GIOVANNI TAGLIALAVORO
Nato ad Agrigento, vive e lavora a Roma. Giornalista, autore radiotelevisivo Rai, attualmente è coordinatore degli autori del programma di Raidue 'Mattina in Famiglia'. Ha diretto per 11 anni Teleacras dal 1984 al giugno 1995. Ha scritto su numerose testate, dal Manifesto al Giornale di Sicilia, a L'Ora, al Corriere della Sera, a Suddovest e Fuorivista. Ha pubblicato 'Scolarizzazione e Sottosviluppo', 'Passagio a Sudovest' Ila Palma editore, 'Famiglie Parallele', Ila Palma editore. Per il Pasolini ha pubblicato il saggio 'Agrigento può cambiare'
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QUELL'IDEA DI SUDOVEST Agrigento e Teleacras tra la prima e la seconda repubblica
QUELL'IDEA DI SUDOVEST
GIOVANNI TAGLIALAVORO
www.centropasolini.it con il patrocinio ed il contributo della Regione Siciliana Assessorato Regionale Beni Culturali, Ambientali e Pubblica Istruzione. Dipartimento Beni Culturali ed Ambientali ed Educazione Permanente e dell’Architettura e dell’Arte Contemporanea
CENTRO CULTURALE EDITORIALE PIER PAOLO PASOLINI
GIOVANNI TAGLIALAVORO
QUELL'IDEA DI SUDOVEST Agrigento e Teleacras tra la prima e la seconda repubblica
CENTRO CULTURALE EDITORIALE PIER PAOLO PASOLINI
Giovanni Taglialavoro
QUELL'IDEA DI SUDOVEST Agrigento e Teleacras tra la prima e la seconda repubblica
CENTRO CULTURALE EDITORIALE PIER PAOLO PASOLINI AGRIGENTO www.centropasolini.it info@centropasolini.it - centropasolini@libero.it
con il patrocinio ed il contributo della Regione Siciliana -Assessorato Regionale Beni Culturali, Ambientali e Pubblica Istruzione. Dipartimento Beni Culturali ed Ambientali ed Educazione Permanente e dell’Architettura e dell’Arte Contemporanea Altri testi di: Luigi Galluzzo, Michele Guardì, Antonio Lubrano, Maurizio Masone, Carmelo Sardo e Pino Simonaro Foto di copertina di Tano Siracusa © Copyright: Centro Culturale Editoriale Pier Paolo Pasolini Taglialavoro, Giovanni <1948-> Quell idea di sudovest : Agrigento e Teleacras tra la prima e la seconda repubblica / Giovanni Taglialavoro. - Agrigento : Centro culturale editoriale Pier Paolo Pasolini, 2009. ISBN 88-85418-33-3 1. Agrigento - Storia - 1992-2007 - Cronache giornalistiche. 2. Teleacras 1992-2007. 945.8221092 CDD-21 SBN Pal0222834 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana "Alberto Bombace"
Ad Angelica che vorrĂ felici Francesco Maurizio e Lavinia
UNA GRANDE ESPERIENZA DEL SUD di Maurizio Masone
Leggendo questo libro, ripercorrerete anni di grande interesse sociale, politico, culturale. Erano gli anni di tangentopoli, di una nuova idea di municipalità, tempo di travolgimento della politica nata nel dopoguerra e della nascita dell’era berlusconiana, quella delle televisioni. Proprio in quegli anni si afferma una delle esperienze più interessanti di tutta l’isola: Teleacras. E’ proprio la redazione giornalistica di questa televisione, diretta da Giovanni, ad essere “unica” perché non nasceva nella “normalità” italiana ma nel mezzogiorno, che mezzogiorno. E’ sud, è Agrigento, piccola cittadina, sicuramente marginale economicamente ma che ha avuto sempre un ruolo centrale in Sicilia, talvolta snodo delle più interessanti decisioni, in altre riconosciuto laboratorio politico dove, prima che in ogni altra parte del Paese, si sperimentavano alleanze ed esperienze di governo. Inoltre, territorio dove s’intrecciavano grandi aggregati imprenditoriali, influenti, spesso protagonisti d’intrecci politico-affaristici. In ultimo, terra controllata dalla mafia. €È proprio in questa realtà che una parte dell’imprenditoria dell’epoca sceglie di cimentarsi e di finanziare le esperienze delle tv private. Spesso, interviene per costruire un terreno favorevole alle proprie iniziative o per condizionare la politica ammaliata dalla televisione, nuovo strumento di potere e di raccolta del consenso. In molte realtà però, queste esperienze diventano ben presto anche un’altra cosa. Per la prima volta le notizie e gli approfondimenti, i dibattiti, le interviste ai protagonisti della politica e della società di quel territorio entrano nelle
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case dei cittadini. Le redazioni diventano luoghi di elaborazione, punto di riferimento. Cresce nella società una nuova consapevolezza, la politica diventa prossima e si intravede una nuova coscienza civica, si consolida un diverso modo di contribuire a formare un’opinione pubblica. Così nasce il 1993 agrigentino e la grande occasione di cambiamento nella stragrande maggioranza dei comuni della provincia e quindi il ‘94 ed il ‘96 lì dove nasce una nuova speranza per il Paese. Giovanni Taglialavoro, in quegli anni, accompagna con i suoi collaboratori, gli agrigentini la politica la cultura di questa città e della provincia in un cammino d’innovazione e modernità. Oggi, l’informazione è stata “normalizzata” ed è ritornata, in molti casi, ad essere il megafono dei potenti in politica, in economia e dei loro sodali presenti nell’amministrazione pubblica, canale per costruire personaggi e per demolirne altri o come strumento, questo sì indispensabile, per sostenere vere e proprie campagne per nuove e spregiudicate iniziative imprenditoriali. Questa è oggi l’informazione locale, in particolare nel mezzogiorno. Forse, una grande occasione persa nella battaglia culturale per il rinnovamento e la modernizzazione del Paese e per consolidare la partecipazione attiva alla vita politica dei cittadini e di quell’idea di libera informazione in una democrazia diffusa. Infine, i temi affrontati in quegli anni da Giovanni sono ancora di assoluta attualità. Sono tutti all’ordine del giorno, sono ancora lì, dopo più di quindici anni da quelle riflessioni, da quegli stimoli, da quelle proposte. I drammi del lavoro, dell’emigrazione e dell’immigrazione, la mancanza dell’acqua (oggi aggravata dall’essere perfino la più cara d’Italia), la mafia, la valle dei templi e lo sviluppo turistico, la scuola, le infrastrutture e sono solo alcuni. Gli anni passano, i problemi restano e nelle classifiche
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nazionali per qualità della vita l’ultimo posto è ancora una volta nostro. Tutto questo porta a consigliare vivamente la lettura di questo libro ai giovani, perché a loro affidiamo la nostra speranza di una politica migliore, di un’impresa migliore e di una società migliore per soffocare definitivamente la mediocrità che ci sta uccidendo. Noi continuiamo il nostro impegno raccontando, attraverso testi e immagini, pezzi di storia di Agrigento e della nostra provincia come abbiamo fatto con Trent’anni di mafia nell’agrigentino, Tufo, Cosa muta, La chiesa agrigentina negli anni del Concilio, Mafia insoluta, Passaggio a Girgenti, Vivere Agrigento, Foto Arena o La città dei miracoli e tanto, tanto altro ancora. Ci auguriamo di poter continuare ancora a farlo, di potere ancora raccontare questa terra ed i suoi protagonisti.
UNA COLLABORAZIONE LUNGA 25 ANNI di Michele Guardì
Quando nel 1986 nacque la televisione del mattino assieme a Giorgio Calabrese, Piero Badaloni e Nino Criscenti fui chiamato a mettere in moto quella formidabile macchina che sarebbe diventata “Unomattina”. Era una bella avventura e tra le prime cose che ci sembrò giusto fare pensammo di mostrare ai telespettatori “l’Italia che si sveglia”, quella Italia operosa che quasi contemporaneamente al levarsi del sole alza ogni mattina la saracinesca sulla vita attiva. Pensammo ai pescatori che rientrano all’alba nei porti, pensammo ai fornai pronti a distribuire le ceste di pane caldo…e perché no…ai frati di un convento che avendo cantato le lodi dell’alba si mettono al lavoro nelle cucina o nei campi… Spinto come sempre dall’un po’ insensato piacere di stupire, proposi che ogni giorno…ogni giorno, dico, si andasse in un posto diverso, possibilmente passando dal sud al centro e poi al nord… Restare fermi una settimana o anche due soli giorni in uno stesso paese, in una stessa città, pensavo fosse troppo facile…persino banale. Mi diedero del pazzo. Chi potrà mai organizzare in un giorno un collegamento a Mazara del Vallo, l’indomani a Bisceglie e poi a Rho. Io dissi che avevo l’Uomo. “Vedremo” mi dissero. Vedemmo! E fu un successo. L’uomo era Giovanni Taglialavoro. Lo avevo conosciuto ad Agrigento ai tempi del cabaret “Il Punicipio”. Lui furioso e convinto contestatore di sinistra io convinto democristiano. Non “furioso” perché i democristiani non era-
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vamo “furiosi”. Eravamo “democristiani” e basta. Nel senso che bastava. E per quanto mi riguarda ero proprio convinto. E contento. Con Giovanni ci eravamo scontrati verbalmente non poche volte. Poi, negli anni ebbi modo di apprezzarne le qualità guardando Teleacras. Era bravo. Era proprio bravo. Ed il fatto che avessimo modi diversi di vedere le cose non mi faceva sottovalutare le sue qualità intellettive. Gino Cordaro, mio parente avvocato di Casteltermini, era solito dire che dovendo giudicare qualcuno non bisognava dire “E’ Comunista…E’ Democristiano:::E’ Fascista…”. Lui diceva…: “Intelligenti è…” oppure “Uuuuhhh… cretinu è…”. Le categorie massime per lui erano due: gli intelligenti e gli imbecilli. Naturalmente istigava a propendere per i primi. Una bella lezione. Quando un mio amico del Comitato Provinciale della DC seppe che avevo chiamato a Roma Giovanni Taglialavoro e quasi (anche se non avrebbe potuto) mi chiese delle spiegazioni io risposi “’Ntelligenti é…”. Ho avuto ragione. Il successo del primo anno di “Unomattina” si deve anche a Giovanni che quell’anno percorse tutta l’Italia in lungo ed in largo, scelse le location e scrisse i testi per i presentatori ai quali, giorno dopo giorno, veniva affidata la pagina, seguitissima, de “L’Italia che si sveglia”. Scovò casi interessanti e realtà sconosciute. Una miscela molto forte di fantasia, cultura, treni, aerei fatica da vero giornalista… Arrivò a fine giugno un po’ stanco. Aveva i figli piccoli. Con mio grande rammarico decise di tornare ad Agrigento. Ci lasciammo però col proposito di… Gli anni sono passati, i partiti pure. Le differenze ideologiche…si sono attenuate anche quelle. Rimase identica la stima e la voglia di lavorare insieme. E’ ormai più di un decennio che il sabato e la dome-
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nica, su Raidue, siamo tornati sul fronte della televisione del mattino. Giovanni ha smesso di fare il commesso viaggiatore dell’informazione. Dalla sua scrivania sempre piena di libri, di ritagli, di “cose colte” coordina il gruppo degli Autori di “Mattina in Famiglia”. Un altro successo. Certo, alcune cose continuiamo a vederle diversamente. Ma gli riconosco l’onestà del pensiero, una cultura non comune, una professionalità rara ed un attaccamento al lavoro da manuale. Per tutto ciò penso che continueremo a lavorare insieme ancora per tanto tempo. Ed è per tutto ciò che con piacere grande saluto il suo nuovo libro con queste righe introduttive. E’ un libro che raccoglie analisi acute in editoriali meditati e colti. Ci sono pennellate di amarezze, di nostalgie e di rammarico. Ma sono le coloriture indispensabili a certi momenti dell’intelligenza.
PREFAZIONE
I primi anni novanta furono abbastanza mossi anche ad Agrigento e li ho vissuti intensamente, raccontandoli e interpretandoli quotidianamente, dirigendo Teleacras. Nei giorni fangosi dell’arresto della dottoressa Graziella Fiorentini, un inviato di Repubblica mi chiese se ad Agrigento negli ultimi anni fosse nata e cresciuta un’azienda modello. Me lo chiedeva perché avrebbe voluto indicare anche il positivo della nostra città. Mi sono trovato in difficoltà, non mi veniva in mente nulla; poi un lampo e una tentazione e l’ho buttata lì: ho detto: sì, è cresciuta un’azienda modello, Teleacras. E l’ho detto con pudore, senza sfrontatezza, ma con assoluta convinzione. Un po’ di dati. Quando cominciai a dirigerla, nel 1984, Teleacras non aveva una lira di introiti pubblicitari e, formalmente, nessun impiegato, né tecnico, né giornalistico. I suoi programmi erano visti da pochissimi e spesso confusi con quelli della più radicata TVA e il suo segnale non andava oltre l’hinterland di Agrigento. Nel giro di pochi anni, e soprattutto dopo l’87, i suoi introiti pubblicitari sono andati aumentando con raddoppi annuali; sono stati messi in regola i primi tecnici coi contratti nazionali del settore, primo caso e forse unico in provincia, e formati i primi giornalisti professionisti espressione di una testata locale; i ragazzini che per curiosità e passione frequentavano gli studi e la redazione, armeggiando telecamere e centraline di montaggio, e sgangherate macchine da scrivere, sono diventati padri di famiglia, tecnici e giornalisti di primissimo livello. Il segnale di Teleacras si è espanso in pochi anni fino
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a coprire tutta la Sicilia Occidentale. La sua produzione giornalistica ha ricevuto tre premi nazionali, il Fava e il Millecanali (per due volte), di grandissimo prestigio e diversi provinciali e regionali, anche dall’Assostampa; oltre che i complimenti del Ros di Palermo per dei reportage sulla mafia. I suoi ascolti, secondo Auditel, superavano anche i 150.000 spettatori. Il suo corrispondente da Palermo, Giuseppe Crapanzano, è stato assunto in Rai ed è oggi un caporedattore e conduttore del Tg3 Sicilia; un suo giornalista, entrato ventenne, senza sapere cosa fosse una notizia, Luigi Galluzzo, si trasferisce a Milano e, nel giro di pochi mesi, presentando il curriculum professionale maturato a Teleacras, viene assunto da Italia Uno e oggi ne conduce l'edizione delle 18.30; un altro suo giornalista Carmelo Sardo, licenziato dall’editore di Teleacras, si propone in Rai e nel giro di pochi giorni viene assunto e inviato in varie città italiane a fare collegamenti in diretta, per poi approdare al TG5, dove conduce l'edizione della notte, Alfredo Conti e Francesco Taglialavoro lavorano in testate giornalistiche della Rai, il primo nella sede di Palermo dove conduce il tg, il secondo a RaiNews24 dove ha condotto anche il programma quotidiano 'Mosaico italiano'. Questi sono fatti. E ne dovrebbero risultare orgogliosi tutti gli Agrigentini non sviati dall’invidia. Non tutto è oro colato naturalmente nella nostra storia: nel passato le pressioni dei politici di governo e di opposizione, e intrecci di interessi non sempre limpidi, hanno determinato, a volte, un uso strumentale degli spazi di propaganda elettorale, ma mai abbiamo consentito che si intaccasse la libertà della redazione, anche in frangenti drammatici per i nostri editori, Giovanni Miccichè e Filippo Salamone furono arrestati in momenti diversi e per ragioni diverse in quegli anni, mai l’autonomia degli spazi giornalistici, i quali possono essere risultati, a giudizio di alcuni, qui e là con smagliature o errori, o sbilanciati in qualche parte, ma sempre per responsabilità della redazione e del direttore.
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E proprio questo ha dato molto fastidio ai vecchi potenti e ai loro portaborse e successori: dava scandalo la nostra autonomia, la nostra pretesa di essere un giornale, un centro di elaborazione autonomo, un luogo in cui tutte le articolazioni della società civile e politica potessero trovare libera espressione. E intervenivano sugli editori, ricorrendo a tutto pur di raggiungere il loro scopo. E quando le blandizie non funzionavano, avanti coi ricatti, le calunnie e le ingiurie. Un giovane deputato agrigentino, oggi ministro, mi confessò che in una certa fase della lotta politica locale sembrava, ad una delle parti, che ogni suo problema si potesse risolvere abbattendo i tralicci di Teleacras, riducendola al silenzio. Purtroppo c’è da dire che in qualche modo ci sono riusciti, e senza la necessità di abbattere alcun traliccio: è stato sufficiente eliminare qualche direttore, licenziare qualche giornalista, neutralizzare qualche tecnico particolarmente autonomo e pensante, per chiudere un ciclo ed aprirne un altro, molto più organico alla città che la esprime e agli orizzonti culturali dell’editore che adesso la controlla pienamente. Sono passati quattordici anni dalla fine della mia direzione di Teleacras. La nuova direzione ha messo in atto tutte le tecniche della ‘damnatio memoriae’. Non va ricordato in nessuna circostanza nemmeno il nome di chi ha diretto quella stagione. Opera del tutto vana: chi in qualche modo ci ha seguito in quegli anni, sia che ne apprezzasse il profilo politico-culturale o che lo condannasse, difficilmente dimenticherà il rilievo di quel decennio di Teleacras. Ma i ricordi qualche volta fanno brutti scherzi e allora può tornare utile dare seguito al libro ‘Passaggio a sudovest’ che ha documentato la prima parte del cammino, offrendo i materiali, i documenti di ciò che è stata l’informazione di Teleacras in una fase storica di paure, vergogne, sofferenze e grandi speranze, nella fase, cioè, di passag-
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gio dalla prima alla seconda repubblica. E i documenti di un giornale sono i suoi scritti e nient’altro. Il giornalista ha un vantaggio rispetto ad altre categorie: ciò che lui è coincide con ciò che scrive e il giudizio nei suoi confronti, in quanto giornalista, non può che fondarsi su ciò che ha scritto. Tale regola non vale per altre categorie per esempio per i medici o per i politici: essi possono scrivere quello che vogliono ma il giudizio su di loro sarà determinato dalle loro pratiche, di diagnosi e cura per i medici o di atti politico-amministrativi per i politici. Per i giornalisti i loro scritti coincidono con la loro pratica e su di essi deve fondarsi il giudizio. Ecco allora raccolti in volume tutti gli editoriali trasmessi da Teleacras dal mese di settembre del 1992 al 1 luglio del 1995, data delle mie dimissioni da direttore. Nella seconda parte ho raccolto i testi di una rubrica che ho continuato, dopo le dimissioni da direttore, a trasmettere settimanalmente nel VG di Teleacras ‘A Gerlando che nel duemila avrà vent’anni’ fino al maggio del 1996. Il passaggio dalla prima alla seconda parte segna un’evoluzione non solo linguistica, ma di contenuto e di tono la cui interpretazione lascio al lettore. G.T.
Ringraziamenti Vorrei qui ricordare e ringraziare i tecnici che ho avuto nei miei dieci anni di direzione e per tutti loro Pino Simonaro e Angelo Incorvaia, ieri ragazzi generosi e pieni di slanci, poi tecnici bravissimi la cui maestria professionale ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo di Teleacras, oggi uomini con la schiena dritta.
PARTE PRIMA Editoriali trasmessi da Teleacras dal 26 settembre 1992 al 1 luglio 1995
EVOCAZIONI AUTUNNALI: LOTTA ARMATA E GOVERNO IN ESILIO
C’è qualcosa di non detto e di inquietante in due recenti servizi giornalistici. Nel primo, un articolo pubblicato su Repubblica martedì scorso, Guido Neppi Modona, preoccupato delle polemiche tra gli uomini dello schieramento antimafia, invita all’unità i vari Pintacuda, Ayala, Orlando e Sorge, i quali debbono continuare, scrive Modona, “il loro ruolo fondamentale di punto di riferimento della resistenza al regime mafioso, di faro democratico e legale, anche perché, conclude Modona, va scoraggiata la tentazione dei disillusi verso la scorciatoia della lotta armata”. Nel secondo servizio, un’intervista sul Corriere della Sera, pubblicata due giorni dopo l’articolo di Modona, Orlando prospetta l’ipotesi di una sua fuoruscita dall’Italia per formare in esilio un governo di opposizione pronto a rilevare la guida del paese al crollo del regime attuale. Lotta armata Modona, governo in esilio Orlando. Le due cose separate possono risultare semplici boutade, messe una a fianco dell’altra diventano qualcosa di inquietante. Da tempo si parla di una nuova resistenza alla mafia, ma la si è sempre interpretata come resistenza civile dentro gli spazi democratici attuali, con iniziative pubbliche senza cospirazioni o peggio, lotta armata. A cosa alluda Modona allora potrebbe risultare chiaro se si collega a qualcosa che a lui risulta muoversi in Sicilia di cui la proposta del governo in esilio sarebbe solo la punta di icesberg. Insomma una specie di tentazione di autodifesa armata, di lotta clandestina armata? Non vogliamo neanche pensarla un’ipotesi del genere! Orlando e il suo movimento in Sicilia sono quanto di meglio la società civile abbia potuto esprimere in questi
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ultimi anni. Nessun rinnovamento serio, e non di facciata, è possibile in Sicilia senza o contro Orlando. Questo va detto soprattutto quando ancora ci si ostina a non riconoscerlo pubblicamente da parte di molti che lo osteggiano. Ma a sua volta Orlando dovrà capire che la sua visione di uno stato interamente corroso e occupato dalla mafia è una visione sbagliata e nullista, una semplificazione utile alla polemica, ma su cui difficilmente si può innestare una strategia politica che non finisca con l’alimentare giustificazioni ideologiche o al disimpegno o alle scorciatoie cui allude Modona. Ci sono spazi ampi di intervento attraverso le istituzioni contro Cosa Nostra e il malaffare. Lo dimostrano i parziali successi di questi ultimi mesi. Non si possono regalare al fronte nemico tutti quelli che non la pensano esattamente come Orlando. E’ necessario invece poter vedere la forza morale e politica della Rete impegnata a ricollocare tutti, forze politiche e individui, nella costruzione del nuovo, in cui non ci sia spazio per complicità e neanche per indifferenza nel confronti della mafia. Non è un venire a patti con l’esistente: è un operare nel reale per cambiarlo, e non per, soltanto, mostrarvisi indignati. 26 Settembre 1992
CADE IL VECCHIO NON C’E’ ANCORA IL NUOVO, NEL MEZZO LA CRISI, ANCHE DI IDEE La crisi economica del paese, la bancarotta incombente, le misure del governo Amato, con sensibili sacrifici per tutti, sono concomitanti e non cause della ormai proclamata fine di una stagione politica. Un modo di fare politica è finito col voto dello scorso aprile, con l’inchiesta ‘Mani pulite’ di Milano e con le sue grandi e piccole articolazioni lungo lo stivale. Forse tuttavia non è chiaro che se da un lato la crisi del regime apre spazi al nuovo dall’altro mette in crisi i meccanismi tradizionali con tempi più rapidi di quelli necessari a costruirne di nuovi. Detto in modo più semplice: nel sud la fine dell’assistenzialismo e del connesso clientelismo non ha dato subito il via ad un nuovo sistema produttivo, a nuove occasioni di crescita, a nuovi principi di solidarietà: cade il vecchio, non c’è ancora il nuovo e nel mezzo una crisi economica e finanziaria che comporterà sacrifici immediati e blocco di flussi finanziari a favore del sud. In termini ancora più semplici: la cronica disoccupazione meridionale si arricchirà di molti nuovi disoccupati. In provincia si fanno previsioni nere. Già molti cantieri sono stati chiusi e altri lo saranno nel prossimo futuro. E’, questo, un risultato dei troppi anni nei quali abbiamo basato tutte le nostre chances produttive sulle opere pubbliche per cui, al venire meno di esse, l’economia va subito in ginocchio. In questo quadro il successo leghista a Mantova è la conferma del fatto che ogni speranza di occupazione o di sviluppo attraverso drenaggi di risorse finanziarie verso il mezzogiorno è del tutto illusoria. La stessa DC propone in
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questi giorni l’abolizione dell’Agenzia per il sud. Bisogna cercare nuove vie all’occupazione, nuove vie al possibile sviluppo.E qui si misura la povertà del dibattito attuale sulle prospettive politiche locali. Un dibattito centrato sulle formule, su quali partiti si debbano mettere d’accordo per fare questo o quest’altro sindaco, senza una parola, senza un minimo sforzo di definizione dell’itinerario programmatico attraverso il quale riqualificare i poteri locali e dare prospettive e speranze alla gente del sud. Per fortuna i sindacati hanno preso l’iniziativa. Dopodomani gli Agrigentini in molti saranno in piazza. E’ augurabile che subito dopo i comizi si avvii un lavoro di ricerca, di elaborazione di una linea di riscatto del sud senza nulla cedere ai vecchi piagnistei meridionalistici, ma sapendo che nuove solidarietà potranno venire dal paese solo se per primi i sindacati chiuderanno col passato e invocheranno lotta agli sprechi, alle illegalità e la piena valorizzazione delle risorse umane e territoriali per un generale risanamento della società. 30 Settembre 1992
TORQUEMADA O DELLA SEDUZIONE DEL MALE
Giorni fa Strehler, investito da una accusa di illeciti amministrativi, aveva preannunciato le sue dimissioni da italiano. Oggi il giudice Signorino si è dimesso dalla vita dopo aver scritto un drammatico messaggio alla moglie nel quale si protesta innocente respingendo le accuse di un mafioso ‘pentito’. Un gesto, quello del giudice Signorino, terribile, che viene dopo altri tre suicidi di siciliani coinvolti, a vario titolo, da mafiosi sulla strada del pentimento. La cosa più stupida che si possa fare davanti a tali morti sarebbe interrogarsi se il suicidio sia segno di ammissione di colpevolezza o di protesta di innocenza. Stupida perché in uno stato di diritto va riaffermata con forza la presunzione di innocenza di tutti e in particolare di chi sta sul banco degli imputati soltanto perché un altro uomo sostiene l’accusa. Eppure questo principio, elementare e basilare, è calpestato quotidianamente da furori inquisitori o da irresponsabili meccanismi della comunicazione. Segreti istruttori stracciati, indizi ingigantiti da novelli Torquemada in cerca di notorietà o di conferma dei propri a priori ideologici e poi un generale clima da circo antico in cui il cittadino rischia di trasformarsi in spettatore in attesa eccitata di un Cesare che segni col pollice il destino del gladiatore di turno. E poi i meccanismi della stampa, dei media in generale: apparire su un giornale in una qualunque veste di sospettato equivale a ricevere una condanna senza appello! Cosa c’è dietro il suicidio di queste ultime persone? Tante cose a noi ignote e che resteranno oscure per sem-
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pre, ma anche una cosa chiara ed evidente: la sfiducia nella giustizia, la sfiducia nella possibilità di una verità che si affermi oltre e meglio di quella gridata dai giornali. Qui le nostre responsabilità sono grandi, le responsabilità di chi lavora nei media: non si deve mai scambiare la giusta esigenza di un forte impegno civile antimafia con la supponenza di chi ha in mano un potere di giudizio, di delegittimazione e lo usa senza scrupolo, alla ricerca di affermazioni professionali se non addirittura di più materiali riconoscimenti. Qualcuno diceva che il sospetto è l’anticamera della verità, noi dobbiamo invece dire cartesianamente che il dubbio è l’anticamera della verità e il dubbio può essere fecondo solo se investe innanzitutto le certezze di chi lo alimenta. 3 Dicembre 1992
TOTO’ ‘U CURTU’ IN MANETTE: LA MAFIA SI PUO’ BATTERE
Lo diceva Falcone: lo stato è immensamente più forte della mafia e può batterla. Lo stato sta finalmente lavorando bene: in pochi mesi ha assicurato alle patrie galere intoccabili, inafferrabili uomini di Cosa Nostra e oggi il numero uno Totò Riina,’u curtu’. Forse non sapremo mai la sequenza esatta e minuziosa che ha reso possibile l’operazione. Non lo sapremo mai perché c’è da garantire chi vi ha collaborato e perché forse non si può ancora alzare il velo delle coperture, delle inerzie istituzionali che per tutto questo tempo hanno facilitato l’impunità di Cosa Nostra e la latitanza dei suoi capi. In ogni modo Riina è in galera e se è vero che la ferocia di Cosa Nostra era da lui alimentata, possiamo tirare un respiro di sollievo. Tutto bene dunque? Tutto no, ma qualcosa sì e non va sottovalutato a favore di una metodica campagna di delegittimazione dello stato e di un dietrologismo esasperato e inconcludente. Un passo avanti molto importante che potrebbe determinare lo scompaginamento di Cosa Nostra almeno del suo vertice. Ciò non significa che la Sicilia è alla vigilia della sua liberazione dalla mafia: le radici sono ancora profonde nella sub-cultura locale e intrecciate ad alcuni interessi diffusi assai corposi. Lo Stato deve completare l’opera affiancando al rigore ritrovato sul piano militare ed investigativo un analogo rigore nella selezione dei suoi gruppi dirigenti locali che alla ripulsa della mafia facciano seguire modi amministrativi trasparenti e capaci di riavviare uno sviluppo economico all’altezza dei bisogni di lavoro e di futuro oggi inappagati. 15 Gennaio 1993
VERSO L’UNINOMINALE. IN SICILIA IL NUOVO SISTEMA HA UN CUORE ANTICO Dunque si volta pagina nel sistema politico italiano. La stragrande parte degli elettori ha detto sì al cambiamento del sistema elettorale verso un maggioritario uninominale. In parole semplici gli Italiani non vogliono più votare tra schieramenti partitici, ma tra uomini diversi, magari espressi anche dai partiti, ma la cui personalità faccia aggio sulle sigle e sulle ideologie. Il risultato referendario sembra l’esito di un processo che non è nato ieri ma che aveva segnato le sue tappe di avvicinamento nella crisi delle ideologie, negli scandali di Tangentopoli e nell’impotenza del sistema dei partiti ad autorigenerarsi. Più governabilità, più responsabilità di chi governa, più trasparenza, più contatto tra i rappresentanti e gli elettori. Adesso tocca al parlamento accogliere l’indicazione referendaria e dare al paese una nuova legge elettorale e in autunno nuove elezioni. In Sicilia abbiamo sperimentato gli aspetti degenerati di ciò che adesso gli Italiani hanno deciso: da noi i partiti erano per nulla ideologia e per tutto apparato; la personalizzazione della politica la conosciamo fin troppo attraverso forme di notabilato che hanno soffocato la libera espressione della società civile, e il rapporto diretto con il deputato era spesso una prolungata e pietosa sosta nelle segreterie per il favore da chiedere. Qui in Sicilia il proporzionale insomma era già superato, ma all’indietro. Adesso si tratta di vedere se in Sicilia con la nuova legge si darà veste formale ai vecchi vizi o se, al contrario, si cercherà un riallineamento con il vento del nord a cui potremo semmai dire dei rischi cui si va incontro quando la personalizzazione della politica supera una certa soglia. 19 Aprile 1993
CE NE RICORDEREMO DI FRANCO LA ROCCA
Agrigento deve molto a Franco La Rocca. La sua figura di organizzatore culturale si è stagliata con nettezza in un contesto in cui si parla molto, e a volte si sparla troppo, ma si conclude poco. Franco fin dai primi giorni di lavoro ad Agrigento al Centro servizi Culturali, misurava la pregnanza delle iniziative culturali con l’efficienza, la continuità e il rigore. Uno spirito manageriale che poteva sembrare, a chi riteneva che la cultura dovesse andare a braccetto col pressapochismo, freddo burocraticismo e che, in realtà, era lucida coscienza della necessità di sedimentare, di creare attorno ai fatti di cultura sponde e strutture che ne socializzassero i valori. E così il primo risultato del suo lavoro è la perla della nostra Biblioteca Comunale. Franco e i suoi collaboratori hanno dimostrato anche ai più scettici che non è un destino della nostra città la superficialità organizzativa, il tirare a campare, il binomio ‘pubblico uguale inefficienza’: al Viale della Vittoria ha creato una struttura bibliotecaria, ed attorno ad essa un sistema bibliotecario circoscrizionale, di un’efficienza scandinava: non sembrava nemmeno che facesse parte di quello stesso Municipio che a pochi metri di distanza non riusciva a dare i certificati se non dopo alcuni giorni o dopo il compiacente favore dell’amico degli amici. Poi, nel cuore di via, Atenea il Centro Culturale Pier Paolo Pasolini. Aveva creato, insieme a Gaziano le ‘Letture Agrigentine’ e poi il premio ‘Una Vita per la Letteratura’ che ha favorito l’incontro con la nostra città di grandi intellettuali
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chiamati proprio dalla giuria che in Franco ha avuto un equilibrato, colto segretario. In questi ultimi mesi un velo di amarezza aveva offuscato il suo spirito brillante ed ironico per sconsiderati attacchi generici e motivati solo da astio ed invidia che avevano spinto un giornale addirittura ad inventarsi avvisi di garanzia mai inviati. Ma anche in questa circostanza Franco non si è per niente dato per vinto e con coraggio è andato avanti organizzando altri incontri, altre iniziative culturali. Lâ&#x20AC;&#x2122;ultima in ordine di tempo la biblioteca di Fontanelle. Ce ne ricorderemo di Franco La Rocca. Aprile 1993
PROCURA CONTRO GIP: POLVERONI UTILI AI MALFATTORI
Non sentivamo proprio il bisogno di un fronte polemico in cui si contrapponessero i tifosi della Procura e quelli del Gip. La procura fa il suo lavoro e può sbagliare, e altrettanto può capitare al Gip e a qualunque altro giudice. Proprio per questo lo stato di diritto prevede diversi gradi di giudizio, così come chiarisce che la procura è una parte che si contrappone all’altra, quella dell’indagato. Se tutto ciò che fa la procura di per sé andasse bene, non si capirebbe per quale motivo si preveda l’ufficio del Gip e se tutto quanto fa il Gip andasse bene non si capirebbe perché esista il tribunale della libertà o il dibattimento. Sono considerazioni ovvie, sintesi di secoli di civiltà giuridica, base dello stato di diritto. Nessun furore giustizialista né opportunismi interessati possono cancellare i pesi e i contrappesi dell’edificio della giustizia. La procura della repubblica di Agrigento ha avviato molte indagini sulla pubblica amministrazione e i cittadini debbono esserne grati. Ma ciò non basta: le indagini bisogna spingerle con forme e contenuti tali da arrivare ad assicurare la condanna dei responsabili del malaffare. Le polemiche non aiutano e i polveroni, come ci ha insegnato il presidente Scalfaro, spesso rischiano di nascondere o creare alibi ai veri colpevoli. Il malaffare politico, amministrativo o mafioso, va combattuto sul piano giudiziario non sulla base di quello che la gente sa e non dice, ma di quello che bravi e motivati inquirenti riescono a mettere su con adeguati riscontri, prove e testimonianze capaci di reggere le contestazioni della difesa.
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Scorciatoie non ce ne sono, né è pensabile che basti avere amministrato in passato per meritare, per ciò stesso, la galera. Una giustizia all’ingrosso è il migliore alleato di chi vuole restare impunito per le malefatte del passato. E la gente certo un ruolo ce l’ha: può dare una mano ai magistrati collaborando con testimonianze e notizie, non anonime possibilmente, e soprattutto può e deve col voto mandare a casa i corrotti prima ancora delle sentenze dei tribunali. 28 Aprile 1993
VOTO PER I NUOVI SINDACI: E’ LA FINE DEL SISTEMA DELLE ‘AMICIZIE’ O SOLTANTO UN CAMBIO DEGLI AMICI? Domani sceglieremo i nostri sindaci. Abbiamo conosciuto i diversi candidati in questa lunga campagna elettorale, conosciamo le loro storie e i loro tratti umani, abbiamo un’idea degli schieramenti politico-culturali che li sostengono, abbiamo ascoltato i loro programmi. Un voto libero e cosciente per l’uomo che dovrà occupare la tolda di comando della navicella amministrativa dei nostri comuni. E tutto questo in una fase della nostra storia in cui i marosi non mancano, le tempeste si avvicinano e la nazione sembra spaccarsi. La nuova legge elettorale ci ha liberato di pratiche politiche ormai ripugnanti alla coscienza pubblica: sindaci di paglia, espressione di mediazioni faticose e spartitorie, sindaci il cui principale merito era la fedeltà ad un gruppo, ad una corrente o all’apparato di un partito: tutto questo è alle nostre spalle. Anche per gli assessori, vi ricordate il gioco perverso degli equilibri correntizi? E’ finito tutto. Vengono indicati adesso uomini e donne, certo non agnostici politicamente, ma i cui meriti principali non sono più la fedeltà e il galoppinaggio elettorale. Tutto bene dunque. Si può scrivere una pagina nuova delle nostra vita politica e amministrativa. C’è un risvolto negativo nel nuovo sistema: alla fine si deve scegliere tra due candidati, e qualche volta potrà capitare che non ci si identifichi completamente in nessuno dei due. Non solo, ma è inevitabile che la città si divida, si spacchi in due con contrapposizioni mai viste nel passato e che possono apparire laceranti. Il duello porta al clima dello stadio e negli stadi dominano gli ultras che
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pensano che solo vincendo la propria squadra il calcio abbia un senso. E invece il senso della democrazia sta nella capacità di un popolo di dividersi sui mezzi ma di riconoscersi e ricompattarsi sui fini. E i candidati sindaco sono per noi solo i mezzi per raggiungere i fini del benessere della comunità. Ed è per questo che abbiamo voluto salvaguardare il ruolo della nostra informazione neutralizzando le molte sollecitazioni, per così dire, ad occupare un gradino nella curva nord o nella curva sud. Il nostro videogiornale pretende di avere un solo vero punto di riferimento: la gente che ci ascolta e che ci stima. E per conto di essa vigileremo all’indomani del voto, quando alle promesse bisognerà far seguire i fatti, vigileremo sulle pratiche amministrative, su come risanare il centro storico, su come alleggerire il traffico, su come organizzare i parchi, su come sanare la piaga degli abusivi ventennali, su come organizzare i servizi e soprattutto dare lavoro e sicurezza ai cittadini, sul rispetto della legalità. Saremo vigili, infine, per capire se il sistema delle amicizie e dei favori è tramontato per sempre o se invece si punta a cambiarne il giro o ad allargarne la circonferenza. Giugno 1993
SODANO HA VINTO, HA IL DIRITTO DI GOVERNARE. IL POTERE DI FARLO, LO DEVE ANCORA CONQUISTARE Basta un solo voto in più per dare piena legittimità ad un sindaco. Il voto in più gli dà il potere formale di governare. Se poi i voti in più sono oltre quattrocento si può stare tranquilli. Il fatto è però che in una città come Agrigento, terribilmente affollata di problemi irrisolti, e in un’Italia minacciata da istanze separatiste e da un diffuso sentimento antimeridionale, il sindaco deve poter mostrare dietro di sé i bisogni veri e diffusi della gente, le inquietudini e le speranze dell’intera comunità perché solo così si potranno superare gli ostacoli interni ed esterni al cambiamento. Sodano è stato votato da un terzo della città, da un altro terzo è stato osteggiato e dal restante terzo non calcolato. Sul piano formale questo non conta niente, l’abbiamo detto; sul piano sostanziale crediamo debba essere l’oggetto della sua prima riflessione. Cosa fare per quelli che hanno voltato le spalle ai seggi elettorali? Che cosa fare per utilizzare l’entusiasmo e la volontà di pulizia che ci sono nel terzo che ha votato Arnone? Il sindaco di Agrigento o riesce a comunicare con tutti oppure si candida ad essere il capitano di un esercito assediato, il capomanipolo di un ridotto accerchiato che fuori di sé vede solo nemici e cospiratori. E invece c’è bisogno di portare aria nuova nel palazzo di San Domenico: le condizioni ci sono: il sindaco è stato eletto dalla gente e quindi non ha alcun obbligo se non quello programmatico, non deve dar conto di sé se non in consiglio comunale e le condizioni del suo successo elettorale, le confluenze più o meno richieste, non pos-
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sono distoglierlo dal dovere principale che è quello di rinnovare la città, di ricostruire una sua nuova credibilità, una nuova desiderabilità della politica dopo tanti anni di pratiche clientelari, dopo decenni di abbandono. Questa, la sfida per Sodano, qui si misurerà la sua personalità politica e il suo spessore programmatico. 22 Giugno 1993
LA LOTTA ALLA MAFIA AD UN ANNO DALLA MORTE DI BORSELLINO Un anno fa Cosa Nostra chiudeva i conti con Borsellino, così come due mesi prima li aveva chiusi con Falcone, l’uomo che aveva avviato il riscatto della Sicilia contro la mafia. Molti lessero quelle stragi come la sconfitta definitiva dello stato, altri invece come la disperazione, il rantolo di una belva ferita a morte. Il gesuita Bartolomeo Sorge disse che le stragi erano l’inizio del declino di Cosa nostra, come lo fu l’assassinio di Moro per le B.R. Orlando, al contrario, parlò di una strage politico-mafiosa. Una parte degli osservatori lesse il sacrificio di Falcone e Borsellino come reazione ad uno stato che incominciava a dare fastidio, un’altra come la prova di uno stato imbelle e colluso. Oggi ad un anno di distanza, che politicamente e culturalmente sembra un secolo, si può dire che padre Sorge avesse visto bene e che però era pure vero che in quello stesso stato che iniziava a fare sul serio si annidavano forze, individui, culture e inerzie organiche agli interessi di Cosa Nostra. Non è sembrato un caso che l’accelerazione delle iniziative vincenti dello stato contro la mafia sia venuta a coincidere con la fine di un regime politico o meglio con la fine del dominio di alcuni uomini e forze. I grandi latitanti sono stati acciuffati, uomini dei servizi incriminati, i pentiti che si moltiplicano, insomma una situazione di grandissimo movimento, iniziato dopo la strage di via D’Amelio e l’uscita di scena di Andreotti. C’è più di un motivo per essere ottimisti. In Sicilia lo sdegno contro la mafia è diventato quasi senso comune, i tradizionali riferimenti politici di Cosa Nostra sono in
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grande difficoltà, così come le coperture internazionali. Alla magistratura ancora una volta è delegata una parte fondamentale della lotta: e qui la lezione di Falcone e Borsellino non deve andare smarrita o tradita: lezione fatta di massimo rispetto della legge e intransigente opzione antimafia, di capacità di distinzione di ambiti criminali che soli competono alla magistratura e altri livelli di responsabilità che rinviano alla morale e alla politica. Tale insegnamento ha trovato, nella relazione finale su ‘Mafia e Politica’ elaborata dalla Commissione parlamentare antimafia del presidente Violante, una esplicita e illuminante applicazione. 19 Luglio 1993
CROTONE PARLA DI NOI. LA POLVERIERA DEL SUD E LA RICCA PADANIA Crotone parla di noi. Lo hanno capito un po’ tutti. Ieri il ‘Corriere della Sera’ addirittura legava agli sviluppi del caso Crotone la stessa possibilità di sopravvivenza dell’unità d’Italia. Crotone parla di noi: il sud è una polveriera dopo la fine dell’intervento straordinario, la crisi finanziaria dello Stato e la massiccia e chiassosa ideologia leghista. Il sud è in movimento: il vecchio si va sgretolando, il nuovo non emerge con la rapidità richiesta dalle emergenze sociali. In questo interregno saranno molte le tentazioni dei vecchi gruppi dirigenti, delegittimati dagli scandali e dalla bancarotta dello stato, di riproporsi con lo slogan ‘ si stava meglio quando si stava peggio’, col risultato di intorbidire le acque con avventuristiche proposte eversive antistatuali via via che diventeranno realtà i propositi del governo centrale di mettere ordine, di ripristinare legalità ed efficienza. I drammi dei disoccupati, le umiliazioni dei cassintegrati, la disperazione dei giovani inoccupati potranno costituire o la massa di manovra per invocare immunità e autoperpetuazione per chi ha governato fino adesso o il soggetto di un cambiamento possibile e necessario. Questo secondo sbocco è possibile a condizione che risultino chiare le seguenti valutazioni: a) lo scenario presente non è il risultato di catastrofi naturali o dell’azione dei vari Di Pietro, ma di un modello politico e sociale superato i cui responsabili sono quelli che ci hanno governato in questi ultimi decenni; b) non basta cambiare gli uomini politici, bisogna cambiare metodi e obiettivi politici e intervenire nella stessa
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struttura della società civile meridionale: le pensioni sociali di invalidità fasulle o le indennità per falsi braccianti disoccupati, non potranno più venire tollerate, le unità produttive fuori mercato non saranno più assistite, i finanziamenti per le grandi opere pubbliche saranno sempre più rari. Insomma accadrà per il sud qualcosa di simile a quanto avvenuto nei paesi dell’est dopo lo smantellamento del socialismo reale o, se si vuole, a quanto avvenuto in Italia quando, con l’unificazione nazionale, nel sud le fabbriche borboniche non furono più tutelate dal protezionismo e non reggendo alla concorrenza chiusero una dopo l’altra. Cosa resta da fare allora? Difficile dirlo: una cosa è certa: proprio per la drammaticità del momento non è più tollerabile l’allegra incoscienza con la quale si bloccano opere già finanziate e cantierabili che darebbero lavoro subito. Una boccata d’ossigeno, niente di più, utile a riflettere meglio e con meno affanno sulle nuove ricette del futuro, ma è delittuoso non sbloccarle. In secondo luogo una riflessione collettiva nei gruppi dirigenti su come definire le linee del nostro futuro sapendo che esso non potrà che fondarsi sulla messa in valore delle nostre risorse e che solo puntando su di esse potremo chiedere al resto d’Italia una mano. Solo mostrandoci consapevoli della necessità di cambiarci avremo credibilità in quella parte del paese che ha le risorse ma che non vuole darle per alimentare ancora una volta parassiti, ladri o peggio. Solo così potremo pretendere dalla ricca Padania l’esercizio di una sua rinnovata funzione nazionale oltre e contro le miserevoli tentazioni secessionistiche di Bossi e compagni. 14 Settembre 1993
RICORDARE ROSARIO LIVATINO UOMO FRAGILE, GIUDICE TENACE Ricordare Livatino. Non dimenticare una stagione dei nostri uffici giudiziari e investigativi i cui protagonisti furono giovani agrigentini preparati e coraggiosi: Livatino appunto, Saieva, Salamone, Cardinale, Nicastro che diedero vita ad una stagione di lotta alla mafia locale senza l’ausilio dei pentiti, ma con acume investigativo e una forte volontà di stanare quanti operavano sotto il vincolo dell’obbedienza a Cosa Nostra. Fu proprio Livatino a seguire per la Procura l’irruzione nella villa di Maddalusa dove si stava svolgendo il summit mafioso; furono Cardinale, Saieva e Salamone a seguire le tracce degli intrighi, degli affari e dei delitti dei partecipanti. Fu un collegio giudicante di magistrati locali a comminare condanne esemplari in gran parte confermate in tutti i gradi di giudizio. Prima di allora la mafia ad Agrigento ufficialmente non esisteva, di fatto regolava i gangli vitali della società, quelli economici e quelli politici. E la collaborazione di quel gruppo di magistrati con Falcone e Borsellino fu costante e riconosciuta da questi ultimi in più occasioni. Adesso le investigazioni antimafia non competono più alla procura di Agrigento, ma a quella distrettuale. Oggi quel gruppo è stato sfaldato con assassini e trasferimenti. Di quel gruppo era parte determinante Giuliano Guazzelli, ucciso forse dalle stesse mani che hanno eliminato Livatino. Ricordare Livatino, imitare Livatino, il suo rigoroso senso della legalità che non era formalismo vuoto ma consapevolezza che la norma è un deposito di eticità, che mai va trasgredita tutt’al più cambiata se la coscienza sociale non l’accetta più.
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Una tale idea di legalità non poteva che andare in collisione con un sentire comune e un operare diffuso in cui la legge è un ‘optional’ e ciò che conta sono le amicizie, la forza, l’appartenenza. Ma guai a pensare che tale vizio sia un tratto antropologico dei Siciliani: da questa terra sono venuti fuori grandi magistrati e insigni giuristi, uomini politici incorrotti e spiriti indomiti: Livatino è stato uno di loro: né eroe né santo, uomo fragile e giudice tenace, con una strana idea per la testa: la legge va rispettata. 21 Settembre 1993
A PALAZZO DEI GIGANTI VA IN SCENA LA LENTOCRAZIA. EFFETTI MEDIATICI? A Palazzo dei Giganti va in scena la lentocrazia. Un consiglio comunale alla moviola, prolisso e ora anche rissoso. Se si dovesse aggettivare il suo lavoro in termini aziendalistici si direbbe che la sua produttività è senz’altro bassissima. Per qualcuno la colpa è delle telecamere che riprendono le sedute. Questa spiegazione ci pare superficiale e offensiva per i consiglieri: offensiva perché non si può pensare che 40 uomini e donne maturi modulino i loro atteggiamenti e i loro discorsi in relazione al tubo catodico; superficiale perché non tiene conto del fatto che il fenomeno è generale e non riguarda solo Agrigento. A Racalmuto si è arrivati ad espellere il sindaco dall’aula consiliare, a Favara l’attività amministrativa risulta inceppata dalle bocciature continue delle delibere da parte del consiglio, a Catania il sindaco Bianco non riesce a fare granché. Non le telecamere dunque e neanche la legge elettorale siciliana che prevede due schede separate delineando una diarchia tendenziale tra sindaco e consiglio, ma piuttosto il nuovo ed inedito quadro di riferimento dei consiglieri che fino ad ieri si compattavano al richiamo del partito o dei capicorrente e che oggi si trovano senza bussola e con una libertà di movimento impensabile nel passato che alimenta un protagonismo che sarebbe sano se non fosse ispirato anche da un’illusoria aspettativa spartitoria e consociativa come nelle vecchie esperienze amministrative. Il tutto ad Agrigento poi si aggrava per una coda troppo lunga di veleni della campagna elettorale: sindaco ed opposizione dovranno prima o poi liberarsi del ruolo
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che hanno vissuto in campagna elettorale e cimentarsi con i gravi problemi della città e semmai separarsi o unirsi sul modo di risolverli: questo l’auspicio dei cittadini. Ieri nello stesso giorno del consiglio comunale un gruppo di ragazzini, donne e maturi padri di famiglia, a Monserrato, armati di scopa, zappe e rastrelli e tanta buona volontà, hanno iniziato a pulire il quartiere in attesa di una maggiore efficienza della macchina comunale. Non ci è sembrata una sfida al Comune, ci è sembrata l’espressione di una grande disponibilità della gente a collaborare, a fare, a migliorare la qualità della vita. I consiglieri pensino a quei cittadini, diano risposte ai loro problemi, discutendo quanto è necessario, molto o poco che sia, ma non un minuto di più. 6 Ottobre 93
I BUONI PROPOSITI DI SODANO. DICE AD ARNONE: “LAVORIAMO INSIEME PER RICOSTRUIRE AGRIGENTO” Il sindaco di Agrigento è volato alto nella lettura dei suoi appunti programmatici. Poteva furbescamente smorzare i giudizi, glissare sulle cose più spinose, navigare a vista e tirare a campare. Non l’ha fatto. E gliene va dato merito. Ha avuto parole nette e inequivocabili di rottura col passato amministrativo della città: bisogna tornare alla legalità, ha detto, anche nei gesti quotidiani. La città è stata violentata ed espropriata ai cittadini adesso va loro restituita. La corruzione e l’arroganza partitocratica hanno reso Agrigento invivibile, bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare in spirito di servizio verso la città. Smorziamo i toni della polemica, passiamo dalle polemiche alle proposte. Non sono ostaggio di nessuno e la mancanza di maggioranza precostituita è un bene a condizione che tutti abbandoniamo i recinti delle appartenenze e ci rimettiamo in discussione. Queste le parole di Sodano il quale dal chiuso della roccaforte assediata ha deciso di compiere una sortita a tutto campo per misurare le forze e le reali intenzioni degli altri. Un’operazione politica coraggiosa e necessaria. I cittadini si aspettano novità significative e risultati visibili e profondi. Davanti all’opera immane di ricostruzione di una città in ginocchio, in macerie, come diceva Sodano in campagna elettorale, appaiono nella loro miseria i giochini delle vendette, degli insulti, delle trappole e dei ricatti. Prima ancora di salvare o di lanciare la propria carriera politica occorre assumere gli interessi generali come imperativo morale e in ciò tutti dobbiamo cambiare rispetto
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a più recente passato. Chi invece si ostinerà a riproporsi uguale a sempre, sarà spazzato dai processi storici. Sodano questo sembra averlo capito e lo ha dichiarato in modo inequivocabile. Vedremo se sarà capace di realizzarlo oltre che a dirlo. Ma questo dipenderà anche da chi ha il compito di collaborarlo e di controllarlo. 14 Ottobre 1993
PARADOSSI A PALERMO: ORLANDO HA VINTO TROPPO QUALCOSA NON VA E’ paradossale che Orlando si debba difendere per le dimensioni del suo successo elettorale. Fino ad ora accadeva il contrario:ci si difendeva per le sconfitte o per le vittorie risicate. La valanga di voti del nuovo sindaco di Palermo fa capire meglio il perché nei giorni della presentazione delle candidature si stentasse a trovare qualcuno che si ponesse in alternativa ad Orlando: si percepiva evidentemente la natura sacrificale del gesto, che adesso, a giochi fatti, risulta ben più ampia del temuto. Qualcuno si chiede beffardo che fine abbia fatto il popolo dei corrotti e dei mafiosi che fino all’altro ieri condizionava il voto a Palermo, alludendo maliziosamente al fatto che forse si annida nel bottino di voti della Rete, quando è più logico pensare che quel popolo, inseguito dai magistrati e dalle forze dell’ordine, e ripudiato dalla coscienza collettiva, possa oggi conoscere lo smarrimento o l’opposizione elettorale. Dunque un voto chiaro di pulizia e rinnovamento, un voto chiaro di difesa della democrazia e dell’unità nazionale, un voto chiaro di ricostruzione di Palermo e della Sicilia. Adesso sarà più difficile negare le opportune solidarietà alla Sicilia da parte di quelle regioni opulente ed efficientistiche che facevano velo alle forti e inconfessabili tendenze egoistiche con la denuncia del malcostume democristiano del sud: non c’è più, non ci sono più i suoi uomini, si volta pagina, ci sono le condizioni di un nuovo patto nazionale. Tutto bene dunque? Quasi tutto. Intanto è innegabile che una quota del voto ad Orlando esprime il desiderio, tutto italiano, di andare in soccorso al vincitore: trasformi-
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smi dell’ultima ora, voglia di stare al coperto, incapacità di vivere l’opposizione. C’è anche questo. Ma ciò non oscura minimamente il nitore di una svolta storica, la chiarezza della chiusura di un’epoca. La lezione di Orlando vincitore a Palermo è la lezione di chi ha saputo mettere insieme il massimo di intransigenza morale col massimo di capacità rassicuratoria: i suoi toni elettorali, i suoi gesti si sono ispirati alla saggia scelta di chi sa che oggi il polo progressista è chiamato a governare: di qui la sua ossessiva e corretta sottolineatura della voglia di normalità di Palermo. Il voto ha premiato Orlando, il governo della città farà altrettanto? Qui la ricerca di normalità si verrà a scontrare con le anormali disfunzioni degli apparati e delle coscienze distorti da anni di mal governo e di comodi privilegi. Saprà la sua giunta destrutturare abitudini, incrostazioni, nicchie di illegalità piccole e grandi? Saprà elaborare un modello di governo locale che non si risolva nella pura e semplice distribuzione del denaro pubblico? Saprà mettere in valore le risorse del territorio? Risanare l’ambiente e tentare nuove occasioni di sviluppo produttivo? Una cosa è certa tuttavia che quando metterà mano a tali compiti una parte del voto plebiscitario ieri raccolto gli farà da freno. 22 Novembre 1993
SFONDA LA SINISTRA TRA I SINDACI. DAI MUNICIPI VERSO PALAZZO CHIGI La sinistra ha vinto le elezioni amministrative: gran parte dei nuovi sindaci sono espressione di un’alleanza di sinistra che si impone da Trieste a Caltagirone, da Genova a Sciacca, a Corleone. La sinistra si prepara a governare il paese e alle prossime elezioni politiche potrebbe conquistare la maggioranza dei seggi parlamentari. Lo sfondamento al nord della Lega non c’è stato, la tenuta della Dc, più o meno allineata a Ceppaloni, non c’è stata, il populismo missino si è affermato, ma non ha vinto. L’Italia del dopo tangentopoli ha espresso fiducia nella possibilità che siano i valori della sinistra democratica, libertaria e solidaristica, la base su cui ricostruire il senso dello stato e un nuovo itinerario di sviluppo. E’ la prima volta nella storia repubblicana che si avvista un’alternativa di governo simile a quelle conosciute in tutte le democrazie occidentali. Tale alternativa sarà praticata se i dirigenti dell’alleanza di sinistra sapranno ripetere, nei vari collegi nei quali è divisa l’Italia politica, la saggia apertura mentale per la scelta dei candidati che hanno sperimentato con successo nei comuni. Il sud cosa si può aspettare da un’Italia di sinistra? Innanzitutto c’è da dire che il fatto nuovo è che l’Italia potrà diventare di sinistra solo se dal sud verrà un voto in tale direzione e dunque la sua natura potrà sin dall’inizio essere influenzata dalle esigenze meridionali. Orlando ha detto bene quindici giorni fa: palazzo delle Aquile è l’anticamera di Palazzo Chigi e non nel senso che si accumuleranno le forze per chiedere di più a Roma, ma che, al contrario, si sperimenteranno culture, sensibilità, valori e procedure da proporre a Roma come modello per
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l’intero paese, rompendo il tradizionale rapporto piagnucoloso che i dirigenti meridionali hanno avuto coi governi centrali cui venivano chiesti finanziamenti, opere pubbliche e posti di lavoro in cambio di subalternità culturale e politica. Un nuovo ruolo nazionale dunque del ceto politico meridionale nel governo delle sinistre, ma ad una condizione: che i suoi nuovi sindaci, che i suoi nuovi dirigenti politici, che i prossimi candidati, diano prova non solo di essere più presentabili, più onesti dei predecessori che rispetto a loro abbiano programmi economici e sociali e un senso dello stato diversi, che siano capaci di dare lavoro, dignità e speranza di futuro con meccanismi nuovi rispetto al passato. Di ciò c’è un gran vuoto, ma di ciò c’è proprio bisogno. Altrimenti non solo alla fine i vecchi vizi e le aduse disonestà riemergeranno, ma si aprirà la strada definitiva e mortale della democrazia. 6 Dicembre 1993
IL GIUDICE FABIO SALAMONE LASCIA AGRIGENTO. VA ALLA PROCURA DI BRESCIA Ai primi dell’anno nuovo il giudice Fabio Salamone andrà in una procura calda, quella procura di Brescia alle prese, tra l’altro, del caso Curtò. Lo ha deciso il CSM accogliendo la richiesta avanzata dallo stesso Salamone nell’udienza avuta dopo che alcuni magistrati della procura di Agrigento e la Rete avevano sollevato ‘ragioni di opportunità’: ha un fratello imprenditore, si è detto, sottoposto ad un’indagine e le ‘carte possono soffrirne’. Il trasferimento per la verità era stato chiesto ben prima dell’indagine suddetta; poi si era profilata, anche su suggerimento di Caselli, una utilizzazione al Ministero di Grazia e Giustizia; adesso, senza altri indugi, la scelta della procura di Brescia. L’avere un fratello imprenditore non aveva impedito nel passato indagini rischiose, di grande impatto, non aveva spinto Falcone e Borsellino a mettere minimamente in discussione il legame fortissimo con quello che i giornali chiamavano, creando fastidio e imbarazzo allo stesso Salamone, il Falcone di Agrigento. Conoscevano ed apprezzavano la sua correttezza professionale, il coraggio e l’equilibrio per potere nutrire dubbi. Fino a pochi giorni prima di essere massacrato Borsellino aveva sollecitato Salamone a trasferirsi a Palermo alla distrettuale antimafia. E’ forse utile ricordare che la storia giudiziaria di Agrigento degli ultimi decenni trova un punto di svolta quando, procuratore Spallitta, Rosario Livatino, Salvatore Cardinale, Roberto Saieva e il giudice istruttore Fabio Salamone, appunto, scoprirono la mafia, la processarono facendola condannare con sentenza passata in giudicato.
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Non c’erano pentiti: c’era stata una capacità investigativa ed una ipotesi di lettura nuove del fenomeno mafioso. Il sociologo Diego Gambetta ha utilizzato a piene mani nel suo libro ‘La mafia siciliana’ l’analisi di Fabio Salamone definita dal Gambetta ‘di grande acume’. Alfredo Galasso, nella prefazione al libro di Arnone sulla mafia di Agrigento, elogia in modo incondizionato il lavoro dei magistrati agrigentini, più difficile, scrive Galasso, dei colleghi di Palermo. Quel gruppo di giovani magistrati non c’è più: Livatino è stato ucciso, Roberto Saieva costretto al trasferimento da minacce continue e da un clima ostile alimentato da alcuni settori di opinione pubblica. Adesso va via Salamone. Prima era stato ucciso pure Guazzelli che ebbe un ruolo immensamente prezioso quanto discreto e defilato. Resta Cardinale che dà prova di grande equilibrio e competenza presiedendo una sezione del Tribunale. Questa storia non va retoricamente amplificata, ma neanche dimenticata. Se, in poche parole, ci fosse permesso di riassumere il tratto distintivo della loro lezione, potremmo dire che quei magistrati concentravano la loro passione civile nell’assoluta scrupolosità nell’applicazione della legge, e pensavano di legittimarsi non col consenso sociale, che compete ai politici, ma con la correttezza delle procedure e della rigorosa interpretazione della legge. Quando Falcone ebbe la possibilità di utilizzare un sedicente pentito per chiudere i conti con Lima, che certamente come cittadino avrà valutato nella sua pericolosità, come magistrato lo difese. Non fu capito il suo gesto, anzi a causa di esso Falcone fu osteggiato da chi vedeva nella giustizia una forma più sbrigativa e accelerata del ricambio politico. Ma la mafia che sa pesare i suoi nemici ha massacrato Falcone. Oggi che finalmente la politica con le elezioni torna ad essere strumento di cambiamento, l’eredità di Falcone e dei magistrati agrigentini può essere ancora più chiara e feconda. 22 Dicembre 1993
MILANESI AI VERTICI DEL POTERE. MILANO E’ ITALIA O L’ITALIA E’ MILANO? Il nuovo presidente del senato è di Milano. La nuova presidente della Camera è di Milano. Il prossimo probabile presidente del Consiglio dei ministri è di Milano. Milanese è l’attuale vertice della RAI e milanese è l’attuale vertice della Fininvest. Milano è diventata oltre che la capitale economica anche la capitale politica e le trattative per il nuovo governo si svolgono tra Arcore e Pontida con qualche fugace salto a Predappio. Proporrei di modificare il titolo di un noto programma RAI ‘Milano, Italia’ in ‘Milano è Italia’, sperando che non si passi al meno rassicurante ‘Italia è Milano’. L’Italia ha conosciuto nei primi decenni della sua vita nazionale la piemontesizzazione, adesso conoscerà la lombardizzazione. Nulla di grave in sé, anzi ci sarebbe più di un motivo per rallegrarsene se tutto questo fosse il momento terminale e di sintesi di un ruolo nazionale ritrovato di Milano e delle regioni più sviluppate: significherebbe informare la politica nazionale di efficienza, modernità, libertà e benessere. Ma è davvero così? I milanesi porteranno nelle istituzioni e nel governo un’ipotesi nazionale o utilizzeranno le istituzioni e il governo per rafforzare Milano e le zone forti? Insomma sono state occupate trincee per la grande Padania o per dare più forza alla modernizzazione di tutta l’Italia? E i gruppi dirigenti meridionali del Polo delle Libertà saranno gli avamposti dell’efficienza in ‘partibus infidelium’ o al contrario gli ascari di salveminiana memoria che daranno il loro consenso ai milanesi per avere in cambio mano libera nei loro collegi e mantenere gli equilibri sociali esistenti?
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E’ difficile rispondere adesso a questi interrogativi, tutto è in frenetico movimento, tutto appare confuso e a volte ambiguo. Ieri Berlusconi è intervenuto sulle colonne del quotidiano ‘la Repubblica’ inneggiando ai valori della resistenza e facendo propria la festa del 25 aprile invocando una attualizzazione del vento del nord di memoria partigiana alludendo a un rinnovato impegno nazionale. Va creduto? Pensiamo di sì e il banco di prova sarà proprio l’attenzione che il suo governo avrà nei confronti del meridione. E’ qui che c’è più bisogno di praticare quei diritti di cittadinanza che l’antifascismo ha introdotto in Italia e che a quasi cinquant’anni di distanza in molte parti del sud restano una chimera quando non sui sviliscono in umilianti favori. 18 Aprile 1994
LA VALLE DEI TEMPLI ARRIVA AL MONDO VIA TV. ASPETTIAMO ORA CHE UN PO’ DI MONDO VENGA ALLA VALLE, PER QUALUNQUE VIA
Per il Papa lo scorso anno e adesso per la corsa ciclistica, Agrigento si è proposta in tutta la sua bellezza agli occhi televisivi del mondo. Agrigento: meglio la valle dei templi e gli agrigentini come organizzatori. La città moderna al contrario si conferma nella sua inguardabilità: con la collina deturpata negli anni sessanta e il territorio ai bordi della valle cresciuto senza un ordine, senza un criterio che non fosse la affannosa ricerca di un tetto, o di una proprietà da far fruttare. Ma la valle dei templi è ancora là nella sua inquietante bellezza, sfregiata solo, dentro il circuito delle sue mura da scheletri di ville innalzate prima del Gui-Mancini e fornite di regolari permessi. E più stupisce e affascina la valle dei templi, più siamo chiamati a giustificarci per il modo opposto con cui abbiamo edificato nel resto del territorio e per la difficoltà a fare di questa enorme risorsa il volano della nostra economia. Gli osservatori stentano a credere i numeri che inchiodano la nostra realtà agli ultimi posti dell'economia nazionale: e la cosa è comprensibile: come spiegare che i nostri giacimenti culturali non sono diventati lavoro, professionalità, sviluppo, senso estetico e cultura diffuse? Come spiegare che nel passato i gruppi dirigenti puntavano più all'accaparramento di flussi finanziari pubblici ,piuttosto che alla messa in valore delle nostre risorse? Eppure è successo proprio questo. E allora se una lezione dobbiamo trarre dallo spettacolo che i resti monumentali della città antica hanno offerto al mondo, la lezione ci pare quella di una svolta, ne-
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cessaria e ineludibile cui debbono concorrere tutti i cittadini, qualunque sia la collocazione politica e culturale: la svolta verso un religioso rispetto del territorio e dei suoi beni culturali, una svolta che sia capace di selezionare nuovi gruppi dirigenti nella politica, nelle professioni e nell'economia che sappiano vedere nella tutela della valle una grande risorsa e non un limite allo sviluppo e che puntino decisamente all'industria turistica in modo serio e rigoroso. Da ieri non ci sono piÚ alibi: l'immagine della valle è arrivata al mondo, adesso facciamo arrivare il mondo nella valle. Con la speranza che magari ci resti per qualche giorno. 29 Agosto 1994
SEMBRANO MANOVRE PER IL QUIRINALE. E INVECE SI VOTA PER PALAZZO DEI GIGANTI
Capannelli di consiglieri comunali tra piazza Gallo e piazza Municipio e aperitivi tra i vari leader hanno scandito la mattinata politica agrigentina alla ricerca degli accordi per il nuovo presidente del consiglio comunale. Il dopo Tirinnocchi è innanzitutto un ingorgo di voci e di candidature: Rametta forse non è disponibile, Galluzzo ha il marchio di Arnone, Pezzino è troppo erroriano, Camilleri è di destra e via blaterando. I boato comunque sembrano costanti nel ritenere che il presidente questa volta uscirà dall'arcipelago ex democristiano. C'è un che di insopportabile in quest'avvio di presidenziali: ed è da un lato la sproporzione tra la carica da ricoprire e la gravità dei passi che accompagnano il suo preludio, e dall'altro l'assenza quasi completa di una riflessione sui perché non ha funzionato quella di Tirinnocchi. In assenza di prospettive collettive visibili il gioco politico si alimenta di gare elettorali e di accaparramenti di cariche. Per fare cosa e perché, diventa un affare secondario, una fastidiosa incombenza da esibire solo per gli irriducibili sognatori. Eppure la vicenda Tirinnocchi è lì a mostrarci come i peccati originari vengono prima o poi al giudizio: e il peccato originario dell'elezione di Tirinnocchi ci è sembrato quello di averlo ridotto a pura espressione di una maggioranza consiliare e per di più di una maggioranza che si offriva al collateralismo col sindaco. Le risse consiliari, la sua scarsa produttività, l'inefficienza delle sue strutture di appoggio ,insomma la sua mancanza di autonomia reale dall'amministrazione attiva e la sua scarsa attivizzazione politica autonoma alla fine hanno avvitato il consiglio e de-
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terminato la caduta del suo presidente, caduta che nasce da un lato perchĂŠ diventato ormai troppo autonomo rispetto al nucleo politico che l'aveva espresso e troppo poco autonomo rispetto al nucleo politico che l'aveva avversato. Allora se ha un senso fare un nuovo presidente questo senso sta tutto nel non ripetere i peccati originari. Ma l'avvio delle trattative ci sembra poco incoraggiante: destra, centro, sinistra sembrano riproporre logiche di schieramento, vogliono mettere il loro marchio sulla carica istituzionale piuttosto che legare la nuova carica con una piĂš rigorosa definizione dei compiti e della ispirazione di fondo. 4 Novembre 1994
FARNETICAZIONI IN CONSIGLIO COMUNALE
Abbiamo sollevato con preoccupazione giorni fa la questione di un raffreddamento del clima politico nella città di Agrigento. Abbiamo scritto editoriali, abbiamo a questo tema dedicato diverse volte lo spazio degli approfondimenti. Una prima volta sono venuti Barbera, Di Bella e Nello Hamel, una seconda volta Rametta e Adragna. Abbiamo temuto che alla fine la corrida consiliare giovasse soltanto a chi non ha nulla da proporre alla città o vuole continuare pratiche inconfessabili. Quello di cui Agrigento ha bisogno è un piano di lavoro, un'idea di rinascita attorno a cui aggregare le persone di buona volontà. Ma bisogna riuscire ad isolare i seminatori di odio e di veleni. Ha fatto specie l'altra sera vedere un consigliere comunale, la cui statura politica sintetizza tragicamente il periodo nero che stiamo attraversando, lanciarsi con un discorso scritto e quindi non frutto di uno sfogo improvviso, in farneticanti insinuazioni nei confronti di persone, aziende ed emittenti, arrivando fino al punto spudorato di insinuare un qualche rapporto tra loro e attentati incendiari. I diretti interessati stanno rispondendo con le inevitabili querele. Qui a noi interessa sollevare una questione che giriamo a tutti i consiglieri di Agrigento: è così che volete superare gli odi? Nessuno può impedire a nessuno di esprimere le idee più bislacche, ma a nessuno è consentito di lanciare dal massimo consesso democratico della città accuse così gratuite, infami e farneticanti senza suscitare una generale e giusta reazione, una immediata presa di distanze. Abbiamo sentito Enzo Camilleri criticare la vecchia cul-
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tura del sospetto che secondo lui ha perso la cultura per restare solo sospetto odioso e distruttivo. Giusto, dottore Camilleri e perché non ha detto nulla per prendere le distanze rispetto ai vaneggiamenti del suo collega di gruppo? Come può essere credibile la sua moderazione se consente ai suoi consoci politici di insinuare che un'emittente, diretta da una persona che lei conosce bene, e una grande impresa o un consigliere possano essere mandanti o forse anche esecutori di attentati? Ci aspettiamo una precisazione, ci aspettiamo immediati e doverosi chiarimenti. Prima e oltre la politica c'è la dimensione etica di ognuno di noi. Su di essa non è consentito a nessuno di giocare e tanto più a chi si autodefinisce moderato. 17 Gennaio 1995
BARBARIE LESSICALI IN CONSIGLIO COMUNALE. ALTRO CHE STATO NASCENTE! SEMMAI PUTRESCENTE Il lessico della politica cittadina si è arricchito di nuove espressioni: dopo caso umano, manicomiale, mentitore sistematico, piromane ed altre simili gentilezze, adesso abbiamo quella del sindaco a piede libero. Ci sarebbe da restare stupefatti per la inesauribile capacità inventiva del ceto politico se questa creatività terminologica non si accompagnasse al nulla politico, al nulla amministrativo, all'imbarbarimento dei rapporti umani e civili. In molti ci siamo illusi di stare vivendo la leggiadra esperienza dello stato nascente: una fase cioè in cui si costruisce una nuova forma della comunità, fase che si accompagna a slanci, altruismi, diffuso senso di appartenenza ad una stessa identità, fase in cui le differenze, che pur permangono, sono vissute come differenze di mezzi per raggiungere il medesimo fine. Abbiamo creduto insomma che stesse per nascere la seconda repubblica. Legalità, onestà, efficienza, spiccato senso del bene comune, e un ceto di governo motivato e sensibile alla valorizzazione delle energie della società civile, un ceto di governo che non seguisse più la regola del governo a favore degli amici, ma che fosse amico del governo delle regole. Stentiamo per la verità a definire con tali caratteristiche l'attuale panorama politico. In campo nazionale c'è voluto un nuovo governo per consentire una tregua, qui a livello locale, non c'è neanche questo. Come invertire la rotta allora? Giovanni Barbera dà un'indicazione condivisibile: riportiamo al centro del confronto i temi di fondo della città, piano regolatore, centro storico, parco archeologico, oc-
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cupazione. Parole sagge. E' cosĂŹ difficile farci sapere, fare sapere ai cittadini, le proposte della amministrazione Sodano e del consiglio su tali questioni? Siamo in fiduciosa attesa. 31 Gennaio 1995
VOGLIA DI FESTA, FARINA E FORCA
Confessiamo di non averlo mai sospettato: pare che il popolo di Agrigento da qualche giorno non faccia altro che pensare a come assistere allo spettacolo di Robbi Robbertson. Avete sentito bene non Rocki, ma Robbi. Una rockstar americana col padre baro di professione e con la madre pellerossa che da un po' di tempo si è messo in testa di proporre, in versione riveduta e corretta, ritmi e musiche dei nativi d'America. Grande è la colpa del presidente della provincia Vivacqua il quale aveva pensato ad uno spettacolo di élite e invece contro le sue previsioni il concerto di Robertson è assurto ad evento mondiale che certo fa parlare di Agrigento sui principali quotidiani nazionali, certo farà vedere la valle dei templi nelle principali catene televisive del mondo, che però non potrà consentire al popolo o comunque ad un numero superiore ai mille che il palacongressi può ospitare, di godere lo spettacolo. Colpa imperdonabile: di qui la proposta del sindaco Sodano e dei capigruppo consiliari del polo della libertà della Provincia Regionale di trasferire o allo stadio o in piazza seminario o chissà dove l'evento. C'è un mix insopportabile di ipocrisia, invidia e irresponsabilità in tali atteggiamenti. Si fa finta di non capire il senso dell'evento musicale. Vivacqua ha sempre detto: c'è la festa popolare tradizionale con i gruppi folcloristici e gli spettacoli all'aperto e questo è rimasto; poi, ha aggiunto il presidente, bisogna pensare a qualcosa d'altro che arricchisca e differenzi la proposta spettacolare: è venuto fuori Robertson e subito è stato baciato dal successo: di quella sagra che ormai nessun organo di stampa par-
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lava piÚ da decenni ora si sono interessati i principali media, e gli agrigentini non invidiosi, non nostalgici della triade borbonica "festa farina e forca", sanno che non è importante che tutti 60.000 abitanti possano andare a vedere lo spettacolo, ma che dallo spettacolo possano trarre benefici tutti i 60.000 abitanti attraverso le ricadute pubblicitarie e turistiche ne potranno ricavare. Lo sanno perchÊ negli anni passati sono stati tanti, troppi gli spettacoli che l'assessore o il sindaco o il presidente di turno hanno loro ammannito e certo la loro situazione non si può dire che sia migliorata. Adesso allentiamo la tensione sulla sagra, ognuno faccia il suo dovere. Alla fine potremo discutere con calma delle cose che non sono andate per il giusto verso, compreso se è necessario, il criterio di vendita o di distribuzione dei biglietti del concerto di Robertson. 8 Febbraio 1995
SAGRA ‘95. ORMAI E’ PROVATO: AGRIGENTO SCENARIO ELETTIVO DI GRANDI EVENTI E' la stessa cosa la zagara e l'arancia? Evidentemente no, eppure il profumo del fiore e lo sbiancarsi dei suoi petali rendono possibile il frutto. La sagra e la musica etnica sono la stessa cosa? Evidentemente no, eppure se qui ha trovato sede la prima mondiale del concerto degli indiani d'America, se Robertson col consenso dei capitribù indiani ha accettato di venire ad Agrigento, qualche ragione ci sarà. E le ragioni sono almeno due: la prima è il fascino ammaliante della zona archeologica, la seconda l'attenzione e il rispetto che ad Agrigento per quaranta anni abbiamo avuto per le tradizioni folkloriche. E la zagara folklorica ormai dava segni evidenti di appassimento, il suo processo di marcescenza sembrava inarrestabile fino a quando non è venuta fuori l'idea della musica e della danza etnica. Bella l'arancia, che ne è maturata. Non c'è che dire. E il successo di questa operazione non è di Vivacqua, ma delle potenzialità spesso compresse se non addirittura insidiate del nostro territorio e delle nostre intelligenze. Vivacqua ha avuto il merito, che non è di poco, di averci creduto e scommesso. Rischiando. Allora il sugo della storia ci sembra il seguente: abbiamo due risorse, una grandissima e l'altra notevole, la prima è il parco archeologico la seconda è la tradizione folklorica. Tali risorse si possono e si debbono tradurre in lavoro, progresso, cultura. La condizione è che si avvii un risanamento del territorio a misura della bellezza del parco, che si avvii una valorizzazione delle intelligenze e delle professionalità vere, non tutelate dalle amicizie politiche e clientelari.
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Ai tanti giornalisti che restano a bocca aperta per la bellezza della Valle e per la bruttezza del territorio circostante non dobbiamo replicare sdegnati di guardare meglio: dobbiamo dire che ce ne siamo resi conto anche noi e che abbiamo avviato il risanamento. Solo cosÏ Agrigento può proporsi come scenario, come sede eletta, di grandi eventi culturali e spettacolari coerenti con il suo territorio e con le sue migliori tradizioni. Fino adesso abbiamo pregato e pagato per fare scegliere Agrigento, come sede di grandi eventi, se imbocchiamo la strada sopra indicata saremmo corteggiati e pagati per dare ospitalità . 13 Febbraio 1995
PIU’ TEMPO SCOLASTICO NELLA GIORNATA PIU’ TEMPO SCOLASTICO NELLA VITA L'utopia che fu di Rossana Rossanda riemerge oggi attraverso il nuovo ministro alla pubblica istruzione Lombardi, imprenditore e caposcout. Avete letto la sua intervista sulla scuola pubblicata da Repubblica il 30 gennaio scorso? La via d'uscita per il nostro sistema formativo, afferma Lombardi, è l'intreccio tra studio e lavoro (metà studio e metà lavoro, nessuno studente a tempo pieno, nessuno operaio a tempo pieno, nella sloganistica rossandea). E' l'ennesimo caso di rivoluzione passiva, o forse, più realisticamente, il frutto dell'acume di un imprenditore che peraltro da anni si occupa, per la Confindustria, di sistemi formativi e istruzione pubblica, bozza di variante interna alla borghesia che punta a ridisegnare l'offerta laddove Berlusconi pensava di arricchire le chance della domanda attraverso i bonus senza nulla dire attorno ai sistemi formativi e istruttivi pubblici. Il nuovo ministro azzarda un progetto di riforma non affidato a piccoli e furbeschi aggiustamenti. C'è più radicalità nei propositi del ministro che nelle idee emerse durante il mese di occupazione delle scuole. Il ministro sembra scorgere la foresta, gli studenti guardavano all'albero più vicino . Sollecitati da tanta autorevolezza, si può azzardare il recupero, ma solo per la zona franca circoscritta dalle pagine di questa rivista, di alcune categorie interpretative del tutto inattuali. Si diceva una volta che la scuola era il luogo privilegiato cui la società delegava i compiti della alfabetizzazione e socializzazione delle nuove generazioni (scuola dell'obbligo) e della riproduzione delle gerarchie e della
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divisione sociale del lavoro (istruzione superiore e università). Gli insegnanti avevano un compito importante: erano il veicolo attivo dei processi di socializzazione, le vestali della classe media, erano lo strumento di selezione dei nuovi gruppi dirigenti. La scuola era anche altre cose, ma osservata dal punto di vista di chi avvistava il punto di vista della classe operaia appariva soprattutto in quel modo. Oggi è del tutto chiaro che i processi di socializzazione dei ragazzi avvengono anche attraverso altre agenzie, in primis televisioni e computer per i ceti medi e alti, o continuano a concentrarsi nelle famiglie o nei quartieri per i ceti bassi per i quali sono risultati inefficaci gli sforzi di arricchimento decondizionante messi in atto nella scuola pubblica. D'altra parte con un esercito di diplomati e laureati disoccupati, specie nel sud, risulta evidente come la delega sociale a favore di gerarchie e divisioni del lavoro affidata alla scuola non venga più rispettata. I dati discriminanti tra le nuove leve non sono più i titoli o i voti ma la capacità di rapporti anche delle famiglie di appartenenza, disponibilità soggettiva e finanziaria all'autoaggiornamento, vicinanza ai luoghi della produzione e del potere e quant'altro comunque indifferente ai contenuti e alle sanzioni scolastiche. Tutto ciò nel sud appare evidentissimo. La scuola superiore e l'università hanno perso, ammesso che qualche volta l'abbiano avuto, ogni qualunque rapporto di funzionalità con la domanda sociale, con la produzione e i servizi espressi nel territorio in cui operano. Il rapporto tra nuove generazioni e gerarchie sociali è ritornato ad essere quello delle società liberali di inizio secolo con la differenza che allora una scuola di élite formava e selezionava i migliori rampolli delle classi dominanti mentre oggi sono chiamati ad orecchiare e ad annusare suoni e profumi dell'istruzione pubblica tutti senza che a nessuno di loro sia garantito il futuro in relazione al merito. Di qui l'insensatezza della scuola: dequalifica i figli della gente perbene, non qualifica i figli della gente per-
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male, non dà conoscenze tecniche spendibili nel mercato del lavoro, non dà una preparazione 'inutile' e astratta capace almeno di formare Giovannino se non di informarlo. La scuola, i meriti, i titoli come veicolo di mobilità sociale non incantano più nessuno. E mentre al nord o nelle regioni produttive il nulla della scuola si confronta con agenzie formative private qualificate e aziende che riservano alla ricerca e alla qualificazione spazi e risorse autonome, nel sud la stessa scuola resta l'unica fonte di sapere, l'unica agenzia formativa, l'unica speranza, scartata quella criminale-affaristica, di mobilità sociale. Al nord un diverso rapporto tra la scuola e il mondo del lavoro potrebbe avviarsi lungo il binario della rifunzionalizzazione dell'istruzione alle esigenze del mercato di modo che in esso pervenga un 'semilavorato' polivalente che troverà nelle aziende una allocazione coerente, propulsiva di redditi e di professionalità. Prospettiva invisa non solo agli studenti che hanno occupato,ma anche ad una parte della stessa borghesia che vorrebbe non impegnarsi in una riforma complicata e costosa della pubblica istruzione: meglio salvaguardare a parole la separatezza e la sacralità della istruzione pubblica, ma correndo ai ripari con scuole private superspecializzate, super attrezzate con le quali avviare diretti rapporti di funzionalizzazione. Anche da sinistra non si guarda con benevolenza a quella prospettiva:la scuola non può schiacciarsi sul mercato, non può abdicare al suo ruolo formativo e dunque al necessario distacco critico verso l'empiria. Comunque lo si veda il rapporto tra scuola e società nelle zone sviluppate del paese, restano tuttavia allo studente punti di riferimento: una scuola pubblica che funziona, un tessuto produttivo che assorbe e richiede ruoli qualificati, luoghi di ricerca e di formazione paralleli e alternativi a quelli pubblici. Ma nel sud come si traduce tutto questo? Due nulla si confrontano e si alimentano reciprocamente: il nulla dell'istruzione pubblica e il nulla del tes-
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suto produttivo. Il valore di scambio dello studio è quasi scomparso e il suo valore d'uso è reso sempre più problematico da programmi obsoleti e da docenti demotivati e impauriti davanti alle novità dei saperi e alla moltiplicazione delle agenzie in-formative. Al nord è un pieno di strutture e funzionalità che riceve scacco dalla società, nel sud arriviamo allo scacco ben prima del pieno, per cui la necessità di una ridefinizione di finalità educative e formative può alimentarsi contemporaneamente degli effetti combinati della modernità e della arretratezza e ,con l'aiuto della ragione astuta, dettare modelli e prassi validi per tutto il paese. Da dove cominciare? Ripensare le forme di alfabetizzazione e i modelli educativi partendo dalla constatazione che una quota significativa di utenza si sottrae e fisicamente ( tassi di abbandono elevati) e culturalmente alle mete educative ed informative fissate. Più tempo scolastico nella giornata, più tempo scolastico nella vita. Rientri pomeridiani extracurriculari alle elementari e medie, elevamento dell'obbligo a 18 anni, corsi per adulti nelle strutture scolastiche superiori attivando processi di alfabetizzazione permanenti. Gli ultimi tre anni, prima della maturità, intrecciarli a esperienze di lavoro socialmente utile, pagato, legando i contenuti di studio alle peculiarità del territorio per come si deve ridefinire e risanare. Fare delle scuole superiori luoghi privilegiati di aggregazione sociale, animazione e produzione culturale. Dare ai docenti una delega alta e affascinante i cui risultati si misureranno con parametri immediatamente sovrapponibili alla bonifica sociale ed etica, e ad un'ipotesi di sviluppo che porti con sé il progresso. Astratto volontarismo! Forse, ma per meno non vale la pena parlare di scuola, e il meno comunque non si tramuta in fecondo realismo. Suddovest 9 Febbraio 1995
IL BLOCCO DEI CANTIERI: C’E’ IN GIOCO ANCHE IL CONTROLLO POLITICO DELLE AZIENDE Il settore delle costruzioni è in ginocchio. Molte aziende sono fallite, tutte hanno licenziato, la disoccupazione ha toccato cifre record. La nostra provincia è particolarmente colpita, essendo stata nel passato troppo dipendente dalle opere pubbliche, avendo perso quel peso politico che nel passato tra tanto male valeva comunque ad assicurare flussi di finanziamento cospicui. Ma così come siamo non si può continuare. Bisogna pensare a diversificare i settori produttivi, è positivo che anche i sindacati delle costruzioni parlino di turismo, bisogna sbloccare i cantieri finanziati e passati al vaglio della legittimità. Su questo punto si gioca gran parte della credibilità dei nuovi amministratori. Nei comuni per lo più abbiamo volti nuovi, ma si sono innescate logiche nuove? Per esempio: c'è ancora la voglia di condizionare politicamente gli appalti? Da alcuni segnali sembrerebbe proprio di sì: non si sfruttano finanziamenti, non si avviano cantieri soltanto perché non ci si può intestare la paternità dell'affidamento, o perché è l'avversario politico a sollecitarlo. Cioè ancora una volta l'economia resta sotto tutela della politica. Ma ai disoccupati, alle imprese e a tutto l'indotto non interesse per niente sapere che quel cantiere è stato aperto per questo o quell'uomo politico, interessa avere un lavoro e contribuire a realizzare un'opera utile. E l’amministratore che vuole realmente rompere con i sistemi del passato dovrebbe controllare la correttezza e il rispetto delle norme e delle procedure, senza guardare all'identità della ditta, se è amica o no, se si è raccomandata o no, se ha chiesto il favore o ha preteso il rispetto dei diritti. 16 Marzo 1995
L’UOMO UCCIDE CIO’ CHE AMA, SODANO AMA AGRIGENTO...
Oggi il quotidiano La Sicilia pubblica una notizia che ci riguarda. Nulla da dire sul giornale e sul giornalista, che e' Castaldo, salvo il fatto che si è inventato di sana pianta una dichiarazione attribuita a Teleacras mai pronunciata: secondo Castaldo, Teleacras avrebbe detto "Il sindaco invece di operare concretamente attacca la nostra emittente" cosa per l'appunto inventata totalmente: infatti abbiamo detto, ed è registrato e a disposizione di tutti, "il sindaco piuttosto che difendersi dall'accusa di essere stato inadempiente sul piano particolareggiato del centro storico, come si legge nel decreto di nomina del commissario, non ha trovato di meglio che attaccare Teleacras". Insomma totalmente un'altra cosa rispetto a quello che ci viene attribuito. Ma veniamo a Sodano. Il sindaco sostiene cose del tutto comiche se non fossero pronunciate dal primo cittadino di un capoluogo ricco di storia e di cultura. Definisce faziosa la nostra emittente e ciò dopo un servizio in cui davamo notizia del commissariamento del comune per il piano particolareggiato del centro storico. E precisa che la nostra faziosità e' degli ultimi sette mesi. Ha la memoria corta Sodano. Dimentica quando ci ha definito nel corso di un comizio dopo la sua elezione venduti insieme al Corriere della sera, La Stampa e Primarete. Poi ci ha chiesto scusa. Dimentica che ad un certo punto della sua vicenda amministrativa ha deciso di non inviare più i comunicati stampa perché non gli piaceva il modo con cui Teleacras dava le notizie. Anche su questo poi ha fatto marcia indietro. D'altra parte dimentica tutte le volte che è venuto a Teleacras, molto più che Arnone e altri esponenti politici cittadini,
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dimentica i ringraziamenti che ci ha fatto quando, unico giornale, non abbiamo dato la notizia che lo riguardava sul ‘Blu garden’ in modo scorretto tanto che ha annunciato querele per tutti tranne che per noi. Dimentica quando, commosso, ci ha chiamato per ringraziarci dopo il servizio sul trasferimento del campo nomadi. Dimentica molte cose. Ma tiene fermo un unico principio che ispirava anche suoi poco illustri predecessori: Teleacras e la stampa o serve ad incensare me o è venduta al nemico. Si tranquillizzi noi ci ostiniamo ad essere liberi e pluralisti. Lo testimoniano gli infiniti attestati di stima che abbiamo raccolto in questi anni e il prestigio dei nostri collaboratori primo tra i quali il vescovo di Agrigento. Lo testimoniano la prontezza e l’entusiasmo che prende tutte le persone quando sanno di poter partecipare ad una trasmissione nostra. Questo il sindaco lo sa, ma è così forgiato dalla logica amico-nemico e così ossessionato dalla presenza di Arnone, da vedere la sua ombra in tutto quello che non gli piace. Ma veniamo alla notizia sul centro storico. E' l'assessore Matteo Graziano, popolare filobuttiglioniano, a scrivere che il sindaco è inadempiente. Non lo scrive Teleacras né Arnone. E correttamente Sardo nel dare la notizia riporta i passi del decreto dell'assessore regionale in cui si sostiene l'inadempienza del sindaco. Poi c'è il commento di Arnone rispetto al quale non possiamo dire nulla, ma soltanto riportarne correttamente e sinteticamente il significato. Sardo ha cercato il sindaco più volte quel giorno ma la segretaria ha detto che si trovava a Marsiglia. Questi i fatti. La Bocchino li conosceva e ha fatto un comunicato che non le fa onore nel quale sostanzialmente riconosce la nostra, dice lei, professionalità, ma ci iscrive d'ufficio in una curva di tifosi, in quella di Arnone. No, cara professoressa. Lei certamente fa parte di una
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curva, quella di Sodano. Noi pretendiamo, fino a quanto facciamo giornalismo, di non farci mettere in nessuna curva, ma di stare nella gradinata centrale e da lì osservare i fatti e valutarli, senza seguire né padroni né padrini, ma solo la nostra coscienza e il nostro scrupolo che naturalmente possono anche sbagliare, ma che sono pronti a rimediare sempre. Un'ultima cosa rispetto ad un passaggio delle dichiarazioni di Sodano che vorremmo riportate male dal giornalista. E' scritto: per Sodano una tv di parte e proprio perché tale, non può partecipare alle gare del comune. E' un'affermazione aberrante. E lo diciamo non per difendere nostri interessi, ma per un una questione di principio: non risulta che tra i documenti da esibire per partecipare alle aste pubbliche ci sia anche il certificato di buona e fedele condotta politica. E' un messaggio sinistro vagamente, e speriamo inconsapevolmente, concussorio. Insomma se non mi sei amico non ti do il lavoro. La stessa logica che ha portato la lottizzazione Valchiara a trascinarsi per due anni prima di essere approvata. La stessa logica che ha guidato i fasti della prima repubblica. Speriamo che non dica queste sciocchezze al Garante: ne verrebbe inficiata ancora una volta l'immagine di una città, Agrigento, con un sindaco disinvolto e disinformato, con un sindaco che non riesce a capire la differenza tra fatti e opinioni, tra dissensi politici e imparzialità dell'amministrazione. Diceva uno scrittore inglese : L'uomo uccide le cose che ama. Il sindaco dice di amare Agrigento. Dio ce ne guardi. 23 Marzo 1995
LE IRONIE DI UNO SPAZZINO! NON C’E’ PIU’ RELIGIONE
Può il rancore ispirare la pratica amministrativa di un comune? Può la ritorsione diventare il mezzo di risoluzione dei contrasti? Noi pensiamo e desideriamo di no. Noi continuiamo a credere che la divisione del mondo in amici e nemici sia funesta in generale, e nel nostro piccolo caso, ridicola. Abbiamo appreso la notizia del trasferimento del signor Coniglio con amarezza sconfortata ma non rassegnata, con disappunto indignato, ma non iroso, con un po' di vergogna malcelata. La vergogna rispetto agli insegnamenti cui pensiamo di ispirarci e che in questo caso hanno trovato un umiliante scacco: il coraggio civico, la forza dei propri convincimenti, il diritto come deposito etico vincolante per tutti. Un netturbino da prova di dignità e di coraggio denunciando pubblicamente quello che con tutta evidenza era il risultato di una disattenzione, di una sciatteria amministrativa. Niente di grave o di drammatico: può capitare che nei tanti fatti della giornata amministrativa qualcuno non riesca ad opera d'arte. Se ne prende nota, si ringrazia chi l'ha segnalato e si provvede. Macchè, nulla di tutto questo: chi segnala, complotta; chi protesta lede la maestà. Di qui la smisurata forza della muscolosa amministrazione contro l'umile signor Coniglio. Ma cosa si era messo in testa? Non lo sa che i diritti non esistono che tutt'al più' può ricevere il favore di un'attenzione? Non lo sa che la protesta va riservata ai deputati e ai sindaci e che il cittadino può soltanto avanzare, col cappello in mano, suppliche? Povero signor Coniglio,
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ha preso sul serio le garanzie costituzionali! Ma come si permette? Non c'è piÚ religione. 19 Aprile 1995
BENVENUTO AD AGRIGENTO PRESIDENTE SCALFARO
Benvenuto ad Agrigento signor Presidente. E' la prima volta che riceviamo la più alta personalità della Repubblica senza che vi sia un morto da onorare o una solidarietà da ricevere, ma per vivere insieme un evento lieto, per condividere la gioia di una realizzazione positiva. Siamo onorati di accoglierLa perché in quest'ultimo anno abbiamo visto in Lei la garanzia degli equilibri democratici del nostro paese, il saldo punto di riferimento cui guardare nei troppi momenti politici vissuti con furia, strepiti, aggressioni. Nei momenti più tesi, quando l'assedio alle articolazioni fondamentali dello stato repubblicano si faceva più asfissiante, la Sua ferma, serena compostezza, la saldezza dei Suoi riferimenti costituzionali ci hanno guidato come un faro la nave nel mare in tempesta. E se oggi sembra profilarsi una nuova disponibilità al confronto e al costruttivo dialogo, il merito è soprattutto Suo, perché ha anticipato e interpretato ciò che il voto popolare ha sancito inequivocabilmente: gli Italiani non vogliono la contrapposizione, la politica come dialettica amico-nemico, la vittoria elettorale come occupazione del potere. Agrigento è il sud dell'ovest, il luogo in cui i lustrini dell'occidente mostrano strappi e opacità: la mafia, la corruzione, l'ascarismo rendono assai ardua la lotta per il riscatto economico e sociale. Agrigento è terra di grandissime risorse culturali: molti suoi uomini occupano in Europa posti di responsabilità nelle professioni, nell'economia, nei campi più disparati. In questi ultimi anni sono emersi nuovi amministratori locali fortemente motivati, nutriti di spirito di legalità e di voglia di fare.
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E tuttavia i numeri dicono che la nostra è l'ultima provincia di Italia per reddito e la prima per tasso di disoccupazione. Sappiamo che dovremo essere noi senza piagnucolose richieste di elemosina ad avviare un processo di riscatto. Sappiamo che il sud assistito, corrotto e insanguinato c'è stato anche per nostra responsabilità, ma abbiamo pure capito che il nostro impegno di voltare pagina rischia di vanificarsi se attorno ai nostri obiettivi non si mobilita l'intero paese: la questione meridionale è questione nazionale. E' nazionale la difesa dell'ordine pubblico contro le mafie, ma è anche nazionale l'impegno a far decollare la nostra economia. Qui sono ancora negati diritti di cittadinanza elementari: mancano edifici scolastici, strade, acqua, ospedali, biblioteche ecc., e laddove le strutture sono state realizzate non vengono utilizzate a pieno; qui c'è da avviare un risanamento del territorio e dei centri storici, c'è da capire meglio su quali settori ridefinire le capacità imprenditoriali che ci sono o quelle ancora da scoprire, ma tutto ciò richiede finanziamenti, regole, procedure e sistemi organizzativi che soltanto un impegno solidale dello Stato può mettere insieme. Signor Presidente potrà il sud diventare la nuova frontiera della nazione? Potrà il suo riscatto misurare il grado di civiltà e la coesione della nuova repubblica che si vuole costruire? Stiano certi gli Italiani delle zone forti del paese che oggi gli aiuti e gli impegni a favore del sud non andrebbero ad ingrassare i corrotti o a finanziare la mafia, ma al contrario un loro disimpegno renderebbe vano e velleitario il gigantesco sforzo di liberazione dalla mafia e dal clientelismo che si è avviato di recente. Signor Presidente non ci faccia restare soli, aiuti chi vuole cambiare. 28 Aprile 1995
IL PROGETTO PRODI DISEGNA UN NUOVO PATTO SOCIALE. IL SUD NE E’ FUORI Il progetto Prodi può definirsi come la proiezione politica di un nuovo patto sociale. Imprenditori e finanzieri più o meno illuminati, ceti medi professionali, classe operaia e intellettualità diffusa puntano a dare nuova stabilità all'Italia attraverso anche una difesa dinamica dei principi costituzionali. Dall'altra parte un altro blocco un'altra ipotesi di patto sociale che vede il grosso del deposito sociale del pentapartito, nuovi imprenditori emergenti, ceti medi aggressivi, parte delle nuove marginalità urbane, conservatori negli equilibri sociali dati e innovatori fino all'eversione nelle proiezioni politico-istituzionali. Il sud può entrare nell'uno o nell'altro blocco a secondo dei gusti o delle opzioni ideologiche, ma con un ruolo subalterno e comunque senza una attesa forte di riscatto, avendo qui i soggetti che li compongono una scarsa rappresentanza. Ecco allora la necessità di un nuovo patto anche nazionale che si affianchi e qualifichi quello sociale, se si vuole un consenso pieno e non effimero al sud. L'asse di un tale patto non dovrebbe incardinarsi su una generica richiesta di attenzione al povero e derelitto sud, ma su un'ipotesi di appoggio ai nuovi amministratori meridionali che stanno con fatica, e non proporzionale operatività, scommettendo sul ripristino della legalità e su una nuova e diffusa coscienza civica. Tale appoggio non può non girare attorno ad una nuova stagione di investimenti al sud per dare pratica piena ai diritti di cittadinanza negati e al risanamento ambientale e dei centri urbani, precondizioni ad uno sviluppo autocentrato. Solo in tale ottica il nuovo patto sociale includerebbe
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come comprimario il sud, negli altri casi rischieremmo di relegarci a tifosi dell'uno o dell'altro schieramento, ad ascari come si diceva una volta, e in quanto tali in fiduciosi e lacrimevoli degustatori dei resti delle cene altrui, pagati peraltro con riversaggi a comando di messe di voti. 12 Maggio 1995
LE RUSPE NELLA VALLE DEI TEMPLI. DEMOLITE LE VILLETTE PANTALENA
Per oltre trent’anni hanno simboleggiato nelle pagine dei giornali o negli schermi televisivi l'assalto alla valle dei templi. E ogni volta che pigri cronisti o interessati manipolatori della verità si occupavano dell'abusivismo nella Valle ripubblicavano gli scheletri delle tre ville Pantalena con sullo sfondo il tempio di Giunone. Eppure quelle tre ville mancate erano regolari, avevano avuto tutte le autorizzazioni. Attorno a questi scheletri di cemento si sono giocate due mistificazioni: la prima quando li si presentava come esempio di abusivismo creando nell'opinione pubblica una molla inevitabile di condanna generalizzata, la seconda quando li si denunciava come effetto della relatività della legge, inducendo a sospetti verso gli organi di tutela. In realtà possiamo considerare queste costruzioni come il simbolo di ciò che poteva succedere regolarmente se non fossero stati apposti i vincoli di inedificabilità assoluta nella zona archeologica. Avremmo avuto i templi circondati da ville, fabbriche e quant'altro la fervida fantasia di allora auspicava. Ma nel 1968 è arrivato il decreto Gui Mancini, che dichiarava la valle dei templi zona A e dunque di inedificabilità assoluta. Prima invece si poteva costruire con i nulla osta delle diverse soprintendenze, quella archeologica e quella ai monumenti, la prima aveva sede ad Agrigento con allora a capo Pietro Griffo, la seconda con sede a Palermo. La demolizione dunque delle ville Pantalena non sanziona un reato ma è il risultato di una scelta di risanamento ambientale favorito da un indennizzo al legittimo proprie-
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tario. Le tre ville mancate furono costruite nel 1962 ed avevano avuto un iter travagliato. Pantalena aveva chiesto di costruire le ville in altro luogo, a nord del quartiere ellenistico romano ma non aveva avuto il permesso. Poi ci ritentò. Cambiò il sito e questa volta ebbe i permessi. Le polemiche furono immediate. Furono compiuti dei saggi di scavo con esito negativo, si dice, e Griffo diede il suo nulla osta. Dal punto di vista paesaggistico e monumentale furono dati da Palermo i permessi e dunque si diede il via ai lavori. Dopo venne la frana nel 1966.E con la frana lo scandalo urbanistico della città e quelle ville assursero insieme ai ‘tolli’ della collina a simbolo del cattivo gusto e dell'aggressione al territorio. Le ville furono bloccate. Si avviò un'estenuante trattativa tra la Regione e il legittimo proprietario. Sono passati nel frattempo trent’anni. Lunedì la demolizione. Un passo verso il risanamento della valle dei templi. Chissà se il carattere sacrificale ed espiatorio della loro demolizione favorirà un clima più disteso, un maggiore equilibrio e una voglia di superamento delle infinite questioni legate alla valle dei templi o se al contrario metterà tutto a tacere per altri trent’anni. 13 Maggio 1995
LA MORTE DI SALVATORE SCIANGULA
Lo aveva detto Nicolosi in un'intervista pubblicata sul Corriere della Sera pochi mesi fa: sui politici siciliani, che hanno governato alla fine degli anni ottanta, si sta abbattendo una sorta di nemesi biologica, dopo quella politicogiudiziaria. Alcuni del gruppo sono morti, altri sono insidiati da malattie senza scampo. Non sappiamo se pensava anche a Sciangula. Oggi, a poche ore dalla morte, va ricordato che Sciangula di quella stagione è stato uno dei principali interpreti. Con l'assessorato ai lavori pubblici, ma anche con le tessiture politiche provinciali e regionali, vero ed unico suo vanto con un occhio forse al modello di Giglia. Sciangula ha espresso il massimo dell'efficacia amministrativa possibile dentro le logiche del consociativismo e dell'economia assistita. Logiche che portavano a misurare le capacità di governo coi numeri dei finanziamenti ottenuti e dell'opere pubbliche appaltate. Chiese restaurate, vescovi riconoscenti, strade, acquedotti, strutture pubbliche di ogni tipo furono finanziate e avviate, portando a compimento l'idea che al sud mancassero soprattutto strutture per il necessario decollo. Poi ci siamo accorti che mancavano anche le capacità di gestione delle strutture, ma questo e' un altro discorso. Sciangula è stato forse il migliore assessore ai lavori pubblici della Regione certamente per la nostra provincia. A lui si devono le opere di sfruttamento delle acque degli invasi Leone e Castello e del collegamento tra il Fanaco e il Leone. A lui si devono i minidissalatori di Porto Empedocle. E se fino ad pochi giorni fa ad Agrigento arrivavano oltre duecento litri di acqua al secondo il merito era sol-
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tanto suo. E la rabbia dell'assessore esplodeva ogni qual volta al municipio non si riusciva a dare ai cittadini un buon servizio idrico: fu lui a volere il commissario Scialabba, il quale dimostrò facilmente come efficienza e controlli potessero portare l'acqua tutti i giorni nelle case degli Agrigentini. Del tessitore politico è il caso di ricordare la sua idea invano suggerita a Mannino di nuovi rapporti con la sinistra. Appoggio' il governo Campione, nonostante nascesse in esplicita contrapposizione ai precedenti ed era pronto ad un governo Capodicasa. Intuì che una fase era finita, ma si illudeva che col gioco delle alleanze si potesse rimediare all'esaurimento di un sistema, che si sarebbe manifestato compiutamente nei mesi successivi. Difficile adesso dire cosa resterà della sua esperienza politica: al di là delle opere da lui avviate resterà il ricordo di un uomo molto attento ai rapporti personali, sensibile e capace di emozioni fanciullesche, sempre disponibile a ricucire e a donarsi. Una volta disse che era molto contento di avere fatto incontrare Trincanato e Mannino che non si parlavano da tempo: lo appagava il risultato umano non le geometrie politiche che si potevano disegnare. Questo il personaggio e chissà come sul suo cuore, inutilmente protetto da alcuni interventi chirurgici, abbiano giocato le amarezze dello spodestamento vissuto e sofferto da lui come perdita delle amicizie e dei rapporti, prima ancora che del potere e degli onori. 1 Giugno 1995
DOPO DODICI ANNI LASCIO TELEACRAS
Un nuovo incarico istituzionale alla provincia regionale di Agrigento rende incompatibile, alla mia coscienza se non alle leggi, la mia permanenza alla direzione dei servizi giornalistici di Teleacras e per questo mi sono dimesso. Sono passati dodici anni da quando per Telacras ho condotto la prima non stop elettorale. Era l'estate del 1983. Subito dopo ideai e produssi un documentario sulla guerra e sull'emergenza, con lo sbarco degli americani. La cosa piacque e gli editori vollero che rimanessi a fare dell'altro. ‘Dritto e Rovescio’ fu il titolo del talk show cui diedi vita, affrontando di volta in volta i principali temi della nostra vita collettiva. Poi la direzione del videogiornale e quindi della televisione nel suo complesso. Sono stati anni di straordinaria creatività: abbiamo costruito ‘in corpore vili’, un linguaggio televisivo locale, abbiamo dato visibilità alle articolazioni civili, politiche e culturali del nostro territorio, ci siamo misurati con le diverse forme della produzione televisiva. Teleacras nel giro di pochi anni è diventata la prima emittente della provincia, con un ascolto medio quotidiano quasi doppio rispetto alla seconda. Siamo riusciti a compiere un piccolo miracolo: fare crescere professionalità in una città in cui si è tirato a campare all'ombra di interessate protezioni, in un contesto in cui più che i meriti aprivano le porte le amicizie e le clientele. Il risultato: a Teleacras si sono formati i primi giornalisti professionisti della storia delle testate agrigentine e un gruppo di tecnici all'avanguardia nel settore televisivo locale. Posso dire, senza paura di scadere nella retorica, che i nostri tecnici
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e i nostri giornalisti potrebbero ben figurare in qualunque altra emittente di respiro nazionale. Merito di ciò va riconosciuto anche ai miei editori, Giovanni Miccichè e Filippo Salamone che con lungimiranza, negli anni passati, hanno affidato alla professionalità compiti e incarichi che altrove erano appannaggio del padroncino arrogante e presuntuoso e all'autonomia giornalistica la elaborazione della linea editoriale. Una folla di ricordi mi preme in questo momento per guadagnare la dignità della citazione: vorrei soltanto esplicitare il senso profondo che ha ispirato il nostro lavoro: raccontare i fatti, non giudicare, ma testimoniare il nostro tempo, non imporsi come protagonisti, ma come osservatori. Una ispirazione classicamente liberale ma che qui ha avuto una particolare carica eversiva dovendosi misurare con i clan, le logiche amicali o di lobby che non solo non accettano l'autonomia della pratica giornalistica, ma neanche riescono a pensarla possibile, ipotizzando l'operatore dell'informazione come un soldato di un esercito guidato da interessi ben altri dal rispetto della verità o di quella che, di volta in volta, la nostra coscienza ci fa apparire tale. Lascio la direzione con una punta di orgoglio: mi sento sicuro che nell'immediato a nessuno sarà consentito di vanificare o disperdere il patrimonio di intelligenze e di professionalità che qui si è accumulato. Carmelo Sardo, che andrà a dirigere l'informazione, svilupperà ulteriormente quei principi che lo hanno accompagnato nella crescita professionale; e l'editore, che curerà le altre produzioni e la pianificazione delle risorse, penso si aggancerà a quanto di meglio la storia della sua emittente ha prodotto in questo decennio. Ai telespettatori che mi hanno fatto segno di affetto e di stima, ma anche di critiche, rivolgo un grazie di cuore e un appello: la qualità dell'informazione e della comunicazione sociale è un bene preziosissimo che non va lasciato solo nelle mani degli addetti ai lavori, ma control-
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lata e seguita con intelligenza e criticitĂ . Noi crediamo di aver fatto la nostra parte. In futuro andrĂ meglio, sulla scia di quanto abbiamo seminato, forse, certamente con la vostra vigile partecipazione critica. 1 Luglio 1995
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Agrigento, Villa Athena, Giugno 1996. Intervista ad Alessandro Natta, segretario del PCI
Elezioni Regionali 1991. Intervista a Leoluca Orlando
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Teleacras, Diritto e rovescio, 1984. Da sinistra: Angelo La Russa, Giuseppe Reina, Giovanni Taglialavoro, Calogero Mannino, Michelangelo Russo
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1984, i vecchi studi di Rupe Atenea. Giovanni Taglialavoro in una pausa di Bar Sport
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Diretta non-stop sulle regionali del 1991. La postazione dei grafici e sullo sfondo Giovanni Taglialavoro
Agrigento, Palasport Nicosia, Giugno 1989. Foto di gruppo Teleacras. Da sinistra, tra gli altri Carmelo Sardo, Angelo Gallo Carrabba, Gianni Braccieri, Luigi Galluzzo, Angelo Incorvaia, in ginocchio Filippo Lombardo
PARTE SECONDA A Gerlando che nel duemila avrà vent’anni
L’ACQUA! L’ACQUA!
Un'estate a secco come quella che sta per finire non si ricorda da tempo immemorabile. L'acqua nella case degli Agrigentini è tornata ad essere un evento, così emozionante e straordinario da interrompere le normali attività delle famiglie, far disdire appuntamenti, riunificare figli e genitori e nonni in uno sforzo comune degno di altri tempi, e di altri obiettivi. A San Leone, passeggiando lungo le stradine alle spalle del lungomare,è possibile sentire le persone chiedere trepidanti in quali case fosse arrivata l'acqua, con la speranza che al più presto la fortuna avrebbe potuto baciare anche loro. Una vergogna se la cosa non si tingesse, come spesso capita ad Agrigento, dei toni della farsa. Farsa innanzitutto linguistico-concettuale. Le sciocchezze intorno a tale problema sono pari al dramma che innesca: l'amministratore comunale o il tecnico ( a proposito come si può accettare la qualifica di tecnico dando l'acqua ogni venti giorni?) che con atteggiamento grave pontifica sulla mancanza di nell'approvvigionamento, non sfiorato dal dubbio che è proprio nel concetto di media implicita l'idea di disparità; oppure inveire contro il fatto che il dissalatore per Agrigento sia stato costruito a Gela, cosa falsa essendo noto che il dissalatore di Gela è stato costruito per Gela, salvo poi decidere di allungare la fornitura per Licata e poi per Agrigento ed altri comuni della provincia. O ancora si inveisce contro la lunghezza della condotta per spiegare le rotture o i furti e i conseguenti turni di venti giorni, sorvolando sul fatto che la condotta del Favara di Burgio è certamente più lunga. O Sodano e altri che la-
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mentano la condizione terminale del capoluogo come concausa della crisi quando lo stesso Sodano aveva proposto nel passato di far convogliare verso la nostra città le acque dell'Alcantara, o quando, ancora, in altri sistemi Agrigento è pure terminale senza che ciò comporti disservizi particolari, pensiamo al sistema delle telecomunicazioni. Insomma una specie di sciocchezzaio in libertà, un bruniano spaccio della bestia trionfante. Che dire poi sul fatto che lo scorso anno d'estate con oltre 200 litri di media per Agrigento l'acqua veniva distribuita ogni otto giorni nei quartieri a mare? E il bello è che un tale lasso di tempo è ritenuto accettabile. E' proprio vero che la prima libertà nasce all'interno dei nostri cuori e allora come si potrà mai pensare di cancellare un tale disservizio se chi ha responsabilità amministrative ritiene accettabili turni di otto giorni? Negli anni scorsi si sono realizzate opere che hanno triplicato la dotazione idrica del capoluogo. Si è riusciti nel giro di cinque anni, a modificare strutturalmente le risorse idriche più di quanto non si sia ottenuto nei precedenti cento anni di vita nazionale. L'acqua deve essere data corrente 24 ore su 24, come nei paesi civili. Come a Fontanelle. Nessuno ancora ci ha spiegato perché in quel quartiere è possibile ciò che nel resto della città sembra un'utopia. Puntare su ulteriori fonti di approvvigionamento senza che prima si dia una risposta rigorosa a questo mistero equivale a pensare di superare i guai di un eccessivo consumo di benzina di una macchina ingrandendone il serbatoio, operazione questa del tutto insensata. Tante domande, una voglia di capire, la speranza di qualche ragionevole risposta. 8 Settembre 1995
RIAPRONO LE SCUOLE: L’ORDINE E’ ‘SIANO LIBERE’
Lunedì anche in Sicilia riapriranno le scuole, o meglio si avvierà il nuovo anno scolastico. Le novità sono tante: lezioni di recupero, iniziative di accoglienza e corsi di approfondimento, nuovo contratto di lavoro per gli insegnanti. Sulle condizioni materiali con cui la scuola agrigentina si presenta a questo nuovo appuntamento non dirò nulla se non che ancora una volta in troppi casi priveremo adolescenti, e addirittura ragazzi dell'obbligo, del diritto primario di un edificio scolastico degno di tale nome. E nessuno potrà mai risarcire il cittadino studente di un tale diritto negato. Comuni e Provincia ne prendano nota. Ma andiamo alle cose che più contano. Il governo non riuscendo a proporre al Parlamento una riforma organica e convincente del sistema scolastico pubblico si è arreso e ha delegato i singoli Istituti a praticare il cambiamento. Il ministro ha ordinato alle scuole di essere libere fino al punto di modificare il sacro, intangibile e, in fondo rassicurante, orario di lezioni. E' singolare il fatto che la libertà venga imposta dall'alto e non guadagnata dal basso ed è del tutto evidente che in tal caso esprime una sostanza autocontraddittoria. Cambiare bisogna dunque. Di fronte ad un tale quadro si può reagire in due diversi modi: o stando a guardare, subendo in modo più o meno passivo la ventata innovativa, magari lamentando la confusione e le insufficienze altrui; oppure, al contrario, rinnovando l'impegno, trovando lo slancio dei pionieri, sapendo che in realtà la posta non è qualche ritocco di margine all'edificio della pubblica istruzione, ma un suo radicale ripensamento.
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Cosa studiare, come e perché. A cosa deve servire il titolo di studio e in che rapporto sta con le gerarchie sociali. Qual è il nuovo ruolo dei docenti alla luce della moltiplicazione delle agenzie formative e della svalutazione dei titoli di studio. Domande semplicemente radicali che toccano cioè la radice, il fondamento stesso dell'istruzione pubblica e dunque dell'autocoscienza di una nazione. In questi giorni frenetici di acquisti di libri, di materiale di cancelleria, di zainetti tutti personalizzati nello stesso modo dalle multinazionali, ci potremmo chiedere il significato di tutto questo, di un rito che ha smarrito col tempo il suo senso . ‘Studia perché cosi da grande farai il dottore’, si diceva una volta. Oggi cosa diremmo ai nostri ragazzi per motivarli nel sacrificio e nell'impegno dal momento che i dottori sono tanti e troppi senza lavoro? Quale altro senso daremo allo studio? Forse la possibilità di conoscere il mondo? Ma come, se il mondo si trasforma in tempi molto più rapidi della capacità di aggiornamento della scuola? Dunque non mi dà certezza di scalate sociali, non mi da strumenti adeguati di conoscenza, allora perché la scuola, lo studio, il sacrificio? Non sappiamo se tali domande circolino tra i vari Gerlando, tra le diverse professoresse in attesa di nuove lettere da Barbiana. Chissà se anche quest'anno tra novembre e dicembre si tornerà ad occupare gli istituti anche se ormai l'appuntamento sembra essere ineludibile come i tramonti del sole. Noi speriamo di no, visto i risultati degli anni precedenti, speriamo che l'energia dei giovani , la loro voglia di protagonismo, la loro carica dissacratoria si indirizzino su una forte riflessione intorno alla scuola, sul destino del diplomato e del laureato e sulle proposte per restituire visibilità alle mete didattiche e senso allo studio pubblico. Post scriptum. Magda Bocchino, professore, ci ha fatto una lezioncina
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sui maestri del pensiero e sui maestri di vita. Il guaio è che tra una falsità e qualche calunnia è scivolata su un errore grossolano per una fine conoscitrice, come lei si accredita, dei fatti culturali. Magda Bocchino, la Città del sole di Campanella non è un'opera cinquecentesca: il filosofo di Stilo l'ha scritta in carcere nel 1602 l'ha tradotta in latino nel 1614 e pubblicata a Francoforte nel 1623. Stia più attenta la prossima volta, professore, Gerlando potrebbe bacchettarla. 15 Settembre 1995
LA TV COME REALTA’ LA VITA UNA SUA PARVENZA, COPIA IMMISERITA Agli inizi la televisione ci stupiva perché proponeva le immagini della realtà, senza proiettore né schermo. In tutti c'era la consapevolezza che il contenuto di realtà delle immagini televisive fosse inferiore a quello riscontrabile direttamente nei luoghi o nelle persone rappresentate nel piccolo schermo. Le immagini televisive apparivano copia ridotta e in bianco e nero della realtà che continuava a stare fuori del piccolo schermo. Oggi le cose non stanno più così. Innanzitutto le immagini televisive hanno guadagnato il colore, una maggiore definizione tecnica e moltiplicato il tempo della loro presenza nella vita quotidiana delle famiglie e i suoi personaggi e le sue vicende non sono più soltanto la rappresentazione elettronica della realtà, ma sempre più la realtà essa stessa. Un politico esiste solo se passa tra i teleschermi, un problema si impone se viene presentato dalla televisione, uno stile di vita diventa desiderabile se è visibile in qualche personaggio televisivo e così via. E le vicende familiari o di vicinato che alimentavano nel passato il pettegolezzo e la socializzazione, oggi sono invece sostituite dalle dinamiche interpersonali delle telenovelas. Insomma il contenuto di realtà delle immagini televisive diventa sempre più rilevante rispetto a quello della realtà empirica. Con effetti comici a volte: un sindacato di polizia tedesco ha preteso che l'ispettore Derrick venisse promosso nei serial come sbocco logico delle imprese sostenute nelle diverse puntate. Con effetti drammatici altre volte: per gli Albanesi, ad
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esempio, l'Italia vera è quella che giunge loro attraverso i canali televisivi e per essa vale senz’altro la pena sottoporsi alle più spericolate traversate adriatiche pur di poterci vivere. Con effetti inquietanti sempre più spesso: i sindaci o gli amministratori scelgono tra le tante possibili iniziative quella che ha più probabilità di arrivare sui media. I giovani delle periferie misurano la piacevolezza della loro vita in relazione al grado di somiglianza che può vantare ai modelli elettronici. Ad Agrigento è successo almeno due volte negli ultimi tempi che ci si accorgesse della bellezza della valle dei templi solo in relazione ad eventi televisivi, il papa a San Gregorio e il mondiale di ciclismo. Il rimbalzo televisivo di quei luoghi garantiva del loro fascino. Un vero e proprio capovolgimento insomma della realtà e della sua copia. Come ci si può difendere da tale situazione? Non certamente staccando la spina come periodicamente qualcuno propone. Più seriamente si potrebbe pensare ad una vera e propria educazione mediatica da fare nelle scuole pubbliche che possa portare i giovani a discernere tra realtà e sua rappresentazione, attraverso un'analisi dei linguaggi televisivi o giornalistici in genere, magari arrivando alla produzione di documentari, al pari della produzione dei temi di Italiano. Ci si familiarizzerebbe con una tecnica di comunicazione e, cosa da non trascurare, si darebbe dignità televisiva ai nostri luoghi, ai nostri conterranei e chissà se in tal modo non si finirebbe col dare maggiore peso e spessore di conoscenza al nostro territorio e ai suoi problemi.
UNA VIA ESTETICA ALLA RINASCITA DEL SUD
C'è una qualche forma di corrispondenza tra gli uomini, lo spirito pubblico e gli spazi, il territorio? Certamente sì e per diverse maniere. E' evidente innanzitutto che gli uomini vivono delle risorse che trovano nel territorio e già da questo semplice punto di vista non può sottovalutarsi il condizionamento più o meno stretto tra l'ambiente e il carattere degli uomini e delle società da loro formate. Questa ormai è una verità semplice e da ognuno di noi accettata senza particolari discussioni. Il clima, il rilievo, le risorse naturali condizionano in qualche misura il nostro carattere, i nostri umori e forse anche le forme del nostro vivere associato. Certo adesso, nell'età delle autostrade informatiche, lo spazio sembra avere un’incidenza non immediata sulle persone, anzi può capitare che attraverso la telematica e l'elettronica un siciliano possa sentirsi più vicino al suo coetaneo del Kansas piuttosto che a quello di Ioppolo; così come con la mondializzazione dell'economia possa arrivarsi al paradosso di trovare molto più facilmente una camicia made in Taiwan piuttosto che un po' di pecorino di Santo Stefano di Quisquina. Sembra che a poco a poco ci si possa affrancare dal condizionamento spaziale. Ma c'è un altro aspetto della questione. Gli uomini plasmano il territorio, danno ad esso le forme che lo spirito umano pensa e attua. Lo stesso paesaggio naturale spesso è il risultato di interventi umani, pensiamo alle coste o alle campagne che sempre di più appaiono come l'effetto delle trasformazioni operate dall'uomo in modo più o meno valido ed accettabile.
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Più evidente è la cosa se si considera l'architettura e l'urbanistica. Un archiacuto trecentesco parla degli uomini di quel tempo forse più di una poesia o di un trattato coevo. Oppure un tempio dorico ci dice della civiltà greca molte più cose di un'opera filosofica dello stesso periodo. Ma queste sono cose risapute. Il punto più interessante potrebbe essere un altro. E cioè. Le pietre e gli spazi parlano dell'uomo, ma a loro volta si riflettono sull'uomo e sul suo spirito? In che misura l'architettura e l'urbanistica condizionano e plasmano gli uomini che l'hanno creato? Il prodotto dell'uomo in che misura arriva a condizionare il suo produttore? Se sovrapponessimo la mappa del degrado urbano del sud con la mappa delle azioni criminali troveremmo diversi punti di contatto e di combaciamento. Si potrebbe dire: ma è la miseria economica e civile che alla fine determina la criminalità e quel degrado urbano. Sarà, ma abbiamo avuto nel passato certamente condizioni di maggiore miseria, ma nessun decennio ha prodotto mostri urbani come quelli creati nei decenni sessanta, settanta e ottanta. Ed erano decenni di sviluppo economico, di boom, di crescita tumultuosa del prodotto lordo. No, non convince. C'è una dimensione estetica dei volti urbani che non è proporzionale al reddito medio procapite. Di qui una bella conseguenza che proponiamo a Gerlando: la via estetica al riscatto del sud. La via che passa attraverso il buon gusto, la raffinatezza e la ricerca dell'armonia. Dimensioni queste che non danno pane e lavoro né a loro possono mai sostituirsi. E tuttavia chi può negare l'ipotesi che una maggiore sensibilità verso il bello alla fine non aiuti a creare quello spirito civile, quello slancio etico che soli potranno farci riscattare?
IL PROVINCIALISMO? NON DARE DIGNITA’ CONOSCITIVA AL PROPRIO TERRITORIO Abbiamo più volte sottolineato la necessità di un rapporto diretto tra la scuola e il territorio circostante, tra i saperi veicolati dall'istruzione pubblica e la storia, l'arte, le emergenze del contesto in cui si opera. Non ci si può schiacciare sul localismo, dirà qualcuno e oggi bisogna formare il cittadino europeo, altro che prestare attenzione al proprio ambiente: oggi si è cittadini del mondo. C'è una forma sottile, e proprio per questo più pericolosa, di provincialismo che è quella di chi afferma non avere dignità culturale se non ciò che circola nelle metropoli, nei centri più avanzati, per cui a chi ne resta fuori non spetta altro che imitare , emulare, inseguire i veri modelli. Insomma un'attenzione al generale astratto, senza avere fatto i conti col particolare concreto. Il provincialismo di un tale atteggiamento sta nel fatto di proporre un modello da imitare, una gerarchia precostituita di esperienze. Vi è un modo sbagliato di reagire a tale deriva di spoliazione: e' il modo che porta al recupero dei fatti folklorici come distintivi di autenticità e di autonomia. E' un modo sbagliato perché ancora una volta taglia il particolare concreto del nostro tempo per rifugiarsi in un particolare non più esistente, fossilizzato, appunto folklorico. E invece c'è bisogno di dare visibilità e dignità di conoscenza all'attuale concreto, all'immediato della nostra esperienza quotidiana la quale senza la necessaria attenzione critico-conoscitiva resta una cattiva empiria non aperta ai risultati della ragione e della ricerca. Per non essere dunque provinciali bisogna aprirsi allo
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studio del proprio territorio sapendo certo che non basta, ma anche che non se ne può fare a meno. Una proiezione conoscitiva di tale fatta potrebbe dare alla scuola una nuova vitalità e un nuovo forte senso, in questi giorni insegnanti e presidi sono impegnati nella elaborazione di progetti di Istituti, di carte di servizi, di piani educativi, e certamente non mancheranno nelle diverse stesure i riferimenti formali al territorio. Ma quello di cui c'e' bisogno non e' un riferimento burocratico, ma una vera e propria ridefinizione dell'asse formativo attorno appunto alle problematiche del contesto sociale in cui si vive. Discorsi astratti? Niente affatto. Perche' i diplomati agrigentini non trovano lavoro? La scuola è nelle condizioni di rispondere a tale interrogativo? E' nelle condizioni di studiare i limiti dell'economia assistita ? I beni culturali possono dare qualità alla vita e lavoro? Il risanamento dei centri storici perché non decolla? Le nostre coste possono ospitare un'economia turistica significativa? Perché le strutture che abbiamo non sono utilizzate ? Di quali professionalità c'è bisogno per fare decollare la nostra economia ? Come ci si può definire qualificati, colti, istruiti se non siamo in grado di rispondere a tali domande? Negli scorsi anni prima a Napoli e poi in molte altre città europee è partita l'esperienza dell'adozione, da parte di gruppi di studenti, di beni culturali. L'idea e' semplice e suggestiva: un gruppo di studenti individua un luogo di particolare pregio storico, artistico o ambientale, lo studia a fondo e lo adotta: cioè ne segue la manutenzione, lo custodisce e lo offre in visita alla gente. Il tutto in collaborazione agli enti preposti istituzionalmente a tale scopo. Ad Agrigento non si e' riusciti a fare nulla di simile, mancano forse luoghi meritevoli di adozione?
IN TUTTI SEMBRA ANNIDARSI UNâ&#x20AC;&#x2122;INERZIA DEL PASSATO
E' per noi avvincente ogni anno aspettare la graduatoria della ricchezza delle province italiane. Agrigento, infatti, ci fa trepidare: un anno ultima, l'anno dopo penultima, poi ancora ultima e adesso prima di Crotone che e' risultata ultima. Crotone new entry. Per tanti anni c'era Avellino a contenderci il posto, prima ancora Enna, adesso la citta' calabra con cui peraltro nel passato abbiamo avuto memorabili scontri calcistici. Insomma della ricca Italia, quinta potenza economica mondiale, siamo il fanalino di coda. Il nostro reddito medio procapite e' tra i piu' bassi. Nessuno tuttavia muore di fame: e' il caso di precisarlo, i nostri redditi medi restano infatti sopra la media di paesi europei certamente civili come la Spagna. Dietro l'angolo non ci aspettano assalti ai forni o epidemie di colera. Eppure la cosa egualmente non puo' farci stare allegri. Perche' cio' che i numeri rilevano, se non sono i morsi della fame, sono certamente il segno di una nostra difficolta', a volte di drammi autentici, pensiamo alla disoccupazione cronica dei giovani, pensiamo alla perdita del lavoro dei quarantenni. Nel Nord Est d'Italia non si riesce a trovare lavoratori da occupare nelle attivita' produttive. Da noi non si riesce a trovare attivita' produttive per dare lavoro ai disoccupati. Non e' comunque un fatto nuovo. In passato tuttavia l'allargamento dei servizi pubblici e l'allegra finanza statale facevano apparire possibile, prima o poi, la soluzione individuale attraverso il posto pubblico, meglio se attraverso corsie preferenziali clientelari o fami-
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liari. Ma lo Stato oggi smantella i suoi apparati, invece di espanderli. L'economia assistita del Sud non e' piu' accettata dalla coscienza nazionale e dagli stessi meridionali. E allora? Bisogna puntare sulle nostre forze, sulle nostre risorse, sulla messa in valore del nostro territorio. Attorno ai beni culturali e al turismo culturale raccogliere capitali, professionalita', capacita' organizzative. Attorno a settori agricoli che hanno gia' dato prova di saper fare i conti col mercato, impiantare strutture, servizi, favorendo una cultura d'impresa; favorire l'attivita' produttiva di piccole e medie aziende. Dico favorire, ma c’è chi continua a pensare al favoritismo, nulla di più praticato dalle nostre parti. No. Favorire significa innanzitutto non ostacolare le iniziative dei privati. Non imporre loro lacci e lacciuoli. Non pretendere ubbidienze attraverso ricatti amministrativi, subordinando i tempi delle procedure agli appagamenti dei desideri inconfessabili del ceto politico e burocratico. Insomma non c’è dubbio che lo sviluppo passa attraverso una coerente politica liberista, di esaltazione delle iniziative della societa' civile. Ma da noi è facile dirlo, un po’ piu' difficile praticarlo e non solo perché ancora forti sono i residui delle vecchie logiche politiche. Ma anche perché dentro la società civile risultano ancora assai deboli i gruppi imprenditoriali, i professionisti disposti a misurarsi col mercato piuttosto che col protettorato. Ecco allora la necessita' di nuovi gruppi dirigenti. Di un nuovo ceto politico che dia servizi e faccia in modo che nel medio periodo esso stesso non sia più necessario, che prepari il suo ‘suicidio’, che lavori ad essere non indispensabile. Da questo punto di vista, destra, centro e sinistra significano molto poco. L'innovazione deve passare attraverso tutti gli schieramenti. Perche' in tutti si annida l'inerzia del passato.
GLI IMMIGRATI COME RISORSA, ANCHE ECONOMICA
Un milione di neri si sono dati appuntamento a Washington nei giorni scorsi per ricordare agli americani, ma anche a tutto il mondo, che esiste ancora una questione razziale, che c'è ancora qualcosa che tiene separate e contrapposte le razze umane. In Europa crescono i segni di insofferenza verso gli immigrati e ovunque monta una opinione pubblica che chiede misure più severe e restrittive verso l'immigrazione. In Italia si sono organizzate manifestazioni contro gli immigrati. Per fortuna si organizzano anche le settimane della solidarieta': citiamo la piu' vicina quella dell'assessore provinciale Fabrizio Zicari sul tema: "Tutti uguali, tutti diversi", cosi come prima il sindaco di Agrigento aveva pensato di dare una delega sindacale ad un uomo di colore. Ma anche queste manifestazioni comprovano l'esistenza di un problema ancora non risolto e che anzi va incancrenendosi. Gli adolescenti di oggi si trovano a dovere vivere in realtà multietniche e forse l'abitudine visiva del diverso non si accompagna ad una adeguata maturazione del senso della tolleranza, del rispetto e meno ancora dell'accoglienza. Quali sono le chiave interpretative e di valore in mano agli adolescenti per capire ed affrontare il fenomeno? Certamente c'è la base cristiana, meglio cattolica. Tale base predispone gli animi alla solidarietà e all'accoglienza. Ma da un altro lato sono bombardati da una serie infinita di luoghi comuni che sembrano parlare il linguaggio della realtà e della concretezza a danno della generosa ma astratta valutazione delle coscienze. Sono violenti, sono sporchi, spacciano droga, rubano
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il posto ai nostri lavoratori e cosi via. Tali luoghi comuni andrebbero smontati, ma non attraverso l'affermazione aprioristica di una loro natura razzista, ma col conforto dei dati e dell'analisi. Per esempio ad Agrigento le migliaia di extracomunitari, piu' o meno regolari, non sono forse, per non parlare d'altro, soldi per i proprietari di case che per lo piu' resterebbero sfitte? Non sono clienti aggiuntivi dei commercianti, degli osti, degli artigiani che si trovano in tal modo a potere contare su una quota povera ma larga di clientela diversamente inesistente ? Insomma, sul piano strettamente e cinicamente economico la loro presenza è una boccata di ossigeno per i nostri redditi che com'è noto non brillano particolarmente. Non rubano lavoro ai nostri disoccupati che ormai non farebbero neanche a peso d'oro le attività tipiche degli extracomunitari. Allora perché le diffidenze, le paure e qualche volta l'intolleranza ? Nei prossimi anni i demografi prevedono un'esplosione di natalità nelle Nazioni del Sud del Mediterraneo e gli economisti una impossibilità di quelle economie a soddisfare la sopravvivenza per quei popoli. E' facile prevedere ondate migratorie di tipo biblico. Le cose allora sono due: o incominciamo ad alzare muri magari elettronici se non proprio di conci di tufo e ci prepariamo a rintuzzare i loro assalti, o predisponiamo strumenti da un lato di accoglienza e dall'altro di intervento nelle loro economie. Perché poi alla fine si scopre che dietro le diversità di colore di pelle forse si annida una diversità di portafoglio e certe intolleranze, un'ostinata indisponibilità concettuale e politica a pensare ad una maggiore giustizia nel mondo forse sono modi particolari di mantenere privilegi accumulati.
UNIVERSITA’ AD AGRIGENTO. SCENARI INEDITI DI SVILUPPO
Pochi giorni ancora e ad Agrigento inizierà il corso universitario in Conservazione dei beni culturali. E' un fatto storico, senza precedenti, forse non adeguatamente sottolineato dagli organi di stampa e percepito dall'opinione pubblica. Non si tratta di uno sdoppiamento di corso affollato e con sede principale altrove, ma di un corso ex novo che ha trovato ad Agrigento la sede più appropriata, nel senso che qui vi sono notevoli beni culturali da conservare e nel senso che qui può e deve svilupparsi una nuova cultura della conservazione e della fruizione dei beni culturali. Oltre cinquecento iscritti al primo anno la cui composizione è assai varia: neodiplomati, ma anche vecchi diplomati che avevano abbandonato l'idea di una qualificazione universitaria per non potere sopportare i costi e i disagi di una sede lontana; agrigentini , ma anche di altre province. E' probabile che dopo i primi esami avverrà uno sgrossamento degli iscritti il cui numero è stato forse gonfiato dalla novità e dalle informazioni vaghe sulla difficoltà del corso e delle singole materie. Per la città cosa comporta ospitare un corso di laurea? Grandissime occasioni di crescita e qualche piccolo problema. I problemi sono essenzialmente di natura logistica: recepire locali degni di un corso universitario e approntare strutture di appoggio culturali e ricreative ad una massa di studenti che vorranno non solo seguire le lezioni, ma avere a disposizione biblioteche, sale per conferenze e dibattiti, mense, pensionati, luoghi di spettacolo e cosi' via.
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Ancora il consorzio universitario non ha potuto approntare nulla che non fosse una sede provvisoria e peraltro insufficiente: villa Genuardi solo parzialmente agibile e forse non in condizione di ospitare tutti gli iscritti. Per il resto va tutto costruito. Per la città e il suo territorio si aprono scenari inediti di sviluppo e di crescita anche economica. Bisognerà ospitare questi studenti o una parte cospicua di loro, in appartamenti, stanze in famiglia, residence: dunque redditi che entreranno nelle famiglie agrigentine e stimolo all'investimento per riadattare alloggi, magari nel centro storico. Ristoranti e trattorie potranno avere una quota significativa di clienti in più così come ogni altro esercizio commerciale. Ma queste occasioni non hanno ancora stimolato iniziative, proposte, offerte. Poi c'è un altro aspetto che forse alla lunga potrà risultare il più importante. Cinquecento studenti che seguono corsi sui beni culturali potranno aiutare una circolazione nuova di idee e sensibilità, potranno animare una vita culturale che oggi trova scarsi veicoli e soggetti, potranno in parte restituire quelle energie intellettuali che fino adesso sono andate altrove, riservando ad Agrigento non altro che un rapporto di fine settimana o nella peggiore delle ipotesi di feste e ferie. Un circuito virtuoso quello che si potrà innescare con la novità del corso universitario ad Agrigento, ma a condizione che la città e gli enti più direttamente interessati alla sua gestione non commettano l'errore di ghettizzarlo o di ritenere gli studenti soltanto bocche da sfamare e tasche da svuotare. E' una prova generale che ci apprestiamo a fare, se la supereremo altre facoltà potranno avere sede qui da noi, già è disponibile architettura due e molti corsi di laurea breve. Dipende da noi, dalla nostra lungimiranza.
IL TEATRO COME PASSERELLA USA E GETTA SENZA SLANCI CULTURALI NE’ TENTAZIONI Il piccolo teatro pirandelliano di Agrigento ha approntato un cartellone di primissimo livello: testi complessi, regie prestigiose, compagnie e attori tra i più accreditati. In questi giorni per esempio, in prima nazionale al teatro Pirandello si recita "Come prima meglio di prima" per la regia di Luigi Squarzina e con Marina Malfatti. Eppure non solo non c'è stata la ressa per l'accaparramento dei biglietti, ma addirittura qualche serata si è recitato per pochi intimi con palchi e poltrone vuote. E ciò ripetiamo nonostante la qualità elevatissima delle rappresentazioni. Ma come, non era scoppiato un quasi sommovimento popolare per gli abbonamenti, per i biglietti che non si trovavano? Perché quella fame di teatro che sembrava emergere nella corsa affannosa ad un posto, non si è confermata anche in questa circostanza? Si potrebbe dire, in prima battuta, che non c'è stata un'adeguata campagna promozionale per la settimana pirandelliana. Però l'ipotesi non regge non appena si consideri il gran numero di manifesti, di inserzioni pubblicitarie riservate al cartellone pirandelliano. Si potrebbe pensare ad una sorta di rigetto per saturazione della drammaturgia pirandelliana. Ma anche questa ipotesi non convince, solo se si ricordi il pienone, sempre al Pirandello, di qualche mese fa quando si è messo in scena i Giganti della Montagna con la regia di Streler. Bisogna allora pensare ad altre ipotesi. Innanzitutto all'effetto di trascinamento che ha Michele Guardì: banalmente le cose che sono organizzate da lui, aldilà del merito, proprio per il fatto che portano la sua firma, aggiun-
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gono una quota significativa di maggiore interesse e quindi di voglia di esserci. Questo, in secondo luogo, alimenta un'insana mania di presenzialismo con effetti di ridondanza per cui alla fine la molla ad avere il biglietto non è legata alla qualità della rappresentazione ma al fatto che l'averlo diventa quasi uno status simbol, fa sentirci parte di un'elite, dentro la cerchia dei privilegiati anche se poi durante lo spettacolo ci si addormenta o si passa il tempo a guardare l'abito altrui o a esibire il proprio. Il trionfo dell'apparire invece che dell'essere. Sui giornali e le televisioni locali c'è poi da fare un discorso: perché non propongono resoconti delle serate, recensioni o al limite cronache mondane? L'evento teatrale rischia di passare inosservato e di non depositare nulla nel comune sentire della città. Quando nell'immediato dopoguerra circuitavano al teatro Pirandello opere, operette e avanspettacoli nei giorni successivi agli eventi e per lungo tempo le persone che vi avevano assistito risultavano segnate nel profondo dalle storie raccontate, dalle melodie ascoltate e, a volte, anche dal fascino delle artiste che vi si erano esibite fino al punto che più di un nobiluomo nostrano le conduceva poi a casa se non sull'altare. Insomma lo spettacolo diventava fatto culturale, stile di vita. E oggi? Consumo, puro consumo, teatro usa e getta. Almeno così pare.
TUTTI VOGLIONO IL LAVORO. GIA’, MA COME?
Ieri in Sicilia si sono svolte alcune manifestazioni di protesta per il lavoro e lo sviluppo. A Palermo in particolare migliaia di lavoratori e di disoccupati hanno seguito il comizio conclusivo del segretario generale della cisl. Cosa hanno chiesto? Lavoro, posti di lavoro per le centinaia di migliaia di disoccupati. La nostra provincia ha partecipato alla manifestazione e del resto risulta tra le prime in percentuale per numero di disoccupati. Un giornalismo più attento ai fenomeni sociali e meno agli sbadigli del ceto politico potrebbe meglio farci capire le sofferenze e i sistemi di sopravvivenza praticati nelle famiglie colpite dal dramma del non lavoro o interrogarsi sull’utilità di parate sindacali che certo servono a contare il disagio a portarlo in piazza, ma non fanno fare un passo in avanti allo sviluppo. Quanto sarebbe più proficuo fare i nomi di quegli enti o funzionari che bloccano senza alcuna ragione plausibile pratiche e finanziamenti, quanto sarebbe più produttivo pretendere lo snellimento delle procedure, rimuovere i funzionari pavidi o corrotti che ritardano colpevolmente gli atti amministrativi! Ma nulla di tutto questo avviene anche se periodicamente viene minacciato. E ancora invece di chiedere genericamente l’intervento dello Stato perché non fare battaglie di settore , limitate se si vuole ma piu’ concrete, più controllabili dal basso e alla fine più proficue? Per esempio: il palacongressi è chiuso. Di chi la responsabilita’? Come riaprirlo e con quali progetti? O ancora. Da anni si dice che il parco dell’Addolorata sarà attrezzato e gestito per la fruizione creativa. Bene perché ciò
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non avviene? O ancora il parco archeologico di Agrigento quando riuscirà a decollare oltre la asfissiante disputa tra i demolitori e i sanatori delle case abusive? Le aree industriali a che punto sono? Hanno ancora una loro validità, quali proposte di insediamenti sono state formulate e quali potrebbero reggere senza assistenzialismo? Il corso di laurea per i Beni culturali di Agrigento tarda ad iniziare le sue lezioni perché ancora non si sa in quali locali potranno svolgersi. Sono soltanto alcuni esempi di problemi concreti sui quali si potrebbe concentrare l’azione e la mobilitazione della gente al di là delle parate rituali che servono soltanto a dare visibilità ai sindacati ma non risultati significativi. Poi c’è un discorso più complesso che riguarda il rapporto tra meridione e stato. Lo stato deve dare lavoro, ripetevano un po’ tutti i manifestanti intervistati dai media. Già lo stato, ma come? attraverso interventi diretti, opere pubbliche, finanziamenti o cosa altro? Ma non è esattamente quello che faceva negli anni ottanta con i risultati che abbiamo già visto saccheggio del territorio, criminalità, sperperi corruzione e, soprattutto, disoccupazione comunque. Chi ci garantisce che ora le cose andrebbero in modo diverso? Forse ha ragione chi sostiene che il sud potra’ avviare un suo sviluppo non assistito quando potrà contare su nuovi gruppi dirigenti, su un nuovo spirito civico. Gli uni e l’altro presuppongono una rinnovata capacità critica, capacità di andare oltre i luoghi comuni, di non accontentarsi alle frasi fatte. Allora va detto che la strada da percorrere appare ancora molto lunga.
NOVEMBRE E’ TEMPO DI OKKUPARE
Nell’antica Grecia così come nell’antica Roma vi era la stagione della guerra. In alcune parti del globo vi sono le stagioni delle piogge. In Italia da tre anni in qua si va consolidando la stagione delle autogestioni o delle occupazioni studentesche. ‘Settembre è tempo di migrare’ di dannunziana memoria è diventato ‘novembre è tempo di occupare’. La stagione ha limiti ben definiti: dal venti novembre al 6 gennaio. E’ questo il periodo in cui gli studenti scoprono la finanziaria, scoprono i limiti governativi della politica scolastica, scoprono di poter essere soggetti e non solo i destinatari dell’istruzione. La ciclicità tuttavia di tale fenomeno autorizza più di una preoccupazione e molti dubbi. Sembra diventato un appuntamento istituzionale come la festa del patrono o lo scrutinio del quadrimestre, sembra assurto ad una specie di rito di passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo, una sorta di festa della matricola o rito di iniziazione in cui vanno coinvolti soprattutto i ragazzi che non siano all’ultimo anno. Un mese sabbatico nel corso del quale le lezioni vengono sospese e le strutture scolastiche si aprono nel migliore dei casi alla creatività musicale e interpersonale o, nel peggiore, al bivacco inconcludente. Ne’ valgono i discorsi preoccupati dei genitori o degli insegnanti sul tempo perso sulle lezioni saltate e sulle tentazioni in agguato. Gli studenti con la puntualità di un tramonto autogestiscono, occupano, ma a novembre. Debbo ammettere che è molto facile ironizzare su questo fenomeno, sulla superficialità dei giovani, sulla man-
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canza di senso critico e così e così via. Ma va riconosciuto che è altrettanto facile investire gli adulti, governanti, genitori e insegnanti, nella responsabilità del fatto, se non altro perché i governanti al pari della ritualità delle occupazioni novembrine ripropongono le loro ritualità inconcludenti; perché i genitori non sembrano capaci di convincere che fare scuola è sempre meglio che non farla; perché gli insegnanti non appaiono credibili se ripetono che seguire una lezione è comunque preferibile alla perdita di tempo dell’occupazione. Insomma il limite che cogliamo nei giovani rimbalza su di noi e si mostra come specchio dei nostri limiti. Cosa fare dunque? Capire che ormai ogni discorso sulla serietà della scuola e degli studi senza una rapida e radicale riforma degli ordinamenti e dei programmi non ha più senso. Capire che senza massicci investimenti nell’istruzione pubblica che ne trasformino strutture e ritmi, motivazioni e modi di essere, finalità e metodi didattici, ogni richiamo all’importanza dello studio resterà nel vuoto, apparirà questo sì rituale e predicatorio, in una parola falso. E se i gruppi dirigenti non saranno capaci di avviare cambiamenti di tale profondità allora c’è una sola strada per evitare il ripetersi delle stagioni dell’occupazione e dell’autogestione: inserire nella prossima finanziaria, come norma transitoria, in vista della riforma, venti giorni di sospensione ufficiale delle lezioni tra novembre e dicembre con la consegna dei locali agli studenti per le loro attività. C’è da credere, infatti, che in tale caso, per un sano principio di conflitto tra le generazioni, gli studenti a protestare in nome delle lezioni e dei compiti persi.
ABOLIAMO I SEMAFORI E IL SUD DECOLLA
E’ una cosa nota che tra il sud e il nord dell’Italia vi siano differenze. Ed è pure noto che per lo piu’ tali differenze sono a sfavore dei meridionali. Meno strade, meno scuole, meno ospedali, meno diplomati, meno laureati, meno lavoro, meno reddito al sud rispetto al nord. Il divario tra il nord e il sud ha impegnato la riflessione di generazioni di studiosi insigni e il lavoro di innumeri commissioni parlamentari di indagine. Vi e’ tutta una letteratura meridionalistica che ha cercato di capire le origini storiche del fenomeno, le sue cause sociali ed economiche e ha cercato pure di indicare qualche rimedio per tentare di accorciare le differenze tra queste due aree del paese. Da Sonnino a Salvemini, da Gramsci a Nitti da Sturzo a Saraceno non sono mancate proposte interessanti ed iniziative coerenti. C’è da dire tuttavia che a tutt’oggi il divario non solo e’ rimasto, ma forse per alcuni aspetti si e’ aggravato. E qui si s’inserisce la Lega Nord e la sua teoria del semaforo rosso. Proviamo a riassumerla sapendo come cio’ ci esponga al rischio delle sintesi rozze davanti ad una teoria così complessa. Insomma il sud è come è perché i suoi automobilisti passano col rosso ai semafori. Teoria stupefacente nella sua arditezza concettuale e soprattutto di grande possibile applicazione pratica. Ci viene infatti da pensare, arditezza per arditezza, che sarebbe sufficiente abolire ovunque i semafori almeno al sud e ipsofacto aboliremmo la causa della arretratezza meridionale. Non ci sarebbe piu’ infatti occasione alcuna per passare col rosso. Ragionamento simile a quello di chi pensava di abo-
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lire il vento segando alla base tutti gli alberi che lo misurano e lo visualizzano. E similmente il semaforo purtroppo non e’ la causa della trasgressione ma il suo indicatore, la causa essendo nello spirito dell’automobilista. Allora ridiamo pure delle semplificazioni concettuali di certi leghisti, ma il problema resta, non della questione meridionale soltanto , ma quello del semaforo e del rosso che non blocca il passaggio. Avete notato ad Agrigento? Vi sono i semafori anche per i pedoni: cosa normale in tutta l’Europa e in Africa, ma qui assolutamente inedita e presa in considerazione da nessuno. C’è il rosso? Si passa. Puo’ l’uomo nella sua libertà spirituale inchinarsi al volere di un mezzo meccanico per di piu’ regolato in modo folle? Mai! Del resto non era Gesu’ che ci ricordava che non l’uomo e’ fatto per la legge ma la legge per l’uomo? figurarsi allora la norma del semaforo davanti allo slancio vitale dell’uomo. E’ rosso , si passa. Il guaio è che noi superiamo le norme sempre all’indietro, non applicandole. Il guaio è che non riconosciamo nelle norme alcun deposito etico ma soltanto un limite al nostro arbitrio. Il guaio è che il nostro traffico scorre con lentezza per questo, le nostre case sono brutte per questo, i servizi pubblici non funzionano per questo e così e cosi’ via. Un dubbio si insinua prepotente: non e’ che alla fine dovremo ammettere che i leghisti abbiano visto giusto nella via semaforica alla questione meridionale?
IL LIBERISMO MERIDIONALE TUTTI LO INVOCANO NESSUNO LO PRATICA Ha un grande merito senza dubbio Berlusconi: l’avere diffuso a livello di massa, tra i telespettatori cioè, l’idea che non è lo stato a dover fare tutto e che laddove ci si culli dell’intervento pubblico non può che allignare l’assistenzialismo, l’inefficienza e il fiscalismo. Si potrebbe obiettare che è più facile condividere tali pensieri in quelle zone del paese dove in effetti vi è una rigogliosa iniziativa privata rispetto alla quale lo stato appare rapace taglieggiatore o farraginoso ostacolo al dispiegarsi delle energie. E invece si è visto che anche al sud, in Sicilia per esempio, il berlusconismo ha avuto un rilevantissimo successo elettorale nelle più recenti significative espressioni di voto. Vuol dire questo che la mala pianta dello statalismo e dell’assistenzialismo meridionale si è essiccata? E’ segno che sta emergendo un nuovo spirito di iniziativa anche in questa parte del paese che da decenni ha vissuto di intervento pubblico e di opere pubbliche? Non ne sarei tanto sicuro. I giovani disoccupati chiedono l’intervento della regione e dello stato; le imprese in difficoltà invocano finanziamenti pubblici; gli amministratori locali pretendono giustamente più risorse per i loro comuni ed enti; e allora ? Dove si colloca l’iniziativa privata, lo spirito di intrapresa, il piacere del rischio e dell’invenzione? Eppure non mancano indicazioni valide per avviare una nuova fase di sviluppo autocentrata, non dipendente cioè da finanziamenti assistiti e in perdita. Prendiamo il caso di Agrigento. In questi giorni abbiamo avuto contemporaneamente l’avvio del corso di lau-
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rea in Conservazione dei beni culturali e l’annuale convegno di studi pirandelliani. Non consideriamo gli aspetti culturali dei due eventi, limitiamoci a considerarne i risvolti economici: seicento studenti universitari che vengono ad Agrigento e vi resteranno per quattro anni, mille studenti liceali che soggiornano per una settimana nella nostra città. Oggi si è aperto un convegno organizzato dall’accademia di studi mediterranei, altre decine di persone; poi la sagra, poi altri convegni , il teatro, le mostre, i concerti e così via. E non parliamo di ciò che comporta e potrebbe ancora di più in futuro comportare in termini economici il parco archeologico. Insomma un flusso continuo di iniziative culturali che portano nella nostra città un numero enorme di persone che diventano reddito aggiuntivo per la nostra economia. Quindi abbiamo potenziali consumatori ai quali dovremmo essere capaci di offrire dei prodotti. Quali? Alloggi, mense, cineforum, svaghi, sussidi didattici, strutture di servizi ecc. Tali prodotti richiedono professionalità e offrono sbocchi di lavoro e redditi. Perché stentiamo a capirlo? Perché non nascono iniziative in tal senso? Per pigrizia mentale di tutti noi e per un ritardo dei gruppi dirigenti attuali i quali pensano ancora alla vecchia maniera e non stimolano iniziative ma puntano piuttosto a ripercorre le vecchie strade quelle per le quali probabilmente si sono selezionati e sulle quali si sono formati e cioè le strade del consumo privato senza limiti favorito e alimentato dall’intervento pubblico possibilmente nel settore delle costruzioni. Pensate invece cosa succederebbe se i comuni, la provincia i vari enti territoriali si dessero da fare per orientare nuove imprese piccole e medie di servizi, nuove pensioni nel centro storico, corsi di formazione per la convegnistica ecc. e se favorissero con informazioni e sostegni vari quanti si avventurano nella libera iniziativa imprendito-
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riale: altro che disoccupati, avremmo una città ricca e vitale, con un profilo culturale in costante crescita e chissà forse con un’anima meno pettegola e paesana, e con un senso estetico all’altezza dell’eredità della valle dei templi.
NOI E LE ‘BARBARE LANCE ABISSINE’
Diceva Hegel: una cosa quando è troppo nota non è conosciuta. La conoscenza è sempre una forma di rapporto con un altro, con un altro che appare ed è vissuto come diverso dal soggetto conoscente. Quando tale diversità non viene più percepita, e ciò accade appunto con le cose troppo note, la conoscenza, cioè l’appropriazione intellettuale di un diverso , non scatta. Sembra un discorso astruso in realtà tutti, più o meno, ne facciamo quotidianamente esperienza. Che ne so: noi non percepiamo più i nostri odori, del nostro corpo, della nostra casa, ma siamo bravissimi a percepire quelli degli altri. Oppure. Pochissimi conosceranno il contenuto delle lapidi murate sulla facciata del palazzo del municipio di Agrigento. Certo tutti le abbiamo notate, ci sono note e dunque non le conosciamo. Almeno è questo che dobbiamo augurarci, perché solo così può essere accettato il fatto che per quasi un secolo abbiamo potuto tollerare come biglietto da visita del Palazzo di città una lapide ignobile, offensiva di un continente, di un popolo in particolare, e della nostra coscienza umanitaria. Mi riferisco alla lapide murata a sinistra del portone di Palazzo dei Giganti. Sapete cosa c’è scritto? Sono ricordati i nomi di alcuni agrigentini che morirono a Dogali durante le guerre di conquista coloniale lanciate dall’Italietta del secolo scorso che voleva il suo posto al sole come le altre potenze europee. Quegli agrigentini è scritto, “fortissimamente pugnando” caddero uccisi da barbare lance abissine. Così c’è scritto, ‘ barbare lance abissine’. Allora: già come prima ri-
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flessione non può non notarsi come sia controproducente per il decoro dell’esercito italiano ricordare il nemico di allora come barbaro e fornito di lance perché in tal modo, di riflesso, risulta umiliata la credibilità di una potenza, quella italiana, che si fa sconfiggere da barbari con le lance, è noto infatti che a Dogali l’esercito italiano conobbe una amara sconfitta. E poi perché barbare lance? Non erano gli abissini impegnati a difendere la loro patria, il loro territorio contro i colonialisti invasori? E’ un valore o no lottare per il proprio paese? Ed è quello che fecero gli abissini ed è quello per cui altri agrigentini, ma nella lapide che c’è a destra del portone, sono ricordati: nel 1848 immolarono la loro vita e loro beni per la libertà e l’indipendenza dell’Italia. Si può contemporaneamente lodare i patrioti agrigentini e disprezzare quelli abissini? No, non si può. Siamo alla vigilia della sagra e del festival internazionale del folklore. Non sappiamo se tra i gruppi invitati ci sia anche quello abissino: ve l’ immaginate l’impressione che potrebbe trarre leggendo la lapide il giorno in cui il sindaco raduna i gruppi per il saluto della città? Che ne dice il delegato sindaco per gli extra comunitari, il vescovo che tanta attenzione riserva ai neri e agli immigrati e il sindaco e i consiglieri comunali e Michele Guardì che ospita le grandi compagnie al teatro Pirandello: per loro la lapide non è nota e dunque rischiano di conoscerla. Non ne usciremmo bene.
MITI INCROCIATI: IN USA L’AVVOCATO, IN ITALIA IL PM
L’avrete sicuramente notato: nella cinematografia e nella produzione televisiva americana o in generale anglosassone il genere giudiziario è dominato dalla figura mitica dell’avvocato. Tutti ci ricordiamo la leggendaria figura di Perry Mason che è riuscito per decenni a garantire i diritti degli individui ingiustamente perseguiti da pubblici accusatori ostinati quanto perfidi. E più recentemente altri film di successo mondiale quali Codice d’onore, In nome del padre, Il socio, Il Cliente, Mio Cugino Vincenzo, il Verdetto e tanti altri hanno riproposto il mito dell’avvocato, difensore accanito e coraggioso delle libertà e dei diritti degli individui contro lo stato e la pubblica accusa sprovveduta e faziosa. In Italia non si ha nulla di simile: al contrario da noi semmai prevale il magistrato-eroe e gli avvocati, nella migliore delle ipotesi, risultano collusi con la malavita e il malaffare. Lo testimonia il mito Di Pietro che cresce nella stessa misura dello sviluppo dei suoi problemi giudiziari, lo dimostrano i tanti film in cui l’eroe o l’eroina sono invariabilmente magistrati: pensate alle Piovre, al Giudice Ragazzino, La Scorta per non parlate degli agiografici Giovanni Falcone, Cane Sciolto e simili. Naturalmente qui non si vuole mettere in discussione il tributo di sangue, di abnegazione dato da tanti magistrati per la difesa della legalità e dunque per la difesa della libertà di tutti noi. Si vuole soltanto proporre una riflessione su questa singolare tipicità italiana che trova riscontro solo in qualche marginale cinematografia greca o franco-tedesca.
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Di cosa è segno, espressione tale tipicità? Be’ banalmente si potrebbe dire che la figura del pubblico accusatore negli Stati uniti non gode di grande status: vi accedono gli avvocati che non hanno grandi doti o stimoli professionali e guadagnano molto di meno degli avvocati difensori. Di qui una certa quota di appannamento della sua figura in un paese dove i meriti si misurano innanzitutto in dollari. Più in generale poi si sarebbe portati ad affermare che da noi c’è più il senso dello Stato e in America quello dell’individuo per cui il mito qui si alimenta della difesa dello Stato e lì dell’individuo. In realtà a considerare la cosa da vicino sembra esattamente il contrario. E’ il non funzionamento dello Stato e la sua insufficiente espressione nel territorio e nelle coscienze a rendere leggendario chi opera per farlo valere, per farlo trionfare: come dire: il magistrato che fa rispettare la legge è un’eccezione sia rispetto al contesto sociale che la calpesta sia rispetto ai colleghi che tirano a campare. Nel mondo anglosassone, dove lo stato è una realtà da secoli, una realtà forte, riconosciuta e rispettata, diventa eccezione la garanzia dei diritti del singolo e indifeso cittadino dalla strapotere dello stato e della legge. Se fosse vero il nostro ragionamento si potrebbe concludere affermando che gli eroi allora sono specchio di limiti e dei tentativi di superarli. Ci viene in mente il Galileo Galilei di Brecht: sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi.
ANCORA SULLE ‘BARBARE LANCE ABISSINE’
Il consigliere comunale Gaetano Leonardi, persona sensibile e misurata, a commento di una puntata scorsa di questa rubrica nella quale si faceva notare l’assurdità di una frase posta su una lapide esibita sulla facciata del Palazzo del municipio di Agrigento, ci ha ricordato che comunque quella frase fa parte della nostra storia. La frase come qualcuno ricorderà è ‘barbara lancia abissina’ e si riferisce allo strumento col quale soldati di quel popolo aggredito dal nostro esercito avevano trafitto alcuni agrigentini. Leonardi dunque ci fa sapere che quella lapide è stata murata da amministratori di centodieci anni fa e dunque appartiene alla storia. Ha fatto bene a precisarlo perché si poteva correre il rischio che qualcuno attribuisse la paternità di quella lapide all’attuale sindaco o all’attuale consiglio comunale. No. Non è così. E ripeto ha fatto bene a precisarlo Leonardi. Ma il problema che noi abbiamo sollevato non è di cancellare quel documento o di farne carico agli attuali amministratori. Nel passato impero romano esisteva la pratica della ‘damnatio memoriae’ e consisteva nell’azzeramento di ogni segno, statue, monumenti, lapidi ecc., che in qualche modo ricordassero il precedente imperatore caduto in disgrazia. Pratica peraltro ricorrente ogni qual volta cada un regime: ricordiamo le immagini dell’Urss e la carica iconoclasta della gente che abbatteva i segni dell’odiato regime: statue di Lenin stritolate, o trasferite, nomi di città cambiati e nomi di strade riscritti nel giro di una notte. Anche in Italia dopo la caduta del fascismo è avvenuto
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qualcosa del genere. Ma qui nel nostro minuscolo caso non si tratta di abbattere nulla. Né di cancellare qualche rigo della lapide. Durante il fascismo ad Agrigento si arrivò a togliere dal monumento dei caduti alcuni bassi rilievi raffiguranti la ferocia tedesca: il patto d’acciaio non tollerava che gli amici germanici fossero rappresentati in quel modo e il monumento fu grattato fino a fare scomparire quella raffigurazione. Rimedio peggiore del male. La domanda ci sembra questa: scrivere che gli abissini sono dei ‘barbari’ è il migliore biglietto da visita possibile del nostro palazzo municipale? Chi potrebbe dire di sì? Delle due l’una : o non comunica niente quella lapide e allora la si può togliere senza scomodare la storia e la sua memoria, o comunica qualcosa e allora il suo contenuto offende la nostra coscienza e buon gusto vorrebbe di non esporla proprio sulla facciata del municipio. La si stacchi e la si deponga in qualche museo dove gli storici e i visitatori possano avere contezza di come erano vissuti nelle coscienze del secolo scorso le imprese coloniali. E chissà se a quel punto nello spazio della facciata rimasto vuoto saremo capaci di murare una lapide in ricordo di Luigi Pirandello. A proposito: proprio quest’anno cade il sessantesimo anniversario della sua morte.
I GIOVANI NON GUARDANO LA POLITICA. FORSE PERCHE’ E’ INGUARDABILE C’è un distacco evidente dei giovani dalla politica. C’è un altrettanto evidente disinteresse dei giovani verso ogni forma di agire collettivo che si avvicini in qualche modo al far politica. I partiti che nel passato avevano quasi tutti una riserva giovanile oggi o non esistono più o hanno rinunciato per mancanza di numero legale a mantenerla. Fanno eccezione i giovani di destra e di estrema sinistra, ma anche in questo caso nulla di paragonabile a ciò che avveniva fino a dieci-quindici anni fa. I movimenti giovanili laddove si registrano, come ad esempio durante le stagionali occupazioni delle scuole, non reggono a lungo e comunque non sedimentano organizzazione, forme aggregative stabili. Siamo forse dentro una stagione di grandi e irriducibili egoismi in cui il bene comune non viene né pensato, né perseguito? Non si direbbe guardando alle svariate forme di volontariato sociale in cui milioni di italiani offrono una parte del loro tempo a favore di altri, di altri svantaggiati o comunque bisognevoli di attenzioni, di aiuto, magari solo di incoraggiamenti. Allora forse i giovani non guardano alla politica perché essa è stata ed è inguardabile? Certo in Italia in questi ultimi anni si è visto cosa c’era dietro e sotto la politica: l’affare,la corruzione, il tornaconto personale, la criminalità di tipo mafioso o addirittura la mafia tout cour. Come pensare allora che i giovani possano sentirsi attratti da tali modelli? C’è la nausea per un modo di essere della politica ancora oggi segnata dai vecchi vizi se non altro per il permanere di molti dei vecchi protagonisti e
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delle vecchie logiche. Forse il nuovo clima che potrà formarsi in una fase costituente che in molti auspicano potrebbe favorire un vero e proprio ricambio che non è un ‘levati tu che mi ci metto io’ ma l’affermazione di logiche nuove in cui non siano i clan contrapposti a determinare la dinamica politica ma modi diversi di risolvere gli stessi problemi nel rispetto reciproco e nella reciproca legittimazione. Siamo pronti ad avviare questa nuova fase? Difficile dirlo. Tuttavia ci pare essenziale una condizione: che la politica arretri le linee dei suoi campi di competenza, non pretenda di condizionare ogni aspetto della vita pubblica. Lo scorso anno alla fine della sagra si determinò una situazione emblematica: quelli di centrosinistra elogiavano le scelte artistiche di Vivacqua che invece erano osteggiate da quelli di centro destra. Segni di barbarie: che c’entra lo schieramento politico col gusto estetico con il gradimento artistico? Nulla, eppure i recinti politici in quel caso coincidevano con quelli estetici. Dobbiamo poter rimescolare le carte disorientare gli stupidi che ragionano per schemi. Per esempio arrestano il presidente della provincia di Palermo e quelli di Forza Italia protestano per l’abuso della magistratura. In quel caso Musotto era accusato di associazione mafiosa. Nessuno della sinistra protestò. Adesso arrestano la Fiorentini per abuso d’ufficio e Forza Italia non protesta tranne Giovanni Barbera mentre si strappano le vesti a sinistra. Uno spettacolo del genere potrà mai attirare i giovani? Potrà convincerli del fascino del far politica che da molti viene definita la forma più alta di eticità?
DOMANDE SUL FOLKLORE. C’E’ UN RAPPORTO TRA BASSOLINO E LA TARANTELLA? I fatti di cronaca locale non hanno mai contaminato questo spazio di riflessione che programmaticamente si rivolge ai giovani con dubbi, domande, ragionamenti e qualche timida proposta. Neanche l’attuale chiasso cittadino ci distoglierà da tale fine. Ci saranno altri spazi, altri strumenti altre occasioni per fare i conti con esso e con i suoi smodati e irresponsabili protagonisti. Vorrei invece agganciarmi alla Sagra e ai temi folklorici. La questione è questa. Oggi che marciamo velocemente verso il villaggio globale, verso la mondializzazione della vita quotidiana che spazio resta per le tradizioni, per le identità particolari, per quelle, per esempio, che trovano appunto nel folklore una espressione quasi cristallizzata? Il folklore è solo memoria o anche segno di riconoscimento? In altre parole: le specifiche movenze dei gruppi, i loro costumi, i loro canti e le loro musiche parlano soltanto di un passato dei popoli, interessante certo, piacevole forse, ma di un passato o fanno luce su alcuni aspetti del presente? Che rapporto c’è tra la tarantella e Bassolino? Oppure che rapporto c’è tra i canti d’amore siciliani e gli omicidi d’onore? E’ un filone di ricerca questo già esplorato da antropologi e demologi che certo qui non può trovare alcuno sviluppo. Poteva essere interessante affiancare alle esibizioni dei gruppi momenti di studio su singoli temi etnografici. Giriamo la proposta agli organizzatori della prossima edizione, sapendo che anche su questo versante nel passato qualcosa si è tentato e che dunque non si parte da zero. In attesa delle elaborazioni scientifiche vorrei provare
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a spiegare cosa ci affascina e cosa non ci convince del folklore? Ci affascina l’idea di mantenere vivo il ricordo delle radici, ci piace che qualcuno o qualcosa alimenti la memoria: Vitaliano Brancati apre il volumetto intitolato ‘I Piaceri’ proprio col piacere della Memoria e scrive che se noi non ricordassimo, il mondo sarebbe una lastra priva di spessore: la memoria ci ricorda cosa siamo stati e dunque ci fa capire meglio chi siamo, cosa siamo diventati. Il folklore dunque come ricordo. E questo ci piace. Ma c’è un aspetto su cui vale la pena di riflettere. Ma chi decide quale passato ricordare? Agrigento ha un grande e lungo passato ma i suoi gruppi folcloristici propongono quasi sempre gli stessi costumi, le stesse musiche e l’immutabile contesto del ciclo agrario. Perché? Forse perché chi organizzò i primi gruppi aveva gusti particolari, conoscenze particolari che lo spingevano a quella determinata scelta piuttosto che ad un’altra. Ma e’ possibile ridefinire periodicamente o almeno arricchire le forme del folklore? Quello che avvertiamo è che il folklore così com’è rischia di annullare le ragioni per cui è nato: voleva far vivere il passato e adesso ne cristallizza solo alcuni momenti, voleva stimolare studi e conoscenze etnografiche e invece si è svilito in bozzettismo. Voleva stimolare il senso della profondità del tempo e invece appiattisce ogni cosa. Il folklore rischia di morire, viva il folklore.
NE ‘I VECCHI E I GIOVANI’ DI PIRANDELLO LA CHIAVE DELL’AGRIGENTO DI OGGI Cosa sta accadendo ad Agrigento? Ce lo chiedono in molti, inviati speciali di testate nazionali, amici, cittadini smarriti e confusi dagli intrighi da basso impero che vengono orditi. Ce lo chiediamo anche noi e per la verità stentiamo ad orientarci, o meglio stentiamo a credere quello che i nostri ragionamenti , le nostre analisi ci suggeriscono. Troppo volgari sarebbero le motivazioni, troppo grossolane le procedure. Allora forse può essere utile staccarci per un attimo dal presente magari attraverso una lettura o rilettura di un romanzo di Luigi Pirandello, I Vecchi e I Giovani. Racconta le vicende di Agrigento alla vigilia delle elezioni politiche del 1892 e dello scossone sociale dei Fasci Siciliani. Sul piano letterario il romanzo non piace molto ai critici: lo trovano poco pirandelliano, troppo affollato di personaggi, un po’ declamatorio. Pirandello racconta i problemi, le speranze e le delusioni di due generazioni: quella che ha fatto il Risorgimento, i vecchi, e quella che si trovava a gestire l’Italietta crispina in bilico tra velleitari progetti coloniali e concreti maneggi affaristici. E’ per noi un libro illuminante, li’ c’è la chiave di quello che sta succedendo oggi ad Agrigento. Gli intrighi dei potenti, la mafia e la massoneria, i clericali spregiudicati, gli arresti, il crac di Banche e di imprese, il giornalista fallito, roso dall’invidia, rancoroso, che usa la penna per ricattare e infangare piuttosto che per informare. C’è di tutto. C’è in particolare un principe reazionario, don Ippolito Laurentano, che, dopo trent’anni di unità di Italia, si
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ostina ancora a proclamarsi fedele al passato regime borbonico e non va in paese, vive isolato nella sua villa di Colimbetra e tiene in armi un manipolo di guardie con le divise borboniche. Una cosa che può accadere solo a Girgenti, lamenta, tra le pagine del romanzo, un funzionario della Prefettura. Solo qui possono capitare certe cose: è una frase che ad Agrigento continuiamo a ripetere. Questa frase usata ed abusata condensa un limite ed una possibilità insieme. Il limite: avvertiamo le nostre stravaganze, le nostre follie così radicali così uniche da farcene compiacere, da spingerci ad incartarci nel non fare, in una sorta di coazione a ripetere che si riscatta solo con la consapevolezza della sua eccentricità. E questo è il tratto finora dominante del sentire comune di buona parte degli Agrigentini. Ma c’è un modo di vivere la cosa che potrebbe fondare il bisogno ed il fascino del cambiamento, della rottura col passato, con un certo passato. La radicalità delle cose che succedono ad Agrigento potrebbe semplicemente spingerci prima o poi a capire che è necessario cambiare registro, che solo ridefinendo i nostri rapporti sociali potremo sperare di toglierci di dosso le stravaganze che non sono i cattivi, i frettolosi o i faziosi osservatori ad affibbiarci ma noi a guadagnarci. Dobbiamo conquistare una normalità, una serena e tranquilla rispettabilità, cambiando il modo di approcciare le cose, i problemi e persone. Qui ci tornano utili le critiche affettuose che ci vengono rivolte dall’esterno: non sono provocazioni sono sfide che ci lanciano e noi dobbiamo accettarle, con gratitudine.
L’OMBRA DI DON FABRIZIO A CENT’ANNI DALLA NASCITA DI TOMASI DI LAMPEDUSA Cent’anni fa nasceva Giuseppe Tomasi di Lampedusa. La Sicilia e la Provincia di Agrigento si preparano a celebrarne l’anniversario in modo adeguato. Il suo nome è legato ad un romanzo ‘Il Gattopardo’, forse il romanzo italiano più conosciuto al mondo. Eppure, com’è noto, fu pubblicato soltanto dopo la morte dell’autore, non essendo piaciuto a quanti lo avevano avuto in visione. Fu Feltrinelli ad intuire l’importanza dell’opera e a pubblicarla un anno dopo la morte del Lampedusa e fu un successo travolgente. Luchino Visconti poi fece il resto con la sua memorabile riduzione cinematografica, che di recente abbiamo visto con i colori restaurati. Il Gattopardo narra la Sicilia e i Siciliani attraverso le vicende di un nobile, Don Fabrizio Corbera principe di Salina, negli anni che precedono e seguono l’unificazione nazionale. Il romanzo, come ogni buon romanzo di successo, ha dato vita a neologismi e a stereotipi caratteriali. Il più diffuso è senz’altro quello che deriva dal titolo: il gattopardismo. E indica la tendenza al camuffamento opportunistico di chi fa finta di cambiare qualcosa per mantenere intatti i vantaggi acquisiti, i privilegi praticati. E nasce dall’episodio narrato nelle prime pagine laddove il nipote di don Fabrizio, Tancredi, scandalizza lo zio annunciando, lui borbonico fino al giorno prima dello sbarco a Marsala dei Mille, di essersi arruolato tra le camicie rosse dei garibaldini. Ma poi rassicura lo zio confessando che in realtà non aveva alcuna voglia di trasformare nulla e che anzi era spinto a cambiare qualcosa affinchè tutto restasse come
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prima. Ecco il camuffamento, ecco il cinico calcolo, ecco il cambiamento di facciata. Il gattopardismo appunto. Ma tutto questo è noto. Il punto che vogliamo mettere in luce è un altro: ma perché don Fabrizio non si indigna per le scorribande politiche del nipote? Lui che in fondo darà più avanti nel romanzo prova di coerenza e di onestà rinunciando alla carica di senatore che gli sarebbe stata offerta senza alcuna contropartita per non tradire il suo passato borbonico? La risposta potrebbe essere questa: don Fabrizio è la facciata elegante, presentabile, forse anche sofferta, di un unico monumento quello che celebra l’impossibilità del cambiamento, deride la vacuità delle speranze di trasformazione, e ridicolizza i sacrifici per le cause quando non le destituisce di ogni fondamento. Insomma Don Fabrizio è la versione riveduta e corretta, attraverso il bon ton di secoli di dominio e le suggestioni di qualche buona lettura, del detto siciliano ‘munnu è e munnu ha statu’ che i latini avevano conosciuto nell’adagio ‘niente di nuovo sotto il sole’. La storia in quest’ottica appare la ripetizione ossessiva di uno stesso ed unico copione: quello del dominio e dell’autoaffermazione egoistica. E’ una visione della storia non solo falsa, ma giustificatoria di ogni rassegnazione, comoda per chi comanda e non vuole essere disturbato. Noi invece ci ostiniamo a pensare che qualcosa di nuovo si è determinato sotto il sole nel corso dei secoli e degli anni. Certo ci capita di vacillare in tale fede quando le cronache ci propongono gli stessi uomini e le stesse logiche per ogni stagione soprattutto nella sfera politica: ma appunto le cronache non la storia, che è cosa ben più seria.
ELEZIONI E FINE DELLE IDEOLOGIE. GARA TRA ELITE COL POPOLO INVITATO A TIFARE O A CONTENDERSI LE BRICIOLE DELLE CENE ALTRUI Le prossime elezioni politiche saranno forse le prime a non connotarsi per una contrapposizione ideologica degli schieramenti in campo. Ci saranno un centro-destra e un centrosinistra, ci saranno i singoli partiti sul proporzionale, ma le loro differenze non si misureranno più attraverso i riferimenti ideologici, con l’unica eccezione di rifondazione comunista. Le elezioni di due anni fa ebbero ancora forti richiami, spesso artificiosi, al comunismo e al fascismo. Adesso invece sembra del tutto assorbito lo scontro di quel tipo. Del resto poco prima dello scioglimento anticipato del parlamento i due schieramenti contrapposti erano sul punto di formare un governo comune e di ridisegnare la nuova carta costituzionale. Come valutare il nuovo scenario deideologizzato? Ci sono aspetti senz’altro positivi. Le scelte politiche diventano meno totalizzanti, il voto solo un momentaneo assenso, il partito un semplice strumento e non il fine della politica. Insomma la fine dei recinti ideologici sembra liberare energie, favorire maggiore disponibilità al confronto al superamento di steccati e pregiudizi. E la politica potrebbe finalmente fare quei passi indietro che un po’ tutti auspicavano dopo anni di soffocante partitocrazia e di politicismo. Ma meno la politica si offre come risposta totale ai problemi della vita associata più rischia di risultare indifferente al cittadino, favorendo spoliticizzazione tra la gente e tecnicismo tra gli addetti ai lavori. E la lotta politica sembra ridursi al gioco di un’ élite di eguale estrazione sociale,
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di eguale stili di vita, con eguali letture e basi spirituali divisa soltanto dal miraggio dell’autoaffermazione e da riferimenti ad interessi momentaneamente contrapposti ma capaci di una futura composizione. In scenari siffatti le quote di società affluente, i cosiddetti due terzi del corpo sociale, orientano le loro scelte politiche in relazione ai gradi di smantellamento del Welfare state e alle promesse di efficienza della macchina amministrativa, perché tutto ciò significa meno tasse e meno pastoie alla libera iniziativa. E questa quota di società occupa la tolda di comando della navigazione politica in ambedue gli schieramenti. La differenza sta nel modo con cui essi vogliono coinvolgere il terzo escluso. Gran parte di quel terzo siamo noi meridionali. Siamo noi che abbiamo ancora bisogno di uno stato solidale, di uno stato che dia occasioni di lavoro e di sviluppo, di uno stato che smantelli i presidi territoriali della criminalità organizzata. Ebbene dobbiamo pretendere dagli uomini che verranno a chiedere il nostro voto non solo una storia personale presentabile, non solo capacità personali e senso del dovere, ma anche proposte chiare e semplici sulle principali questioni della nostra vita associata. Risanamento ambientale, legalità, diritti di cittadinanza, e soprattutto lavoro come occasione di reddito di realizzazione di sè e motivo di appartenenza ad una comunità. Non accontentiamoci di sapere se la mensa in cui saremo invitati ad assaggiare i resti della cena altrui e’ di centro destra o di centro sinistra: dovremmo avere la pretesa di partecipare a pieno titolo non solo a cucinare ma anche a fare la spesa.
IL CONSIGLIERE LOMBARDO O LA LIBERTA’ DAL PENSIERO
La politica, il discorso politico ha un singolare privilegio: può affrontare ogni tipo di argomento e nessuno dei suoi protagonisti pensa che potrebbero non esserci le competenze specifiche. Che ne so: un consigliere comunale può discutere e decidere di sanità pubblica, di urbanistica, di arte o di archeologia, di giurisprudenza, magari irridendo ai saperi specifici, alle persone che hanno dedicato all’argomento decenni di studi, di sacrifici ecc. C’è da dire tuttavia che il politico affronta quei temi in un modo del tutto particolare: si sforza cioè di vedere i riflessi sociali, le ricadute in termini di interessi delle scelte tecniche e da questo punto di vista ha un suo approccio specifico alle questioni, insostituibile almeno nei sistemi democratici. Questo comporta qualche volta degli scivoloni dei politici che si avventurano in campi teorici ai quali non sono avvezzi. Il caso più comico che l’aneddotica racconta è forse quello di un amministratore locale brasiliano che voleva scavare un pozzo in un punto tecnicamente impossibile e davanti alle obiezioni che gli portavano imperniate sulla legge di gravità che impediva il suo progetto ebbe a controbattere che quella legge come tutte le altre poteva essere abrogata. Ci e’ tornata in mente questa storiella seguendo una parte del dibattito al consiglio comunale di Agrigento quando il consigliere Claudio Lombardo si è avventurato a parlare della natura dell’informazione giornalistica, con una competenza specifica proporzionata forse al numero di comunicati da lui inviati ai giornali, ma non ad una riflessione documentata sulla pratica del mestiere di giornalista e sulla deontologia professionale.
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E mentre nessuno accetterebbe l’idea che un paziente dopo alcune visite ambulatoriali, qualche ricetta o qualche impegnativa ricevute possa pretendere di dire lui come si fa il medico, la stessa prudenza non la si richiede quando ci si avventura a giudicare il lavoro del professionista dell’informazione. Ciò accade forse qualche volta per colpa degli stessi giornalisti che non si mostrano abbastanza gelosi del loro mestiere e consapevoli del loro ruolo specifico, ma più spesso per l’insofferenza dei politici che vorrebbero misurare la correttezza dell’informazione con le colonne o i minuti dedicati alle loro performance. Ecco allora che può capitare di assistere allo show del consigliere Lombardo che arriva a sostenere, equivocando ciò che invano ha cercato di spiegargli Enzo Camilleri sul diritto alla parzialita’, che la stampa non solo possa ma debba essere parziale. Si proprio così ha detto e lo ha ribadito sostenendo che ha il dovere di essere parziale, ma non faziosa. Come si debba essere parziali e poi non essere faziosi è un enigma avvolto in un mistero. Ma forse Lombardo voleva dire un’altra cosa , ma non ha dimestichezza con il lessico e la costituzione lo garantisce laddove afferma che nessun cittadino può essere discriminato per la sua lingua. Il punto allora è un altro: ma conosce il Lombardo la legge che regola l’emittenza in Italia? Non sa che all’art. 1 della legge Mammì è sancito solennemente che il pluralismo, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità dell’informazione rappresentano i principi fondamentali del sistema radiotelevisivo? Bisogna pretendere che le TV siano imparziali e un consigliere comunale come qualsiasi cittadino ha il diritto-dovere di sottoporre a critica l’informazione, ma con dati di fatto e circostanze precise. Possibilmente non contraddicendosi come ha fatto il consigliere Lombardo che al pm Miceli afferma che Teleacras sul depuratore ha condotto una accanita campagna contro e in
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consiglio comunale invece afferma che ha cercato di orientare l’opinione pubblica omettendo di affrontare il tema. Qualcuno sostiene che dietro a Lombardo ci sia qualche vecchio che lo ispira e lo orienta. Io credo che non sia vero: per esprimere quel livello culturale è sufficiente l’intelligenza di Lombardo. 15 Marzo 1996
GLI ISTITUTI APERTI ANCHE DI POMERIGGIO. PER FARE COSA E CON CHI? Una circolare del ministro alla pubblica istruzione autorizza, e vorremmo dire sollecita, l’uso pomeridiano delle strutture scolastiche. E’ un provvedimento tardivo ma non per questo meno intelligente: lo Stato prende atto che alcune sue strutture, quelle scolastiche, sono sottoutilizzate appetto ad una domanda di spazi e di luoghi di incontro sempre crescente. Di qui appunto la svolta: si aprano le strutture scolastiche, si offrano al libero sviluppo delle attività culturali e ricreative le aule, i laboratori, le palestre, gli auditoria, le biblioteche ecc.. Certo qualche problema si verrà a creare: personale che manca, necessità di maggiore vigilanza, ma sono problemi di crescita che si possono affrontare senza drammi a meno che non si preferisca fare come quel preside di un istituto magistrale della provincia che si vantava di avere ottomila volumi nella sua biblioteca assolutamente intatti, non capendo di confessare in tal modo un suo fallimento. Coraggio dunque apriamo con entusiasmo gli spazi. Già, ma per far cosa e per offrirli a chi? A chi: agli studenti innanzitutto, a quelli che desiderano un tempo di socializzazione e di approfondimento culturale ben più ampio di quello curriculare. Più ampio e diverso: non si tratta infatti di duplicare nel pomeriggio quello che già si fa la mattina, ma di sperimentare forme e contenuti diversi, alternativi in alcuni casi, integrativi in altri. Cineforum, teatro, fotografia, danza, giornalismo, musica e chissà quante altre attività, svolgendo le quali non si perde tempo ma lo si arricchisce, non si sottrae impegno allo studio ma lo si raffina.
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Ma dare spazi agli studenti non significa abbandonarli alla loro spontaneità: se è sbagliato pensare di organizzare loro tutto, lo è altrettanto pensare che, offerto loro lo spazio, vengano fuori immediatamente le loro capacità autoorganizzative: ci vuole una fase propedeutica in cui gli insegnanti, i gruppi di animatori culturali del territorio, le istituzioni pubbliche i comuni e la Provincia, insieme agli studenti, predispongano un quadro di attività e definiscano gli strumenti, anche finanziari, per attuarla. L’ispirazione che le attività dovranno avere è quella di proiettare gli studenti nel territorio offrire loro una dimensione di studio orizzontale che faccia conoscere e valutare criticamente le articolazioni del contesto locale in cui i giovani vivono che sono diverse da quel sapere verticale che i programmi ministeriali vogliono come patrimonio comune della scuola pubblica. Ma le scuole non appartengono solo agli studenti o ai loro docenti, le scuole sono un patrimonio dei cittadini che debbono poterle utilizzare non soltanto attraverso i loro figli: c’è un bisogno diffuso di sapere, di aggiornamento culturale, di tempo creativo, da sottrarre all’abbrutimento del consumo televisivo domestico, da parte degli adulti che non emerge a sufficienza per l’assenza di credibili risposte e che trova tragitti di realizzazione individualistici e privatistici. Ecco l’occasione straordinaria: utilizzare le scuole per programmare rientri degli adulti tra i banchi, per rompere il cerchio delle solitudini familiari in una nuova dimensione ludico-creativa che abbia appunto negli spazi scolastici il luogo privilegiato di espressione e di realizzazione. La scuola diventerebbe non più il luogo di un tempo della nostra vita ma una dimensione costante dell’esistenza con indubbi vantaggi per la sua qualità. 12 Aprile 1996
SUI GIOVANI L’OMBRA DELLE ANGOSCE DEGLI ADULTI
Avete mai provato a guardare i volti dei ragazzi e delle ragazze mentre discutono tra loro in piazza, nei pub, o nelle scuole? Li avete osservato quando passeggiano per i viali o sfilano coi loro motorini? Avete notato le loro acconciature, i loro indumenti, i loro immancabili occhiali da sole, i loro orecchini? Bene avete trovato in tutto questo i segni delle preoccupazioni, delle angosce che noi adulti pensiamo in loro ogni volta che ce ne occupiamo nelle famiglie, a scuola, sui giornali o nei programmi televisivi? Ho l’impressione che quando parliamo di drammi giovanili, della disperazione degli adolescenti, delle loro inquietudini in realtà trasferiamo su di loro i nostri drammi, le nostre disperazioni e le nostre inquietudini di adulti, di genitori, di persone piu’ o meno responsabili del modo di essere della presente società. Non si vuole dire che il non lavoro è una nostra invenzione, che la sfascio della scuola è un vieto luogo comune, che l’abbrutimento consumistico è una costruzione filosofica di schifiltosi intellettuali frustrati: no tali problemi esistono , ma il loro impatto non è eguale tra gli adulti e tra i diretti interessati ossia i giovani. Noi adulti li drammatizziamo, i giovani ci convivono. E per fortuna, aggiungerei: altrimenti avrebbero molte ragioni per girare le spalle ad una società che non li tratta certo nel migliore dei modi possibili. Forse c’è un segmento di giovani davvero disperante e disperato: gli espulsi dalla scuola, gli emarginati dal lavoro, quelli che non hanno una famiglia che possa loro garantire una sponda, un rifugio: questo segmento non appare nei luoghi che abbiamo citato all’inizio, sta nelle
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periferie, svolge lavori precari contesi dagli extracomunitari, non legge, non va a cinema, naviga nel mare rischioso della illegalità, ciurma da reclutare per manovalanza criminale. Ma anche questo è tutto da verificare perché in realtà va confessato che tale segmento è del tutto sconosciuto nei suoi tratti comportamentali, nella sua cultura o subcultura e la nostra pigrizia intellettuale spesso si accontenta delle frasi fatte piuttosto che riconoscere il vuoto di conoscenza specifica. Si sa che c’è, non si sa cos’è. Un pianeta dunque quello giovanile da esplorare, da interpretare, ma soprattutto da far emergere per quello che è: senza sovrapporvi i nostri desideri e nostre angosce ma anche senza accettazioni acritiche delle loro tendenze, un pianeta con cui interloquire senza lassismi né paternalismi. 19 Aprile 1996
L’ULIVO HA VINTO LE ELEZIONI. CI ASPETTIAMO I CENTO PRIMI GIORNI DEDICATI AL SUD Il voto ha dato la maggioranza alla coalizione dell’Ulivo che dovrà governare l’Italia nei prossimi cinque anni. Almeno tale è la durata formale della legislatura che però negli ultimi vent’anni non è mai stata rispettata. Vedremo se la coalizione vittoriosa saprà reggere all’impatto dei problemi di governo. E non ci riferiamo alle insidie di Rifondazione comunista, nella quale sembrano prevalere le ragioni di saggezza della migliore tradizione della sinistra italiana, quanto invece al versante di centro e di destra della coalizione rappresentato anche da esponenti che nel passato si sono segnalati per stili clientelari, per orizzonti corporativi e per spirito di autoaffermazione. Siamo curiosi di verificare se la serietà e l’affidabilità di cui ha parlato a lungo D’Alema durante la campagna elettorale saranno riconfermate alla prova dei fatti e delle tentazioni del potere. A noi meridionali il nuovo governo ha promesso in campagna elettorale cose importanti. Il lavoro e lo sviluppo sono stati indicati dai leader dell’Ulivo continuamente come priorità:: il rilancio degli investimenti al sud, lo sblocco delle opere pubbliche, il lavoro ai giovani in alternativa al servizio di leva, il risanamento dell’ambiente e la piena valorizzazione delle risorse turistiche: tutto questo lo abbiamo sentito e ci abbiamo creduto. Adesso ci aspettiamo il passaggio dagli slogan ai fatti. Veltroni che tanto guarda alla storia dell’America democratica non mancherà di proporre un New Deal per il sud, una politica dei primi cento giorni centrata su una massa di provvedimenti a favore delle popolazioni meridionali.
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Secondo noi infatti non si tratta di aggiungere un po’ di assistenza per il sud in un programma di governo imperniato sui settori forti dell’economia nazionale: noi pensiamo invece che si debba e si possa mettere il sud al centro del programma del nuovo governo attraverso il rastrellamento di risorse finanziarie straordinarie, l’individuazione di procedure di spesa e di organismi di gestione e controllo che superino i lacci e laccioli della burocrazie e dei vari potentati cresciuti all’ombra dell’assistenzialismo clientelare e che oggi potrebbero nascondersi dietro lo scudo della puntiglioso ossequio delle norme vigenti. Il nuovo governo dovrà nei suoi primi cento giorni restituire ai meridionali i diritti di cittadinanza negati dalla necessità di fare decollare il nord e dalla complice accettazione dei centri di potere mafioso clientelare. Legalità ed efficienza, solidarietà e trasparenza debbono poter camminare insieme attraverso la piena valorizzazione dei nuovi amministratori scelti nelle ultime tornate elettorali e che hanno dato prova di onestà e disinteresse ma anche di impotenza davanti agli ostacoli del potere burocratico e delle limitate risorse finanziarie. Nel passato i governi di Roma abbandonavano ai loro ascari il sud per avere il loro voto garantito in parlamento: la gente del sud ha pagato per tali patti scellerati. Se ne facciano di nuovi coi sindaci e i movimenti e i partiti che vogliono ambiare il volto del sud. Non c’è da temere il ricatto leghista perché se si mette mano ad un serio e rigoroso riordino del sud, attraverso la legalità e l’efficienza, attraverso la piena utilizzazione delle risorse locali, le stesse ragion d’essere della Lega verranno meno. A quel punto il sud camminerà da solo ma adesso ha ancora bisogno del girello statale. 26 Aprile 1996
LAVORARE STANCA. NON LAVORARE NON RENDE CERTO GIULIVI Lavorare stanca, ce lo ricordava un poeta evocando sudori biblici cui gli uomini sarebbero condannati dopo nascite dolorose. Ma il non lavorare non rende giulivi e pieni di energie. Lo possono testimoniare i milioni di disoccupati che in Italia e in Europa costituiscono oggi la contraddizione più vistosa delle magnifiche sorti e progressive della compiaciuta società opulenta. Ma il fenomeno non si presente ovunque nello stesso modo e con la stessa drammaticità. Nel nord-est del nostro paese le aziende cercano affannosamente i lavoratori e non li trovano se non ricorrendo a immigrati anche austriaci. Nel sud un giovane su due non trova lavoro e va perdendo la stessa speranza di trovarlo. E si tratta per lo più di giovani diplomati e laureati, di donne. Perché succede questo? Come si può cambiare la realtà? Succede questo perché è venuto a conclusione un sistema economico basato soprattutto sull’assistenzialismo dello Stato che oggi non è più praticabile. Il sud attraverso l’impiego pubblico gonfiato, attraverso le opere pubbliche inutili, attraverso finanziamenti clientelari e senza alcun controllo di qualità e di efficacia, ha avuto nel passato qualche opportunità di reddito e di lavoro ma ha contribuito a dissanguare la casse dello stato, il cui debito supera i due milioni di miliardi di lire, e a spingere la maggioranza relativa delle popolazioni del nord a votare per i programmi secessionisti di Bossi. La cosa può indignarci, può offendere il nostro spirito patriottico, ma davanti ai numeri non basta evocare Garibaldi, bisogna rispondere con numeri più convincenti, certo meglio se poi accom-
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pagnati da mitiche camice rosse. Dunque pensare di ripetere quello che abbiamo fatto negli ultimi decenni è una pura follia o un imbroglio. Ci sono regioni meridionali o parti di esse che in alternativa all’assistenzialismo pubblico hanno innescato processi produttivi autonomi valorizzando risorse locali e intelligenze vivaci e si trovano oggi a competere con quelle del nord: pensiamo alle Marche ad una parte della Puglia o della Basilicata e dell’Abruzzo. Dunque non è il nostro essere meridionali che ci impedisce di andare avanti con le nostre forze. Qualcuno ci è riuscito, lo possiamo provare tutti. Ma a quali condizioni? Innanzitutto selezionando gruppi dirigenti politici che abbiamo piena consapevolezza della necessità di rompere con le logiche del passato: non più edilizia e opere pubbliche al centro di tutto, non più finanziamenti pubblici come volano di tutto, non più assistenza come richiesta fondamentale. Turiddu Malogioglio con il suo mitico giornale “La Scopa” diceva: abbiamo la restuccia facciamo fabbriche di carta, abbiamo la frutta facciamo le conserve. Indicava cioè uno sviluppo fondato sulle nostre risorse. E qui abbiamo beni culturali, abbiamo un settore agricolo interessante che ha già dato prova di vivacità e di inventiva, abbiamo un settore turistico che potrebbe decollare. Abbiamo risorse, ma questo non basta, così come non è bastato a certi paese arabi avere risorse nel sottosuolo per avviare uno sviluppo. Bisogna avere le capacità di progettazione e di programmazione: guardiamo al ceto politico che si agita tanto: cosa propone? cosa ci dice di nuovo, quale credibilità e’ in grado di offrire ai diffidenti settentrionali che vorrebbero magari riavviare un nuovo rapporto col sud ma temono di non avere interlocutori credibili? Insomma ci vogliono idee, uomini nuovi e logiche diverse da quelle del passato. In tutti gli schieramenti politici e nella società civile. Siamo pronti a rischiare? O ci accontentiamo di stare al sicuro nel nostro orticello? Nel giro consueto dei nostri
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amici che magari non risolveranno i problemi del sud ma che al momento opportuno ci seguiranno quella pratica personale? 3 Maggio 1996
IL PARADOSSO DELLA LEGA: VUOLE ELIMINARE LE CONDIZIONI DEL SUO BENESSERE C’è qualcosa di paradossale nella Lega nord. Essa ci propone un caso inedito nella storia del’umanità: la frantumazione di un aggregato politico non gia’ perché la sua parte più debole non ci sta, ma al contrario perché quella più forte non vuole più esercitare il dominio. E paradosso nel paradosso la sua parte più debole diventa quella che più invoca l’aggregazione, il tessuto unitario. E come se nel settecento non già gli americani ma gli inglesi avessero voluto staccarsi dai coloni oltreoceano o come se non già gli Irlandesi ma gli stessi inglesi avessero reclamato l’indipendenza dell’Irlanda o ancora non Gandhi ma la corona di Inghilterra l’indipendenza dell’India e gli Indiani a invocare l’unità con l’Impero. La storia ci ha insegnato che il più forte cerca di conquistare il più debole e che questi appena può cerca di liberarsi dal giogo. Ma oggi le parti si rovesciano: è il forte che dice non voglio più sfruttare il debole, non ho più alcuna convenienza a dominarlo. E certo se noi rispondiamo dicendo che l’Italia è bella, che la patria ci commuove che insomma vogliamo comunque stare insieme rischiamo di dare la prova che è tutta nostra la convenienza a restare uniti quando invece la storia ci insegna che è vero il contrario. Cinquant’anni fa i Siciliani tentarono il separatismo poi si accontentarono dell’autonomia speciale. La Loggia ed altri meridionalisti avevano dimostrato come l’iniquo patto nazionale comportasse un drenaggio di risorse dal sud a favore del nord mentre lo stato trascurava i cittadini meridionali, riservando loro meno risorse e attenzioni.
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Oggi il discorso è rovesciato: il nord invece di proporsi all’espiazione per i privilegi accumulati in decenni di sfruttamento del lavoro e delle risorse meridionali, li esibisce, li pretende senza sensi di colpa, tutt’al piu’ con una pelosetta propensione a non cacciare chi volesse raccogliere i resti della sua cena; sostiene che il sud non fa altro che consumare gran parte dei suoi redditi attraverso la mediazione delle tasse di Roma che toglie ai ricchi settentrionali per dare appunto ai poveri meridionali. Cosa possiamo rispondere? Innanzitutto che non possiamo essere cornuti e mazziati: la loro ricchezza è il frutto del nostro secolare sfruttamento e adesso che ricchi sono ci dicono che siamo una palla al piede. Ma questo non basta. Dobbiamo poter dire che anche noi ci siamo stancati di assistenza e di illegalità, di mafia e di corruzione e che siamo pronti come 136 anni fa ad accogliere un nuovo sbarco dei mille: non di mille miliardi, ma di mille uomini,di mille intelligenze e modelli organizzativi, che siamo pronti a scrivere un nuovo patto nazionale e che del resto abbiamo sacrificato vite, intelligenze ed energie per voltare pagina e che sarebbe un vero tradimento oggi quando si sono recisi i legami tra amministratori e mafia tra politici e corruzione, tra imprenditori e finanziamenti pubblici non portare l’appoggio del gran lombardo che fino a ieri invocava tali nostre scelte. Ma come: fino a quando i Riina e compagni spadroneggiavano in Sicilia, fino a quando i Lima e amici monopolizzavano il potere l’operosa Padania nutriva sentimenti nazionali e adesso che tutto questo è scomparso ci gira le spalle? C’era un uccello che aveva da poco imparato a volare e ogni giorno allungava il tragitto e intensificava la velocità. Notava che le ali sbattevano nell’aria e pensò che senza di essa, senza la sua resistenza potesse volare di più e meglio. Andò in un luogo vuoto d’aria si lanciò, ebbe appena il tempo di intuire l’inganno che si sfracello’ al suolo. L’aria non è un ostacolo: è la condizione del volo. 10 Maggio 1996
LE DUE, TRE COSE CHE HO FATTO A TELEACRAS
Inizio a collaborare con Teleacras nel 1983 quando organizzo e conduco la prima non-stop elettorale in occasione delle elezioni politiche di quell’anno. Si intitolava DECIMA ORA, un programma in diretta con Mario Gaziano, che ne fu coautore, ed Egidio Terrana, durato oltre dodici ore consecutive. Io stavo in studio a coordinare la raccolta e il commento dei dati elettorali attraverso una rete di collaboratori esterni e di ospiti. Continuo da esterno a collaborare preparando il documentario I GIORNI DELL’EMERGENZA AD AGRIGENTO in occasione del quarantennale dello sbarco degli Alleati in Sicilia. Riesco a produrre quattro puntate, di 45-50 minuti ciascuna, che trasmetto tra l’autunno e l’inverno 83-84, facendo seguire ad ogni filmato un dibattito in studio. Il successo è notevole, tra l’altro tale programma viene acquistato dalla Regione e inviato ai Distretti scolastici della provincia e dalla Provincia per gli Istituti superiori. Gli editori mi invitano a proporre altri programmi e ad avere un rapporto continuativo con la televisione. Da quel momento in poi la mia collaborazione diventa costante ed interna. Organizzo alcune trasmissioni, IO VEDO TELEACRAS, BAR SPORT, conduco un’altra non-stop elettorale in occasione delle elezioni europee del 1984, definisco e avvio un talk-show settimanale DRITTO E ROVESCIO, curato e condotto da me, che si protrarrà fino al febbraio del 1985 Il direttore dell’emittente è ancora Franco Chibbaro e tuttavia sono io a curare tutti i dettagli organizzativi dei programmi suddetti (collaboratori, conduttori, scenografia
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ecc. ecc.). Giovanni Moscato conduce IO VEDO TELEACRAS, trasmissione quotidiana da me ideata e coordinata, mentre BAR SPORT ha una conduzione multipla sempre coordinata da me. Contatto gli scenografi, predispongo le sigle ecc. Alla fine del 1984 Franco Chibbaro, direttore responsabile di Teleacras e della sua testata giornalistica, viene assunto dal Giornale di Sicilia e così si rende disponibile il posto di direttore di Teleacras. E’ da quel momento che ricevo l’incarico di dirigere, di fatto, l’emittente. Ogni giorno produciamo due edizioni di VG in diretta e una serie di programmi. Il direttore responsabile della testata giornalistica resta formalmente Franco Chibbaro, che frequenta la nostra redazione saltuariamente. Organizzo, da direttore di fatto, tutti i servizi giornalistici: le edizioni del VG e alcune trasmissioni periodiche come OSSERVATORIO SPORTIVO, che conduce Carmelo Sardo, o BAR SPORT condotta da Sardo, prima, e da Luigi Galluzzo, l’anno successivo, mentre direttamente conduco DRITTO E ROVESCIO. Nel 1985 organizzo un’altra no-stop elettorale, questa volta relativa alle comunali, con collegamenti in diretta multipli e svariati ospiti in studio dalle 14.00 fino all’indomani attorno alle 5 del mattino. Di tali non-stop ero il solo organizzatore ed ideatore, collaborato per la parte dello spettacolo da Mario Gaziano e nella conduzione da Egidio Terrana. Organizzo da direttore dell’emittente i turni di lavoro dei collaboratori, le tecniche delle riprese e dei montaggi, il palinsesto, le sigle e i criteri di raccolta della pubblicità, l’efficienza degli apparati e quant’altro risultasse necessario alla conduzione di un’emittente in piena crescita. Non mi curo degli aspetti amministrativi e degli acquisti che restano sotto il controllo dell'Impresem e degli editori.
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A metà del 1986 un’altra non-stop elettorale per le Regionali con la solita trasmissione fiume organizzata e condotta sempre da me, dalle sette del mattino fino alle ventidue circa, ininterrottamente. Nel frattempo riesco a mettere su il sistema dei collegamenti diretti con Consigli comunali e provinciali, ma anche con eventi che di volta in volta ritengo meritevoli: per esempio le Sagre del Mandorlo o i Convegni pirandelliani o l’Efebo d’oro ecc. Tra la primavera e l’autunno di quell’anno avvio due nuove trasmissioni da me ideate e organizzate nei dettagli : La DOMENICA DEL VILLAGGIO e REPORTAGE : per la prima do la conduzione a Luigi Galluzzo, conduco io la seconda. L’impegno di lavoro diventa asfissiante: tutti i giorni sistematicamente in TV a preparare le due edizioni del VG con una formula sempre più innovativa e con una speaker nuova, Alessandra Salemi, da me selezionata e preparata, e con due giovani giornalisti Carmelo Sardo e Luigi Galluzzo che vanno crescendo sempre di più; ogni settimana la confezione e la presentazione del settimanale REPORTAGE e la preparazione di LA DOMENICA DEL VILLAGGIO che poi seguivo in diretta. Preparo anche, per l’estate del 1986, un documentario in occasione del ventesimo anniversario della frana di Agrigento (19 luglio 1966): tale documentario riceverà nel gennaio successivo il primo premio per la sezione televisiva in un concorso nazionale organizzata dalla Amministrazione provinciale di Catania in memoria di Pippo Fava. Dal dicembre 1986 al maggio 1987 accetto una consulenza propostami da Michele Guardì per la nuova trasmissione di Raiuno intitolata UNOMATTINA per la quale curo una rubrica scrivendone i testi. Nel maggio del 1987, prima ancora che mi scadesse il contratto di consulenza con la RAI, gli editori di Teleacras, mi proposero di ritornare stabilmente ad Agrigento per riprendere pienamente il mio ruolo e per rilanciare ulteriormente l’emittente.
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Accettai la sollecitazione rinunciando ad una carriera nazionale che mi si prospettava, con rammarico di Michele Guardì che su di me puntava molto: lo ha rivelato lo stesso Michele in occasione della presentazione del mio libro PASSAGGIO A SUDOVEST. Siamo alla vigilia delle elezioni politiche del 1987 e organizzo la ripresa piena della produzione giornalistica e generale dell’emittente. Per prima cosa avvio un ciclo di incontri negli studi di Teleacras che ancora si trovavano alla Rupe Atenea, con tutti i capilista della Sicilia occidentale: sfilano nei nostri studi Achille Occhetto, Marco Pannella, Claudio Martelli, Calogero Mannino, Carlo Vizzini ed altri, che metto a confronto con un gruppo di cittadini, sempre diversi, in un ciclo di trasmissioni intitolato I LEADER E LA GENTE da me ideato, organizzato e condotto, ciascuna delle quali durava in media un’ora e trenta. La solita trasmissione non-stop di oltre quattordici ore in diretta per lo spoglio dei risultati delle politiche dalle 14.00 alle alle 4.00 del mattino successivo, sempre organizzata e condotta da me. Dopo l’estate porto a cinque le edizioni del VG e produco altri spazi giornalistici quali OGNIMEZZORA NOTIZIE, sorta di televideo quotidiano, e i settimanali REPORTAGE curato da Luigi Galluzzo, L’ARGOMENTO condotto da Franco Chibbaro, OSSERVATORIO SPORTIVO curato da Carmelo Sardo, VGDOMENICA condotto da Enzo Nocera: si tratta di trasmissioni ideate da me e coordinate da me in tutti i loro aspetti. Il che comportava ogni giorno un lavoro aggiuntivo a quello della pura direzione del VG che peraltro diventava sempre più professionalizzato. Arrivano nuovi collaboratori in redazione: Salvatore Gilotti, Lorenzo Rosso, Angelo Gallo Carrabba. Da sottolineare che riesco a fare collaborare gratuitamente, con il nostro rotocalco REPORTAGE firme quali Attilio Bolzoni, Felice Cavallaro, Gaetano Savatteri. Mi do da fare per trovare un inserimento di Teleacras
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in un circuito nazionale. Riesco in tale intento facendo risparmiare decine di milioni all’emittente e qualificandone l’immagine attraverso personali contatti avuti con TIVUITALIA, sindacation con sede a Roma dove mi recherò, alla fine di quell’anno, a firmare il relativo contratto. Intanto divento anche formalmente direttore responsabile della testata giornalistica di Teleacras nel gennaio del 1988. Nella primavera di quell’anno due nuovi programmi: MISS GRADENKO condotto dalla cara e indimenticabile Laura Cuffaro, sempre ideato da me e da me proposto a Laura e OCCHIO AL VG, da un’altra mia idea e questa volta condotto da me a giorni alterni dopo il VG delle 20.10 in diretta fino alle 22.00. Nel frattempo la sede dell’emittente si era trasferita da Rupe Atenea a Monserrato. Oltre alle sopracitate attività giornalistiche e dirigenziali riesco a convincere gli editori ad inquadrare tutto il personale secondo le modalità previste dai contratti nazionali di lavoro: è uno dei miei principali vanti: quello di essere riuscito a dare normalità contrattuale ai giovani tecnici e ai giornalisti di Teleacras, unico esempio in provincia e tra i pochissimi in Sicilia. Studio i contratti di categoria, prendo contatti con la FRT ( l’associazione delle imprese televisive private) e riesco a far accettare Teleacras in FRT e nella qualità di responsabile dell’emittente partecipo a numerose assemblee della Federazione a Roma in via Regina Margherita. Due nuove trasmissioni periodiche nel frattempo vengono ad arricchire il palinsesto giornalistico: EFFETTI DEL BUONO E DEL CATTIVO GOVERNO condotta da Enzo Nocera e Marilù Calderaro e GLI SPECIALI DEL VENERDI’ curato e condotto da me. Nel frattempo faccio cambiare il marchietto di Teleacras: l’attuale farfalla stilizzata, opera artistica di Laura Cuffaro, è il frutto di una mia iniziativa. Dalla promulgazione della legge Mammì (1990) in poi fino al rilascio della concessione, ho fatto la spola tra Agri-
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gento Roma e Milano per predisporre tutto il necessario per la relativa pratica. Sul piano della produzione giornalistica gli anni 198990-91-92-93-94 e primo semestre del 1995 sono anni di grande impegno e di altrettanto grande soddisfazione: il videogiornale cresce enormemente in prestigio ed autorevolezza: il Corriere della Sera nel 1990 mi dedica una lunga intervista a firma di Maurizio Chierici e la Repubblica mi cita in diversi servizi di Attilio Bolzoni. Nel 1994 un nostro servizio sulla mafia agrigentina, firmato da Carmelo Sardo e Alfredo Conti, riceve il premio nazionale della rivista MILLECANALI e nel febbraio del 1996 dalla stessa rivista il VG viene riconosciuto tra i migliori di Italia. Vorrei segnalare oltre le ormai note trasmissioni Nonstop per le elezioni, gli Speciali preparatori delle elezioni: nel ‘91 ho ideato, curato e condotto un ciclo di trasmissioni intitolato VOTA E FAI VOTARE che ho registrato nella hall dell’hotel Kaos di Agrigento, per le politiche del ‘92 un ciclo di incontri nelle abitazioni dei capilista della Sicilia occidentale intitolato CONVERSAZIONI SULLA SICILIA, per le comunali del ‘93 SOTTO A CHI TOCCA e I DUELLANTI. Tutto questo si aggiungeva al lavoro di preparazione e direzione del VG che nel frattempo arricchivo di due nuove edizioni alle 19.00 e alle 22.30 e ai nuovi impegni televisivi giornalistici che mi vedono in video tutte le settimane con GLI SPECIALI DEL VENERDI’ (1991), AGORA’ (1992) o tutti i giorni come in LINEANOTTE (‘93-94-95). Mi dimetto da direttore di Teleacras il 30 giugno 1995. La ragione formale delle dimissioni era un nuovo incarico istituzionale, che avevo ricevuto dal Presidente della Provincia Stefano Vivacqua, come consulente per la comunicazione e per le iniziative culturali. In realtà ero consapevole della chiusura di quel ciclo politico culturale che aveva consentito l'eccezionale esperienza giornalistica a e con Teleacras.
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Post scriptum Vorrei ricordare alcuni nomi di collaboratori di quegli anni non citati nelle pagine precedenti. Sandra Scicolone, oggi docente di Latino e Greco all' Empedocle di Agrigento. Maria Serena Rizzo, oggi archeologa. Nino Di Geronimo, oggi direttore dell'Agenzia delle Entrate in Calabria. Giandomenico Vivacqua. Angelo Gallo Carrabba, oggi vice prefetto. Salvatore Mandracchia. Tano Siracusa. Nicola Madonia. Elvira Terranova, giornalista professionista. Massimo D'Antoni, giornalista professionista. Giancarlo Macaluso, giornalista professionista. S.E. Mons. Carmelo Ferraro. G.T.
LA SICILIA TERMOMETRO DEL PAESE di Antonio Lubrano
C’è modo e modo di essere isolano? In televisione sono sempre stato l’uomo delle domande inutili (perché in questo Paese non risponde mai nessuno) ma un simile interrogativo mi intriga come persona e come isolano. Per esempio, l’aspirazione alla libertà assoluta, di pensiero, di parola e fisica, è identica o ha una maggiore o minore intensità a seconda della dimensione geografica del luogo di nascita? Io sono nato a Procida, un’isola (per chi non lo sapesse ancora) del Golfo di Napoli che misura sì e no quattro chilometri quadrati. Per tutta la primissima parte della mia vita ho sentito l’isola come una prigione, il mare inflessibile carceriere. E non vedevo l’ora a 18 anni di evadere. Come accade del resto a quasi tutti i procidani, che perciò sono naviganti, capitani e macchinisti in prevalenza. Per la verità l’istinto della libertà ce lo abbiamo nel DNA. Infatti, quando nasce un bambino nella mia isola, al momento del taglio del cordone ombelicale c’è sempre un vecchio che pronuncia la frase fatidica: “E’ nato nu sciuòntere ‘e mamma”. Dove sciuòntere sta per sciolto, per uomo libero da qualsiasi vincolo. Allora io mi domando: un inglese, un siciliano – la Sicilia e la Gran Bretagna sono isole-continente – nutrono nella stessa misura il desiderio dell’indipendenza assoluta, dell’essere sciolti (appunto) da ogni legame? L’autonomia istituzionale coincide insomma con l’autonomia personale? Una possibile soluzione del dubbio (se volete peregrino) me l’ha fornita Giovanni Taglialavoro quando mi ha spiegato che esistono almeno due tipi di siciliani: “quelli di scoglio e quelli di mare”. I primi sono abbarbicati all’isola e non si muoverebbero per tutto l’oro del mondo,
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i secondi invece dimostrano di essere preda del sentimento dirompente andando via dalla Sicilia. Una volta fuori però – e qui ho trovato il punto d’incontro fra la minuscola Procida e l’immensa Sicilia – si ammalano, di un morbo speciale che non provoca febbre: la malìa dello scoglio. Si può andare al Polo Nord o al Polo Sud, si può vivere fuori dalle appartenenze politiche o familiari e quindi assolutamente liberi, ma prima o poi la malìa dello scoglio ti raggiunge. E ti stringe il cuore in un pugno. Ecco, io credo che sia giusto a questo punto individuare in Giovanni Taglialavoro il malato ideale. Lo conosco da circa quattro anni, da quando mi sono imbarcato sulla nave televisiva di Michele Guardì, Mattina in famiglia, che naviga nei mari di Raidue. Giovanni è il coordinatore del programma e il punto di riferimento, autore lui stesso, degli autori, fra cui il sottoscritto. E ci siamo sentiti subito amici, nel senso che Goethe ha ragione quando parla delle affinità elettive. Di lui mi colpisce sempre la grande serenità (talvolta immagino solo apparente), la passione che mette in ogni discussione, quel modo di sorridere sopra i baffi e non sotto, in maniera schietta voglio dire; e il gusto per tutto ciò che è televisione. Perché non tutti i fatti, non tutti i temi “sono” televisione e chi fa programmi di intrattenimento deve saper distinguere, con la convinzione che in tivu anche il giornalismo è spettacolo, non può essere diversamente. La redazione di Mattina in famiglia si trova al terzo piano della palazzina di via Teulada, sede storica di programmi e di telegiornali (quest’ultimi trasferiti da tempo a Saxa Rubra, un po’ fuori Roma) e la stanza del “capo” è la terz’ultima a destra di un lungo corridoio. Ogni tanto la stanza (un ambiente disadorno, conventuale quasi) è vuota. E tutti sappiamo senza dircelo esplicitamente che Giovanni è andato ad Agrigento. Mi ricordo che una volta passando davanti al vuoto temporaneo ho sentito risuonare le note della celeberrima canzone di Madonna, “Don't cry for me Argentina” e m’è venuto di ripetere mental-
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mente “Don't cry for me Agrigento”, scoprendo che metricamente Agrigento ci sta, può sostituire nel brano, così struggente, la grande nazione sudamericana. Più malato di così? E l’amore per Agrigento prende forma e spessore da ogni parola di questo libro. I fatti che registra appartengono a un passato assai prossimo, gli Anni Novanta, e scorrendoli vediamo passare davanti agli occhi frammenti di storia nazionale, come quando in televisione le immagini di repertorio ci restituiscono episodi e personaggi di un ieri che abbiamo appena dimenticato. Dal suo “piccolo” osservatorio (lui stesso tende continuamente a ridimensionarlo), Taglialavoro commenta storie di rilevanza italiana ma con l’aria di raccontare cose di casa. A conferma del fatto che la Sicilia, come Napoli del resto, è un termometro del Paese, espressione e sintesi dei mali nazionali. L’amore per Agrigento, ho detto. Be’, adesso non sarò certo io a scoprire che c’è modo e modo di essere siciliani oltre che isolani. Ho amici catanesi come Leo Gullotta e palermitani come Pino Caruso, in televisione poi ha messo radici una intera colonia di agrigentini e quindi avverto le differenze, che poi gli stessi appartenenti alle varie identità evidenziano con ironia. In Giovanni Taglialavoro questo orgoglio dell’acras è talmente forte che ancora prima di Borges (nientemeno!), di Lamberto Tassinari e Domenico Seminerio, ha condotto lunghe ricerche per dimostrare che persino Shakespeare è nato all’ombra dei Templi, a tre passi da casa sua. Qualche tempo fa sono andato a sentire Matteo Collura, altro agrigentino, alla Libreria Archivi del 900 di Milano. Presentava il suo ultimo saggio, L’isola senza ponte e mi ha affascinato il suo discorso sulle identità dei siciliani e sul perché, partendo dal Gattopardo, si può e si deve parlare – in linea con scrittori del calibro di Bufalino o di Sciascia – di Sicilia “irredimibile”. Ecco, Giovanni Taglialavoro è un irredimibile esemplare.
UNA STAGIONE IRRIPETIBILE di Luigi Galluzzo
Sudovest siamo noi. E’ il sogno che abbiamo sognato quando era ancora elettrizzante sognare, è la speranza che abbiamo nutrito di capire qualcosa di questo mondo e di questa vita dove ci si arrabatta spesso invano. E’ un modello di etica, di comportamento, di conoscenza che abbiamo appreso nella pratica quotidiana. Devo molto a Giovanni Taglialavoro, devo a lui la lezione di onestà intellettuale, l’amore per la verità e la voglia di comprendere le cose. Sudovest è stato per noi che vi abbiamo vissuto dentro una stagione irripetibile per come abbiamo affrontato il magma incandescente di una storia che forse non avrà avuto il lieto fine che volevamo, ma che in ogni caso ci ha insegnato ad essere uomini. Sudovest è un mondo ormai lontano e forse un po’ perduto, nel senso che sta nei margini della storia senza grandi speranze di redenzione. Eppure tutte le volte che torno con il pensiero a quella stagione della vita so di aver partecipato ad una meravigliosa avventura. Chi leggerà oggi la serie di articoli che Giovanni ha scritto allora vi troverà intatta l’essenza stessa del problema, potrà conoscere il mondo che sta a Sudovest come lo abbiamo conosciuto noi e come è ancora. Perché vi si tratta di eterne questioni e lo si fa con l’acutezza sentimentale delle anime candide che spendono tutto il loro candore nel tentativo mai domo di aiutarsi e aiutarci a capire. Personalmente ho capito molte cose in quegli anni e la maggior parte le ho capite proprio grazie all’acume ed alle intuizione mai banali di Giovanni, il Direttore. Ma rileggerle ora quelle pagine ha una doppia funzione, di no-
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stalgia, è questo è un dato privato; e di ulteriore comprensione della storia, è questo è più pubblico. Con la lungimiranza che hanno solo le persone veramente intelligenti Giovanni aveva capito già allora, e ci ha insegnato, ci insegna ancora, che Sudovest non è un punto lontano, non è la periferia dell’impero o della storia, Sudovest è qui ed ora, come direbbe Calvino; è l’inferno che viviamo quotidianamente in questa terra. E si conoscono solo due modi per affrontarlo, quest’inferno: il primo è di entrare a farne parte, mimettizzarvisi dentro fino a non vederlo più, è ciò è comune ai molti; il secondo appartiene ai pochi, ad una minoranza, ed è di cercare cosa in questo inferno non sia inferno e farlo vivere, dargli spazio. E’ ciò che ha fatto è fa Giovanni, da sempre, con le cose che scrive, con il suo modello di giornalismo. Per questo gli siamo grati.
FURONO ANNI MERAVIGLIOSI di Carmelo Sardo
Rileggere gli editoriali e i commenti di Giovanni Taglialavoro, per chi come me ha vissuto al suo fianco quegli anni indimenticabili, e’ un po’ come sfogliare l’album fotografico di una vita. Ogni pagina e’ come una foto: conosco ogni dettaglio, ogni sfumatura, e fatalmente l’anima avvampa di un’emozione forte e avviluppante, come quando ci si rivede nello scatto sbiadito con la chioma ancora fluente e la faccia acerba. Mi succede questo quando ripercorro con la memoria quel tempo cosi’ lontano ma cosi’ presente, che torna e ritorna come i bagliori del primo amore, e tasti ancor oggi nelle mille sfaccettature professionali, quando attingi dal bagaglio senza fondo di quell’esperienza irripetibile. Confesso che ancora adesso non passa giorno nel mio lavoro senza che mi capiti di far tesoro di quanto ho imparato durante la mia formazione a Teleacras. Nel mondo giornalistico, i vecchi marpioni della penna, non si stancano mai di ripetere che le migliori scuole per fare questo lavoro sono il sud e le tv private. Io ho avuto la “fortuna” di crescere nell’ultimo lembo del sud d’Italia e di cominciare questo lavoro nella redazione di una tv privata. Ma a posteriori posso dire, senza timor di smentita, che il sud e la tv privata non sarebbero bastati se il mio destino non avesse avuto la fortuna, quella si’ senza virgolette, di incrociarsi con quello di Giovanni Taglialavoro e di un gruppo di ragazzi formidabile. Un giorno di qualche anno fa, quando ero gia’ diventato un volto nazionale (passatemi l’autocitazione !), un collega agrigentino durante una manifestazione pubblica intervistandomi puntualizzò come Teleacras avesse formato
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grandi professionisti del giornalismo. Chiosai che semmai era vero il contrario, e con malcelato orgoglio rivendicai che erano stati un direttore e un gruppo di giovani a creare Teleacras, a prenderla per mano e a trasformarla in una tra le piu’ seguite e apprezzate tv private siciliane. So di non impantanarmi nella retorica, perche’ sono confortato da dati oggettivi, se qui ricordo che quando spuntò Taglialavoro a Teleacras, i miei acerbi 24 anni erano ingolfati in una scrittura ancora macchinosa e farcita delle ampollosita’ dei luoghi comuni. Era un’epoca in cui per annunciare la prossima riunione del consiglio comunale si diceva “Avra’ luogo la seduta del…..”.; un arresto in flagranza di reato diventava “e’ stato colto con le mani nel sacco e sono scattate le manette”. E gli incidenti stradali erano sempre “spettacolari” e causati spesso “dall’asfalto reso viscido dalla pioggia”. Del resto, anche i tg nazionali traboccavano di linguaggi stanchi e vecchi, e ridondavano di “presidenti della repubblica che fanno il proprio ingresso”, di “condizioni meteo avverse per una perturbazione atlantica”, e cosi’ via. Se su scala nazionale il linguaggio dei tg per sganciarsi dalle frasi fatte e migliorare dovette aspettare l’avvento di Enrico Mentana e del suo tg5 che trasformò subito, gia’ dai titoli, le “condizioni meteo avverse” con piu’ squillanti e popolari “preparatevi, arriva il freddo!”, molto piu’ modestamente noi di Teleacras anticipammo i tempi grazie a Taglialavoro. E capito’ piu’ di una volta che su un argomento di grande rilievo il titolo che confezionava Giovanni per il nostro vg della sera era lo stesso che l’indomani avremmo letto sulle prime pagine di “Repubblica” o del “Corsera”. Avvezzo alla didattica per la sua principale professione di insegnante, ricordo ancora nitida e chiara la sua faccia quando gli presentai il mio primo pezzo: un servizio sull’apertura del maxi processo alla mafia, nel 1986. Due cartelle e mezzo per raccontare quello che si sarebbe potuto dire in una sola con le correzioni che fece
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lui, cancellando enfasi e soprattutto i ripetitivi e stanchi luoghi comuni e frasi fatte. Come i grandi allenatori di calcio, Taglialavoro ha avuto il grande merito di saper tirare fuori il meglio di ciascuno di noi. Ma qui sarebbe riduttivo rimarcarne i pregi solo in rapporto alla crescita professionale di quel gruppo di giovani, giornalisti e tecnici. Non c’era settore in “quella” Teleacras dove Taglialavoro non fosse intervenuto con il suo formidabile intuito innovativo. Comincio’ dai fondamentali. Nella registrazione di un’intervista per il video-giornale, per esempio, indottrinava l’operatore sul taglio di ripresa, e il cronista sulla posizione che doveva assumere: mai a fianco dell’interlocutore da intervistare, ma dando quasi le spalle alla telecamera nel porgere la domanda. Introdusse per la prima volta nella storia di Teleacras la ripresa delle partite di calcio, di pallavolo, di pallacanestro, con due-tre telecamere e istruì il regista su come piazzare le camere per esaltare le riprese. Lo guardavo ammirato e sbalordito quando ci illustrava i tanti programmi che inventò. Ne curava ogni dettaglio. Dal titolo ai contenuti, dalla regia ai testi. Non gli sfuggiva niente. Impeccabile anche quando si trattava di allestire le non-stop elettorali: uno sforzo immane per coprire una diretta che si sapeva quando cominciava ma non si sapeva quando finiva. E come un navigato autore televisivo, non si concentrava solo sull’allestimento di programmi di approfondimento giornalistico o di taglio politico. Estrasse idee che soddisfecero anche i gusti di tutte le tipologie possibili di telespettatori. Perche’ sapeva che una tv popolare, di provincia, una tv commerciale, non poteva non rivolgersi a tutti, anche per garantirsi quegli introiti pubblicitari che avrebbero permesso, assieme alla generosita’ e alla lungimiranza degli editori, di far crescere la struttura e con essa tutti noi. Fu una grande sfida, in una citta’ sonnecchiosa che non era abituata a sentirsi raccontare i fatti come li raccontavamo noi. Non era abituata a quel certo
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modo di fare televisione che sperimento’ Taglialavoro. Non era abituata soprattutto una certa fetta di politica a sentirsi spiattellare i problemi irrisolti, i ritardi e le incongruenze, con un atteggiamento da parte nostra tutt’altro che servile. Perfino l’idea di Taglialavoro di trasmettere integralmente le sedute dei consigli comunali divenne un programma di successo, che in piu’ di un’occasione dava fastidio a certi amministratori. Selezionò poi una squadra di collaboratori eccellente. Si assicurò il contributo di prestigiose firme del giornalismo nazionale. Dietro al suo microfono si alternarono tutti i politici di rilievo del paese. Furono anni meravigliosi. Irripetibili. Un’esperienza straordinaria per tutti noi. Giovanni, bonta’ sua, amava ripetere quando ci vide ormai maturi professionalmente, che i suoi giovani giornalisti erano pronti per ben figurare in qualsiasi telegiornale nazionale. Be’, a rileggere a posteriori quell’auspicio, visti i risultati, il suo intuito e’ stato ampiamente premiato. Un destino complice, anni dopo ci ha riuniti a Roma. Io al tg5, Luigi Galluzzo a Studio Aperto, Francesco Taglialavoro a Rainews24, e lui, Giovanni, coordinatore degli autori di uno dei programmi di intrattenimento di maggior successo della Rai. Ci capita spesso di stare insieme, e spesso ripercorriamo quel nostro tempo, ricordiamo quello che abbiamo fatto e semplicemente ci appare un miracolo.
UNA STAGIONE IRRIPETIBILE di Pino Simonaro
Ho cominciato a frequentare gli studi di Teleacras nel 1984, la passione per quelle telecamere, monitor e microfoni era così forte che ho lasciato un lavoro in una tipografia che mi permetteva di guadagnare 600.000 lire per andare a lavorare alla tv per 200.000 lire al mese. Il direttore era Franco Chibbaro e la redazione era formata da Carmelo Sardo, Simona Carisi, Nicoletta Meloni e Alfonso Bugea. Quella esperienza è durata poco perché lo stesso anno, ad agosto, sono partito per il servizio militare in marina. Nell’estate del 1986, congedatomi dal servizio militare incontrai Giovanni Taglialavoro (che avevo conosciuto a Teleacras quando realizzava le belle puntate de “I giorni dell’emergenza ad Agrigento”) che nel frattempo era diventato il direttore dell’emittente. Mi disse che doveva andare a Lampedusa per realizzare un servizio per il concerto di Lucio Dalla e mi propose di andare con lui per realizzare le immagini e l’intervista. Guadagnavamo tutti e due, lui non distraeva personale dall’emittente e io mi facevo una gita. Non me lo feci dire due volte e così all’indomani sera eravamo sulla motonave “Giotto”. Quella che doveva essere una gioiosa esperienza si rivelò per me un incubo, infatti, l’attrezzatura necessaria che mi era stata preparata dai tecnici era priva della cuffia per monitorare l’audio e il cavo del microfono, evidentemente difettoso, registrò l’intervista con un forte ronzio. Giovanni era su tutte le furie, alternava sguardi ora imbestialiti ora compiaciuti che mi disorientavano, non riuscivo a capire se mi avrebbe ucciso da lì a poco oppure baciato.
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Il mistero fu svelato al ritorno ad Agrigento: mi convocò agli studi di Teleacras, mi fece sedere e dopo essersi lisciato i baffi per qualche secondo mi disse: “Hai fatto una grande merdata…ma il dispiacere che hai mostrato per ciò che è successo mi ha convinto ad assumerti a Teleacras”. Un timido sorriso sotto i baffetti e poi “ma queste cose non dovranno mai più capitare”. Ero tanto felice, mi avrebbero pagato per fare qualcosa per la quale avrei pagato io. Cominciò così la mia lunga esperienza lavorativa a Teleacras sotto la direzione di Giovanni Taglialavoro. Giovanni curava tutti i settori della vita produttiva dell’emittente, dalle notizie alle manutenzioni degli studi, dai Vg all’acquisto delle videocassette. La sua prima impronta fu quella di realizzare un archivio video, un archivio dei testi delle notizie e un archivio dei quotidiani. Ognuno di noi veniva responsabilizzato in un settore e quando diventava “padrone” di quella mansione veniva spostato in un altro settore. Così da lì a poco ognuno di noi riusciva a fare l’emissione dei programmi, le riprese, i montaggi e la regia delle produzioni delle trasmissioni in studio e dei videogiornali. Nessun “raccomandato” ha mai lavorato a Teleacras in quel periodo, solo chi, a giudizio di Giovanni, mostrava voglia e capacità diventava uno dei “nostri”. Eravamo presenti ovunque c’era qualcosa che meritava di essere ripresa e la gente ci mostrava la propria stima con i sorrisi che elargiva vedendoci arrivare. In poco tempo non mi sentii più chiedere dalla gente: “cu siti? TVA?”, no, ormai Teleacras aveva fatto breccia fra gli agrigentini, e il trattamento che ci riservavano i politici, gli sportivi, gli operatori culturali, la gente comune era la prova che stavamo lavorando bene. Riuscivamo a trasmettere in diretta con la regia mobile quasi tutti gli eventi sportivi, i consigli comunali e provinciali. Ogni produzione era curata nei minimi dettagli, niente era lasciato al caso. Giovanni era riuscito a inculcare in ognuno di noi il senso della responsabilità, l’impe-
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gno e l’amore per ciò che si realizzava. Ricordo lo spirito di squadra che era palpabile sia a livello tecnico che giornalistico, gli applausi alla fine delle registrazioni degli editoriali di Giovanni, l’emozione ad ogni collegamento in diretta ben riuscito. E’ stata una stagione irripetibile, forse Agrigento non poteva ospitare un’emittente così “libera”, era sicuramente una realtà che a molti dava fastidio. A chi oggi, associandomi ancora a Teleacras, mi dice che ha nostalgia di quel modo di fare televisione rispondo con rassegnazione che quell’emittente si è “normalizzata”.
AGRIGENTO, CAMBIARE SI PUO' di Giovanni Taglialavoro
Io so chi ha distrutto le mura medievali, le torri chiaramontane e le antiche porte negli anni venti; io so chi ha avviato negli anni cinquanta l’assalto alla valle dei templi spingendo la città verso sud auspicando case attorno ai templi, come Roma e Siracusa, opifici industriali nella piana di San Gregorio; io so chi ha costruito, e perché, gli orrendi palazzi sulla collina, deturpando in modo atroce la ‘forma urbis’, cresciuta attorno al nucleo arabo, consegnataci da mille e cento anni di storia; io so, chi ha fatto sparire il mare dalla vista dei sanleonini, per miserabili tangenti negli anni settanta; io so che avere trent’anni e vivere e lavorare ad Agrigento è impresa sempre più rara. Io so di non essere solo a pensare possibile un riscatto da tutto questo. E non solo per l’ottimismo della volontà. Un breve ragionamento, una proposta finale e frammenti di sogno in allegato. Si dice spesso che ogni società ha il governo che si merita e dunque si potrebbe dire che Agrigento ha avuto i sindaci, gli assessori e i parlamentari che si è meritata. Se così fosse non resterebbe, per chi non si riconosce nella qualità dei lasciti di chi ci ha governato, che la rassegnazione, una strategia di limitazione del danno o la fuga. In realtà il normale rapporto che altrove subordina l’espressione del ceto dirigente agli interessi e alle aspettative della società civile, ad Agrigento, come in altre realtà meridionali, si rovescia: sia perché una parte significativa della società civile è neutralizzata dalla predominio di una minoranza violenta e super organizzata (Cosa Nostra) sia perché i poteri del ceto politico qui non esprimono ma determinano le dinamiche e la stessa configu-
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razione della sfera economica. Il cerchio si chiude ovviamente quando la minoranza violenta e superorganizzata condiziona, controlla o, addirittura, esprime il ceto politico. Ad Agrigento indagini della magistratura ci dicono che il cerchio qualche volta è stato chiuso. Una condizione tragica che però ci può far dire che Agrigento non ha il governo che si merita: una larga parte della società non è rappresentata e, soprattutto, le potenzialità di sviluppo che la città offre, in ragione della sua storia, dei suoi monumenti, della sua collocazione geografica, non trovano alcuna sponda nella pratica di governo della città. Fino adesso le forze dell’alternativa o hanno del tutto trascurato il rapporto con la società non rappresentata nelle istituzioni locali, concentrandosi nella denuncia dei legami tra ceto politico e illegalità, o hanno affidato ad astratte esigenze di sviluppo e a concreti accomodamenti le speranze di cambiamento che in realtà finivano col ridursi alla allocazione istituzionale o professionale di se stessi o dei propri amici. La città è allo sbando; mai, dal dopoguerra ad oggi, ha vissuto una stagione così negativa. I parametri economici, gli standard dei servizi, il tono culturale e l’aspettativa di futuro sono, comparativamente a quello che sta succedendo nel resto del paese e nella stessa Sicilia, tra i più bassi di sempre. Vi è una emorragia spaventosa di giovani qualificati verso il centro nord; il centro storico cade a pezzi; i servizi civili comunali pessimi; un vero e proprio declino culturale e di egemonia della città e dei suoi gruppi dirigenti sempre più subalterni agli ‘homines novi’ della provincia. Lo spirito pubblico si è avvitato e avvelenito nello scontro tra fazioni contrapposte, per interessi e per strumenti di comunicazione, che monopolizzano e distorcono i temi del confronto a favore dei loro obiettivi immediati. E in più ha fatto irruzione nella vita quotidiana un tasso di violenza diffusa, gratuita, non funzionale cioè a particolari interessi, che fa del lungomare di San Leone o del piazzale Aster o del Viale della Vittoria lo scenario di duelli
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rusticani con giovanissimi protagonisti e vittime, spia forse della devastazione del presidio etico delle famiglie e della generale affermazione del principio dell’autoaffermazione a tutti i costi. Agrigento deve voltare pagina. Può e deve proporre una nuova leva di amministratori e di consiglieri che chiuda col passato e reinserisca la città nel contesto nazionale diventandone una articolazione locale, parte di quella nuova classe dirigente che i nuovi equilibri nazionali stanno selezionando e non l’eterna provinciale e subalterna espressione di una specificità locale che si sente tradita, incompresa e umiliata dallo stato e dall’esterno a cui si pensa di chiedere comprensione o complicità per i propri limiti piuttosto che risposte ai diritti negati. Se non vogliamo restare ai margini della nuova Italia, se vogliamo avviare un modello di sviluppo autopropulsivo fondato sulla legalità e sulla piena valorizzazione delle nostre risorse, allora dobbiamo presentarci all’opinione pubblica locale e nazionale con un’idea di rinascita del territorio, della Agrigento che vogliamo nel duemila. L’idea unificante potrebbe definirsi quella che riesca a praticare una sorta di ‘reductio ad unum’ dell’acropoli, dell’agorà e dell’emporium: il centro storico, il parco archeologico e le coste. Dal tempo dell’antica Akragas, quando l’unitarietà dei luoghi era data, si è passati nel corso dei secoli, ad una loro autonomizzazione, con la città di Girgenti sul colle, il bosco della civita a valle e il borgo di San Leone sulla costa, per finire alla fase attuale dell’aggressione dei luoghi al loro interno e tra loro. Il risultato è stato lo sfiguramento del centro storico e il suo slittamento a valle, la distruzione delle coste e del borgo di San Leone e l’implosione ingovernabile della suo impianto urbano, l’aggressione a tenaglia, dall’alto e dal basso, dell’area archeologica. Noi stiamo vivendo una fase di passaggio delicata nella quale l’aggressione è stata fermata ma al costo della
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paralisi generale. C’è il rischio concreto di una rifeudalizzazione delle tre parti dell’unica città con il centro storico all’incuria, l’area archeologica all’ente parco e le coste agli speculatori. Manca un piano di riarmonizzazione di queste sparse membra della città. Solamente un piano che unisca e armonizzi acropoli, agorà e emporium può dare futuro alla città. Più in particolare dobbiamo unire le forze del cambiamento attorno alle soluzioni da dare ai seguenti problemi: Procedure rapide e grandi finanziamenti per il recupero del centro storico anche attraverso un piano di viabilità basato sulle scale mobili e un piano di decostruzione dei palazzi oltre quota per restituire una forma urbis alla città; Tutela e valorizzazione del parco favorendo la formazione di competenze gestionali, tecniche e scientifiche tra i nostri giovani individualmente e in forme associate; Distribuzione nel centro storico di alcuni comparti museali, oggi concentrati a San Nicola, con l’utilizzazione di palazzi storici adeguati; Risanamento delle coste cittadine e decongestionamento di San Leone, insediamento di strutture alberghiere di piccole e medie dimensioni, previa fasce di rispetto e di uso pubblico delle aree vicine alle coste; Una politica culturale che favorisca non solo consumo e divertimento, ma spazi di autoespressione e strumenti di elaborazione che definiscano l’identità individuale e collettiva; Una attenzione ai nuovi poveri dell’altra sponda del mediterraneo attraverso strutture di accoglienza e progetti di cooperazione. Su questi temi vorremmo vedere emergere una nuova leva di gruppi dirigenti. Su questi temi vorremmo che si alimentasse il dibattito pubblico. A palazzo di città vorremmo un ceto politico di larghe vedute, capace di pensare alla città nel suo complesso, finalmente consapevole che la valle e il parco costituiscono la risorsa principale
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della città. Un ceto politico consapevole delle ferite urbane e sociali da curare e rimarginare. Un ceto politico sensibile alla missione dei nuovi tempi della globalizzazione e pronto a dare un ruolo ad Agrigento coerente con la sua collocazione geografica e con la sua anima solidaristica. Un ceto politico infine che metta la produzione culturale a fondamento della sua pratica amministrativa attraverso il pieno coinvolgimento e la valorizzazione delle istituzioni che sono presenti nel territorio (Parco archeologico, Università, Centro cinema narrativa, Accademia studi mediterranei, Centro studi pirandelliani, Teatro Pirandello, Centro Pasolini ecc. ecc.) e sollecitando l’intervento critico e creativo delle migliori espressioni culturali del nostro paese e dei paesi del mediterraneo. In questi ultimi anni ad Agrigento sono emerse energie, individuali e di gruppo che hanno espresso nelle sedi istituzionali, nei partiti, nella comunicazione sociale, nelle attività culturali professionali ed imprenditoriali (penso alla miriade di Bad and Breakfast), ampie capacità di governo della città. Adesso si tratta di unire e valorizzare tutte le espressioni significative di questa area senza escludere nessuno e senza pretesa alcuna di primogenitura. Il presidente del Censis ha elaborato, in riferimento al modello tosco-umbro-marchigiano, il concetto del ‘diversamente vivere’: l’idea cioè che di fronte all’inarrestabile avanzata delle produzioni a basso costo delle industrie asiatiche, laddove non si possa rispondere con un rilancio della quota di sapere incorporato nel ciclo produttivo, resta la via della ricerca delle tipicità e della qualità del vivere, il modello, appunto, tosco-umbro-marchigiano. Agrigento ha due grandissime tipicità che nessuna concorrenza potrà toglierci: un grande patrimonio archeologico e l’estrema vicinanza alla sponda africana. Potrebbero essere l’asse per una fortissima identità fondata sui saperi e sulla solidarietà. Asse attorno al quale garantire sviluppo, professionalità e qualità del vivere. Prima o poi si dovrà capire che solamente modulando tutto il resto del territo-
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rio in funzione di queste due risorse, la città potrà avere un suo riscatto. Qui si ferma la proposta e inizia il sogno. Ho visto un centro storico risanato e restituito alla sua originaria forma (con il taglio radicale dei palazzi fuori quota); al suo interno pullulavano studenti universitari e strutture di ricerca nelle sedi dell’ex tribunale, dell’ex ospedale di via Atenea e dell’ex convento dei padri Filippini e dell’ex bordello di piano Sanzo; le case della Terra Vecchia abitate da vecchie e nuove famiglie, animate da botteghe artigiane e da strutture di accoglienza turistica a gestione familiare; una pluralità di musei e centri culturali per mostre convegni e ricerche. Ho visto il parco archeologico, centro di studi e ricerche, con corsi di specializzazione funzionali alla sua gestione e sviluppo; ho visto i nostri giovani diplomarsi e laurearsi e lavorare nella terra dei loro padri con dignità e sapienza, con competenze riconosciute e valorizzate; ho visto il territorio circostante risanato, con le sue antiche ferite sociali ricucite; ho visto le nostre coste protette dagli assalti speculativi; il lungomare di San Leone con vista mare e spazi pubblici ridefiniti; ho visto scuole di Arabo per noi italiani e di Italiano per i nostri immigrati; ho visto le nostre campagne non più in attesa di concessioni edilizie o di falsi miti industrialisti, ma floride di colture e di prodotti tipici che tornavano a stupire chi le visitava e vi alloggiava nelle tante strutture agrituristiche….. Ho visto anche l’Akragas tornare in serie C. Aprile 2007 Pubblicato in 'VIVERE AGRIGENTO' – Edizione del Centro Culturale Editoriale Pier Paolo PASOLINI - Agrigento
Gli autori dei testi, presenti in questa pubblicazione, sono responsabili in ogni sede e per qualunque profilo, esclusivamente e separatamente per quanto affrontato nei loro contributi.
INDICE
Una grande esperienza del sud di Maurizio Masone Una collaborazione lunga 25 anni di Michele Guardì Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PARTE PRIMA Evocazioni autunnali: lotta armata e governo in esilio . Cade il vecchio non c’è ancora il nuovo, nel mezzo la crisi anche di idee . . . . . . . . . . . . . . . . . . Torquemada o della seduzione del male . . . . . . . Totò ‘u curtu’ in manette: la mafia si puo’ battere . . . Verso l’uninominale: in Sicilia il nuovo sistema ha un cuore antico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ce ne ricorderemo di Franco La Rocca . . . . . . . . Procura contro gip: polveroni utili ai malfattori . . . . Al voto per i nuovi sindaci: è la fine del ‘sistema delle amicizie’ o soltanto un cambio degli amici? . . . . . . Sodano ha vinto, ha il diritto di governare, il potere di farlo lo deve ancora conquistare . . . . . . . . . . . La lotta alla mafia ad un anno dalla morte di Borsellino . Crotone parla di noi. La polveriera del sud e la ricca padania . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ricordare Rosario Livatino uomo fragile, giudice tenace A Palazzo dei Giganti va in scena la lentocrazia. Effetti mediatici? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I buoni propositi di Sodano. dice ad Arnone: “lavoriamo insieme per ricostruire Agrigento” . . . . . . . . . . Paradossi a Palermo: Orlando ha vinto troppo, qualcosa non va . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Sfonda la sinistra tra i sindaci dai municipi verso Palazzo Chigi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il giudice Fabio Salamone lascia Agrigento. Va alla Procura di Brescia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Milanesi ai vertici del potere. Milano è Italia o l’Italia è Milano? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La valle dei templi arriva al mondo via tv. Aspettiamo ora che un po’ di mondo venga alla valle per qualunque via . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sembrano manovre per il Quirinale. E invece si vota per Palazzo dei Giganti . . . . . . . . . . . . . . . . Farneticazioni in consiglio comunale . . . . . . . . . Barbarie lessicali in consiglio comunale. Altro che Stato nascente! Semmai putrescente . . . . . . . . . . . . Voglia di festa, farina e forca . . . . . . . . . . . . . Sagra ‘95. Ormai è provato: Agrigento scenario elettivo dei grandi eventi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Più tempo scolastico nella giornata più tempo scolastico nella vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il blocco dei cantieri: c’è in gioco anche il controllo politico delle aziende . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’uomo uccide ciò che ama, Sodano ama Agrigento . . Le ironie di uno spazzino! Non c’è più religione . . . . Benvenuto ad Agrigento Presidente Scalfaro . . . . . . Il progetto Prodi disegna un nuovo patto sociale. Il sud ne è fuori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le ruspe nella valle dei templi. Demolite le villette Pantalena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La morte di Salvatore Sciangula . . . . . . . . . . . . Dopo dodici anni lascio Teleacras . . . . . . . . . . Parte seconda L’acqua! l’acqua! . . . . . . . . . . . . . Riaprono le scuole: l’ordine è ‘siano libere’
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La tv come realtà, la vita una sua parvenza, copia immiserita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Una via estetica alla rinascita del sud . . . . . . . . . Il provincialismo? Non dare dignità conoscitiva al proprio territorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . In tutti sembra annidarsi un’inerzia del passato . . . . Gli immigrati come risorsa, anche economica . . . . . Università ad Agrigento. Scenari inediti di sviluppo . . Il teatro come passerella usa e getta senza slanci culturali né tentazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tutti vogliono il lavoro. Già, ma come? . . . . . . . . Novembre è tempo di okkupare . . . . . . . . . . . Aboliamo i semafori e il sud decolla . . . . . . . . . Il liberismo meridionale tutti lo invocano nessuno lo pratica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Noi e le ‘barbare lance abissine’ . . . . . . . . . . . Miti incrociati: in Usa l’avvocato, in Italia il pm . . . . Ancora sulle ‘barbare lance abissine’ . . . . . . . . . I giovani non guardano la politica. Forse perché è inguardabile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Domande sul folklore. C’è un rapporto tra Bassolino e la Tarantella? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ne ‘i vecchi e i giovani’ di Pirandello la chiave dell’Agrigento di oggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’ombra di Don Fabrizio a cent’anni dalla nascita di Tomasi di Lampedusa . . . . . . . . . . . . . . . . . . Elezioni e fine delle ideologie. Gara tra elite col popolo invitato a tifare o a contendersi le briciole delle cene altrui . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il consigliere Lombardo o la libertà dal pensiero. . . . Gli istituti aperti anche di pomeriggio. Per fare cosa e con chi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sui giovani l’ombra delle angosce degli adulti . . . . . L’Ulivo ha vinto le elezioni. Ci aspettiamo i cento primi
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giorni dedicati al sud . . . . . . . . . . . . . . . . . Lavorare stanca. Non lavorare non rende certo giulivi . Il paradosso della Lega: vuole eliminare le condizioni del suo benessere . . . . . . . . . . . . . . . . . . Appendice (testi del dicembre 2009) Le due, tre cose che ho fatto a Teleacras di G.T. . Nota di Antonio Lubrano . . . . . . . . . . . . Nota di Luigi Galluzzo . . . . . . . . . . . . . Nota di Carmelo Sardo . . . . . . . . . . . . . Nota di Pino Simonaro . . . . . . . . . . . . . Cambiare Agrigento, si può di G.T. (aprile 2007)
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GIOVANNI TAGLIALAVORO
Nato ad Agrigento, vive e lavora a Roma. Giornalista, autore radiotelevisivo Rai, attualmente è coordinatore degli autori del programma di Raidue 'Mattina in Famiglia'. Ha diretto per 11 anni Teleacras dal 1984 al giugno 1995. Ha scritto su numerose testate, dal Manifesto al Giornale di Sicilia, a L'Ora, al Corriere della Sera, a Suddovest e Fuorivista. Ha pubblicato 'Scolarizzazione e Sottosviluppo', 'Passagio a Sudovest' Ila Palma editore, 'Famiglie Parallele', Ila Palma editore. Per il Pasolini ha pubblicato il saggio 'Agrigento può cambiare'
GIOVANNI TAGLIALAVORO
QUELL'IDEA DI SUDOVEST Agrigento e Teleacras tra la prima e la seconda repubblica
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GIOVANNI TAGLIALAVORO
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