIERREZ, Teologia,cit., 64. 106) Cfr. G. GÈREST, Nostalgia dell’unità della Chiesa e politica di soffocamento dei conflitti in Concilium, 11 (1975) 476. 107) Cfr P. MENCACCI, Gli errori moderni confutati nel Sillabo, Roma, 1985, 154. 108) Cfr. CA.RI., In nome dell’uomo, in A.d.P., 27-2-1972, 1.

80


Le tematiche proposte dagli aclisti agrigentini si collegavano a quelle sviluppate dalla collettivo di coordinamento del Carmine di Favara, particolarmente attento ai problemi sociali109. Successivamente anche la stessa città fu coinvolta nelle richieste acliste, tanto che Favara, insieme a Castrofilippo e a qualche altra parrocchia di Agrigento, diventarono l’epicentro della contestazione negli anni successivi. La stessa comunità parrocchiale chiese e ottenne un confronto col vescovo su argomenti che riguardavano la vita ecclesiale. Petralia partecipò all’incontro accogliendo le richieste rivolte dalla comunità ecclesiale. Il collettivo di coordinamento della parrocchia pubblicò sul settimanale diocesano, che gli diede ampio spazio, un documento in cui proponeva un concetto di liberazione concreto a partire dalla lotta contro le ingiustizie: «Noi vogliamo solo essere la comunità di Gesù Cristo; non abbiamo altro da realizzare se non Gesù Cristo: e Gesù per noi è liberazione. Non una liberazione teoretica, astratta, angelista, spiritualista. No. È liberazione globale dell’uomo. Liberazione da ogni forma di peccato e di schiavitù»110.

A fondamento della richiesta di liberazione nuova, espressa dal Collettivo di coordinamento ospite nella Chiesa del Carmine di Favara, c’era il superamento della vecchia manualistica cristologica ed ecclesiologica pervenuta fino alle porte del Concilio Vaticano II in cui la liberazione e la salvezza riguardavano l’individuo nei suoi rapporti con Dio, e solo per riflesso coinvolgevano il corpo e la società111. Perché questo? Perché secondo Congar:

109) Il gruppo del Carmine era animato da don Luigi Sferrazza e non dal parroco Antonio Sferrazza, che tollerava con qualche difficoltà il linguaggio e le iniziative del “collettivo” che peraltro, non si collegava organicamente con il Consiglio Pastorale parrocchiale. I giovani del collettivo si ponevano in atteggiamento di aperto dissenso nei confronti del Consiglio Pastorale che, come in altre parrocchie, si caratterizzava non come luogo di partecipazione ma come una struttura verticistica. 110) COLLETTIVO DEL CARMINE DI FAVARA, A confronto col vescovo, in A.d.P., 2-4-1972. 111) Cfr C. MOLARI, Liberazione, cit., 739.

81


«la Chiesa non aveva davanti a sé un mondo pienamente mondo, essendo la società ordinata a servire ai fini della salvezza eterna, le cui regole le determinava la Chiesa»112.

Quando si parlava di liberazione ci si riferiva, nella vecchia manualistica, esclusivamente alla liberazione dell’anima dal peccato da parte della Chiesa tramite il potere sacramentale e gerarchico113. Oltre ad evidenziare a Petralia il proprio concetto di liberazione, il collettivo di coordinamento chiedeva al presule che, in vista delle elezioni politiche, la Chiesa non appoggiasse nessun candidato e nessun partito, ma scegliesse a favore dei poveri: «Una prova di libertà ci aspetta: le elezioni politiche. Abbiamo detto al vescovo che vogliamo essere liberi di denunciare il male, liberi da qualsiasi compromesso di partito ma con una chiara scelta in favore degli oppressi. E vogliamo anche che da parte del vescovo ci sia questa testimonianza di libertà profetica».

Secondo il documento del collettivo di coordinamento, il vescovo accolse la richiesta: «Il vescovo ci ha rassicurati: da parte sua non verrà nessuna indicazione precisa perché non abbiamo “il partito ottimo”. La scelta partitica deve essere una scelta personale e senza prevenzione»114.

L’incontro tra il Collettivo di coordinamento di Favara e il vescovo Petralia non deve passare inosservato, perché, malgrado le difficoltà che si delineavano, ancora c’era spazio per un leale e sereno confronto, tale da ricomporre una comunione ecclesiale, ma questa, data la circostanza culturale e storica del momento, doveva passare attraverso la li-

112) Y. CONGAR, Le concile au jour le jour, Paris, 1965, 143. 113) C. MOLARI, Liberazione, cit., 79. 114) COLLETTIVO DEL CARMINE DI FAVARA, A confronto, cit., 2.

82


bertà di voto nelle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento nazionale. Per la comunità ecclesiale di Favara, dunque, la libertà di voto era un punto cardine e irrinunciabile a costo da mettere in discussione la stessa comunione con il vescovo. In concomitanza al documento del Collettivo di coordinamento di Favara L’Amico del Popolo, diretto da Di Giovanna, pubblicò una serie di articoli, in prossimità delle elezioni politiche del 1972, in cui, oltre a non esprimere appoggio nei confronti della Democrazia Cristiana, si appellava alla coscienza responsabile di ogni elettore nell’esprimere il voto politico, citando Gaudium et spes n. 75. Nell’editoriale, con molta probabilità scritto da Di Giovanna, si faceva ampio riferimento alla demagogia dei deputati che non realizzavano i progetti che promettevano per lo sviluppo delle zone depresse115. Anche don Luigi Sferrazza, qualche settimana prima del voto politico, intervenne invitando gli elettori a non dare ascolto ai politici, che non avevano saputo mantenere gli impegni assunti e guardavano solo alla gestione del potere. Anche qui, pur non avendo dato un’indicazione partitica del voto, l’articolista assumeva una posizione critica nei confronti del potere politico espresso dalla Democrazia Cristiana116. Le elezioni politiche del ’72 segnarono l’avanzata elettorale del Movimento Sociale Italiano, che raccolse il malumore diffuso nell’elettorato moderato, e che era stata considerata dal settimanale diocesano nelle previsioni come una sciagura per il Paese: «Sarebbe certamente una grave sciagura per il Paese un successo anche modesto delle destre: questo, da una parte comporterebbe una insopportabile radicalizzazione dello scontro politico e dall’altra parte favorirebbe tutte le avventure più spregiudicate giocate sulle nostre teste e sulle nostre deboli istituzioni repubblicane»117.

115) Cfr. Quelli che stanno sopra nascono dai nostri disordini, in A.d.P., 16-4-1972, 1. 116) Cfr. L.S., Responsabilità e democrazia, in A.d.P., 7-5-1972, 1. 117) G.G., Elezioni del coraggio, in A.d.P , 7-5-1972.

83


Non indicava apertamene agli elettori di votare a favore delle sinistre per un semplice tatticismo: «Fughe troppo avanti a sinistra non sono certo percorribili in questo momento: potrebbero diventare deleterie e, se radicalizzate, costituire di fatto un pericolo di arretramento per tutto il movimento popolare»118.

Era il massimo che poteva esprimere il gruppo redazionale del settimanale diocesano, diretto da Di Giovanna, nella consultazione elettorale del 1972119, anche se la pubblicazione dell’articolo di Rossi, preso dalla rivista Settimana del clero, e l’intervista all’abate dom Franzoni furono un invito a sostenere i partiti di sinistra e a ribadire la pluralità di voto per i cattolici. L’articolo di Leandro Rossi rifiutava qualsiasi forma di “neutralismo politico” e di qualunquismo da parte del cristiano, per un verso, e affermava la predilezione per gli sfruttati, per altro verso. Tuttavia l’aspetto più rilevante dell’articolo di Leandro Rossi, apparso volutamente sul settimanale diocesano, era il diritto al pluralismo nelle scelte politiche che trovava, secondo Rossi, fondamento nella stessa Octogesima adveniens (n. 25 e n. 50) di Paolo VI e nel discorso dello stesso pontefice pubblicato da L’Osservatore Romano il 9 aprile 1972. A proposito scriveva Rossi: «Tale pluralismo politico anche per il cattolico non è negato dalla situazione italiana, anche ammesso che la conclamata unità dei cattolici nostrani fosse legittima, perché sarebbe relativa a una

118) L.c. 119) In occasione delle elezioni politiche del 1972 in Sicilia ad Agrigento si consumò il fallimento dell’esperienza disastrosa dell’MPL (Movimento Politico dei Lavoratori) originata dalla scelta socialista delle Acli di Livio Labor. Ad Agrigento un nucleo vivace di giovanissimi aclisti sviluppò rapporti di collaborazione e di condivisione di iniziative con i gruppi delle comunità di base. Il movimento politico si sviluppò in modo particolare oltre che ad Agrigento e Favara, anche a Canicattì, Sciacca, Castrofilippo. L’MPL non fece storia, ma i gruppi di base, dopo l’esperienza politica negativa del ‘72 ripresero con maggiore forza e lucidità la propria esperienza.

84


situazione eccezionale, per cui non potrebbe costituire la norma. Va ritenuto essenziale il pluralismo in politica, la quale è appunto il luogo specifico delle varie opzioni»120.

L’enciclica di Paolo VI Octogesima adveniens fu motivo di ampi dibattiti all’interno del mondo cattolico perché, pur rifiutando nel suo insieme le dottrine materialistiche e atee, aveva invitato ad una lettura più serena del socialismo facendo discernimento tra le varie forme presenti nei continenti poiché: «riconosceva indirettamente che non tutte le forme di socialismo derivavano le loro aspirazioni da ideologie inconciliabili con la fede»121.

Tale enciclica era divenuta un valido punto di riferimento da parte di quel clero popolare e battagliero, che, in essa, vedeva legittimato il pluralismo di scelta a favore di altri partiti, che lottavano contro il monopolio delle grandi industrie mondiali. Pertanto a livello politico questi preti avvertivano la novità del documento pontificio. Un’altra figura che incise parecchio nella realtà ecclesiale agrigentina fu certamente dom Giovanni Franzoni che spesso tenne in provincia conferenze alle quali partecipavano prevalentemente giovani di Azione Cattolica ed esponenti della sinistra. Il settimanale diocesano fino al 1974 pubblicò ampi servizi sulle lotte politiche condotte dall’abate Franzoni. Uno dei primi articoli lo troviamo nei primi di luglio del 1972, subito dopo le elezioni politiche che videro un’avanzata della destra, come era stato previsto, e un arretramento della Democrazia Cristiana che comunque rimaneva il partito centrale per la formazione dei governi. Dom Franzoni, nell’intervista rilasciata all’Agenzia SIS, e ripresa dal settimanale diocesano, indicava la scelta della lotta di classe a favore dei poveri sfruttati, come scelta motivata teologicamente:

120) L. ROSSI, Il vangelo esige l’impegno politico, in A.d.P., 25-6-1972, 5. 121) B. HARING, Liberi e fedeli in Cristo, voll. 3, Alba, 1982, 338.

85


«Da tempo i poveri si sono organizzati per non essere più poveri. Riconosciamo dunque che i lavoratori si sono organizzati in classe e lottano per non essere sfruttati. Ecco: la nostra comunità, come scelta teologica, ha scelto di essere con la classe operaia»122.

In ambito ecclesiale agrigentino, i settori più avanzati, influenzati anche dal pensiero di dom Franzoni, scelsero la lotta di classe per rivendicare i diritti degli sfruttati, dei poveri e degli emarginati, senza ricorrere tuttavia all’odio della vendetta, quanto meno a partire dal 1973, come si legge nel numero 1della rivista annuale Dai margini, edito dalla Comunità cristiana di base di Favara123: «La Chiesa sarà sempre più una nella misura in cui si impegnerà ad abolire le classi per la liberazione degli emarginati e degli sfruttati. L’accettazione del fatto della lotta di classe non sarà una scelta discriminatoria che vuole l’odio di una categoria di uomini, ma la scelta della via che ci permette di realizzare le condizioni essenziali per una vera fraternità universale»124.

Dobbiamo rilevare che il modello di lotta di classe era un fatto completamente nuovo nella vita della Chiesa, e non corrispondeva al pensiero cristiano impegnato nel sociale. L’insegnamento della Chiesa, pur

122) F. MINORI, Mentendo diranno di voi ogni male, in A.d.P, 2-7-1972, 1. 123) Alcuni mesi prima (ottobre 1972) della pubblicazione del nuovo Piano Pastorale (primavera 1973) con la costituzione della nuova parrocchia nella periferia informe di nord/est. Antonio Morreale, nominato parroco della nuova parrocchia, povera, senza Chiesa, con locali degradati adibiti a scuola materna, aveva chiesto a Luigi Sferrazza, formalmente vice-parroco del Carmine ed in forze all’Ufficio Catechistico Diocesano, di accettare la sfida di una esperienza di base in un quartiere emarginato e difficile di Favara, assumendosi, nel contempo la responsabilità della gestione della amministrazione della parrocchia. In questa nuova esperienza fu coinvolto una parte considerevole del gruppo giovanile del Carmine. Nella Comunità di via Agrigento la celebrazione settimanale della eucaristia diventò un appuntamento frequentato sempre più non solo dalla gente del quartiere, ma anche da molte persone, specialmente giovani, che venivano da tutte le parti di Favara e spesso da diversi comuni della provincia. La prassi di vita della comunità di Favara, le riflessioni, i documenti esprimono lo sforzo di chi si confronta con la religiosità tradizionale ma per superarla. 124) L’argomento sarà ripreso in Scelta 30 – 3- 1975.

86


sottolineando la necessità di migliorare le condizioni di vita delle classi povere e subalterne, non metteva in discussione il diritto alla proprietà privata. Era sull’uso di questo diritto che l’insegnamento poneva particolare attenzione, che non doveva essere arbitrario, a proprio piacere del proprietario, ma che doveva avere una funzione sociale, cioè a beneficio di tutti. La quasi contemporanea pubblicazione del documento dell’episcopato francese Per una pratica cristiana della politica fu accolta con entusiasmo dal settimanale diocesano, poiché affermava quanto alcuni settori ecclesiali agrigentini da almeno due anni sostenevano: unità nella fede e pluralismo nelle scelte politiche, cioè nelle cose opinabili, come anche Petralia, pur in linea di principio, sosteneva. Il settimanale, commentando il documento dei vescovi d’oltralpe, affermava: «Nel documento il pluralismo delle opinioni politiche – quali esse siano - dei cristiani è praticamente non solo ineluttabile, ma necessario (…) Il documento definisce come un dovere della Chiesa condurre i credenti a superare, in nome della fede comune, le loro divergenze politiche, anche se tale sforzo può non essere coronato immediatamente da successo»125.

Dopo aver sottolineato il pluralismo politico presente nel documento dei vescovi, il settimanale riteneva che la scelta politica non era legata alla sola fede ma anche a fattori contingenti: «La scelta politica, si osserva, almeno se si superano le apparenze, non è abitualmente determinata dalla fede, ma anteriormente da fattori di origini diverse in cui le vicende personali, le influenze d’ogni sorta e la solidarietà, specie di classe, hanno una grande importanza»126.

125) Pluralismo delle scelte politiche, in A.d.P., 19-11-1972, 1. 126) L.c

87


Complessivamente l’episcopato francese aveva scelto l’impostazione dei due piani diversi di Maritain espressa negli anni trenta, e che aveva trovato accoglienza anche nella Gaudium et spes. La distinzione dei piani, proprio a partire dal 1972, diventerà il cavallo di battaglia dei più avanzati movimenti di apostolato laico in America latina, che chiederanno alla Chiesa di intervenire nel temporale solo attraverso la formazione della coscienza e non istituzionalmente, non attraverso un partito politico che la rappresentasse127. Il movimento Cristiani per il socialismo, che proprio a partire dal 1972 si diffonderà in America latina e in Europa, citerà continuamente nelle proprie pubblicazioni la posizione dell’episcopato francese, che era accolta anche da teologi come Y. Congar, A. Chavasse, G. Philips e K. Rahner128. Anche don Helder Camara diventò una figura di riferimento e un modello di vita sacerdotale per molti sacerdoti e laici impegnati nella vita ecclesiale. Il settimanale diocesano riportò un’intervista rilasciata a Giovanni Fallani per un giornale non menzionato, in cui il vescovo brasiliano parlava di sfruttamento, miseria e povertà dei popoli dell’America latina a causa della ricchezza sfrenata dei popoli sviluppati129. Se il gruppo redazionale del settimanale diocesano sosteneva la necessità di un pluralismo politico, ciò era dovuto al rapporto sofferto con la Democrazia Cristiana, riscontrabile anche in altre diocesi d’Italia, come si evince dal convegno di Gazzada, al quale parteciparono un centinaio tra direttori e redattori dei settimanali diocesani. In quella circostanza, per la prima volta, i settimanali diocesani sottoscrissero una ‘carta d’identità’ del rapporto tra settimanale diocesano e impegno politico. Dalle notizie in nostro possesso non sappiamo se il direttore de L’amico del Popolo, Di Giovanna, partecipò all’incontro di Gazzada. Tuttavia a suo dire, ma è da verificare, i direttori sancirono la fine del

127) Cfr. G.GUTIERREZ, Teologia della liberazione, Brescia, 1981, 65. Y. CONGAR, Sacerdozio e laicato, Brescia, 1975, cit. presa da G. GUTIERREZ, Teologia, cit., 63 nota 13. 128) Cfr. GUTIERREZ, Teologia, cit, 65. 129) Cfr. L’odio e l’ingiustizia non avranno l’ultima parola, in A.d.P., 19-11-1972,1.

88


collateralismo in forza della scelta religiosa sancita dal Concilio, fine che fu benevolmente salutata dallo stesso Di Giovanna: «Se si pensasse che a Gazzada i direttori e i redattori dei settimanali si sono riuniti per stabilire collateralismi con partiti o correnti di partito si sbaglierebbe di grosso. Non è questo il livello che compete alla stampa diocesana che ne è l’espressione»130.

Forte delle conclusioni di Gazzada, il settimanale diocesano nei suoi articoli propugnava un nuovo corso politico per i credenti, e auspicava che la stessa libertà di scelta, verso cui si avviavano i settimanali diocesani, venisse accolta favorevolmente anche in Agrigento. Nei primi di gennaio 1974 i gruppi di base ecclesiale presenti in diocesi in alcune parrocchie si diedero convegno a Favara131. Durante tale incontro emerse la necessità di vivere la fede nella dimensione sociale per la liberazione degli sfruttati: «I gruppi partono dalla chiara constatazione di una realtà di sfruttamento, di violenza mafiosa, speculazione e clientelismi, spinti da una rilettura del vangelo nelle sue istanze di liberazione integrale nella tensione di vivere in modo nuovo la fede, particolarmente nella prassi evangelica e all’interno dei movimenti storici di liberazione delle masse popolari. Metodologicamente i gruppi intendono seguire la via del pluralismo democratico»132.

130) Per una fisionomia politica del nostro giornale, in A.d.P., 1-7-1973,1. 131) Il convegno delle comunità di base dell’agrigentino, organizzato dalla comunità di base di via Agrigento a Favara il 3 e 4 gennaio 1974 vide la partecipazione anche della comunità giovanile del Carmine, del gruppo giovanile dell’Itria, sempre di Favara, della comunità di base di Castrofilippo, animata da Damiano Zambito, della comunità di base del quartiere San Giuseppe, della comunità di via nuova Favara e del gruppo di base di via Dante di Agrigento. 132) L. RUOPPOLO, Una provocazione che fa riflettere, in A.d.P., 20-1-1974,1 I gruppi di base dal punto di vista teologico si rifacevano alla teologia della liberazione in cui c’era una relazione con la prassi per la costruzione del regno di Dio, cfr. J.B. LIBANIO, La Teologia della liberazione nell’America latina, in Rassegna di Teologia, 5 (1998) 645-681.

89


Dal convegno venne anche una spinta per la comprensione del ruolo della comunità ecclesiale in riferimento alla liberazione degli sfruttati, e pertanto essa doveva: «riscoprire il messaggio evangelico, recuperando la sua carica rivoluzionaria, togliendolo dalle mani di coloro che se ne sono serviti per opprimere e sfruttare gli altri, presentare il messaggio nella sua nudità al popolo, affinché lo sappia accogliere e tradurre storicamente, cioè uscendo dal suo stato di oppressione»133.

Quale scelta politica i gruppi di base propugnavano? «Le scelte politiche espresse dai gruppi sono nella direzione di una scelta dei poveri, una scelta che non comporta l’odio per l’uomo ricco (il quale non è certo neanche lui in una situazione di liberazione) ma per la ricchezza di pochi dovuta ad un sistema politico sbagliato che dà ad alcuni la libertà di ingrassarsi e ad altri di morire di fame»134.

Evento di rilievo del 1974 fu certamente il referendum sul divorzio che divise e segnò profondamente gli italiani e i partiti che facevano parte della maggioranza di governo. Quasi trent’anni dopo il referendum sulla monarchia, dunque un altro referendum segnò la vita del Paese, con uno scenario sociale, culturale e politico completamente diverso. Il referendum sul divorzio fece emergere il nuovo clima culturale secolarizzato in Italia, che era passata da una cultura prevalentemente rurale, in cui si conservavano gelosamente determinati valori, come l’unità della famiglia, ad una cultura industriale e urbana. I processi di secolarizzazione della società influirono anche nell’ambiente ecclesiale che non era più omogeneo e compatto come qualche decennio prima, a tal punto che sul referendum in questione si pre-

133) L.c. 134) L.c.

90


sentò diviso e influì sull’esito. Le divisioni che si registrarono a livello nazionale si presentarono anche nella diocesi agrigentina. Lo stesso direttore Di Giovanna che negli anni precedenti, soprattutto quando i socialisti e i liberali, tramite l’on. Fortuna, raccoglievano consensi per portare in Parlamento il disegno di legge a favore del divorzio, si era dimostrato paladino dell’unità del matrimonio e della famiglia, a partire dal gennaio 1974 assunse una posizione completamente diversa. Infatti, sul giornale diocesano pubblicò l’articolo di Enzo Mulè, il quale, pur essendo apparentemente equilibrato, di fatto invitava gli elettori a scegliere a favore del divorzio135. Egli, pur pubblicando nei mesi successivi gli interventi di Petralia, cercò di limitarne l’incidenza tra i lettori. Petralia in un suo articolo, dopo aver attribuito la responsabilità del referendum alla Lega Italiana Divorzio, che aveva riproposto i vecchi steccati del dopoguerra, si appellava al Concordato per rivendicare il diritto della Chiesa di esprimere pubblicamente le proprie posizioni in qualsiasi ambito della vita sociale. Il direttore Di Giovanna, commentando l’intervento del vescovo, invitava i cattolici e tutti i lettori a non assumere atteggiamenti da crociata, ma tale invito fu considerato come una silenziosa ritirata opposta alla posizione del vescovo Petralia, che era l’editore del settimanale. Di Giovanna, consapevole di non poter apertamente sostenere una scelta a favore del divorzio dalle colonne del settimanale, scelse, col suo gruppo redazionale, l’appello alla coscienza degli elettori, prima con un ampio servizio di Felice Viscosi che raccolse una serie di testimonianze autorevoli che dinanzi al problema del referendum si appellavano alla libertà di coscienza, cosa che non facevano i sostenitori della Lega Italiana Divorzio136, e dopo con un suo diretto intervento in cui ribadiva: «Ogni demiurga esterna è manipolazione. Quando non si lascia maturare quel ‘nucleo più segreto’ dell’uomo, quando si condi-

135) Cfr. E. MULÈ, Prova di democrazia non confronto di forze, in A.d.P., 27-1-1974, 1. 136) Cfr. F. VISCOSI, Viaggio attraverso la coscienza, in A.d.P., 31-3-1974, 4.

91


ziona nella sua decisione quel ‘sacrario’ con la scusa o con la pretesa di illuminarlo, quando si nega l’accreditamento della sua autonomia persino nel campo dell’opinabile in quel momento, anche se ipocritamente si fa ‘appello alla coscienza’, si attenta all’uomo»137.

Infine pubblicò il documento congiunto della comunità cristiana del quartiere via Agrigento di Favara, della comunità giovanile del Carmine di Favara, della comunità di base dei quartiere San Giuseppe di Agrigento e del gruppo di base via Dante sempre di Agrigento in cui esse si dichiaravano apertamente a favore del divorzio e s’impegnavano: «a difendere il senso democratico e progressista di una legge (quella Fortuna-Baslini) che, mentre afferma la piena laicità dello Stato, dà ad ognuno, almeno sul piano giuridico, la possibilità di scelte libere e responsabili»138.

Petralia nei confronti di tale documento rispose con l’articolo Deviazioni in cui evidenziò gli errori dottrinali sulla natura indissolubile del matrimonio considerato sul piano sacramentale e sul piano della legge naturale: «Il matrimonio è di sua natura indissolubile non soltanto come sacramento, ma anche come istituto naturale. Esprimersi a favore del mantenimento del divorzio “sostenendo che l’unità familiare deve essere fondata sull’amore reciproco e responsabile e non può essere mantenuta sulla base di una convivenza forzata” e ancor più esplicitamente, “che la proposta evangelica dell’amore non possa esser fatta coincidere con l’istituto giuridico dell’indissolubilità” è negazione di una verità chiaramente rivelata da Cristo e riaffermata, a nome di Cristo, da san Paolo (cfr Mt.19,3-

137) ADIGI, L’appello alla coscienza, in A.d.P., 31-3-1974,1. 138) Il documento firmato dalle citate comunità si trova in A.d.P., 7-4-1974, 4.

92


9; Mc. 10,2-10; Lc.16,18; 1Cor.7,10-11). Cristo si appella ad un diritto divino originario e lo ratifica con la sua autorità di legislatore della Legge Nuova. San Paolo è, a sua volta, perentorio: “quando alle persone sposate, ordino, non io ma il Signore, che la moglie non si separi da marito. Che se già si è separata, non riprenda marito ovvero si riconcilii col suo sposo. E che il marito non ripudii la moglie”. Si tratta quindi – scriveva Petralia – di istituzione divina: “Ordino, non io, ma il Signore”, non già di un mero ordinamento giuridico. Dobbiamo affermare con amarezza che, se dei sacerdoti hanno avallato le proposizioni citate (vedi “La Sicilia” 31 marzo 1974) essi hanno almeno ingenerato delle gravi confusioni in materia di fede».139

A differenza del direttore Di Giovanna e delle comunità sopra elencate, per Petralia il matrimonio non era un argomento opinabile per il quale la coscienza libera del cattolico poteva liberamente decidere, ma un argomento che riguardava la dottrina della fede cristiana in quanto tale. La comunità cristiana di base di via Agrigento di Favara rispose all’articolo di Petralia, Deviazioni, con l’intento di approfondire meglio la riflessione sul matrimonio e divorzio, precisando, fin dalle prime battute che, in questa riflessione, i due sacerdoti Morreale e Sferrazza non erano coinvolti per non infrangere le direttive del vescovo, che formalmente – essa diceva – li aveva invitati a tacere sulla questione del divorzio140. Dopo aver evidenziato che, in forza del Decreto conciliare sull’apostolato dei laici n. 3, era compito dei laici assumersi delle responsabilità, la comunità cristiana precisava quanto aveva commentato Petralia riportando alcune espressioni particolari dei cattolici del dissenso:

139) G. PETRALIA, Deviazioni, in A.d.P., 7-4-1974, 1. 140) A me sembra, leggendo il documento, che, invece, sia stato scritto proprio dai sacerdoti.

93


«Non ci sembra di essere equivoci e di fare affermazioni incompatibili con le nostre scelte cristiane quando affermiamo che “una unità familiare, che deve essere fondata sull’amore reciproco e responsabile, non può essere mantenuta sulla base di una convivenza legale e forzata e quindi su una unità soltanto formale e ipocrita”. Pensiamo, infatti, che la proposta evangelica dell’indissolubilità va molto al di là di un legalismo di tipo farisaico per diventare un gesto profetico che annuncia il “nuovo regno”. Del resto pensiamo che il messaggio di Gesù sul sacramento trova il suo fondamento nel precetto dell’amore di Dio e del prossimo (Mt. 22, 36-40); e nessuno mai si è sognato di imporre tale precetto con norme legali. Quando poi diciamo che “la proposta evangelica dell’amore non possa essere fatta coincidere con l’istituto giuridico dell’indissolubilità” intendiamo affermare il primato della fede sulla legge (Rom. Capitoli 4 e 5). Le prescrizioni legali riguardanti il matrimonio non possono, per quanto perfette, essere espressione del progetto primordiale di Dio circa l’unione dell’uomo e della donna. Ora, in un ambiente socio – religioso in cui si è battezzati senza decisione personale e ci si sposa “davanti a Dio e alla Chiesa” non per decisione di fede ma per solo “andazzo sociale”, dove è la fede? La legge, per esempio, definisce un matrimonio legalmente valido, e quindi anche sacramento se è “rato e consumato”. Ma cosa significa “consumato”? Significa forse “prima unione sessuale dei coniugi»? A noi sembra piuttosto che a fare esistere il matrimonio come definitiva condizione cristiana di vita non è una singola deliberazione localizzabile in un particolare momento; ma è una vicenda molto più complessa e attraverso la quale viene progressivamente maturando una piena e perfetta decisione (una decisione “consumata“) di vivere nel matrimonio come propria vocazione alla carità… La consumazione del matrimonio è piuttosto il punto di arrivo di

94


un breve periodo di convivenza nel corso del quale la decisione matrimoniale è andata crescendo via via che si faceva pieno e significativo quell’accordo sessuale in cui essa doveva, per così dire, verificarsi»141.

Preoccupata di un vantaggio elettorale della destra sull’esito referendario, la comunità cristiana di base rilevava: «Facciamo notare, inoltre, come al comunicato stampa dei gruppi di base si è pervenuti dopo un’analisi della situazione politica generale in cui abbiamo constatato che il referendum è oggi un’arma di ricatto nelle mani della destra, puntata contro gli interessi delle massi popolari. Per cui non possiamo limitarci ad affrontare il discorso esclusivamente in termini religiosi (su cui del resto c’è molto da chiarire – come abbiamo visto); ma è necessario porci in una prospettiva più vasta di valutazione politica che del resto, come cristiani, non siamo i primi a fare (cfr Comunicato del Consiglio Pastorale di Ivrea e dichiarazioni del Vescovo di Crotone). Pertanto siamo convinti che quando le autorità ecclesiastiche vogliono imporre alla coscienza del cristiano un atteggiamento antidivorzista appellandosi esclusivamente a motivi di fede, anche inconsapevolmente fanno il gioco di chi vuole strumentalizzare una scelta di fede per loschi fini politici»142.

Alla vigilia della consultazione referendaria i Cattolici Democratici della Diocesi di Agrigento pubblicarono un giornale di quattro pagine, Per non avere rimossi, in cui venivano riportati ampi servizi a favore del divorzio143. Tra gli articoli più significativi troviamo La tua coscienza è libera, in cui appellandosi al Concilio Vaticano II° ricordavano la libertà di scelta sancita dalla stessa Chiesa:

141) COMUNITÀ CRISTIANA DI BASE DI FAVARA, Dai margini, 11 – 4 – 1974, 11. 142) Ibidem, 12. 143) A mio avviso, questi cattolici democratici erano gli stessi che facevano parte al gruppo del dissenso.

95


«Da quando il Concilio Vaticano II ha emanato la Dichiarazione sulla libertà religiosa “Dignitatis humanae” fino ai nostri giorni, non si era presentata ancora alcuna occasione che avesse chiamato la Chiesa a tener fede a quegli impegni assunti in modo così solenne in difesa della coscienza umana. Finalmente per la Chiesa italiana è arrivata l’ora della verità! La Chiesa come comunità di fede aperta al mondo cui deve portare il messaggio di salvezza di Gesù, rende la sua testimonianza e predica la Parola nello spirito di libertà che Cristo ci ha portato e non costringe nessuno ad emettere un atto di fede che non sia scelta consapevole e libera dell’uomo che totalmente aderisce a Dio»144.

Dopo aver citato a chiare lettere la parte centrale del documento conciliare in cui si afferma che “in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza”, i cattolici democratici riconoscevano che «Il pluralismo delle scelte ne è perciò la logica conseguenza e l’accettazione reciproca nella carità è il comportamento naturale di colui che aderendo a Dio vive nel mondo degli uomini per realizzarvi il messaggio di Gesù»145.

Certamente l’articolo più rilevante del numero unico era Tra fedeltà e indissolubilità, in cui i cattolici democratici ricordavano chi aveva provocato e con quali scopi il referendum, nonché la giusta comprensione del termine “sacramento”, particolarmente menzionato, e, infine, l’impossibilità di salvaguardare l’istituto matrimoniale soltanto dal punto di vista giuridico. Facendo ampi riferimenti alla Sacra Scrittura, i cattolici democra-

144) I Cattolici Democratici della Diocesi di Agrigento, La tua coscienza è libera, in Per no avere rimorsi, numero unico, Agrigento 10 maggio 1974, 1. 145) L.c.

96


tici rilevano che il comando di Gesù, e cioè che l’uomo non divida ciò che Dio ha unito, non è giuridico ma spirituale: «Il radicalismo di Gesù è completo e assoluto, ma sia ben chiaro che resta non giuridico, ma spirituale e che colpisce non solo quello che oggi chiamiamo l’istituto giuridico del divorzio, ma anche quello della separazione legale, come pure ogni ottura dell’amore che trasformi la convivenza coniugale in un puro vincolo formale»146.

Votare a favore del SI, cioè a favore dell’abrogazione della legge sul divorzio vigente in Italia, da appena alcuni anni, era una forma di ipocrisia da parte dei cristiani, perché il vincolo legale del matrimonio non lo avrebbe salvato: «A cosa sono chiamati allora i Cristiani per vivere il matrimonio come “annuncio evangelico” e “segno dell’alleanza”? La risposta non può essere se non semplice e chiara: a vivere il matrimonio nella dimensione di quella fedeltà assoluta che è capace di superare le difficoltà. Non sarà allora la legge sull’indissolubilità a salvare la “dignità” del “sacramento”. La fedeltà a cui richiama Gesù è certamente al di sopra dell’indissolubilità. Un SI segnato sulla scheda può essere allora espressione di quella ipocrisia che per troppo tempo ha portato noi cristiani a salvare le apparenze ma a lasciare marcia la sostanza. Una scelta di libertà può invece essere per noi cristiani stimolo ad impegnarci a salvare la famiglia non sul piano legalistico e burocratico ma su quello pratico ed operativo. Sul piano della vita concreta»147.

146) L.c. 147) L.c.

97


Alla base dello scontro tra Petralia e le comunità firmatarie del documento148 c’era un modo diverso di concepire il sacramento del matrimonio, e questo modo diverso causò l’incomprensione e la spaccatura all’interno della comunità ecclesiale nonché un approccio diverso al divorzio. Per le comunità firmatarie l’indissolubilità del matrimonio vigeva fino a quando all’interno della coppia esisteva l’amore. E questo amore non poteva coincidere con l’istituto giuridico dell’indissolubilità149 mentre per Petralia il matrimonio, anche sul piano giuridico, rimaneva indissolubile150. Egli ordinava alle parrocchie che in tutte le celebrazioni delle sante messe venissero letti la Notificazione della Conferenza Episcopale Italiana del 21 febbraio 1974 e il Comunicato dei vescovi siciliani del 18

148) Ricordo che quel documento fu firmato dalle seguenti comunità ecclesiali: comunità cristiana del quartiere ‘via Agrigento’ di Favara; comunità giovanile del Carmine di Favara; comunità di base del quartiere San Giuseppe di Agrigento e del gruppo di base ‘via Dante’ sempre di Agrigento. Bisogna ricordare, inoltre, che in linea di massima erano gli stessi appartenenti alle sopra citate comunità che firmavano altri documenti e volantini. 149) Cfr. Documento delle comunità, in A.d.P., 7-4-1974, 4. 150) Per comprendere il clima delicato che si venne a creare, riporto la testimonianza che recentemente (agosto 2002) mi ha riferito Luigi Sferrazza: “Ricordo che il motivo di contrasto con la Curia e con il Vescovo cominciarono un sabato di febbraio 1974, alcune ore prima di un convegno organizzato a Palma di Montechiaro da un gruppo di giovani di sinistra animato da Rosario Gallo. Prima dell’incontro ricevetti una fitta serie di ripetute telefonate, dall’arciprete Castellino di Palma Montechiaro prima, poi da mons. Angelo Noto, Vicario Generale e da don Lucio Li Gregni, mio diretto superiore all’Ufficio Catechistico Diocesano. L’insistenza della pressioni mi convinse della opportunità di partecipare all’incontro a cui non avevo dato alcuna importanza. Dopo le pressioni della Curia, un gruppo consistente della comunità e lo stesso Antonio Morreale decisero di venire con me a Palma di Montechiaro. Di quell’incontro, poco partecipato a cui sono intervenuti, oltre me, l’On. Pancamo (PCI), l’avv. Marchese (PSI) ed Antonio Morreale, svoltosi in un garage, con la partecipazione di poca gente seduta in banchi sgangherati, parlarono i giornali nazionali che però misero in risalto solo il mio intervento. Dopo quell’incontro e dopo le iniziative esplicite della comunità di base di Favara e le iniziative editoriali de L’amico del popolo a cui partecipavamo, il vescovo invitò verbalmente me ed Antonio Morreale a non intervenire pubblicamente sul tema del divorzio. Immediatamente dopo l’appuntamento del referendum il Vescovo mi chiese, attraverso mio fratello Antonio, parroco del Carmine, un esplicito atto pubblico di comunione e fedeltà al vescovo al fine di evitare decisioni spiacevoli oltre che l’allontanamento dall’Ufficio Catechistico della Curia. Il documento di adesione alla comunione del vescovo da me stilato non piacque a Petralia che però si limitò a trasferirmi dal Liceo Classico Empedocle di Agrigento all’Istituto Professionale di Villaseta per insegnare Religione Cattolica, con il tentativo di “isolarmi” dal capoluogo”.

98


marzo 1974 in cui si sottolineava il valore sacramentale e indissolubile del matrimonio, anche come istituto naturale151. La posizione divergente assunta dal settimanale diocesano, in contrasto con la linea del vescovo, fu portata dallo stesso Petralia in sede di consiglio presbiterale affinché si discutesse sulle misure da prendere. Nella seduta del consiglio presbiterale, Petralia riferì sulla linea sociopolitica assunta dal settimanale diocesano e sull’appoggio espresso verso un determinato partito che propugnava un’ideologia non accettabile dalla Chiesa, pertanto invitò il consiglio ad aggiornare la seduta in modo da poter discutere su un documento (dal vescovo stesso preparato) che, per la richiesta del can. Scicolone, doveva essere preso in esame anche dai vicariati zonali152. Nella seduta del 29 maggio 1974, alla presenza del gruppo redazionale, diretto da Di Giovanna e composto da Cardella, Agnone, Grassadonio, Ruoppolo, Romeo e Gaglio, il consiglio presbiterale dava lettura del documento approvato con il quale si precisava: «Nel settimanale ci deve essere un pluralismo di idee ma sempre nella corresponsabilità con il vescovo (…) Il vescovo rispetta le opinioni degli altri purchè la discussione si mantenga dentro l’ortodossia. È necessaria l’unità della fede, della dottrina e della prassi Pastorale. Il vescovo nel settimanale deve essere considerato più che un ospite; egli è colui che verifica, coordina e guida la comunità diocesana, di cui è voce il settimanale; e non è utile per nessuno che quanto viene detto dal vescovo, o nel settimanale o in altre pubblicazioni, venga contestato e la contestazione provenga dallo stesso gruppo redazionale, perché non si crei confusione nella mente dei lettori»153.

151) Cfr. G. PETRALIA, Deviazioni, cit.; ID., Disposizioni del Vescovo per domenica 12 maggio, in A.d.P., 7-4-1974, 4. 152) Cfr. Consiglio presbiterale, in B.E.A., 67, 1974, 163. 153) Ibidem, 164.

99


Il massimo che Petralia poteva concedere, dunque, era un pluralismo di idee ma che non uscisse dall’ortodossia, intesa come ortodossia di fede. E qui che sta il nocciolo del problema: mentre per Petralia la scelta politica rientrava a pieno titolo nell’ambito dell’ortodossia, facendo uno stretto legame tra fede e politica, per il gruppo redazionale e le comunità di base il pluralismo di idee era rivolto alle scelte politiche, scelte non necessariamente legate alla fede. In altri termini, mentre essi acconsentivano ad una impossibilità di opinioni diverse su questioni di fede, queste opinioni diverse potevano, in forza di un pluralismo su ciò che era opinabile, avere cittadinanza in campo politico. Come notiamo tra il vescovo e le comunità di base e il gruppo redazionale c’era un modo completamente diverso di intendere il rapporto tra fede e politica. Si partiva da presupposti completamente diversi, per giungere a conclusioni anche diverse. La redazione del settimanale accolse il documento proposto dal consiglio presbiterale e confermò la devozione al vescovo e l’accettazione piena delle linee programmatiche154. Alla richiesta da parte di qualcuno155 se il settimanale doveva seguire una linea politica, Petralia rispondeva che esso non doveva seguire nessuna ideologia ma solo il vangelo: «Il vangelo ha una sostanza sua propria, e i principi di uguaglianza, giustizia, dignità della persona umana, carità ecc, hanno una forza talmente prorompente che non hanno bisogno di appoggiarsi a qualsiasi ideologia o partito politico»156.

La vittoria elettorale dei sostenitori del divorzio, anche nella provincia agrigentina, scosse sensibilmente la comunità diocesana che aveva sperato, anche con il sostegno a tutto campo della Democrazia Cristiana guidata da Amintore Fanfani, in un’affermazione dei principi

154) Cfr. Consiglio presbiterale del 29 maggio 1974, in B.E.A, 67, 1974, 164. 155) Non è specificato di chi si tratta nel verbale pubblicato. 156) Consiglio presbiterale del 29 maggio 1974, in B.E.A., 67, 1974, 164.

100


cristiani sul matrimonio. All’indomani di questa vittoria i rapporti tra il gruppo redazionale del settimanale diocesano e il vescovo si deteriorarono ulteriormente tanto che Petralia, sostenuto dall’ala intransigente del clero, alla ripresa delle pubblicazioni nel mese di settembre, decise di licenziare il direttore Di Giovanna e di assumere personalmente la guida del settimanale diocesano, perché L’Amico del Popolo, sotto la direzione di Di Giovanna, non si poteva più considerare un settimanale cattolico, in quanto mancava dei requisiti che lo qualificassero come tale, che erano: 1) seguire le mete diocesane, 2) coinvolgimento dei laici, 3) dialogo al di sopra delle ideologie, 4) obbedienza alla gerarchia, 5) fedeltà al vescovo157. Al licenziamento del direttore seguirono le dimissioni in massa di tutti i componenti della redazione. E nell’articolo di fondo, scritto probabilmente dallo stesso Petralia, si contestava alla direzione licenziata il progressivo deteriorarsi dei contenuti e degli atteggiamenti del settimanale: «Esso andava slittando verso forme di orizzontalismo e di sinistrismo: forme che non vanno confuse con la promozione dello sviluppo socio-economico culturale della nostra poverissima provincia»158.

Il licenziamento del direttore del settimanale don Alfonso Di Giovanna insieme a tutto il gruppo redazionale segnò una grave frattura all’interno della comunità ecclesiale con gravi conseguenze poiché le posizioni si mantennero distanti e non riuscirono più a trovare punti di contatto per un possibile dialogo159. Una certa stampa di sinistra prese

157) Cfr. A servizio della verità, in A.d.P., 15-9-1974, 1. Il licenziamento del direttore don Alfonso Di Giovanna e l’assunzione della direzione da parte del vescovo sarà considerata da Domenico De Gregorio come l’opera di salvataggio del settimanale diocesano: cfr. D. DE GREGORIO, Il salvataggio, in A.d.P., 23 luglio 2000, 16. 158) L.c. 159) Don Gerlando Lentini commentò il licenziamento di Di Giovanna come atto dovuto da parte del vescovo dal momento in cui egli non seguiva le indicazioni del vescovo in quanto espressione della Chiesa locale. Tuttavia riconosceva in Alfonso Di Giovanna una delle ‘forze vive e operanti della Chiesa’, Cfr. G. Lentini, L’Amico del Popolo è morto?, in La via, ottobre 1974, 1-3.

101


di mira il vescovo Petralia tacciandolo come conservatore a tal punto che i vescovi siciliani riuniti a Bagheria nei giorni 8-10 ottobre 1974, sentirono il bisogno di esprimere solidarietà al vescovo agrigentino tramite il presidente della stessa Conferenza Episcopale Siciliana il card. Pappalardo: «Dalle notizie che si aveva avuto modo di apprendere da fogli di stampa e dalle informazioni ulteriormente fornite da Vostra Eccellenza emerge l’obiettiva delicatezza di una situazione che, ad evitare pericolose confusioni e possibili disorientamenti, andava necessariamente anche se dolorosamente chiarita»160.

160 S. PAPPALARDO, Solidarietà dell’Episcopato Siciliano, in A.d.P., 10-11-1974, 1.

102


Il confronto politico nel biennio 1975-76 tra le pagine de L’Amico del Popolo

Dopo il licenziamento di Di Giovanna, il vescovo Petralia assunse personalmente la direzione del settimanale diocesano fino a quando non affidò l’incarico ad un nuovo direttore, mons. Domenico De Gregorio, che dal punto di vista teologico, ecclesiale, spirituale e politico seguirà fedelmente le direttive della Chiesa, in un periodo estremamente difficile e pieno di lacerazioni. Il biennio 1975-76 fu particolarmente carico di tensioni in Italia poiché in qualunque settore della vita sociale si temeva un’avanzata del Partito Comunista Italiano e un calo della Democrazia Cristiana, nelle imminenti competizioni elettorali, per due motivi che avevano scosso l’opinione pubblica nazionale e avevano alimentato un certo malumore nei confronti dei partiti di Governo: l’accentuarsi dell’inflazione, che stava divorando il valore dei salari e degli stipendi, e l’ordine pubblico. Nella competizione elettorale del 1972, per il rinnovo del Parlamento, l’elettorato aveva espresso il proprio disappunto avendo dato un forte sostegno al Movimento Sociale Italiano, che però concretamente aveva fatto ben poco considerata la scarsa incidenza nella vita del Paese. A partire dal 1975 l’elettorato cercava una svolta politica, e pertanto mirava a premiare il partito che maggiormente aveva fatto sentire la propria opposizione in Parlamento e nelle piazze: il Partito Comunista Italiano. Anche in campo ecclesiale, almeno dopo il 1972, si era convinti che la tanto auspicata unità politica dei cattolici era divenuta un lontano ricordo malgrado gli autorevoli interventi dei vescovi. La fuga elettorale dei cattolici era orientata verso il Partito Comunista Italiano, soprattutto da parte di quei settori molto vivaci e di quelle parrocchie dirette da parroci che si erano abbondantemente nutriti della teologia della liberazione proveniente dall’America latina, e che avevano assunto come modello di riferimento spirituale Camillo Torres. 103


I vescovi erano preoccupati di questo disorientamento che si ripercuoteva anche nella vita ecclesiale poiché, in molte diocesi italiane, essi erano divenuti il bersaglio del malcontento diffuso tra i propri sacerdoti. Con l’inizio del 1975, e in vista delle elezioni amministrative di giugno, il settimanale diocesano L’Amico del Popolo, con il nuovo direttore, a causa di una temuta avanzata comunista, riprese i toni e gli argomenti apologetici usati ampiamente nel ’48, circa trent’anni prima, per esprimere un sostegno a tutto campo nei confronti della Democrazia Cristiana, considerata il partito baluardo nei confronti della minaccia del comunismo. Con la nuova direzione si esprimeva una valutazione completamente diversa sulla politica democristiana da quella espressa precedentemente da Di Giovanna e dal suo gruppo redazionale. Ad esempio, il settimanale definiva in modo positivo e ‘realistico e saggio’ il discorso del segretario della DC, Zaccagnini, alla direzione del partito, in cui rifiutava ogni compromesso storico con il PCI, tanto auspicato dal segretario comunista Enrico Berlinguer; rifiutava anche un ‘patto preferenziale’ con il PSI a danno dei partiti minori; sosteneva la necessità di una lotta alla criminalità e al malcostume; insisteva sullo sviluppo economico161. Se sotto la direzione di Di Giovanna il pluralismo politico propugnato dalle Acli aveva trovato ampio spazio, nel marzo del 1975 il settimanale, diretto dal vescovo, chiedeva agli aclisti di non perdere la propria identità, durante lo svolgimento del congresso provinciale162. Il vescovo Petralia affidò l’incarico della battaglia anticomunista e per la difesa della democrazia nel Paese ai monsignori Domenico De Gregorio e Francesco Baio, che dal giugno del ’75 in avanti riproposero, nei loro articoli, lo stile del periodo pacelliano, e chiusero qualsiasi dialogo con quei cattolici che transitavano verso il PCI ma che si consideravano cristiani e appartenenti alla comunità ecclesiale163. De

161) Cfr. Salvare la democrazia è interesse di tutti, in A.d.P., 9-2-1975, 1. 162) Cfr. Non perdere la propria identità, in A.d.P., 16-3-1975, 1. 163) Cfr. D. DE GREGORIO, Confidenze elettorali ,in A.d.P.,15-6-1975, 1; e F. BAIO, L’equivoco, in A.d.P., 15-6-1975, 8.

104


Gregorio, appellandosi al Concilio e alle encicliche pontificie, che sottolineavano la libertà e il rispetto della persona, invitava i cattolici a non votare i partiti che negavano il bene comune: «Alla luce di questi suggerimenti conciliari e pontifici la nostra scelta e il nostro voto non possono essere dubbi: quelle ideologie e quei partiti che negano il bene comune, come lo formula il Concilio Vaticano II, e la libertà che lo compone non possono ottenere il consenso, non solo dei cattolici, ma anche di tutti gli uomini che tengono alla dignità della persona umana e ne cercano il perfezionamento nella giustizia, nella verità e nella libertà. Il Partito Comunista che non solo nella ideologia, ma anche nella pratica di tanti decenni, e sotto tutte le latitudini, ha dato prova di calpestare sempre i diritti della persona e della libertà e gli altri partiti che ne seguono le idee come i socialisti che lo fiancheggiano e l’aiutano a conseguire il potere (salvo poi ad essere infallibilmente tra le prime vittime) non possono essere votati dai cittadini che amano, per sé e per gli altri, la libertà e vogliono il bene comune»164.

Il risultato elettorale premiò il Partito Comunista che raggiunse nelle amministrative di giugno il massimo consenso elettorale dal dopoguerra, e che gli permise di ottenere la maggioranza relativa in Comuni importanti come Roma. In ambito ecclesiale si fece un’accurata riflessione sulla sconfitta elettorale; anche nell’ambiente ecclesiale agrigentino si cercò di comprenderne i motivi, e L’Amico del Popolo, tramite Francesco Baio, ne addossò la responsabilità prevalentemente al correntismo democristiano che non aveva consentito una linea politica unitaria, pertanto auspicò la nascita di un nuovo partito, libero dalle correnti, aperto al pubblico e attento ai problemi della collettività165. L’auspicio di formare un nuovo partito che rac-

164) ID., Un voto per il bene comune, in A.d.P., 8-6-1975, 1. 165) F. BAIO, Ed ora?, in A.d.P., 29-6-1975, 1.

105


cogliesse il consenso unitario dei cattolici, come era avvenuto fino agli anni ’60, era presente a certi livelli. In realtà si proponeva un partito come braccio secolare della Chiesa, per riaffermare i principi del cristianesimo in una società che andava sempre più diventando eterogenea e multietnica. In questo modo, il pericolo ‘comunista’ e il desiderio di una disciplina per i cattolici, anche sulle cose opinabili, indusse una fascia del clero a riproporre un modello di rapporto Chiesa-Mondo più vicino alla Chiesa pacelliana che al Concilio Vaticano II. Prevalse, quindi, a partire dalle elezioni del giugno 1975, un modello di presenza di Chiesa nella società più difensivo che propositivo, e che ebbe i suoi effetti anche nelle scelte della Pastorale diocesana. La campagna anticomunista si fece più intensa soprattutto a partire dagli inizi del 1976 poiché con un anno d’anticipo il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, dopo aver constatato l’impossibilità della formazione di un nuovo governo, a causa delle diatribe interne al partito socialista, ricorse allo scioglimento del Parlamento e indisse le elezioni anticipate che si svolsero sotto la paura del sorpasso del Partito Comunista, il quale, dopo il trionfo elettorale per le amministrative del ’75, puntava ad ottenere la maggioranza relativa in Parlamento. In ambito ecclesiale diocesano il settimanale L’Amico del Popolo pubblicò una serie di articoli contro il pericolo comunista con un linguaggio mai prima conosciuto se non nel periodo prossimo alle elezioni del 18 aprile del 1948, superando di gran lunga le dichiarazioni e gli orientamenti della Conferenza Episcopale Italiana, che pur ferma nei contenuti (non votare i partiti marxisti) non usava toni da crociata, come si evince dalla Dichiarazione del Consiglio Permanente della CEI pubblicato con ampio risalto dal settimanale diocesano: «Fra tali sistemi, sono certamente da annoverare quelli che si ispirano a ideologie totalitarie, radicali o laiciste e quelli che professano una visione materialistica e atea della vita (…) Non si può essere simultaneamente cristiani e marxisti. È l’ora, invece, della coerenza, della fedeltà e di quel responsabile discernimento

106


cristiano, che soprattutto nei momenti più impegnativi deve misurarsi nella fede della Chiesa»166.

Il settimanale, accogliendo favorevolmente la Dichiarazione, rivendicò alla Chiesa il diritto di intervenire sulle opzioni politiche dei credenti, poiché esse venivano considerate legate all’ambito della fede e della morale, rifiutò il tentativo di relegare la Chiesa alla vita liturgica e lontana dalle opzioni di fede in campo politico. Ciò significò in concreto che la Chiesa doveva essere baluardo contro il comunismo e sostenere la Democrazia Cristiana167. Gli articoli contro il comunismo si intensificarono soprattutto quando De Gregorio nel marzo del 1976 assunse la direzione del settimanale. Da quel periodo in avanti il settimanale pubblicò, in ogni numero, almeno due ampi articoli per mettere in evidenza, dal punto di vista filosofico e politico, la diversità del marxismo dall’insegnamento cristiano o per riportare vicende di dissidenti russi, per sostenere che al momento in cui in Italia fosse arrivato il comunismo sarebbe stata riservata la stessa sorte168. Era tale la preoccupazione di una possibile vittoria comunista, alle elezioni politiche del giugno del 1976, che il settimanale diede più risalto alla vicenda elettorale e alla testimonianza dello scrittore russo A. Solzenicyn, autore del libro Arcipelago Gulag, che non alla notizia della consacrazione episcopale del vescovo ausiliare di Agrigento mons. Luigi Bommarito avvenuta nel duomo di Monreale169. Accanto alla vicenda dello scrittore russo, il settimanale diocesano riportò il Documento finale della Conferenza Episcopale Italiana in cui, citando a più riprese Paolo VI e la dichiarazione del card. Presidente, veniva ribadita la linea della

166) Dichiarazione del Consiglio Permanente della CEI, in A.d.P., 4-1-1976, 1. 167) Cfr. G.F., Una Chiesa scomoda, in A.d.P, 4-1-1976, 1. Nell’articolo La trappola del compromesso storico, in A.d.P.,29-2-1976,1; si invitava la DC ha ritrovare la propria identità che era in contrapposizione al comunismo a tal punto che si chiedeva di rimanere all’opposizione pur di non confondersi con i comunisti. 168) Cfr. D. DE GREGORIO, La cupola e il coccodrillo, in A.d.P., 2-5-1976. 169) Cfr. ID., Cuore di cane, in A.d.P., 6-6-1976, 1.

107


fermezza: non votare ideologie contro il cristianesimo, poiché era considerata inaccettabile una scelta marxista senza accettarne l’ideologia, e in questo modo si avvertivano quei cattolici che volevano distinguere tra analisi marxista della società e ideologia. Per la Conferenza Episcopale Italiana questa distinzione era impossibile poiché l’analisi marxista della società dipendeva dalla ideologia filosofica e da una ben precisa visione dell’uomo e della storia che non si potevano conciliare con la teologia cristiana. In questo modo la Conferenza Episcopale voleva richiamare l’attenzione dei cattolici che da alcuni anni ormai militavano nel movimento Cristiani per il socialismo, presente anche nella provincia di Agrigento. Proseguiva il documento della C.E.I.: «Non possiamo non denunciare la gravità del turbamento che il gesto di questi nostri fratelli, ponendosi in clamoroso contrasto con le indicazioni dei Pastori che reggono con responsabilità, per divina missione, la Chiesa di Dio, opera nella comunità dei credenti. Con sofferenza profonda, inoltre, ci sentiamo costretti ad invitare quanti, pur fraternamente avvertiti, intendono perseverare nel loro proposito, a considerare le leggi che disciplinano, con logica interna, la comunione ecclesiale e la sua infrazione. In un momento tanto grave e difficile, rivolgiamo il nostro paterno monito e accorato appello a dare testimonianza concorde, in coerenza di vita e di azione, dell’unica fede e della piena comunione, che sole consentano la legittima partecipazione all’unica Eucarestia e la collaborazione all’unica missione evangelizzatrice e liberatrice della Chiesa di Cristo»170.

Nel documento, infine, veniva riportata, e ampiamente sottolineata dal settimanale diocesano, una dichiarazione di Papa Paolo VI:

170) Il comunicato della Conferenza Episcopale Italiana è riportato dal settimanale diocesano L’Amico del Popolo con il seguente titolo La comunione ecclesiale esige coerenza dell’azione con la fede, in A.d.P, 6-6-1976, 1.

108


«In sintesi per quanto riguarda questo grave problema, a me non resta che confermare le indicazioni e le motivazioni già ampiamente proposte dal Cardinale Presidente. E cioè, primo, non è lecito sottrarsi al dovere elettorale, quando ad esso è collegata una professione di fedeltà a principi e a valori irrinunciabili, anche se ne può essere discutibile sotto certi aspetti ed in alcuni casi la loro perfetta rappresentanza; e, secondo, tanto meno ci sembra conforme al dovere civile, morale, sociale e religioso, e perciò tollerabile, concedere la propria adesione, specialmente se pubblica, ad espressione politica che sia, per motivi ideologici e per esperienza storica, radicalmente avversa alla nostra concezione religiosa della vita»171.

La dichiarazione di Papa Paolo VI, prima, e del cardinale Presidente della CEI, dopo, invitavano il laicato cattolico all’unità politica e a non esprimere il proprio consenso ad espressione politica avversa alla Chiesa. Il settimanale diocesano recepì interamente le indicazioni del documento della CEI dandone ampio risalto, e riportando la notizia, pubblicata da L’Osservatore della Domenica, ricordò ai cattolici che votare per il Partito Comunista Italiano costituiva peccato mortale, poiché la condanna del Sant’Uffizio del 1°luglio 1949 era ancora valida. E tale posizione, sottolineava L’Amico del Popolo, era stata confermata da Papa Giovanni XXIII su L’Osservatore Romano del 13-14 aprile 1959172. Anche l’Azione Cattolica agrigentina, come aveva fatto precedentemente173, tramite il suo presidente diocesano, Paolo Ciotta, espresse, con un documento che trovò risalto sul settimanale diocesano, la necessità di scelte coerenti (seguendo l’insegnamento dei pastori) per tutti i soci dell’associazione. Ricordò che l’obiettivo dell’Azione Cattolica

171) L.c. 172) Cfr. Commettono peccato mortale i cattolici che votano per il PCI, in A.d.P., 13-6-1976, 4. 173) Cfr. P. CIOTTA, Il vescovo, successore degli apostoli, in A.d.P., 2-5-1976.

109


era rivolto principalmente all’evangelizzazione e alla formazione delle coscienze cristiane e che successivamente si doveva esprimere il proprio impegno attivo anche nel campo politico e sociale174. La domenica 20 giugno, in concomitanza con la consultazione elettorale, L’Amico del Popolo pubblicò un ampio servizio L’ora è grave con il quale dava risalto alla Nota della C.E.I. del 12 maggio e al discorso di Papa Paolo VI. Nella Nota i vescovi, anche se avevano espresso la volontà di rimanere sopra le parti, avevano avvertito il bisogno di non rimanere nel silenzio poiché avevano visto in pericolo i valori supremi dell’uomo come la libertà civile e religiosa. Pertanto avevano invitato i cattolici a partecipare alle elezioni e ad «evitare scelte che per la loro intrinseca natura sono in contrasto col messaggio evangelico e inconciliabili con la visione cristiana dell’uomo e della società»175.

Accanto alla Nota dei vescovi, il settimanale riportò anche un articolo che era stato precedentemente pubblicato su Famiglia Cristiana, con la sigla dell’autore D.Z., in cui, con un ragionamento pacato e garbato, invitava il lettore a non farsi prendere dal momento emotivo, ma di votare con ragionevolezza, per sostenere la formazione politica che garantiva le libertà fondamentali. Le elezioni del 20 giugno 1976 si svolsero in un clima apparentemente calmo, non ci furono né incidenti né pressioni, poiché l’elettorato italiano ormai era maturo e aveva abbondantemente superato gli atti di intolleranza. Dall’esito elettorale non emerse il temuto sorpasso del Partito Comunista Italiano anche se, rispetto alle elezioni del ’75, per il rinnovo delle Amministrazioni Comunali e Provinciali, il PCI conquistò un’affermazione mai prima conosciuta. La Democrazia Cristiana recuperò un certo consenso elettorale, che le permise di continuare ad essere il partito di maggioranza relativa e l’asse centrale della politica

174) Cfr. La scelta coerente dei cattolici, in A.d.P., 13-6-1976, 5. 175) L’ora è grave, in A.d.P., 20-6-1976, 2.

110


e della formazione di qualsiasi governo. Il recupero elettorale della Democrazia Cristiana avvenne a danno dei partiti minori, soprattutto nei confronti del Movimento Sociale Italiano, dove erano transitati nella competizione precedente i voti degli elettori moderati per la protesta sull’ordine pubblico. A sostenere le posizioni elettorali della Democrazia Cristiana avevano in modo qualificante contribuito gli interventi della Conferenza Episcopale italiana e la preparazione al primo convegno della Chiesa italiana su Evangelizzazione e promozione umana, che mirò ad una ricomposizione dell’area cattolica su argomenti sociali e politici. La stessa Democrazia Cristiana, avendo avvertito come reale il sorpasso del Partito Comunista, aveva candidato figure eccellenti e significative della società civile e del mondo cattolico. Aveva in questo modo riscosso fiducia da quella parte di elettorato ancora incerto e insoddisfatto della conduzione della vita politica italiana. Il settimanale diocesano agrigentino accolse favorevolmente e con sollievo il mancato sorpasso del Partito Comunista Italiano, e individuò la responsabilità della confusione elettorale del ‘76 nella politica ambigua condotta dal segretario del Partito Socialista Italiano, Francesco De Martino, che era stato incapace di fare una scelta chiara o a favore dei comunisti o a favore della DC176, a tal punto da averne invocato lo scioglimento del Parlamento in un periodo storico particolarmente difficile per la Democrazia Cristiana e favorevole per il Partito Comunista che puntava a ‘bissare’ il successo alle elezioni politiche dopo averlo riportato alle amministrative del ’75. Le elezioni politiche segnarono profondamente il Partito Socialista che raggiunse il minimo storico e avviò una dialettica interna che mise in crisi la leadership di De Martino e segnò l’ascesa politica di Bettino Craxi che si propose come nuovo segretario politico per un partito non schiacciato da due forze politiche, DC e PCI, ma centro di aggregazione di un terzo polo di partiti laici protagonisti di una nuova fase della politica italiana.

176) Cfr. F. BAIO, Il voto della fiducia, in A.d.P., 27-6-1976, 1.

111


Mons. Francesco Baio, commentando l’esito elettorale dalle colonne del settimanale diocesano, invitava con tono pacato e ragionato i politici democristiani eletti a non dimenticare l’ammonimento elettorale e il pericolo scansato, pertanto auspicava un nuovo modo di condurre la politica per riacquistare la fiducia piena dei cittadini, spesso delusi a causa delle promesse non mantenute. Tuttavia nel suo articolo Francesco Baio non faceva un’attenta analisi sulle cause che avevano portato alla divisione dell’elettorato cattolico e ignorava tutti quegli elettori che, pur riconoscendosi come cattolici, avevano votato comunista alle elezioni politiche177. Le elezioni politiche del 1976 segnarono la fine dell’illusione comunista della conquista della maggioranza relativa in Parlamento e di una Democrazia Cristiana all’opposizione, che tanto entusiasmo aveva suscitato in diversi settori, anche ecclesiali. Ma anche segnò la fine di una stagione vivace e attenta ai problemi sociali e politici sia sul piano nazionale che sul piano internazionale. Terminò l’ondata delle grandi manifestazioni studentesche che per un decennio aveva invaso le piazze delle città e occupato le scuole per protestare contro il diffuso malessere sociale. Iniziò la fase calante dello spontaneismo giovanile che aveva espresso una certa vitalità, malgrado resistenze e diffidenze iniziali. Il mondo giovanile, che nel corso del decennio era divenuto pungolo nei confronti delle istituzioni, lentamente entrava in una fase di riflusso e di privatismo, cercando in altri settori il desiderio di realizzarsi. Molti giovani iniziarono ad accostarsi al pianeta droga per superare, in modo completamente errato, le frustrazioni in cui vivevano. In ambito ecclesiale agrigentino si avvertì dolorosamente la scelta di alcuni sacerdoti e laici cattolici di aderire all’analisi e prassi marxista che, dopo il referendum sul divorzio, pubblicarono un proprio settimanale, Scelta, come vedremo nelle pagine seguenti, in aperta opposizione alla linea seguita dal settimanale diocesano L’Amico del Popolo. A partire dal ’76 anche questa fase contestataria in seno alla comunità diocesana, dopo aver ricevuto ampi consensi, iniziò il suo lento declino.

177) Cfr. L.c.

112


La presenza in diocesi del vescovo ausiliare mons. Luigi Bommarito, che da qualche anno era stato consacrato, riuscì, con la sua arte comunicativa, a smorzare i toni del dissenso e a dare alla diocesi nuovo slancio, recuperando, fin dove era possibile, quei sacerdoti e laici ormai dissenzienti nei confronti di Petralia. Furono due i momenti di vita ecclesiale che fecero notare il cambiamento di rotta nella vita diocesana: la riflessione per un anno intero sul tema Gesù è presente, con manifestazione allo stadio comunale di Agrigento, e il pellegrinaggio diocesano alla Madonna delle lacrime di Siracusa. Anche se queste iniziative portarono un’ondata di entusiasmo, l’attenzione ecclesiale ai problemi sociali perdeva impegno e partecipazione. Il settimanale diocesano diventò sempre più quasi l’organo della Democrazia Cristiana in funzione anticomunista senza quella carica critica che lo aveva contraddistinto negli anni precedenti.

113


114


La comunione ecclesiale messa alla prova

Il vescovo Petralia era convinto che l’allontanamento di Di Giovanna dalla direzione del settimanale diocesano avrebbe finalmente chiuso il periodo del dissenso nella diocesi agrigentina, invece fu proprio quel licenziamento che rafforzò il gruppo redazionale e i cattolici di sinistra, per avviare la fase più tormentata della Chiesa agrigentina del ventesimo secolo, anche se durò appena tre anni. L’8 settembre 1974 fu pubblicato, senza autorizzazione del vescovo, L’Amico del Popolo con la firma del direttore, se pur licenziato, Alfonso Di Giovanna, che nell’editoriale È tramontato il giorno della speranza, oltre a comunicare la decisione di Petralia, spiegava ai lettori il motivo dell’avvenuto licenziamento, che era prevalentemente politico. Secondo tale articolo il settimanale, quantomeno a partire dalle elezioni politiche del 1972, aveva assunto un nuovo metodo per la valutazione degli avvenimenti ecclesiali e politici che corrispondeva ad un modo nuovo di comprendere il rapporto Chiesa-mondo: «Al filtro del giudizio della Parola di Dio furono giudicati avvenimenti, uomini e cose, episodi e situazioni, di Chiesa e non di Chiesa, superando i discriminanti concetti provincia-diocesi, Chiesa localecomunità civile, ateo-credente, buoni-cattivi, per parlare a tutti un unico linguaggio in nome di Dio e in difesa dell’uomo»178.

178) E’ tramontato il giorno della speranza, in A.d.P, 8-9-1974,1. Questo modo di valutare gli avvenimenti si fece più intenso soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, dovuto anche al contributo teologico di JOHANN BAPTIST METZ, Sulla teologia del Mondo, Brescia, 1974,115, che parlava della riserva escatologica come atteggiamento critico nella valutazione dei fatti del presente: “ogni teologia escatologica deve diventare perciò, in quanto teologia politica, una teologia critica della società”. Nell’orizzonte di questa teologia il mondo non veniva inteso come cosmo, contrapposto alla persona e nemmeno come realtà puramente esistenziale e personale, bensì come realtà sociale in un processo storico. E la Chiesa non viveva accanto o al di sopra di questa realtà, bensì in essa come istituzione critica della società.

115


Secondo questo editoriale il settimanale era divenuto scomodo poiché aveva avviato una serie di iniziative nel contesto socio-ecclesiale agrigentino per i seguenti obiettivi: dialogo con i movimenti culturali laici, con i lavoratori, con i cristiani non cattolici, studio dell’emigrazione, ricostruzione del Belice, rinascita dell’Isola, ecc.179. In verità l’accusa più grave che veniva mossa alla direzione del settimanale era di aver fatto comunione con i dissidenti e non col vescovo180. I rapporti tra Petralia e Di Giovanna erano diventati tesi nel momento in cui il direttore del settimanale, non potendolo fare dalle colonne de L’Amico del Popolo, poiché conosceva i limiti imposti, aveva commentato sul foglio mensile La voce di Sambuca, di cui era pure il direttore, il risultato referendario, che aveva visto la vittoria del fronte divorzista, con il seguente titolo Apologia della disobbedienza, che fu recepito da Petralia come una vera provocazione oltre ogni limite181. Tuttavia dobbiamo registrare che l’attrito non era soltanto con il vescovo, poiché, sul finire del mese di maggio, il consiglio presbiterale diocesano aveva contestato alla redazione del settimanale, diretto da Di Giovanna, i seguenti aspetti: in campo ecclesiale il settimanale aveva scelto una linea editoriale diversa da quella del vescovo e in campo socio-politico la redazione aveva fatto una scelta filomarxista. I redattori, alle contestazioni del consiglio, avevano risposto rivendicando il diritto al pluralismo nel campo politico e nella ricerca teologica, nonché nessuna preclusione ideologica nelle lotte per il riscatto dell’umanità182. Dopo un mese di contatti e riflessioni, nei primi di novembre,

179) Cfr. L.c. 180) Cfr. L.c. 181) Cfr. Come si sono svolti gli ultimi fatti, in A.d.P., 8-9-1974, 4. 182) Cfr. L.c Dopo il licenziamento di Di Giovanna i collaboratori de L’Amico del Popolo, Pietro Amato, Antonino Bellomo, Calogero Carità, Totò Castelli, Enzo Di Prima, Girolamo Gaziano, Giovanni Grassadonio, Nicola Lombardo, Enzo Minio, Giusi Montana, Nuccio Mula, Rosetta Romano, Stefano Pirrera, Diego Romeo, Luigi Ruoppolo, Luigi Sferrazza, Egidio Terrana, Damiano Zambito rassegnarono le dimissioni. Essi videro nell’iniziativa unilaterale del vescovo il tentativo di “affossare il rinnovamento”, cfr. Comunione, in A.d.P., 8-9-1974.

116


fu pubblicato il settimanale Scelta183 in aperta opposizione a L’Amico del Popolo. Le due testate giornalistiche, per un triennio circa, furono il segno tangibile della spaccatura all’interno della Chiesa agrigentina. Direttore responsabile della nuova testata fu don Alfonso Di Giovanna, che si avvalse di quasi tutto il gruppo redazionale che lavorava al settimanale L’Amico del Popolo. Il nuovo giornale non veniva stampato presso la Tipografia Sarcuto, come avveniva per L’Amico del Popolo ma presso la Tipografia Primavera di Agrigento. Nell’articolo di fondo del primo numero di Scelta Di Giovanna spiegava il motivo della nascita del giornale: «…sul piano ecclesiale Scelta vuole contribuire al rinnovamento attraverso la fedeltà alla parola di Dio, il ritorno alle origini e alle comunità primitive, la costante ispirazione al pluralismo, ai documenti conciliari e alle ultime encicliche, il rifiuto di ogni integrismo, attenta alla ricerca teologica e alle diverse esperienze pastorali e di evangelizzazione per la crescita di una fede autentica, pura da pregiudizi, libera da strumentalizzazioni, profetica nel suo esprimersi»184.

All’interno dello stesso movimento Cristiani per il socialismo, tra i fondatori del settimanale Scelta, mi sembra di poter cogliere due tendenze: la prima facente riferimento a don Alfonso Di Giovanna, che, pur assumendo un linguaggio critico nei confronti del vescovo Petralia, della Democrazia Cristiana e della gerarchia, tuttavia cercava, anche con difficoltà – dovute ad una impostazione teologica e filosofica diversa – un possibile dialogo; la seconda linea riconducibile a don Luigi Sferrazza, che assunse un linguag-

183) Nella fondazione di Scelta un ruolo determinante oltre Alfonso Di Giovanna ed il gruppo di redattori provenienti dal L’Amico del popolo, lo ebbe Franco La Rocca, direttore del Centro Servizi Culturali (ex-ENAIP) di Agrigento che poi si trasformò nella attuale biblioteca comunale di S. Spirito. 184) Perché? in Scelta, 3-11-1974.

117


gio sempre più aspro, dovuto alla prevalenza dei temi socio-politici all’interno della componente religiosa, tanto da vedere nella stessa persona del vescovo Petralia l’immagine del nemico da lottare185. Se Di Giovanna auspicava un rinnovamento con il contributo dei documenti conciliari, la stessa cosa non si poteva dire per don Luigi Sferrazza il quale, presentando il raduno dei Cristiani per il socialismo avvenuto a Napoli dall’ 1 al 4 novembre, parlava di rottura con la Chiesa ufficiale. Tale rottura trovava fondamento, a suo dire, nella tradizione profetica e aveva il culmine nella morte in croce di Cristo186. Presentando gli obiettivi del movimento, Sferraza diceva che «vogliono liberare il vangelo dalle mani di chi lo usa per giustificare un ordine ingiusto e lo vogliono ridare al popolo di Dio: vogliono proclamare chiaramente che il messaggio di Gesù non solo condanna un mondo ingiusto, ma impegna coloro che lo accettano a lottare perché spezzino le catene dell’odio, della sopraffazione e della miseria. Per questo hanno mostrato come per il credente la scelta rivoluzionaria di classe per una società senza classi, non solo non è contraria alla fede, ma come tale possa e

185) Mi riferisce Luigi Sferrazza che “i fondatori del settimanale Scelta non aderivano tutti al movimento Cristiani per il socialismo. Luigi Sferrazza/Alfonso Di Giovanna - Giulio Girardi/Raniero La Valle: sono paragoni che non reggono per una valutazione del movimento Cristiani per il socialismo (CpS) per il semplice fatto che localmente Alfonso Di Giovanna, come nazionalmente Raniero La Valle, non hanno mai fatto parte del movimento dei CpS, anche se hanno avuto il grande merito, ognuno nel proprio ruolo e nel proprio ambito di riferimento, di capirne l’originalità storica e di favorirne la diffusione delle idee. Non tutto il gruppo redazionale di Scelta si riconosceva nel movimento dei CpS o delle comunità di base: ma evidentemente c’era un comune denominatore sia in riferimento alle istanze di rinnovamento ecclesiale che in riferimento alle istanze di cambiamento sociale”. Ma al momento in cui erano chiamati ad esprimere il voto politico, risulta chiara la scelta antidemocristiana. 186) Cfr. L. SFERRAZZA, Una forza nuova nel Sud, in Scelta, 17-11-1974, 2. In questo modo Sferrazza riproponeva le accuse che il salesiano don Giulio Girardi aveva mosso contro la Chiesa durante il convegno dei Cristiani per il socialismo di Bologna: “La Chiesa è in solidarietà con le classi dominanti e con l’imperialismo” citazione presa da G. LO IACONO, Il marxismo ieri e oggi ,Napoli, 1978, 215.

118


forse debba essere vissuta come approfondimento della sua scelta cristiana»187.

Come notiamo, per Sferrazza una fede autenticamente vissuta doveva necessariamente essere legata alla scelta rivoluzionaria, per una società senza classi, come propugnava l’ideologia marxista. Dopo il licenziamento di Di Giovanna dal settimanale diocesano, il vescovo Petralia prese un altro grave provvedimento: chiese le dimissioni dell’assistente diocesano dell’Azione Cattolica giovanile, don Damiano Zambito, per aver dato un indirizzo orizzontalistico ai gruppi giovanili, per aver utilizzato i testi biblici in senso prevalentemente sociopolitico, per aver assunto un atteggiamento neutralistico o negativo o contestatario durante il referendum del 12 maggio 1974, e per aver firmato il documento contro il vescovo sulla vicenda del settimanale L’Amico del Popolo. Questi furono i motivi fondamentali che indussero Petralia a chiedere le dimissioni di Zambito dal settore più vivace dell’Azione Cattolica188.

187) L. SFERRAZZA, Una forza nuova, cit., 2. La rivoluzione di classe per una società senza classi faceva parte della tradizione marxista più intransigente, infatti avevano scritto i teorici del marxismo Marx ed Engels: “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della pleba…in una parola oppressori e oppressi sono stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta…una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta” MARX-ENGELS, Manifesto del partito comunista, in Opere complete ,VI, Roma, 1973, 486. Contro l’odio di classi rispondeva PAPA GIOVANNI XXIII che, riproponendo l’insegnamento dei pontefici precedenti, nella Mater et magistra n.5 affermava che “devono regolare i loro rapporti ispirandosi al principio della solidarietà e della fratellanza cristiana, perché tanto la concorrenza in senso liberalistico quanto la lotta di classe in senso marxistico sono contro natura e contrarie alla concezione cristiana della vita”. 188) Cfr. Damiano Zambito dimesso dall’A.C., in Scelta, 1-12-1974, 2. LUIGI GAMMACURTA scriveva nella sua tesi di dottorato La contestazione religiosa dell’autorità dopo il Concilio Vaticano II “A livello ecclesiale giovanile si avvertì nei rami dell’A.C. un desiderio di rinnovamento della Chiesa agrigentina. Volevano una comunità cristiana autentica che realizzava il primato delle persone sui riti, della comunione sull’appartenenza formale, della testimonianza personale e comunitaria sulla soddisfazione di determinate pratiche, della corresponsabilità sull’autoritarismo, della libertà dello Spirito sulla rigidità della struttura” (la tesi di GAMMACURTA è inedita; possiedo una copia gentilmente concessami dall’autore). In America latina i settori giovanili dell’Azione Cattolica si unirono ad organizzazioni non cristiane, a partire dal 1966, per lottare contro l’oppressione. Questo fascino verso i partiti di sinistra era anche presente nel versante protestante cfr. BRUNO CHENU, Teologie cristiane dei terzi mondi, in Giornale di Teologia, 181, Brescia, 1988.

119


Per il settimanale Scelta la ‘defenestrazione’ di Zambito s’inseriva nel tentativo della Chiesa italiana di “portare ordine dopo la sconfitta elettorale del referendum sul divorzio”. La direzione di Scelta commentò la decisione del vescovo come grave poiché non aveva consultato il popolo di Dio, che era rimasto un semplice spettatore189. Infine per Scelta l’accusa di orizzontalismo nei confronti di Zambito e del settore giovanile dell’Azione Cattolica era senza fondamento dal punto di vista teologico, e portava come esempio le Chiese dell’America latina, pertanto «questa accusa più che su una verità teologica ci sembra che si fondi su una copertura ideologica (e quindi di potere)…»190.

La mancata consultazione del popolo di Dio per la direzione di Scelta veniva considerata ‘una grave offesa’, ma non indicava, concretamente, come questa consultazione doveva avvenire. Al di là del metodo, emergeva il tentativo di applicare alla Chiesa categorie decisionali provenienti da un tipo di sociologia emergente proprio in quegli anni. È interessante rilevare come all’interno del dissenso ecclesiale c’era una prospettiva ecclesiologica diversa da quella proposta da Petralia. Sintetizzando possiamo dire che mentre per Petralia la Chiesa aveva un fondamento gerarchico, voluto da Gesù Cristo, per i Cristiani per il socialismo era rilevante l’aspetto popolare e democratico. Le dimissioni forzate di Zambito, dal settore giovanile dell’Azione Cattolica, aumentarono l’ostilità del gruppo redazionale, dei simpatizzanti, dei lettori e dei sacerdoti vicini al settimanale Scelta, e crearono, anche, una profonda divisione all’interno della stessa Azione Cattolica

189) Cfr. Damiano Zambito, cit., 2. 190) L.c L’accusa di orizzontalismo nei confronti dei sostenitori del movimento Cristiani per il socialismo veniva mossa da diverse parti del mondo cattolico poichè essi rimasero particolarmente influenzati dal pensiero del francese RÒGER GARAUDY sulla concezione del regno di Dio: “concepire il regno di Dio – scriveva il filosofo francese – come un mondo diverso, un mondo cambiato, e cambiato mediante i nostri sforzi” Parola di uomo, Assisi 1975, 157.

120


che per la prima volta in modo palese mostrava la sua profonda crisi, destinata a ripercuotersi negli anni successivi, malgrado la vecchia dirigenza cercherà in tutti i modi di far penetrare l’associazionismo cattolico tra i nuovi sacerdoti chiamati a guidare le parrocchie. A partire dal 1975 s’intensificò la riflessione dei cattolici del dissenso sul rapporto fede e politica, e don Luigi Sferrazza ne trovò spunto a proposito del convegno nazionale delle comunità di base che si svolse a Firenze sul tema Comunità di base e comunione ecclesiale191. Sferrazza, dopo aver evidenziato la volontà delle comunità di base a non contrapporsi alla “Chiesa istituzionale”192, trovava il fondamento della comunione ecclesiale nella “prassi di solidarietà” verso i poveri sfruttati: «La comunione che cerchiamo (…) nasce tra coloro che, credenti, si trovano solidali nella lotta per una società in cui sia possibile vivere l’amore fraterno»193.

A fondamento della comunione non c’era la fede, come la teologia aveva insegnato, ma la solidarietà verso il povero; e Sferrazza non lo considerava più come individuo ma come insieme collettivo: quando si parlava di povero si rivolgeva alla classe degli sfruttati che, nell’insieme, faceva ‘il povero’. E per questo povero bisognava ormai lottare dopo aver considerato superato e antiquato il metodo della “San Vincenzo”. Per il settimanale Scelta era impossibile la neutralità della Chiesa e

191) Bisogna precisare che nelle comunità di base era prevalente l’esigenza di vivere l’impegno di fede nella vita della Chiesa. Esse si ponevano come luogo di fede, in cui la pratica della solidarietà e della condivisione diventa impegno di liberazione; i CpS si ponevano il problema di creare rapporti e spazi organici di impegno politico per una democrazia di base ma in collegamento con le forze politiche della sinistra. 192) Cfr. L. SFERRAZZA, La carità o è politica o non è, in Scelta, 4-5-1975,3. La dimensione politica della carità è presente nell’insegnamento della Chiesa, e in modo prevalente nel magistero di Paolo VI, del quale ricordiamo una massima: “La politica è una maniera esigente …di vivere l’impegno cristiano a servizio degli altri” Octogesima adveniens, 46. Sulla dimensione politica della carità cfr. M. COZZOLI, Etica teologale, Cinisello Balsamo,1991. 193) L. SFERRAZZA, La Carità, cit. La prassi di solidarietà nasceva nella teologia della liberazione dopo aver esaminato la società tramite l’analisi marxista che faceva conoscere i meccanismi che generavano miseria e povertà: cfr. G. GUTIERREZ, La forza storica dei poveri, Brescia 1981 e L. BOFF, Quando la teologia ascolta il povero, Assisi 1984.

121


dei preti nei confronti della politica, e, citando l’encilica Octogesina adveniens di Paolo VI e la Gaudium et spes n. 43, additava come conservatori coloro che dicevano che “il prete in Chiesa non deve far politica”. Il problema per Scelta era invece da che parte stare: con gli sfruttati o con gli sfruttatori. Qualsiasi decisione era per il vangelo o contro il vangelo194. Secondo Scelta l’enciclica di Paolo VI, oltre a indicare una scelta per i poveri sfruttati, in contrapposizione alle classi ricche, aveva fatto un salto qualitativo su come considerare il marxismo nei confronti del magistero della Chiesa precedente. Per i cattolici del dissenso, il Concilio Vaticano II e il magistero sociale di Paolo VI avevano portato due grosse novità: la collaborazione dei credenti con i marxisti per una società senza più povertà e il pluralismo politico195. Mentre il magistero della Chiesa rifiutava l’analisi marxista della società, Luigi Sferrazza, in sintonia con i componenti del movimento Cristiani per il socialismo, che attingevano ad un filone della teologia della liberazione196, le attribuiva un valore scientifico e oggettivo a tal punto che rinunciare a tale analisi equivaleva a rinunciare alla verità stessa197. E chiudere gli occhi davanti alla verità, espressa dall’analisi

194) Cfr. Fede e politica, in Scelta, 25-5-1975, 2. 195) Cfr. L.c I componenti del movimento Cristiani per il socialismo, per sottolineare l’apertura della Chiesa al socialismo, si rifacevano all’enciclica di Paolo VI. Don Giulio Girardi al convegno di Bologna aveva sostenuto: “La Octogesima adveniens riconosce, sia pure con molte cautele, la legittimità della opzione socialista per i credenti” e aveva ricordato che “il Concilio non ha rinnovato la condanna del comunismo” cfr. Convegno nazionale di Bologna, Milano, 1974,159. Scrivendo questo il salesiano Girardi dimenticava volutamente che nella Octogesina adveniens ai numeri 32-33 PAOLO VI aveva scritto: “sarebbe illusorio (…) accettare gli elementi dell’analisi marxista senza riconoscere il loro rapporto con l’ideologia, entrare nella prassi della lotta di classe e della interpretazione marxista trascurando di avvertire il tipo di società totalitaria e violenta a cui questo processo conduce”. 196) Jan Carlos Scannone individua quattro correnti diverse della teologia della liberazione: a) a partire dalla Pastorale della Chiesa con i suoi documenti biblici e magisteriali; b) a partire dalla prassi rivoluzionaria: è in contrasto con la gerarchia e assume l’analisi marxista, riduce il linguaggio teologico a servizio della lotta di classe; c) a partire dalla prassi storica: la comunità di base diventa il soggetto che fa teologia; d) a partire dalla prassi dei popoli latinoamericani, e si riferisce a J.L.Segundo. cfr. J C SCANNONE, La teologia della liberazione in Teologia dommatica, (a cura di Karl H. NEUFELD) Brescia 1983, 393-424. 197) Cfr. L. SFERRAZZA, Magistero, analisi ed esperienza cristiana, in Scelta, 15-6-1975. Severino Dianich, dopo aver evidenziato il merito della teologia della liberazione per aver parlato all’uomo concreto, ne ha sottolineato anche il rischio di un dissolvimento del messaggio cristiano nell’immanentismo storicista: Dio si ritroverebbe rinchiuso dentro l’unico modello disponibile, proposto dall’analisi marxista, cfr. S. DIANICH, Chiesa estroversa, Cinisello Balsamo 1987.

122


marxista, equivaleva a commettere un peccato contro lo Spirito198. Per Sferrazza l’analisi marxista, elevata a norma morale, doveva controllare e verificare la validità del modo di vivere delle comunità di base secondo un progetto storico di umanità199. Ovviamente l’istanza espressa da don Luigi Sferrazza non poteva trovare accoglienza nel Magistero della Chiesa, perché rompeva proprio con la fonte biblica, la Tradizione e il Magistero, infatti egli in questo modo aveva sostituito la teologia con l’analisi marxista, riconoscendo alla medesima analisi marxista la fonte di moralità. In questo modo recepiva pienamente le indicazioni del convegno di Napoli del 1974, che aveva fatte sue le posizioni di don Giulio Girardi, diverse da quelle di Raniero La Valle. Giulio Girardi sosteneva che la verità religiosa doveva essere giudicata alla luce della verità umana e proponeva un metodo materialistico per la comprensione della Sacra scrittura: «La lettura biblica, proprio perché avviene da una precisa collocazione politica, non potrà situarsi al di fuori dell’analisi materialistica, che, come militanti, applichiamo a tutta la verità»200.

La fonte morale per valutare ogni comportamento umano, sia individuale sia sociale, ogni scelta in qualsiasi ambito, soprattutto politico, non era più il vangelo ma l’analisi marxista, elevata a valutare le

198) Cfr., L. SFERR,AZZA, Magistero, articolo cit. 199) Cfr. L.c. 200) L.c. I teologi della teologia della liberazione, Gutierrez, Scannone e Boff, pur avendo riconosciuto il valore dell’analisi marxista, per la comprensione dei meccanismi sociali che generavano miseria e ricchezza, non mi sembra che siano pervenuti alle stesse conclusioni di Giulio Girardi. Negli anni 60 e nella prima metà degli anni ‘70, in alcuni settori di teologi ed esegeti collegati con la filosofia ed il pensiero marxista si sviluppa il tentativo di una lettura materialistica della Bibbia e dell’ecclesiologia. Si trattava di tentativi di ricerca con approcci e strumenti esegetici e di pensiero completamente nuovi rispetto all’esegesi tradizionale: il tentativo era di operare una svolta nell’approccio alla riflessione teologica, così come nel Medioevo lo era stato con l’assunzione dell’aristotelismo: si trattava di non guardare più il marxismo da fuori, cercando di individuare opposizioni ed analogie ma di sceglierlo, per motivi più o meno oggettivi (analisi scientifica, condizioni materiali, aspirazioni alla giustizia), come visione del mondo, della società, della storia.

123


scelte inerenti alla vita della Chiesa e del cristiano nel quotidiano. La fedeltà della Chiesa al suo Signore non veniva più considerata dal punto di vista del vangelo ma a partire dall’analisi marxista. Nel 1975 i sostenitori del movimento Cristiani per il socialismo cercavano di individuare, all’interno dell’episcopato italiano, quei vescovi che assumevano un atteggiamento critico nei confronti degli uomini di governo e proponevano un dialogo anche con i non cristiani. Il vescovo di Ivrea, Luigi Bettazzi, e il card. Pellegrino, arcivescovo di Torino, furono le voci più aperte del periodo difficile degli anni ‘70, sia dal punto di vista sociale che ecclesiale. I due vescovi trovarono ampio risalto nei servizi giornalistici del settimanale Scelta, poiché in loro i cattolici del dissenso agrigentino vedevano la figura ideale del vescovo sociale che non trovavano in Petralia. La lettera che Bettazzi inviò a tutti gli eletti dei partiti politici alle elezioni amministrative del 1975 fu recepita dal settimanale Scelta come un’apertura cattolica nei confronti di qualsiasi formazione ideologica. Non passò inosservato che Bettazzi non usò il termine “cattolici” ma cittadini, che doveva accomunare nel campo politico a prescindere dalla fede: «Il cittadino guarda ai tanti problemi che assediano la vita quotidiana e, secondo la propria visuale, generalmente approfondita e maturata nel discorso con altri amici o nell’interno dei partiti o di gruppi, compie le sue scelte che ritiene più idonee al raggiungimento di questi fini umani e sociali. Pur nel pluralismo che ne deriva, collegato alla diversità di valutazione e di giudizi ritengo tutto questo profondamente cristiano: Gesù Cristo è un Dio fattosi uomo, che ha preso su di sé tutta la realtà umana, i suoi problemi, le sue aspirazioni»201.

Della lettera di Bettazzi, Scelta mise in risalto il rapporto del cristiano con le sfide della nuova società:

201) L. BETTAZZI, Un vescovo agli eletti, in Scelta, 29-6-1975, 3.

124


«Si è cristiani nella vita pubblica non tanto nella misura in cui si difendono le istituzioni cristiane: questo rientra nel dovere di rispetto e di libertà nei confronti di tutte le istituzioni, nell’ambito di uno Stato di diritti e di doveri. Si è cristiani nella misura in cui sinceramente si promuove lo sviluppo globale dell’uomo, di tutto l’uomo»202.

Ma era il pluralismo politico su cui Scelta poneva particolare attenzione nella lettera, e che serviva ai cattolici del dissenso per fare il confronto con l’intransigenza di Petralia che sul pluralismo aveva assunto un comportamento completamente opposto a quello espresso dieci anni prima quando, commentando il documento conciliare sulla libertà religiosa, aveva scritto: «Essa (la Chiesa) parte dalla constatazione di una società pluralista quale è essenzialmente la nostra. Il pluralismo non è solo nella varietà dei gruppi sociali e nelle correnti di pensiero; è anche nelle confessioni religiose, viventi l’una accanto all’altro, dove più, dove meno, entro lo stesso spazio geografico, politico, culturale. Tale pluralismo va accettato come un fatto. Ma v’è di più. Vi è un approfondimento dei diritti inalienabili della persona umana, non solo alla luce di una progredita psicologia sociale, ma della stessa dottrina dei Sommi Pontefici, che hanno posto quale fulcro della sociologia cristiana il rispetto della persona e dei suoi naturali imprescrittibili diritti»203.

202) L.c. 203) G. PETRALIA, I grandi temi, cit., 67. Sempre commentando la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, Petralia lamentava che, nei secoli precedenti, la Chiesa non aveva avuto il sentimento di “benevola, paziente, fraterna tolleranza verso coloro che professavano e insegnavano opinioni contrarie” facendo chiaro riferimento al periodo dell’Inquisizione. Egli considerava “estranea, anzi contrario alla mansuetudine evangelica” l’Inquisizione se pur bisognava comprenderla nel contesto storico del tempo. Per ironia della sorte, dopo dieci anni, Petralia assunse proprio un comportamento inquisitorio nei confronti dei cattolici che chiedevano un pluralismo su argomenti che riguardavano non la fede ma la politica.

125


In un’intervista rilasciata al settimanale Scelta, sulla possibilità ai credenti e ai sacerdoti di sostenere movimenti avulsi da valori spirituali e trascendenti, Antonio Morreale e Luigi Sferrazza, citando il vescovo di Ivrea, Bettazzi, e la Pacem in terris n. 84 di Giovanni XXIII ne affermavano la possibilità, perché: «molti credenti e comunità di base si sono inserite nelle lotte operaie senza per questo dovere rinunciare alla propria fede, anzi incarnandola attraverso l’impegno per una società fondata sulla giustizia. I credenti non trovano, nella scelta socialista, una visione integralista ed immanente della storia ma una occasione irripetibile per testimoniare la loro fede»204.

Come possiamo notare per Morreale e Sferrazza era infondata l’accusa di immanentismo storicista e di ideologizzare il messaggio cristiano con la scelta socialista, anzi era l’occasione per incarnarlo nella realtà concreta. Accanto a Bettazzi, altro vescovo di riferimento era Pellegrino, del quale rimase impressa nella coscienza collettiva la sua presenza tra gli scioperanti nel Natale del 1971. I sostenitori del dissenso, citando la lettera Camminare insieme da lui scritta, sottolineavano, oltre il dialogo con i non credenti, la necessità di fare esperienza di liberazione a partire dalla Chiesa stessa205. Commentando le parole di Pellegrino, don Angelo Brancato chiedeva il pluralismo politico dei credenti perché dalla fede non era possibile dedurre le soluzioni politiche. Ogni credente doveva fare le proprie scelte secondo coscienza206. Il pluralismo politico non era invocato soltanto negli ambienti più dissidenti della Chiesa agrigentina ma anche in alcuni componenti dell’Azione Cattolica, segno che ormai su questa tematica aveva perduto la compattezza di un tempo. Nel suo intervento al convegno di Azione

204) Dialogando col vescovo proclamare la libertà, in Scelta, 12-10-1975, 3. 205) Cfr. L.c 206) Cfr. L.c.

126


Cattolica, Salvatore La Barbiera chiedeva una pluralità di scelte in coerenza con il vangelo; ricordando la Pacem in terris di Giovanni XXIII, sosteneva che era possibile la collaborazione anche con movimenti di liberazione fondati su ideologie errate207. Don Carmelo Barbera, preside della scuola media “G. Marconi” di Licata, pubblicò, sempre sul settimanale Scelta una serie di articoli sul rapporto tra cristianesimo e marxismo. In un articolo affrontò il nesso tra liberalismo e marxismo alla luce dell’atteggiamento della Chiesa ufficiale. Egli notava che la Chiesa stava comportandosi, nei confronti del marxismo, allo stesso modo di come aveva fatto nel secolo scorso con il liberalismo: prima lo aveva condannato con il Sillabo di Pio IX e poi nel Novecento non c’era prete che non fosse liberale. Sul marxismo Barbera esprimeva il seguente giudizio: «il marxismo è la componente ideologica più cospicua del nostro secolo e l’adattamento del cristianesimo al marxismo è in fase avanzata. La storia si ripete: ieri il liberalismo, oggi il marxismo»208.

Era una concezione molto diffusa in quegli anni: i componenti del movimento Cristiani per il socialismo si consideravano i cattolici progressisti con un progetto ideologico e culturale che, secondo le loro previsioni, un domani si sarebbe largamente diffuso, tuttavia occorreva aspettare affinchè tutti lentamente ne prendessero coscienza. Il cristianesimo poteva conciliarsi con qualsiasi ideologia? A questa domanda Barbera rispondeva affermativamente, poiché, secondo la sua motivazione, il cristianesimo non essendo un’ideologia non poteva escluderne alcuna e, in quanto messaggio di salvezza che opera su un piano diverso, poteva calarsi in qualsiasi cultura, anche in quella marxista209. Sul finire del 1975 il settimanale Scelta espresse un giudizio negativo nei confronti dell’ultimo documento della Conferenza Episcopale

207) Cfr. S. LA BARBIERA, Una Chiesa per l’uomo, in Scelta, 2-11-1975, 3. 208) C. BARBERA, Liberalismo e Marxismo, in Scelta, 30-11-1975,3. 209) ID., Si può non essere marxisti? in Scelta, 7-12-1975, 3.

127


Italiana. Secondo Scelta quel documento chiudeva le vie al dialogo con il mondo contemporaneo perché: «da un lato ricalca espressioni e atteggiamenti quarantotteschi, d’altro canto, in netta opposizione con precedenti documenti del magistero ordinario e straordinario, si colloca fuori di una realtà che né si può ignorare né tanto meno eludere con minacce di scomuniche»210. Scelta considerava la negata autonomia dei cattolici nelle decisioni politiche, da parte della C.E.I., come negazione di una garanzia espressa dal documento Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, recepita pienamente dall’episcopato francese che fondava l’unità dei credenti sulla fede e non sulle scelte politiche, pertanto “trasferirla su una stessa area politica significava non tenere nel debito conto un insieme di dati di analisi specifiche”211.

210) Tre no per un sì, in Scelta, 21-12-1975, 1. 211) Cfr. L.c

128


A) Le elezioni amministrative del 1975

Come abbiamo avuto modo di mettere in risalto precedentemente, le elezioni amministrative del 1975 si svolsero in un clima teso per i partiti di governo, poiché in quella competizione veniva messa in discussione la centralità della Democrazia Cristiana nel Paese, dopo il risultato elettorale del 1948. Anche il settimanale Scelta partecipò attivamente a questa delicata competizione elettorale schierandosi con la sinistra comunista, e chiedendo apertamente con maggiore incisività il pluralismo nelle scelte politiche, dopo aver denunciato moralmente i democristiani che andavano a cercare voti nelle sacrestie. Infatti, nel suo servizio, Luigi Ruoppolo definiva qualunquismo giovanile il comportamento di alcuni giovani di una parrocchia che distribuivano volantini per aprire un dialogo con la Democrazia Cristiana. E venivano definiti integristi tutti coloro che facevano dedurre la propria scelta politica a partire dalla fede religiosa, perché la scelta politica era considerata un atto umano che coinvolgeva direttamente la coscienza212. Per Ruoppolo era un controsenso vivere la fede in un partito come la Democrazia Cristiana: «Né vale dire che basta cambiare gli uomini: il vizio di fondo

212) Cfr. L. RUOPPOLO, In sagrestia a caccia di voti, in Scelta, 8-6-1975, 2. Ruoppolo, con tutta la redazione di Scelta e dei Cristiani per il socialismo, si poneva su una posizione completamente diversa da quella di Petralia: mentre per il vescovo era inconcepibile una scelta ideologica diversa dalla propria fede, in forza dell’ortoprassi, Ruoppolo sosteneva che la scelta politica non dipendeva automaticamente dalla fede. Dunque, due soluzioni diverse che dipendono da due modi di rapportarsi da parte del credente con la società politica.

129


è nel sistema che la DC esprime, protegge e perpetua che, come è stato dimostrato scientificamente, è fondato sullo sfruttamento e sulla mortificazione degli uomini che effettivamente producono a vantaggio di alcuni che in tale situazione dispiegano la propria sete di potere ed il proprio marcio egoismo»213.

Se un credente faceva dipendere la propria decisione politica dalla fede era considerato integrista, ma la stessa accusa non poteva essere rivolta, secondo Ruoppolo, ad uno che votava per la sinistra, perché «tali credenti sono pervenuti a tale precisa scelta politica, ispirata sì dalla loro fede, ma attraverso una serie di analisi e di ipotesi politiche in assoluta autonomia rispetto ai principi della fede»214.

Dunque l’analisi, in questo caso quella marxista, era divenuta il criterio base per delineare una scelta politica integrista o non integrista. Alla vigilia del voto elettorale delle amministrative del ’75 anche don Luigi Sferrazza chiese a chiare lettere il pluralismo politico, e lamentò il ritorno dei toni quarantotteschi che facevano ritornare la Chiesa al periodo prima del Concilio Vaticano II: «Sembrava, negli ultimi anni, che la gerarchia volesse assumere un ruolo indipendente dalla DC. Dopo il Concilio molti lo avevano fatto credere: il dialogo tra cristianesimo e marxismo, incoraggiato da Papa Giovanni, la solidarietà di molti vescovi con le lotte del movimento operaio…Il Concilio prima, il magistero di Papa Giovanni e di Paolo VI poi, avevano affermato l’autonomia dei singoli credenti nelle scelte politiche (purché in sin-

213) L.c. 214) L.c.

130


tonia con i veri valori dell’uomo). I vescovi avevano mostrato in un preciso tempo la tendenza a seguire questa linea: è stato un sogno di breve durata»215.

Per Sferrazza era inconcepibile un’alleanza tra Chiesa e Democrazia Cristiana come era avvenuta nella competizione elettorale del 1948; ed era anche inconcepibile un comportamento politico con toni e posizioni espresse quasi trent’anni prima, perché i due pontificati, quello di Papa Giovanni XXIII e quello di Paolo VI ancora in corso, avevano delineato un nuovo rapporto tra la Chiesa e il mondo, tra la Chiesa e la politica, diverso dalla Chiesa pacelliana. Sferrazza, ricordava, inoltre, che la Chiesa di Pio XII si differenziava dalla Chiesa degli anni ‘70, soprattutto per la celebrazione del Concilio Vaticano II, che aveva indotto a rapportarsi al mondo con una metodologia completamente nuova. Assumere un comportamento in campo politico, come era stato nel 1948, in concreto, per Sferrazza significava un ritorno indietro, ignorando sia la novità dei due pontificati sia lo stesso Concilio. Le elezioni amministrative del 1975 decretarono la vittoria del Partito Comunista Italiano che raggiunse il traguardo storico del 32,7%, distaccandosi appena di due punti dalla Democrazia Cristiana che raggiunse a stento il 34,8%. Questo risultato fu salutato da Scelta con tono

215) L. SFERRAZZA, I cattolici aprono a sinistra? in Scelta 1-6-1975, 1. Se pur in contesti diversi Sferrazza proponeva lo stesso percorso dei cattolici liberali francesi, al tempo di Lamennais, che ponevano la libertà nel nome del vangelo, proprio mentre “la restaurazione dei vecchi regimi” nei paesi era stata apprezzata come fatto provvidenziale, cfr. C. GÈREST, Nostalgia dell’unità della Chiesa e politica di soffocamento dei conflitti, in Concilium, XI, 1975, 1476. Per poter usufruire della libertà i laici cattolici francesi dovettero aspettare l’elaborazione della teoria dei due piani grazie al contributo di J. MARITAIN che nell’opera Umanesimo integrale delinea le linee dottrinali del rapporto Chiesa-mondo nella situazione di nuova cristianità: la Chiesa contribuisce alla realizzazione del regno di Dio attraverso l’animazione del temporale senza sostituirsi al compito dello Stato nella realizzazione delle strutture, cfr. C. MOLARI, Liberazione, in NdTM (a cura di F.COMPAGNONI, G. PIANA, S. PRIVITERA) Cinisello Balsamo, 1990, 741. Y. CONGAR, Esquisse d’une thèologie de l’Action Catholique, in Cahiers du clergè rural, 1958, 351 citazione presa da G. GUTIERREZ, Teologia della liberazione, cit, 64. Da questa impostazione deriva quella che venne chiamata spiritualità dell’incarnazione, cfr. P. BOURGY, Thèologie et spiritualitè de l’Incarnation, Paris, 1960, 101.

131


trionfante. Nel suo articolo di fondo Alfonso Di Giovanna definiva le elezioni del 15 giugno come il 18 aprile alla rovescia: «Ci sembra invece che il 15 giugno vada considerato come una data autonoma, una di quelle date in cui si esprime una maturazione politica, una rivolta ponderata, scevra di rabbia e di cieca puntigliosità (nel ’72 la rabbia incoraggiò il fascismo allo scontro frontale), come quelle che lasciano, o aprono, un segno profondo destinato a spartire un cammino sin qui percorso da quello che resta ancora da percorrere»216.

Se il voto del 15 giugno per Di Giovanna mostrava la maturità dell’elettorato, a differenza di quello del 18 aprile 1948 frutto di paura, segnava anche l’inizio della fine del collateralismo tra la Chiesa e la Democrazia Cristiana, e auspicava che questa fine fosse totale poiché se ne sarebbe avvantaggiato il messaggio evangelico. Nel numero successivo di Scelta Di Giovanna ritornò a commentare il risultato elettorale che segnava, a suo dire, lo spartiacque tra due periodi storici completamente diversi: «gli italiani, infine, hanno coscientemente e consapevolmente fatto una scelta, lasciandosi alle spalle vecchie e pesanti ipoteche che, mentre da un lato vincolavano la coscienza a piatti conformismi, miravano, dall’altro, a consolidare l’ingiustizia di quelli che stavano sopra di noi»217.

216) A. DI GIOVANNA, Tramonto di un mito, in Scelta, 22-6-1975, 1. 217) A. DI GIOVANNA, Chi ha paura delle catacombe? in Scelta, 29-6-1975, 1.

132


B) Gli avvenimenti ecclesiali del 1975 a giudizio di Scelta

Non era solo la politica e il rapporto dei cattolici con la società che venivano ripensati dai cattolici della contestazione, ma anche le problematiche teologiche e la prassi ecclesiale. In questa parte poniamo attenzione alla comprensione del sacramento dell’Eucarestia e al tentativo di Scelta di spiegare le cause della crisi delle vocazioni sacerdotali, per focalizzare, infine, alcuni giudizi sull’operato della gerarchia cattolica. L’esperienza politica dei Cristiani per il socialismo indusse la comunità di base della parrocchia santi Pietro e Paolo di Favara, comunemente chiamata di “via Agrigento”, che era la loro roccaforte a livello diocesano, a pubblicare un ampio articolo su Scelta su come vivere il sacramento dell’Eucarestia. L’articolo, bene strutturato da una mano esperta dal punto di vista teologico, focalizzava l’attenzione sui seguenti tre punti: 1) l’Eucarestia nella religiosità del nostro ambiente, 2) l’Eucarestia nella nostra comunità, 3) l’Eucarestia e le contraddizioni della società e della Chiesa. Nel primo punto, la comunità di base fa un’analisi della concezione della Eucarestia nella diffusa religiosità popolare tradizionale; da questa la comunità prende le distanze perché la considera come conseguenza di una fede precettistica e magica «La religiosità tradizionale crede in un Dio che magicamente scende nel pane e nel vino, un Dio che invita alla comunione per purificare l’anima. La confessione è la condizione indispensabile per accostarsi degnamente alla comunione»218.

218) Una comunità si interroga sul senso dell’Eucarestia, in Scelta, 30-3-1975, 4.

133


Dopo il rifiuto del modo consueto di partecipare al sacramento, la comunità di base in modo propositivo indicava il rapporto tra la comunità e l’Eucarestia: «È necessario realizzare tra noi rapporti nuovi rinunciando alla proprietà privata del nostro io e mettendoci a completa disposizione gli uni degli altri non per creare un giro di amicizia ghetto ma per essere nel nostro ambiente stimolo contro lo sfruttamento e l’alienazione in favore di una società solidale e giusta. Senza questi presupposti l’Eucarestia diventa un atto vuoto che non può dare sostegno a chi vi partecipa»219.

Infine l’Eucarestia diventava momento di denuncia delle contraddizioni della società e della Chiesa: «Per noi celebrare l’Eucarestia significa assumerci tutte le nostre responsabilità in questo contesto socio-politico (…) L’Eucarestia per noi sarà vera nella misura in cui sapremo condividere tutte le ansie di liberazione degli sfruttati per realizzare una fraternità universale»220.

Alla Chiesa locale, inoltre, si rimproverava di aver appoggiato “sfacciatamente la politica degli sfruttatori per bassi motivi clientelari”221. La stessa necessità di coniugare vita liturgica e vita cristiana fu espressa dal settimanale Scelta, tramite un articolo di Luigi Ruoppolo, in occasione del convegno di luglio della Chiesa agrigentina sulle mete pastorali. Ruoppolo, denunciando la scarsa attenzione della Chiesa locale verso i problemi sociali, faceva le seguenti osservazioni:

219) L.c. La partecipazione al sacramento dell’Eucarestia come fondamento e significato della partecipazione alla lotta per la liberazione dei popoli poveri e sfruttati era un caposaldo della teologia della liberazione, legata ad una spiritualità completamente diversa da quella proposta dalla teologia europea cfr. G. Gutierrez, La teologia, cit., e L. Boff, Quando la teologia ascolta il povero, Assisi 1984. 220) L.c.

134


«Che senso ha infatti parlare di catechesi vitale per tutti se non si precisa l’avvenimento centrale della morte e della risurrezione del Cristo come avvenimento attuale di salvezza per l’uomo del nostro tempo da ogni forma di condizionamento personale e sociale? Che senso ha parlare dei sacramenti in maniera avulsa da un reale cammino di fede che si sviluppa all’interno di una vita spesa per una lotta all’opposizione in nome dell’uomo e della giustizia? Ed ancora: come può il discorso sulla famiglia non tenere in considerazione l’attuale posizione della donna, l’assistenza all’infanzia, la paternità e la maternità responsabile, ecc? O si vuole fare solo un discorso di consolazione spirituale che risolve gli incontri tra coppie cristiane in aggiornati cocktails religiosi per tranquillizzare le coscienze e continuare a vivere nel guscio della propria famiglia?»222.

Ma anche all’interno dell’Azione Cattolica si notavano atteggiamenti critici in alcuni esponenti. Sempre nel convegno dell’Azione Cattolica del 19-22 settembre 1975 La Barbiera auspicava che la Chiesa agrigentina ponesse maggiore attenzione ai problemi sociali e tentasse di ricucire la lacerazione che si era formata, a causa di una mancata prudenza e amore verso la Chiesa e l’uomo. Tuttavia egli considerava positive le tensioni che si erano verificate, pur dolorose, poiché stimolavano quel cambiamento che non era ancora avvenuto malgrado le prime spinte conciliari: «Subito dopo il Concilio erano emersi dei fermenti nuovi. Ma cosa si è risposto a questi fermenti e a queste tensioni? La risposta non è stata indubbiamente quella dell’accoglienza né quella del dialogo. Si è data una risposta prevalentemente repressiva e restauratrice. Non è il caso di citare tutti i momenti di questo processo. Potremmo citare varie vicende tra le quali la più emble-

221) Cfr. L.c. 222) L. RUOPPOLO, Parlando fra le nuvole, in Scelta, 20-7-1975, 3.

135


matica forse è quella di dom Franzoni che ha messo in subbuglio la comunità dei credenti in Italia»223.

Quali furono le cause che impedirono, a parere di La Barbiera, un vero cambiamento ecclesiale in diocesi? Le cause furono l’aggiornamento disorganico, la diffusa mentalità paternalistica nel clero, la presenza prevalente di donne, bambini e vecchi nella comunità, il burocraticismo e il fiscalismo tra clero e popolo, i ritualismi formali e alienanti a volte paganeggianti che esprimevano un distacco con la fede viva, una morale precettistica224. Verso la fine dell’anno la Conferenza Episcopale Italiana pubblicò una dichiarazione in cui, tra le altre cose, pose attenzione alla mancata riconciliazione all’interno della Chiesa a causa “dei gruppi dissidenti che si erano irrigiditi nel dissenso”225 malgrado ci si preparasse alla celebrazione dell’Anno Santo. Luigi Sferrazza, sul settimanale Scelta commentò tale dichiarazione. Se riconciliazione non c’era stata, la causa bisognava cercarla nei modi diversi di valutare il rapporto Chiesamondo e la concretizzazione della comunione ecclesiale. I cattolici del dissenso lottavano per una Chiesa povera, libera dai compromessi con il potere e dalla parte dei poveri. Chiedevano una Chiesa di comunione nella quale le decisioni dovevano essere prese insieme e verificate dalla comunità. Rilevava Sferrazza che proprio su questo argomento i vescovi italiani non volevano cedere, poiché essi sostenevano che la Chiesa non era una democrazia costituzionale. Che la Chiesa non fosse democrazia i cattolici del dissenso ne erano convinti, ma erano pur convinti che non fosse nemmeno autoritarismo: «Non è neanche potere. Non è neppure autoritarismo gerarchico. È qualcosa di più della democrazia. È una comunità di fede che vive e si incontra nell’amore. Una comunità in cui le scelte vanno verificate nella fede, in cui si cerca l’unità non sulla base del-

223) S. LA BARBIERA, Una Chiesa per l’uomo, in Scelta, 28-9-1975, 3. 224) Cfr. L.c.

136


l’obbedienza ad ordini dall’alto, ma sulla base del confronto con la Parola del Signore e della tradizione autentica della fede”226.

Fino a quando la Conferenza Episcopale Italiana avrebbe continuato ad usare toni minacciosi e autoritarismo, per i cattolici del dissenso non avrebbe potuto esserci nessuna forma di riconciliazione. Sul finire del 1975 dom Franzoni, in un’intervista rilasciata a Vincenzo Arnone e pubblicata da Scelta, dichiarava l’impossibilità di aprire un dialogo con la Chiesa, poiché i vescovi erano a pieno titolo nel sistema capitalistico, contro il quale i sostenitori del movimento Cristiani per il socialismo combattevano227. Perciò il giudizio sulla gerarchia era molto duro. Nuccio Mula scrisse: «Pensiamo a questa Chiesa che è diventata a livello di gerarchia un enorme e purpureo carrozzone impantanato nelle paludi limacciose della contraddizione tra teoria e prassi, della simbiosi sfacciata e interessata con il potere, del moralismo inquisitore e ottuso, fuori della realtà e del rispetto dei diritti civili, del vaniloquio formalistico e defatigante fatto di “appelli” qualunquistici, privi di scelte coscienti e coerenti, di prese di posizione ben precise verso la massa del popolo»228.

L’Anno Santo che Paolo VI aveva aperto durante la notte del Natale del 1974 aveva portato nelle Chiese locali la speranza di una riconciliazione soprattutto con i gruppi dissidenti che pullulavano nelle varie diocesi italiane, ma, purtroppo, i toni del contrasto aumentarono sempre più a tal punto da creare un’insanabile frattura. Quella riconciliazione che la Chiesa annunciava al mondo, ai lontani e agli indifferenti, nel nome di Cristo Redentore, non riusciva a vi-

225) Cfr. La tentazione di una crociata, a cura di L.SFERRAZZA, in Scelta, 28-12-1975, 4. 226) L.c. 227) Cfr. V. ARNONE, Incontro con Giovanni Franzoni, in Scelta, 28-12-1975, 3. 228) N. MULA, Ipocrisie sotto il vischio, in Scelta, 28-12-1975, 1.

137


verla nel proprio interno, dando, in questo modo, un forte segno di contraddizione alla stessa predicazione e agli stessi comportamenti, e andando, così, contro lo stesso monito di Gesù. Una Chiesa divisa che non trovava la strada maestra per riconciliarsi, che lievito poteva essere per un mondo diviso e lacerato nella politica, nei rapporti sociali, nelle famiglie, nel lavoro…? Proprio il 1975, l’Anno Santo, l’anno della conversione delle menti e dei cuori a Cristo, l’anno in cui dai pulpiti furono pronunciate innumerevoli parole di perdono per ritornare a Cristo, unico e vero riconciliatore, proprio durante quest’anno si allargava sempre più la dolorosa ferita nella Chiesa di Agrigento e nella Chiesa italiana.

138


La rottura tra il vescovo e i cattolici del dissenso

La mancata riconciliazione in ambito ecclesiale, malgrado si fosse celebrato il Giubileo, ebbe le sue conseguenze soprattutto nel 1976, che si caratterizzò difficile dal punto di vista ecclesiale poiché lo scontro tra i sostenitori del movimento Cristiani per il socialismo, coagulato dal gruppo redazionale facente capo al settimanale Scelta, e l’autorità della Chiesa si intensificò tanto che Petralia prese quei provvedimenti disciplinari che aveva sempre rifiutato, malgrado da diverse parti fosse stato sollecitato. Vediamo come si arrivò alla rottura vera e propria. Quell’anno, in preparazione al convegno nazionale della Chiesa italiana su Evangelizzazione e promozione umana, la diocesi agrigentina organizzò un incontro con il noto gesuita padre Bartolomeo Sorge, che, pur cercando nella linea montiniana un equilibrato dialogo, non faceva mancare le proprie critiche osservazioni sul materialismo ateo del comunismo e l’impossibilità della linea catto-comunista. L’incontro fu programmato per il 2 gennaio. Don Luigi Sferrazza, dalle colonne del settimanale Scelta, vide nella presenza del gesuita la volontà dei settori più reazionari della Chiesa di rendere compatta la lotta anticomunista, come era avvenuta nei decenni precedenti. Sferrazza, inoltre, rifiutava l’accusa rivolta da Sorge ai Cristiani per il socialismo di ridurre l’evangelizzazione a semplice impegno socio-politico229. 229) Cfr. L. SFERRAZZA, Parlando di dialogo rinnovando le scomuniche in Scelta 11-1-1976,1. Invece dobbiamo registrare che quanto meno quei cattolici che si rifacevano alle posizioni del salesiano Giulio Girardi vedevano nell’evangelizzazione il primato sociale e temporale su quello spirituale: “Non si tratta di affermare solo l’autonomia del temporale ma anche il suo primato sullo spirituale, cioè riconoscere che la verità religiosa deve essere giudicata alla luce della verità umana” (intervento di Girardi al II Convegno dei Cristiani per il socialismo, Napoli 1-4 novembre 1974, Pistoia, 1975, 11, cit. presa da G. LO JACONO, Il marxismo, cit.184). Fin dall’apparire del filone più radicale e rivoluzionario della teologia della liberazione, la Congregazione per la dottrina della fede ha visto il pericolo di dissolvere la storia della salvezza nella storia secondo un immanentismo storicista, cfr. S. DIANICH, Chiesa estroversa, cit., 92.

139


L’obiettivo principale che i cattolici del dissenso si proponevano era rompere la barriera anticomunista che era stata alzata dal fronte integralista, che si era ritrovato attorno a padre Sorge, anche a costo di dividere in due parti la Chiesa agrigentina, come scrisse Sferrazza nell’articolo in cui annunciava il convegno nazionale dei Cristiani per il socialismo dal 7 al 9 gennaio: «E nella nostra provincia tale contributo è stato caratterizzato dal contrasto che ha spaccato in due la Chiesa agrigentina e che ha demarcato in maniera più chiara la linea che divide sfruttati e sfruttatori, ma che ha accelerato contemporaneamente il processo di ricomposizione dell’unità della classe lavoratrice»230.

Dunque la spaccatura all’interno della Chiesa agrigentina, secondo la valutazione di Sferrazza, era un fatto positivo poiché, oltre a demarcare le due tendenze opposte, univa tutti coloro che lottavano per un unico progetto politico. Infatti, per tutta la primavera del 1976 l’attività dei cattolici dissidenti in provincia fu diretta a rendere ancora più palese la rottura ormai avviata nel mondo cattolico dal punto di vista politico, in modo da liberarsi dalla Democrazia Cristiana e fare una scelta a sinistra: «Si tratta di favorire ulteriormente quella rottura politica del mondo cattolico che, già da tempo iniziata, deve trovare in occasione delle prossime elezioni una conferma non più equivoca. Perché le scelte politiche – dicono i Cristiani per il socialismo non possono essere compiute in base alla fede ma in forza dei reali interessi della gente. Per cui i lavoratori, gli operai, i con-

230) ID, Cristiani nella sinistra, militanti nelle lotte di liberazione in Scelta,12-12-1976, 1. Il movimento dei Cristiani per il socialismo nasce in Cile, sotto Allende, nell’aprile 1971, con l’adesione di ottanta sacerdoti. A Santiago nel 1972 si svolse il I convegno. In Italia il I convegno si tenne nel 1973 a Bologna. Il II convegno a Napoli nel 1974, che si chiuse al canto di “Bandiera rossa”. Fu il momento culminante del movimento che contava 200 gruppi con 20.000 aderenti, tra cui mille sacerdoti. Il III convegno si tenne a Roma nel gennaio 1977 e segnò la fase calante del fenomeno politico ed ecclesiale.

140


tadini, le casalinghe –anche se credenti - non possono più continuare ad avallare un partito politico che presentandosi con l’etichetta di cristiano ha tradito non tanto e non soltanto i principi cristiani, quanto le reali esigenze di tali classi sociali»231.

Sicché le elezioni nazionali, annunciate per la tarda primavera, dovevano segnare la divisione politica di quel mondo cattolico dopo i decenni di configurazione compatta a favore della Democrazia Cristiana. È su questa tematica che si misuravano politicamente i cattolici del dissenso, che valutarono, come un ritorno al passato, la nomina di mons. Maverna a segretario della Conferenza Episcopale Italiana. Secondo questi cattolici, Maverna quando aveva ricoperto l’incarico di assistente nazionale dell’Azione Cattolica aveva bloccato il tentativo del rinnovamento e del disimpegno dell’associazione nei confronti della Democrazia Cristiana232. Lo scontro politico si fece più intenso soprattutto a partire dall’aprile 1976 poiché, a due mesi di distanza, gli italiani erano chiamati a rinnovare il Parlamento con un Partito Comunista Italiano che, oltre a riconfermare il successo delle amministrative del ’75, mirava al sorpasso nei confronti della DC. Nella primavera del 1976, in preparazione al delicato appuntamento elettorale, i cattolici del dissenso confluiti nel movimento Cristiani per il socialismo organizzarono un’assemblea provinciale con l’intento di costruire una società democratica e socialista. Per far conoscere gli scopi che si prefiggevano fu distribuito un volantino - a firma di Stefano Bacchi, Tatà Alba, Luigi Sferrazza e Antonio Vetro – in cui si affermava anche il modo di come doveva avvenire la costruzione di questa nuova società: «Perché questa evoluzione politica si possa accelerare anche nell’agrigentino pensiamo che sia necessaria una presenza organiz-

231) L. RUOPPOLO, Fede in Cristo o nella DC?, in Scelta, 13-6-1976, 2. 232) Cfr. ID., Marcia indietro, in Scelta, 4-4-1976, 1.

141


zata dei Cristiani per il socialismo al fine di potere intervenire all’interno del cosiddetto mondo cattolico rimasto – anche il 15 giugno – sostanzialmente compatto intorno alla DC. Questo per evidenziare più efficacemente le contraddizioni e per meglio stimolare la maturazione politica dei credenti. Chiarendo che la scelta socialista non solo non è in contrasto con la fede ma viene da noi credenti vissuta come approfondimento della fede stessa»233.

Anche il settimanale Scelta diede risalto alla presentazione dell’assise provinciale tramite un ampio articolo di Luigi Sferrazza, che, dopo aver denunciato l’alleanza tra la Chiesa e la Democrazia Cristiana, rimproverava alla Chiesa agrigentina di utilizzare la religiosità popolare in modo alienante per addormentare le coscienze e mantenere i legami col potere: «Nessuna meraviglia, quindi, se le sacrestie sono punto di riferimento per i rapporti clientelari tra masse cattoliche e notabili DC (raccomandazioni, favori…) e, durante la campagna elettorale, sono stazioni di servizio dei vari candidati democristiani. In questa situazione la Chiesa ufficiale non mostra di tentare il minimo di rinnovamento anzi molti fatti fanno pensare che l’indirizzo attuale della Chiesa sia quello di continuare a gestire la religiosità popolare, spesso alienante, a mantenere intatti i suoi legami politici»234.

233) NUCLEO PROMOTORE DEI CPS, A tutti i credenti dell’agrigentino che lottano e militano per la costruzione di una società socialista, aprile 1976. Si tratta di un volantino che gentilmente mi ha fatto pervenire Luigi Sferrazza. 234) L. SFERRAZZA, Cristiani per il socialismo si organizzano, in Scelta, 11-4-1976, 1. Tra gli anni ’60 e ’70 in molti ambienti ecclesiali si preferiva parlare di fede genuina al posto di religiosità popolare poiché quest’ultima era considerata come alienante e negativa nei confronti dei poveri sfruttati. Il rifiuto della religiosità popolare nei cattolici del dissenso bisogna trovarlo nel pensiero di Karl Marx, del quale ricordiamo la massima: “La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore (…). Essa è l’oppio del popolo”Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Marx-Engels, Opere complete, III, Roma 1976, 190. Il pensiero di Marx passò abbondantemente nella teologia della liberazione tramite i più acuti sostenitori.

142


Le stesse accuse furono formulate nel documento finale a conclusione dell’assise provinciale, dove, in modo prevalente, si puntava ancora una volta, e con una certa insistenza, il dito contro la religiosità popolare, la quale era considerata la causa che teneva addormentate le coscienze nella lotta di liberazione contro gli sfruttatori capitalisti-borghesi alleati della Chiesa tramite la Democrazia Cristiana235. Strategicamente il movimento dei Cristiani per il socialismo non nacque, almeno in provincia di Agrigento, con lo scopo di formare un nuovo partito cattolico di sinistra, ma di spostare a sinistra le masse cattoliche coinvolgendo, in questo processo, comunità e gruppi di base, parrocchie, sinistra Acli, sinistra Cisl ecc.236, infatti nel documento finale dell’assise provinciale veniva affermato che: «il movimento si pone come obiettivo non solo il superamento della fase di dialogo tra cristiani e marxisti, ma anche la definitiva rottura politica e culturale dei cattolici secondo la loro appartenenza di fede per contribuire, invece, alla ricomposizione unitaria del proletariato e alla costruzione di un blocco capace di imporre una profonda trasformazione al paese su base laica, democratica e antifascista»237.

Il dialogo, tanto auspicato e invocato in quegli anni, tra cristiani e marxisti non era, dunque, la meta finale, come precedentemente e in altre circostante era stato affermato, tramite la richiesta del pluralismo politico, ma una fase intermedia che doveva condurre oltre alla rottura politica dei cattolici – comprensibile dal punto di vista dei Cristiani per il socialismo (Cps)238 – con lo sfaldamento della Democrazia Cristiana, alla rottura dell’identità culturale cattolica, cioè di quella identità che,

235) L’accusa rivolta alla religiosità popolare con tutte le sue manifestazioni è una costante nel movimento Cristiani per il socialismo. 236) PRIMA ASSEMBLEA PROVINCIALE DEL MOVIMENTO CPS, Documento conclusivo, 3 aprile 1976, 2. 237) L.c. 238) Cps – Cristiani per il socialismo.

143


oltre ad aver permeato il Paese, aveva anche dato le basi ideologiche alla stessa presenza dei cattolici in politica. Se dall’ottica dei Cps, strategicamente questa era la strada per la ricomposizione unitaria del proletariato, dove ogni militante era chiamato all’impegno politico indipendentemente dalla matrice culturale di provenienza, questa strada veniva considerata pericolosa negli ambienti ecclesiali, perché vedevano sciolta l’identità cristiana nell’impostazione filosofica del marxismo. Mentre la Chiesa agrigentina organizzava incontri primaverili in preparazione al convegno della Chiesa italiana, anche i cattolici del dissenso ne organizzarono uno in alternativa sul tema Evangelizzazione e promozione umana nell’agrigentino, che si svolse al cinema teatro Sociale di Canicattì, a cui parteciparono tutti i responsabili provinciali dei movimento Cristiani per il socialismo. Pino Lanza, nel suo intervento introduttivo, oltre a sottolineare la necessità del pluralismo politico, ricordava che l’evangelizzazione e la salvezza dovevano coinvolgere tutto l’uomo presente nel tessuto sociale239.

239) Cfr. G. LANZA, Primo: essere incarnati, in Scelta, 18/25-4-1976, 3. Y. Congar, citando lo studio della suora E. Germain, ci ricorda che a partire dal Concilio si sviluppa un nuovo modo di comprendere la salvezza, tralasciando il modello che sottolineava la salvezza dell’anima individuale tramite gli atti di pietà e che aveva interessato la teologia fino alla metà di questo secolo, cfr. Y. CONGAR, Un popolo messianico, Brescia 1976, 140, nota 8. Osserva Congar che la vecchia concezione popolare della salvezza è durata molto oltre il Medioevo fino ad arrivare al Novecento. Mentre la definizione della salvezza, attraverso la visione beatifica o la risurrezione, non indicava il rapporto con il presente, oggi sono in uso formule che lo indicano chiaramente, come ad esempio: “la pienezza della propria esistenza” W. KASPER, Introduzione alla fede, Brescia 1972, 127. Non si tratta solamente di giungere ad un futuro trascendente, ma di essere, fin d’ora, “uomini nuovi…di essere di più, più completamente” E. PIRONIO, Teologia de la liberacion in Teologia, 8 (1970) 10. Se si considera l’uomo come un essere che tende all’autorealizzazione si può capire come alcuni considerino la salvezza come “integralità, realizzazione definitiva di se stessi” A.H. MASLOW, Verso una psicologia dell’essere, Roma 1971, 15. La salvezza che investe la comunione delle persone e travolge anche le strutture sociali come anticipazione profetica del regno dei cieli si è abbondantemente sviluppata con la teologia della liberazione. In questa linea Boff definisce il cielo come “la patria ed il focolare dell’identità, dove tutte le cose incontrano se stesse, nella loro suprema profondità” L. BOFF, Vita oltre la morte, Assisi, 1974, 62. Il Concilio Vaticano II ha tradotto la formula “sacramento di salvezza” con “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”Lumen Gentium 48, parlando della Chiesa. E nel numero 13 della Lumen Gentium il Concilio sottolinea, tra l’altro, che la salvezza è una realtà di comunione con Dio e con gli uomini tra loro. Questo concetto è stato ampiamente sviluppato da G. GUTIERREZ Teologia, cit, 150, e da altri autori e, in ambito agrigentino, dai sostenitori del movimento Cristiani per il socialismo.

144


Se Pino Lanza nel suo moderato intervento si limitava ancora una volta a chiedere il pluralismo politico per i cattolici, si mostrava, invece, più intransigente don Luigi Sferrazza. Ora sul tanto auspicato pluralismo dei cattolici nelle scelte politiche, mi sembra che tale insistenza – durava almeno da cinque anni – fosse fuori luogo, perché, tutto sommato, quando i cattolici esprimevano nel segreto delle urne il proprio consenso, nessuna forza di coercizione impediva l’uso dello strumento democratico e ne orientava le scelte. L’intransigenza di Sferrazza non riconosceva alla Chiesa agrigentina la capacità di andare al cuore dei problemi vitali della società. Infine, Damiano Zambito, nella relazione finale, accoglieva le istituzioni e le opere cattoliche purchè non venissero considerate come strumento per conquistare la società.

145


146


A) Scelta e le elezioni politiche del 1976

In un clima elettorale incerto si svolsero le elezioni politiche del 1976, che furono le più tormentate dal dopoguerra, dopo la vittoria democristiana del 18 aprile 1948, perché l’avanzata comunista stava seriamente mettendo in difficoltà i precari equilibri all’interno delle forze politiche e aveva anche deteriorato il quadro politico italiano. Se in ambito ecclesiale la campagna elettorale si svolse all’insegna del temuto sorpasso, nell’ambito del dissenso si svolse nella speranza del sorpasso. Se la Chiesa italiana tentò la compattezza del proprio elettorato per far fronte al pericolo comunista, i cattolici del dissenso giocarono tutto per rompere proprio questa unità che alimentava elettoralmente la Democrazia Cristiana. I due settimanali agrigentini L’Amico del Popolo e Scelta furono i protagonisti dello scontro frontale e anche della più vistosa spaccatura della Chiesa agrigentina di questo secolo. Ad un mese dalle elezioni, con una campagna elettorale infuocata, Luigi Sferrazza sul settimanale Scelta ricordava ai lettori che nelle liste del PCI c’erano come candidati indipendenti i cattolici La Valle, Pratesi, Gozzini, Brezzi, Romanò, Toschi che sceglievano di testimoniare la propria fede tra i lavoratori e sostenevano che era possibile essere contemporaneamente marxisti e cristiani. Nell’articolo di presentazione, Sferrazza considerava antiquata la dichiarazione del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, card. Poma che, dalle colonne de L’Osservatore romano del 12 maggio, ricordava ai cattolici la necessità di osservare le leggi che disciplinano la comunione ecclesiale240. Con questo ar-

240) Cfr. L. SFERRAZZA, La scomunica? No, non serve a nessuno, in Scelta, 23-5-1976, 1. Nell’articolo di fondo apparso su la Repubblica, non firmato, probabilmente scritto da Eugenio Scalfari, come si deduce dallo stile, si rimproverava alla gerarchia di proporre un modello di Chiesa da crociata contro i catto – comunisti, tipico della Chiesa di papa Pacelli, dimenticando il Concilio Vaticano II e il Magistero di Giovanni XXIII; cfr. La Chiesa di Pacelli, in la Repubblica, 18 – 5 – 1976.

147


ticolo Sferrazza recepiva in pieno le conclusioni del comitato nazionale dei Cristiani per il socialismo, che, riunitosi a Roma, aveva lanciato un appello a tutti i cattolici a votare a sinistra241. La tornata elettorale permise ai cattolici del dissenso di rivolgere una critica alla Chiesa che, secondo loro, ancora era legata al potere per la difesa dei propri interessi. Essi rifiutavano il modello ecclesiocentrico della Chiesa242 per dare spazio ad una Chiesa che per convertire gli uomini si affida alla potenza della Parola di Dio. Gli stessi temi furono ripresi e sviluppati durante l’incontro con dom Giovanni Franzoni al cinema “Garden” di Agrigento. Pino Lanza, nell’introdurre l’incontro, ebbe parole lusinghiere per Di Giovanna e Franzoni: «Due uomini, due sacerdoti che, seppur a livelli diversi, sintetizzano i conflitti e le contraddizioni del nostro tempo; operatori di un’ecclesiologia radicata nell’amore autentico agli umili, agli esclusi, agli sfruttati; due uomini che ci hanno insegnato che la libertà dei deboli è la giustizia, mentre la libertà dei forti è l’ingiustizia»243.

241) Cfr. E. MINIO, Per l’unità delle forze democratiche, in Scelta, 23-5-1976, 2. 242) Cfr. G. LANZA, Il pluralismo è una bestemmia, in Scelta, 30-5-1976, 1. La teologia della liberazione contribuì al superamento della concezione ecclesiocentrica della Chiesa che si esprimeva nella massima “fuori dalla Chiesa nessuna salvezza”; contribuì, anche, al superamento dell’identificazione dello Stato con la Chiesa che dal decreto di Tessalonica del 381 era pervenuta fino alle porte del Concilio Vaticano II. Secondo Gutierrez e altri autori, il superamento ci riallaccia al primo periodo patristico della Chiesa, in cui i Padri avevano sviluppato ampiamente il tema della chiamata universale alla salvezza, anche fuori dalla Chiesa, perché l’autore della salvezza è Cristo. Una Chiesa difensiva, che guardava alla difesa dei propri interessi, per i Cristiani per il socialismo era un fatto anacronistico. Secondo Gutierrez le categorie ‘sacramento’ e ‘segno’, recuperate dal Concilio con la Lumen gentium, permettevano di pensare alla Chiesa in modo diverso da come l’aveva pensato l’ecclesiologia preconciliare: cfr. G. GUTIERREZ, Teologia, cit., J.B. METZ, Sulla teologia del mondo, Brescia, 1974, J.B. LIBANIO, La teologia della liberazione nell’America latina, in Rassegna di Teologia, 5 (1998) 645-681. Il superamento della comprensione ecclesiocentrica della Chiesa condurrà, nell’approfondimento della ricerca teologica, alla ecclesiogenesi, particolarmente seguita dalle comunità di base dell’America latina: la comunità si riunisce sotto il soffio dello Spirito Santo per l’ascolto della Parola di Dio, per la frazione del Pane Eucaristico e per la condivisione dei problemi della comunità stessa. Possiamo affermare che, dal punto di vista del modello ecclesiologico, i cattolici del dissenso pensavano di più al modello di Chiesa elaborato dalla teologia dell’America latina, ed espresso nelle comunità di base, e non al tipo di Chiesa, ancora presente nel decennio ‘65-’75, espresso dalla teologia europea. 243) L. RUOPPOLO, Schiavi degli schiavi, liberi nelle scelte politiche, in Scelta, 30-5-1976.

148


Nel suo intervento non scritto, Franzoni ribadì con insistenza la libertà politica per i cattolici in modo da coniugare messaggio cristiano e lotta di classe per i poveri sfruttati, considerati luogo storico dell’annuncio della Buona Novella244. Alla vigilia delle elezioni politiche del 1976 la polemica frontale tra L’Amico del Popolo e Scelta si fece più serrata. All’editoriale pubblicato dal settimanale diocesano L’Amico del Popolo con il provocante titolo Parroco a Mosca, in cui si poneva in risalto l’oppressione comunista e la mancanza di libertà religiosa nelle chiese per annunciare il vangelo, il settimanale Scelta rispondeva con un altro editoriale: Parroco ad Agrigento nel quale, dubitando sull’oppressione marxista a Mosca, invitava a guardare da vicino la realtà agrigentina: «Ma perché indicare alla gente un modello di oppressione politica, religiosa e sociale molto lontano dal nostro quando nel nostro Paese si condiziona moralmente e psicologicamente la libertà di voto, quando da noi la realtà sociale ed economica non crea che disoccupazione, miseria e disperazione, quando da noi la tirannia si rivela attraverso i latrocini di Stato, il malcostume amministrativo, il soffocamento delle istituzioni democratiche per abuso di gestione, quando da noi il clientelismo, il ricatto per il posto di lavoro, le oligarchie della ingiustizia prosperano indisturbati sulla carne degli indifesi persino col silenzio degli ecclesiastici?»245.

In quella infuocata campagna elettorale del 1976 non mancarono le provocazioni anche di basso profilo. I democristiani di Castrofilippo avevano propagandato con fogli ciclostilati la ‘scomunica’ inflitta da Petralia nei confronti di Damiano Zambito. Egli, per provare l’infon-

244) Io mi trovai presente e rimasi colpito dal clima di intolleranza. Infatti, quando sul palco salì e prese la parola il prof. Andrea Cilona, che ricordò i diritti violati nei paesi comunisti, la Chiesa perseguitata e i campi di concentramento, fu ampiamente fischiato, contestato anche con frasi offensive. 245) Parroco ad Agrigento, in Scelta, 20-6-1976, 1.

149


datezza della notizia, concelebrò la santa Messa assieme ai sacerdoti Di Giovanna, Morreale, Sferrazza, Pirrera, Barbera, Traina, Brancato, Acquisto, Salvo e Proto246. Alle elezioni politiche il sorpasso comunista non ci fu, le forze centriste e moderate serrarono le fila e fecero confluire il consenso ancora verso la Democrazia Cristiana che recuperò significativamente nei confronti dell’esito elettorale delle Amministrative dell’anno precedente, e diede un nuovo impulso per la formazione del nuovo governo. È vero che qualora fosse avvenuto il sorpasso non avrebbe comportato automaticamente l’ingresso del Partito Comunista Italiano nella compagine governativa, perché, soprattutto su argomenti di politica estera (Patto Atlantico e Alleanza Nato) il PCI di Enrico Berlinguer aveva fatto la scelta neutrale non condivisa dai partiti laici. Ma se la Democrazia Cristiana a seguito di una competizione così impegnativa, come le nazionali, non fosse risultata il partito di maggioranza relativo sarebbe stato quanto meno recepito dall’elettorato come l’inizio del decadimento. Di Giovanna, vedendo la possibilità concreta di fare un governo senza la DC, se pur risicato, pubblicò un editoriale con il significativo titolo Fare l’unità, per invogliare l’elettorato a guardare al bipartitismo inglese: «Per noi questi risultati costituiscono un segno eloquente della volontà delle classi lavoratrici verso quell’unità, machiavellicamente spezzata dalla classe padronale, per uscire dal “disordine stabilito”, dall’equivoco di mettere insieme gli interessi autentici del Paese reale, che lavora, produce e progredisce nello sforzo di realizzare forme più umane e più eque di vita sociale che vuole gestire direttamente, e il paese formale, truffaldino, parassita e sfruttatore, stabilizzato sulle comode posizioni del “tanto peggio tanto meglio” per continuare a governare»247.

246) Cfr. Insieme a Cristo, in Scelta 20-6-1976, 2. 247) A. DI GIOVANNA, Fare l’unità, in Scelta 27-7-1976, 1.

150


B) La rottura tra i preti del dissenso e Petralia

Il 1976 sarà certamente ricordato come l’anno più infausto della Chiesa agrigentina, poiché lo scontro tra Petralia e i preti del dissenso arrivò al punto che Petralia prese dei gravi provvedimenti, che lacerarono la già minata comunione ecclesiale. Nei primi di febbraio l’Azione Cattolica agrigentina si raccolse in un convegno alla presenza dell’assistente nazionale don Piero Barberi. Questo convegno, a pochi mesi dalle elezioni politiche, fu considerato dal settimanale Scelta, dai preti e dai cattolici del dissenso come un ulteriore tentativo messo in atto dalla Chiesa italiana per rendere compatto il voto cattolico contro il pericolo comunista. E Scelta sottolineava che anche il convegno Evangelizzazione e promozione umana in realtà si stava rilevando come il tentativo di soffocare le istanze di rinnovamento presenti nella Chiesa e nella società248. Qualsiasi iniziativa portata avanti dalla Chiesa agrigentina veniva considerata dai cattolici del dissenso come il tentativo di riunire i cattolici per contrastare l’avanzata dei partiti di sinistra, dimostrando così che la lettura sociologica era prevalsa nella critica dei cattolici del dissenso sui fatti di Chiesa. Nei primi di marzo Paolo VI nominò don Luigi Bommarito vescovo ausiliare di Agrigento, suscitando interesse in tutta la Chiesa agrigentina. Anche la nomina del nuovo vescovo ausiliare non passò, ovviamente, inosservata a Scelta, che, fin dall’inizio, nutriva serie perplessità soprattutto perché era venuta a conoscenza che don Luigi Bommarito era della stessa diocesi d’origine di Petralia, Monreale, ed era stato suo alunno nel corso degli studi di teologia in seminario; alcuni, addirittura, sostenevano che fosse un suo figlioccio.

248) Cfr. Un passo indietro, in Scelta, 22-2-1976, 3.

151


La nomina di Bommarito offrì a Scelta l’occasione per proporre un nuovo metodo per la designazione dei vescovi, in modo che la comunità ecclesiale venisse coinvolta: «Il dibattito e la discussione chiesti per decidere sull’opportunità o meno di avere un vescovo ausiliare e sceglierlo, non sono delitti di lesa segretezza. Un vescovo non è un funzionario. La comunità deve saper perché il vescovo ordinario chiede o, se gli viene imposto, per quali ragioni gliene viene imposto uno piuttosto che un altro”249.

La missione popolare predicata dai padri passionisti a Canicattì nella quaresima del 1976 fu motivo di riflessione dei cattolici del dissenso che presentarono, se pur indirettamente, una propria linea di spiritualità. A sentir ciò che il settimanale Scelta scrisse sulla missione canicattinese, i padri passionisti, pur avendo predicato con zelo, non svegliarono l’opulenta città dell’uva Italia dal torpore poiché la stessa predicazione

249) Un fatto di Chiesa, in Scelta, 28-3-1976, 1. I cattolici del dissenso avevano come modello di Chiesa le comunità di base, che nacquero in America latina e cercarono di fare ingresso in Europa. Esse si appellavano all’ecclesiologia del Concilio. Osserva Libanio che l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II non è stata omogenea, poiché ha assunto elementi della modernità, di una visione di comunione, di partecipazione, di autonomia soggettiva accanto ad altri propri di uno schema giuridico, verticale, autoritario e gerarchico (cfr. A. ACERBI, Due ecclesiologie: ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella “Lumen gentium”, Bologna 1975; A. ANTÒN, Ecclesiologia postconciliare: speranze, risultati e prospettive, in R. LATOURELLE, Vaticano II. Bilancio e prospettive. 25 anni dopo (1962-1987), Assisi 1987, 363. Per questo le correnti ecclesiologiche successive al Concilio si sono divise, ora utilizzando i documenti del Concilio Vaticano II per rinsaldare l’ecclesiologia anteriore, ora per affermare gli elementi nuovi introdotti con la modernità. Paradossalmente lo stesso Concilio è servito a rinsaldare le posizioni tradizionali e a incentivare nuove esperienze e riflessioni ecclesiologiche. La teologia della liberazione ha assunto la seconda posizione, tentando di elaborare un nuovo modello di riflessione orientato sulle comunità ecclesiali di base (CEB) che dovevano essere contemporaneamente denuncia e annuncio. Sorge un nuovo modello di Chiesa che nasce dalla fede del popolo fortificata dallo Spirito di Dio. La Chiesa diventa popolo e il popolo diventa Chiesa (cfr. L. BOFF, E a Igreja se fez povo. Eclesiogenese: a igreja que nasce da fè do povo, Petròpolis 1986, citazione presa da J. B. LIBANIO, La Teologia della cit., 655 nota 36. Questo nuovo modello, che Boff ha chiamato “ecclesiogenesi”, mirava a una Chiesa popolare e partecipativa. In questo modo si spostava l’asse ecclesiologico: dalla Chiesa al Regno di Dio e al popolo di Dio. La teologia e la pratica Pastorale hanno sviluppato quattro realtà ecclesiologiche: una Chiesa con CEB, una Chiesa di CEB, una Chiesa organizzata come assemblea del popolo di Dio e una dotata di nuovi ministeri laicali.

152


«era apparsa pre-conciliare, ed a tratti anti-conciliare; non sono mancate le eccezioni, le diversificazioni, ma sono servite a confermare il giudizio globale. Una predicazione di difesa, più che d’attacco, apologetica, preoccupata, talora, delle conseguenze temporali e stanche di certe affermazioni che non del loro valore profetico e critico nei confronti della cristianità locale, non sempre, infine, la missione è apparsa ancorata alla situazione socioreligiosa di Canicattì”250.

I cattolici del dissenso avevano sviluppato una propria spiritualità che attingeva alla stessa teologia della liberazione che, anzitutto, mirava al superamento di ogni forma di dualismo. Tale teologia, prendendo spunto dall’esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi, si poneva il quesito sulla missione evangelizzatrice della Chiesa. Essa, pur riconoscendo la priorità del campo religioso, mirava al superamento del dualismo naturale/soprannaturale, sacro/profano, mondano/divino. Per la teologia della liberazione, la missione della Chiesa, secondo la volontà del suo fondatore, Gesù Cristo, doveva mirare ad evangelizzare tutte le dimensioni dell’esistenza umana, quelle interiori (come l’umanizzazione delle nostre passioni), quelle personali (come il superamento dello spirito di vendetta), il perdono dei nemici e la fratellanza, quelle sociali (come l’impegno a favore degli oppressi dalla fame, contro la violazione del loro diritti)251.

250) Per un messaggio cristiano autentico, in Scelta, 11-4-1976, 1. 251) Cfr. L. BOFF, Quando la teologia ascolta il povero, cit. La teologia della liberazione sviluppò determinate analisi anche grazie al contributo della teologia politica di JOHANN BAPTIST METZ che, con l’opera Sulla teologia del mondo, Brescia, 1974, sul finire degli anni ’60, tentò di far uscire la riflessione teologica dal rango del privatismo in cui si era cacciata, poiché notava che la riflessione teologica, anche quella che seguiva l’indirizzo personalista, aveva la “tendenza al privato”. Nell’opera citata Metz diceva: “Le promesse escatologiche della tradizione biblica – libertà, pace, giustizia, riconciliazione – non possono essere privatizzate. Esse spingono sempre di più alla responsabilità sociale” (pag 113). Nella teologia politica di Metz trovò ampio spazio la riserva escatologica che stimolava ad avere un rapporto critico e dialettico nei confronti del presente storico. Le promesse a cui esso si riferiva non sono un orizzonte vuoto di religiosa attesa, ma imperativo critico e liberante per il nostro presente, pertanto scriveva Metz: “Ogni teologia escatologica deve diventare perciò, in quanto teologia politica, una teologia critica della società. Da questa nuova impostazione teologica scaturiva un modo nuovo di comprendere il rapporto Chiesa-mondo.

153


Questi erano i tratti salienti di una spiritualità incarnata per i cattolici del dissenso, che non trovavano traccia nella predicazione dei padri passionisti. La quaresima del 1976 fu un vero calvario per la diocesi agrigentina, perché, per la prima volta, Petralia e Sferrazza arrivarono ad un passo dalla rottura. La causa del contrasto fu un articolo di Sferrazza sulla risurrezione di Cristo, seguito da un documento della comunità di base di Favara, a cui rispose Petralia che indusse Sferrazza a chiarire determinati argomenti. In prossimità della Pasqua, Sferrazza pubblicò l’articolo sulla risurrezione espresso in tre punti: 1) quando la fede nella risurrezione è alienante, 2) quando la fede nella risurrezione è forza liberante, 3) quando la fede non si inventa ma si vive. Sul primo aspetto scriveva Sferrazza: «certo per noi credenti la ‘fede’ nella risurrezione del Cristo diventa un fatto alienante se si riduce ad una soddisfazione immaginaria con cui cerchiamo di rimandare i problemi e le frustrazioni attuali ad un indefinito futuro dopo la morte. La fede nella risurrezione diventa alienante se oggi inibisce la prassi di liberazione, se non ti fa fare niente per superare le difficoltà sociali perché ‘tanto’ poi c’è il paradiso. La nostra fede nella risurrezione è alienante e frutto di immaginazione se ci fa chiudere gli occhi davanti a tutte le lacerazioni e alle divisioni di classe per fare stare insieme – con l’illusione dell’unità di fede sfruttati e sfruttatori, padroni e servi lasciando invariato il ruolo di ognuno (lo sfruttatore resta sfruttatore, il padrone resta padrone). Questo è il tipo di fede divenuta “credenza”, una credenza non sorretta da fatti concreti che portano salvezza»252.

Nell’orizzonte di questa teologia, il mondo non viene inteso come cosmo, contrapposto alla persona e nemmeno come realtà puramente esistenziale e personale, bensì come realtà sociale in un processo storico. E la Chiesa non vive accanto o al di sopra di questa realtà, bensì in essa come istituzione critica della società” pag.115. La teologia della liberazione trovò ampi riferimenti nella teologia politica. 252) L. SFERRAZZA, Risorgere dalla muffa delle carceri e dai roghi, in Scelta, 18/25-4-1976, 1

154


Se questo primo punto era un invito a costruire il regno dei cieli fin da questo mondo, il secondo punto era certamente il più controverso, perché considerava la prassi, e certamente la prassi scaturita dall’analisi marxista, elevata a criterio di verità, come regola per discernere la vera fede: «Quando la prassi dei credenti è una prassi che libera o tende alla liberazione dell’uomo, delle sue strutture, del suo avvenire, allora vuol dire che la fede che ci sta sotto è una fede autentica. Se noi leggiamo attentamente le Scritture ci rendiamo conto che l’affermazione della “Risurrezione di Gesù per opera del Dio dei vivi” non nasce in un luogo qualunque, in un gruppo di uomini inerti che pensano di risolvere così le loro frustrazioni. Il luogo in cui nasce la fede nella risurrezione è la comunità: è nella prassi di coloro che avendo creduto nel messaggio del falegname di Nazaret, seguito dai proletari e perseguitato dalle classi dominanti, avevano cominciato a trasformare i loro rapporti sociali concreti»253.

Sul terzo aspetto invitava la Chiesa a vivere la fede nella risurrezione in contrapposizione al potere dominante254. Più controverso fu il documento della Comunità cristiana di base di Favara sulla resurrezione, in cui, oltre a considerare alienante la fede nella risurrezione come soddisfazione dei bisogni e premio per ‘una vita esemplare’ dubitava sulla risurrezione storica di Gesù: «Nella comunità non ci poniamo il problema della fine del corpo di Cristo, anche se su questo punto ci sono delle differenziazioni nelle posizioni: qualcuno inclina a credere nella risurrezione del corpo fisico di Cristo, qualcuno crede nella risurrezione nel senso che il suo messaggio vive ancora oggi in noi. La maggior parte

253) L.c. 254) Cfr. L.c.

155


delle persone della comunità pensa, invece, che il racconto sul sepolcro vuoto del vangelo è una drammatizzazione di un fatto di fede: la vita dell’uomo nuovo Gesù che si realizza in ogni sua scelta e che continua oltre la morte, per cui Cristo, questo “uomo nuovo” è qui, tra noi (…) Resta, per la nostra comunità e per ognuno di noi, di far diventare storica, reale, concreta l’esperienza di resurrezione»255.

Solo a partire da una fede che diventava prassi, la risurrezione di Cristo era reale: «La risurrezione è reale se la fede diventa prassi»256.

Petralia prese subito posizione nei confronti sia di Sferrazza sia della comunità di base, perché vedeva messa in discussione la risurrezione di Cristo, cardine e fondamento della fede cristiana, senza la quale la stessa Chiesa non avrebbe avuto senso e la celebrazione liturgica sarebbe stata vuota di contenuti. Petralia, come pastore della Chiesa agrigentina, maestro e garante della fede trasmessa dagli apostoli, avverte tutta la responsabilità e il dovere di rispondere a chiare lettere, senza indugio.

255) COMUNITÀ CRISTIANA DI BASE DI FAVARA, La nostra fede a confronto con la risurrezione di Cristo, in Scelta, 18/25-4-1976, 6. Qui la concezione della Comunità di base sulla risurrezione dipende dal pensiero marxista e non dalla teologia della liberazione. Nel pensiero marxista la fede nella risurrezione di Gesù e nel suo regno messianico erano il riflesso di una risurrezione sociale e di un nuovo ordinamento sociale cfr. ENGELS, Sulle origini del cristianesimo, Roma 1958, 70. La teologia della liberazione, pur insistendo su una comprensione sociale della stessa risurrezione, non mise in discussione l’evento storico e nemmeno la unì alla mitologia. La lettura sociale della risurrezione di Gesù, proposta dalla teologia della liberazione, bisogna coglierla nella svolta cristologica operata dalla stessa teologia. Essa, ad una cristologia dogmatica, dall’alto, ha contrapposto una cristologia dal basso, una cristologia del Gesù della storia cfr. L. BOFF, Jesus Cristo Libertador, Petròpolis 1976, 5660. La teologia della liberazione camminava su una prospettiva diversa da quella europea, mentre quest’ultima si domandava come presentare Gesù Cristo in modo che fosse compreso dall’uomo moderno, avvolto dalla razionalità e dalla scientificità, la teologia della liberazione si poneva un altro problema: come vedere in Gesù elementi significativi per la lotta di liberazione, e come la fede cristiana poteva aiutare a vivere in un contesto conflittuale, cfr. J.B. LIBANIO, La teologia della liberazione, cit., 665. 256) COMUNITÀ CRISTIANA DI BASE DI FAVARA, La nostra fede, cit., 6.

156


La lettera di Petralia fu pubblicata dal settimanale Scelta. Con essa contestava errori gravi che riguardavano la dottrina della fede: «Non si tiene conto – scriveva Petralia – della realtà storica della risurrezione di Cristo, ossia del fatto che il Cristo ucciso la sera della Parasceve è ritornato a vivere, nella sua identità anche se non nello stesso modo, all’alba del terzo giorno. 1) La fede nascerebbe nella comunità (è la tesi del mitologo Bultmann riverniciata di marxismo) non tenendo conto che invece è nata, sì nella comunità, ma per la predicazione degli apostoli, testimoni diretti della risurrezione del Maestro. 2) Si ripete la tesi marxista che la fede nasce dalla prassi e non al contrario. In realtà, dalla prassi, come può nascere la fede – in questo caso puramente mitica- nella risurrezione di Cristo, così, anche – come avviene nella maggior parte dei marxisti - può nascere la negazione pura e semplice della risurrezione di Cristo, quale credenza alienante della lotta di classe»257.

Petralia rispondendo al documento della comunità di base di Favara ne contestava il contenuto dottrinale: «se le parole hanno un senso, significano questo: la risurrezione di Cristo, fondamento e pegno della nostra risurrezione, è un mito che nasce da una condizione di servitù e di insoddisfazione, come un rifugio offerto agli oppressi e agli insoddisfatti, un ‘contentino’, anzi un mezzo diabolicamente messo in atto per distoglierli dal crearsi, attraverso la lotta, un paradiso abbastanza soddisfacente quaggiù. Chi ha scritto queste cose ha abbandonato la fede della Chiesa e ha abbracciato in pieno l’ideologia (non solo l’analisi e il metodo) del marxismo. Chi ha scritto queste cose ha dimenticato che la risurrezione, la vita eterna, il paradiso non sono, nel Cristianesimo, un conten-

257) La lettera del Vescovo Petralia, in Scelta, 9-5-1976, 1.

157


tino per gli insoddisfatti e un mezzo alienante dalle lotte per la giustizia ma il fine ultimo dell’uomo e della società, lo sbocco definitivo di un umanesimo aperto alla trascendenza, il premio per chi ha compiuto le opere della giustizia e ha cercato di instaurare i rapporti umani sull’amore. Voglio ancora e tenacemente sperare che le parole da te scritte258 abbiano tradito il tuo pensiero. Tuttavia ho il dovere di avvertirti che se, al contrario, le parole citate esprimono il tuo pensiero, allora sei fuori dalla fede della Chiesa e perciò fuori dalla Chiesa stessa»259.

La risposta di Sferrazza non si fece attendere, anche perché fu sollecitata dallo stesso Petralia che gli aveva chiesto se avesse creduto nel fatto storico della risurrezione di Gesù Cristo e sull’identità del Gesù crocifisso con il Gesù risorto. Per Sferrazza, le accuse di eresia mosse dal vescovo, erano infondate, poiché le frasi contestate, secondo Sferrazza, erano state estrapolate dal contesto; egli rivide le proprie posizioni riaffermando la fede nella risurrezione storica di Gesù Cristo. Ma la divergenza rimaneva sull’aspetto sociale della risurrezione. La risurrezione non disimpegnava il credente per la costruzione di un mondo più giusto, anzi era proprio a partire da questa fede, nella risurrezione del Cristo e nell’inaugurazione del Regno dei cieli, che doveva indurre il credente a lottare contro le ingiustizie260. E per coniugare la fede nel Cristo Risorto e l’impegno sociale, la comunità di base di Favara dava notizie delle iniziative sociali da avviare nel proprio ambiente261. Dopo aver espresso la propria posizione sulla risurrezione di Cristo, come abbiamo visto, lo scontro si spostò sul campo politico, considerato che a due mesi di distanza gli italiani dovevano rinnovare il

258) Il vescovo Petralia si rivolgeva al sacerdote don Luigi Sferrazza. 259) L.c. 260) Cfr. L. SFERRAZZA, Vogliamo riflettere, in Scelta, 9-5-1976, 1.

158


Parlamento. Causa di scontro fu la Lettera Pastorale di Petralia Libertà dell’uomo e libertà della Chiesa del 6 giungo 1976, la quale a chiare lettere considerava ‘fuori dalla comunione ecclesiale’ i sacerdoti legati al dissenso262. I preti e i laici del dissenso accolsero con amarezza la Lettera di Petralia, e con sano realismo compresero anche le difficoltà in cui operava il vescovo, chiamato “a mediare all’interno della comunità pressioni, sensibilità e culture diverse e – a volte – opposte”263. Essi risposero con il documento Solo la libertà dell’uomo libera la Chiesa, che, fin dal titolo, si poneva in una posizione diversa dal vescovo. Spesso, a partire dai titoli delle lettere e dei documenti specifici ponevano programmi e obiettivi diversi. Nel loro documento ritenevano irreversibile la scelta politica fatta, scelta che – a loro dire – non intaccava la comunione ecclesiale, in quanto era “d’ordine puramente congiunturale e temporale”, e nemmeno l’ortodossia, tanto che non negavano l’autorità del magistero del vescovo ma il suo uso, che in concreto – per loro – in campo politico significava orientare il voto verso la Democrazia Cristiana. Il pluralismo politico da essi invocato trovava fondamento non nella fede ma nell’essere uomini in quanto uomini, a differenza di Petralia che sosteneva che la scelta politica scaturiva necessariamente da una opzione di fede. Infine, nel documento, i preti e i laici del dissenso rivolgevano alla Chiesa il caloroso appello a non compromettersi col potere, a non avere rappresentanti nell’azione legislativa e nella pubblica amministrazione, ma di vivere la missione affidata dal Signore, traendo la propria linfa dal vangelo in quanto liberazione degli oppressi264. Il documento dei cattolici del dissenso Solo la libertà dell’uomo libera la Chiesa porta 235 firme. Prima di andare in stampa giunsero altre 352 adesioni ma che non furono pubblicate per motivi di spazio265. Le 235 sono così suddivise: 12 sacerdoti, 68 studenti, 21casalinghe, 27

261) Cfr. A. VETRO, La comunità come scelta di fede, in Scelta, 23-5-1976, 2. 262) Cfr. G. PETRALIA, Libertà dell’uomo e libertà della Chiesa, in A.d.P., 13 – 6 – 1976. 263) Solo la libertà dell’uomo libera la Chiesa, in supplemento di Scelta, 20 – 6- 1976. 264) L.c. 265) La seguente notizia è riferita nello stesso documento.

159


contadini, 36 artigiani, 2 disoccupati, 26 docenti, 14 impiegati, 9 pensionati, 3 medici, 2 direttori didattici, 2 pubblicisti, 3 periti industriali, 10 firme non identificate. Tra le firme sorprende la componente studentesca, che si aggiudica il primo posto, segno che il movimento dei cattolici del dissenso fu particolarmente seguito dagli studenti, che vivevano i travagli e le lotte di trasformazione sociale iniziate nel 1968. Dalle firme, inoltre, si rileva che i preti e i laici del dissenso incisero sia sul versante degli agiati che avevano una adeguata preparazione culturale sia sui meno abbienti. Non sappiamo se tra le 352 firme non pubblicate ci fossero altri sacerdoti266. Le 12 firme rilevate sono poche a confronto dei 260 sacerdoti diocesani; certamente lo sono in riferimento al documento dei sessanta, cioè al documento firmato da 52 sacerdoti che due anni prima aveva contestato a Petralia la conduzione della diocesi. Quel documento del 1974 raccolse più consensi nei confronti di Solo la libertà dell’uomo libera la Chiesa, perché espresse un’istanza esclusivamente ecclesiale senza entrare nell’ambito politico; il presente documento, invece, pur esprimendo un’esigenza ecclesiale, ha un riferimento esplicitamente politico nei contenuti e nella scelta elettorale. Il collettivo di Scelta recepì il documento di Petralia con ‘dolore e amarezza’ e, appellandosi all’episcopato francese, ribadiva il pluralismo nelle scelte politiche, poiché considerava l’unità e la comunione ecclesiale soltanto dal punto di vista della fede cristiana267. Dopo le elezioni, che registrarono un recupero della Democrazia Cristiana, la Chiesa italiana scelse la linea intransigente nei confronti dei cattolici del dissenso. Infatti, il card. vicario di Roma, Poletti, scrisse a dom Franzoni una lettera in cui gli dettava tre condizioni: 1) il ritorno umile e sincero alla comunione dopo aver riconosciuto gli errori; 2) una richiesta di riduzione allo stato laicale; 3) riduzione allo stato laicale ‘in poenam’ da parte della Chiesa268. Anche Petralia, in campo diocesano, si adeguava alla linea in-

266) Con elevata probabilità ritengo di no, diversamente per motivi di priorità l’avrebbero pubblicate. 267) Cfr. Solo la libertà dell’uomo libera la Chiesa, in Scelta, 13-6-1976, 1. 268) Cfr. L. RUOPPOLO, Il caso Franzoni, in Scelta, 27/6-4/7-1976, 3.

160


transigente della Chiesa italiana. Pertanto, nei primi di luglio, durante un incontro con i sacerdoti Antonio Morreale e Luigi Sferrazza, chiedeva loro di lasciare la parrocchia dei santi apostoli Pietro e Paolo e l’insegnamento della religione nelle scuole, a causa delle scelte politiche in contrasto con le direttive della Conferenza Episcopale Italiana269. I due sacerdoti consideravano una violazione dello statuto dei lavoratori la decisone di Petralia di non concedere il nulla osta per l’insegnamento270. L’atto della Curia fu impugnato da 40 avvocati che si mostrarono a favore dei due sacerdoti271. La decisione del vescovo, a non volere concedere il nulla osta, indusse anche la CGIL scuola a prendere posizione nei confronti di Petralia, che, secondo la CGIL, violava le norme concordatarie272. La vicenda della scuola continuò anche nel mese di ottobre poiché il preside dell’IPSIA autorizzava i due sacerdoti a poter riprendere l’insegnamento scolastico273, ma il giorno successivo un quotidiano locale dava la comunicazione della revoca del nulla osta, pertanto a norma del Concordato non potevano più insegnare, e tra gli argomenti il documento della Curia evidenziava “la sicurezza di dottrina per la diffusione continuata di idee contrastanti con il magistero della Chiesa”274. I due sacerdoti presero in esame la richiesta del vescovo, espressa nel mese di Luglio, insieme alla comunità parrocchiale. Dall’incontro emerse la lettera indirizzata a Petralia, in cui, oltre a rifiutare la politica

269) Cfr. COMUNITÀ CRISTIANA DI BASE PARROCCHIA SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO DI FAVARA, Lettera aperta al Vescovo e alla Chiesa di Agrigento, in Scelta, 11-7-1976, 2. 270) Cfr U. TRUPIANO, Cacciati dalla scuola ma non si arrendono, in L’ora, 1-10-1976, 7. 271) Cfr. 40 avvocati per 2 preti, in L’ora, 5 –10 – 1976, 7. La vicenda dell’atto impugnato dai quaranta avvocati riguardava Alfonso Di Giovanni e Luigi Sferrazza, entrambi titolari di un incarico a tempo indeterminato presso l’IPSIA di Agrigento. Antonio Morreale aveva preferito emigrare e lavorare nella scuola a Verona. La curia avrebbe voluto non procedere alla revoca del nulla-osta ma provocare una situazione di fatto in cui Di Giovanna e Sferrazza accettavano di non insegnare religione. 272) Cfr. Il Vescovo ritira il nulla osta ai preti insegnanti, in L’ora 30-10-1976, 7. 273) Cfr. U. Re, Regolarmente in classe i sacerdoti sospesi, in Giornale di Sicilia, 2-10-1976, 7. 274) Cfr. ID., Revocato il nullaosta, i due preti non potranno più insegnare, in Giornale di Sicilia, 3-10-1976, 7.

161


interclassista275 della classe dominante, a favore di una scelta evangelica a favore dei poveri, sottolineavano un nuovo modello di comunione ecclesiale a partire dal n. 32 della Lumen gentium del Concilio Vaticano II, che aveva consentito al laicato di acquistare dignità e ruolo all’interno del popolo di Dio. Pertanto essi concludevano che le decisioni del vescovo dovevano essere prese dopo aver ascoltato attentamente il popolo di Dio: «la gerarchia, ponendosi come unica depositaria del vangelo e alleandosi con i potenti ha finito col nascondere al popolo la forza liberante del vangelo. Al popolo è stato assegnato il ruolo subalterno di uditore cui non rimaneva che l‘ubbidienza’ e la rassegnazione»276.

Coerenti con quanto avevano sostenuto, i cattolici dissidenti della comunità di base di Favara al rapporto vescovo-sacerdote (come era stato ereditato e Petralia aveva insegnato) preferivano il rapporto vescovo-comunità: «Fedeli alla prassi evangelica di comunione, pensiamo che ogni contrasto e decisione debbano essere affrontate in un rapporto diretto tra vescovo e comunità.

275) Cfr. COMUNITÀ CRISTIANA DI BASE SS APOSTOLI PIETRO E PAOLO DI FAVARa, Lettera aperta, cit., I cattolici del dissenso rifacendosi all’incontro di Santiago del Cile del 1972 combattevano l’interclassismo, poiché rifletteva il punto di vista delle classi dominanti. La lotta di classe fu un punto cardine dei cattolici del dissenso che si ritrovavano nel movimento Cristiani per il socialismo. E’ proprio la lotta di classe che, in continuazione con la più genuina tradizione marxista e leninista, era il criterio fondante della morale comunista. Lenin aveva scritto una massima a proposito “Diciamo che la nostra etica è interamente subordinata agli interessi della lotta di classe del proletariato (…). Ecco perché diciamo che per noi non esiste un’etica considerata al di fuori della società (…). Noi subordiniamo la nostra etica a questo compito della lotta di classe. E diciamo: morale è ciò che serve a distruggere la vecchia società sfruttatrice e unire tutti i lavoratori attorno al proletariato, che sta costruendo la nuova società comunista” in Opere complete, 3, Roma 1967, 276. I cattolici del dissenso, in concreto, non accettavano soltanto l’analisi marxista ma, anche, il progetto di società e la morale marxista. 276) COMUNITÀ CRISTIANA DI BASE DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO DI FAVARA, Lettera aperta, cit., 2.

162


Per questo invitiamo i due preti a non prestarsi più come interlocutori privilegiati del vescovo su problemi che interessano tutta la comunità. E chiediamo al vescovo di revocare la decisione di rimozione e di discutere con tutta la comunità le sue perplessità, partecipando ad una nostra assemblea»277.

Infine la comunità cristiana di base chiedeva un aperto dibattito con il vescovo. Oltre alla lettera della comunità cristiana di base, anche i due sacerdoti Sferrazza e Morreale risposero con una lettera al vescovo Petralia per fare ‘chiarezza’. In tale lettera i due sacerdoti del dissenso sostenevano che dell’ideologia marxista avevano preso soltanto l’analisi, che aiutava a comprendere i meccanismi che generavano povertà e miseria nella società capitalista, pertanto era indispensabile per la comunità ecclesiale denunciare, attraverso l’annuncio della Parola di Dio, l’incompatibilità tra il regno di Dio e la realtà ingiusta e opprimente278. Le accuse non erano rivolte soltanto al sistema capitalistico, ma anche alla Chiesa, che, secondo i due sacerdoti, era controllata dalla curia romana e da un episcopato conservatore che si appoggiava alla borghesia dimenticando le classi più povere: «La nostra non è, quindi, una contestazione della gerarchia ma la constatazione amara e dolorosa della connivenza di molti set-

277) L.c. La richiesta della Comunità cristiana di base bisogna comprenderla alla luce della proliferazione delle Comunità ecclesiali di base (CEB) che si erano diffuse all’inizio del 1970 in America latina. Esse si definivano per un rapporto singolare con la Bibbia, da cui scaturiva un nuova esegesi. La Bibbia era diventata la nuova mediazione del sacro, superando il legame forte e polarizzante, quasi esclusivo, con l’immagine, proprio del cattolicesimo popolare della tradizione. Con le CEB si sviluppa una nuova teologia della comunione (cfr. S. DIANICH, La Chiesa mistero di comunione, Genova, 1990) dove il laicato ha un posto rilevante, e la maggior parte di queste CEB sono guidate da laici. Esse hanno alimentato il modello di santità del martirio, cfr. L. BOFF, Martirio: tentativo de una reflexao sistematica, in Concilium 183 (1983) 273-280; J. B. LIBANIO, La teologia della liberazione, cit.,657; J C SCANNONE, La teologia della liberazione, in Teologia dommatica, cit., 393-424. 278) Cfr. A. MORREALE – L. SFERRAZZA, La nostra fede rimane, in Scelta, 19-9-1976, 1. La settimana precedente alla lettera di Morreale e Sferrazza, durante la celebrazione della santa Messa parteciparono il sindaco di Favara, il comunista Calogero Alba, e l’assessore Tinaglia per esprimere solidarietà ai due sacerdoti: cfr. F.C., I preti di Favara sfidano il Vescovo, in Giornale di Sicilia, 13–91976, 13.

163


tori di essa con le classi dominanti. Non abbiamo mai pensato di rifiutare il confronto col vescovo, ma abbiamo decisamente respinto ogni tentativo gerarchico che di fatto consolida il potere della classe dominante. La nostra fede nella Chiesa ci costringe a chiedere ai vescovi ‘colonne della fede’ di raccogliere le sofferenze degli sfruttati, quelle sofferenze che gridano vendetta al cospetto di Dio. È stato il nostro amore per la Chiesa e non uno spirito calunnioso, che ci ha portato a chiedere a tanti settori della Chiesa di dissociarsi dalle compromissioni con ogni potere oppressivo e contribuire alla Chiesa la missione profetica di chiamare tutti gli uomini ‘alla libertà’ dei figli di Dio»279.

Il tentativo dei due sacerdoti, Morreale e Sferraza, di distinguere la comunione di fede da quella politica, non portò a nessun risultato poiché, come abbiamo visto precedentemente, Petralia sospese a divinis don Luigi Sferrazza e chiese l’interdizione dei locali della parrocchia dei santi Pietro e Paolo di Favara280. La notizia fu recepita da Scelta con il seguente commento:

279) L.c. 280) Sull’azione repressiva di Petralia nei confronti di Morreale e Sferrazza fu pubblicato un ampio servizio da L’Unità, il quale riportava anche una dichiarazione di Luigi Sferrazza: “Noi non siamo contro la Chiesa e contro il vescovo dal punto di vista religioso, siamo contro le scelte politiche del vescovo. Per anni la Curia ha dato appoggio alla Democrazia Cristiana, a coloro che hanno tenuto le nostre popolazioni nella miseria, nell’abbandono, nella disperazione più nera”: Z.S., Si vuole colpire una Comunità che lotta per la povera gente, in L’Unità, 14-9-1976, 12. Sui gravi provvedimenti disciplinari presi dal vescovo, non mi è stato consentito di sapere quanto ci fosse della volontà di Petralia. Avrei voluto chiedere direttamente al vescovo che risiedeva a Palermo in via Cilea, ma data l’età avanzata, più di novant’anni, e non sempre mentalmente lucido, preferii rinunciarvi. Tuttavia Pino Lanza riferendo dei suoi incontri con il vescovo, in quegli anni cruciali, ricorda che Petralia gli faceva presente di ricevere “alcune segnalazioni da Roma (Vaticano), magari dietro sollecitazione di qualche deputato nazionale, e la preoccupazione di evitare soluzioni traumatiche che invece poi sono avvenute”, cfr. Relazione stenografica, inedito, 1992. Personalmente ricordo che alcuni sacerdoti, ritornando su quelle vicende dopo alcuni anni, si lamentavano nei confronti del vescovo per non aver preso le soluzioni drastiche negli anni precedenti. Ricordo che Petralia parlò della vicenda travagliata a noi studenti di teologia nel settembre 1978, mentre svolgevamo gli esercizi spirituali, dettati dal vescovo stesso, ad Alessandria della Rocca. In quella circostanza, il vescovo parlava con grande dolore per i drastici provvedimenti che aveva dovuto prendere. Potei notare tutta la paternità in Petralia.

164


«Appare chiaro, infine, che si tratti di provvedimenti repressivi che valicano persino quelli che la curia del vicariato romano comminò contro Giovanni Franzoni e la sua comunità di san Paolo fuori le mura, la quale almeno potè continuare la sua esperienza in quegli stessi locali dove l’esperienza iniziò»281.

Il grave provvedimento di Petralia nei confronti dei due sacerdoti provocò una reazione nell’ambiente cattolico del dissenso, a volte con un linguaggio più pacato e ragionato, come l’articolo di solidarietà della comunità di base di Castrofilippo, diretta da don Damiano Zambito282, a volte aggressivo e offensivo, come quello espresso dal sacerdote Gaetano Arnone che definì il provvedimento del vescovo ‘intollerabile e violento’, oltre a contestargli il fatto che per un verso proibiva ai sacerdoti scelte politiche per altro verso permetteva la propaganda alla Democrazia Cristiana anche dalle colonne del settimanale diocesano L’Amico del Popolo283. Dopo la destituzione di Morreale e di Sferrazza, gli articoli che furono pubblicati su Scelta non si limitarono alla proposizione dei contenuti della teologia della liberazione e del dissenso cattolico, ma assunsero anche toni aspri, segno che i componenti del movimento Cristiani per il socialismo con sofferenza accolsero le disposizioni di Petralia. Tuttavia non mancarono gli articoli più equilibrati che continuarono una ricerca più seria e scientifica, ad esempio Pino Lanza in un editoriale, valutando tutto quanto era avvenuto in campo diocesano, concludeva che in Italia si stava respirando l’aria della restaurazione che scacciava ogni forma di dissenso: «La Chiesa si è allineata. La restaurazione postconciliare è completa. Invece di cogliere, negli eventi degli ultimi anni, il senso di un provvidenziale rinnovamento, ha chiuso con il ‘nuovo’e si è rin-

281) Agrigento ‘più Sud’ e la Chiesa ‘meno Chiesa’, in Scelta, 24-10-1976, 1. 282) Cfr. La comunità di base di Castrofilippo ai fratelli della comunità di Favara, in Scelta, 31-10-1976, 1. 283) Cfr. G. ARNONE, La repressione del vescovo aggrava la miseria della nostra terra, in Scelta, 26-9-1976, 1.

165


tanata nel suo narcisismo gerarchico. Il disegno giovanneo di una ecclesiologia pluralista ed evangelica è caduto sotto i colpi di un istituzionalismo preoccupato più di quello che la Chiesa deve ‘apparire di essere’ che non di quello che la Chiesa deve ‘essere’»284.

Antonio Morreale, dopo la destituzione da parroco e da insegnante di religione, emigrò a Verona nel settembre del 1976, in cerca di lavoro e sistemazione. Dopo due mesi scrisse una sofferta lettera al vescovo Petralia, in cui lo chiamava Fratello Giuseppe. Nella lettera traspare molta sofferenza tanto da indurre Morreale ad usare un linguaggio offensivo nei confronti di Petralia, anche se non era suo costume scendere a determinati livelli. Egli rimproverava al vescovo la mancanza di dialogo e l’avere avviato in diocesi un clima di restaurazione con i mezzi messi a disposizione dal concordato fascista. Morreale ricordava a Petralia che la frattura non era stata di ordine teologico che potesse intaccare l’ortodossia. La divergenza era sul piano delle scelte politiche, e infine gli contestava la responsabilità di non aver fatto molto contro la speculazione edilizia dopo la frana e il terremoto285. Sulla stessa pagina di Scelta, accanto alla lettera di Morreale, fu pubblicato un articolo di Luigi Sferrazza, con il quale presentava la situazione della comunità di base dopo il provvedimento di Petralia e la volontà di attenersi alle nuove disposizioni: «Pur non condividendoli, la comunità ha accettato i provvedimenti duri e repressivi del vescovo: la sospensione a divinis del suo prete e l’interdizione dei locali. Li ha accettati per non esasperare una situazione già troppo tesa e per testimoniare che non è vero che non tiene in nessun conto l’autorità del vescovo»286.

Verso la fine di novembre Luigi Sferrazza scrisse l’ultima lettera a Petralia; anche questa lettera, pacata nel linguaggio, a differenza di

284) G. LANZA, La Chiesa dei…feticci, in Scelta, 7/14-11-1976, 1. 285) Cfr. A. MORREALE, Lettera al vescovo di Agrigento, in Scelta, 7/14-11-1976, 4. 286) L. SFERRAZZA, La maledizione dei locali non frena l’azione dello Spirito, in Scelta, 7/141976, 4.

166


quella di Morreale, ma ferma nei propositi, esprimeva una situazione di disagio e di sofferenza. Lasciamo al lettore la comprensione di questa lettera che pubblichiamo nelle parti centrali: «Di fronte alla tavola apparecchiata e pronta per il memoriale, ma inutilizzata per la decisione del vescovo, ho meglio compreso che il dono di presiedere l’Eucarestia è un grande dono. Ma è un dono che non si può barattare con nessun accomodamento, con nessuna rinuncia alla prassi di libertà ed autenticità. Il dono dell’Eucarestia ci scoppia nelle mani e giudica la nostra vita nel momento in cui tentiamo di asservirlo agli interessi delle classi dominanti o lo riduciamo ad una formalità precostituita o non operiamo per riportare all’unità un mondo disgregato dall’egoismo organizzato. Mi sono quindi convinto sempre più di non potere accettare di barattare questo dono neanche con il mio vescovo che, credevo, me lo aveva dato per il bene e l’utilità comune e che ora me lo toglie perché ho cercato di viverlo in profonda solidarietà con gli emarginati, con gli sfruttati, in un impegno militante per contribuire a dare ad ogni fratello la gioia di vivere la vita secondo la vocazione che il creatore ha impresso nel cuore dell’uomo. Eccellenza, mi riconosco tanti peccati e tanti limiti: sento il bisogno di chiedere per tante cose perdono ai fratelli ed al mio Signore. Ma non voglio rinnovare, sulle spalle degli sfruttati e milioni di fratelli scomunicati ingiustamente, il gesto traditore di Giuda»287.

Infine Sferrazza lanciava una speranza per il futuro: «malgrado tutto continuo a credere nella possibilità che un confronto di fede un giorno riuscirà a ricomporre la Chiesa attorno al tavolo

287) L. SFERRAZZA, Lettera al vescovo, in Scelta, 28-11-1976, 1. Come abbiamo avuto modo di sottolineare in altre sezioni di questa ricerca, per la teologia della liberazione la celebrazione della santa Messa era il momento culminante dei credenti impegnati nella lotta contro gli sfruttatori, pertanto rinunciare alla lotta di liberazione equivaleva a rinunciare alla celebrazione del pane Eucaristico stesso.

167


dell’Eucarestia e a convocarla per partecipare e portare il suo contributo originale al grande cammino di liberazione dei popoli»288.

Con questa lettera si chiuse l’anno più difficile e più travagliato del dopo Concilio, e che segnò una profonda frattura, nella diocesi agrigentina. Una frattura che non era per niente sanabile malgrado la Chiesa avesse celebrato l’Anno Santo della riconciliazione e del perdono. Una ricomposizione della comunione ecclesiale era difficile poiché, al di là dei fatti contingenti, c’era una formazione culturale e teologica nonché punti di riferimento completamente diversi289.

288) L.c. Nella testimonianza raccolta recentemente Luigi Sferrazza mi riferisce che «Nel novembre 1976 fui chiamato a ricoprire l’incarico di segretario provinciale dell’ARCI: questo incarico mi consentì di mantenere un legame con la nostra terra, di non dovere emigrare per vivere, di continuare a svolgere sul territorio una funzione culturale e sociale che comunque era altro dall’ esperienza della comunità cristiana. Il 20 marzo del 1977 il Congresso provinciale del PCI presieduto da Achille Occhetto mi chiamò a fare parte del comitato federale del PCI di Agrigento. Questo fatto non fu sottolineato da nessuno e non fece notizia, subito dopo, però, il vescovo Petralia pubblicò una durissima nota in cui sottolineò che “il sacerdote Luigi Sferrazza ha purtroppo compiuto l’ultimo passo del suo allontanamento dalla Chiesa e dal sacerdozio…” La stampa nazionale riportò la notizia e ricordò l’intera vicenda della contestazione nella Chiesa agrigentina ed in particolare della Comunità di base di Favara (basta per tutti ricordare l’articolo di Ettore Serio sul Corriere della sera del 25/3/77). Il mio inserimento nel comitato federale del PCI non piacque ad alcuni dirigenti nazionali del PCI perché poteva compromettere i delicati rapporti che il PCI di Berlinguer tentava di istaurare con il Vaticano; ho saputo che Pajetta se ne lamentò con Occhetto. Evidentemente dopo questa vicenda il vescovo ha richiesto per me, alla Santa Sede, la riduzione allo stato laicale. Il decreto pontificio di riduzione allo stato laicale mi è arrivato nel 1978: cominciava con la formula in latino (ricordo a memoria): “il Santo Padre ha benignamente accolto la richiesta da te avanzata…”. Io non ho avanzato mai nessuna richiesta». Ad una mia esplicita richiesta se in questi anni avesse incontrato il vescovo Petralia, che dal 1980 si era ritirato a Palermo ed era ritornato ad Agrigento soltanto per qualche circostanza, mi ha risposto che Petralia e Luigi Sferrazza non s’incontrarono più, e devo ritenere che neanche con gli altri sacerdoti Petralia s’incontro mai più. Il vescovo Petralia è morto nel luglio 2000. I funerali si sono svolti in Cattedrale di Agrigento dove è sepolto. 289) Alcuni mesi dopo il vescovo Petralia, rispondendo ad un editoriale di don Gerlando Lentini, additava la causa della contestazione in ambito ecclesiale agli studi teologici che i giovani preti avevano fatto altrove: “due di loro – scriveva Petralia – avevano fatto gli studi nel Seminario Romano dove pensavo che avrebbero attinto a quel gran bene che io avevo ricevuto; invece, travolti dall’uragano della contestazione tornarono male orientati, a dir poco. Qualcun altro aveva terminato nello stesso tempo i suoi studi a Verona e tornò traviato. Qualcun altro trovò occasione di traviamento là dove l’avevo mandato per completare la propria formazione”, G. Petralia, La lettera del vescovo al direttore, in La via, settembre 1977, 4-6. Dopo questa esperienza Petralia non consentì che preti diocesani si recassero a perfezionare gli studi presso le Facoltà teologiche oltre lo Stretto, causando indirettamente un impoverimento culturale. Soltanto dopo qualche decennio, e durante l’episcopato del vescovo successore, Luigi Bommarito, i preti diocesani ripresero a frequentare le Facoltà teologiche romane.

168


La fase discendente del dissenso

I gravi avvenienti e le prese di posizioni assunte dal vescovo Petralia nel caldo autunno del 1976 disorientarono sia la comunità diocesana, che si divise tra sostenitori e oppositori dell’azione disciplinare del presule, sia i cattolici del dissenso che per la prima volta non parteciparono neanche al III° convegno nazionale dei Cristiani per il socialismo tenutosi nei primi di gennaio 1977 a Roma. Tale assise non registrò l’affluenza dei partecipanti che aveva caratterizzato i convegni precedenti. Questo avvenne in tono minore, segno che a livello nazionale il movimento era entrato nella fase calante. Il settimanale Scelta, che negli anni precedenti aveva dato ampio spazio a tale avvenimento, dedicando servizi e riportando dichiarazioni di personalità di rilievo del mondo politico, questa volta si limitò a dare soltanto una breve notizia290. Col nuovo anno lo stesso giornale Scelta iniziò a perdere la vivacità e lo spessore degli argomenti che l’avevano caratterizzato nel biennio ‘75-‘76 anche se non mancarono interventi interessanti, ma furono casi isolati, senza un’organicità e continuità. Non mancarono coloro che, pur continuando un discorso critico, invitavano a rimanere nella comunione ecclesiale e ad usare un linguaggio più prudente e moderato291. Tra gli articoli di rilievo che Scelta pubblicò, ricordiamo quello di don Carmelo Barbera sulla formazione culturale del prete negli anni dopo il Concilio. Si era convinti che se la comunione ecclesiale era stata messa a dura prova, ciò era avvenuto per la diversa formazione

290) Cfr. F.R.L., Per una società ugualitaria, in Scelta, 9/16-1-1977, 1. 291) Cfr. A. Brancato, Non fare un’altra Chiesa, in Scelta, 1/8-5-1977, 4.

169


tra i sacerdoti. Secondo Barbera c’erano preti che non avevano accolto il rinnovamento conciliare, anzi lo guardavano con sospetto. Nel suo articolo Barbera lamentava che in seno alla Chiesa, malgrado ci fosse stato un Concilio che aveva invitato al rinnovamento delle discipline teologiche, vescovi e preti continuavano ad usare il metodo deduttivo proprio della Scolastica: provare la propria tesi cercando il riscontro nei documenti del magistero o negli scritti patristici, senza porsi il problema della validità di tale tesi in un contesto sociale e culturale in continua evoluzione. Per Barbera occorreva avviare una nuova formazione culturale del prete per delineare un nuovo modello per la Chiesa: «Vescovi e preti non dovrebbero aggiornarsi, fare analisi socioreligiose, verificare insieme, nella realtà, finalità, obiettivi pastorali, metodi e strategie, studiare piani d’attività?»292.

Per ultimo lanciava un avvertimento con l’auspicio che fosse accolto dalla comunità diocesana: «Il rischio di istituzionalizzare metodi, analisi e ricerche oggi per continuarle dopo, quando bisogna cambiarle, resta più grave nella Pastorale ecclesiale, e l’unica soluzione sembra l’educazione permanente del clero, vescovi compresi, come ricerca e verifica della realtà ecclesiale nel tempo che si vive»293.

La stessa esigenza di una nuova formazione sacerdotale era avvertita da don Gaetano Arnone, che in occasione della giornata pro-seminario indirizzò una lettera ai seminaristi, che fu pubblicata da Scelta, ai quali proponeva il modello di prete inserito nella realtà sociale, anziché il modello cultuale e sacrale. Con amarezza annotava, in tale lettera, che, malgrado notevoli cambiamenti sociali e culturali fossero av-

292) C. BARBERA, Educazione permanente e clero, in Scelta, 20/27-2-1977, 2. 293) L.c.

170


venuti nell’ultimo ventennio, la spiritualità e il modello di prete erano rimasti gli stessi294. Il bisogno di un’adeguata formazione del clero era avvertito da Damiano Zambito che, in un articolo per il rilancio di Scelta, facendo una verifica di tutto quanto era avvenuto in diocesi, metteva in risalto i limiti culturali del clero che non permettevano un’adeguata analisi dei cambiamenti: «Si assiste ad una progressiva diminuzione della funzione egemonica del clero e delle parrocchie, che si rivelano sempre più incapaci a rispondere alle nuove esigenze emergenti, mentre i tradizionali strumenti d’aggregazione (circoli, associazioni, servizi) si rivelano sempre più inadeguati; si avverte la necessità di nuovi strumenti d’analisi teologica, capaci d’interpretare una realtà nuova, mentre si riscontra un’assoluta povertà culturale, che si evidenzia nella mancanza di qualsiasi iniziativa di studio o di confronto, nella grossolanità delle analisi che compaiono nel foglio diocesano e persino nei documenti vescovili, nei quali la forma pomposamente retorica e l’animosità delle puntate polemiche non riescono a nascondere il vuoto teologico»295.

Nel periodo in cui Scelta si avviava a chiudere la propria esperienza, Pino Lanza intervenne con il seguente articolo Un progetto per Scelta, mirato al rilancio del settimanale. Pino Lanza, a tre anni circa dall’inizio di questa singolare esperienza, faceva autocritica, riconoscendo che la preoccupazione sociale e politica a volte era prevalsa su quella religiosa:

294) Cfr. G. ARNONE, Un prete per l’uomo, in Scelta, 6-3-1977, 4. 295) D. ZAMBITO, Un progetto per ‘Scelta’, in Scelta 17/24-4-1977, 5. Pur partendo da premesse e orientamenti completamente diversi intervenne sulla situazione religiosa della diocesi e sul clero don Gerlando Lentini con l’articolo: Diocesi di Agrigento. Anno zero? , in La via, agosto 1977. In tale articolo, Lentini parlava di clero sbandato, accomodante alla politica e per niente profetico, di fallimento dei giovani preti e di rinnovamento conciliare in forma epidermica. L’editoriale di Lentini provocò la reazione di Petralia che difese la diocesi, il clero e definì l’articolo “infelice”, cfr. G. PETRALIA, La lettera del vescovo al direttore, in La via, settembre 1977, 4-6.

171


«Bisogna riconoscere che, spesso, l’urgenza di contestare proprio nel temporale l’azione della Chiesa ci ha coinvolto sino a tal punto da allentare la nostra fondamentale preoccupazione religiosa. Bisogna riconoscere ancora che il nostro amore nei confronti del vescovo è stato inferiore al suo disamore nei nostri confronti»296.

Per porre rimedio a questa lacuna Pino Lanza suggeriva queste proposte: «1) riconsiderare le premesse religiose fondamentali della nostra esperienza; abbiamo dimostrato di essere dei cristiani che hanno fatto una scelta di classe (amare i deboli perché deboli, lottare i potenti per salvarli dalla loro potenza), ora dobbiamo dimostrare che avendo fatto una scelta di classe restiamo cristiani; 2) intensificare l’impegno per proporre Cristo ai giovani, ai lavoratori, a tutti gli uomini che la Chiesa ha abbandonato, nei luoghi autentici della vita, negli spazi nuovi che abbiamo trovato, soprattutto all’interno della sinistra»297.

Per alcuni aspetti Lanza riproponeva, in questo modo, lo stile dei preti e laici sociali di inizio secolo che, per venire incontro ai contadini e per evitare che fossero attratti dai richiami della massoneria e

296) G. Lanza, Il potere non si discute, in Scelta 8-5-1977, 4. Non è facile, in questo contesto esprimere un giudizio, tuttavia preme ricordare cosa ebbe a scrivere Petralia nel suo testamento spirituale, che è stato pronunciato dal vescovo di Agrigento, Carmelo Ferraro, durante il funerale di Petralia svoltosi nella cattedrale di san Gerlando: “Desidero che si sappia – scriveva Petralia nel suo testamento – che, se talora mi sono mostrato severo, non è stato per mancanza d’amore, ma per la difesa dell’integrità della fede: di quella fede cattolica e apostolica che ho cercato instancabilmente con la parola e gli scritti di conservare integra e netta e di comunicarla ai dotti e agli indotti” C. FERRARO, Incontro al Signore, in A.d.P., 23-7 - 2000, 19. Lo stesso Pino Lanza, facendo una riflessione sul periodo storico in esame, durante l’incontro organizzato dalla rivista Suddovest, ricorda che le posizioni intransigenti assunte dai cattolici del dissenso non furono d’aiuto alla Chiesa stessa: “La Chiesa agrigentina, forse a causa del nostro fondamentalismo, ha perduto l’occasione di valorizzare la nostra esperienza per il proprio rinnovamento” in Relazione stenografica, inedito, 1992. 297) L.c.

172


dei socialisti, avviarono l’azione sociale, sotto lo stimolo della Rerum novarum di Leone XIII. La scelta sociale e politica a favore delle classi meno abbienti e all’interno della sinistra doveva portare, secondo Lanza, ad evangelizzare la sinistra, ma a mio avviso tale iniziativa fu pensata con molto ritardo poiché, sul finire del 1977, i contrasti e le fratture avevano seriamente segnato la comunità ecclesiale diocesana. È sulla proposta di Pino Lanza che avrebbe dovuto muoversi l’esperienza dei cattolici progressisti, una proposta che teneva alta la dimensione religiosa, senza cadere nell’accusa di orizzontalismo e tanto meno in quella di aver scelto l’analisi marxista come criterio per la valutazione morale dei comportamenti ecclesiali, sociali e politici al posto del vangelo, se si voleva evitare la rottura della comunione ecclesiale. Purtroppo la proposta di Pino Lanza si fece spazio, o maturò, quando era avvenuto l’irreparabile, gli animi si erano fortemente accesi e l’esperienza dei cattolici progressisti, o dissidenti, era entrata in una fase calante. Evidentemente le proposte di Pino Lanza non ebbero continuità perché dopo la pausa estiva, il settimanale Scelta non riprese più le pubblicazioni, e con esso terminò anche la fase del dissenso cattolico all’interno della diocesi agrigentina. Essa, sotto la spinta del vescovo ausiliare Bommarito, che tanto entusiasmo portò nelle parrocchie, nei circoli giovanili, nelle vocazioni alla vita consacrata, nel volontariato ecc, cercò di superare la dolorosa frattura. Nel 1977 due avvenimenti, promossi dallo stesso vescovo ausiliare, permisero alla Chiesa agrigentina di guardare avanti: il pellegrinaggio diocesano alla Madonna delle lacrime di Siracusa e la solenne concelebrazione allo stadio comunale di Agrigento sul tema Gesù è presente. Ma fu la celebrazione del Sinodo diocesano a segnare una svolta. Dopo qualche anno, il vescovo Petralia, sentiti i pareri dei consigli presbiterale e Pastorale, aprì il Sinodo diocesano destinato ad alimentare una speranza nuova per una riproposizione della parrocchia nel tessuto sociale ormai profondamente trasformato. Con la celebrazione del Sinodo si chiuse uno dei periodi più travagliati della storia della Chiesa agrigentina e si aprì la stagione dell’assemblearismo nella vita ecclesiale diocesana. 173


174


Petralia e i Cristiani per il socialismo

A partire dal 1975, dopo l’allontanamento di Di Giovanna dalla direzione de L’Amico del Popolo, il vescovo Petralia pubblicò una serie di articoli per mettere in evidenza gli errori del marxismo e l’impossibilità per un credente di votare a favore del Partito Comunista a causa della inconciliabilità tra l’insegnamento della Chiesa e la filosofia marxista poiché avevano una visione del mondo, della storia e dell’uomo completamente diverse. Egli, pur riconoscendo al credente libertà di scelte sul terreno opinabile, evidenziava come queste scelte non potevano urtare contro la fede cristiana; in Petralia, dunque, l’agire morale anche in campo politico risultava fortemente connesso alla fede. Dunque, in queste pagine focalizzeremo la posizione di Petralia nei confronti del movimento Cristiani per il socialismo, che proprio a partire dal 1975, subito dopo l’allontanamento del direttore del settimanale diocesano L’Amico del Popolo, fece sentire la propria azione contestataria anche in Agrigento. Petralia, in una lettera inviata al nuovo redattore del settimanale diocesano don Biagio Alessi, in occasione del XX anno di pubblicazione, lo invitò a non lasciarsi influenzare dalle nuove correnti, riferendosi, evidentemente, al fenomeno socio-politico dei Cristiani per il socialismo: «L’Amico del Popolo non è stato mai a guardare alla finestra, ma, senza vendersi o legarsi a nessuno, senza lasciarsi sedurre dalle serenate di veri o sedicenti amici, ha detto pane al pane e vino al vino, operando per una più fattiva e concreta applicazione del vangelo alla situazione agrigentina, la quale attende ancora che sia resa giustizia»298.

298) G.PETRALIA, Vent’anni di buon lavoro, in A.d.P., 5-1-1975, 1.

175


Nella lettera, infine, Petralia indicava due strade da percorrere: promuovere la crescita della comunità cristiana, attraverso lo studio della problematica spirituale e l’attuazione della Pastorale diocesana, e promuovere lo sviluppo sociale della popolazione agrigentina nel settore dell’agricoltura, dell’industria e della scuola299. Ora per cogliere bene lo sviluppo del pensiero del vescovo Petralia sui Cristiani per il socialismo, presenti nel gruppo redazionale di Scelta, quanto meno dobbiamo partire dal marzo del 1975, mese in cui Petralia pubblicò sul settimanale diocesano tre articoli sulla scelta social-comunista dei cattolici, che aveva iniziato a preoccupare seriamente l’episcopato italiano. Tale orientamento politico aveva, sul finire dell’anno precedente, interessato prevalentemente la diocesi agrigentina a tal punto che i sostenitori di questo indirizzo politico sociale ed ecclesiale avevano iniziato a pubblicare, come abbiamo visto, il settimanale Scelta, completamente in antitesi al settimanale diocesano L’Amico del Popolo. Nel primo articolo Petralia fece un’analisi filosofico-sociologica del movimento Cristiani per il socialismo per metterne in risalto l’inconciliabilità con l’insegnamento cristiano. Anzitutto contestava il primato del temporale e del politico nel messaggio cristiano: «assillati dall’urgenza della liberazione da ogni servitù economica e politica – scrisse - finiscono con l’interpretare il vangelo in chiave economicista, dissolvendo Dio in Cristo, Cristo nell’uomo, e il bene dell’uomo nel temporale. E questa è la deformazione del cristianesimo»300.

Dopo aver manifestato la preoccupazione di uno svuotamento del messaggio cristiano, considerato in chiave orizzontale, Petralia non accettava il rifiuto radicale del sistema capitalista, poiché lo considerava possibile di correzione, e rifiutava l’accettazione della lotta di classe per abbattere tale sistema. Infine con amarezza constatava un’aspra po-

299) Cfr. L.c. 300) ID, Cristiani per il socialismo, in A.d,.P., 9-3-1975, 3.

176


lemica alla Chiesa istituzionale e l’artificiosa distinzione tra istituzione e carisma301. La prima esigenza che Petralia avvertiva era di ordine teologico: salvaguardare il messaggio cristiano da ogni tentativo di lettura prevalentemente sociologica per poi sottolineare la missione della Chiesa nei confronti del mondo: «La missione della Chiesa è la missione di Cristo, che consiste nel salvare l’uomo, l’uomo nella sua interezza – corpo ed anima, persona e società (…). La Chiesa libera l’uomo e la società dall’errore e dal peccato – non ultimo il peccato dell’ingiustizia e dell’oppressione – con la sua multiforme catechesi»302.

Nell’articolo Chiesa e Politica, pubblicato la settimana successiva, Petralia entrò nel merito della questione del pluralismo politico dei cattolici. Egli, pur riconoscendo in linea di principio un “sano pluralismo”, ribadiva che non bisognava confonderlo con scelte arbitrarie. Detto in altri termini, per Petralia, la scelta politica dei cattolici non doveva orientarsi in senso socialista, poiché tale sistema mirava ad un cambiamento dell’assetto sociale in senso rivoluzionario, invece egli propugnava quel modello che dava la possibilità a tutti i membri della comunità, a qualsiasi livello, di partecipare al potere economico e politico303. Dunque, in concreto, il pluralismo che in linea di principio egli accoglieva doveva essere “sano”, nel senso di limitato, non rivolto a votare partiti con una filosofia diversa da quella cristiana. Alla base del malinteso pluralismo tra Petralia e i catto-comunisti c’era un modo diverso d’intendere il concetto di libertà. Mentre per i catto-comunisti italiani la libertà era, in questo contesto, intesa come possibilità di scelta, tra le tante opzioni a disposizione, secondo il prin-

301) Cfr. L.c. 302) L.c. 303) Cfr. ID., Chiesa e Politica, in A.d.P., 16-3-1975, 3.

177


cipio di autonomia, visto più come arbitrio, per Petralia, invece, in continuazione con la tradizione tomista, la libertà era intesa come possibilità da parte dell’uomo di agire liberamente per raggiungere il Bene, e non come possibilità di scegliere tra tutte le opzioni a disposizione, ma soltanto quelle che dirigono al Bene, e per Bene Petralia vedeva ciò che era in sintonia con l’insegnamento del vangelo. Verso la fine di marzo apparve il terzo articolo di Petralia in cui, facendo una verifica sui Cristiani per il socialismo, contestava cinque aspetti che per alcuni versi precisavano meglio tutto quanto aveva scritto nell’articolo pubblicato il 9 marzo. Petralia presentò prima una breve genesi del movimento e i due convegni che si erano svolti in Italia, a Bologna e a Napoli, poi gli errori sostenuti: 1) il primato del temporale e del politico nei confronti del Regno di Dio; 2) la critica alla Chiesa istituzionale; 3) l’analisi marxista della società fatta all’interno dello schematismo rigido del materialismo storico; 4) la lotta di classe, che per Petralia andava sostituita con la “scelta preferenziale dei poveri”; 5) la socializzazione e l’autogestione che avevano causato il supercapitalismo di Stato304. Per quanto concerneva la critica alla Chiesa istituzionale Petralia faceva le seguenti osservazioni: «se si guarda dal punto di vista teologico come rifiuto dell’istituzione, è un’eresia; se si considera come rifiuto di un certo compromesso col potere capitalistico pecca almeno di semplicismo, poiché difetta di senso storico e di realismo, se invece è da intendersi come anelito ad una Chiesa più libera, più povera, più santa, va vista con favore, anche se va rifiutata la contestazione acrimoniosa»305.

Infine, sosteneva la possibilità di realizzare una forma di socialismo cristiano:

304) Cfr. ID., Verifica del movimento CpS , in A.d.P, 23-3-1975,3. 305) L.c.

178


«Il miglioramento degli uomini sulla linea della giustizia e della fraternità, può rendere sempre più probabile un tipo di società egualitaria – ossia scevra da iniqui dislivelli - ispirata alla visione cristiana dell’uomo e della vita, in cui ciascuno operi secondo le sue capacità, goda secondo il bisogno e nessuno abbia a soffrire la penuria»306.

Ma l’accusa più evidente di Petralia scagliata agli aderenti del movimento Cristiani per il socialismo, ormai piantato in diversi Comuni della diocesi, era di aver trasformato il vangelo in un’ideologia: «ossia, per capirci, in un sistema socio-politico che non serve il vangelo ma si serve del vangelo per ricavarne, con un arbitrario processo di isolamento e di assolutizzazione dei testi, principi e norme utili a risolvere i nodi della società»307.

E per sostenere la propria accusa Petralia citava le conclusioni del III convegno delle comunità di base svoltosi a Firenze dal 25 al 27 aprile 1975 in cui, secondo il vescovo, l’evangelizzazione veniva considerata come “partecipazione alla lotta per la soluzione dei problemi”308. Contro il tentativo di ridurre il vangelo a ideologia, Petralia ne sottolineava la natura religiosa309, poi, richiamando l’insegnamento di Giovanni XXIII e della Gaudium et spes n. 12, metteva in evidenza l’attenzione della Chiesa nei confronti dei problemi della società. Per ultimo, anche in questo articolo, Petralia poneva attenzione al problema del pluralismo nelle scelte politiche, tanto auspicato in molti settori della comunità ecclesiale. Egli non si discostava dall’insegnamento precedente, e dava il seguente criterio: «È necessario armonizzare l’unità della fede e di comunione con

306) L.c. 307) G.P., Il vangelo non è una ideologia, in A.d.P., 20-7-1975, 1. 308) Cfr. ID., Il vangelo non è una ideologia, in A.d.P., 20-7-1975, 1. 309) L.c.

179


la pluralità delle scelte in cui la fede e la comunione trovano concreta espressione»310.

Detto in altri termini, la scelta politica doveva coniugarsi direttamente con la fede, pertanto non consentiva nessuna scelta verso un’ideologia politica in contrasto con la fede. La stessa tematica Petralia affrontò nel luglio del 1975 che, certamente, dal punto di vista ecclesiale e politico si presentò particolarmente difficile e inquieto soprattutto dopo l’avanzata del Partito Comunista Italiano, nelle amministrative di giugno, che raggiunse il massimo consenso elettorale dal dopoguerra. Il successo comunista preoccupò seriamente i vescovi italiani, tra cui Petralia, perché l’avanzata comunista fu vista come conseguenza della fine dell’unità politica dei cattolici, causata da quegli ambienti cattolici particolarmente vivaci. In questo articolo Petralia invitava i cattolici del dissenso a fare scelte conformi alla fede: «se non vogliono staccarsi dalla Chiesa vivente, devono anch’essi confrontare di continuo le proprie scelte ideali e operative col vangelo e con la Chiesa, in spirito e carità»311.

La scelta politica era divenuta per il vescovo agrigentino, dunque, condizione fondamentale per l’appartenenza alla Chiesa. In questo modo il vescovo Petralia rimaneva legato ad una visione di Chiesa del periodo preconciliare in cui la scelta contingente di un fatto politico comportava il peccato mortale oltre la scomunica. Secondo una propria concezione, certamente non riconducibile all’insegnamento del Concilio Vaticano II, Petralia faceva una duplice distinzione tra scelta religiosa e scelta sociale: «Fanno una scelta religiosa quei laici che entrano in movimenti ed associazioni il cui scopo è di collaborare direttamente con la

310) L.c. 311) ID., Unità di fede e pluralismo politico, in A.d.P., 27-7-1975, 1.

180


gerarchia nell’azione che le è propria di evangelizzazione, di santificazione, di formazione cristiana delle coscienze (…) Invece fanno una scelta sociale quanti si impegnano in movimenti o gruppi operanti, con chiara ispirazione cristiana, in campo politico, sociale o culturale: quanti si propongono di testimoniare il vangelo nella prassi politica, sindacale o economica (…) Comunque sia, scelta religiosa e scelta sociale, nell’ambito della comunità cristiana, non si escludono anzi si integrano a vicenda, poiché anche la scelta sociale è a servizio dell’evangelizzazione, e a sua volta, la scelta religiosa si prolunga, coerentemente, nella promozione sociale»312.

Con le elezioni del 1975 si fece più palese il dissenso nella diocesi agrigentina poiché alcuni sacerdoti, come abbiamo visto, apertamente fecero la scelta a sinistra andando contro le indicazioni di Petralia, come egli stesso ne scrisse nell’articolo: «in qualche settore dell’Azione Cattolica e in movimenti sociopolitici che pur si dicono cristiani, il dialogo si è tramutato in dissenso spesso acido o aggressivo, al limite della rivolta e dello scisma. L’errore è lì: hanno trasformato la fede in una ideologia e hanno scelto una certa ideologia come chiave interpretativa della fede, con la conseguenza di dare il primato all’ideologia e oscurare la fede»313.

Il dissenso e la scelta di fare propaganda a sinistra, soprattutto a favore del Partito Comunista Italiano, si fecero talmente intense che Petralia ne riferì al consiglio presbiterale riunito l’11 luglio 1975. In tale

312) L.c. La duplice distinzione proposta da Petralia, anche se auspicava un’integrazione, tuttavia si poneva su un piano completamente diverso da quello proposto dal movimento Cristiani per il socialismo poiché non era comprensibile una scelta religiosa che non fosse anche scelta sociale e politica, anzi erano proprio le scelte politiche e sociali, a favore dei diseredati, che facevano religiosa una determinata scelta. 313) L.c.

181


incontro Petralia chiese quali azioni disciplinari bisognava assumere nei confronti dei sacerdoti che aderivano al gruppo redazionale di Scelta poiché: «La loro – disse – non è soltanto una scelta socio-politica, ma un atteggiamento in cui il vangelo è ridotto a una ideologia, con aperta contestazione nei riguardi della Chiesa istituzionale e una critica aspra contro la Gerarchia, prendendo a loro esempi e maestri persone in aperta rottura con la Gerarchia»314.

Malgrado la richiesta del vescovo, il consiglio presbiterale non riuscì a formulare un giudizio unanime poiché c’erano due posizioni: una posizione intransigente voleva un’esplicita condanna con sanzioni, e una posizione progressista disapprovava i metodi drastici per non fare “inutili martiri”. Dal consiglio emerse la duplice richiesta di ascoltare le motivazioni dei preti che aderivano a Scelta e di rifiutare l’analisi marxista315. La posizione intransigente nei confronti dei sacerdoti, che aderivano a Scelta, prevalse l’anno successivo, alla vigilia delle elezioni politiche del 1976. In questo arco di tempo i sacerdoti di Scelta avevano tenuto conferenze a favore della sinistra in diversi luoghi della diocesi, tanto che avevano creato una lacerazione nella Chiesa locale, come Petralia ebbe modo di rilevare nella Lettera Pastorale per la Pasqua del 1976, Sofferenza e speranza della nostra Chiesa locale. In quella circostanza scrisse Petralia: «La Chiesa agrigentina soffre di una dolorosa lacerazione da parte di alcuni suoi figli, sacerdoti e laici (non molti, certo, ma son pure nostri fratelli!) che hanno assunto nei confronti del Vescovo e della Chiesa un atteggiamento di diffidenza, di critica negativa, quasi di ostilità, e in nome di una precisa scelta nega-

314) Consiglio presbiterale del 11 luglio 1975, in B.E.A., 68 (1975) 116-117. 315) Cfr. L.c.

182


tiva, e cioè in nome di una precisa scelta di classe e con aperta simpatia per le analisi e i metodi di una ideologia chiusa alla trascendenza e il cui fine ultimo è l’attuazione di un messianismo terrestre, senza apertura verso il Regno di Dio»316.

Per il vescovo la medesima azione a favore dei poveri sfruttati poteva essere fatta in nome di Cristo, in comunione e senza fratture, e per l’avvento del Regno, senza ricorrere all’analisi marxista: «La stessa battaglia per la evangelizzazione e promozione della nostra gente possiamo farla più utilmente insieme, ma senza spezzare la comunione, crescendo anzi nella fraternità e nell’impegno di servire il Signore nei suoi “minimi fratelli” che sono i privilegiati del Regno»317.

Due mesi dopo la Lettera Pastorale per la Pasqua, Petralia, in prossimità delle elezioni politiche del 1976, svolte sull’incognita del sorpasso comunista, ritornò sull’argomento con la lettera Libertà dell’uomo e libertà della Chiesa in cui sconfessava i sacerdoti comunisti e li accusava di incoerenza: «Purtroppo anche in seno alla comunità ecclesiale agrigentina si ripercuote lo stesso fenomeno di incoerenza tra fede e scelta politica da parte di alcuni nostri fratelli che si richiamano a un malinteso pluralismo. Perciò mossi dal nostro grave dovere Pastorale e rispondendo all’appello della comunità diocesana, dichiariamo che quanti tra i cattolici aderiscono al marxismo e ai partiti che ad esso direttamente si ispirano, si pongono contro il magistero della Chiesa e, con ciò stesso, fuori della comunione ecclesiale. Altrettanto, e a maggior ragione, va detto per quei sacerdoti che seguono la stessa

316) G. PETRALIA, Sofferenza e speranza della nostra Chiesa locale, in B.E.A. 69 (1976) 71. 317) L.c.

183


linea di condotta, anzi se ne sono fatti guide e ispiratori, sia nel loro organo di stampa, il settimanale Scelta, divenuto di numero in numero sempre più avverso all’autorità della Chiesa, sia in pubblici raduni e dibattiti di aperta propaganda marxista. Per motivi così gravi, essendo riusciti vani gli amorevoli richiami e i severi ammonimenti, continuati con longanime pazienza per circa quattro anni, con questa lettera noi li sconfessiamo dinanzi alla comunità diocesana, deplorando la contraddizione in cui sono posti, di voler vivere nella Chiesa e di combattere le strutture essenziali, non esclusi i vescovi e la loro autorità di magistero. È una decisione dolorosa ma necessaria, soprattutto per dissipare il sospetto di acquiescenza del vescovo alle loro tesi e alle loro scelte e per evitare ogni ulteriore confusione nella comunità.»318.

La lettera di Petralia Libertà dell’uomo e libertà della Chiesa ricevette la solidarietà del consiglio Pastorale diocesano, anche se all’interno del medesimo consiglio alcuni componenti come Lauricella, Cavaleri e Gaglio chiedevano un dialogo più proficuo con i dissidenti per non rompere l’unità ecclesiale. Nella nota di solidarietà, il consiglio Pastorale deplorava la scelta marxista, rifiutava la visione capitalistica della società e auspicava che i politici si adoperassero per risolvere i gravosi problemi sociali delle popolazioni agrigentine319. La lettera di Petralia riscosse anche l’adesione dei vescovi siciliani “per la posizione chiarificatrice assunta”, della presidenza regionale delle Acli, del Cif che “avvertiva il grave disagio nella Chiesa locale a causa degli sconcertanti atteggiamenti di alcuni sacerdoti che avevano disorientato i fedeli”, dell’assistente della Pastorale del lavoro della diocesi, del clero di Cammarata e di San Giovanni Gemini che augurava che “quanti sono decaduti da maestri di verità a sostenitori di sottopro-

318) G. PETRALIA, Libertà dell’uomo e libertà della Chiesa, in A.d.P., 13-6-1976,1. A dire il vero dagli articoli pubblicati sul settimanale Scelta non risulta che gli aderenti volessero combattere la natura della Chiesa e tanto meno il ruolo dei vescovi ma volevano nuovi rapporti tra vescovo, presbiteri, laici e un nuovo modo di esercitare l’autorità all’interno della Chiesa. 319) Cfr. M. FALCI, Assemblea del Consiglio Pastorale, in A.d.P., 13-6-1976,2.

184


dotti di ideologie, riflettano e ritornando in sé, ridiano gioia alla Chiesa agrigentina”, del clero di Sciacca, delle Acli di Agrigento320. Scampato il pericolo alle elezioni politiche del 20 giugno 1976, sul possibile sorpasso comunista nei confronti della Democrazia Cristiana, la Chiesa italiana assunse un atteggiamento repressivo nei confronti dei sostenitori del movimento Cristiani per il socialismo, a tal punto che l’abate dom Giovanni Franzoni, un mese dopo le elezioni, fu sospeso a divinis dalla Curia romana. Anche il vescovo di Agrigento dovette adeguarsi alle nuove disposizioni, dopo aver in diverse circostanze sollecitato i sacerdoti contestatari a desistere dalle loro scelte politiche321. Petralia, dopo la pausa d’agosto, prese il primo provvedimento disciplinare nei confronti dei sacerdoti Antonio Morreale e Luigi Sferrazza, che svolgevano il ministero sacerdotale nella parrocchia dei santi Pietro e Paolo di Favara322, che per due anni, almeno, era divenuta punto di riferimento del dissenso cattolico. Con tale provvedimento Petralia dichiarava decaduto dall’ufficio di parroco il sacerdote Antonio Morreale, e gli imponeva di consegnare i locali con registri e suppellettili all’arciprete di Favara sac. Gariboli323. Don Luigi Sferrazza oltre il provvedimento riceveva anche una diffida: «La persistenza, ormai pertinace, in codesta tua condotta comporterebbe – oltre ai provvedimenti in corso – la “suspensio a divinis”. Salutandoti in Cristo ti invito a riflettere e a non sfidare più oltre l’autorità della Chiesa»324.

I due sacerdoti, non potendo celebrare Messa in quella Chiesa, rivolsero un invito ai sacerdoti di Favara, affinché si recassero in Chiesa

320) Cfr. Adesioni alla Lettera del Vescovo, in A.d.P., 20-6-1976, 1. 321) In un servizio pubblicato il 30 settembre 1976 Vincenzo Vasile su L’Unità faceva intendere che Petralia avviava la repressione come esecutore degli ordini ricevuti dal Vaticano: cfr. V. VASILE, La Comunità di Favara e le vie di un vescovo, in L’Unità, 30-9-1976,8. 322) Antonio Morreale nelle funzioni di parroco. 323) Cfr. G. Petralia, Lettera al sac. Antonio Morreale, in A.d.P., 19/26-9-332. 1. 324) G. PETRALIA, Lettera al sac. Luigi Sferrazza ,in A.d.P., 19/26-9-1976, 1.

185


a celebrare la santa Messa. L’invito cadde nel vuoto poiché nessun sacerdote celebrò in quella Chiesa per non andare contro gli ordini del vescovo, pertanto per alcune domeniche i fedeli si riunivano soltanto per ascoltare la Sacra Scrittura325. Il provvedimento di Petralia suscitò reazioni diverse nella comunità ecclesiale diocesana: una parte lo accolse favorevolmente perché si poneva fine ad una questione che si trascinava da alcuni anni, un’altra parte con malumore perché temeva un irrigidimento delle posizioni e la fine di un qualsiasi dialogo. E proprio per dissipare questi malumori Petralia pubblicò l’articolo Precisazioni sul settimanale diocesano, in cui dopo aver apprezzato l’impegno sociale dei due sacerdoti, espresso nella fase iniziale, contestava loro la scelta “prevalentemente sociopolitica” a tal punto che la comunità parrocchiale era divenuta, secondo il vescovo, una base dei Cristiani per il socialismo: «Preti e comunità fecero un’aperta scelta marxista che si concretizzò nella campagna a favore del divorzio e dei comizi per le sinistre marxiste»326.

Petralia contestava ai due sacerdoti, e a quelli che sostenevano il

325) 4 Cfr E. MINIO, Risposta al Vescovo, l’esperienza continua, in L’ora, 26-10-1976, 6. Precedentemente non sono mancati tentativi di occupare la Chiesa: cfr. U. RE, La Comunità decide se occupare la parrocchia in Giornale di Sicilia, 15-9-1976, 11. In questo articolo Minio riporta una frase di Morreale in cui sostiene che tra il Diritto Canonico e il Vangelo sceglie il Vangelo. Su questa vicenda mi riferisce, nell’agosto 2002, Luigi Sferrazza: “L’invito a non lasciare la comunità parrocchiale dei santi Apostoli Pietro e Paolo senza Eucarestia era rivolto ai parroci di Favara. La domenica 24 ottobre al consueto appuntamento domenicale dell’Eucarestia intervenne una folla di fedeli del quartiere, molti simpatizzanti ed amici da tutta Favara e dalla provincia; presenti anche molti sacerdoti che con noi avevano condiviso i momenti di tensione con il vescovo. Non abbiamo voluto che questi presiedessero l’Eucarestia per non acuire ulteriormente i rapporti con il vescovo; ci siamo limitati a celebrare la liturgia della parola iniziando un periodo di digiuno eucaristico nei locali della Chiesa dove i ragazzi della comunità avevano scritto “LA CHIESA E’ DEL POPOLO””. 326) Precisazioni, in A.d.P., 19/26-9-1976, 1. L’articolo, anche se non è firmato, si ritiene per i contenuti e lo stile, scritto dal vescovo Petralia. In una conferenza stampa Petralia spiegava le ragioni dei provvedimenti e accusava don Luigi Sferrazza di fare propaganda marxista nei vari Comuni della provincia cfr. F. CHIBBARO, I due sacerdoti ribelli più integralisti degli stessi marxisti?, in Giornale di Sicilia, 16-9-1976, 7.

186


movimento politico, non solo l’interpretazione marxista e orizzontalista del vangelo ma anche il modello di Chiesa, cioè una Chiesa retta dalla base in opposizione all’istituzione gerarchica: «I miei ripetuti, insistenti richiami sono stati lettera morta. Essi hanno continuato, con durezza, a dare al vangelo una interpretazione classista, non accorgendosi di essere divenuti più integralisti degli stessi marxisti, a contestare la gerarchia e la Chiesa istituzionale, accusandola pesantemente di essere alleata degli sfruttatori, criticandone aspramente i documenti e le direttive, e pretendendo, tuttavia, di rimanere nella Chiesa, ossia in una Chiesa acefala, in cui arbitro è la volontà della base»327.

Petralia ai sacerdoti filocomunisti oltre a contestare il modo errato di interpretare il Concilio ricordava loro quale era la natura e la funzione del prete: «Essi che sbandierano spesso il Concilio interpretandolo “ad usum delphini”, dovrebbero sapere che il parroco, nella sua comunità parrocchiale, è l’alter ego del vescovo, è un suo portavoce, perché, strettamente parlando, il vescovo è il pastore vero della Chiesa locale. Quindi, dal momento che il parroco non sente di condividere più gli insegnamenti e le direttive del vescovo, logica vuole che si tiri in disparte, senza costringere il superiore a un gesto di autorità»328.

Ai due sacerdoti Petralia contestava anche un’incoerenza di fondo: «I due preti preferiscono vivere in una posizione di incoerenza:

327) L.c. Come abbiamo avuto modo di evidenziare nei capitoli precedenti a partire dal 1970 tutto ciò che era istituzionalizzato veniva criticato aspramente preferendo movimenti transitori e spontanei e senza regole fisse. 328) Chiarificazioni, in A.d.P., 19/26-9-1976,1.

187


una incoerenza che appare più fenomenale quando si pensi che essi da una parte combattono la Chiesa istituzionale con tutte le sue strutture (che definiscono “costantiniane” e “tridentine”) e intanto pretendono di viverci dentro. La parrocchia è una struttura della Chiesa istituzionale ed essi si lamentano d’esserne messi fuori. L’insegnamento religioso è un frutto del Concordato, che essi combattono quasi fosse il diavolo, e intanto vorrebbero non esserne estromessi. Il provvedimento del vescovo, assolutamente lineare, è un richiamo, sia pure drastico, alla coerenza, che è la prima virtù del cristiano, anzi dell’uomo leale»329.

Petralia revocò la nomina dell’insegnamento della religione cattolica ai sacerdoti Alfonso Di Giovanna e Luigi Sferrazza che insegnavano presso l’Ipsia di Agrigento330. Successivamente Petralia adottò altri due gravi provvedimenti che segnarono profondamente la comunità diocesana: l’interdizione dei locali della parrocchia santi Apostoli Pietro e Paolo di Favara e la sospensione a divinis per il sacerdote Luigi Sferrazza331. Accanto all’articolo Precisazioni il settimanale diocesano pubblicò un altro articolo Chiarificazioni in cui venivano contestati ai sacerdoti aderenti al movimento Cristiani per il socialismo due errori: ridurre la missione della Chiesa alla liberazione socioeconomica dei poveri e sganciare la prassi marxista, per la liberazione dei poveri, dall’ideologia, cioè dai principi che fondavano la prassi:

329) L.c. 330) Cfr. Nota informativa, in A.d.P, 3-10-1976,1. 331) Cfr. Interdetti i locali della Parrocchia ss Pietro e Paolo ,in A.d.P., 24-10-1976,1 e Sospeso a divinis don Luigi Sferrazza, in A.d.P., 24-10 1976,1. I gravi provvedimenti disciplinari segnarono profondamente il vescovo, che ne parlerà con sofferenza negli anni successivi, come una spina trafitta nel proprio animo. Alla sofferenza del vescovo si contrappose, purtroppo, l’esultanza dell’ala conservatrice e moderata del clero, che vide finalmente applicate le richieste che da tempo suggerivano al vescovo. Pur giovanissimo, mi fece impressione la gioia che notavo nel volto di alcuni preti, che vedevano nel provvedimento del vescovo la fine ad una prolungata vicenda; una vicenda dove non c’erano stati ne vinti né vincitori.

188


«Ma il ridurre, del tutto o prevalentemente, il messaggio evangelico e la missione della Chiesa alla liberazione socioeconomica o sociopolitica dei poveri, l’assumere non tanto l’analisi scientifica quanto la prassi del marxismo, con la sua carica terrenistica e totalizzante, illudendosi che la prassi possa sganciarsi dalla ideologia e dimenticando la continuità di una dottrina che va da Lenin a Gramsci e a Togliatti, sino a Berlinguer, il fare della Chiesa o della parrocchia l’anticamera o la succursale del sindacato rosso o del partito comunista, sono tutte cose che fanno a pugni con la fede del cristiano e soprattutto con la missione del prete»332.

Con questi gravi provvedimenti presi da Petralia si chiudeva un biennio difficile e travagliato della Chiesa agrigentina. Iniziava anche la fase calante del movimento Cristiani per il socialismo, il numero dei simpatizzanti si assottigliò sempre più, e scemò quella carica esplosiva che lo aveva caratterizzato negli anni precedenti. Nel giro di pochi anni quasi una ventina di sacerdoti lasciarono l’esercizio del ministero sacerdotale. Altri espatriarono in altre diocesi italiane, una buona parte scelse di svolgere “in modo ordinario” la vita parrocchiale, parecchi laici divenuti punti di riferimento dell’associazionismo cattolico si ritirarono e non espressero per molti anni l’impegno profuso negli anni precedenti. Tuttavia la diocesi seppe nel suo insieme superare la grave frattura a causa della presenza dinamica ed esplosiva del nuovo vescovo ausiliare, don Gino Bommarito, che organizzando grandi manifestazioni e visitando a tappeto tutte le parrocchie, le associazioni, i movimenti e le abitazioni anche di umili famiglie seppe ridare vigore e guardare con ottimismo il futuro. Alla base dei provvedimenti disciplinari presi da Petralia, come abbiamo visto, c’era l’incompatibilità tra la fede cristiana e l’ideologia marxista e la lettura orizzontalistica del vangelo. Secondo Petralia era impossibile coniugare scelta politica marxista e fede cristiana poiché

332) Chiarificazioni, in A.d.P., 19-9-1976, 1.

189


entrambe attingevano ad una concezione filosofica diversa, dalla quale necessariamente scaturiva una prassi politica. Era, pertanto, errato, secondo Petralia, tentare di sganciare l’azione politica dalla concezione filosofica. In ambito ecclesiale il vescovo proponeva una scelta politica ritenuta consona all’ortodossia della Chiesa, che possedeva tutti i principi necessari per una scelta a favore dei poveri senza ricorrere ad altri sistemi. Petralia, inoltre, contestava ai sostenitori del movimento Cristiani per il socialismo il modello di Chiesa e il ruolo del prete, che doveva essere un “portavoce del vescovo” e dipendente delle sue direttive. Per i provvedimenti presi nei confronti dei sacerdoti filocomunisti, Petralia fu oggetto di una campagna giornalistica aspra e acida nei suoi confronti, a tal punto che la Conferenza Episcopale Siciliana, durante i lavori della sezione autunnale, espresse solidarietà al vescovo: «che ha dovuto prendere, con profonda sofferenza, dei provvedimenti intesi a dissipare errori e correggere atteggiamenti gravemente difformi dalla dottrina del vangelo e della Chiesa»333.

333) C.E.S. Comunicato, in B.E.A. 69 (1976) 134-136.

190


Conclusione

Il dopo Concilio è stato uno dei periodi più intensi e proficui della Chiesa per molti aspetti, tra cui, vogliamo sottolineare, la rivalutazione del laicato, in forza del triplice munus sacerdotale, profetico e regale, nella vita della comunità ecclesiale e nella società. Questo laicato chiedeva maggiore attenzione e partecipazione alla vita ecclesiale. Tale esigenza era avvertita anche a livello presbiterale poiché si era convinti che un laicato più formato era di sicuro sostegno all’apostolato parrocchiale. Grazie al contributo dell’Azione Cattolica, e sotto la spinta di Petralia, un inedito fermento coinvolse le comunità. Il Concilio, tramite il documento Gaudium et spes, aveva anche indicato l’autonomia del laicato nelle scelte temporali, che i pastori, pur in linea di principio, accoglievano, e i sacerdoti più attenti ‘ai segni dei tempi’ desideravano che fosse estesa alle scelte politiche. La divisione del mondo in due blocchi contrapposti, patto Atlantico e patto di Varsavia, e il clima di “guerra fredda” dopo gli accordi di Yalta pesavano all’interno della vita ecclesiale. Il vescovo Petralia vedeva nel comunismo la minaccia non solo alla libertà della Chiesa ma anche alle istituzioni democratiche, pertanto considerava suo dovere di pastore salvaguardare i valori democratici e contrastare il materialismo storico. I cattolici del dissenso si schieravano dalla parte degli sfruttati e ritenevano che solo un’alleanza con le forze della sinistra avrebbe reso possibile il cambiamento sociale e il superamento del sistema capitalistico. Per ironia della sorte, dopo quasi vent’anni dai fatti, il segretario politico del Partito Democratico della Sinistra, il comunista on. Massimo D’Alema, sarà invitato alla manifestazione Giovaninfesta della diocesi agrigentina dal vescovo di Agrigento Carmelo Ferraro. Segno eloquente che un nuovo clima politico vivono i cattolici dopo 191


il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo in Europa. Ma negli anni settanta era troppo presto delineare gli sviluppi di un nuovo scenario politico internazionale. Se la politica internazionale incise sulla divisione ecclesiale tra i cattolici progressisti di sinistra e i cattolici moderati e conservatori, tuttavia sarebbe riduttivo far dipendere tale scontro dalla contrapposizione dei due blocchi. Infatti, come abbiamo avuto modo di evidenziare, alla base dello scontro c’era una diversa formazione teologica, una diversa, se non proprio opposta, comprensione del rapporto Chiesa-mondo, un diverso modo d’intendere la libertà, un diverso modello di spiritualità sacerdotale, ma soprattutto una diversa ecclesiologia. Erano due mondi diversi che si appellavano allo stesso Concilio. E ognuno non voleva rinunciare alle proprie posizioni, perché significava, in concreto, tradire la formazione ricevuta. Forse una via sarebbe stata percorribile, per salvaguardare la comunione ecclesiale, malgrado le diverse posizioni, se Petralia avesse cercato dopo il biennio 1972-74 una linea più equidistante tra le due anime presenti nel clero, se avesse espresso una critica più realista al decadimento del costume politico in Agrigento, dove la politica aveva disatteso le speranze degli anni precedenti, se avesse valutato la gravità del documento dei 52 preti, se non avesse risposto alla crisi degli anni 197476 con il collaudato metodo preconciliare e con i toni del quarantotto, se avesse assunto la linea politica del card. Pellegrino di Torino o di Bettazzi vescovo di Ivrea (auspicata dall’ala innovativa del consiglio Pastorale diocesano) o quella “temporeggiante” di altri vescovi334; se i cattolici del dissenso avessero fatto prevalere la proposta di Pino Lanza fin dall’inizio e se non avessero scelto il modello rivoluzionario e marxista applicato alla teologia della liberazione. Come abbiamo avuto modo di sottolineare, è stato un tentativo errato quello di identificare la teologia

334) In un incontro organizzato nel 1992 dalla rivista Suddovest, Alfonso Di Giovanna riferiva che aveva avuto notizia del fatto che Petralia aveva espresso apprezzamento per l’intelligenza e l’entusiasmo dei cattolici del dissenso: “Nonostante fosse stato l’artefice della repressione – diceva Di Giovanna – ha una grande stima nei nostri confronti anche per la sincerità che dimostravamo” in Relazione stenografica, inedito, 1992.

192


della liberazione con la scelta marxista, dimenticando che c’erano altri filoni di tale teologia meno intransigenti e più aperti al dialogo. Ma l’errore più grossolano fu aver elevato l’analisi marxista a fonte di moralità dell’agire cristiano, al posto del vangelo. L’identificazione tra scelta marxista e teologia della liberazione non recò un beneficio alla stessa teologia e nemmeno ai cattolici del dissenso agrigentino che furono guardati sempre con sospetto. Tale sospetto indusse i pastori ad una scelta più “spiritualista” e difensiva a tal punto da non porre più l’impegno verso i problemi sociali che aveva caratterizzato la Chiesa agrigentina in questo secolo, soprattutto con i vescovi Blandini, Lagumina e Peruzzo. È stata un’esperienza positiva la contestazione cattolica nella diocesi agrigentina? Ogni contestazione deve far riflettere, perché crea divisioni e incomprensioni, se non proprio lacerazioni, come avvenne con l’esperienza dei Cristiani per il socialismo. Più di venti sacerdoti in pochi anni lasciarono il ministero sacerdotale, e quelli rimasti perdettero la carica esplosiva che li distingueva per capacità, intelligenza, volontà, intraprendenza; scemò un certo giovanile apostolato. Certamente il dissenso cattolico quanto meno indicò alla Chiesa la necessità di una nuova presenza nel mondo del lavoro e tra le fasce più povere delle popolazioni che chiedevano maggiore giustizia sociale. I cattolici del dissenso compresero che non era possibile un’evangelizzazione senza entrare nel tessuto vitale delle persone, senza coglierne i travagli, le ansie, i problemi e le speranze. Diversamente si faceva reale il rischio di una disincarnazione del messaggio cristiano stesso. Ma in questa presenza a favore delle fasce più povere, i cattolici del dissenso fecero un errore grossolano: aver trasferito il modello di povero, proprio dell’America latina, nell’agrigentino. È vero che i cattolici del dissenso mostrarono una vivacità e un impegno sui problemi sociali conducendo valide iniziative.335 Ma è pur vero che il modello di povero avvilito, defraudato,

335) Queste iniziative turbarono la quiete di alcuni benpensanti e malavitosi che non si lasciavano scappare le occasioni per bruciare le auto ai preti o scrivere frasi diffamatorie come ad esempio “no ai preti rossi”.

193


sfruttato da padroni senz’anima (come si evince da tutta la pubblicistica sviluppata dai cattolici del dissenso) non esisteva più nell’agrigentino e in Sicilia, che da terra di emigrazione, proprio negli anni settanta, diveniva per la prima volta terra d’immigrazione, con i primi timidi inserimenti di nuclei di tunisini che lavoravano nel piccolo commercio e nel terziario336. Quel tipo di povero era stato presente in Sicilia prima della riforma agraria. Con l’emigrazione, con lo sviluppo dei commerci, dell’artigianato, dell’imprenditoria, negli anni settanta, i Comuni dell’agrigentino avevano un benessere economico mai prima conosciuto. Pertanto anche loro, nelle battaglie politiche, si rivolgevano ad un modello di sfruttato che non viveva più tra noi, dunque era un linguaggio destinato a cadere nel vuoto. Invece i problemi erano ben altri. Erano i problemi posti dallo sviluppo distorto del Sud, dalla mentalità consumistica, dal rafforzamento del potere mafioso, dall’assenza di etica pubblica nella vita amministrativa ed economica i problemi scottanti che la Chiesa agrigentina doveva affrontare, aggravati dalle conseguenze causate dal terremoto. È proprio in questo contesto che s’imponeva una testimonianza limpida, efficace e profetica. Anche se tormentato, dal periodo del dopo Concilio vennero delle indicazioni che, riprese durante il Sinodo, che per alcuni anni coinvolse la Chiesa agrigentina, diventarono le idee portanti dell’azione Pasto-

336 Se nell’ambiente agrigentino non ci fu una mobilitazione massiccia alle lotte proposte dai cattolici del dissenso, come era stato negli anni ’40 e ’50 per la riforma agraria soprattutto negli ambienti ecclesiali, era segno che il modello di povero e di sfruttato apparteneva più ad altre aree geografiche o ad altri contesti sociali. Gli stessi cattolici del dissenso in un’autocritica riconoscono l’errore commesso: “Pensiamo che il vero motivo sia nella difficoltà di unire gente attorno ad obiettivi precisi di lotta sentiti da tutti come vitali. Da noi non ci sono industrie per cui si possa puntare su un nucleo operaio; è difficile individuare la controparte nelle rivendicazioni sociali; a lungo andare ci siamo accorti che l’obiettivo della posta nel quartiere, quello della strada o della luce non è mobilitante perché ancora non tocca i problemi vitali dell’occupazione, dell’agricoltura e dell’emigrazione. E per di più attorno a questi problemi vitali ci siamo scontrati con la completa impreparazione e incapacità di analisi tradizionali del movimento operaio. Per questa nostra impossibilità di individuare obiettivi precisi di lotta ci siamo ridotti a balbettare le solite analisi sul capitalismo che vanno bene a Milano come a Bari e a Favara, senza appoggiarli ad interessi vitali” Dai margini, aprile 1975, 13.

194


rale rinnovata nell’ultimo scorcio di secolo. Tali indicazioni costituirono una buona piattaforma per una nuova primavera della Chiesa agrigentina, e furono ad intra: 1) programmazione pastorale: si avvertì la necessità di una Pastorale diocesana programmata più incisa e scientifica per far posto alla frammentazione disorganica; 2) l’annuncio del vangelo rivolto ai lontani: la Chiesa missionaria doveva avvicinare i lontani andando loro incontro. Occorreva cambiare il modello di parrocchia, secondo l’ecclesiologia del Vaticano II; 3) nascita dei centri familiari di ascolto: la parrocchia doveva essere presente nel territorio tramite le piccole comunità. Partecipazione e responsabilità dei credenti: il laicato non poteva rimanere ai margini della vita ecclesiale ma direttamente coinvolto; 4) dialogo e comunione tra vescovo e sacerdoti.

1)

2) 3) 4) 5)

Le idee portanti scaturite dal dopo Concilio furono ad extra: fine del collateralismo della Chiesa con la Democrazia Cristiana: i cattolici avvertirono la scarsa coerenza tra fede e vita negli uomini che rappresentavano il cosiddetto “partito cristiano”, ormai divenuto luogo di compromessi tra diversi interessi; collaborazione con tutti gli ‘uomini di buona volontà’: era sui programmi politici che bisognava ormai confrontarsi; coscienza dell’esistenza del ‘peccato sociale’ e dell’esistenza delle strutture ingiuste; la carità cristiana esercitata attraverso la funzione delle strutture pubbliche; necessità di una presenza profetica e per nulla accomodante in una provincia complessa e travagliata.

195


196


Documenti

Per aiutare il lettore a comprendere meglio il periodo storico ho ritenuto interessante pubblicare alcuni documenti, che, a mio avviso, sono i più significativi. Nella scelta dei documenti ho ritenuto giusto dare rilievo sia al vescovo Petralia sia ai cattolici del dissenso. I primi cinque documenti presentano il pensiero di Petralia, mentre gli altri documenti quello della parte opposta. Inoltre, ho ritenuto interessante pubblicare un manoscritto, datomi da Luigi Sferrazza, del Gruppo giovanile della Parrocchia “Itria” di Favara.

La Direzione A servizio della verità in L’Amico del Popolo 15-9-1974, 1. Dal 1° Agosto di quest’anno il nostro settimanale ha cambiato direzione. Ciò potrebbe spiegarsi come un caso di normale avvicendamento. Ma non è questo solo. E qui è bene spendere alcune parole di chiarimento, poiché troppe inesattezze e insinuazioni, anche gravi, sono state propagate nei giorni scorsi da una stampa male informata. Da alcuni anni il settimanale “L’Amico del Popolo” – è bene insistere sulla qualifica di “cattolico”, non di rado dimenticata – in armonia col rinnovamento conciliare, è stato chiamato dal Vescovo a divenir sempre meglio espressione della comunità diocesana, ossia terreno ideale su cui il Pastore della Diocesi intendeva incontrarsi con i fratelli di fede in un dialogo sereno e costruttivo, per portare dinanzi l’opera di rinnovamento nella fede, nella comunione intorno all’Eucarestia e, per conseguenza, nell’animazione cristiana del nostro popolo, assetato di giustizia. 197


Il dialogo comportava: 1) lo sviluppo e l’attuazione delle mete pastorali che il Vescovo maturava con gli organismi diocesani; 2) la proposta, da parte dei laici, di utili esperienze e di metodi più idonei per un efficace rinnovamento; 3) il dibattito e lo scambio delle idee nel rispetto delle persone al di sopra di ogni ideologia politica, avendo come uniche fonti di ispirazione il vangelo e la Chiesa; 4) l’obbedienza alle direttive dottrinali, pastorali e disciplinari della Gerarchia; 5) la fedeltà al Vescovo, come principio visibile dell’unità della Chiesa particolare, al quale spetta la responsabilità delle ultime decisioni. Solo su tale linea “L’Amico del Popolo” poteva mantenere il suo carattere di settimanale diocesano e cattolico. Invece il contenuto e l’atteggiamento del settimanale andarono progressivamente deteriorandosi. Esso andava slittando verso forme di orizzontalismo e di sinistrismo: forme che non vanno confuse con la promozione dello sviluppo socio-economico-culturale della nostra poverissima provincia. Chi ha scritto che il provvedimento adottato dal Vescovo tendesse a bloccare la tensione del settimanale verso lo sviluppo della gente agrigentina, dice tutto il contrario della verità. Giacchè il Vescovo non ha mai impedito alla direzione e alla redazione del settimanale di denunciare, e spesso in forma drastica, le carenze e le inadempienze di una certa classe politico–amministrativa; ma ha dichiarato che ciò andava fatto solo nello spirito del vangelo e della Chiesa, non per ossequio a qualsiasi ideologia. Inoltre ha sempre insistito che il messaggio di liberazione del vangelo fosse inteso non unilateralmente –ossia soltanto come riscatto dalla miseria economica - ma in senso integrale, come salvezza di tutto l’uomo, nella sua dimensione temporale e nella sua vocazione escatologica, come impegno di fede, di grazia, di giustizia, di amore di Dio e dell’uomo. Tali avvenimenti non sono stati raccolti. Ma v’è stato qualcosa di più grave. Lo stesso concetto di “comunità diocesana” è stato falsato, in quanto “L’Amico del Popolo” diveniva a poco a poco espressione di un “piccolo gruppo” molto attivo, ma in dissenso col Vescovo e col resto della comunità diocesana. Se ne ebbero prove estremamente dolorose: tra l’altro, nelle ultime elezioni politiche, gli attacchi di gruppi giovanili contro il Vescovo, registrati 198


dal settimanale senza la debita reazione e correzione; gli acidi commenti alla Lettera Pastorale di quest’anno “La grande occasione”; e, particolarmente grave, l’atteggiamento tenuto nella campagna per l’abrogazione della legge Fortuna – Baslini – e anche dopo -, in contrasto con le direttive dottrinali e pastorali dell’Episcopato italiano. Dinanzi a tali deviazioni il Vescovo si adoperò lungamente a riportare la direzione e i suoi collaboratori sulla giusta linea. E lunghi, penosi, estenuanti furono i colloqui privati col direttore, poi col comitato redazionale-amministrativo, infine con gli organi diocesani. Egli propose alla fine delle linee programmatiche che furono in teoria accettate e poi, come di consueto, dimenticate. Non v’era rimedio: il gruppo redazionale, col direttore in testa, aveva fatto una precisa scelta e non tornava indietro. Posto ciò, non restava al Vescovo che dichiarare – certo con sofferenza ma con la coscienza di compiere un preciso dovere Pastorale impossibile ormai ogni collaborazione. Il gruppo del dissenso giunge a scrivere, oggi, in termini violenti che si è violata la libertà di stampa. Il vero è che il gruppo sopra descritto ha vibrato un duro colpo alla comunione ecclesiale. Abbiamo sentito il dovere di informare i lettori perché nessuno sia fuorviato da una passionale propaganda. Chiediamo loro scuse se per qualche tempo – speriamo breve - “L’Amico del Popolo” sospenderà la pubblicazione, in attesa di rimettere ordine nella casa redazionale. Siamo certi che la comunità, stretta intorno al Vescovo, saprà cooperare all’incremento di una autentica comunione, nell’umile e operoso servizio alla Chiesa Agrigentina, nella quale tutta la Chiesa di Cristo soffre nella speranza.

199


Solidarietà dell’Episcopato siciliano col nostro Vescovo mons. Giuseppe Petralia in L’Amico del Popolo, 10-11-1974, 1. Eccellenza Reverendissima, A nome e per mandato dei Vescovi siciliani riuniti nella Conferenza Episcopale, vengo ad esprimere a Vostra Eccellenza la comune solidarietà nella circostanza che l’ha indotta, dopo tanto pazientare, ad operare una sostituzione, ritenuta ormai necessaria, nella direzione del settimanale diocesano agrigentino. Dalle notizie che si aveva avuto modo di apprendere da fogli di stampa e dalle informazioni ulteriormente fornite da Vostra Eccellenza emerge l’obbiettiva delicatezza di una situazione che, ad evitare pericolose confusioni e possibili disorientamenti, andava necessariamente chiarita. La piena comunione col Vescovo, come è stato ribadito in un documento della nostra stessa Conferenza, è condizione irrinunziabile di validità per ogni movimento o atteggiamento che voglia dirsi autenticamente ecclesiale. Con sensi di fraterno ossequio, voglia credermi, dell’Eccellenza Vostra Reverendissima, devotissimo Salvatore card. Pappalardo - Arcivescovo

200


G. P. Unità di fede e pluralismo politico in L’Amico del Popolo 27- 7- 1975, 1 È profonda esigenza della Chiesa, come Corpo vivo organicamente strutturato, l’unità della varietà. Ricordiamo san Paolo: “Vi è diversità di doni, ma lo Spirito è il medesimo, come vi è diversità di ministeri, ma il medesimo Signore; e diversità di operazioni, ma il medesimo Dio che opera in tutti”(1 Cor 12,4-6). Si dice unità e si intende unità di fede per le verità rivelate di cui è legittimo custode, trasmettitore e interprete il magistero dei Pastori; unità del Sacrificio e dei Sacramenti; unità della Morale, come intimamente connessa con la Verità divina. Ma la varietà è altrettanto legittima: “Nella Chiesa tutti secondo il compito assegnato ad ognuno, sia nelle varie forme della vita spirituale e della disciplina, sia nella diversità dei riti liturgici, anzi, anche nella elaborazione teologica della verità rivelata pur custodendo l’unità nelle cose necessarie, serbino la detta libertà; in ogni cosa rispettino la verità. Poiché, agendo così, manifesteranno ogni giorno meglio la vera cattolicità e insieme l’apostolicità della Chiesa (Unitatis redintegratio, 4). Compito specifico dei Pastori, non è la costruzione della società temporale mediante la promozione di movimenti o partiti politici più o meno coerenti col Vangelo. Movimenti e partiti, per quanto credano di ispirarsi alla dottrina sociale che scaturisce dal Vangelo, operano sul piano di opzioni contingenti, valide oggi, non più valide domani. Essi si muovo nella sfera del “possibile“, ossia molto spesso del “compromesso” (che non vuol dire sempre compromesso della coscienza) che, per la sua problematicità, non può coinvolgere i maestri della fede. In tal senso Gesù Cristo, Maestro, Sacerdote, Pastore, che continua a illuminare, santificare, guidare il mondo della Chiesa, non fece politica. E tuttavia Egli pose principi di rinnovamento e di rigenerazione delle vecchie strutture, che hanno dato un nuovo volto al mondo. Questi principi il magistero approfondirà e svilupperà incessantemente – così come hanno fatto i Pontefici nelle encicliche sociali - per offrire agli opera201


tori diretti della politica, della legislazione e dell’economia sociale, orientamenti e norme per fare delle scelte non contrastanti col Messaggio ed efficaci per la edificazione di un mondo più giusto e più fraterno, che sia abbozzo e anticipazione del Regno di Dio. Ai laici credenti e battezzati, per la loro partecipazione al sacerdozio regale di Cristo, compete un largo spazio anche nella evangelizzazione, ossia nella catechesi, nella ricostruzione sociale, nella creazione di una vera comunità cristiana. Ma il compito della evangelizzazione, affidato da Cristo a tutta la Chiesa, può essere adempiuto dai laici con due scelte diverse: religiosa e sociale: e ciò non a capriccio né dietro spinte meramente emozionali, ma secondo i talenti e i carismi ricevuti da Dio. Fanno una scelta religiosa quei laici che entrano in movimenti ed associazioni il cui scopo è di collaborare direttamente con la Gerarchia nell’azione che le è propria di evangelizzazione, di santificazione, di formazione cristiana delle coscienze. Tali sono i laici militanti nell’Azione Cattolica o anche, con una consacrazione più impegnata, negli Istituti secolari, di cui è particolarmente fertile la Chiesa che si affaccia al 2000. Invece fanno una scelta sociale quanti si impegnano in movimenti o gruppi operanti, con chiara ispirazione cristiana, in campo politico, sociale o culturale: quanti cioè si propongono di testimoniare il Vangelo nella prassi politica, sindacale o economica (e qui vanno collocate soprattutto le ACLI e altri movimenti affini) o quanti si dedicano all’animazione cristiana della società mediante un’azione di illuminazione culturale e di formazione sociale delle coscienze. Comunque sia, scelta religiosa e scelta sociale, nell’ambito della comunità cristiana, non si escludono anzi si integrano a vicenda, poiché anche la scelta religiosa si prolunga, coerentemente, nella promozione sociale. Il Sinodo del 1971 nel documento “Giustizia nel mondo” l’ha ricordato: “l’agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come una dimensione costitutiva del vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo”. I laici che hanno fatto una scelta preferenziale religiosa, hanno un 202


più stretto rapporto con la Gerarchia; e tuttavia anch’essi godono di un sufficiente spazio di autonomia, potendo e dovendo dialogare in spirito di umiltà e di carità e soprattutto mettere a servizio della evangelizzazione e della Pastorale tutta la ricchezza delle loro conoscenze ed esperienze che li fa mediatori necessari tra Chiesa e mondo. I laici che hanno fatto una scelta preferenziale socio-politica hanno certamente un più largo spazio di autonomia ma, se non vogliono staccarsi dalla Chiesa vivente, devono anch’essi confrontare di continuo le proprie scelte ideali e operative col Vangelo e con la Chiesa, in spirito di umiltà e carità. Purtroppo – ecco il punto dolente - in qualche settore dell’Azione Cattolica e in movimenti socio-politici che pur si dicono cristiani, il dialogo si è tramutato in aspro confronto dialettico, l’ascolto in accusa, la coerenza in dissenso spesso acido o aggressivo, al limite della rivolta e dello scisma. L’errore è lì: hanno trasformato la fede in una ideologia e hanno scelto una certa ideologia come chiave interpretativa della fede, con la conseguenza di dare il primato all’ideologia e oscurare la fede. Dal capitalismo sono precipitati nel marxismo senza capire che in ogni sistema ideato e costruito fuori di Cristo si annidano le forze del male; e che ogni liberazione, fuori della liberazione portata da Cristo, è provvisoria, piena di limiti e di storture almeno potenziali; libera da una oppressione per portare ad altra oppressione forse più dura. È come quella inferma, ricordata da Dante, “che non può trovar posa in su le piume – ma con dar volta suo dolore scherma”. La via è un’altra ed è più difficile ma più sicura: soprattutto è la vera e veramente liberatrice: muoversi con coraggio e fede dal Vangelo radicalmente interpretato e vissuto, per trovare nuove forme di gestione del potere economico e politico, in cui nessuno sia dèspota, nessuno sia schiavo, ma tutti partecipino alle responsabilità e ai vantaggi del potere. Su questa via, veramente cristiana, possono essere utilizzate le esperienze storiche sia del capitalismo sia del collettivismo, nelle parti non caduche e non legate alla ideologia, purchè siano vivificate da una vigile coscienza cristiana. 203


Giuseppe Petralia – Vescovo Libertà dell’uomo e libertà della Chiesa in L’Amico del Popolo, 13 – 6- 1976,1. Al Clero e al Popolo della Chiesa Agrigentina L’attuale situazione politica in Italia pone i cattolici di fronte a scelte veramente decisive, che solo l’ingenuità o la malafede possono considerare meramente temporali, in quanto toccano direttamente la fede. È questa la ragione, e non altra, dei recenti autorevoli interventi del magistero della Chiesa. “Non si deve dimenticare – scriveva Papa Giovanni nella “Pacem in terris”- che compete alla Chiesa il diritto e il dovere non solo di tutelare i principi dell’ordine etico e religioso, ma anche di intervenire autoritativamente presso i suoi figli nella sfera dell’ordine temporale, quando si tratta di giudicare dell’applicazione di quei principi ai casi concreti”(n.85). Non altrimenti insegna il Vaticano II: “ Sempre e dovunque, e con vera libertà, è suo diritto (ossia della Chiesa) predicare la fede e insegnare la sua dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la sua missione tra gli uomini e dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime” (Gaudium et spes n. 76). Oggi, appunto, sono in gioco due beni fondamentali: la libertà dell’uomo e il diritto-dovere della Chiesa di svolgere senza ostacoli la propria missione. Il Papa e i vescovi hanno deplorato con infinita amarezza le scelte di un gruppo di intellettuali che, pur continuando a dichiararsi cattolici, hanno deciso di operare, con impegno politico diretto, a fianco di coloro che obbediscono, ha detto Paolo VI, a una concezione dell’uomo e della società “radicalmente avversa alla nostra concezione religiosa della vita” e che tale concezione, palesemente immanentistica e secolaristica, intendono tradurre nella prassi. Purtroppo anche in seno alla comunità ecclesiale agrigentina si ripercuote lo stesso fenomeno di incoerenza tra fede e scelta politica da parte di alcuni nostri fratelli che si richiamano a un malinteso pluralismo. 204


Perciò, mossi dal nostro grave dovere Pastorale e rispondendo all’appello della comunità diocesana, dichiariamo che quanti tra i cattolici aderiscono al marxismo ed ai partiti che ad esso direttamente si ispirano, si pongono contro il magistero della Chiesa e, con ciò stesso, fuori della comunione ecclesiale. Altrettanto, e a maggior ragione, va detto per quei sacerdoti che seguono la stessa linea di condotta, anzi se ne sono fatti guide e ispiratori, sia nel loro organo di stampa, il settimanale “Scelta” –divenuto di numero in numero sempre più avverso all’autorità della Chiesa – sia in pubblici raduni e dibattiti di aperta propaganda marxista. Per così gravi motivi, essendo riusciti vani gli amorevoli richiami e i severi ammonimenti, continuati con longamine pazienza per circa quattro anni, con questa lettera noi li sconfessiamo dinanzi alla comunità diocesana, deplorando la contraddizione in cui si sono posti, di voler vivere nella Chiesa e di combatterne le strutture essenziali, non esclusi i Vescovi e la loro autorità di magistero. È una decisione dolorosa ma necessaria, soprattutto per dissipare il sospetto di acquiescenza del Vescovo alle loro tesi e alle loro scelte e per evitare ogni ulteriore confusione nella comunità. Se questa nostra voce troverà un’eco positiva nei loro cuori, Dio sarà glorificato e noi saremo felici. Ma se ciò non dovesse avvenire, non potremmo che prendere atto del rifiuto e trarre le conseguenze. Il Vescovo è padre e pastore, ma, ove occorre, è anche medico e chirurgo. Senza acrimonia e al di sopra di ogni interesse politico – che non ci tange minimamente, se non nel senso più alto del bene comune – torniamo a invitare i cattolici dissidenti e in modo più pressante i sacerdoti a una leale e non artificiale coerenza con la fede, della quale questi ultimi, in particolare, hanno accettato di essere testimoni e maestri. Il motivo con cui essi pensano di giustificare la propria condotta, che cioè solo a fianco delle sinistre marxiste si possa condurre una lotta efficace per la elevazione degli umili, è un pericoloso sofisma. La stessa battaglia può essere combattuta più efficacemente alla luce dei principi del Vangelo e degli insegnamenti sociali della Chiesa, che contengono una carica potentemente rinnovatrice, se attuati con nuovo im205


pegno culturale politico da parte di tutti i credenti. Comprendiamo che la scelta politica pone, oggi, i credenti dinanzi a delicati problemi di coscienza. Comprendiamo anche il dovere, forse in passato non sufficientemente assolto, della comunità cristiana e dei suoi membri, di vigilare severamente sul comportamento morale dei propri rappresentanti, nell’azione legislativa, nella pubblica amministrazione, nella condotta privata. Ma la scelta odierna va fatta sui valori di fondo. E la libertà dell’uomo e la libertà della Chiesa sono valori irrinunciabili, perciò validissimi criteri di scelte politiche. È tempo, questo, di attenta riflessione e di più assidua e fervida preghiera. «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affannano i suoi costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano vigilano i suoi custodi (Sal. 126). Nella luce della Pentecoste, che oggi celebriamo nella speranza, invitiamo tutti i fedeli del buon popolo di Dio della Chiesa Agrigentina a moltiplicare gli appelli allo Spirito della verità e dell’amore, della fortezza e della pietà, perché effonda con larghezza i suoi doni di luce e di sapienza su ciascuno di noi e su tutto il popolo italiano. Le nostre scelte sono determinate per la soluzione della crisi che ci travaglia, senza imposizioni più o meno totalitarie, e per un nuovo corso della storia diretto coraggiosamente alla promozione dell’uomo nella giustizia, nella libertà, nella pace. Agrigento, solennità della Pentecoste, 6 giugno 1976.

206


Chiarificazione in L’Amico del Popolo, 19-26 settembre 1976, 1. L’opera che sta svolgendo il Vescovo in Diocesi non è già di repressione – come si usa dire, con un linguaggio pretestuoso, in campo marxista o filomarxista – ma di chiarificazione. Va ribadito quanto detto cento altre volte, che tutto ciò che viene fatto per la elevazione degli umili e per la liberazione dei poveri dalla miseria e dalla oppressione, riscuote la più ampia approvazione del nostro Vescovo. V’è infatti un nesso intrinseco e strettissimo tra il Vangelo e lo sviluppo globale dell’uomo (vedi documento - base Evangelizzazione e promozione umana, nn.17-18). Ma il ridurre, del tutto o prevalentemente, il messaggio evangelico e la missione della Chiesa alla liberazione socioeconomica o socio politica dei poveri, l’assumere non tanto l’analisi scientifica quanto la prassi del marxismo, con la sua carica terrenistica e totalizzante, illudendosi che la prassi possa sganciarsi dalla ideologia e dimenticando la continuità di una dottrina che va da Lenin a Gramsci e a Togliatti, sino a Berlinguer, il fare della Chiesa o della parrocchia l’anticamera o la succursale del sindacato rosso o del partito comunista, sono tutte cose che fanno a pugni con la fede del cristiano e soprattutto con la missione del prete. La chiarificazione è imposta al Vescovo, anzi a tutta la comunità diocesana, dal dovere, anzi dal bisogno di non perpetuare equivoci gravissimi intorno alla identità della nostra fede. Ma, obiettano parecchi amici, altrettanta chiarificazione va fatta in altro campo, dove purtroppo dei pastori di anime, chiamati ad annunciare e a testimoniare il Vangelo della povertà e della carità, svuotano la missione della Chiesa d’ogni credibilità esercitando il ministero con spirito professionistico e venale. Se su tutto il Clero agrigentino (noi ci occupiamo particolarmente di questo) si volesse scaricare codesta accusa, si commetterebbe grave ingiustizia. Molti sacerdoti, infatti, svolgono la loro alta missione con abnegazione e distacco, poveri in mezzo ai poveri, e impegnati nel sollevarne i bisogni senza esibizioni e strombazzature. 207


Ma la piaga denunciata, in maggiore o minor misura, esiste purtroppo! Il Vescovo è cosciente del suo dovere di indagare e di provvedere, anche drasticamente, se è necessario, per incidere e risanare la piaga. La testimonianza della povertà e della carità, nella Chiesa, deve accompagnare la cura gelosa di salvare l’integrità della fede. La fede ha certamente un suo primato nella logica del vivere cristiano; poiché, se crolla la fede, crolla anche la carità. Ma la fede sola non ci salva, se non è vivificata e resa operante dalle opere dell’amore. Per questo il Vescovo, responsabile primo della comunità, chiama sin d’ora gli organismi diocesani a studiare con lui i modi e i mezzi per attuare la riforma in ordine alla testimonianza. La catechesi, impegno primario della comunità, non sarà viva, non sarà vitale, senza una radicale conversione alla carità. E la carità senza lo spirito e le opere della povertà, in senso evangelico, è davvero una parola vuota.

208


Luigi Sferrazza Risorgere dalla muffa delle ceneri e dai roghi in Scelta, 18/25 - 4 - 1976.1. La risurrezione di Cristo è il fatto centrale della fede cristiana. Ma cosa significa fede nella risurrezione? Come va vissuta la fede nella risurrezione? Cosa porta di nuovo per la vita pratica dell’uomo la fede nella risurrezione? La fede nella risurrezione non potrebbe essere una forma di alienazione con cui l’uomo cerca di sfuggire ai suoi problemi reali, alla sua storia piena di difficoltà, di incertezze, di amarezze, di disperazione per risolverle nell’illusione di una vita futura? Quando la fede nella risurrezione è un fatto alienante Certo per noi credenti la “fede” nella risurrezione del Cristo diventa un fatto alienante se si riduce a una soddisfazione immaginaria con cui cerchiamo di rimandare i problemi e le frustrazioni attuali a un indefinito futuro dopo la morte. La fede nella risurrezione diventa alienante se oggi inibisce la prassi di liberazione, se non ci fa fare niente per superare le difficoltà sociali perché “tanto poi c’è il paradiso”. La nostra fede nella risurrezione è alienante e frutto di immaginazione se ci fa chiudere gli occhi davanti a tutte le lacerazioni e alle divisioni di classe per fare stare insieme – con l’illusione dell’unità di fede - sfruttati e sfruttatori, padroni e servi, lasciando invariato il ruolo di ognuno (lo sfruttatore resta sfruttatore, il padrone resta padrone). Questo è il tipo di fede diventata piuttosto “credenza”; una credenza non sorretta da fatti concreti che portano salvezza. È chiaro come tale tipo di “fede” sia stata ed è utilizzata dai signori della politica per tenere sottomessi al loro dominio e potere coloro che anche sinceramente e senza colpa abboccano all’amo. La pratica di questo tipo di “fede alienante” (che è meglio chiamare più propriamente religiosità o credenza) ha fatto scrivere parole di fuoco a gente, come Ernst Bloch, non cristiana ma che ha scoperto nel cristianesimo una potente forza di liberazione:“Che apostolica benedizione si posò su tutti i Franco della terra e quali preghiere si innalzarono per la loro vittoria, e quanta complicità negli occhi che si chiusero davanti ai nuovi roghi di giudei ed eretici: e tutto fu ormai possibile…È vero che in en209


trambe le chiese c’è ancora qualcuno che è sincero, ma la maggioranza, fino a nuovo avviso, appartiene a quelli che si adeguano; essi continueranno, gatti in tutto e per tutto, a cadere minacciosi in piedi ogni volta che la testardaggine orientale torni a loro profitto…ma dalla muffa dei suoi carceri e dai suoi roghi sorgono genuine figure di cristiani…” Quando la fede nella risurrezione è forza liberante Ma c’è una regola per sapere discernere la vera fede: questa regola è la prassi. Quando la prassi dei credenti è una prassi che libera o tende alla liberazione dell’uomo, delle sue strutture, del suo avvenire, allora vuol dire che la fede che ci sta sotto è una fede autentica. Se noi leggiamo attentamente le Scritture ci rendiamo conto che l’affermazione della “Risurrezione di Gesù per opera del Dio dei vivi” non nasce in un luogo qualunque, in un gruppo di uomini inerti che pensano di risolvere così le loro frustrazioni. Il luogo in cui nasce la fede nella risurrezione è la comunità: è nella prassi di coloro che avendo creduto nel messaggio del falegname di Nazaret, seguito dai proletari e perseguitato dalle classi dominanti, avevano cominciato a trasformare i loro rapporti sociali concreti. E hanno finito, così, col sovvertire e il mettere in questione le strutture del sistema sociale di allora: i fedeli si tenevano uniti e avevano tutto in comune (Atti 2,44). I ricchi erano stati eliminati perché “nessuno diceva suo quello che possedeva e man mano che se ne sentiva il bisogno si vendevano beni mobili e immobili e si distribuiva il ricavato secondo il bisogno di ognuno”. Il luogo della fede nella risurrezione è allora una comunità in cui i poveri condividono e in cui i discepoli si aiutano reciprocamente, spezzano il pane, si spiegano a vicenda le scritture… Insomma, la comunità dei primi credenti ha accettato la sfida della classe sacerdotale e degli agenti dell’imperialismo romano che con l’assassinio politico di Gesù avevano creduto di bloccare il “movimento” pericoloso per le strutture politiche religiose su cui si fondava il loro potere. E con la prassi liberante dell’amore, dell’uguaglianza, della giustizia, della fraternità testimoniano di credere alla vita che non 210


finisce del falegname di Nazaret assassinato brutalmente. «Gesù di Nazaret, passato tra gli uomini sanando e guarendo tutti, dato in balia degli empi e crocifisso è stato risuscitato da Dio (cfr Atti, 2): è l’affermazione della vittoria della vita sulla morte fatta da una comunità che ha creduto nell’amore. Gesù è risorto: è l’affermazione di una comunità che spera la felicità oggi anche se ci sono difficoltà, persecuzioni. È l’affermazione di una comunità che crede nella vita e sperimenta la via a partire dalla prassi concreta. Insomma la comunità dei primi credenti non inventa la risurrezione di Cristo ma la vive. Quando la fede non si inventa ma si vive La Pasqua 1976 forse chiede ai credenti (e anche alla Chiesa) dell’agrigentino un cambiamento, una conversione nella pratica e nella testimonianza di fede. Da una fede tranquilla, che ci mette a posto con Dio, che risolve sul piano spirituale i conflitti storici, reali, di oggi, da una fede (credenza) che rimanda al futuro, nel paradiso, l’avvento della giustizia, dobbiamo passare alla pratica di una fede che incide sui rapporti sociali e determina il cambiamento delle situazioni sociali ingiuste. Le nostre chiese da luogo in cui si pratica la “religiosità” e si alimenta la “credenza” devono diventare il centro di una prassi comunitaria in cui la povertà è condivisa ed è feconda, in cui viene eliminata la differenza di classe perché “nessuno deve dire suo quello che possiede”. Non è importante che all’inizio ci siano ricchi e poveri: ma è importante che ognuno rompa con lo “status quo”; decisivi sono i frutti di una prassi di fraternità e di solidarietà. E gli ultimi saranno primi e i primi ultimi. Nella misura in cui faremo questo non rischieremo di essere la Chiesa alleata al potere dominante; la Chiesa delle formule, delle scomuniche dell’inquisizione. Insomma non saremo la Chiesa che spinge la coscienza dei suoi membri verso un prassi reazionaria e conservatrice. Ma saremo la Chiesa dei vivi, della libertà, della giustizia, della comunione. Saremo la Chiesa della risurrezione; la Chiesa che non “inventa” la fede nella risurrezione ma la “vive”. 211


Comunità cristiana di base di Favara La nostra fede a confronto con la risurrezione di Cristo in Scelta, 18/25-4-1976, 6. Il luogo della nostra esperienz e della nostra prassi di fede è il “quartiere di via Agrigento di Favara”. Riflettendo sulla risurrezione di Cristo abbiamo presente la realtà di questo pezzo di meridione sottosviluppato (per una conoscenza scientifica della situazione socio-economica di Favara e del quartiere rimandiamo ai numeri 51 e 65 di “Scelta”). Sono un po’lontane, da questa nostra realtà, le problematiche delle scuole teologiche. Nella nostra esperienza di comunità abbiamo imparato a capire e a vivere il fatto della risurrezione di Gesù non come “il contentino da raggiungere dopo una vita esemplare” ma come una realtà da realizzare oggi all’interno delle contraddizioni storiche. Ci sembra definitivamente superata la fede nella risurrezione come fede in una affermazione dommatica da “credere” con tutti i particolari descritti nel vangelo. Questa fede – che una volta faceva dire: se Cristo non è risorto mi ucciderei perché la mia vita non avrebbe senso - pensiamo che nasceva in un clima di alienazione e di insoddisfazione. Nella vita eterna, affermata nella risurrezione, si voleva trovare uno sbocco alle repressioni della vita. La risurrezione, insomma, non è il contentino di una vita bigotta. Cristo Risorto centro della nostra fede Ma il fatto della risurrezione resta il centro della nostra fede: il Gesù di Nazaret, colui che era passato tra gli uomini risanando e facendo del bene (vedi Atti 2) è stato messo a morte dai funzionari della religione della legge e dell’imperialismo romano. Quando gli apostoli sperimentano la sua vita oltre la morte e testimoniano alle masse popolari la fede nella risurrezione, di fatto lanciano una sfida ai detentori del potere. Dire che il Cristo è risorto è lo stesso dire che Gesù, attraverso le scelte fatte, dalle tentazioni alla morte, attraverso la concretizzazione nella prassi della vita del messaggio che portava, ha realizzato se stesso, ha dato un senso compiuto alla sua esistenza. 212


E per gli apostoli, affermare questo era proclamare un fatto e una prassi di vita vincenti nei confronti del potere dominante. Nella comunità non ci poniamo il problema della fine del corpo di Cristo, anche se su questo punto ci sono delle differenziazioni nelle posizioni: qualcuno inclina a credere nella risurrezione del corpo fisico di Cristo, qualcuno crede nella risurrezione nel senso che il suo messaggio vive ancora oggi in noi. La maggior parte delle persone della comunità pensa, invece, che il racconto sul sepolcro vuoto del vangelo è una drammatizzazione di un fatto di fede: la vita dell’uomo nuovo Gesù che si realizza in ogni scelta e che continua oltre la morte; per cui Cristo, questo “uomo nuovo” è qui vivo, tra noi. Questo fatto, allora, è storico per diversi motivi: 1. perché ha interessato globalmente l’esperienza dell’uomo storico “Gesù di Nazaret”. 2. Perché questa esperienza di “novità” attraverso la storia delle prime comunità si è inserita nel contesto di precise situazioni economiche cominciando a condizionare i rapporti di forza di quel tipo di società. Il potere economico si fondava sul consenso e sull’accettazione delle classi subalterne: l’annuncio di risurrezione, per la prassi di comunione che genera, si inserisce nella storia e provoca un cambiamento liberante. 3. Questo fatto è storico, infine, perché si inserisce anche nella nostra realtà ed è capace – nella misura in cui viene vissuto correttamente - di suscitare una prassi di liberazione e di incidere sugli attuali rapporti di forza della società. La risurrezione è reale se la fede diventa prassi Resta, per la nostra comunità e per ognuno di noi, di fare diventare storica, reale, concreta l’esperienza di risurrezione: “il problema della risurrezione si capisce quando noi riviviamo come cosa nostra l’esperienza di Gesù” (Tatà). “Più c’è prassi di comunione, più c’è prassi di liberazione più ho coscienza del Cristo risorto”(Antonio). “Viviamo la risurrezione se realizziamo una prassi politica di liberazione”(Stefano). “Noi la resurrezione la realizziamo in ogni scelta: tutte le volte che passiamo dall’uomo all’uomo nuovo” (Ciccio). “La risur213


rezione è reale se la fede diventa prassi”(Franco). Dalle frasi frammentarie riportare risulta chiaro come per noi siano inseparabili impegno politico e comunitario, da una parte, e realizzazione di se stessi dall’altra. Come Gesù, facendo le sue scelte ha realizzato se stesso aprendo anche un futuro nuovo, storico, per l’umanità, così noi possiamo realizzare noi stessi nella misura in cui introduciamo già ora nuovi elementi di socialismo in questa società. È chiaro che questa realizzazione non la facciamo da soli. Ma in una prassi di comunità: “noi potremo parlare senza imbarazzo della risurrezione quando usciremo dai limiti di una esperienza comunitaria contraddittoria”. Ci rendiamo, però, conto che oggi non possiamo realizzare pienamente una prassi comunitaria non solo per le nostre incoerenze, ma principalmente per le sollecitazioni della società borghese, per le barbarie e i limiti che questa struttura sociale e i rapporti economici e di forza dell’attuale società pongono alla libertà, alla maturazione delle coscienze ecc. Oggi la fede nella risurrezione, nell’uomo nuovo, nella comunione ci impegna a realizzare una prassi politica capace di incidere sui rapporti di forza e a modificare il consenso popolare che sostiene la classe dominante, per eliminare tutte le forme di alienazione che impediscono di costruire una società di eguali. Abbiamo presente la storia di quella donna del nostro quartiere che, proprio perché ha partecipato a qualche incontro comunitario e a qualche assemblea, ha scatenato le ire e la gelosia del marito; pensiamo alla struttura urbanistica di Favara e in particolare del nostro quartiere che, per rispondere ai criteri della speculazione si è praticamente risolta contro l’uomo creando tutte le condizioni per l’insorgere di patologia e di handicap; pensiamo ancora alla scuola, ai servizi sociali che mancano, all’emigrazione… Noi crediamo che oggi sia possibile colpire le strutture alienanti della società solo a partire da un’analisi scientifica delle contraddizioni. La nostra comunità ha individuato nell’attività di quartiere e nell’impegno per una pratica della medicina e dell’assistenza nel conte214


sto di una generale riappropriazione da parte dei lavoratori del problema della salute, i momenti qualificanti per incidere sui rapporti economici e politici oggi presenti nel nostro ambiente. A parte il fatto che abbiamo preso coscienza del dovere di militare, a livello personale e nella forma e misura che ognuno crede opportuno, nelle organizzazioni del movimento operaio. Tuttavia ci sono alcuni che pensano che per vivere sino in fondo la fede nel Signore Risorto forse bisogna arrivare anche alla comunione dei beni evitando il rischio di essere valvola di sicurezza ed esperienza isolata nell’attuale società capitalistica per costruire, invece, una esperienza alternativa di vita che diventa stimolo per noi e per la società. E renda più concreta, per noi, l’attesa “dei cieli nuovi e della nuova terra in cui abiterà la giustizia”.

215


Direzione e Redazione di Scelta Solo la libertà dell’uomo libera la Chiesa in Scelta, 13-6-1976, 1. 1. È con amarezza e con dolore pari, se non più grandi di quelli di colui che lo ha scritto e diffuso, che abbiamo appreso della lettera Pastorale in cui il nostro Vescovo ha dichiarato “fuori della comunione ecclesiale”, “sconfessati” e “dissidenti” quei sacerdoti e quei laici i quali durante il tempo recente, ma con un’anzianità che Egli stesso fa risalire a quattro anni, hanno cercato di approfondire concretamente e testimoniare con la propria azione il cristianesimo oggi nell’agrigentino. 2. Ci rendiamo conto, infatti, della sofferta e travagliata decisione di un Padre che deve mediare all’interno della comunità pressioni, sensibilità e culture diverse e – a volte - opposte; quello che però ci pare necessario riaffermare con forza è che la nostra scelta della Chiesa – “con la quale siamo tutto e senza la quale siamo nulla”è irreversibile ed incondizionata, essendo il motivo che oggi sembra dividerci di ordine puramente congiunturale e temporale. 3. A parte, infatti, la calunniosa e menzognera attribuzione – traditrice della fraternità ecclesiale - ad alcuni fratelli sacerdoti di fatti quali la partecipazione a comizi elettorali, l’iscrizione a partiti della sinistra e l’attivismo all’interno degli stessi, dichiariamo assolutamente non veritieri, teniamo ad affermare alcuni – per noi irrinunciabili - punti fermi. 4. Non abbiamo mai pensato o voluto combattere questa Chiesa nelle sue “strutture essenziali”; infatti, mai abbiamo messo in dubbio l’autorità di magistero del Vescovo; quello che non ci ha completamente convinti è stato l’uso che di questo magistero si è fatto per orientare i membri della Chiesa “verso una sola opzione compatibile con la fede”. (Episcopato francese – Ottobre 1972). 5. Ciò che, poi, ci tormenta e ci angoscia è la scelta reiterata ed incondizionata a favore della DC che, “adottando l’ideologia liberal-borghese” (Lazzati) ha promosso l’identificazione di una società che porta i segni dell’oppressione del ricco sul povero, del 216


6.

7.

8.

9.

padrone sull’operaio, del colto sull’ignorante ed in cui non si può riscontrare alcun margine di vera libertà. Infatti questa non è astratto democratismo e formale garantismo, ma liberazione integrale dell’uomo dai condizionamenti economici e culturali che, nella misura in cui lo realizza e completa, lo apre alla trascendenza e lo avvicina all’immagine di Dio. Ed è proprio su questo piano – di cui, con dolore, non troviamo riscontro nella lettera del nostro Pastore - riteniamo, che dovrebbe svilupparsi il dibattito ed il confronto all’interno della comunità ecclesiale in ordine alle scelte temporali. Ci pare che solo ponendosi in questa prospettiva diventa necessario cercare e ricorrere a schemi di analisi ed a strumenti di lavoro e di intervento politico diversi da quelli di cui ci si è serviti finora. Non ci scandalizziamo perciò se alcuni fra noi utilizzano l’analisi marxista per la lettura della società (pur non accettando l’ideologia del marxismo globalmente intesa) e, rifiutando di continuare a dare il proprio voto alla DC, scelgono di spendere all’interno dei partiti di espressione storica del movimento operaio la propria militanza politica. Tutto ciò non è il tentativo di instaurare una nuova opzione politica obbligatoria, quanto il riconoscere che “è legittimo per i cristiani il pluralismo politico. Difatti, al di là delle loro differenze e delle loro controversie, tutti gli uomini sono uomini. E su questo dato originario che s’innesta il pluralismo. Esso esige che nessuna persona sia esclusa dalla battaglia per l’uomo e che venga riconosciuto uno spazio agli oppositori nell’elaborazione di un progetto di società migliore”(Episcopato francese –Ottobre 1972). Pensiamo che la Chiesa debba rinunciare definitivamente ad ogni compromissione di potere e quindi alla tentazione di avere “rappresentanti nel campo dell’azione legislativa e della pubblica amministrazione”. Noi lavoriamo per un rinnovamento del comportamento della Chiesa, perché purificando il suo volto, dimostrando la sua indipendenza nei confronti dei poteri economici o politici riacquisti pienamente la sua libertà. Non è compromettendosi col potere che alla Chiesa può essere garantito “il diritto-dovere di svolgere senza ostacoli la propria mis217


sione”, ma approfondendo e realizzando concretamente il Vangelo del Signore che è liberazione per gli oppressi. È portando avanti questo messaggio nei nostri incontri-dibattito che alcuni di noi hanno sperimentato la sete di fede autentica di larghi strati di masse popolari che hanno sentito finora lontana la Chiesa e che ora la vedono riconciliarsi con essi. 10. Solo la libertà dell’uomo libera la Chiesa. Con questi intenti ci rivolgiamo a tutti i fratelli della Chiesa che è in Agrigento per aprire con loro un dialogo ed un confronto sereno.

218


A. Morreale – L. Sferrazza La nostra fede rimane, Lettera al Vescovo, in Scelta, 19-9-1976, 1. Nella lettera che ci ha fatto pervenire il 10-9-1976 ci ha scritto che “tutto è stato detto tra noi” e che così lei ha creduto opportuno “venire” alle conclusioni giuridiche. Al di là di quelle che possono essere, invece, le conclusioni giuridiche, noi pensiamo che ancora resti molto da dire. Lo abbiamo specialmente avvertito quando nella preghiera eucaristica di domenica 12 settembre abbiamo pregato per il nostro vescovo. Abbiamo sentito in quel momento con dispiacere che l’ansia di comunione, che quella preghiera esprimeva, era incrinata da un vuoto che oltre a noi tocca a Lei colmare. Perciò continuiamo a non capire perché “il confronto” tra vescovo e comunità “non farebbe che prolungare la confusione”. Abbiamo dunque, tante cose da dirci: ma intanto cominciamo col fare chiarezza sulle accuse che Lei ci rivolge. 1.Ci accusa di aver fatto una scelta marxista. Pur non ignorando che la teoria scientifica del marxismo è storicamente (si badi bene: storicamente) solidale con una filosofia materialistica ed atea, però già nella nostra esperienza e nella esperienza di milioni di cattolici, “scelta marxista” ha significato “analisi scientifica” del capitalismo e progetto di una società senza classi. Di fronte alle contraddizioni che la società capitalistica fa pagare ai lavoratori del meridione (sottosviluppo), dell’agrigentino (anche la Montedison sta chiudendo), del nostro quartiere (solo l’11,94% della popolazione ha la possibilità di lavorare), l’analisi marxista ha cominciato a dare alle persone (operai, donne, contadini, studenti) gli strumenti per progettare un futuro di società solidale e giusta. La nostra fede rimane: essa dà un orientamento alla nostra vita e alle nostre scelte. Anzi, abbiamo avvertito nella nostra esperienza che l’impegno per una società senza classi avvicina il progetto del “Regno di Dio”, i nuovi cieli e la nuova terra in cui abiterà la giustizia. L’esperienza nostra è quella di milioni di cattolici che ha stimo219


lato la ricerca e la soluzione in sede teorica di tanti teologi e filosofi e che ha portato molti vescovi ad un atteggiamento di attenzione e rispetto di fronte ad una scelta dei credenti. Sarebbe deludente e superficiale l’atteggiamento intransigente di quegli altri vescovi che si limitano a ripetere una condanna che non sa guardare in faccia al processo della storia. 2. Lei, inoltre, ci accusa, di “riduzione” del vangelo a lotta per la liberazione in senso socio-economico. Basterebbe poco perché Lei si ricreda: è sufficiente che viva un po’tra noi condividendo sino in fondo i bisogni e le contraddizioni in cui ci battiamo. Diamo per scontato che la sete di giustizia è già cercare il “Regno di Dio”: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le angosce di Cristo”. La Chiesa “si sente realmente ed intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia” (Vaticano II, GS, 1). Nella nostra vita testimoniamo la fede nel Cristo risorto come impegno concreto per la giustizia, come solidarietà per i poveri, con gli oppressi, con gli emarginati; vogliamo ridare la parola e la dignità, il gusto e la gioia di vivere a coloro che non hanno niente. L’Eucarestia e la parola illuminano il mistero della nostra vita e danno compiutezza e dimensione escatologica al progetto storico di liberazione. 3. Ci si accusa, ancora, di “contestazione e opposizione alla gerarchia e ai suoi documenti, presentazione della Chiesa come alleata dei potenti”. «Se una situazione di ingiustizia e di sfruttamento è incompatibile con l’avvento del regno di Dio, la Parola che lo annuncia deve annunciare tale incompatibilità. Il che significa che il popolo uditore di questa parola, per il solo fatto di ascoltarla, dovrebbe riconoscersi come sfruttato e sentirsi spinto a cercare la propria liberazione” (G. Gutierrez, in Concilium, 1971/8, p.70). La realtà italiana ci sbatte in faccia, invece, una “Chiesa rigidamente controllata dalla curia romana e con un episcopato prevalentemente conservatore che si appoggia, soprattutto ai ricchi e alla borghesia, lega le classi inferiori quasi esclusivamente con una prassi sacramentale di tipo 220


magico e una cultura pietistica individualistica e che è tuttora poco interessata al problema italiano per eccellenza, la spaventosa disuguaglianza tra ricchi e poveri” (R.J.Bunnik, Concilium 1971/8, p.4). La nostra non è, quindi, una contestazione della gerarchia ma la constatazione amara e dolorosa della connivenza di molti settori di essa con le classi dominanti. Non abbiamo mai pensato di rifiutare il confronto di fede col Vescovo, ma abbiamo decisamente respinto ogni tentativo gerarchico che di fatto consolida il potere della classe dominante. La nostra fede nella Chiesa ci costringe a chiedere ai vescovi “colonne di fede” di raccogliere le sofferenze degli sfruttati, quelle sofferenze che gridano vendetta al cospetto di Dio. È stato il nostro amore per la Chiesa e non uno spirito calunnioso, che ci ha portato a chiedere a tanti settori della Chiesa di dissociarsi dalle compromissioni con ogni potere oppressivo e contribuire alla Chiesa la missione profetica di chiamare tutti gli uomini “alla libertà dei figli di Dio”. Per questo siamo nella Chiesa e per questo lavoriamo. 4. Ci si accusa, infine, di servirci del nostro ministero sacerdotale per spingere le persone a militare nelle organizzazioni marxiste. E questa è una accusa gratuita. Quel che noi abbiamo cercato di affermare è la libertà per noi, come cittadini responsabili di fronte alla storia, e per i credenti, di aderire alle organizzazioni della classe sfruttata. Ciò che può essere chiesto ai credenti in nome del Vangelo è di operare una scelta politica coerente con gli ideali di giustizia e di fraternità del Vangelo. Ma questa scelta politica va fatta con strumenti politici e con i criteri dell’analisi sociale. Per questo non abbiamo mai pensato, neanche lontanamente, che per essere fedeli al vangelo bisogna fare necessariamente una scelta marxista (questa, infatti, è conseguenza di una analisi della società). Ma anche per questo abbiamo anche decisamente rifiutato ogni tentativo di fare confluire – in nome di una distorta fedeltà agli ideali cristiani - l’adesione dei cattolici al partito democristiano davanti al quale manteniamo il nostro atteggiamento critico. Legata al carro del neo-capitalismo, la DC, infatti, è responsabile 221


delle lacerazioni sociali e della crisi che, come al solito, è pagata dai lavoratori e dalle classi meno abbienti. Tuttavia, rivendicando per i credenti la libertà della militanza nelle organizzazioni della sinistra non abbiamo mai accusato, scomunicato o impedito a nessun cristiano di aderire ad altre formazioni politiche. Caro Vescovo, per ragioni che noi crediamo esclusivamente politiche Lei ci ha destituito dai nostri uffici nella Parrocchia dei ss. Apostoli Pietro e Paolo di Favara. Non vogliamo impugnare giuridicamente la decisione perché diffidiamo della “legge” e perché crediamo che ciò che vivifica è lo Spirito. Ma restiamo a vivere la nostra fede con la comunità che va sperimentando la forza liberante dell’evangelo di Gesù. Qua continueremo la nostra esperienza cercando con i nostri mezzi di rispondere all’appello evangelico di carità e qua continueremo ad assumerci le nostre responsabilità in seno alle organizzazioni che gli sfruttati si danno per contrapporre alla spirale di violenza del capitalismo un progetto di società di fratelli solidale e giusta. Senza sfidare nessuna autorità ma condividendo la miseria dei poveri continuiamo ad unire le nostre energie al tentativo di coloro che vogliono rendere ogni uomo consapevole e responsabile del proprio destino, gestore, in prima persona, della propria esistenza e del proprio futuro. Il futuro del “Regno” che ci attende tutti, ci fa ora sperare che il dialogo non si fermi qui. Favara, 15 settembre 1976.

222


Documento dei “sessanta” firmato da 52 preti agrigentini il 7-2-1974 I sottoscritti Sacerdoti diocesani agrigentini, dopo ampio e approfondito dibattito sul tema “Indagine, analisi e prospettive sulla situazione del clero nella diocesi di Agrigento”, col presente documento intendono contribuire al rinnovamento ed alla riconciliazione della Diocesi sottoponendo all’attenzione del Vescovo e di tutto il clero il loro concorde ed unanime pensiero:

– –

Spunti di analisi: Si rileva che esiste tra il clero diocesano un diffuso senso di profonda sfiducia sul modo di condurre il governo della diocesi e sulle strutture su cui tale azione di governo poggia. Dette strutture, infatti, anziché essere strumento di comunione e di costante rinnovamento obbediscono alla logica del potere, del conservatorismo, dell’immobilismo e del quieto vivere. Tale situazione, anziché favorire la ricerca e il chiarimento sulla identità e il ruolo del prete nella società di oggi, addormenta le coscienze e determina nei preti l’accentuarsi del disagio, dell’insoddisfazione e, conseguentemente, dell’isolamento. I preti, d’altronde, soffrono di una evidente emarginazione sociale e vedono frustrato ogni tentativo di incontro con le persone e in particolare con la classe operaia e contadina. Ogni tentativo spontaneo di singoli o di gruppi per il superamento e la soluzione di un così grave disagio viene scoraggiato anche con l’arma del sospetto e della calunnia. Sollecitazioni e proposte sottoscritte da sacerdoti rimangono regolarmente senza risposta. Le assemblee plenarie di clero vengono indette molto sporadicamente e con un “Ordine del Giorno” che non lascia materialmente spazio ai liberi interventi della base. L’assegnazione dei vari uffici presbiterali anche di grave responsabilità (Curia, Seminario, Parrocchie…) raramente rivela criteri di scelta rispondenti alle reali esigenze del bene comune e viene 223


operata senza tenere minimamente conto del parere del clero e del popolo di Dio. Si ha piuttosto l’impressione che tali scelte rispondano a criteri clientelari, personalistici e interessati, spesso monopolizzati da noti protettori locali. – Tali scelte emarginano sacerdoti qualificati e preparati che spesso vengono volutamente screditati con “autorevoli” calunnie tendenti a creare disistima e disgregazione tra il clero. Alcuni sacerdoti sono di conseguenza costretti a creare spazio in attività non coordinate ai fini di uno sviluppo organico della Pastorale diocesana. – Desta seria preoccupazione in tutto il clero la dolorosa constatazione, tuttora senza speranza alcuna di soluzione, che i presbiteri anziani e invalidi sono abbandonati e dimenticati dopo una esistenza interamente spesa a servizio della diocesi. – Dal punto di vista amministrativo la diocesi viene gestita senza una precisa programmazione che si esprima in bilanci di previsione e consuntivi analitici resi di pubblica ragione. – La diocesi finanziariamente è divisa in tanti compartimenti stagno che sembrano costituire altrettanti feudi personali. Non si conosce se esiste un preciso inventario dei beni della diocesi. I resoconti della “Cassa Unica” pubblicati di tanto in tanto dal Bollettino Ecclesiastico non sono esaurienti perché non vi sono contenute le voci di bilancio della diocesi: Es. Rendite, messe binate e fondate, fondo di solidarietà per il clero, ODA, ecc. – Non si conosce come sono stati impegnanti i contributi pervenuti dalla S. Sede, da Enti Ecclesiastici e civili in occasione della “frana” e del “terremoto”. Di fronte a questi fatti non hanno più senso le parole e i discorsi; e l’invito alla riconciliazione, che ci viene dalla ricorrenza dell’ANNO SANTO, impone decisioni e atteggiamenti che esprimano una volontà precisa di cambiamento e di conversione. Le proposte concrete per superare questa situazione debbono essere oggetto di indagine e analisi serie e credibili condotte collegialmente tra tutto il presbiterio. Intanto i sottoscritti, a carattere indicativo, suggeriscono 224


Proposte 1) Che si costituisca un centro comunitario dove gruppi di sacerdoti che ne sentano l’esigenza possano incontrarsi per affrontare e risolvere problemi pastorali e personali. 2) A tale scopo ben servono i locali del Seminario di Favara che potrebbe sin d’ora assumere il vero ruolo di “casa della diocesi” per le varie attività pastorali e di aggiornamento suggerite impellentemente dal Concilio Vaticano II. 3) Un punto di riferimento per questo centro comunitario può essere costituito da un gruppo di sacerdoti e laici che seguano e approfondiscano l’evoluzione attuale della teologia cattolica confrontandola con la nostra realtà locale. Tale esigenza si fa oggi più impellente per il venir meno del corpo docente di teologia in Seminario. 4) Si proceda all’elezione di un nuovo Consiglio presbiterale in cui non vi siano membri di diritto e che rispondano ad autentici criteri di rappresentatività prescindendo dalla divisione della diocesi in zone pastorali. 5) Si avvii un processo in cui le persone si sentano sostenute, nei vari incarichi, dalla solidarietà di tutta la comunità diocesana: a tal fine le mansioni siano tutte assegnate “ad tempus” e le persone proposte ai vari uffici presentino alla comunità diocesana le finalità e i programmi che intendono realizzare. Queste linee di analisi e le proposte non presumono di essere esaurienti, ma vogliono essere solo uno stimolo ad uscire, in tempi brevi, dalla prolungata stasi in cui versa la diocesi e dal grave disagio che ne deriva per tutto il presbiterio e il popolo di Dio. Agrigento, 7-2-1974. Seguono le firme di 52 sacerdoti. 225


Gruppo Giovanile Itria, Parrocchia dell’Itria, Favara La religiosità dei gruppi di base e dell’ambiente in cui agiamo in rapporto alle conseguenze socio-politiche Favara, gennaio 1974. Documento inedito. Noi, gruppo giovanile Itria, nell’esaminare la religiosità della nostra comunità cristiana, abbiamo creduto opportuno vedere come è maturata attraverso gli anni di lavoro e di studio condotti fino ad oggi. Crediamo che non sia possibile capire la religiosità del nostro gruppo se non si veda come ad essa siamo arrivati. Il nostro gruppo è nato nell’ottobre del 1970, formato da elementi giovanissimi (tutti tra i 14-15 anni di età), tendente a costituire un gruppo giovanile di Azione Cattolica, e infatti ci siamo tesserati all’Azione Cattolica. Però, man mano che ci incontravamo, ci siamo accorti di non condividere alcuni aspetti della Chiesa ufficiale. Inoltre contrariamente a quanto succedeva e succede ai vari gruppi di Azione Cattolica, i nostri interessi non erano puntati tanto alla partita di pallone e al biliardo, ma a vivere delle esperienze nuove. Sotto la guida del nostro parroco, abbiamo così esaminato tutti i nostri perché riguardo la religione tradizionale, soprattutto sui sacramenti e i dogmi. Abbiamo cominciato a capire, seppur a livello embrionale, che non dovevamo assistere alla Messa ma viverla, e che Cristo non era venuto per darci dei dogmi, ma anzi per liberarci. Il nostro lavoro di primo anno si è concluso con una tre giorni di studio e sull’organizzazione dei festeggiamenti in onore della Madonna dell’Itria. Il secondo anno di attività è cominciato nell’ottobre 1971 coll’allontanarsi di alcuni elementi dal gruppo, che frattanto non aveva rinnovato il tesseramento G.I.A.C., perché consapevole di non essere Azione Cattolica. Abbiamo cercato di unirci al gruppo giovanile del Carmine, perché avanti nelle esperienze, onde poter arricchire la nostra religiosità. Però questo tentativo non è riuscito. Infatti non ci sentivamo Azione Cattolica perché volevamo una religiosità nostra, viva, elaborata e non 226


imposta, vissuta secondo le nostre esigenze; per la stessa ragione non abbiamo potuto integrarci col G.G. del Carmine, che già seguiva delle linee ben precise e perciò il nostro inserimento sarebbe risultato contrario alle nostre esigenze. Questo tentativo, nella sua conclusione, ha portato alcuni elementi ad allontanarsi ulteriormente dal gruppo. Comunque siamo andati avanti con molte incertezze e dubbi e nel periodo antecedente Pasqua 1972 abbiamo organizzato una seconda tre giorni, che ci ha permesso di allargare il nostro gruppo e di organizzare e portare a termine una serie di incontri per una ricerca e un approfondimento su studi biblici, che molta influenza hanno avuto nella nostra attuale religiosità, nel nostro lavoro. Il terzo anno, al solito ci siamo trovati dinanzi al problema provocato dall’allontanarsi di alcuni elementi dal gruppo e dall’integrazione di nuovi nell’ambito dello stesso. Durante i nostri incontri abbiamo trattato temi di ordine socio – religioso, che ci hanno fatto sentire l’esigenza di vivere un’esperienza cristiana; a tale fine abbiamo pubblicizzato, in occasione della XX G.M.L., la grave piaga dei lebbrosi, per cui ci sono pervenute offerte fino a 220.000 lire, che sono andate a finire nel Camerum. Quest’esperienza ci ha insegnato che il cristianesimo si vive lottando col prossimo, non interessa se vicino o lontano, perché è lontano se noi lo sentiamo lontano, è vicino se lo sentiamo vicino. Ci ha insegnato anche che prima dobbiamo vivere cristianamente nella nostra comunità, perché solo nella comunità possiamo trovare la comunione. Quest’esperienza ci ha fatto fare notevoli passi avanti verso la comunità cristiana di base che oggi crediamo di rappresentare. Abbiamo capito che la nostra comunità non poteva racchiudersi fra quattro mura, ma doveva agire, allargarsi esplicarsi sulla base, sulla popolazione della nostra parrocchia, sul nostro quartiere. Abbiamo capito che agire cristianamente nel nostro quartiere significava trasformare in problemi religiosi i problemi sociali; abbiamo capito il significato del cambiamento di Cristo: Ama il prossimo tuo come te stesso. Nel periodo antecedente la Pasqua 1973 abbiamo perciò organiz227


zato una terza tre giorni, che ci ha fatto capire che dovevamo andare ancora avanti nel nostro lavoro di gruppo di base, abbiamo così fatto un giornale. Quindi abbiamo fatto una breve analisi dei gruppi esistenti a Favara, che ci ha arricchito delle esperienze altri e ci ha fatto sentire il bisogno di contatti più concreti con altri gruppi. Si è così concluso il nostro terzo anno di attività. All’inizio di quest’anno, il 4°, abbiamo cercato innanzitutto in che modo potevamo esplicare la nostra religiosità così maturata, nel quartiere. Abbiamo fatto 2 giornali, coi quali abbiamo esposto le nostre riflessioni su problemi e cose, per stabilire un rapporto cristiano con la popolazione del nostro quartiere. Abbiamo organizzato, quindi, un’assemblea – dibattito popolare il 29 dicembre, da dove è scaturita la proposta e la base per costituire un collettivo di quartiere. Con tali iniziative abbiamo cercato di esplicare e concretizzare allo stesso tempo la nostra religiosità, perché religiosità non vuol dire passività, ma attività. La nostra religiosità ha la base e il fine nel comandamento di Cristo: Ama il prossimo tuo come te stesso. Abbiamo capito che perseguire questo comandamento significa lottare col prossimo per il prossimo, e se il prossimo non ha coscienza della propria dignità, del suo essere uomo, dei problemi che lo travagliano, il nostro compito è quello di fargliene prendere coscienza. La nostra è una continua ricerca di Dio, che troviamo tra gli emigrati, tra gli agricoltori, tra i poveri, tra coloro che soffrono per la giustizia e la Pace nel mondo. Abbiamo capito, nella nostra comunità, il vero significato delle parole di Cristo: “laddove due sono uniti nel mio nome, io sarò con loro”. Abbiamo capito che il cristianesimo è liberazione, e che la troviamo non estraniandosi dalla realtà, ma vivendo nella comunità. Però abbiamo cercato di vedere nella Messa non un rito, ma una comunità unita in Cristo, abbiamo cercato di renderla più viva, facendo e non assistendo alla Messa. La nostra religiosità, però si è espressa soprattutto attraverso i dubbi, le difficoltà incontrate nel nostro cammino che sono stati 228


superati attraverso la coscienza della nostra limitata forza e dall’immagine di Cristo sulla Croce. Infatti, ad esempio, nel nostro messaggio di Natale alla comunità parrocchiale, annunciando, per l’ennesima volta, l’assemblea fatta il 19 dicembre, tra l’altro abbiamo detto: “…Forse falliremo in questo nostro tentativo, però siamo coscienti di agire nello spirito di Cristo. La venuta di Cristo sulla terra come uomo – Dio si è conclusa con un fallimento sulla Croce, e da 2000 anni è ancora lì, continuamente offeso. Ciò ci conforta, perché s falliremo nel nostro tentativo non vorrà dire che abbiamo sbagliato”. Per concludere sulla religiosità del nostro gruppo, possiamo dire che non è una religiosità elaborata teoricamente, ma praticamente. Per cui se è vero che oggi ci rifiuteremo il tesseramento di Azione Cattolica o qualcosa che in passato abbiamo fatto, non vuol dire che li rinneghiamo. La nostra religiosità consiste in una continua presa di coscienza. Per quanto riguarda la religiosità del nostro ambiente, non ci dilungheremo, perché diremmo delle cose sapute e risapute. Schematicamente possiamo dire che riguardo alla religiosità del nostro quartiere, possiamo distinguere 4 categorie di persone: 1) Una piccola parte (5%circa) che è sulla nostra stessa linea. 2) Un’altra parte (15%) concepisce la religiosità nell’andare a Messa o farsi la comunione almeno una volta l’anno come S. Madre Chiesa prescrive, o battezzarsi, cresimarsi e sposarsi in Chiesa, ecc. 3) Una buona parte (25%) è irreligiosa, o meglio, concependo la religiosità come passività, come tradizionalmente, strumento di potere, pregiudizialmente la rifiutano e trattano coloro che si dicono religiosi (come è capitato spesso col nostro gruppo) con superiorità, o disprezzandoli o trattandoli con pietà, puerilmente, come si trattano gli scemi o i bambini. Sono più che altro anticlericali. Logicamente questa situazione religiosa del quartiere ha come conseguenza il sottosviluppo socio – culturale, il clientelismo, la corruzione, la mortificazione sia della carne che dello spirito. 4) Il resto (55%) si mostra indifferente.

229


230


Bibliografia consultata ❖ Fonti: – Bollettino Ecclesiastico Diocesano – L’Amico del Popolo – Scelta – La Via – L’Osservatore Romano – Dai margini – Settimana del clero ❖ Magistero: – I Documenti del Concilio Vaticano II – PAPA GIOVANNI XXIII Mater et magistra. – ID., Pacem in terris – Paolo VI, Octgesima adveniens. ❖ Testi di riferimento – Chiesa e società siciliana negli anni settanta, a cura di ARNONE A., Ed. Thule, Palermo 1982. – Partecipazione politica, Dehoniane, Napoli 1984. – Messaggio cristiano ed economia, Dehoniane, Bologna 1974. – ACERBI A., Due ecclesiologie: ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella “Lumen gentium”, Bologna 1975. – ANTÒN A., Ecclesiologia postconciliare: speranze, risultati e prospettive, in R. LATOURELLE, Vaticano II. Bilancio e prospettive. 25 anni dopo (1962-1987), Assisi 1987. – ARANGUREN J. L., Etica e politica, Morcelliana, Brescia 1966. – BOUYER L., La spiritualità del Nuovo Testamento e dei Padri, Bologna, 1974. – BOFF L., Quando la teologia ascolta il povero, Assisi, 1984. – ID., E a Igreja se fez povo. Eclesiogenese: a igreja que nasce da 231


fè do povo, Petròpolis 1986. – ID., Martirio: tentativo de una reflexao sistematica, in Concilium 183 (1983) 273-280. – ID., Vita oltre la morte, Assisi, 1974. – ID., Jesus Cristo Libertador, Petròpolis 1976. – BOURGY P., Thèologie et spiritualitè de l’Incarnation, Paris, 1960. – CONGAR Y., Esquisse d’une theologie de l’Actione Catholique, in Cahiers du clergè rural, 1958. – ID., Sacerdozio e laicato, Brescia, 1975. – ID., Un popolo messianico, Brescia 1976. – CAMPANINI G., Cittadini e partiti: quale partecipazione? La Scuola, Brescia 1980. – CALVEZ J.Y. - PERRIN J., Chiesa e società economica, in Aggiornamenti Sociali, Milano 1964. – CIPOLLA C., La partecipazione politica, Città Nuova, Roma 1978. – COZZOLI M., Etica teologale, Cinisello Balsamo,1991. – CHENU B., Teologie cristiane dei terzi mondi, in Giornale di Teologia, 181 (1988). – ID., La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo, Queriniana, Brescia 1971. – DIANICH S., La Chiesa mistero di comunione, Genova, 1990. – ID., Chiesa estroversa, Cinisello Balsamo 1987. – DIEZ J. – ALEGRIA, La lettura del magistero pontificio in materia sociale in Magistero e Morale, Dehoniane, Bologna 1971, 211255. – GUTIERREZ G., Teologia della liberazione, Brescia, 1981. – ID., La forza storica dei poveri, Brescia 1981. – GÈREST G., Nostalgia dell’unità della Chiesa e politica di soffocamento dei conflitti in Concilium, 11 (1975) 476. – GARAUDY R., Parola di uomo, Assisi 1975. – FIRPO L., Storia delle idee politiche, economiche e sociali, Utet, Torino 1971. – FRANZONI G., La terra è di Dio, Lettera Pastorale, Roma 1973. – HARING B., Liberi e fedeli in Cristo, voll. 3, Alba, 1982. – HÖFFNER J., La dottrina sociale cristiana, Edizione Paoline, 232


19874. – KASPER W., Introduzione alla fede, Brescia 1972. – LIBANIO J. B., La Teologia della liberazione nell’America latina, in Rassegna di Teologia, 5 (1998) 645-681. – LO IACONO G. Il marxismo ieri e oggi ,Napoli, 1978. – LORENZETTTI L., Etica sociale cristiana, in Corso di Morale (a cura di T. Goffi – G. Piana) IV, Queriniana, Brescia 1985, 9 – 82. – MEISTER A., Partecipazione sociale e cambiamento sociale, Ave, Roma 1971. – MOLARI C., Liberazione, in Nuovo Dizionario di Teologia, a cura di F. COMPAGNONI, G. PIANA, S. PRIVITERA, Cinisello Balsamo, 1990, 741. – MENCACCI P., Gli errori moderni confutati nel Sillabo, Roma, 1985. – METZ J.B., Sulla teologia del Mondo, Brescia, 1974. – MARX-ENGELS, Manifesto del partito comunista, in Opere complete ,VI, Roma, 1973. – MARITAIN J., Cristianesimo e democrazia. I diritti dell’uomo e la legge naturale, Comunità, Milano, 1953. – MASLOW A.H., Verso una psicologia dell’essere, Roma 1971. – MELCHIORRE V., La coscienza utopica, Vita e Pensiero, Milano 1971. – PAVAN P., La dottrina sociale cristiana, Roma 1965. – PELLEGRINO, Camminare insieme, Torino 1971. – PETRALIA G., I grandi temi del Concilio, Agrigento. – PIRONIO E., Teologia de la liberacion in Teologia, 8 (1970) 10. – SCANNONE J. C., La teologia della liberazione in Teologia dommatica, (a cura di Karl H NEUFELD,) Brescia 1983. ❖ Abbreviazioni e sigle – B.E.A. = Bollettino Ecclesiastico Agrigentino – A.d.P. = L’Amico del Popolo – L.c. = Lo stesso corpo

233


234


Indice

Prefazione di Francesco Michele Stabile .

.

.

.

.

pag.

3

Introduzione .

.

.

.

.

»

11

Un breve sguardo storico alla situazione italiana .

.

.

»

15

Il ‘vento’ del Concilio ad Agrigento

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

»

19

Una Chiesa più esigente verso la politica .

.

.

.

.

»

47

Fermenti ecclesiali .

.

.

.

.

»

61

I primi contrasti in ambito ecclesiale e il referendum sul divorzio . . . . . . . . . . . . . .

»

77

Il confronto politico nel biennio 1975-76 tra le pagine de L’Amico del Popolo . . . . . . . . . .

»

103

La comunione ecclesiale messa alla prova

.

.

.

.

»

115

A) Le elezioni amministrative del 1975

.

.

.

.

»

129

B) Gli avvenimenti ecclesiali del 1975 a giudizio di Scelta

»

133

La rottura tra il vescovo e i cattolici del dissenso .

.

.

»

139

A) Scelta e le elezioni politiche del 1975 .

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

»

147

B) La rottura tra i preti del dissenso e Petralia

.

.

.

»

151

La fase discendente del dissenso .

.

.

.

.

.

.

»

169

Petralia e i Cristiani per il socialismo .

.

.

.

.

.

»

175

Conclusione .

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

»

191

Documenti .

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

»

197

Bibliografia consultata .

.

.

.

.

.

.

.

.

.

»

231

235


Fotocomposizione e stampa

Via Unità d’Italia, 30 - AGRIGENTO Tel. 0922 602104 - 0922 602024 – Fax 0922 604111 Via Principe di Villafranca, 33 - PALERMO Tel. e Fax 091 6113173 E-Mail: industriagraficatsarcuto@tin.it FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI GENNAIO 2004


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.