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SOM M ARIO 2 TEMARIO internazionale 3 “ABUNA” MICHELE IN PALESTINA il profilo culturale di padre piccirillo 5 AREE ARCHEOLOGICHE E TEATRI ANTICHI Progetto Artea: un partenariato internazionale progetti 6 SITI MADONITI per la mappatura del degrado entomologico dei manufatti di natura organica 10 L’ABATELLIS TRA CONTINUITÀ E INTEGRAZIONE allestimento della galleria regionale dell’ala settecentesca laboriando 12 IL MUSEO DEL CORALLO collezioni dell’ “Agostino Pepoli“ 13 LO SCRIGNO DEI RICORDI “SOFFICI” Fibre, tessuti, taglio e taglie sartoriali 17 VIRGO LACTANS la madonna della Lavina di cerami

ricerche&contributi 38 PUNTERUOLO ROSSO DELLE PALME biologia e mezzi di controllo 41 PALME E PAESAGGIO l’abito urbano vegetativo 43 I PORTALI DELLA CITTÀ architettura, trasformazioni e sovrapposizioni stilistiche nel centro storico di Palermo formazione 45 PERCORSI FORMATIVI obiettivi di studio per un’idonea fruizione e conservazione delle opere d’arte 47 TIROCINIO IN CHIESA L’ostensorio con gli Angeli del Carmine Maggiore incontri & dibattiti 48 IL GRUPPO DEL COLORE società italiana di ottica e fotonica 49 NEUTRONI E LASER per la ricerca di dipinti nascosti

dossier 22 SPECIE LAPIDEE i marmi della villa del casale

50 SISTEMI BIOLOGICI E BENI CULTURALI Il convegno AIAr a Palermo recensioni

25 CAMPAGNE DI SCAVI Tra ricerche, archeologia e restauro

52 DESCRIZIONI, NOTE E REPERTORI Un fondo bibliografico seicentesco

29 LA SOLFATAZIONE DIFFUSA uniformità di un degrado chimico

54 I GIARDINI PERDUTI Comunicare con gli alberi per non appassire la mente

31 ALGHE E CIANOBATTERI prevenzione e controllo dei microrganismi fotosintetici

35 NEWS

32 TESSERE, MUSCHI E LICHENI colonizzazione lichenica e muscinale dei mosaici pavimentali e valutazione efficacia dei biocidi

55 RASSEGNA LIBRI

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TEMARIO

C.R.PinR. on line

forma

ISSN 2035-8725

www.centrorestauro.sicilia.it C.R.P.R in/forma n. 7/8 Giuno-Dicembre 2009 Rivista semestrale del Centro regionale per la progettazione e il restauro e per le scienze naturali applicate ai Beni culturali ISSN 2035-8717 Direzione scientifica Guido Meli Direttore responsabile Antonio Casano Comitato di redazione Antonio Casano Rita Di Natale Maria Di Ferro Roberto Garufi Elena Lentini Gioacchino Mangano Ferdinando Maurigi Guido Meli Giuseppa Maria Spanò Fotografie Gioacchino Mangano, Ugo Nizza, Fabiola Saitta, Licia Settineri Progetto grafico Gioacchino Mangano Immagine di copertina di Osama Hamdan Mosaico del VI° secolo dopo Cristo della Carta di Mabada - Mabada - (Giordania) Stampa Priulla s.r.l. via Ugo La Malfa, 6915 - 90134 Palermo Sede di amministrazione, direzione redazione: Via Cristoforo Colombo, 52 90142 Palermo Registrazione Tribunale di Palermo del 9.2.2006 n°3 © Copyright 2007 Regione Siciliana - Assessorato regionale dei Beni culturali ed ambientali e della Pubblica istruzione Centro regionale per la progettazione e il restauro e per le scienze naturali applicate ai Beni culturali

L’apertura di questo numero è affidata ad Osama Hamdan, fraterno amico del compianto Michele Piccirillo –il Padre francescano scomparso poco più di un anno fa- nota e stimata alta figura intellettuale in Terra Santa, riconosciuta tale dalla comunità scientifica internazionale anche per aver saputo coniugare l’impegno spirituale e la ricerca archeologica con una Weltanschauung fondata sulla cultura come grimaldello per la coesistenza pacifica dei popoli, imperniata sulla tolleranza e il riconoscimento reciproco della diversità, sia pur disposta in un piano di contaminazione su cui edificare una nuova koinè multiculturale. Osama Hamdan, uno dei massimi esponenti dell’intellighenzia palestinese -docente presso l’Università Al Quds di Gerusalemme e direttore del Mosaic Centre di Gerico- dall’alto del legame di solidarietà umana ed affinità culturale ci detta un illuminate profilo che ci fa cogliere quale fosse la straordinaria rilevanza della presenza di Abuna Michele in Palestina per il riannodo del dialogo dal basso tra comunità divise dalle loro sovrastrutture ideologiche. Sulla Villa del Casale di Piazza Armerina è incentrato il dossier diagnostico: un resoconto sintetico delle analisi scientifiche eseguite in situ o rielaborate in laboratorio. Inoltre presentiamo parte di un più ampio studio, condotto da Lorenzo Lazzarini dell’Università IUAV di Venezia, sulle specie lapidee collocate nel sito romano. Patrizio Pensabene dell’Università “La Sapienza” completa le pagine del dossier con un articolo sulle indagini archeologiche: un escursus storico-stratigrafico degli scavi che hanno interessato le ricerche intrecciate con le opere di restauro. Nella sezione progetti è consultabile il lavoro sulla mappatura del degrado entomologico dei manufatti di origine organica, posto in essere in alcuni centri del distretto madonita, riguardante importanti presidi culturali –chiese, musei, biblioteche ed altre istituzioni- insediati all’interno della catena montuosa del palermitano. Mentre per le pagine della laboriando proponiamo due interventi di restauro riguardanti la Madonna della Lavina di Cerami e gli abiti del “Pepoli” -con un contributo di Maria Luisa Famà, direttrice del museo, sulla caratteristica espositiva principale dell’ente trapanese: i manufatti artistici in corallo. Da segnalare inoltre, fra gli incontri&dibattiti, l’ampia argomentazione sui temi trattati negli appuntamenti autunnali svoltisi a Palermo promossi dalla Società Italiana di Ottica e Fotonica (V Conferenza del Gruppo del Colore) e dalla Associazione Italiana di Archeometria (Convegno nazionale su Sistemi biologici e beni culturali) Infine si portano all’attenzione del lettore le pagine della ricerca che si avvalgono dei contributi di Stefano Colazza e Giuseppe Barbera della Facoltà di Agraria di Palermo, in merito alla vicenda del punteruolo rosso: il primo fa il punto sullo stadio raggiunto dalla sperimentazione biologica e sui i possibili mezzi di contrasto per il controllo del devastante fenomeno entomologico che continua a provocare la moria delle palme; il secondo ci conduce sulle tracce storiche del paesaggio urbano vegetativo, di cui la presenza della palma è un elemento imprescindibile nelle città siciliane. La tematica non è estranea all’interesse del CRPR, tanto che sull’argomento è in cantiere uno studio per definire un intervento specifico. Nella stessa sezione, in linea con la scelta editoriale della rivista di dare spazio a giovani ricercatori, ospitiamo il saggio di Lucia Carruba sui portali del centro storico di Palermo, nel quale vengono esaminati i processi di trasformazione e le sovrapposizioni stilistiche subiti nel tempo: un grido di allarme sul rischio di degrado a cui è sottoposto un “pezzo” fra i tanti del patrimonio storico architettonico. Chiudono, come di consueto, le recensioni e la rassegna libri. In particolare nella prima rubrica Carlo Pastena, fra note e repertori, ci descrive un fondo bibliografico seicentesco curato da Rita Di Natale e Gabriella Cannata, ma soprattutto ci introduce su un tema che va ben al di là dei tecnicismi per soli addetti ai lavori, facendoci comprendere la valenza essenziale della costituzione di tali fondi per gli studiosi nella ricerca delle fonti documentali.


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INTERNAZIONALE

“ABUNA” MICHELE IN PALESTINA IL PROFILO CULTURALE DI PADRE PICCIRILLO

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buna Michele, come ero abituato a chiamarlo e come era chiamato degli Arabi dei paesi di Bilad al Sham (Palestina, Libano, Giordania, Siria), me lo ricordo nella sua stanza, nello Studium Biblicum Franciscanum della Custodia di Terra Santa a Gerusalemme, sempre immerso nei libri e con il profumo di caffé proveniente dalla macchinetta perennemente sul fornello elettrico, nel piccolo angolo cucina che peraltro lo avevo aiutato a sistemare. Padre Michele Piccirillo ci ha lasciato il 26 ottobre, all’età di 64 anni. Era nato a Casanova di Cerinola, in provincia di Caserta, e si era unito all’ordine francescano da giovanissimo e trasferito a vivere in Medioriente dal 1960, dividendosi tra Gerusalemme, dove insegnava Storia e Geografia Biblica e dove curava come Direttore il Museo archeologico allo Studium Biblicum Francisanum nel Monastero della Flagellazione e il convento del Monte Nebo, in Giordania, dove svolgeva scavi archeologici durante l’estate. Come novizio aveva studiato allo Studium Biblicum

Osama Hamdan Università Al Quds Gerusalemme

Franciscanum, aggiungendo agli studi teologici un dottorato in archeologia biblica all’Istituto di Studi del Vicino Oriente della Università La Sapienza di Roma. Aveva avviato i suoi primi lavori archeologici a fianco del suo maestro, padre Bellarmino Bagatti, e nel 1973 aveva diretto i lavori di conservazione del mosaico pavimentale del 536 d.C. nella chiesa dei Martiri Lot e Procopio, a Khirbet al-Mukhayyat, l’antico villaggio di Nebo, le cui rovine erano state esplorate dai Francescani della Custodia di Terra Santa nel 1935 e immediatamente coperte da una bella casa in muratura per proteggere e mostrare ai visitatori uno dei più bei mosaici di epoca bizantina mai ritrovati. Da allora aveva continuato a lavorare per la protezione dei mosaici dell’area, in particolare nella Chiesa del Memoriale di Mosè sempre a Monte Nebo, dove nel 1976, dopo aver distaccato i mosaici pavimentali del VI secolo della cappella del battistero per un intervento di emergenza, erano emersi i mosaici inferiori, realizzati dai mosaicisti Soel, Kaium e

Padre Michele Piccirillo con collaboratori in visita al Convento ortodosso di Ayn al Farah – Palestina

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INTERNAZIONALE

Elia, come si leggeva nelle due iscrizioni che accompagnavano lo splendido lavoro terminato nell’agosto del 530 d.C. al tempo del vescovo Elia di Madaba e dell’imperatore Giustiniano. I nomi arabi rimandavano a mosaicisti della vicina Madaba famoso centro dell’arte del mosaico nel VI secolo. Il pavimento di mosaico rappresentava una spettacolare combinazione di scene di caccia e pastorizia e animali esotici. Cercava sempre di utilizzare ogni suo cantiere di restauro per svolgere attività di formazione per i giovani locali fino a quando nel 1992 riuscì ad avviare, grazie ad un progetto di cooperazione italo-giordano, la Madaba Mosaic School che ancora oggi svolge attività di formazione come Madaba Institute for Mosaic Art and Restoration e nel 1999 il Jericho Workshop for Mosaic Restoration. Da alcuni anni aveva avviato contatti per la creazione di una istituzione simile anche in Siria. L’obiettivo di queste strutture nasceva dalla esigenza di formare giovani locali alla cura del patrimonio culturale in mosaici della regione. Le sue ricerche avevano reso evidente la storia comune del territorio e i problemi condivisi del patrimonio culturale e l’avevano spinto dal 2000 a dare il via ad un incontro annuale di giovani e tecnici dell’area del Levante, il corso di formazione Bilad Al Sham. Giovani tecnici ed esperti provenienti da enti governativi e non, si incontravano ogni anno per un periodo da uno a due mesi e partecipavano ai corsi di formazione e aggiornamento sulla conservazione dei siti archeologici con mosaici. Gli incontri, affiancati ad attività pratiche di conservazione, erano svolti in Siria, Giordania e Palestina ed avevano come finalità generale il sostegno ai giovani per renderli responsabili dell’attività di conservazione. Padre Michele l’archeologo, l’uomo, il prete, attento a quello che lo circondava, un archeologo di grande professionalità, ha trasformato anche lo scavo archeologico in un momento di incontro con la storia per i giovani che arrivavano da tutto il mondo. Soprattutto la sera era un momento di formazione per questi giovani volontari che si incontravano tutte le estati a Monte Nebo, dopo la fatica di una giornata di lavoro sotto il sole e la polvere delle rovine e le gioie dei ritrovamenti, si riunivano a cena e poi tutti a godere lo spettacolo dalla terrazza a guardare la Palestina, le stelle in cielo, e ad ascoltare le parole e i racconti di Abuna Michele. Padre Michele Piccirillo l’archeologo che ha continuato per tutti questi anni a far riemergere alcuni dei più bei siti antichi della Giordania, dopo Khirbet al Mukhayyat e Monte Nebo, nella città di Madaba, a Umm il Rasas, a Nitle e tanti altri con scoperte eccezionali e mosaici del periodo bizantino e primo islamico di tale bellezza ed importanza da farlo diventare lo studioso di mosaici più famoso del Medioriente. Recentemente alle scoperte in Giordania si erano aggiunti gli straordinari risultati dei lavori di pulizia e riabilitazione nella cittadina di Sabastiya, in Palestina. Il suo lavoro di archeologo non si è fermato alle scoperte, ma sin dagli anni 70 del secolo scorso si è affiancato ad una particolare attenzione alla conservazione e valorizzazione dei beni culturali. Abuna Michele seguiva personalmente i lavori di restauro, sempre affiancati ad attività di valorizzazione che comprendevano l’organizzazione di mostre e pubblica-

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zioni in varie lingue, prestigiose sia dal punto di vista dei contenuti che della forma. E’ stato uno dei primi e pochi studiosi a tradurre le sue ricerche e lavori anche in lingua araba. Abuna Michele non era solo un archeologo di profonda capacità professionale, ma anche un francescano di grande fede, semplice nella relazione con gli altri, umile nella sua conoscenza, attento ai problemi della gente e alle loro esigenze. Era consapevole del valore delle sue capacità scientifiche, dell’importanza delle sue scoperte nel riscrivere la storia del Medioriente e per la conservazione della memoria, mantenendo un profondo rispetto delle varie civilizzazioni e culture che si erano susseguite nel territorio, e tutto questo lo inseriva nel contesto, con una costante attenzione ai benefici che le popolazioni locali, in realtà così sofferenti, avrebbero potuto trarre dallo studio e dalla conservazione del patrimonio culturale, dal punto di vista sociale e soprattutto economico.

Padre Piccirillo a Sabastiya - Palestina

Abuna Michele il prete francescano, un uomo di pace, sensibile verso tutte le religioni, aveva rapporti calorosi con colleghi e amici di religione musulmana, ebraica e cristiana delle varie chiese, lavorava con comunità locali e in siti archeologici espressioni di diverse culture, era un vero ponte tra le varie religioni, e lo faceva con grande serietà in un’area geografica piena di odio e intolleranza. La sua azione scientifica e culturale non si staccava mai da una analisi schietta ed acuta della realtà. Negli ultimi tempi aveva più volte denunciato le azioni irresponsabili che stavano cambiando profondamente la natura del patrimonio culturale locale. La sua vibrata contrarietà alla costruzione del Muro, che aveva isolato Betlemme ignorando il suo legame storico con Gerusalemme e la denuncia della arrogante unilateralità degli scavi archeologici israeliani nella città vecchia di Gerusalemme avevano venato di amarezza i suoi ultimi scritti.


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INTERNAZIONALE

Aree Archeologiche e teatri antichi PROGETTO ARTEA UN PARTENARIATO INTERNAZIONALE Maria Elena Alfano

Bulla Regia - Tunisia

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l 3 agosto, è stato presentato a Siracusa, il progetto ArTea -Teatri antichi ed aree archeologiche: conoscenza e valorizzazione. ArTea, di cui il CRPR è ente attuatore e coordinatore del partenariato costituito, con la Sicilia, dalle regioni Lazio e Calabria e dal governatorato di Jendouba per la Tunisia, è un segmento del progetto integrato DIARCHEO, afferente la Misura 2.04 - Dialogo e Cultura relativa al Programma di sostegno alla Cooperazione Regionale – Accordo Programma Quadro (APQ) Mediterraneo e Balcani, che si articola in sei sub progetti che interessano 4 regioni di paesi transfrontalieri e 11 regioni italiane. Nell’ambito di tale progetto, la cui matrice è “La valorizzazione del patrimonio archeologico come veicolo per il dialogo interculturale” il sub-progetto ArTea affronta nello specifico il tema della conoscenza e valorizzazione dei teatri antichi, patrimonio comune a molti paesi del Mediterraneo. La presentazione di Siracusa fa seguito alla definizione, nel primo semestre del 2009, dell’iter burocratico di aggiornamento ed approvazione del progetto DIARCHEO avviato nel 2006. Vi hanno partecipato la regione Puglia, RUP del progetto, i partners italiani, l’Institut National du Patrimoine per la Tunisia e gli enti di tutela. Grazie alla disponibilità della Soprintendenza di Siracusa, e del comune di Palazzolo Acreide, che ha accolto i partners nel sito di Akrai, individuato per la realizzazione del progetto in Sicilia, sono state illustrate le attività progettuali, che impegneranno un finanziamento di circa 863.000 euro, costituito da fondi FAS e cofinaziamenti regionali. Parte del consistente budget assegnato alla Sicilia, pari a circa 449.000 euro, sarà investito nel paese partner estero per realizzare, nel sito di Bulla Regia, le medesime attività previste dal CRPR in Sicilia, con l’obiettivo di generare, nel pieno spirito degli accordi di cooperazione, un proficuo scambio di esperienze ed una ricaduta nei territori interessati. Il progetto ArTea, costruito nel rispetto delle raccomandazioni espresse nella “Carta di Siracusa“, prevede in sintesi la: - Sistematizzazione e condivisione delle conoscenze e delle metodologie relative all’utilizzo dei teatri antichi - Valorizzazione dei siti attraverso la promozione di percorsi tematici relativi ai teatri - Realizzazione di un processo di integrazione culturale nel Mediterraneo attraverso il coinvolgimento delle scolaresche per rappresentazioni teatrali. - Costruzione di una banca dati dedicata ai siti con architetture teatrali antiche - Costruzione di una rete di attori istituzionali e culturali per una corretta gestione dei teatri - Definizione di modelli condivisi di fruizione sostenibile - Realizzazione di percorsi tematici e didattici sul tema dei teatri antichi

Lo studio per la conservazione e l’uso dei teatri antichi è un obiettivo che il CRPR persegue da anni: si è concretizzato nel 2004 con la realizzazione a Siracusa del convegno” Teatri antichi nell’area del mediterraneo” e con la redazione e condivisione della “Carta di Siracusa per la conservazione, fruizione e gestione delle architetture teatrali antiche”, significativo documento di indirizzo redatto sulla base delle indicazioni elaborate in quattro workshop tematici che hanno permesso il confronto della comunità scientifica internazionale . Già in quella sede era emersa la necessità, nei paesi che detengono teatri antichi utilizzabili, di valorizzare tale risorsa trovando un giusto equilibrio tra la fruizione pubblica di spettacoli e la dignitosa ed attenta conservazione della testimonianza archeologica e del suo valore identitario-culturale. Tematica attuale, comune a molti paesi, che vede la Sicilia direttamente coinvolta per il notevole numero di teatri destinati ad eventi nell’isola (Siracusa Taormina, Tindari, Segesta, Morgantina, Akrai, Catania,) e per la potenziale fruizione, di altri spazi teatrali antichi tra gli 11 portati in luce in Sicilia. Il progetto ArTea si fonda sulla consapevolezza, maturata dal confronto tra gli studiosi, che la problematica vada affrontata sulla base di criteri condivisi di studio e di valutazione dei rischi connessi alle possibili attività teatrali al fine di pervenire a protocolli per la conservazione integrata e una fruizione sostenibile di questo patrimonio, e sulla convinzione che i teatri, ancor oggi deputati ad assolvere la loro funzione originaria, debbano essere consapevolmente vissuti garantendone la salvaguardia. Quattro teatri, Akrai in Sicilia, Ferento in Lazio, Scolacium in Calabria e Bulla Regia in Tunisia saranno oggetto di studi condotti in sinergia, con percorsi metodologici condivisi ed uniformati; l’obiettivo è valorizzare i teatri ed il contesto archeologico di riferimento, regolamentarne l’uso e la gestione, divulgarne la conoscenza e costruire una rete di relazioni e di attività teatrali dedicate alle scolaresche che consenta ai giovani di riappropriarsi, col doveroso rispetto, di un patrimonio che diviene strumento di dialogo, risorsa generatrice di sviluppo, testimonianza attuale ed attualizzabile, a distanza di secoli, di una storia comune. Coordinamento del progetto a cura della Direzione CRPR Guido Meli - coordinamento generale Coordinamento tecnico-amministrativo M.P. Spano Elena Lentini Andrea Fasulo Referenti tecnico-scinetifici Milena Alfano UO X Roberto Garufi UO IX

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PROGETTI

SITI MADONITI PER LA MAPPATURA DEL DEGRADO ENTOMOLOGICO DEI MANUFATTI DI NATURA ORGANICA Rosa Not

PREMESSA I beni culturali soggetti a un degrado di natura entomologica sono essenzialmente tutti i manufatti di natura organica e, prevalentemente, quelli lignei e cartacei, in quanto fonte di nutrimento degli insetti xilofagi è la cellulosa, principale costituente dei suddetti materiali. Sulla base di questa preliminare considerazione è stato avviato dal Laboratorio di Indagini biologiche del CRPR il Progetto Mappatura del degrado entomologico dei manufatti di natura organica, nell’ambito del quale si inserisce lo studio realizzato nel territorio madonita, oggetto del nostro articolo. L’indagine è stata condotta da Eleonora Di Gangi, che ha collaborato con il Laboratorio del Centro. Finalità del lavoro era indagare le problematiche sulla conservazione di tutti quei manufatti che presentavano un degrado di natura entomologica; lo studio, oltre al suo significato di conoscenza e ricerca, ha avuto anche la finalità di segnalare lo stato di emergenza di alcuni beni ai fini di un eventuale loro recupero. Sono stati, dunque, ispezionati diversi ambienti, quali chiese, biblioteche, musei e quant’altro custodiva al suo interno beni di natura organica; in totale sono stati mappati 14 siti, raccolti un numero considerevole di campioni, caratterizzate sei specie di insetti. Lo studio è stato articolato secondo una metodologia di prassi che ha comportato numerosi sopralluoghi tecnici presso i siti, la raccolta di campioni biologici, la realizzazione di una documentazione fotografica delle alterazioni, gli esami di laboratorio, la preparazione e la successiva conservazione degli esemplari raccolti nelle scatole entomologiche. CAMPIONAMENTI E TECNICHE ADOPERATE Lo studio è stato condotto seguendo la metodologia qui di seguito descritta. ANALISI IN SITU- Nel corso dei sopralluoghi sono state osservate le caratteristiche dell’ambiente di conservazione dei manufatti indagati, quali igiene ambientale, eventuale presenza di umidità, aerazione, fonti di calore e sostanze chimiche repellenti. Successivamente si è passati ad un attento esame visivo, con lente da campo, degli oggetti lignei e cartacei, al fine di accertare la presenza di alterazioni di natura entomologica (fori di sfarfallamento e gallerie). Sono stati osservati i caratteri diagnostici delle alterazioni, quali forma e misura dei fori, l’andamento delle gallerie e la loro localizzazione sul manufatto; inoltre, allo scopo di facilitare l’ulteriore fuoriuscita di rosume dai fori, alcune opere lignee sono state percosse con martelletto, i libri battuti su un foglio di carta bianca, sempre per favorire la fuoriuscita di materiale biologico. 6

Scheda 1 Nicobium castaneum (Olivier) (Coleoptera, Anobidae) Morfologia: 4-6 mm, nero-bruno. Sulle elitre si osservano delle bande striate create dalla peluria che le ricopre. La peluria è di due tipi: un tipo è densa, giallastra, coricata e l’altro tipo è lunga, irta, più diradata. Le elitre sono ornate da grossi punti infossati, disposti lungo linee longitudinali regolari. Il pronoto, anch’esso pubescente, è largo quanto le elitre ed è diviso in due da un setto. Gli occhi neri sono pubescenti. Ecologia: attacca i libri e il legno lavorato di conifere e latifoglie, specialmente se umidi e attaccati da funghi. Fenomenologia del danno: fori circolari di 2-3 mm di diametro; escrementi fusiformi molto allungati con una caratteristica carenatura; gallerie hanno andamento irregolare. Localizzazione: nella Civica Raccolta etno-antropologica (Geraci Siculo), nella Chiesa di Sant’Antonio Abate (Polizzi Generosa) e nella Chiesa della SS. Trinità (Petralia Sottana).


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PROGETTI

Scheda 2 GERACI SICULO Tipologia dei manufatti: lignei e cartacei BIBLIOTECA PADRE CARAPEZZA DI GERACI La Biblioteca di Geraci siculo custodisce libri risalenti al 1500, la maggior parte dei quali provenienti dal convento dei Padri Cappuccini. Essi si trovano in una stanza al primo piano, all’interno di scaffalature metalliche munite di porte grigliate, dove dietro i libri è sta ritrovata naftalina, utilizzata come repellente per insetti. È stata, inoltre, riscontrata presenza di polvere nelle scaffalature e sui libri. Sono stati indagati, a campione, circa quindici volumi. Libri: fori di sfarfallamento circolari sulle copertine (1,5-2 mm) e fra le pagine dei libri (1-1,5 mm); gallerie che interessano buona parte dello spessore dei volumi, erosioni irregolari, presenza di gore. La maggior parte di queste alterazioni ha inizio dalla rilegatura dei volumi

CIVICA RACCOLTA ETNO-ANTROPOLOGICA Ospitata al pianterreno del Convento dei Padri Cappuccini; si tratta di un ambiente molto umido, freddo e poco illuminato. Tavolo: numerosissimi fori di sfarfallamento (grandi anche 4 mm), circolari e ovali, con bordo regolare e irregolare, diverse gallerie colme di rosume di diverso colore e granulometria, molti insetti morti dentro e fuori le gallerie. Braciere: fori di sfarfallamento circolari di 1-1,5 mm, rosume fine e n. 2 insetti morti. Telaio: fori di sfarfallamento circolari (1-1,5 mm) e alcuni insetti morti. Tavolo falegname ed oggetti poggiati sopra: diversi fori di sfarfallamento circolari (1,5-2 mm), rosume grossolano che fuoriesce dai fori ed insetti morti. Contenitore per la ricotta: fori di sfarfallamento (1- 2,5 mm) circolari, rosume di diversa granulometria e insetti morti.

Con l’aiuto di un pennellino sono stati raccolti rosume, insetti e altri residui presenti nel manufatto o nelle vicinanze, e conservati in provette codificate. Tutte le varie fasi delle analisi in situ sono state documentate fotograficamente ANALISI IN LABORATORIO- In laboratorio gli insetti ritrovati nei vari siti sono stati lavati ed idratati in camera umida per essere meglio osservati allo stereoscopio; successivamente sono stati analizzati, misurati, fotografati e descritti nei loro caratteri morfologici fondamentali (dimensioni, larghezza del pronoto, antenne, peluria). L’osservazione di questi caratteri, insieme all’analisi della morfologia dei fori di sfarfallamento e all’aiuto di una chiave analitica dicotomica (Lepesme, 1944), ha permesso l’identificazione di alcuni insetti, in particolare di quelli completi di caratteri diagnostici, che sono stati sistemati in una scatola entomologica. Infine, sono state compilate schede sulla biologia delle specie caratterizzate e sulla loro localizzazione nei vari siti. AREA DI STUDIO, SITI MONITORATI E MANUFATTI INDAGATI: DESCRIZIONE DELLE ALTERAZIONI Le indagini entomologiche sono state condotte in 4 comuni delle alte Madonie (Castellana Sicula, Geraci Siculo, Petralia Sottana e Polizzi Generosa), all’interno dei quali sono stati ispezionati 14 ambienti contenenti beni di natura organica, in particolare lignei e cartacei, quali archivi, biblioteche, chiese e musei. Quasi tutti i siti sono stati indagati più di una volta nell’arco dell’anno. Il monitoraggio ha interessato indistintamente tutti i manufatti sia lignei che cartacei, di pregio e non, più facilmente raggiungibili; solo in un caso, nella Chiesa di San Giuseppe Nuova a Castellana Sicula, non sono stati riscontrati segni di degrado. RISULTATI E CONSIDERAZIONI In totale sono stati raccolti 70 insetti Coleoptera, il maggior numero dei quali rinvenuto soprattutto nei sopralluoghi effettuati tra maggio e ottobre, periodo di sfarfallamento degli insetti. Dalle analisi è emerso che su 70 esemplari, 65 afferiscono alla fam. Anobidae, 3 alla fam. Dermestidae e 2 alla fam. Curculionidae. La fam. Anobidae è maggiormente rappresentata dai generi: Nicobium con la specie N. castaneum (Olivier), Anobium con la specie A. punctatum (De Geer), Stegobium con la specie S. paniceum (L.) e Oligomerus con la specie O. ptilinoides (Wollaston). Per quanto riguarda la fam. Dermestidae sono state ritrovate due larve ed un insetto adulto, quale Anthrenus verbasci (L.); infine 2 esemplari della fam. Curculionidae non sono stati identificati per mancanza di parti anatomiche. Oltre ai 7


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PROGETTI

70 insetti Coleotteri, sono stati rinvenuti esemplari di Psocotteri ed Imenotteri, anch’essi non identificati. Sui manufatti lignei sono stati rinvenuti insetti xilofagi Coleoptera (Anobidae, Curculionidae), ma la maggior parte delle alterazioni sono ascrivibili agli insetti Anobidii. Le alterazioni riscontrate, quali gallerie larvali e rosume, sono prodotte dallo stadio larvale di questi generi, in quanto le larve essendo dotate di un’endobiosi intestinale, riescono a digerire la cellulosa e dunque sono in grado di scavare tortuose gallerie all’interno del legno. Il risultato dell’erosione della larva nel legno è il rosume, costituito da escrementi e rosura, ovvero frammenti di legno. Il rosume è incoerente e granuloso, costituito da caratteristiche particelle fusiformi (Chiappini et al., 2001). Il foro di sfarfallamento circolare è, invece, praticato dalla fuoriuscita dell’insetto adulto e il suo diametro varia da 1 a 3 mm, a seconda della specie (Liotta e Leto Barone, 1990). Questi insetti praticano principalmente danni estetici, strutturali se l’attacco è di grosse dimensioni. Tuttavia, le diverse alterazioni riscontrate sono il risultato di attacchi pregressi, in quanto non è stato ritrovato rosume, la cui presenza, invece, attesta l’attività xilofaga delle larve.

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Anobium punctatum è la specie più diffusa, rinvenuta nella chiesa di Sant’Antonio Abate (Polizzi Generosa), nella Civica Raccolta etno-antropologica (Geraci Siculo), nella chiesa di San Francesco, nella chiesa di Maria SS. Assunta e nella chiesa della SS. Trinità (Petralia Sottana). L’infestazione, in queste ultime due chiese è in atto perché sono stati rinvenuti degli individui vivi e nuovi cumuli di rosume. Possiamo ipotizzare che anche nelle chiese di San Giuseppe e nella chiesa del SS. Crocifisso (Castellana Sicula) ci sia un attacco in atto per la continua fuoriuscita di rosume dai piccoli fori di sfarfallamento presenti sui manufatti. La specie Nicobium castaneum preferisce legni umidi e attaccati da funghi, ed è piuttosto diffusa perché gli edifici che ospitano le opere lignee analizzate sono particolarmente umidi. Numerosissimi individui di N.castaneum sono stati rinvenuti nella Civica Raccolta etno-antropologica (Geraci Siculo), altri nella Chiesa di Sant’Antonio Abate (Polizzi Generosa) e altri ancora nella Chiesa della SS. Trinità (Petralia Sottana). Tracce di un attacco di N. castaneum, cioè camere pupali ed escrementi fusiformi molto allungati con


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una caratteristica carenatura, sono state ritrovate anche nelle opere presenti nelle altre due chiese di Petralia Sottana (Chiappini et al., 2001). Oligomerus ptilinoides, è stato rinvenuto solamente nella chiesa di Maria SS. Assunta (Petralia Sottana); Stegobium paniceum sul crocifisso ligneo della biblioteca di Polizzi Generosa. Gli insetti appartenenti alla famiglia Curculionidae, riconoscibili dal loro caratteristico rostro, erano presenti nella Civica raccolta etno-antropologica di Geraci Siculo, dove sono stati ritrovati su legni umidi e attaccati da muffe. Sia le larve che gli adulti sono xilofagi e praticano gallerie in tutte le direzioni (Chiappini et al., 2001). Il monitoraggio ha, inoltre, evidenziato, nella chiesa di S. Antonio (Polizzi Generosa) e della SS. Trinità (Petralia Sottana), oltre che nella Civica raccolta etno-antopologica (Geraci Siculo), un fenomeno di parassitismo a spese delle larve e delle uova dei Coleotteri da parte di insetti appartenenti agli ordini Hymenoptera e Coleoptera (Dermestidae). Il fenomeno, che ai fini del degrado non ha alcuna rilevanza perché non sono biodeteriogeni del legno, può tuttavia indicarci la presenza di larve all’interno delle gallerie (Contarini, 2000). A Castellana, nella cappella della Madonna della Catena, alcuni insetti appartenenti all’ordine Hymenoptera hanno costruito all’interno delle travi del soffitto ligneo dei nidi pedotrofici. Per quanto riguarda i manufatti cartacei, negli ambienti archivistici la maggior parte delle alterazioni riscontrate sono pregresse ed ascrivibili ad insetti Coleoptera (Anobidae, Dermestidae) e Psocoptera. Sui volumi, le alterazioni più evidenti, come fori di sfarfallamento e gallerie larvali, sono state prodotte da Stegobium paniceum (Coleoptera, Anobidae) rinvenuti in quantità maggiore nella biblioteca di Polizzi Generosa. Si nutrono di amidi e zuccheri, oltre che di lignina e cellulosa, e solitamente il loro attacco sui libri parte dal dorso e dalle colle. (Gambetta et al., 2001) Due larve morte, appartenenti alla famiglia Dermestidae, sono state ritrovate nella biblioteca di Petralia Sottana. Esse si nutrono di sostanze organiche di origine animale (pelli, stoffe, pellicce, altri insetti morti) e possono danneggiare le pergamene, le copertine di pelle o le rilegature dei volumi (Caneva et al., 2002). Il rinvenimento di 2 singole larve morte non fa pensare ad un attacco in atto. Le erosioni irregolari riscontrate nelle pagine dei volumi possono essere state prodotte da Lepisma saccarina o da insetti appartenenti all’ordine Psocoptera. Quest’ultimi sono insetti di piccole dimensioni (max. 2 mm di lunghezza), si ritrovano in ambienti umidi ma a seconda della specie possono svilupparsi anche ad umidità relative del 60%. Si nutrono principalmente di residui di sostanze organiche vegetali o animali e di funghi, alghe, licheni. In ambiente archivistico attaccano inizialmente le rilegature (attratti dalle colle) e poi erodono anche le pagine (Cesareo et al., 2006). Sono stati rinvenuti nelle tre biblioteche.

Conclusioni Questi dati rilevati nell’arco di un anno, seppur insufficienti ai fini di una dettagliata conoscenza dello stato di conservazione dei Beni nel territorio in interesse, possono già consentire l’elaborazione di adeguati piani di intervento per mettere in salvo alcuni manufatti, in particolare si segnalano: il trittico di scuola siculo-marchigiana a Petralia Sottana, i volumi della biblioteca di Polizzi ed i manufatti della civica raccolta di Geraci Siculo, che versano in un avanzato stato di degrado. Tuttavia, per quanto riguarda gli altri manufatti indagati, bisognerebbe intervenire ugualmente per far si che non si arrivi a situazioni irreparabili. Infatti, solo intervenendo tempestivamente si può ridurre la gravità di un degrado e l’invasività di un eventuale intervento di restauro.

BIBLIOGRAFIA Caneva, Nugari, Salvadori 1994 G. Caneva, M.P. Nugari, O. Salvadori, La biologia nel restauro, Firenze 1994. Cesareo et. al. 2006 U. Cesareo, G. Marinucci, E. Veca, E Ruschioni, Il monitoraggio entomologico negli ambienti di conservazione dei beni archivistici, in “Bollettino ICR”, Nuova Serie, 13. Chiappini et al. 2001 E. Chiappini, G. Liotta, M.C.Reguzzi, A.Battisti, Insetti e restauro - legno, carta, tessuti, pellame e altri materiali, Bologna 2001. Contarini 2000 E. Contarini., Invertebrati in case, cortili e giardini della pianura emiliano-romagnola, Ravenna 2000. Gambetta, De Capua, Ruschioni, 2001 A. Gambetta, E.L. De Capua E. Ruschioni, Intervento di disinfestazione di manufatti cartacei., in “Bollettino ICR”, Nuova Serie, 2. Lepesme 1944 D. Lepesme, 1944, Les Colèoptères des denrées alimentaires et des produits industriels entreposés, Encyclopèdie Entomologique, XXII, Paris 1944. Liotta, Leto Barone 1990 G. Liotta, G. Leto Barone, Metodologie per la salvaguardia delle strutture lignee di interesse storico-artistico dagli attacchi degli insetti silofagi, in “Il restauro del legno”, II, a cura di G. Tampone, Firenze, pp. 215-233. Sparacio 1997 I. Sparacio, Coleotteri di Sicilia, parte II, Palermo 1990.

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L’ABATELLIS TRA CONTINUITÀ E INTEGRAZIONE NUOVO ALLESTIMENTO DELL’ALA SETTECENTESCA DELLA GALLERIA REGIONALE Ermanno Cacciatore

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opo due anni di lavoro è stata restituita al pubblico la Galleria regionale. Nel corso della presentazione alla stampa dello scorso 11 novembre ampio spazio ha avuto l’illustrazione del nuovo allestimento dell’ala settecentesca. Progetto realizzato nel solco di quello redatto da Carlo Scarpa ed inaugurato nel 1954. Esso rappresenta ancora oggi uno dei capisaldi della moderna museografia. Com’è noto l’edificio, realizzato nella seconda metà del XV secolo da Matteo Carnilivari, è una delle massime espressioni del gotico catalano presenti in Sicilia. Il complesso architettonico ruota su due livelli attorno ad una grande corte centrale su cui si affaccia un elegante loggiato. La terrazza di copertura conclude il fabbricato. Una seconda corte interna, residuo del grande cortile del Convento della Pietà, disimpegna i nuovi locali della galleria. Si tratta di un corpo di fabbrica rettangolare su tre elevazioni prospiciente il vicolo della Salvezza che collega via Alloro con l’Oratorio dei Bianchi. Il primo livello ospita i laboratori di restauro della Galleria mentre gli altri due livelli ospiteranno la collezione cinque e seicentesca da sempre custodita nei depositi della Galleria. Si tratta di due grandi ambienti rettangolari, identici per dimensioni, lunghi 40 metri e larghi 8 metri ca. Una teoria di balconi prospicienti la corte interna illumina gli ambienti, mentre il fronte sul vicolo della Salvezza presenta al terzo livello un unico grande finestrone. Il nuovo progetto si pone come ampliamento ed integrazione della esistente Galleria. Pertanto, nel pieno rispetto dell’allestimento scarpiano dell’ala quattrocentesca, il museo è stato integrato da una serie di nuovi servizi. Primo fra tutti è stato realizzato un percorso alternativo per i portatori di handicap. Una rampa inclinata è stata posta nella seconda corte per superare il dislivello esistente tra il piano del giardino e il primo livello; da qui un ascensore (il museo ne era sprovvisto) consente di raggiungere agevolmente i due livelli dell’ala settecentesca e, a ritroso, raggiungere l’ala quattrocentesca dove poter ammirare i capolavori assoluti, posti al primo piano, quali l’Annunciata di Antonello da Messina o la visione spettacolare, dall’alto, del Trionfo della morte. Attorno all’ascensore panoramico si snoda il corpo scala che conduce alla terrazza dell’ala quattrocentesca, fino a ieri interdetta al pubblico, da cui si gode una visione meravigliosa della città e in particolare di Monte Pellegrino. Come è noto ai frequentatori di Palazzo Abatellis la Galleria era sprovvista di un impianto di illuminazione artificiale; in realtà Carla Scarpa fece realizzare dei prototipi di lampade di vetro soffiato da una vetreria veneziana (qualcuna ancora esistente in deposito) e ci ha lasciato una serie di schizzi pro-

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gettuali su un’idea di impianto di illuminazione. Ma, per diverse ragioni, l’impianto non venne mai posto in opera. Con la consulenza di Pietro Castiglioni ed Emanuela Pulvirenti è stato realizzato un sistema di illuminazione compatibile con la costruzione quattrocentesca in coerenza col piano-Scarpa Un primo obiettivo che ci siamo posti è stato quello di realizzare un percorso museale che si integrasse “naturalmente” con il precedente. Pertanto dove finiva il percorso scarpiano, ovvero alla cosiddetta Wunderkammer da cui, percorrendo a ritroso lo scalone quattrocentesco, si tornava alla corte e quindi all’uscita del Museo, è stata riaperta una vecchia porta da cui si raggiunge la zona “filtro” dei collegamenti orizzontali e verticali con la nuova scala e l’ascensore vetrato. Da qui, facilmente, si raggiungono i servizi igienici a piano terra, la rampa per i portatori di handicap e, in alto, la terrazza. I materiali adoperati per la nuova ala sono volutamente differenti dai materiali usati da Carlo Scarpa, anche per identificare facilmente l’inizio del nuovo percorso. Dal “filtro” si entra attraverso una porta vetrata nel primo dei due grandi ambienti. Qui è ospitata la collezione cinquecentesca. Una prima difficoltà è stata rappresentata dalle dimensioni dei dipinti. Si tratta, per massima parte, di pale d’altare alte fino a 4 metri e larghe anche 3 metri. Appare evidente l’impossibilità di una corretta lettura delle opere da una distanza ravvicinata. Si è pertanto progettata una quinta spezzata che ha consentito la realizzazione di coni visuali ben più lunghi degli otto metri consentiti dalla larghezza dei vani espositivi. Il lungo serpentone ha inoltre consentito la creazione di singoli ambienti di dimensioni ridotte che, pur mantenendo un itinerario prettamente cronologico del progetto museologico, hanno permesso l’individuazione di momenti di sosta su opere che presentano particolari affinità (appartengono allo stesso artista, o alla stessa scuola o presentano temi su cui si è ritenuto di far sostare il visitatore). Anche il livello superiore presenta la stessa filosofia progettuale. Il lungo serpentone, interrotto qui e là per consentire percorsi personalizzati ogni volta differenti, si snoda lungo l’asse maggiore dell’ambiente, creando momenti di sosta sui singoli temi espositivi e consentendo la creazione, quasi occasionale ma in realtà attentamente studiata, di quegli scorci per la visione a distanza delle grandi opere. Una particolare attenzione è stata posta per la realizzazione della coloritura delle quinte. Sono stati scelti due colori (il verde al primo piano e il rosso al secondo) in qualche modo “estratti” dalle tavolozze dei pittori dell’epoca e su cui si stagliano perfettamente, senza fenomeni di sotto e sovraesposizione, le opere che finalmente potranno essere ammirate da un pubblico speriamo attento e numeroso. Progetto e direzione dei lavori a cura del CRPR Guido Meli Ermanno Cacciatore Roberto Garufi Collaboratori Antonino Caruso Salvatore Zappalà

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IL MUSEO DEL CORALLO COLLEZIONI DELL’“AGOSTINO PEPOLI” Maria Luisa Famà Direttrice Museo Pepoli

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l Museo Regionale “Agostino Pepoli” di Trapani ha sede nel trecentesco ex convento dei Padri Carmelitani, ampiamente rimaneggiato tra il Cinquecento ed il Settecento. Esso è contiguo all’importante Santuario dell’Annunziata, dove è conservata e venerata la statua in marmo della Madonna di Trapani, opera concordemente attribuita a Nino Pisano (1380 ca.). Il Museo illustra, insieme alle collezioni di pittura e di scultura, lo svolgimento delle arti figurative nel territorio trapanese con particolare riferimento alle arti decorative ed applicate, nelle quali Trapani primeggiò soprattutto per quanto riguarda le opere in corallo. Il nucleo fondamentale delle collezioni del Museo trae origine, nei primi del Novecento, dalla riunione in un unico istituto della quadreria donata alla città natale dal Generale Giovan Battista Fardella, Ministro a Napoli dei re Borboni, delle opere pervenute allo Stato a seguito della soppressione delle corporazioni religiose nonché delle raccolte artistiche private del conte Agostino Pepoli, ardente promotore della fondazione del Museo che proprio da lui prende nome. Si sarebbero poco più tardi aggiunti i reperti archeologici concessi dal Regio Museo di Palermo, i cimeli storici provenienti dalla Biblioteca Fardelliana di Trapani, i materiali artistici del locale Ospizio Marino “Sieri Pepoli” e nel 1922 i materiali del Museo Hernandez di Erice, assieme ad ulteriori incrementi dovuti ad acquisti da parte dello Stato o a doni e depositi da parte di enti e privati. La quadreria del Generale Fardella, è costituita principalmente da dipinti del Cinquecento e del Seicento, acquistati dal Fardella tra il 1825-30. Le collezioni del conte Pepoli sono invece eterogenee, includono infatti dipinti, gioielli, lapidi, bronzetti, riflettendo la cultura eclettica di stampo illuministico di questo straordinario intellettuale mecenate. In anni recenti Vincenzo Abbate, che ha diretto il museo per oltre un ventennio, ha acquisito numerose opere afferenti le arti decorative ed applicate, che hanno notevolmente accresciuto le collezioni del museo, in cui prevalgono i manufatti in corallo. L’attività espositiva dell’ultimo ventennio si è indirizzata principalmente verso questa particolare categoria artistica, offrendo all’attenzione del pubblico e degli studiosi opere che, se da un lato sono fortemente collegate al retroterra storico-culturale della città, dall’altro riflettono, attraverso numerosissime testimonianze, il percorso produttivo ed artistico della scultura “maggiore” dei grandi maestri. Al corallo è fortemente legata la stessa immagine del museo, che pur comprendendo collezioni diverse quali, pitture su tela e tavola, sculture, presepi, gioielli, paramenti sacri, arredi lignei e reperti archeologici, si contraddistingue per i suoi preziosi manufatti in corallo. Per brevità citeremo innanzitutto la Lampada, il Crocifisso ed il Calice di Fra’ Matteo Bavera, artista nato a Trapani probabilmente intorno al 1580-81, che in tarda età si era riti-

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rato come fratello laico nel convento di San Francesco d’Assisi, da cui provengono le opere citate. La Lampada, firmata e datata dal maestro al 1633, costituisce un caposaldo di importanza fondamentale per la determinazione cronologica delle opere di questa categoria artistica in corallo, rame dorato e smalti, proprio per la presenza della datazione, in genere infatti tali manufatti erano anonimi e solo raramente citati dalle fonti. Il Crocifisso, di grande potenza plastica ed espressiva per lo straordinario pathos del volto del Cristo, è una delle poche opere in corallo note sin dal Seicento, anche per le sue notevoli dimensioni (h. cm 64 x 28). Infine, il Calice, è stato giustamente considerato dalla critica una delle migliori opere in corallo della prima metà del XVIII secolo per la complessità ideativa e il suo particolare pregio estetico. Il Tesoro della Madonna di Trapani esposto in parte nel Museo Pepoli ed in parte conservato nel contiguo santuario, costituisce uno dei più importanti e significativi nuclei di oggetti preziosi di Sicilia e le oreficerie, in particolare, testimoniano la ricchezza ed il gusto, spesso molto ricercato, che le nobili trapanesi manifestavano negli ornamenti personali. Tra i gioielli del Tesoro, ex-voto per grazia ricevuta o semplicemente doni offerti alla Madonna di Trapani, figurano naturalmente numerosi monili in corallo, che spiccano fra i tanti per la loro particolare vivacità e luminosità. Gli orecchini e i pendenti, spesso recano miniaturistiche figure di santi, mentre raffinate scene mitologiche, riproducenti le fatiche di Ercole, compaiono su un preziosissimo Bracciale composto da dodici cammei ovali in corallo (forse opera di Matteo Bavera).


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LO SCRIGNO DEI RICORDI FIBRE, TESSUTI, TAGLIO E TAGLIE SARTORIALI Roberta Civiletto/Caterina Dessy

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’imminente apertura di una nuova sezione, all’interno del Museo “Agostino Pepoli” di Trapani, dedicata al costume aulico, che verrà inaugurata con la mostra dal titolo Preziosi abiti tra rococò e romanticismo, è stata l’occasione per sviluppare un lungo e complesso progetto di conservazione su alcuni abiti antichi, sinora custoditi nei depositi. Nella fase di ricerca e sperimentazione dell’intervento, avente carattere multidisciplinare, sono state coinvolte alcune professionalità altamente specializzate provenienti da Istituti esterni che, lavorando in perfetta sinergia con il team del laboratorio, hanno consentito di completare l’azione di recupero morfologico, seguendo un’attenta ricostruzione filologica. Inoltre con l’intento di ricreare una suggestiva ambientazione ed una fedele contestualizzazione storica, ottimizzando così le potenzialità comunicative degli abiti da esporre, sono stati ideati e realizzati, dagli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Palermo, sotto la guida e la supervisione del Laboratorio di Restauro e dei docenti (il progetto didattico è stato condotto da Arianna Oddo affiancata da Alessandra Tavella) alcune acconciature e copricapi di completamento, utilizzando svariati materiali compatibili con le norme di conservazione. I complessi interventi di restauro, numerosi e diversificati, hanno comportato caso per caso la valutazione e la risoluzione delle singole problematiche conservative. Per consentire una più agile comprensione delle particolarità degli oggetti e delle azioni di risanamento apportate, si è scelto di illustrare sinteticamente ogni intervento sviluppato e di fornire alcune notizie storiche sulle opere trattate. IL RESTAURO DEL NUCLEO DI ABITI ED ACCESSORIO ANTICHI DEL MUSEO PEPOLI Caso n. 1- Abito da ricevimento, manifattura italiana (Sicilia) 1845-1848: abito in tre pezzi in tessuto pékin, fondo in taffetas di seta giallo oro con motivi a composizione floreale disposti su nastri trinati, lungo strisce orizzontali, creati da trame broccate e orditi supplementari (flotté). Bustino steccato, sagomato a punta davanti, chiuso posteriormente con ganci. Scollo a barca. Maniche lunghe a pagoda, drappeggiate sulla spalla, decorate da nastro frangiato con minuti disegni floreali e merletto blonde in seta écru, con motivi floreali. Gonna a campana con fitta arricciatura in vita ornata da due balze, rifinite da largo nastro frangiato con minuti disegni floreali. Fisciù triangolare chiuso sul davanti da ganci interni e decorato da nastro trinato e falsi bottoni rivestiti in seta. L’abito è appartenuto alla famiglia dei Baroni Curatolo di Trapani. La delicatezza del colore, la raffinatezza del tessuto, caratterizzato da decorazioni della seta tono su tono, fanno pensare ad una veste nuziale, particolarmente vicina ad un’altra della Galleria del costume di Palazzo Pitti. Carattere tipico dei primi anni quaranta dell’Ottocento è il modello con busto attillato dalle spalle calate, la gonna a

campana, moderatamente ampia, ma arricchita da balze e l’uso di stoffe disposte a sbieco nel busto. L’accentuato degrado molecolare del tessuto e delle decorazioni a merletto, nonché la vistosa presenza di precedenti restauri, condotti in maniera impropria, ha indotto ad un intervento conservativo molto complesso. Dopo avere svolto le necessarie indagini diagnostiche, utili a valutare anche quali e quanti possibili stress meccanici avrebbe potuto sopportare l’opera durante il trattamento, e avere elaborato una minuziosa azione di rilevamento dati (rilievo fotografico e grafico dei danni e del taglio sartoriale), l’abito è stato parzialmente smontato. Successivamente alla pulitura ad aria, la vaporizzazione e la messa in posa dei singoli elementi, si è proceduto alla fase di consolidamento ad ago. Le ampie lacerazioni e le estese lacune, che occupavano la quasi totalità della veste, sono state integrate totalmente mediante l’applicazione, sul retro, di un supporto in organza di seta, tinta in laboratorio nel colore idoneo, utilizzando su ampie superfici la tecnica del punto postato. Per garantire la necessaria consistenza al tes-

suto e al contempo proteggere la superficie, la fase di consolidamento è stata completata con la tecnica a sandwich, applicando a cucito, sul fronte dell’intera stoffa, un sottile velo di Lione, anch’esso tinto in laboratorio, con una batteria di filze scansionate (punto pioggia). Si è dunque proceduto alla delicata fase del riconfezionamento, seguendo come guida le tracce degli originari punti del cucito. A tal fine sono stati fondamentali il rilievo sartoriale e i numerosi riferimenti bibliografici. Caso n. 2 - Abito femminile Andrienne, manifattura italiana (Sicilia) 1775-1778 ca. abito del tipo Andrienne originaria13


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mente composto da due pezzi: sopravveste (manteau) e sottanino (juppe) oggi mancante. Tessuto in pèkin, fondo raso, con ordito a disposizione in più colori; effetti creati da un ordito supplementare che descrive esili righe verticali in cannellè simpletè e da trame broccate policrome che disegnano minuti tralci fioriti ad andamento ondulante e sviluppo verticale, che si succedono orizzontalmente. Sopravveste aderente al busto con largo pannello posteriore che crea un leggero strascico, caratterizzato dalle tipiche pieghe a cannone. Il corpetto, con bustino interno, balenato sul dorso, scende a punta stondata sul davanti ed è chiuso con allacciatura anteriore nascosta. Ampio scollo carré, decorato con applicazione di merletto ad ago, in seta avorio, con inserti di piccoli fiori artificiali policromi. Maniche a palloncino rifinite da delicato merletto ad ago. Lungo il bordo della sopravveste si sviluppa un ampio merletto ad ago, simile a quello che decora scollo e maniche, arricchito da applicazioni di ruches e torchons sempre in merletto, fiocchi e corolle floreali sintetiche in tessuto, distribuiti su fasce parallele e orizzontali. L’ampia veste in origine era sostenuta da panier à conde. L’ abito appartenuto alla nobile famiglia Bulgarella – Ponte, di Trapani, risponde alla caratteristiche morfologiche citate in numerosi inventari nobiliari, dove, in corrispondenza dei beni mobili, sono minuziosamente descritti anche abiti ed accessori vestimentari. Il modello della veste mostra la sintesi del gusto francese e di quello esercitato dalla moda inglese; il primo individuabile nella presenza delle delicate decorazioni a merletto sui pannelli anteriori della sopravveste, su scollo e maniche, l’altro evidente nel taglio del corpetto unito, balenato, chiuso sul davanti. La confezione del capo, di ottima fattura, potrebbe essere ascritta ad un atelier siciliano, forse palermitano (secondo una consuetudine della nobiltà trapanese, già riscontrata dalla consultazione di documenti di archivio, di acquistare capi d’abbigliamento da sarti palermitani). L’intervento di restauro applicato sulla ricca sopravveste è consistito prevalentemente nel ripristino dell’originaria morfologia del capo e nel recupero dei delicati merletti che lo ornano, interessati da un accentuato degrado molecolare. A tale proposito, dopo aver svolto tutte le indagini diagnostiche preliminari agli interventi conservativi, e analizzato le qualità cromatiche del tessuto, mediante l’indagine colorimetrica, si è proceduto alle fasi di pulitura e messa in forma dell’opera. Un attento studio della foggia sartoriale, attraverso rilievo grafico, ha preceduto lo smontaggio, la pulitura, il consolidamento dei merletti e la loro ricollocazione secondo l’originario andamento sinuoso. Particolare attenzione è stata posta alla ridefinizione della volumetria del capo, raggiunta attraverso la messa in posa del tessuto su appositi supporti creati in laboratorio. Al fine di costituire una unità formale e visiva dell’abito, si sta procedendo alla realizzazione di una replica del sottanino, con un tessuto in raso di seta su cui sarà eseguita una stampa serigrafica che simulerà gli effetti decorativi e le cromie della stoffa originaria. Per raggiungere tale esito si è svolto un meticoloso studio delle decorazioni che caratterizzavano il ricco tessuto francese con il quale è stato realizzato il capo, attraverso l’analisi tecnica, merceologica e il rilievo grafico del modulo disegnativo. Per tale operazione si è rivelata di fondamentale utilità l’indagine colorimetrica precedente-

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mente svolta. La realizzazione della stampa sul tessuto e la confezione del sottanino è stata affidata a tecnici esperti del settore, docenti presso l’Istituto Statale d’Arte Filippo Juvara di San Cataldo (CL). Caso n. 3 - Abito femminile, Andrienne, manifattura italiana (Sicilia)1775-1778 ca.: abito del tipo Andrienne composto da due pezzi: sopravveste (manteau) e sottanino (juppe). Tessuto in gros de Tours avorio, liseré, broccato in sete policrome con motivo ad esili tralci e rametti fioriti disposti su file parallele verticali. Sopravveste aderente al busto con largo pannello posteriore, che crea un leggero strascico, caratterizzato dalle tipiche pieghe a cannone. Il sottanino si allunga fino alle caviglie per lasciare in vista le scarpette, che dovevano essere in tessuto di seta operato o ornate da ricami. Il corpetto, con bustino interno, balenato sul dorso, scende a punta stondata sul davanti, ed è chiuso con allacciatura anteriore nascosta. Ampio scollo ovale. Maniche strette al gomito del tipo en sabo. L’ampia veste in origine era sostenuta da panier à conde. La veste, completa delle sue parti strutturali, ma giunta a noi priva degli éngageantes che originariamente ornavano gli orli delle maniche, apparteneva ai Baroni Curatolo di Trapani. Il delizioso capo, confezionato probabilmente in un atelier sartoriale siciliano, è realizzato con un tessuto francese di tipico gusto fine Rococò, le cui principali caratteristiche sono i colori, dalle delicate tinte pastello, una struttura tessile molto leggera e decorazioni


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minute di tipologia floreale. L’Andrienne, con la sua particolare foggia connotata da larghe superfici, consentiva a chi la indossava di mostrare tutta la ricchezza del tessuto e dunque anche di esibire il proprio stato sociale. Come per l’altra Andrienne, gli interventi di restauro hanno seguito l’impostazione metodologica che, partendo dallo studio tecnico, storico e diagnostico, hanno condotto all’azione di risanamento. Il profondo degrado molecolare del tessuto, caratterizzato da fenomeni di polverizzazione, dalla presenza, su larga parte della superficie, di netti tagli longitudinali e lacune sfrangiate, ha comportato, dopo la necessaria pulitura e messa in forma dell’opera, l’applicazione di un consolidamento di tipo “totale”. La scelta del tessuto di supporto è stata oggetto di un’attenta riflessione: gli elementi sartoriali della veste, privi di fodera, consentivano di osservare agevolmente il rovescio della delicatissima stoffa operata a trame broccate. Questo aspetto costituisce un’importante caratteristica della foggia e al contempo un importantissimo dato tecnico per gli studiosi del settore e gli storici del tessuto o del costume. Era dunque necessario custodire l’istanza storica e tuttavia fornire al tessuto una valida struttura di base che gli restituisse la necessaria tenuta meccanica. Si è allora optato per un tessuto in organza di seta, tinto in laboratorio nella nuance idonea, con caratteristiche di compattezza e trasparenza, poi applicato ad ago (ago curvo di tipo chirurgico), mediante i punti “posato” e “pioggia”, con sottilis-

simo filo di seta. Questo tipo di consolidamento, perfettamente reversibile, garantirà una facile ispezione del rovescio del tessuto nonchè una valida integrazione strutturale e visiva delle lacune. Infine, per restituire unità formale al modello sartoriale si sta procedendo alla realizzazione di repliche degli éngageantes, in organza di seta, da applicare in corrispondenza dei gomiti. Caso n. 4 - Livrea del Senato, manifattura italiana (Sicilia) inizi del XIX secolo: livrea in panno di lana blu e fustagno color avorio, di linea leggermente svasata, con collo a fascetta verticale tagliato dritto, spalle rotonde e maniche aderenti con alti paramani in panno avorio ornati da gallone in velluto operato, cesellato a due corpi con motivi floreali. Mostre leggermente stondate, con quattro bottoni in metallo a motivi araldici, profilo segnato da un alto gallone in velluto uguale al precedente, chiusura interna con ganci. Tasche in panno avorio a patta sagomata a tre punte ornate di alto gallone in velluto operato, cesellato a due corpi, profilati da tre bottoni metallici. Falde larghe squadrate e leggermente svasate che si riuniscono posteriormente in doppi piegoni fermati da due bottoni metallici, con spacco centrale posteriore. Tutte le strutture interne del capo sono delimitate da un gallone uguale a quello che definisce le bordure esterne. Fodera in flanella di colore avorio. La veste mostra la tipica standardizzazione del modello, tramandandosi per lungo tempo senza grandi varianti nella foggia e nella gamma cromatica, riscontrabile in altri numerosi esemplari simili al nostro, ancora oggi custoditi presso collezioni pubbliche o private. Le caratteristiche formali della livrea, il colore blu del panno e la tipologia del gallone inducono a pensare che il capo fosse stato indossato dal personale del senato cittadino in occasione di cerimonie ufficiali. L’abito era interessato da un accentuato degrado di tipo fisico e molecolare, caratterizzato dalla presenza di parziali scoloriture delle tinte e dal deperimento della struttura tessile con conseguente formazione di locali buchi e lacune, insieme a fenomeni di polverizzazione. Dopo le opportune indagini, si è passati alle fasi di pulitura, messa in forma, integrazione di lacune e generale consolidamento. Vista la robustezza della originaria struttura tessile, per l’integrazione ad ago si sono individuati dei tessuti molto simili a quello originale, in fibra di natura animale, poi tinti in laboratorio per raggiungere le diverse cromie occorrenti. Caso n 5 - Livrea per la servitù., manifattura italiana (Sicilia) inizi del XIX secolo: livrea in panno di lana rossa, di linea aderente, con collo a fascetta verticale tagliato alto e dritto, spalle rotonde e maniche aderenti con paramani ornati da gallone in velluto operato, cesellato a due corpi con motivi floreali. Mostre stondate, con otto bottoni fasciati e ricamati a motivi geometrici, profilo segnato da un alto gallone in velluto uguale al precedente ma all’interno del quale è incluso uno stemma (albero con leone rampante); chiusura interna con ganci. Tasche a patta sagomata a tre punte ornate di alto gallone in velluto operato, cesellato a due corpi e da bottoni. Falde squadrate e sfuggenti che si riuniscono posteriormente in doppi piegoni fermati da un bottone, con spacco centrale posteriore. Tutte le strutture interne del capo sono delimitate da un gallone uguale a quello che definisce le bordure esterne. Fodera in flanella di colore marrone bru-

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ciato. La veste, caratterizzata da un taglio sartoriale che risponde ai dettami della moda maschile in auge, si distingue per fasto ed eleganza. Se questo genere di capo, destinato alla servitù di aristocratiche famiglie o ai dipendenti pubblici, subisce la standardizzazione del modello, tramandandosi poi immutato per lungo tempo nella foggia e nella gamma cromatica, il nostro esemplare è tuttavia l’esempio di come, a certi livelli, il prestigio e la ricchezza della nobiltà fossero esibiti in occasione delle pompe sociali, anche attraverso l’immagine esteriore del proprio personale di servizio. L’intervento di restauro ha seguito il consueto iter di pulitura, messa in forma, e consolidamento. Caso n. 6 – Ventaglio, manifattura francese, 1840-45: stecche (n. 16) in osso traforato, dorato, con doppia pagina in carta decorata a stampa, mediante tecnica litografica acquerellata e dorata, sul verso e sul recto, raffigurante su un lato, una idilliaca scena campestre e sull’altro una scena con costumi ottocenteschi. Coronamento realizzato con piume colorate e minute corolle artificiali. Decorazione con nappa pendente in fili di seta ritorta e filato in ciniglia. Autore della stampa litografica: Palamede De Viseontin. Il ventaglio, fondamentale accessorio dell’abbigliamento femminile, diviene nell’Ottocento oggetto anche di propaganda, divulgazione di temi storici, patriottici, letterari e musicali. La tipologia strutturale dell’oggetto, la tecnica di stampa utilizzata, le decorazioni ed i soggetti raffigurati consentono di datare l’opera alla prima metà dell’Ottocento. La pulitura della strut-

Le attività di conservazione sono state condotte dai tecnici del laboratorio di restauro di manufatti di origine organica del CRPR

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tura in osso è stata eseguita ad aria e mediante l’uso di un tensioattivo (Tween 20). Le pagine, interessata da numerose lacune, sono state integrate con polpa di carta e alcune zone sono state riequilibrate nei toni ad acquarello. Il consolidamento è stato effettuato con nebulizzazione di CMC diluito con acqua deionizzata. Caso n. 7- Scarpe (un paio), manifattura italiana (Sicilia) prima metà del XIX secolo: scarpe femminili piane con tomaia in vitellino, tagliata in due pezzi, rifinita al bordo da fettuccia in taffetas di seta di colore marrone; fodera interna in pelle di capra allumata. Punta quadrata, lunghi lacci laterali in taffetas di seta, colore marrone. Fodera in pelle di capra allumata, suola in cuoio. La scarpa bassa iniziò ad essere usata durante il periodo impero, quando era abbinata ad abiti di gusto neoclassico. Il suo uso continuò tuttavia con lievi variazioni fino alla metà dell’Ottocento. Le nostre scarpette erano deformate, interessate da un marcato inaridimento del cuoio e da uno spesso strato di polvere grassa. I lacci si mostravano pieni di grinze e pieghe, mentre la struttura tessile presentava fragilità meccanica. Le calzature sono state ripulite mediante pulitura ad aria con micro aspiratore e pulitura meccanica attraverso l’uso di un tensioattivo (Tween 20). La morfologia delle scarpe è stata riacquistata mediante un’idratazione controllata e l’inserimento di sostegni flessibili in cartoncino a lunga conservazione. I lacci sono stati puliti, messi in forma e consolidati ad ago.


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VIRGO LACTANS

LA MADONNA DELLA LAVINA DI CERAMI Chiara Caldarella/Alessandra Longo

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Cerami, Abbazia di San Benedetto. Madonna della Lavina, prima dell’intervento

a ricerca, condotta dall’Unità per i Beni Storico-artistici, iconografici ed etnoantropologici e pubblicata nel 2006 in “U circu e a bannera. Le feste di San Sebastiano a Cerami” - “I quaderni di Palazzo Montalbo”, è stata l’occasione che ha spinto i tecnici del CRPR a prendersi cura di una tavola quattrocentesca raffigurante la Madonna della Lavina, custodita nella chiesa abbaziale di San Benedetto a Cerami in pessimo stato di conservazione. Il dipinto con la Vergine assisa in trono in atto di allattare il Bambino tra due angeli (Virgo Lactans) è un’opera poco conosciuta, che, come molte altre immagini sacre, ha svolto fin dall’antichità un ruolo molto importante nell’immaginario collettivo, conservando ancora oggi un inscindibile legame con la popolazione locale. La denominazione della Madonna della Lavina è infatti legata alla presenza di un piccolo torrente, in dialetto u lavinaru, che scorre nelle campagne attorno a Cerami, dove sorge una piccola chiesetta, anticamente una cappella annessa a un convento di suore benedettine, nella quale leggendariamente si trovava la tavola prima di essere trasportata nel monastero annesso all’abbazia di San Benedetto, dove oggi è conservata1. La preziosità dell’opera e l’avanzato stato di degrado sono state le ragioni principali che hanno spinto i tecnici del CRPR alla progettazione di un intervento conservativo, che, giunto finalmente alla conclusione, grazie alla sinergia della ricerca di coloro che vi hanno collaborato, ha ridato splendore ad un’opera di sicuro pregio artistico. Per impostare correttamente l’intervento di restauro e di conservazione è stato necessario conoscere esattamente la tecnica artistica di esecuzione, definire i fenomeni del degrado e risalire alle loro cause. Per questo motivo il dipinto è stato sottoposto ad un approfondito studio interdisciplinare basato sulle indagini diagnostiche sistematiche e complete, che hanno permesso di individuare correttamente le linee guida per l’intervento e per la metodologia di conservazione. Gli accurati esami scientifici e lo studio sulla particolare tecnica di esecuzione del dipinto, realizzato a tempera con impiego di oro sulla tela, incorporata allo strato della preparazione della superficie pittorica, hanno aggiunto importanti notizie utili alla conoscenza dell’opera stessa e delle sue caratteristiche tecniche, sopperendo in qualche modo all’esiguità delle fonti documentarie. Il risultato delle indagini chimiche sulla tecnica ha infatti permesso di avanzare l’ipotesi di un intervento di un pittore esterno o di un pittore locale, condizionato da2 metodologie usate tradizionalmente in altri ambiti culturali . Contestualmente, attraverso l’analisi storico-artistica e filologica, si è cercato di ricostruire il clima culturale nel quale collocare l’opera, riconosciuta come un pregevole esemplare di quella corrente artistica, diffusa tra il XIV e il XV secolo nell’Italia meridionale, sulla quale, su una premessa di origine bizantina, si innestarono gli esiti della cultura occidentale con uno sguardo rivolto alla pittura senese, agli elementi veneto-marchigiani e al decorativi17


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smo catalano3. La datazione dell’opera, basata principalmente sull’analisi stilistica, è stata supportata anche dai risultati dell’indagine dendrocronologica, che, attraverso il confronto delle varie sincronizzazioni, ha presumibilmente collocato l’età della tavola nel periodo compreso tra il 1433 e il 1486, individuando l’autore in un artista attardato che sembra abbia riproposto i caratteri della cultura di inizio Trecento rinnovandoli, con un modellare più fluido, non solo nell’impostazione ma anche nell’adozione di un nuovo e originale partito decorativo. L’intervento sul dipinto ha avuto un notevole interesse anche ai fini della sperimentazione, che ha riguardato soprattutto le fasi del consolidamento e della pulitura dello strato pittorico, che si presentava molto lacunoso. L’attenta operazione di pulitura, che ha consentito di rimuovere le ridipinture estese riportando alla luce i colori originari, ha svelato elementi interessanti per quanto riguarda la tessitura cromatica del film pittorico realizzata con colori squillanti stesi con pennellate corpose, entro il segno grafico degli ornati e le linee spesse del contorno dei volti, delle mani, che rievocano tendenze stilistiche di matrice spagnola, rintracciabili ad esempio nel grande retablo del Maestro di Arguis, ora al Prado, realizzato tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo. Riguardo all’iconografia della Virgo lactans, raffigurata nella tavola, è generalmente accettata l’opinione che l’immagine della Vergine allattante sia derivata dalla antica rappresentazione di Iside che allatta il dio pagano Horus. Il tema cristianizzato della Madonna con Bambino, (avvenuto in Egitto e diffusosi dal 431, dopo il concilio di Efeso)4 fu recuperato solo nel secolo XII e incontrò enorme successo a partire dal XIII secolo, stimolando una fiorente produzione d’immagini devozionali sia nella pittura che nella scultura, in coincidenza con la diffusione, promossa dai crociati, delle icone della Galactotrephousa, o Madonna allattante. Una tesi recente, formulata da Ludovico Rebaudo, riguardo all’origine dell’iconografia della Vergine allattante, sostiene, invece, l’esistenza di una tradizione iconografica occidentale dello stesso tema connesso ab origine ad un’antica rappresentazione dell’Adorazione dei Magi, che prescinde dalla raffigurazione di Iside e precede la Galaktrophoùsai copta di oltre un secolo5. Il soggetto di Maria che allatta, che esprime nella delicatezza dei tratti della figura della Madonna una connotazione realistica e affettiva, fu variamente riprodotto nel XIV secolo soprattutto nella pittura iberica e indubbiamente la circolazione dei modelli spagnoli nei territori siciliani del regno aragonese condizionò profondamente gli artisti ed in generale i gusti della committenza, che talora impose agli autori non solo scelte stilistiche ma anche iconografiche. Anche l’attardata impostazione tardo-gotica della composizione, in cui l’unico movimento della figura statica della Vergine è affidato alla banda dorata spiraliforme, che sottolinea l’orlo del mantello o maphorion indossato sopra la tunica, sembra riproporre modelli graditi a maestri catalani italianizzanti, quali il Maestro di S.Marco, il presunto Ramon Destorrents, o quello di Estopiñan, richiamati nella definizione dei tratti fisionomici del Bambino e degli angeli, nello ricerca di una espressività più calcata nello sguardo della Vergine e 18

nell’ombreggiatura degli incarnati. Ad ogni modo la presenza di particolari caratteri arcaici della Vergine ( il taglio degli occhi, l’esile tratto delle sopracciglia, il naso affilato, l’inclinazione del volto, la lumeggiatura del viso e del collo, la posa del Bambino, la rigidità delle mani) si trova similmente anche in alcune opere di artisti siciliani, come il Maestro del Trittico di Santa Maria a Licata, vicino alla cerchia di Louis Borrasà, con un preciso rinvio alle opere degli spagnoli Ermanno e Pietro Serra, ben noti in Sicilia già alla fine del XIV secolo6. Anche nel tendaggio decorato a ramages, steso dietro le spalle della Vergine, o nel disegno del cuscino ai piedi, che consiste in un tracciato di forme regolari come in una stoffa a broccato si possono rintracciare le tendenze decorative di gusto valenzano che avvalorano l’ipotesi che gli aspetti caratterizzanti di questo dipinto risentano del gusto eclettico, rivestito di nuovo vigore, che circolava tra i possedimenti della corona aragonese.

Particolare della Vergine durante l’intervento.


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Nota di restauro L’opera è composta da un dipinto a tempera su tavola (cm166 x 63 e cm2, circa, di spessore) e da una cornice lignea dipinta e dorata (circa cm30 di larghezza) entrambi cuspidati sulla parte superiore. Su tutta la superficie del supporto ligneo si trova una preparazione bianca dove è stata applicata un’unica tela a trama fitta di colore chiaro; su di essa è stato steso un altro strato di preparazione uguale alla sottostante che accoglie la pellicola pittorica. La cornice è stata eseguita a foglia d’argento meccato sulle parti aggettanti e dipinta in verde sulle modanature interne. Il manufatto, prima dell’intervento, si presentava molto offuscato per la presenza di un film grigiastro, si notavano estese ridipinture e lacune della pellicola pittorica, della preparazione e della tavola ed erano presenti fori e chiodi fissati sulla superficie dovuti all’applicazione di oggetti devozionali e ornamentali in relazione al culto dell’effige. Anche sulla cornice vi erano delle ridipinture localizzate sulla zona inferiore e, diffusamente, erano presenti lacune e chiodi. La struttura lignea dell’opera si presentava in generale compatta, ad eccezione di alcune zone che si mostravano indebolite da una pregressa infestazione di insetti xilofagi, che era ancora in atto, sulla cornice, al momento dell’arrivo in laboratorio. Il metodo di disinfestazione scelto è stato quello delle atmosfere modificate per sottrazione di ossigeno, tramite sacchetti ermetici contenenti polvere di ferro; con questa operazione si è attivata una collaborazione con i tecnici della Galleria Regionale di Palazzo Abatellis Arabella Bombace, Tiziana Lorenzetti e Bianca Pastena, con le quali, per tutte le fasi successive, si è proceduto seguendo il principio del “minimo intervento”. Le indagini chimiche hanno permesso di individuare nella composizione dei due strati preparatori, insieme alla colla animale, l’inusuale presenza di gesso anidro, elemento molto solubile in acqua che ha determinato la fragilità del composto, che è da considerarsi tra le cause principali della caduta di colore. Una particolare attenzione, quindi, è stata rivolta al consolidamento della preparazione e della superficie pittorica, che ha rappresentato l’aspetto più importante e problematico di questo studio. Insieme al restauratore Alberto Finozzi (CESMAR7) sono state eseguite numerose misurazioni di forza su campioni precedentemente preparati con diversi consolidanti in diverse diluizioni. Avvalendosi dei risultati ottenuti dalla sperimentazione, sulla base del principio del minimo intervento e secondo la “necessità”del manufatto, è stato scelto il consolidante da utilizzare ed in quale percen-

tuale applicarlo. Per la scelta dell’intervento di reintegrazione pittorica ci si è avvalsi dell’elaborazione informatizzata di tavole virtuali su supporto digitale eseguite da M.Francesca Mulè e M.Rosalia Carotenuto. Al fine di una corretta lettura del dipinto si è preferito reintegrare pittoricamente le piccole lacune degli incarnati e trattare le grandi ed estese mancanze di colore con la tecnica della “tinta neutra” eseguita direttamente sulla tela. Tutte le operazioni sono state documentate con immagini fotografiche e sono state effettuate anche le mappature dello stato di conservazione, dei prelievi e dei punti di misura delle indagini scientifiche. L’opera infatti è stata sottoposta nei laboratori del Centro ad analisi chimiche, fisiche, microbiologiche, entomologiche, xilotomiche, dendrocronologiche e merceologiche per l’individuazione dei materiali costitutivi e sopramessi e per la ricerca delle cause di degrado. A tal proposito è stato eseguito il monitoraggio microclimatico all’interno della chiesa che ospita il dipinto.

Fase del consolidamento dello strato pittorico

Indirizzo metodologico fornito dal comitato scientifico all’uopo composto da Franco Fazzio, Antonio Rava, Lorella Pellegrino, Alberto Finozzi. Restauro della cornice laboratori di P. Abatellis. Si ringrazia la Dott.ssa Giulia Davì ed i tecnici del Gabinetto di Restauro della Galleria per la collaborazione al restauro del dipinto e della cornice. Le attività di restauro sono state condotte dai tecnici del laboratorio di restauro materiali di origine organica del CRPR - Gabinetto Tele e Tavole

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Particolare del maphorion del mantello della Vergine durante la pulitura

NOTE V. Amico, Dizionario topografico della Sicilia, tradotto dal latino ed annotato da Gioacchino Di Marzo, 2 vol., Palermo 1855-1856, I, alla voce “Cerami”, pp. 319-320 “...[Cerami] II Monastero di monache è adorno del titolo di Santa Maria di Lavina, sotto gli istituti di San Benedetto; erano quelle un tempo fuori il paese; stanno oggi sotto il tempio principale e mostrano un’antichissima tavola di Madonna, illustre per meravigliosi prodigi.’’; G.Pitrè, Feste patronali in Sicilia, Palermo 1900, p.224. Il Pitrè riporta una notizia sulla tavola, collegata al cerimoniale della festa in suo onore a Cerami. Altri esempi di opere eseguite con la stessa tecnica sono: gli scomparti del retablo sottostante gli affreschi attribuiti al fiorentino Dello Delli nella cattedrale di Salamanca, la tavola con l’Ascensione (Palermo, Galleria Regionale “Palazzo Abatellis”) e la tavoletta con la Madonna e il Bambino (Alcamo, Chiesa dei SS. Paolo e Bartolomeo) . A. De Bosque, La pittura italiana in Spagna, 1968 p. 112, figg. 113-124; L. Buttà, La pittura tardogotica in Sicilia: incontri mediterranei, Palermo, Kalòs, 2008. Già dalla prima metà del Trecento erano giunti in Sicilia dalla Lombardia la Madonna dell’Umiltà di Bartolomeo da Camogli (1346) e alla fine del Trecento dalla Toscana opere di Antonio Veneziano, la Madonna col Bambino di Barnaba di Modena e altri dipinti della bottega di Nicolò da Veltri, Jacopo di Michele, Turino Vanni, Andrea Vanni e Taddeo di Bartolo. Le prime immagini di Maria “Galactotrephousa” o “Madonna allattante” (così era chiamata in Oriente, mentre in Occidente veniva appellata “Maria Lactans”) sono di origine copta e si trovano in una cella monastica di Banit in Egitto e in una caverna eremitica del Monte Latmos in Asia minore (risalenti ai secc. VI – VII) nonché a Roma in un frammento di scultura del sec. VI, rinvenuto nel Cimitero di San Sebastiano. L. Rebaudo, Fausta, Pietas e la Virgo Lactans: migrazione di un motivo, in Società e cultura in età tardoantica, Atti dell’incontro di studi (Udine 2930 maggio 2003), Grassina (FI), 2004, p. 181-209. Tra le opere stilisticamente più vicine alla tavola di Cerami ed eseguite nella prima metà del XV secolo si citano anche la Madonna del Latte ( Siracusa, Galleria Regionale di Palazzo Bellomo), la Madonna in trono che allatta il Bambino (Siracusa, Arcivescovado), l’affresco con la Madonna delle Grazie (Palermo, Chiesa di Sant’Agata) o ancora la tavola con la Madonna in trono che allatta il Bambino (Santa Lucia del Mela (Messina), Chiesa dell’Annunziata).

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Bibliografia S. Sampere y Miguel, Los cuatrocentistas catalanes, Barcellona, 1906. L. Ozzola, L’arte spagnola nella pittura siciliana del secolo XV, in “Rassegna Nazionale”, gen. 1909. E. Mauceri, La pittura in Siracusa nel secolo XV, in “Rassegna d’Arte”, 1910. R. Longhi, Frammento siciliano, in ”Paragone”, 47, 1953. S. Bottari, La pittura del quattrocento in Sicilia, Messina-Firenze, 1954. S. Bottari, L’arte in Sicilia, Messina- Firenze 1962. M.G. Paolini, Ancora del Quattrocento siciliano in ”Nuovi Quaderni del Meridione”, a. II, 1964. A. De Bosque, La pittura italiana in Spagna, Milano 1968 G.Bresc Bautier, Artistes patriciens et confréries, production et consummation de l’oeuvre d’art à Palermo et en Sicile occidentale (1348-1460), Roma 1979. P. Santucci, La produzione figurativa in Sicilia dalla fine del XII alla metà del XV , in Storia della Sicilia, dir. da R. Romeo, V, Napoli-Palermo 1981, pp. E. Castelnuovo, Presenze straniere:viaggi di opere, itinerari di artisti nel Quattrocento, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, II, Milano 1986-1987 F. Campagna Cicala, Sicilia, in Dizionario della pittura e dei pittori, Torino 1994. F. Abbate, Storia dell’Arte nell’Italia meridionale. Il sud angioino e aragonese, Roma, 1998 L. Rebaudo, Fausta, Pietas e la Virgo Lactans: migrazione di un motivo, in Società e cultura in età tardoantica, Atti dell’incontro di studi, Udine (29 - 30 maggio 2003), Grassina (FI), 2004 L. Buttà, La pittura tardogotica in Sicilia: incontri mediterranei, Palermo 2008.


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ANALISI E INDAGINI DIAGNOSTICHE TRA ARCHEOLOGIA E RESTAURO DOCUMENTAZIONE DI ALCUNE FASI DELLO STUDIO SCIENTIFICO IN ATTUAZIONE DEL PROGETTO DI RECUPERO E DI CONSERVAZIONE DELLA VILLA ROMANA DEL CASALE DI PIAZZA ARMERINA

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SPECIE LAPIDEE I MARMI DELLA VILLA DEL CASALE Lorenzo Lazzarini Università IUAV - Venezia

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I marmi della Villa del Casale di Piazza Armerina sono stati in passato oggetto di attenzione e indagine da parte di vari studiosi, a iniziare dagli scavatori (Carandini et al. 1982 ), che redassero un primo elenco, peraltro molto incompleto e con errori, delle specie lapidee presenti, e continuando con lo studio di Pensabene, anch’esso non esaustivo e con qualche imprecisione, per finire poi con i due lavori dello scrivente (Lazzarini 2003 e 2007) che riguardarono solamente i marmi e le pietre ancora in posto, e si basarono solo su una identificazione autoptica delle varie specie lapidee. Una recentissima indagine, sempre di chi scrive, estesa alle diverse decine di cassette di frammenti marmorei raccolti nel corso dello scavo sia della

da uno, sino a qualche decina di frammenti, presenza in tracce da una a tre casse, presente da tre sino a cinque casse, abbondante oltre cinque casse, molto abbondante. Circa la tipologia d’uso, si sono facilmente identificati gli elementi architettonici (principalmente cornici e loro frammenti, colonne e loro frammenti, capitelli e loro frammenti), nonché gli altri manufatti e loro frammenti (ad es. vasche), mentre si è assunto lo spessore delle lastre per distinguere i rivestimenti pavimentali (spessore > di 1 cm) da quelli parietali (spessore ≤ di 1 cm). L’identificazione dei marmi colorati, come si è detto sopra è stata largamente basata su un riconoscimento autoptico e per confronto con specifici atlanti fotografici (Mielsch 1985; Borghini

quelle attualmente esistenti (Gorgoni et al. 2002). Sui dettagli di tali identificazioni di laboratorio, si rimanda allo specifico, recente rapporto scientifico redatto per la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Enna (Lazzarini 2009). Per informazioni storico-archeologiche e archeometriche sulle varie specie lapidee identificate, si consiglia la consultazione delle pubblicazioni di Gnoli (1988); Borghini (1989), con relativa recensione di L.Lazzarini (1990); De Nuccio, Ungaro (2002); Lazzarini (2004 e 2007). Come si desume dalle tabelle, sono i marmi di origine ellenica che prevalgono su tutti gli altri. In particolare, si può senz’altro affermare che siano le due specie lapidee estratte dall’isola di

Basilica che del resto della villa, e opportunamente integrata da indagini archeometriche di laboratorio eseguite su campioni prelevati principalmente dalla Basilica stessa, rende ora possibile la stesura di un elenco delle qualità di marmi presenti nell’edificio, che si ritiene pressoché definitivo almeno per quanto sinora messo in luce e studiato, e una prima serie di considerazioni sull’impiego dei materiali lapidei di importazione nella villa. L’elenco di quest’ultimi viene sintetizzato in tabelle suddivise per area geografica di provenienza (vedi pag. 24), e fornisce una valutazione semiquantitativa dei materiali e un’indicazione delle tipologie d’uso. Per valutare la quantità, ci si è basati sul numero di casse riempite per ciascuna specie, in particolare:

1989; Dolci, Nista 1992; Pensabene, Bruno 1998) ma anche su studi minero-petrografici al microscopio polarizzatore di sezioni sottili di campioni delle specie lapidee di incerta provenienza, e di quelle sconosciute. L’identificazione dei marmi bianchi e bigi è invece da considerarsi ampiamente ipotetica perché basata sulle loro caratteristiche macroscopiche (dimensioni della grana, colore, brillanza, etc.), salvo che per un numero significativo di campioni, prelevati per litotipo e in modo rappresentativo, che sono stati identificati con una buona probabilità di esattezza del risultato mediante dettagliato esame petrografico in sezione sottile combinato ad analisi degli isotopi stabili del carbonio e dell’ossigeno, e tenendo conto della relativa banca dati più aggiornata tra

Sciro (ora, Skyros), e cioè la breccia di settebasi e il marmo sciretico bianco, a predominare. Della prima sono le grandi colonne del peristilio prospiciente il mosaico della grande caccia, e molti riquadri e cornici dell’opus sectile della basilica; del secondo erano con ogni probabilità molti dei rivestimenti parietali e pavimentali, sia della basilica che di altri spazi della villa. Va anche notata la considerevole abbondanza del verde antico, il cui uso e diffusione è, come noto, da datare a dopo l’età adrianea, ma la cui massiccia presenza in contesti romani non è molto comune. Dei marmi microasiatici, l’africano appare il più usato, e solo per rivestimenti, mentre i graniti sono presenti specie in colonne. Di questi, il più abbondante è il misio, presente con


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numerosi fusti nel peristilio, dove si alterna al marmo lesbio e al greco scritto, ma in origine anche in opera sottoforma di lastre pavimentali nella basilica. Meno usato è invece il granito della Troade, ma ciò è in linea con un progressivo sorpasso del granito pergameno su quello troadense avvenuto verso la fine dell’impero romano, sorpasso che sembra essersi consolidato all’inizio dell’era bizantina. Tra le poche specie litiche di provenienza africana presenti nella villa, è il marmo greco scritto che fa la parte del leone, sia per le colonne, sia in rivestimenti pavimentali e parietali (specialmente negli zoccoli alla base delle varie stanze della villa). Della sua origine, che nel caso specifico della basilica sembra essere proprio africana,

non si può essere del tutto certi per tutte le lastre presenti anche negli altri ambienti (Antonelli et al., 2009), che potrebbero pure essere di provenienza microasiatica (proconnesia e/o efesina) vista l’ancora imperfetta conoscenza sia archeologica, sia archeometrica delle varie facies denominate “greco scritto”. Molto abbondante, per gli stessi usi del litotipo precedente, è il marmo numidico. Da notare anche la preferenza accordata alla sienite per le due grandi colonne d’ingresso alla basilica, ciò che è da collegare a un maggior prestigio mantenuto anche in età tardo-antica da questo granito rispetto a quelli microasiatici. Dei marmi di origine italica, infine non si può che osservarne l’esigua presenza, con la parziale esclusione del marmo

lunense, molto usato per cornici e rivestimenti, a conferma di una persistenza dell’impiego di materiali lapidei esotici quali indicatori dell’elevato stato sociale del proprietario della villa. Un’ultima considerazione va fatta circa la presenza nella basilica, per quanto in pochissimi, addirittura singoli, frammenti di alcune pietre molto rare, come il granito verde fiorito di bigio, la breccia rossa appenninica, la breccia di Aleppo, il semesanto, tutte di grande pregio e caratterizzate da un impiego che solitamente arriva al massimo sino all’età flavia, ciò che farebbe supporre un reimpiego nei pavimenti e pareti della grande sala cerimoniale di materiali più antichi probabilmente portati a Filosofiana da altri centri romani dell’isola.

BIBLIOGRAFIA Antonelli et al. 2009 - F. Antonelli, L.Lazzarini., S. Cancelliere, D. Dessandier, Minero-petrographic and geochemical characterization of “Greco Scritto” marble from Cap de Garde near Hippo Regius (Annaba, Algeria), in “Archaeometry”, 51, 2009. Borghini 1989 - G. Borghini (a cura di), Marmi Antichi, Roma 1989. Pensabene, Bruno 1998 - P. Pensabene, M. Bruno, Il marmo e il colore, guida fotografica. I marmi della collezione Podesti, Roma 1998. Carandini et. al 1982 - A. Carandini , A. Ricci., M. De Vos, Filosofiana. La Villa di Piazza Armerina, Palermo 1982. Dolci, Nista 1992 - E. Dolci, L. Nista (a cura di), Marmi Antichi da Collezione, Carrara 1992. Gnoli 1988 - R. Gnoli, Marmora Romana, Roma 1988. Gorgoni et al. - C. Gorgoni., L. Lazzarini., P. Pallante, B. Turi B., 2002, An updated and detailed mineropetrographic and C-O stable isotopic reference database for the main Mediterranean marbles used in antiquity, in “ASMOSIA 5, Interdisciplinary Studies on Ancient Stone” (J.J.Herrmann, N.Herz, & R.Newton eds.), London 2002, pp. 115-131. Lazzarini 1990 - L..Lazzarini L., in “Bollettino d’Archeologia”, 5-6, 1990, pp. 255-268 Lazzarini 2003 - L. Lazzarini, I materiali lapidei e vetrosi delle tessere musive delle terme di Villa del Casale (Piazza Armerina), in Atti del Primo Convegno Internazionale di Studi La materia e i segni della Storia, I, “Apparati musivi antichi nell’area del Mediterraneo”, I Quaderni di Palazzo Montalbo, Palermo 2003. Lazzarini 2004 - L. Lazzarini (a cura di), 2004, Pietre e marmi antichi: natura, caratterizzazione, origine, storia d’uso, diffusione, collezionismo, Castenaso (Bo), 2004. Lazzarini 2007 - L. Lazzarini, Poikiloi lithoi, versiculores maculae. I marmi colorati della Grecia antica, Roma-Pisa 2007. Lazzarini 2007a - L. Lazzarini, Caratterizzazione dei materiali lapidei e vetrosi, In Progetto di recupero e conservazione della Villa Romana del Casale di Piazza Armerina I RESTAURI IN CORSO ALLA VILLA DEL CASALE SONO DIRETTI DAL CRPR DIR. DEI LAVORI GUIDO MELI DIR. OPERATIVO PER IL SETTORE LAPIDEI RESTAURATRICE LORELLA PELLEGRINO

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TABELLE COI RISULTATI OTTENUTI NOME ANTICO DEL MARMO, E SINONIMI MODERNI Breccia di settebasi M. thessalicum, lapis atracius, verde antico Marmor lesbium, bigio antico Marmor scyreticum, marmo sciretico bianco Marmor chium, porta santa Marmor charystium, marmor styrium, cipollino verde Rosso antico M. lacedaemonium, serpentino, porfido verde antico Marmor pentelicum Marmor Thasium (due varietà) Marmor chalcidicum, fior di pesco Semesanto Cipollino bigio Breccia di Aleppo

PROVENIENZA

ABBONDANZA RELATIVA +++ +++ ++ ++ ++ ++

RPAV, C, RPAR RPAV RPAV, C RPAR, RPAV, CO RPAV RPAV, RPAR

Penisola di Mani (Pelop.) Stefanià (Peloponneso)

++ +

RPAV, RPAR, CO RPAV

Monte Penteli, Atene Isola di Taso Eretria, Isola Eubea Isola di Skyros Karystos, Isola Eubea Kariés, Isola di Chio

+ + ± ± ± ±

RPAV, RPAR, CO RPAV, RPAR RPAV, RPAR RPAV RPAV V

Isola di Skyros Chasabali (Larisa) Moria, Isola di Lesbo Kolones, Isola di Skyros Latomi, Isola di Chio Karystos, Styra, Isola Eubea

TIPOLOGIA D’USO

Marmi di origine ellenica. Legenda: +++, molto abbondante; ++, abbondante; +, presente; ±, tracce; RPAV, rivestimenti pavimentali; RPAR, rivestimenti parietali; C, Colonne; CAP, capitelli, CO, cornici; V, vasche.

NOME DEL MARMO E SINONIMI

PROVENIENZA

Marmor lucullaeum, africano

Sigacik, Izmir

Marmor proconnesium. M. cyzicenum, m. greco fetido

Saraylar, etc. , Isola di Marmara

Marmo misio, granito misio

Kozak, Bergama

Marmor sagarium, breccia corallina, breccia nuvolata, brocatellone Marmor Carium, m.iassense, cipollino rosso, africanone Marmor phrygium, m.docimenum, m.synnadicum, pavonazzetto Marmor troadense, granito violetto

Vezirhan, Bilecik

Bianco e nero tigrato

??, prob.prov. anatolica

Alabastro fiorito

??, prob.prov. anatolica

ABBONDANZA RELATIVA +++ +++ +++ +++

TIPOLOGIA D’USO RPAV, RPAR RPAV, RPAR, C, CAP, CO C, RPAV RPAV, RPAR

Kiykislacik, Mylasa

+

RPAV

Iscehisar, Afyon

+

RPAV, RPAR

Cigri Dag, Ezine

+ ± ±

C RPAV RPAV

Marmi di origine microasiatica. Legenda: +++, molto abbondante; ++, abbondante; +, presente; ±, tracce; RPAV, rivestimenti pavimentali; RPAR, rivestimenti parietali; C, Colonne; CAP, capitelli, CO, cornici; V, vasche. NOME DEL MARMO E SINONIMI

PROVENIENZA

Marmor numidicum, giallo antico Greco Scritto, anche brecciato

Chemtou, Tunisia Cap de Garde, Algeria; altre provenienze ignote Gebel Dokhan, Deserto Orientale Egiziano Oran, Algeria Wadi Umm Balad, Deserto Orientale Egiz. Aswan, Egitto Hatnub, etc. Egitto

Lapis porphyrites, porfido rosso antico Alabastro a Pecorella Granito verde fiorito di bigio Lapis pyrrhopoecilus, lapis thebaicus, sienite Lapis alabastrites, alabastro cotognino

ABBONDANZA RELATIVA +++ +++

TIPOLOGIA D’USO RPAV, RPAR RPAV, RPAR, C, CO

+

RPAV, RPAR

+ ±

RPAV RPAR

± ±

C RPAV, RPAR

Marmi di origine africana. Legenda: +++, molto abbondante; ++, abbondante; +, presente; ±, tracce; RPAV, rivestimenti pavimentali; RPAR, rivestimenti parietali; C, colonne; CAP, capitelli, CO, cornici;V, vasche. NOME DEL MARMO E SINONIMI

PROVENIENZA

Marmor Lunense, marmo di Carrara (tutte le varietà)

Alpi Apuane

Marmo rosso fiorito

S.Marco d’Alunzio (Messina)

Alabastro (siciliano ??) Breccia rossa appenninica

Coregna, La Spezia

ABBONDANZA RELATIVA +++ + + ±

TIPOLOGIA D’USO RPAV, RPAR, CO RPAV RPAV RPAV

Marmi di origine italica. Legenda: +++, molto abbondante; ++, abbondante; +, presente; ±, tracce; RPAV, rivestimenti pavimentali; RPAR, rivestimenti parietali; C, Colonne; CAP, capitelli, CO, cornici; V, vasche.

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DOSSIER

CAMPAGNE DI SCAVI TRA RICERCHE, ARCHEOLOGIA E RESTAURO Patrizio Pensabene Università La Sapienza - Roma

Particolare del mosaico parietale rinvenuto nel settembre 2009 nell’edificio termale fuori la villa difronte l’arco d’ingresso

Premessa Negli ultimi anni si sono verificati due grandi eventi che hanno consentito di riprendere le ricerche sulla villa e gli immediati dintorni: il primo costituito dal finanziamento POR ottenuto dalla Soprintendenza di Enna per il 2004-2005, riguardante lo scavo della zona a sud della villa ritenuta sede della pars rustica; il secondo dal restauro intrapreso dal Centro Regionale per il Restauro di Palermo che riguarda sia i mosaici, sia le strutture di copertura, che ha comportato una nuova campagna di saggi di scavo durante il 2008 e 2009 per tutto il perimetro della villa e in molte zone interne. A entrambe le imprese ha collaborato, per l’indagine archeologica l’Università di

Roma “La Sapienza”. Sul campo erano presenti Enrico Gallocchio e Eleonora Gasparini che hanno seguito i saggi di scavo e stanno studiando i materiali Queste nuove indagini archeologiche sono state importanti perché gli scavi di Gino Vinicio Gentili negli anni ‘50, pur nei risultati ottenuti, avevano lasciato alcune zone d’ombra nella comprensione storica della Villa del Casale: prima di tutto sull’impianto precedente alla Villa tardoromana, poi circa gli interventi di restauro e ricostruzione nella Villa durante il suo uso; erano rimaste nel complesso ignote anche le vicende che nel periodo altomedievale, prima bizantino e poi islamico, avevano investito il sito della Villa; da ultimo

era limitata ai soli reperti ceramici la conoscenza di una fase arabo-normanna del sito in quanto le strutture murarie relative erano state del tutto distrutte o messe in pianta solo in misura ridotta. In seguito, con gli scavi di De Miro e di Guzzardi negli anni ’80 del XX secolo, si erano aggiunti tasselli di informazione riguardanti proprio le problematiche suddette anche se l’assenza o la concisione delle notizie pubblicate non aveva permesso di tenere conto del loro significato e ci ha costretti a riesaminare le strutture già scavate o a rimetterle in luce sia per metterle correttamente in pianta , sia per sottoporle a nuovi esami alla luce di quanto da noi scavato successivamente.

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DOSSIER Trincea XIII - Pozzo ad est della sala triabsidata - resti di uno scheletro umano

Strutture tardoantiche di immagazzinamento e di servizi Tra i dati pubblicati degli scavi De Miro risultava la presenza di un grande ambiente sul lato ovest del piazzale d’ingresso, definito provvisoriamente stalla, e che in realtà si presentava come una grande sala tripartita da pilastri. Ma la revisione degli scavi, questa volta inediti, di De Miro ha poi portato all’individuazione di un secondo grande ambiente situato subito a sud di questa sala tripartita1. I due grandi ambienti, coinvolti nel nuovo percorso di accesso alla villa che li attraverserà per poi piegare verso l’arco d’ingresso, si sono rivelati essere magazzini per i prodotti agricoli (noti nella loro tipologia dalla descrizione di Columella e da una Villa nel suburbio di Roma

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presso Tor Vergata2), e hanno portato all’identificazione della parte rustica della Villa a sud della Villa: qui si può ipotizzare fossero collocati le cucine e gli impianti produttivi (torchi e depositi per olio e vino) Infine nella nostra campagna di scavo di questi ultimi due anni sono emerse, sempre a sud della villa (nel settore ovest dell’insediamento medievale da noi ora messo in luce: cfr. infra), strutture tardoantiche costituite da un vano absidato con vasca, che conserva anche la soglia e parte dell’intonaco di rivestimento, e da altri resti murari, tra cui una vasca con mosaico parietale, che sono da interpretare come parte di un piccolo stabilimento termale: esso pare orientato grossomodo con i magazzini sopradetti e ci consente di delinea-

re un piazzale d’ingresso alla villa circondato da strutture di servizio. Possiamo ormai affermare anche per la Villa del Casale che non siamo di fronte ad una sorta di villa suburbana, a molti chilometri di distanza da grossi centri urbani, ma di un’unità residenziale, amministrativa e produttiva. Strutture tardo antiche di seconda fase e di epoca bizantina In precedenti pubblicazioni abbiamo rilevato come l’acquedotto est, a muro pieno, i tamponamenti delle arcate dell’acquedotto nord e gli speroni di contrafforte dell’abside della basilica potessero essere attribuiti ad una seconda fase della villa caratterizzata da opere di rinforzo delle strutture murarie, da recinzioni


DOSSIER

difensive nelle quali erano inseriti gli acquedotti ( in un’arcata di quello nord venne inserito un portale d’accesso di cui restano i cardini delle valve) e da rifacimenti di alcune murature e di alcuni rivestimenti parietali (v. le vasche del frigidario delle terme e di alcuni ambienti dell’appartamento del Dominus) e pavimentali (v. il mosaico delle palestrite che si sovrappone a quello geometrico della fase originaria e i vari restauri dei mosaici nelle terme e altrove): inoltre tutto il perimetro esterno della villa, compresi gli speroni di sostegno dell’abside della basilica, viene intonacato e dipinto con motivi geometrici in rosso su fondo bianco, ma anche figurati. A questa fase, probabilmente ancora del IV secolo e forse da collocare in età teodosiana, è da attribuire l’aggiunta dello Xystus e della sala triabsidata al nucleo principale basilicagrande ambulacro-peristilio. Già in passato si era notato il collegamento poco organico tra i due complessi, ipotizzando fasi diverse3 a cui ora aggiungiamo l’osservazione che i recenti scavi archeologici resisi necessari per le opere di restauro, hanno evidenziato una prima fase direttamente sotto il pavimento dell’Xystus e sul retro: essa attesta come in età precedente vi fossero strutture imperniate intorno ad una corte rettangolare e dalle quali provengono testimonianze monetarie costantiniane4. Ad una seconda fase costruttiva rinvia anche il mosaico geometrico dello spazio aperto dello xystus, che però si conserva in minima parte (46b1). Per ciò che riguarda il primo periodo bizantino rileviamo che la continuità abitativa e l’esigenza di mantenere nella sua forma prestigiosa la villa sono provate dai continui restauri del mosaico in particolare nell’Ambulacro della

Grande Caccia, nel braccio est del peristilio di fronte alle scale di accesso all’ambulacro (dove s’inserirono due fasce mosaicate con la probabile acclamazione di un auriga, Bonifacius) e nelle terme, anche se progressivamente si può parlare più di rappezzi che di integrazioni5. Si è anche proposto di mettere in relazione tale sforzo di mantenimento con un’eventuale appartenenza della villa, in questo periodo, ad un funzionario importante, richiamando il passo della Vita di S.Gregorio Agrigentino, redatta dal presbitero bizantino Leonzio, che menziona un esarca residente presso Filosofiana6, dalla Cracco Ruggino però interpretato come allusione al pretore romano che avrebbe esercitato a Filosofiana la sua attività giudiziaria7. Certo, possiamo ora segnalare, in base ai saggi stratigrafici da noi eseguiti tra il 2008 e 2009 lungo il perimetro della villa, interventi di rafforzamento del muro perimetrale della villa, in quanto è ora possibile integrare in base a nuovi scavi nel settore subito a sud dello Xystus (Saggio XV) la ricostruzione proposta dal Gentili -che limitava solo a tre gli ambienti qui esistenti 8 - con due avancorpi posti ai lati di questi che ci restituirebbero l’immagine di un recinto munito della villa, in quanto dotato di piccole torri sporgenti in funzione difensiva. A questa fase ne segue una successiva in cui viene ricavato un vano stretto e lungo attraverso la costruzione di un nuovo muro gettato tra i due avancorpi, con muretti divisori che proseguono quelli già esistenti nord-sud tra i tre ambienti: data la strettezza del vano è possibile considerarlo l’alloggiamento per un terrapieno con lo scopo di irrobustire il recinto in funzione difensiva. Un breve tratto di un più robusto muro di recinzione è stato scoperto invece ancora più a sud ,

con frammenti ceramici che lo situerebbero nel VI secolo.9 E’ probabile che, in analogia a quanto si verifica in Italia e in Africa durante il periodo bizantino, quando le attività produttive della campagna si spostano per motivi difensivi all’interno fortificato delle città , anche nel caso della Villa del Casale ci si trovi di fronte ad un processo di spostamento di tali attività all’interno del suo perimetro. Infatti in un saggio (XIII) all’interno dello spazio di risulta tra l’angolo sudovest della Villa10 e il ninfeo dello Xystus è emersa dal terreno la parte nord di un ambiente rettangolare che inquadra una struttura circolare, che era stata messa in luce dagli scavi di De Miro negli anni ‘8011 e di cui si conserva solo il primo filare di una muratura a blocchetti irregolari tenuti insieme da malta terrosa e non da calce: poiché questa struttura riutilizza come limite ovest il muro di recinto del piazzale della villa, a cui si appoggia, ne abbiamo dedotto l’esistenza di una fase di occupazione degli spazi di risulta da ricollegare all’interno del periodo più tardo di vita della villa. Più chiara è la funzione della struttura venuta alla luce nel saggio (IX) del settore più a nord, denominato da Gentili “cucina”, perché lo scavo ha restituito un muro arcuato in ciotoloni e privo di calce che si ancora ad una piccola cisterna più a ovest, questa volta costruita in opera cementizia, foderata internamente con malta idraulica e provvista di due fori di adduzione e di scarico costituiti da fistole plumbee. È possibile che tale struttura sia collegabile con un ulteriore muro in blocchetti irregolari e senza calce da noi messo in luce sempre in quest’area, con andamento est ovest, che taglia la canaletta e che a sua volta è interrot-

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DOSSIER to da una fossa di scarico medievale in cui è stato ritrovato il vago in oro di un orecchino. Saremmo di fronte nuovamente a approntamenti produttivi inseriti all’interno del perimetro della villa nel periodo bizantino, come già abbiamo visto a proposito del saggio XIII. Il grande abitato medievale Per ciò che riguarda l’organizzazione dell’abitato medievale arabo normanno che si sovrappose alla villa e in parte ne riutilizzò gli ambienti, abbiamo rilevato la forte possibilità che il suo centro, in cui dimorava la parte della popolazione più abbiente, sia da vedere nell’area corrispondente alla villa. Al momento in cui fu rioccupata dall’abitato nel tardo o alla fine del X secolo, la villa era per una buona parte, anche se non tutta, interrata12 per cui molti degli ambienti medievali erano costruiti sugli interri che ne coprivano i resti murari: è inoltre in questa parte che si addensano i circa 30 pozzi medievali da noi ritrovati nei saggi di scavo che hanno accompagnato il controllo dell’umidità dei muri di fondazione della villa. Il numero dei pozzi sta ad indicare che ogni unità delle abitazioni (obliterate durante gli scavi degli anni ’50) ne era dotata di uno, al contrario del settore dell’insediamento da noi scoperto a sud della villa in occasione dell’intervento POR –precedente agli attuali restauri-, dove invece essi mancano. I pozzi hanno restituito un abbondantissimo materiale ceramico prevalentemente di X-XI secolo, oltre a scheletri di cavallo e umani. Si deve nuovamente sottolineare la presenza di una rocca e/o nucleo palaziale, con pavimento in mattoni, riconoscibile negli spessi muri a nordest dell’abside della Basilica, di cui erano riutilizzati i contrafforti come parte della muratura esterna.

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NOTE BIBLIOGRAFICHE C. Sfameni, L’insediamento medievale sulla villa del Casale: vecchi scavi, nuove considerazioni, in P.Pensabene, C.Bonanno, (a cura di), L’insediamento medievale sulla Villa del Casale di Piazza Armerina, Martina Franca 2008, pp 95-107. 2 S. Musco, Intervento nell’area sud-ovest del suburbio di Roma in BCom, 89, 1984, p.99, fig.42, dove è stato riconosciuto nella pars rustica un magazzino di ampie dimensioni con numerosi pithoi ricostruibile a perimetro rettangolare e con due file di pilastri (restano quelli iniziali) a dividerlo in tre navate; a sud di questo, separati tramite una corte basolata (con basoli di reimpiego) da altri ambienti più piccoli (nn.I, III, IV, V, VI, VIII, IX) destinati a magazzini per attrezzi agricoli, per derrate alimentari e forse stalle; nell’ambiente V sul pavimento costituito da un battuto di terriccio e frammenti di cappellaccio vi è una serie di fori per i sostegni del tetto 3 G. Lugli, Contributo alla storia edilizia della villa romana di Piazza Armerina, in R.I.A., 1963 4 E. De Miro, in AA.VV., La Villa Romana del Casale di Piazza Armerina, Cronache d’Archeologia 1984 5 A. Ricci, in Carandini Ricci, De Vos, Filosofiana. La Villa di Piazza Armerina, Palermo 1982, pp.376-377; Sfameni, in Pensabene Bonanno, 2008, pp.96-97. 6 Leonzio, Vita di San Gregorio Agrigentino, PG 98, col.649 58-59; cfr. A. Ragona Il proprietario della villa romana di Piazza Armerina, Caltagirone 1962, p.23. 7 L.Cracco Ruggini La Sicilia tra Roma e Bisanzio, in AA.VV., Storia della Sicilia, 3, Napoli, 1980, pp.66,85; Sfameni, in Pensabene Bonanno 2008, p.97. 8 Sembrerebbe che al momento dello scavo il muro di fondo dei tre ambienti suddetti si conservasse soltanto tra cm 20 e 60 e, in quanto l’unico riconosciuto, sia stato ripreso per un’altezza di poco inferiore ai due metri: Lugli 1963. 9 Pensabene, in Pensabene Bonanno 2008, pp. 14, 21,22, figg.1, 10. 10 L’angolo sud ovest della villa è costituito dall’estremità sud del muro che limita a est il piazzale antistante l’arco d’ingresso e dal tratto di muro appartenente al lato sud del recinto che doveva circondare tutta la villa. 11 De Miro E., 1984, p. 61 12 Soprattutto la zona orientale (eccetto il settore est e l’abside della basilica), meno la zona occidentale dove le terme e alcuni ambienti tardo antichi erano stati rioccupati al livello o poco sopra quello tardoantico: su un esame degli ambienti della villa riutilizzati nell’abitato medievale v. Sfameni, in Pensabene, Bonanno 2008, p.99 (negli ambienti 10, 13-13-15, 17, 18, 20, 23 materiali arabo- normanni sono stati rinvenuti direttamente a contatto con i pavimenti, insieme a materiali tardoantichi; nell’ambiente 13 il mosaico è stato tagliato per inserire una fornace, nel 17 il mosaico è stato sostituito da un pavimento in pietre irregolari, mentre il 18 è stato diviso in due da un muro poggiante direttamente sul mosaico; altri ambienti sono stati riulizzati solo creando un pavimento sopraelevato. 1


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LA SOLFATAZIONE DIFFUSA UNIFORMITÀ DI UN DEGRADO CHIMICO Cosimo Di Stefano

Le indagini diagnostiche, avviate sin dal 2003, sono state effettuate in una prima fase nell’area delle terme della Villa ed, in particolare, nelle zone denominate: Preafurnia; Calidaria; Tepidarium; Sala delle riunioni; Frigidarium; Palestra. Nelle zone su indicate sono state prelevate, carote stratigrafiche costituite dalle malte di preparazione e dalle malte di allattamento delle tessere musive. Sono stati, inoltre, campionati le efflorescenze saline giacenti sulle tessere musive e sugli intonaci delle pareti, i residui dei fanghi dei condotti di deflusso delle acque e le acque di falda, ricadenti nella zona interessata dalla Villa. Le indagini eseguite sui campioni hanno evidenziato che il degrado chimico di tutti i materiali costitutivi è da addebitare alla diffusa solfatazione, come rilevata dalla diffrattometria XRD, eseguita sui cristalli delle efflorescenze saline, e dalla cromatografia ionica, effettuata sugli estratti acquosi delle malte e sui campioni di acqua di falda, responsabili della solfatazione (vedi tabella). I campionamenti sono stati eseguiti nei seguenti ambienti: il Calidarium, il Frigidarium, la Sala di Tito e Cassio, la Palestra, il Portico e il Triclinio. I risultati delle indagini condotte tramite la diffrattometria XRD, le osservazioni al microscopio ottico in luce riflessa, al microscopio polarizzatore in luce trasmessa su sezioni sottili e al microscopio a scansione elettronica (SEM) con microsonda EDS, offrono spunti di riflessione sulle eventuali errate metodologie di intervento, di conservazione e di ordinaria manutenzione attuate in passato e permettono, altresì, di programmare uno studio sistematico delle tecniche costruttive, dei materiali

Alterazioni cromatiche ed efflorescenze saline Degrado delle tessere da solfatazione

e del loro stato di conservazione. Successivamente, nel periodo luglio/novembre 2005, le indagini sono state estese a tutte le aree della Villa, utilizzando tecniche di spettroscopia XRF portatile, caratterizzazione dei sali solubili con cromatografia ionica ed elettrochimica, diffrattometria ai raggi X (XRD), spettrofotometria FTIR e spettrofotometria UV/VIS. Inoltre sono state effettuate analisi di caratterizzazione dei principali elementi chimici costitutenti i pigmenti dei dipinti murali, tramite spettrometria XRF portatile. Per tali indagini è stata scelta la “sala dell’eros”, rappresentativa di tutte le diverse cromie presenti nella villa. Dalle successive correlazioni ed interpretazioni spettrali è risultato che i pigmenti presenti sono caratterizzati essenzialmente da terre gialle, rosse e verdi in diverse tonalità a differenza dell’azzurro, anch’esso presente in diverse gradazioni, che è risultato

essere costituito da rame, confermando il dato bibliografico che associa il pigmento al blu egizio (silicato di rame). Dato l’elevato contenuto dell’elemento calcio presente negli spettri XRF, appare chiaro, inoltre, che il legante dei pigmenti murali risulta essere derivato dal latte di calce. Dalle indagini chimiche effettuate successivamente in quasi tutte le aree della villa è emerso che esse presentano tutte la stessa tipologia di degrado chimico sulle malte, sugli intonaci e sulle tessere musive. E’ emerso, altresì, che nelle malte originarie e nelle malte cementizie successive sono presenti notevoli quantità di sali solubili con prevalenza di solfato sodico Na2SO4 anidro (Thenardite) e quantità minime di solfato di calcio CaSO4 (Gesso) evidenziati in tabella. Analisi sulle malte cementizie, provenienti dai precedenti restauri, hanno evidenziato la presenza di prodotti di degrado da attacco solfatico (Ettringite 29


DOSSIER e/o Taumasite). Dai ripetuti esami di campioni di acque di falda, insistenti nel sottosuolo dell’area del sito, è stata confermata l’abbondante presenza di ione solfato. I dissesti idrogeologici, con la conseguente inefficienza dei condotti dei deflussi delle acquee, hanno originato una consistente risalita capillare, favorendo il contatto chimico tra le acquee di falda solfatate e le strutture architettoniche, gli apparati musivi e decorativi della Villa. Quanto rilevato è stato ulteriormente aggravato dalla inidonea copertura capace di generare stressanti condizioni microclimatiche, trasformando il degrado chimico in fisico. Le indagini del Laboratorio di chimica, inoltre, hanno riguardato i materiali costitutivi della pavimentazione musiva, consentendo la lettura stratigrafica necessaria alla individuazione delle tecniche costruttive. Ciò ha permesso di inquadrare i meccanismi di degrado solfatico che hanno causato i fenomeni più volte riscontrati, ovvero i rigonfiamenti localizzati del rivestimento pavimentale con distacco di tessere (vulcanelli) ed esfoliazioni delle stesse come effetto dell’azione delle efflorescenze saline, nonché della diffusa formazione di patine bianche superficiali

ANIONI E CATIONI

FLUORURI CLORURI NITRITI NITRATI SOLFATI SODIO AMMONIO POTASSIO MAGNESIO CALCIO

Misura XRF portatile sul pigmento azzurro. Alterazione chimico fisica dei dipinti murali da umidità di risalita capillare

Perdite di cromie causata dalla solfatazione.

CAROTATURA (gr/Kg)

EFFLORESCENZE SALINE (gr/Kg)

FANGHI (gr/Kg)

ACQUA DI FALDA (gr/Kg)

0,04 3,33 === 0,52 163,79 67,28 0,51 1,2 0,325 10,34

0,05 1,96 === 0,33 9,46 1,26 0,95 0,68 0,48 12,1

=== 66,97 === 2,47 176,49 49,26 === 10,07 24,92 110,14

0,08 1,27 0,13 0,032 1,1 1 0,47 1,66 0,35 9,06

Tabella: Caratterizzazione chimica dei sali solubili tramite cromatografia ionica

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ALGHE E CIANOBATTERI PREVENZIONE E CONTROLLO DEI MICRORGANISMI FOTOSINTETICI Giovanna Miceli

Nel quadro degli interventi effettuati nel cantiere di restauro dei mosaici della Villa del Casale si inserisce la ricerca condotta dal Laboratorio di Indagini Microbiologiche del CRPR finalizzata alla definizione delle metodologie più idonee per la prevenzione ed il controllo dei microrganismi fotosintetici (cianobatteri ed alghe). I fenomeni di degrado che questi microrganismi hanno determinato sul pavimento musivo sono stati innescati dalle condizioni ambientali esistenti all’interno della Villa, in particolare dall’elevata umidità che rappresenta la principale causa di sviluppo microbico. Cianobatteri ed alghe sono i primi colonizzatori della pietra poiché necessitano solo di luce, acqua e pochi composti inorganici. Sono in grado di colonizzare i materiali lapidei esposti in ambienti esterni ed interni e la maggior parte di essi è incapace di crescere in assenza di luce. Alcune specie di cianobatteri tuttavia sono in grado di svilupparsi con valori di illuminamento molto bassi o addirittura in assenza di luce. A tal proposito va riferito che sotto il pavimento musivo sono state evidenziate patine di cianobatteri con una colorazione verde molto intensa. Questa fenomenologia di degrado si è riscontrata anche dopo il trattamento di disinfezione, e le analisi hanno evidenziato una particolare resistenza dei cianobatteri al disinfettante utilizzato anche dopo più applicazioni di impacchi. La ricerca si è basata su una sperimentazione in situ e in laboratorio in cui sono stati analizzati campioni trattati con i prodotti biocidi utilizzati nell’intervento di restauro (Preventol R80 e Biotin T soltanto in alcune zone). In fase preliminare è stata eseguita l’osservazione diretta, sulle aree trattate, delle modificazioni macroscopiche delle patine, quindi sono state effettuate altre analisi quali l’osservazione dei campioni al microscopio a fluorescenza e la determinazione della quantità di adenosintrifosfato (ATP) cellulare residuo. I risultati hanno dimostrato che, dopo

l’applicazione del biocida, la patina presente sotto le tessere musive non era stata danneggiata, infatti appariva di colore verde intenso. Questi risultati sono congruenti con quanto osservato in fluorescenza, in quanto il prodotto sembra non agire con grande efficacia sulle cellule dei cianobatteri, che non perdono la fluorescenza rossa tipica delle cellule ancora vive e attive. Inoltre anche i valori di ATP hanno evidenziato presenza di attività microbica nei campioni esaminati. Nel corso del cantiere di restauro sono stati eseguiti diversi sopralluoghi e ulteriori controlli. In laboratorio sono stati inoltre operati altri test applicando ad impacco, sotto una tessera, il Biotin T in alcool etilico al 2%. Dopo l’applicazione del prodotto, trascorso il tempo di azione, si è osservato che la patina subiva una variazione drastica del colore, infatti da verde intenso assumeva una colorazione bruna e la fluorescenza appariva di un rosso attenuato. Le indagini svolte hanno consentito di stabilire che i test operati in laboratorio sono più efficaci, questo molto probabilmente perché in situ il trattamento sotto le tessere musive risulta difficile. Inoltre bisogna sottolineare che le condizioni ambientali durante l’intervento di disinfezione continuavano ad essere favorevoli allo sviluppo microbico. Alla luce di quanto è emerso durante l’intervento conservativo e sulla base dei risultati delle indagini è possibile affermare che la colonizzazione di cianobatteri presente sotto le tessere potrà essere controllata allorquando sarà limitata la presenza dell’acqua all’interno della Villa. Questo si attuerà con la realizzazione della copertura e degli impianti per la canalizzazione e lo smaltimento delle acque meteoriche. E’ necessario comunque sottolineare che, se le condizioni ambientali dovessero continuare ad essere favorevoli alla colonizzazione biologica, potrà essere effettuato un trattamento di disinfezione nella fase finale dell’intervento di restauro ed eventualmente si potranno prevedere applicazioni periodiche di

biocidi ripetute a intervalli opportunamente stabiliti. Infine è fondamentale condurre il monitoraggio dello stato di conservazione delle superfici musive che consentirà di segnalare l’eventuale necessità di una manutenzione e permetterà di valutare la durabilità del trattamento.

Patina sotto la tessera. Prima del trattamento. Dopo il trattamento con Biotin T.

Bibliografia M. Bartolini, S. Ricci, Rilascio di pigmenti fotosintetici da biocenosi epilitiche trattate con biocidi, in “Kermes”, a. XVII,56 Ottobre/Dicembre 2004. G. Caneva, M.P. Nugari, D. Pinna, O. Salvadori, Il controllo del degrado biologico, Firenze 1996. G. Caneva, M.P. Nugari, O. Salvadori, La Biologia Vegetale per i Beni Culturali, I, Biodeterioramento e Conservazione, Firenze 2005. M. Tretriach et al., Efficacy of biocide tested on selected lichens and its effects on their substrata, in “International Biodeterioration & Biodegradation”, 59, 2007, pp. 44-54.

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TESSERE, MUSCHI E LICHENI COLONIZZAZIONE LICHENICA E MUSCINALE DEI MOSAICI PAVIMENTALI E VALUTAZIONE EFFICACIA DEI BIOCIDI Rosa Not, Eloisa Guarneri, Enza Anna Passerini

PREMESSA Le indagini biologiche condotte negli ultimi anni dal Laboratorio del CRPR sui mosaici della Villa avevano riguardato principalmente l’area delle Terme, individuata come area campione e comprendente ambienti sia interni che esterni. Tali indagini si riferivano essenzialmente alla caratterizzazione della florula lichenica, dominante sui pavimenti musivi all’aperto, ed in minor misura delle fanerogame e briofite. Dai risultati era emerso che le specie dirette colonizzatrici dei pavimenti musivi studiati erano: Aspicilia calcarea (L.) Mudd, Caloplaca aurantia (Pers.) Hellbome e Verrucaria nigrescens Pers. Le stesse, tuttavia, erano state ritrovate anche sui substrati artificiali (Not 2004). I muschi, invece, afferivano principalmente al genere Tortula. Nell’ ambito dei lavori di restauro avviati nel 2007 ed attualmente in corso, il personale del laboratorio ha condotto un’altra campagna d’ indagini, questa volta estesa a tutti gli ambienti della Villa, al fine di fornire ulteriori conoscenze sul degrado biologico dei mosaici e, contestualmente, di verificare l’efficacia del trattamento biocida attraverso osservazioni in campo, prelievi e test della fluorescenza. Inoltre, sono state date anche indicazioni per il diserbo delle piante superiori. Nel presente contributo si riferiscono pertanto i risultati relativi alle indagini effettuate. MATERIALI E METODI L’osservazione macroscopica in situ e le analisi di laboratorio, corredate da un’ampia documentazione fotografica, hanno consentito la determinazione dei taxa più rappresentativi; le colonizzazioni licheniche sono state osservate preliminarmente in situ con lente da campo e, successivamente, campionate con bisturi e conservate in apposite provette codificate. I muschi sono stati prelevati e conservati in bustine di 32

carta. In laboratorio, talli lichenici e cuscinetti muscinali sono stati osservati e studiati al microscopio ottico e stereoscopico, pervenendo con l’ausilio di specifiche chiavi analitiche alla determinazione delle specie; in particolare per i licheni ci si è avvalsi dell’opera di Ozendà e Clauzade (1970), per i muschi di Cortini Pedrotti (2006). Infine, attraverso il test della fluorescenza è stata verificata l’efficacia del biocida applicato sui licheni. RISULTATI E CONSIDERAZIONI Dalle analisi condotte è risultato di particolare interesse osservare la crescita di alcune specie licheniche sulle tessere e di altre, invece, fra le tessere sulla malta. In totale sono stati determinati 23 taxa di cui 18 licheni e 5 muschi (v. elenco); in particolare, Caloplaca teicholyta (Ach.) Steiner è cresciuta esclusivamente fra le tessere del pavimento musivo del portico poligonale. Si tratta di un lichene nitrofilo, molto comune, cresce sui calcari e su tutti i substrati artificiali ed è particolarmente frequente in ambiente urbanizzato. Sempre negli interstizi fra le tessere sono stati ritrovati Toninia aromatica (Sm.) Massal. e Candelariella aurella (Hoffm.) Zahlbr che crescono comunemente sulle rocce calcaree arricchite di nutrienti, sulla malta e sui mattoni, in generale in zone urbane, piuttosto raramente in quelle rurali, (Dobson 1992). Per quanto riguarda, invece, le specie dirette colonizzatrici delle tessere, alle tre precedentemente ritrovate e citate in premessa, va aggiunta Caloplaca erythrocarpa (Pers.) Zw. anch’essa comunemente presente su diversi tipi di roccia calcarea, su superfici poco eutrofizzate e spesso associata ad Aspicilia calcarea (L.) Mudd della quale è parassita, (Nimis, Pinna, Salvadori 1992). Tranne Xanthoria parietina, Physcia sp. (Schreber) Michx. e Protoparmelia (cfr. badia, Hoffm.), licheni fogliosi ritrovati sulle

ELENCO SPECIE CENSITE Licheni Aspicilia calcarea (L.) Mudd Caloplaca aurantia (Pers.) Hellbom C. erythrocarpa (Pers.) Zw. C. flavovirescens (Wulfen) DT. & Sarnth C. teicholyta (Ach.) Steiner Candelariella aurella (Hoffm.) Zahlbr. C. medians (Nyl.) A.L.Sm. Diploschistes interpedians (Norm.) Lecania turicensis (Hepp) Mull. Arg. Lecanora muralis (Schreb.) Rabenh. Physcia sp. (Schreber) Michx. Protoparmelia cfr. badia (Hoffm.) Rinodina subglaucescens ( Ach.) Rinodina tunicata (Ach.) Rinodina sp. ( Ach.) S.F.Gray Toninia aromatica (Sm.) Massal. Verrucaria nigrescens Pers. Xanthoria parietina ( L.) Th. Fr. Muschi Bryum capillare Hedw Gymnostomum calcareum Nees Tortula muralis Hedw. T. marginata Hedw. T. subulata Hedw colonne del giardino del Peristilio quadrangolare, per il resto le forme rinvenute sono di tipo crostoso - epilitiche. I muschi, invece, sono cresciuti esclusivamente fra le tessere, in terra, in zone molto umide in corrispondenza di percolazioni di acqua piovana. MONITORAGGIO DELL’ INTERVENTO DI DISINFESTAZIONE I trattamenti di disinfestazione sui licheni, presenti quasi esclusivamente sui mosaici pavimentali esterni, in minor misura negli ambienti semi confinati, sono stati eseguiti con Preventol R80, la cui percentuale si è resa a volte anche necessaria al 4%, applicato a pennello, con nebulizzatore a bassa pressione e, in alcuni casi, ad impacco, secondo un calendario di interventi compreso tra marzo e maggio.


DOSSIER

Il trattamento di disinfestazione è stato monitorato attraverso osservazioni in campo e prelievi di campioni di licheni, trattati e non trattati, al fine di valutare l’efficacia del biocida che, agendo a livello cellulare sul processo della fotosintesi clorofilliana, blocca tale attività e, conseguentemente, determina la devitalizzazione degli organismi. Preparati di sezioni sottili di talli di Caloplaca aurantia, Aspicilia calcarea e C. erytrocarpa, sui quali erano stati eseguiti n. 4 trattamenti con Preventol, sono stati osservati al microscopio a fluorescenza. Il test della fluorescenza, che si basa sulla capacità della clorofilla contenuta nelle cellule algali del lichene di fluorescere ad una determinata lunghezza d’onda (450 – 490 nm), ha rivelato

che le alghe dei licheni trattati mostravano una fluorescenza rossa, cioè una forte vitalità e, dunque, una resistenza al biocida (Caneva, 2005). Pertanto si è ritenuto opportuno procedere con altre applicazioni fino alla perdita totale della fluorescenza algale. A quel punto sono state effettuate le operazioni di spazzolatura, rimozione e lavaggi con acqua deionizzata; inoltre, a scopo preventivo, è stato proposto di inoculare il biocida anche nelle risigillature del mosaico aggiungendolo all’ acqua di scioglimento del legante. Infine, per le piante superiori, presenti nelle lacune, in terra e fra le sconnessione delle mura perimetrali, è stato utilizzato un erbicida di traslocazione a base di glyphosate, al 2-3 %, applicato a spruzzo sulla biomassa fogliare (Caneva 2005).

SPERIMENTAZIONE CON BIOCIDI Il monitoraggio prosegue ancora, infatti, a più di un anno dagli interventi di disinfestazione sui mosaici pavimentali della Villa, è stata avviata una sperimentazione in campo (con la collaborazione del CTS che ha fornito i prodotti testati) finalizzata al monitoraggio post - emergenza del controllo della microflora lichenica. Si tratta di uno studio comparativo fra cinque biocidi al fine di individuare quale dei prodotti testati rallenti maggiormente, nel tempo, la ricrescita di questi organismi. L’area scelta è stata quella dei mosaici pavimentali del Portico poligonale, all’aperto, precedentemente ricoperta da una ricca colonizzazione lichenica. Su questi mosaici sono stati eseguiti 5 tasselli 20 x 20 riquadrati con scotch, contrassegnati dalle lettere 33


DOSSIER GLI AUTORI di questo numero Maria Elena Alfano, Adalgisa Aloisi, Giuseppe Barbera, Maurizio Bombace, Ermanno Cacciatore, Chiara Caldarella, Lucia Carruba, Antonio Casano Giacomo Cinà, Roberta Civiletto, Stefano Colazza, Caterina Dessy, Cosimo Di Stefano, Maria Luisa Famà Teresa Ferlisi, Eloisa Guarneri, Donatella Gueli, Osama Hamdan, Daniela La Mattina Lorenzo Lazzarini, Alessandra Longo Provvidenza Lupo, Rosaria Merlino Giovanna Miceli, Rosa Not, Franco Palla, Enza Anna Passerini, Carlo Pastena Lorella Pellegrino, Patrizio Pensabene Fernanda Prestileo, Francesca Pulizzi Alessandro Rizzi, Antonino Vitelli

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dell’alfabeto A-E, ciascuna corrispondente ad un biocida. Modalità di applicazione è stata a pennello. Fra i biocidi saggiati, quali Biotin T, Biotin R, New Des 50, Bioestel e Trigene Advance, quest’ultimo è un nanobiocida, già testato, che ha dato buoni risultati per l’eliminazione di microorganismi; non è ad oggi, invece, disponibile letteratura circa la sua attività nei confronti dei licheni. Le nanoparticelle, in quanto vettori di principi attivi, rilasciano il prodotto nelle microcavità, fessure o fenditure delle superfici dure, e migliorano l’efficacia dell’azione biocida. Pertanto, i nanobiocidi, e più in generale le nanotecnologie, rappresentano il futuro nel settore del restauro. Il monitoraggio, che avrà la durata di un anno, potrà offrire utili indicazioni nella scelta del prodotto che, eventualmente, andrà applicato, a scopo preventivo e nell’ambito di una manutenzione programmata, a tutti i mosaici pavimentali esterni.

BIBLIOGRAFIA Dobson 1992 F. S. Dobson, An illustrated guide to the British and Irish species. Richmond 1992. Caneva et al. 2005 G. Caneva, M. P. Nugari, O. Salvadori, La Biologia vegetale per i Beni Culturali, I Biodeterioramento e conservazione, Firenze 2005. Cortini Pedrotti 2006 C. Cortini Pedrotti, Flora dei Muschi d’Italia, Roma 2006. Nimis et al. 1992 P.L. Nimis, D. Pinna, O. Salvadori, Licheni e Conservazione dei Monumenti, Bologna 1992. Not 2004 R. Not, Le indagini scientifiche su alcuni mosaici pavimentali siciliani. Proposta di una metodologia di studio propedeutico all’ intervento di restauro, in Atti del I Convegno Internazionale di studi, La Materia e i Segni della storia. Apparati musivi antichi nell’area del mediterraneo (Piazza Armerina, 9-13 aprile 2003), I Quaderni di Palazzo Montalbo 4, Palermo 2004.


NEWS MINIERE STORICHE IN SICILIA: SVILUPPI DELL’ATTIVITÀ DI RICERCA. MAPPATURA GEOREFERENZIATA PER LA COSTRUZIONE DELLA CARTOGRAFIA TEMATICA Concretamente attivata nell’aprile scorso, la convenzione tra il CRPR ed il Corpo Regionale delle Miniere del Dipartimento Industria e Miniere. L’atto d’intesa, stipulato nell’ambito della ricerca scientifica sul patrimonio storico-minerario siciliano, riguarda lo svolgimento di un programma di lavoro volto al completo censimento delle miniere dismesse nel territorio regionale, all’accertamento dello stato giuridicoamministrativo e di conservazione dei vecchi siti di produzione, allo sviluppo di azioni congiunte, volte alla riqualificazione e valorizzazione degli impianti d’interesse archeologico-industriale. I primi dati sono stati acquisiti attraverso la consultazione di inventari, registri storici, decreti ministeriali relativi a concessioni e trasferimenti di miniere cave e torbiere alla Regione Siciliana. Tale attività ha restituito importanti informazioni soprattutto sulla distribuzione delle antiche zolfare e sulle condizioni di tutela discendenti da decreti emanati dall’Assessorato Regionale BB.CC.AA.. Altro aspetto della ricerca ha riguardato la ricognizione dell’iconografia storica di settore che, effettuata presso gli archivi fotografici di Istituzioni pubbliche o di Enti privati, ha già consenti-

to il rinvenimento di preziosi documenti fotografici, molti dei quali inediti. I risultati ottenuti hanno notevolmente arricchito di informazioni la banca dati, strutturata e curata dall’Unità operativa per la Gestione di problematiche geologiche connesse alla conservazione del patrimonio monumentale della cavità ad uso antropico del CRPR. Prossimo obiettivo sarà quello di procedere alla mappatura georeferenziata di tutti i gruppi minerari riscontrati nelle province di Enna, Caltanissetta, Agrigento, per la costruzione di cartografia tematica che rappresenti, con completezza, l’effettiva consistenza del patrimonio storico-minerario della Sicilia. Donatella Gueli LA BIBLIOTECA TEMATICA DI CARTA DEL RISCHIO. UN NUOVO TIPO DI ACCESSO SEMANTICO AL CATALOGO MEDIANTE UN LINGUAGGIO DI INDICIZZAZIONE NATURALE La Biblioteca specializzata e l' Unità Operativa per i beni paesistici, naturali, naturalistici, architettonici ed urbanistici e della Carta del Rischio del CRPR hanno realizzato la Biblioteca Tematica di Carta del Rischio, nell'ambito del finanziamento europeo P.O.R. Sicilia 2000/2006 Asse II-Misura 2.02 Azione B. I volumi, per complessive 1060 unità, sono stati selezionati ed acquisiti in base a criteri di specificità ed attinenza agli argomenti oggetto di ricerca ed attività della Carta del Rischio. Le unità

bibliografiche, oltre ad essere state sottoposte alle procedure di catalogazione informatizzata tradizionale, sia descrittiva che semantica, secondo standard nazionali ed internazionali, sono state anche “tematizzate”. Quest’ultima procedura, innovativa e sperimentale, ha avuto come obiettivo quello di creare un nuovo tipo di accesso semantico al catalogo mediante un linguaggio di indicizzazione naturale, avvalendosi di espressioni in uso e condivise nella comunità scientifica del settore della conservazione e del restauro del patrimonio culturale, senza quindi doversi piegare al rispetto dei rigidi canoni del soggettario di Firenze, limitato ed insufficiente ad esprimere taluni concetti moderni, i neologismi di settore, le categorie di pensiero degli addetti ai lavori, cioè le presumibili forme in cui la ricerca in un catalogo specialistico si può concretizzare. Parallelamente al lavoro di catalogazione, è stata effettuata la digitalizzazione delle parti identificative di ciascun volume: copertina, quarta di copertina, seconda e terza di copertina, se recanti informazioni utili, frontespizio, abstract, ove presenti nelle pagine interne del volume, e indice. Il catalogo consente di effettuare la ricerca bibliografica tramite i parametri: Titolo/Parola di titolo; Autore/Contributi e anche Tema/Sottotema. I risultati della ricerca sono stampabili. L'obiettivo è stato quello di fornire agli utenti del web, oltre ai dati catalografici, anche degli

strumenti in più per valutare a distanza l'interesse e la pertinenza del testo allo scopo della propria ricerca. La possibilità di potere virtualmente prendere in mano il libro, scorrerne l'indice, cogliere la sintesi dell'abstract può fornire qualche dato in più per una valutazione esauriente del testo. Per accedere alla Biblioteca Tematica di Carta del Rischio ci si può collegare all' URL: HYPERLINK "http://www.cartadelrischio.sicilia.it/biblioteca"htt p://www.cartadelrischio.sici lia.it/biblioteca HYPERLINK "http://www.cartadelrischio.sicilia.it/biblioteca/". G. Aloisi – T. Ferlisi SEMINARIO SU TECNOLOGIE DI GESTIONE E FRUIZIONE DI DATI GEOGRAFICI E GEOSPAZIALI PER LE APPLICAZIONI PER L'AMBIENTE E IL TERRITORIO L’esigenza di rendere intelligibile e immediatamente utilizzabile una enorme mole di dati georeferenziati del patrimonio monumentale, archeologico, ambientale e paesaggistico della Sicilia, frutto di una moltitudine di progetti di catalogazione e schedatura dei Beni Culturali susseguitisi da venti anni a questa parte, rende altresì impellente l’apertura della Regione Siciliana a tecnologie avanzate in grado di aggiungere una nuova dimensione a questo patrimonio di conoscenze. In questa prospettiva, grande successo di pubblico ha registrato l’evento del 29 settembre 2009, ospitato dal Centro Regionale Proget35


NEWS tazione e Restauro, avente per oggetto un seminario sulle applicazioni delle tecnologie geospaziali per il monitoraggio e la gestione degli incendi e delle emergenze alluvionali e per l’utilizzo dei database topografici. La manifestazione itinerante, promossa da Planetek Italia su scala nazionale, ha avuto Palermo come tappa iniziale e si concluderà a Milano il 2 Ottobre. Di grande interesse sono apparse le applicazioni, implementate nel software Erdas, per il rilevamento, praticamente in tempo reale, delle coperture in amianto attraverso l’interpretazione di immagini satellitari multispettrali e l’utilizzo delle stesse per l’aggiornamento della cartografia a grande scala. L’evento, che trova ancor più significatività se inquadrato in una moltitudine di iniziative e progetti recentemente promossi dal Centro proprio nel settore dello studio, protezione e prevenzione del patrimonio dei Beni culturali ed ambientali, ha evidenziato l’enorme salto tecnologico a servizio del controllo del territorio ponendo l’accento sulle enormi possibilità di gestione e utilizzo integrato delle informazioni territoriali provenienti da sorgenti, sempre più accurate, di acquisizione di immagini della crosta terrestre. A partire da satelliti per l’osservazione dell’atmosfera sino a sensori ad elevata risoluzione in grado di monitorare il più piccolo cambiamento del tessuto urbanistico, in qualsiasi parte della Terra, enormi sono le potenzialità di ricognizione soprattutto in una prospettiva di prevenzione e protezione del nostro patrimonio culturale ed 36

ambientale dalle catastrofi naturali o da interventi antropici. L’opportunità, adesso a costi ragionevolmente bassi, di dotarsi di una infrastruttura informatica in grado di gestire enormi quantità di dati tematici georeferenziati diventa elemento fondamentale non solo per una condivisione in tempo reale, da e verso strutture di controllo (Protezione civile, unità di crisi, università, popolazione locale, etc..), degli “oggetti” del territorio in trasformazione ma offre spunti di ricerca e implementazione difficilmente ottenibili con altri metodi. Maurizio Bombace SIMULACRI DA VESTIRE. UN PATRIMONIO SICILIANO SCONOSCIUTO – RECUPERO E CENSIMENTO DELLA TRADIZIONE DEVOZIONALE POPOLARE Presentato dall'unità per i beni storico-artistici, iconografici ed etnoantropologici, il progetto si propone di avviare nella prima fase uno studio analitico sulle statue di Madonne vestite, attraverso un censimento di rilevamento a livello regionale, con l'obiettivo di diffonderne la conoscenza, favorirne la valorizzazione, impedirne la scomparsa totale e recuperare al contempo la tradizione pluricentenaria di devozione popolare legata ad esse. La definizione “Madonne da vestire” si riferisce alla struttura dei simulacri vestiti, che poteva essere o rozzamente scolpita, ad eccezione di viso, mani e piedi che invece venivano rifiniti con cura, o completamente modellata con arti pieghevoli per age-

volarne la vestizione o costituita da un corpo impagliato o integrato con legni, tessuti e cartapesta sul quale era montata la testa, oppure formata da un manichino completamente articolato in tutte le sue parti con una meccanica raffinatissima. Di solito le Madonne hanno lineamenti popolari di una bellezza tutta terrena, non idealizzata, il cui accentuato realismo è dato non solo dall’uso degli abiti sgargianti, realizzati con ricami e tessuti preziosi, a carattere profano, ma anche dalla cura dedicata all'espressività del viso ottenuta attraverso il colorito dell’incarnato, il verismo degli occhi in pasta vitrea, le fluenti parrucche di capelli veri. Tale genere di statuaria è in genere destinata all'uso processionale, perciò tra i maggiori committenti figurano le Confraternite, che ancora oggi fanno realizzare i simulacri soprattutto per fini processionali ed infatti il modello più diffuso è la statua dell’Addolorata, che sfila come protagonista assoluta nella processione del Venerdì Santo. La critica d'arte fino a qualche decennio addietro ha contribuito a screditare questo tipo di manufatto polimaterico, giudicandolo privo di valore artistico e classificandolo nell'ambito del folclore popolare, sottovalutando il crogiolo di attività artistico-artigianali che ruotavano attorno alla creazione di tali simulacri: la qualità dei tessuti e dei ricami, la manifattura degli abiti, gli addobbi di merletti e passamanerie, i gioielli e, per finire, l'effige dei volti intagliati talvolta anche da

artisti famosi. Il tema dei simulacri “da vestire” investe, perciò, diversi ambiti di studio e prevede specifici approcci metodologici. Lo studio della matericità dei simulacri-manichini e dei loro corredi costituisce un immenso campo di ricerca, ma anche un'occasione per allinearsi alla tendenza, che in questi ultimi anni hanno manifestato numerose ricerche condotte su questo genere di statuaria presente sul territorio nazionale ed estero. In ambito nazionale, le testimonianze più considerevoli, reperite negli inventari delle chiese, risalgono al XV secolo, ma, in numero rilevante sono state trovate ampie documentazioni nel Cinquecento, nel Seicento, nel Settecento, per tutto l’Ottocento e parte del Novecento. Sul territorio siciliano questo tipo di ricerca archivistica non è ancora stata affrontata, se non per campionature esigue e per finalità diverse. Il progetto prevede, quindi, in una prima fase la ricognizione dei beni esistenti in Sicilia e degli eventuali interventi effettuati nell'ambito della conservazione e del restauro. Attraverso un’approfondita indagine sul campo si porterà alla luce quanto resta di un patrimonio per lungo tempo assoggettato a una sistematica distruzione. Dopo il censimento occorrerà incrociare i dati raccolti e metterli in relazione con quelli prodotti nel resto d'Italia, restituendo al fenomeno la sua dimensione nazionale e, successivamente, si avvieranno una serie di interventi per favorire il recupero di una tradi-


NEWS zione pluricentenaria a rischio di estinzione. Va sottolineato che non è possibile affrontare lo studio del patrimonio ecclesiastico se non partendo dai lavori di schedatura, condotti dalle Soprintendenze e dagli uffici beni culturali delle Curie con il coordinamento della CEI, che saranno completati e integrati attraverso le ricerche negli archivi di Stato, delle Curie e delle Parrocchie. Chiara Caldarella PROGETTO DIAGNOSTICO PRELIMINARE SUL ROSTRO BRONZEO DI EPOCA ROMANA RINVENUTO IN LOCALITÀ ACQUALADRONI A seguito dell’importante ritrovamento archeologico nello specchio di mare che fronteggia la località di Acqualadroni presso Messina, il Laboratorio di Chimica del Centro Regionale per la Progettazione e il Restauro è stato chiamato, su richiesta della Soprintendenza del Mare per la Sicilia, a condurre le analisi propedeutiche necessarie, al fine di elaborare il progetto diagnostico per il restauro del rostro bronzeo, arma strategica di cui erano dotate le navi da guerra di epoca romana. L'esame sistematico degli elementi costitutivi il manufatto e la relativa caratterizzazione consentiranno la valutazione scientifica dello stato di conservazione del reperto e, quindi, la pianificazione del conseguente intervento di restauro e del protocollo di manutenzione. La stesura del progetto diagnostico prevede l’esecuzione di indagini di laboratorio

sia sulla parte metallica sia sulla componente lignea. Questa duplice composizione materica diversifica il rostro di Acqualadroni da tutti gli altri precedentemente rinvenuti: caratteristica che richiederà un intervento più complesso. Infatti per la prima volta si tenterà di stabilizzare due materiali conviventi ma che non hanno nessuna procedura conservativa omologa. Allo scopo, per lo sviluppo del progetto diagnostico, s’è ritenuto opportuno coinvolgere importanti istituti di ricerca. Specificamente sono stati interessati: l'Agenzia regionale per le Acque (ARPA), il Dipartimento di Chimica “F. Accascina” e il Centro Grandi apparecchiature UNI NET Lab. dell'Università di Palermo, il Dipartimento di tecnologie, ingegneria, scienze dell'ambiente e delle foreste dell'Università della Tuscia di Viterbo. N. Vitelli / G. Cinà (1) INCONTRI TECNICI A PALAZZO MONTALBO. DISINFESTAZIONE ANOSSICA E ATMOSFERE CONTROLLATE Il 30 settembre 2009 si è svolto presso il CRPR un incontro tecnico sul tema disinfestazione anossica e atmosfere controllate, promosso in collaborazione con la CTS e la Isolcell. L'esigenza di realizzare questo incontro è nata allo scopo di fornire agli operatori del settore una migliore e corretta conoscenza della tecnica in questione, oltre che della sua utilizzazione. La giornata ha visto un numeroso pubblico di tecnici e restauratori, sia privati che

della Amministrazione regionale, esperti nel campo dei Beni culturali, in particolare dei beni mobili; le tematiche trattate sono state quelle relative al ciclo vitale degli insetti xilofagi, principali biodeteriogeni dei manufatti di natura organica, ai trattamenti di disinfestazione classici e alla disinfestazione in atmosfera controllata e modificata con azoto, con dimostrazione pratica di quest'ultima. Il metodo, basato sul principio dell'anossia, è assolutamente innocuo sia agli operatori che al bene, e l'intervento può essere realizzato in situ. Si tratta di allestire con involucro plastico una bolla, di diversa grandezza a seconda degli oggetti da trattare, all'interno della quale verrà sottratto ossigeno ed immesso azoto. Il trattamento dura circa 21 gg., durante i quali, all'interno della bolla, vengono continuamente controllati i parametri microclimatici, la quantità di ossigeno e di azoto. Trascorso il suddetto periodo, gli insetti in tutti i loro stadi vitali risulteranno morti a causa della mancanza di ossigeno. Presupposto imprescindibile per effettuare tale trattamento è che l'infestazione sia in atto. Rosa Not (2) INCONTRI TECNICI A PALAZZO MONTALBO. NUOVI MATERIALI PER IL RESTAURO DI CARTA E TESSUTI Lo scorso primo ottobre nel Salone delle Feste si è svolto un incontro tecnico sul tema relativo all’aggiornamento sui materiali da utilizzare per il restauro della carta e dei tessuti, organizzato in collabora-

zione con la CTS di Altavilla Vicentina. L’importanza di conoscere e approfondire nuovi prodotti da utilizzare nel settore della conservazione riveste un grande interesse, in special modo oggi, dove la scelta dei materiali si orienta sempre più ad una riduzione dei rischi per le opere, per gli operatori e per l’ambiente. L’approfondimento ha riguardato nello specifico: gli addensanti, impiegati nella preparazione dei gel acquosi, da utilizzare nelle operazioni di pulitura delle superfici di opere d’arte; i protettivi e/o fissativi, fra i quali il ciclododecano, da utilizzare in alternativa alle tradizionali resine, la cui principale caratteristica è quella di sublimare (svanire) completamente non lasciando alcun residuo da dover rimuovere; e infine sono stati presentati dei nuovi polimeri per il consolidamento, come l’Aquazol, oggetto di sperimentazione e di particolare interesse per alcune qualità come, la termoplasticità, e l’assenza di lucidità delle superfici trattate. In considerazione che il buon esito di un restauro è legato anche all’uso mirato ed equilibrato dei materiali, appare sempre più utile e necessario interloquire con i produttori del ramo, al fine di socializzare le sperimentazioni effettuate, innescando così un processo virtuoso di interazione, mediante lo scambio dell’esperienza maturata dagli operatori del settore - in uno con la letteratura dei protocolli di restauro consolidati – utile allo sviluppo della ricerca per una mirata applicazione dei materiali sperimentati Caterina Dessy 37


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RICERCHE & CONTRIBUTI

PUNTERUOLO ROSSO DELLE PALME BIOLOGIA E MEZZI DI CONTROLLO Stefano Colazza Facoltà di Agraria - Università di Palermo

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l Punteruolo Rosso delle Palme, Rhyncophorus ferrugineaus, è un coleottero curculionide di origine asiatica, giunto nel bacino del Mediterraneo nei primi anni ’90. In Italia, le prime segnalazioni risalgono alla metà del 2004. Durante questi 4-5 anni, l’insetto si è diffuso pressoché in tutte le regioni italiane prospicienti il mare distruggendo migliaia di piante della specie Phoenix canariensis, la palma delle Canarie. In questi anni si sono osservate infestazioni anche a carico di altre specie di palme, ad esempio Washingtonia sp., P. dactyliphera, palma da dattero, Syargus romazoffiana, Jubaea chilensis e Livistona chinensis e Chamaerops humilis, palma nana del Mediterraneo, che rappresenta l’unica specie indigena per l’Italia. Gli adulti del Punteruolo sono di colore rosso-ferrugineo e sono lunghi circa 31-33 mm e larghi circa 10 mm. Il capo dell’insetto è caratterizzato dalla presenza del rostro, che nei maschi si presenta munito di una serie di fitte setole mentre nelle femmine si presenta glabro, più lungo ed arcuato. Le femmine depongono le uova alla base delle foglie o dei giovani germogli, preferendo le zone affette da ferite o cicatrici. Il numero di uova che una femmina può deporre varia da alcune decine a svariate centinaia. Dopo 3-6 giorni le uova si schiudono e le giovani larve penetrano all’interno della pianta per dare inizio alla fase endofita con la formazione nel tronco di gallerie e ampie cavità. Questo aspetto della biologia rende molto difficile effettuare la diagnosi dell’attacco precocemente, fenomeno che è reso più evidente quando ad essere colpite sono le palme delle Canarie. La pianta non presenta sintomi esterni evidenti della infestazione per mesi, in questo lasso di tempo si avvicendano più generazioni e centinaia di larve hanno modo di svilupparsi a carico del tessuto vegetale. Quando la sintomatologia dell’attacco appare evidente con le foglie apicali che si afflosciano su quelle inferiori, è spesso troppo tardi per poter intervenire efficacemente. I mezzi disponibili per contenere le popolazioni di questo insetto, che come abbiamo visto è per biologia e ruolo ecologico di difficile controllo, hanno, sino ad ora, evidenziato forse più i limiti che non le prospettive. Schematicamente i mezzi per il controllo del Punteruolo Rosso delle Palme possono essere raggruppati per comodità di esposizione in: legislativi, meccanici, biologici, biotecnici e chimici. Il mezzo legislativo, che, in ultima analisi, prevede il costante monitoraggio della diffusione del fitofago e la tempestiva eliminazione delle piante attaccate, è ragionevolmente il dispositivo che meglio di tutti ha frenato e potrà frenare lo sviluppo del Punteruolo rosso. Per il controllo delle infestazioni occorre fare riferimento alle “Disposizioni sulla lotta obbligatoria contro il Punteruolo Rosso delle palme R. ferrugineaus” della GURI del 13.02.08 che recepiscono la decisione della Commissione 2007/365/CE. Le regioni italiane interessate alle infestazioni del Punteruolo hanno emanato

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specifiche misure fitosanitarie; in particolare la Regione Campania con il Decreto del 31.01.06 n. 33 e la Regione Siciliana con il Decreto del 6.03.07 in forza al quale il Servizio Fitosanitario Regionale accerta e segnala l’ubicazione delle palme infestate all’Azienda Foreste Demaniali che provvede all’abbattimento a alla distruzione delle palme colpite seguendo adeguate procedure. Tuttavia, per zone in


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RICERCHE & CONTRIBUTI

cui la presenza dell’insetto è segnalata da oltre 3 anni, è tempo di rivedere le disposizioni legislative e procedere a dichiarare queste zone “zone di infestazione”. Negli ultimi anni è stato messo a punto un metodo di risanamento delle palme ai primi stadi di infestazione riadattando una tecnica comunemente utilizzata nelle isole Canarie per l’estrazione del guarapo, da cui si ricava il cosiddetto “miele di palma”. In pratica si tratta di asportare tutte le parti attaccate con l’ausilio di scalpelli ed altri attrezzi da potatura rimuovendo nel contempo anche tutti gli insetti presenti. Questa tecnica di dendrochirurgia è efficace solo quando i tessuti della pianta interessati dalla presenza del coleottero si trovano in una posizione più alta rispetto alla gemma, condizione che può essere verificata solo durante l’intervento. I costi onerosi di questi interventi e il fatto che molte delle piante “risanate” attraverso questa tecnica siano state re-infestate rendono questo metodo poco pratico nell’applicazione su larga scala. Tuttavia esso può avere una certa rilevanza nel risanare quelle palme dall’alto valore monumentale che si trovano in molti parchi e giardini italiani. Riguardo alla possibilità di usare nemici naturali del Punteruolo Rosso delle Palme, non

sono stati ancora individuati nemici naturali specifici che possano essere impiegati efficacemente. Infatti occasionale o di scarso rilievo è l’attività di predatori e parassitoidi nei confronti di R. ferrugineaus che si registra in campo. Tra i mezzi di lotta biologica, i risultati più promettenti derivano dall’impiego di formulati insetticidi a base di nematodi appartenenti al genere Steirernema. I nematodi aggrediscono attivamente le larve e, in misura minore, gli adulti dell’insetto nutrendosi e sviluppandosi internamente. Nel volgere di alcuni giorni l’insetto viene ucciso con la conseguente morte del punteruolo portandole a morte. In laboratorio i risultati osservati hanno registrato una mortalità prossima al 100% delle larve, in campo l’utilizzo di questi formulati ha determinato risultati meno buoni con una mortalità delle larve osservata che va dal 29% al 67%. L’importanza di questo mezzo di lotta biologico non va comunque sottovalutata, anche in funzione del basso impatto ambientale derivante dall’utilizzo di questi formulati. Tra i mezzi biotecnici per il controllo del Punteruolo si annovera il metodo della cattura massale. Questa tecnica prevede l’utilizzo di quantitativi consistenti di trappole innescate con esche di natura chimica 39


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RICERCHE & CONTRIBUTI

al fine di catturare il maggior numero possibile di adulti della specie da combattere. Le esche chimiche utilizzate nelle trappole adoperate per il Punteruolo Rosso delle Palme attraggono l’insetto sia con stimoli sessuali (feromone di aggregazione, 4-metil-5 nonanolo) che alimentari (esteri che si sviluppano dalle palme in fermentazione, come acetato o propinato di etile). Tale tecnica è stata recentemente utilizzata nel corso di uno studio del Dipartimento S.En.Fi.Mi.Zo. dell’Università di Palermo nel comune di Marsala (TP) con risultati promettenti ed attualmente è stata ripetuta in scala più grande a Palermo. Nel capoluogo siciliano sono state poste 500 trappole sparse in tutta la città, ognuna delle quali cattura una media di due individui al giorno. Al giorno d’oggi questa biotecnologia entomologica si segnala tra le più promettenti nell’ambito del controllo del Punteruolo Rosso delle Palme. L’utilizzo di formulati insetticidi nei confronti del Punteruolo Rosso delle Palme è oggi al centro di dibattiti all’interno della comunità scientifica a causa delle ripercussioni che tale mezzo può avere negli ambienti urbani se applicato senza i dovuti accorgimenti. Il Ministero della Salute ha autorizzato, per la prima volta nel febbraio 2008 e successivamente con una deroga nel giugno 2009, per motivi eccezionali, l’impiego di alcuni principi attivi. Tuttavia il controllo e la prevenzione delle infestazioni del Punteruolo Rosso delle Palme con mezzi chimici non è di facile attuazione ed è importante che i trattamenti vengano effettuati da personale specializzato. Le difficoltà nella lotta chimica

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derivano sia dal comportamento del coleottero, le cui larve si sviluppano ben protette all’interno della porzione apicale delle palme, che dalla morfologia e fisiologia della palma stessa. Attualmente due sono i metodi di controllo chimico prevalentemente utilizzati: endoterapia e aspersione. Essi si differenziano sia per i principi attivi somministrati che le modalità di applicazione. L’endoterapia si avvale di insetticidi sistemici a base abamectina o imidacloprid. Questi principi attivi vengono applicati all’interno delle palme attraverso delle “iniezioni” nel tronco. Se da un lato tale metodo ha il vantaggio di avere un impatto ambientale relativamente ridotto, dall’altro spesso non ha mostrato un effetto tale da garantire la completa mortalità dell’insetto e il conseguente recupero della pianta infestata. Il metodo per “aspersione” si avvale di insetticidi di sintesi, come il chlorpyriphos, somministrati dall’esterno sulla chioma. Questa strategia sembra dare qualche risultato positivo se usata in via preventiva. Tuttavia la necessità di reiterare i trattamenti per tutto il periodo di diffusione degli adulti e soprattutto gli elevati effetti di inquinamento ambientale che comportano i trattamenti rendono questo metodo poco sostenibile. In sintesi una unica “soluzione” semplice ed economica per affrontare e risolvere i gravi problemi che hanno fatto seguito all’introduzione del Punteruolo Rosso delle Palme ancora non è stata messa a punto, pertanto la strada da percorrere è quella dell’uso integrato dei mezzi disponibili, adattando la strategia di volta in volta a seconda del contesto in cui si opera.


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RICERCHE & CONTRIBUTI

PALME E PAESAGGIO L’ABITO URBANO VEGETATIVO Giuseppe Barbera Facoltà di Agraria - Università di Palermo

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li ultimi dati parlano di 14.000 palme abbattute, ma la diffusa presenza di esemplari ancora in piedi, mortificati dal ciuffo appassito delle foglie, fa pensare che il numero sarà destinato a crescere fino a quando, finalmente, si capirà che non ci sono (o non sono sufficienti) scorciatoie chimiche o biologiche, trappole o repellenti, aspersioni o endoterapie fino in fondo efficaci e che la strada principale da percorrere in ambiente urbano è quella della estirpazione di tutti gli individui colpiti. Invece, in suoli pubblici o privati, lasciate come gli appestati a diffondere il male, gli stipiti delle palme continuano ad allevare nei loro tessuti centinaia di punteruoli pronti a completare l’opera distruttiva. Si prevede ormai che l’infestazione troverà un punto di equilibrio, quando solo poche saranno le palme delle Canarie ( la sola specie significativamente colpita oggi in Sicilia) sopravvissute, quando quindi il paesaggio urbano sarà stato fortemente modificato e quello delle ville storiche e delle piazze e alberature monumentali definitivamente compromesso. Non c’è ad oggi una diffusa consapevolezza sulle conseguenze dell’infestazione del punteruolo rosso e i singoli cittadini, proprietari di giardini o semplici amanti del verde, appaiono molto più preoccupati e addolorati dei decisori pubblici, indifferenti (come molti altri indizi concorrono a dire) alle sorti del giardino storico siciliano e al paesaggio culturale dell’isola. Comunque vada, il paesaggio delle città siciliane si avvia a cambiare sotto i nostri occhi. Dopo la cancellazione dei giardini di agrumi, degli orti e dei frutteti nelle cinte periurbane, dopo il degrado di tanta architettura antica e la proliferazione della sciatta edilizia contemporanea, un‘altra parte della identità paesaggistica siciliana, quella che la rendeva esotica, diversa e perciò appetibile ai viaggi e ai ricordi dei visitatori e al piacere e al rimpianto della memoria, scompare. Molte piazze e giardini sono ormai stravolte e solo fotografie ormai datate e vecchie cartoline ci rimandano al paesaggio scomparso: quello dei viaggiatori del Grand Tour che nell’immaginario rimane indimenticabile. Per limitarsi a Palermo, è il paesaggio del giovane architetto tedesco Hessemer che godeva la vista della “vallata…come di un paradiso terrestre; qua e là piccole case bianche affiancate da palme svettanti tra il verde intenso degli altri alberi?”, il paesaggio di Edmondo De Amicis che ammirava nella “stupenda e strana Città dei Vespri e di Santa Rosalia” una “vegetazione magnifica che vi circonda nei giardini e nei parchi cittadini, dove si incrociano i viali fiancheggiati di oleandri e di rose, e s’affollano le palme, i platani, gli eucalipti, le più preziose specie di tutte le flore”, quello dove Alexandre Dumas che scorgeva “le ville attorniate dai vigneti, i palazzi all’ombra dei palmizi: tutto questo spettacolo metteva la gioia nel cuore e l’ammirazione negli occhi… Fino a Monreale la strada è deliziosa; è quella che gli antichi chiamavano la Conca d’Oro, ossia un grande bacino di un bel verde smeraldo, variegato dai mille colori degli oleandri, mirti e aranceti,

mentre, al di sopra di essi, s’innalza, a distanza irregolare, qualche palmizio e ondeggia con noncuranza un maestoso ciuffo africano”. Il paesaggio, per l’anarchico Elisee Reclus, delle “ville Belmonte e Pignatelli circondate da ameni giardini che sorridono…come dimore di fate. Fioriti gerani, allori, palme, cedri si imboscano intorno alle aiuole tortuose”. Il paesaggio dove per il poeta russo Andrei Belyj, “le rigide pale della palma danzano…nel vento ballerino”. Il rilievo delle palme nelle città e nei giardini siciliani può essere anche colto dal grande spazio che esse occupano nelle cartoline postali della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento e che di fatto sintetizzano il fascino della “veduta”, spesso incorniciata dalla chioma elegante delle palme stesse. Alcune di queste foto ci rappresentano un “paesaggio” ormai connaturato con le nostre città, ma che i gravi danni apportati dal punteruolo hanno compromesso. Forse nessuna parola o immagine può valere a testimoniare l’importanza delle palme nel paesaggio siciliano quanto quelle dello zio del “Bell’Antonio” di Vitaliano Brancati che tornato a Catania ,dopo aver vissuto a lungo a Parigi e Barcellona esclama:“Come voglio bene a questa terra!...Che disgraziato rimanerne per vent’anni lontano!...Ecco qui la palma!...ecco la palma con cui avrei cambiato tutti i giardini di Versaglia…” Che fare allora nei giardini storici, nelle piazze, nelle alberature stradali una volta che la gran parte delle palme delle Canarie saranno scomparse? Bisognerà ricordarsi che solo dalla seconda metà del Ottocento (in Italia è presente dal 1888) questa specie è diffusa nei nostri giardini e che molte altre specie – nei giardini storici siciliani ne sono state rinvenute ben 35 diverse- possono essere utilizzate al suo posto e che ad esse bisognerà rivolgersi se si vogliono restituire le stesse forme, le stesse strutture paesaggistiche oggi negate dal punteruolo. Naturalmente andranno evitate le specie che si sono mostrate sensibili agli attacchi e comunque paesaggisti e appassionati del verde dovranno ricorrere ad esse ben consci dei rischi che si corrono. Con molta prudenza, sulla base dei dati riportati dal rapporto su “La ricerca scientifica sul punteruolo rosso e gli altri fitofaghi delle palme in Sicilia” (a cura di S. Colazza, S. Longo, G. Filardo, Assessorato Agricoltura e Foreste della Regione Siciliana, 2009) si dovrà ricorrere a Livistonia chinensis (1 caso segnalato a Palermo), Sabal sp. (3 piante in piena terra colpite in un vivaio a Catania), Syagrus romnzoffiana (3 casi a Catania), Jubaea chilensis (1 caso a Catania), Howea forsteriana (2 casi a Giarre). Anche altre specie, prime tra tutte l’autoctona palma nana e la palma da datteri sono state colpite, limitatamente ad alcuni esemplari, ma come rinunciare ad esse? Va ricordato in ogni caso che l’abito vegetativo, cespuglioso per la presenza e l’emissione continua di numerosi polloni, della palma nana riduce fortemente la possibilità che la pianta venga uccisa dall’insetto e anche la sua appa41


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renza estetica non ne viene fortemente alterata. Anche la palma da datteri, colpita allo stipite e non nell’unica gemma apicale, si presta ad una ulteriore diffusione nel paesaggio. Pur essendo di origine esotica fa parte più di ogni altra palma del paesaggio tradizionale siciliano, non solo di quello urbano ma anche di quello rurale dove la forma slanciata e la chioma svettante segnano storicamente gli insediamenti dell’uomo. Con una certa cautela andrebbero invece diffuse le Washingtonie americane, molto apprezzate invece per la rapida crescita e fino ad oggi per una buona tolleranza al punteruolo (che ne ha pure colpito 8 esemplari), ma anche perché incongrue alla classicità del paesaggio mediterraneo che banalizzano in molti viali lungomare, in molti giardini partecipando ad un paesaggio globale che non ha qualità, distinzioni e confini. La scelta delle specie da diffondere al posto della palma delle Canarie segue però sempre l’eliminazione delle ceppaie delle palme uccise (che rimangono, si è visto in molte

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occasioni, rifugi per nuove generazioni di punteruoli) e la disponibilità di progetti di impianto che in linea, con la storia e il disegno dei giardini storici, diano corrette indicazioni. Si dovrebbero dotare i giardini siciliani – e non solo in ragione dei danni del punteruolo- di piani di gestione. Questi, predisposti da competenti, attenti alla storia dei singoli giardini, alle problematiche che derivano dai diversi ambienti colturali, all’assetto della vegetazione sono necessari a fornire indicazioni che non affidino solo al buon gusto del paesaggista o del giardiniere (figure professionali tra l’altro trascurate a vantaggio di competenti dell’ultima ora, spesso senza alcuna qualifica) le scelte tecniche di impianto e manutenzione e, con esse, le sorti dei giardini storici. Questi, ricordiamolo, sono “composizioni architettoniche e vegetali che, dal punto di vista della storia o dell’arte, presentano un interesse pubblico”, dice la Carta di Firenze che dovrebbe guidare anche in Sicilia ogni ragionevole intervento di restauro o recupero.


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I PORTALI DELLA CITTÀ ARCHITETTURA, TRASFORMAZIONI E SOVRAPPOSIZIONI STILISTICHE NEL CENTRO STORICO DI PALERMO Lucia Carrubba Dottore di Ricerca

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l centro storico di Palermo è caratterizzato da architetture che affondano le proprie radici in un passato millenario che ha visto sovrapporsi e mescolarsi tradizioni, tecniche costruttive e stili architettonici di diverse epoche. Camminarvi attraverso costituisce un vero e proprio viaggio nella storia, i cui segni sono impressi e leggibili già nei prospetti degli edifici. In particolare, uno degli elementi che consente l’immediata lettura del trascorso materiale, culturale ed artistico è il portale, significativo particolare architettonico che si presta a letture stilistiche, geometriche e tecnologiche. Considerato quale elemento di passaggio tra l’esterno e l’interno dell’edificio, il portale assurge ad una duplice funzione, quella decorativa del vano d’ingresso e quella emblematica dell’autorità e del prestigio della famiglia possidente. Per tali ragioni il portale ha da sempre rivestito un ruolo di primaria importanza, suscitando studi e riflessioni sulla relativa progettazione formale e decorativa. Tuttavia con l’evolversi dei secoli, tale ruolo è andato sempre più scemando, sino alla completa rimozione della figura emblematica del portale nell’architettura contemporanea. I moderni edifici il più delle volte presentano semplici aperture prive di ogni riferimento stilistico o ornamentale, in cui l’elemento predominante è raffigurato dalla pura esaltazione del contrasto tra pieno e vuoto attraverso l’esclusiva linearità dello schematismo formale dell’apertura. Questa nuova visione ha, dunque, determinato la progressiva scomparsa dei principi fondativi del portale, riscontrabili unicamente nelle numerose architetture storiche caratterizzanti vicoli e strade di molteplici centri urbani. Palermo, in quest’ottica, con i suoi quattro mandamenti, rappresenta un’importante documento architettonico, in cui i portali richiamano l’attenzione, anche dell’osservatore meno attento, inducendolo spesso a fermarsi e ad osservare l’edificio monumentale nel suo insieme. È dunque sembrato opportuno favorire la conoscenza di questo particolare architettonico, ormai esclusiva testimonianza del passato, attraverso una descrizione dei caratteri stilistici e formali e della relativa evoluzione nei secoli, ed alcuni rilievi dei più significativi portali del Mandamento Palazzo Reale di Palermo. Ciascun portale trasmette l’eredità storica che lo caratterizza, esprimendo in ogni epoca la somma di precise tradizioni stilistiche e tecniche costruttive. Ma rappresenta anche la sintesi di ulteriori fattori, connessi ad esempio al rapporto tra edificio e contesto o al grado di nobiltà del proprietario. Il primo fattore ha gradualmente rivoluzionato lo schematismo formale del portale, che da semplice varco è divenuto ele-

mento di mediazione tra la strada ed il cortile, in una innovativa soluzione di continuità che vede l’edificio aprirsi verso l’esterno ed inglobare al suo interno lo spazio urbano. Pertanto nell’edificio arabo-normanno, sia esso castello o palazzo, si riscontrano nella corposa e pesante volumetria della muratura, semplici portali ad arco acuto, realizzati con conci di dimensioni regolari e privi di sporgenze o rincassi. La decorazione, a carattere quasi grafico, è generata dalla materia stessa mediante il colore delle pietre variamente disposte. Interessanti esempi, oltre al portale della chiesa di S. Giovanni degli Eremiti nel Mandamento Palazzo Reale, sono rappresentati dai portali della chiesa di S. Cataldo e della chiesa della Magione ubicati nel Mandamento Tribunali (fig. 1). Con l’affievolirsi di tale concezione, comincia a delinearsi e ad affermarsi nei secoli successivi una differente impostazione tipologica dell’edificio, che inizia ad essere maggiormente qualificato, nella propria individualità stilistica, proprio dalle aperture. La piena muratura, che rappresenta ancora elemento caratterizzante l’intera opera, è arricchita, nel XIII e XIV secolo, da portali medievali ad arco acuto dalle linee esaltate e maggiormente slanciate, sempre chiaroscurati attraverso il gioco degli accostamenti policromi delle pietre (come a palazzo Sclafani, a palazzo Chiaramonte e nelle chiese di S. Francesco d’Assisi e di S. Agostino). E per tutto il XV secolo da portali in cui emerge una maniera più raffinata fatta di trafori nella muratura, di archi ribassati o depressi dalle straordinarie curve appena descritti da raggiere di conci e definiti da cornici - e di eleganti e piccoli elementi decorativi inquadrati nel paramento murario (chiesa S. Maria degli Angeli - Gancia, palazzo Ajutamicristo, palazzo Abatellis). Ed è sempre nel Quattrocento che il portale accresce il suo ruolo rappresentativo dello status sociale della famiglia proprietaria, fattore quest’ultimo che ha generato, nei secoli successivi soprattutto nel Seicento, magnifici portali intesi quali piccole sculture e vere e proprie opere d’arte. Attraverso geometrie e decori, gli artisti del tempo hanno dato lustro alla personale genialità spesso fondendo anche stili tra loro diversi. Il Cinquecento è caratterizzato nella prima metà del secolo dalla fusione tra elementi rinascimentali ed elementi gotici e mantiene l’impostazione quattrocentesca del portale con arco depresso, cornice gotica e peducci rinascimentali (fig. 2 palazzo Filangeri). Successivamente, il linguaggio architettonico rinascimentale, e più specificamente manierista, prende il sopravvento e da qui l’impiego di colonne, capitelli, lesene, architravi, trabeazioni, timpani, tutti elementi dell’or-

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1 Fig.1 Esempi di portali XI - XII secolo: Chiesa di S. Giovanni degli Eremiti Chiesa di S. Cataldo - Chiesa della Magione

2 Fig.2 Esempi di portali XVI secolo: Palazzo Filangeri - Palazzo Oneto Palazzo Castrone di S. Ninfa

dine classico che esaltano la simmetria e la purezza dei volumi. La particolare decorazione di questo periodo vede l’uso di trame a rilievo su grandi bugne poste a cornice dei portali e talvolta a marcapiano dei prospetti come nei rispettivi portali di palazzo Oneto e di palazzo Castrone di S. Ninfa (fig. 2). La ricercatezza formale si protrae per tutto il Seicento, e al gusto tardo rinascimentale si combina quello barocco siciliano ricco di decorazioni scultoree: il portale è caratterizzato da un partito architettonico cinquecentesco ispirato all’arte classica, con aggiunte alterazioni decorative barocche(fig. 3 Palazzo Reale). L’arco poligonale sostituisce quello arcuato e nasce al contempo un nuovo tema figurativo che troverà piena affermazione nel secolo successivo. L’innovativo schema strutturale vede il legame tra il portale a piano terra ed il primo ordine soprastante: accanto al portone e sul balcone è l’ordine architettonico con l’uso di colonne libere o appoggiate o incastrate o di lesene, a risolvere sulla sua trabeazione il piano di affaccio, mentre la ricca mostra laterale si conclude nel timpano a reggere gli stemmi nobiliari. Tra i numerosi esempi riscontrabili all’interno dei quattro mandamenti si riportano i portali di palazzo Ugo delle Favare e di palazzo Alliata di Villafranca (fig. 3). Nell’ultimo trentennio del Settecento si avverte un’inversione di tendenza, un ritorno cioè a forme pure con elementi ripresi dall’architettura greca e romana, preludio delle tendenze stilistiche neoclassiche confermate nei primi anni dell’Ottocento, quando, con l’architetto Giovan Battista

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3 Fig.3 Esempi di portali XVII secolo: Palazzo Reale - Palazzo Ugo delle Favare - Palazzo Alliata di Villafranca

4 Fig.4 Esempi di portali XIX - XX secolo: Palazzo Balsano di Daina - Palazzo Vaccarizzo - Palazzo Napolitano

Filippo Basile nasce una nuova corrente stilistica che denota una ricerca formale centrata soprattutto sul disegno e sui dettagli ornamentali floreali (ghirlande, rami, foglie), il tutto rientrante tra lesene e capitelli classici, o marcatamente liberty. Ogni singolo dettaglio è precisato con la massima cura, dall’arrotondamento degli spigoli, alla disposizione dei conci di rivestimento esterno, alla filigrana in ferro che definisce tetti e guglie. La volontà di ostentazione mediante espressioni scenografiche esasperate, in nome della pura e sola rappresentazione del potere e della ricchezza nobiliare, genera, sino ai primi anni del Novecento, un intenso eclettismo rappresentato da una varietà stilistica di portali, localizzati nel centro storico prevalentemente lungo l’asse di Via Roma, che esprimono così i vari linguaggi correnti: neoclassico, neogotico, liberty, rispettivamente rappresentati dai portali di palazzo Balsano di Daina, palazzo Vaccarizzo e palazzo Napolitano (fig. 4). In conclusione, questa breve sintesi sull’evoluzione storicostilistica del portale nel centro storico di Palermo, se da un lato documenta il valore che ogni singolo elemento architettonico storico riveste all’interno di un più ampio patrimonio culturale, dall’altro vuol contribuire a stimolare le Autorità competenti verso la loro tutela. Gran parte di questi portali è infatti caratterizzata da un elevato stato di degrado, e talvolta anche di abbandono, che richiederebbe una azione di restauro tempestiva affinché questo esclusivo documento non vada perso nel tempo definitivamente.


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FORMAZIONE

PERCORSI FORMATIVI OBIETTIVI DI STUDIO PER UN’IDONEA FRUIZIONE E CONSERVAZIONE DELLE OPERE D’ARTE Francesca Pulizzi/Lorella Pellegrino Tutor didattici - CdL Conservazione e Restauro dei Beni Culturali

Nel corso di questi anni il CRPR è stato più volte chiamato a eseguire interventi di restauro su opere di gallerie e musei della nostra regione, assumendo sempre più un ruolo di riferimento per la complessa attività di recupero e conservazione del patrimonio culturale, la quale richiede una pianificazione degli interventi sostenuta da studi approfonditi e progetti articolati sia in fase diagnostica che tecnica Appare chiaro che lungo i percorsi espositivi spesso ci si confronta con operazioni di salvaguardia su opere eterogenee, facenti parte della stessa collezione, che nel tempo hanno subito interventi quasi mai dettati da unitarietà e razionalità metodologica conservativa. I laboratori di restauro di manufatti di origine inorganica dell’Istituto, sono, da tempo, dedicati alla didattica tecnicopratica del Corso di Laurea interfacoltà di Conservazione e Restauro dei Beni Culturali che afferisce alla Facoltà di Scienze Naturali e Naturalistiche dell’Università di Palermo e abilita alla professione di restauratore. Uno dei contenitori museali cui abbiamo fatto riferimento per la didattica durante l’anno accademico in corso - grazie alla sensibilità di Giulia Davì - è stato la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis a Palermo; nel caso specifico sono state selezionate alcune delle opere marmoree esposte che presentavano tipologie di degrado rappresentative della problematica che con questo progetto intendiamo affrontare, anche per la redazione di tesi di Laurea Specialistica. É stata perciò possibile una proficua collaborazione di tutti i Docenti delle materie tecniche, scientifiche ed umanistiche, essenziale per affrontare la fase analitica preliminare agli interventi di restauro. Scopo di questo progetto è l’avvio di indagini estensive sulle singole opere scultoree custodite, per la messa a punto di protocolli d’intervento da eseguire con l’indispensabile contributo di tecnologie analitiche guidate da un criterio metodologico il più possibile unitario. Tale studio si configura quale campione pilota per redigere la Carta del Rischio degli ambienti confinati che il Centro Restauro intende avviare. Il piano terra della Galleria è, quasi interamente, dedicato ai manufatti litici, un percorso museale ricco di sculture distribuite secondo un criterio storico cronologico, realizzate sia a basso rilievo che a tutto tondo, di epoca medievale e rinascimentale. Le opere, il cui materiale costitutivo è il marmo bianco microcristallino, sono caratterizzate da levigatissime superfici, che conservano ancora labili tracce di cromie e dorature a foglia; il cuore di questa sezione è costituito dalla sala dedicata ad “Eleonora D’Aragona”, insigne opera di Francesco Laurana i cui differenti equilibri cromatici e vibrazioni plastiche superficiali sono prodotti da singolari strumenti di lavorazione adottati per la differenziazione di trine e tessuti, e da residui di origine organica non più rimovibili. L’intervento mira a migliorare la fruibilità dei manu-

fatti scultorei esposti lungo il percorso museale, affinché il visitatore non solo guardi ma veda, per coinvolgerlo emotivamente e razionalmente È, quindi, indispensabile l’avvio di una campagna di indagini non invasive con l’ausilio di strumentazioni spettrofotometriche, multispettrali, in fluorescenza a raggi x, termografiche e microgeofisiche per l’analisi preliminare di tutte le opere scultoree, che prende le mosse dal rilevamento microclimatico e dal controllo del particellato ambientale, seguito da una campagna di microprelievi per la determinazione della natura della coprente coltre bruna, rilevata su tutte le superfici marmoree della collezione, e degli effetti deterioranti di questa sui manufatti. Inoltre, certi della presenza di differenti trattamenti superficiali, attribuibili agli stessi artisti che, originariamente, definivano la finitura di carnati e abbigliamenti o panneggi di un’opera, oltre che con stesure pigmentate anche con toni cromatici ottenuti con sostanze organiche di varia natura (oli, cere, vernici o collette animali), ci siamo prefissi con la

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FORMAZIONE

fase diagnostica di tendere all’identificazione di tali diversi toni, oggi riconducibili a pallide diversificazioni, il più delle volte non facilmente rilevabili a una buona misura occhiometrica. Delicate superfici che hanno richiesto puliture selettive, pilotate da misure fisiche che garantiscono il controllo e la salvaguardia dei caratterizzanti valori cromatici, con grande padronanza e sicurezza anche su superfici che conservano sottilissime pellicole tonali, specie in campiture un tempo dedicate alla doratura a foglia o a pastiglia, oggi mancante. Su tali aree infatti, l’assottigliamento dei depositi consente di conservare anche solo la “memoria cromatica”, rarefatte valenze cromatiche, queste molto spesso sottovalutate e distrattamente affrontate fino a perderne totalmente la memoria. Tra le opere oggetto di restauro la testina di Dama, il Busto di Giovinetto e l’Eleonora D’Aragona di Francesco Laurana, la Natività e la Presentazione al Tempio di Costantino di autore ignoto esposte nella Sala del Laurana; la Madonna degli Anzaloni e la Madonna con Bambino di Antonello Gagini, i capitelli e le rispettive basi opera della bottega dei Gagini esposti nella Sala dei Capitelli. Lo Stage presso il Museo ha diverse valenze, innanzitutto didattiche ma anche di servizio verso una struttura della regione contenitore di opere di grande valore storico-artistico. L’obiettivo della didattica è di far comprendere il valore della manutenzione ordinaria e straordinaria, ma anche quello di mettere gli studenti a diretto contatto con opere preziose che esprimono i più grandi valori che l’essere umano è in grado di produrre e trasmettere a prescindere dal periodo o dal materiale. Dunque il rilievo, l’anamnesi del manufatto attraverso la diagnostica, la pulitura selettiva, il trattamento di protezione finale diventano per noi docenti, da un lato gli strumenti per raggiungere gli obiettivi didattici prefissati, dall’altro un momento fondamentale per ricerche che solo un’istituzione universitaria può garantire.

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FORMAZIONE

TIROCINIO IN CHIESA

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L’OSTENSORIO CON GLI ANGELI DEL CARMINE MAGGIORE Provvidenza Lupo Tutor didattico - CdL Conservazione e Restauro dei Beni Culturali

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ell’ultimo anno accademico 2008/2009, fra le attività di formazione svolte presso il CRPR, nel quadro del programma del Corso di laurea in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali della Facoltà MM.FF.NN, è stato dedicato un tirocinio didattico al restauro dei manufatti in metallo e leghe, a cui hanno partecipato gli allievi del terzo anno. Le esercitazioni di restauro sono state eseguite sugli oggetti forniti dalla Chiesa del Carmine Maggiore, con la quale si è istaurato in questi anni un proficuo rapporto di collaborazione, essendo un vero e proprio ed inesauribile “contenitore” data la ricca gamma di beni posseduti che necessitano di interventi e che -di volta in volta- vengono proposti per lo svolgimento dei “cantieri didattici” (così come si configurano i vari tirocini di restauro), grazie ai quali è possibile recuperarli con azioni mirate. Come è noto la chiesa del Carmine sorge in uno dei più affollati e popolari rioni storici della città: l’antico mandamento dell’Albergheria. Essa è un autentico gioiello di storia e d’arte, nonché uno dei primi esempi di architettura barocca palermitana. Varie e complesse sono le vicende dei numerosi restauri a cui è stata sottoposta, un tema che meriterebbe senz’altro uno spazio più approfondito di queste brevi informazioni. Tra la varia e preziosa oggettistica liturgica selezionata è da segnalare il manufatto dell’argentiere palermitano Saverio Martinez: un bellissimo ostensorio, tra i più antichi rimasti, in argento massiccio dorato con fregi in rilievo e di stile rococò che sul piedistallo, decorato con foglie d’acanto e volute e grappoli d’uva, porta tre targhette decorative incise: una con lo stemma carmelitano di Sicilia; un’altra con la Luna (simbolo della Madonna); la terza, invece, riporta la data di fattura: fecit 1762. Sull’estremo lembo della base sono incise le lettere: “R.P.M.A.R.F, 1813”, iniziali di: “Rev. P. Maestro Antonino Ragusa fece restaurare nel 1813”. Il fusto, riccamente ornato da piccole volute e foglie di vite e nella parte finale in alto da un delicato motivo a spiga di grano, sorregge la teca dell’ostia contornata da una ghirlanda formata da otto testine di puttini alati adagiati su nuvole lavorate a sbalzo -che viene riproposta anche nel tergo- e dalla quale si diparte la splendida raggiera dorata e argentata con in cima la croce. L’intervento di restauro conservativo eseguito dagli allievi del corso, sotto l’attenta guida della docente Ludovica Nicolai dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, è stato preceduto da una approfondita analisi sullo stato di conservazione del manufatto che -nel caso in specie- presentava alterazioni dovute anche ad una non appropriata manutenzione, effettuata perlopiù con prodotti poco idonei, come purtroppo quasi sempre avviene nella custodia degli enti parrocchiali: spesso per la pulitura delle suppellettili liturgiche di uso quotidiano ci si affida alla collaborazione di sacristi o parrocchiane volenterose che, cimentandosi in operazioni di sola lucidatura, usano prodotti commerciali generici (in

genere paste abrasive) che nel tempo alterano e danneggiano la composizione materica degli oggetti (argento, ottone, bronzo, rame etc.). Inoltre si sono riscontrate delle patine nerastre e gocce di cera solidificate anche negli interstizi. L’intervento volto alla rimozione dei prodotti di alterazione si è articolato in varie fasi: - smontaggio dei singoli componenti, - pulitura con prodotti e attrezzature di laboratorio idonee, - protezione finale del manufatto con cere naturali. Infine, così come per tutti i reperti trattati nel corso del tirocinio, è stata redatta dagli allievi una scheda tecnica, corredata da documentazione grafica e fotografica dell’intero intervento, raccolta anche su supporto informatico in uno specifico power point, il quale è stato utilizzato a conclusione dell’attività didattica come strumento di discussione collettiva per la valutazione e le considerazioni finali dell’iter formativo.

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INCONTRI & DIBATTITI

IL GRUPPO DEL COLORE Società italiana di ottica e fotonica Fernanda Prestileo/Alessandro Rizzi*

Il Gruppo del Colore (GdC) nasce nel 2004 come evoluzione del Gruppo di Lavoro in Colorimetria e Reflectoscopia, della Società Italiana di Ottica e Fotonica (SIOF). In occasione del VII Convegno annuale di Colorimetria, tenutosi presso l’Università degli Studi di Parma nel 2004, su iniziativa di Claudio Oleari e Alessandro Rizzi, viene deciso di ampliare il Gruppo di Lavoro in Colorimetria e Reflectoscopia a tutte le altre realtà che in Italia si occupano di colore, creando un punto di aggregazione che in campo nazionale mancava. Così come realtà analoghe esistenti in altri Paesi, il Gruppo ha l’obiettivo di favorire l’aggregazione multi- ed interdisciplinare di tutti coloro (pubblici e privati) che in Italia si occupano del colore e della luce da un punto di vista scientifico e/o professionale. A partire dalla sua creazione, il numero di esperti ed operatori del settore afferenti al gruppo è via via aumentato, così come le attività scientifiche ed i progetti nati dalla collaborazione degli iscritti. La 1a Conferenza Nazionale del Gruppo del Colore è stata ospitata nel 2005 a Pescara dall’Università “G. d’Annunzio”. A questo primo momento di scambio e confronto hanno fatto seguito gli appuntamenti annuali di: Milano, presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca (2006); Torino, presso l’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (2007); Como, presso il Politecnico di Milano (Polo di Como) (2008). Quest’anno la Conferenza, giunta alla sua 5a edizione, è stata ospitata a Palermo dal 7 al 9 ottobre dal Centro Regionale per la Progettazione e il Restauro, attivo nel Gruppo del Colore fin dalla sua costituzione nel 2004. Gli aspetti tematici che il Gruppo considera e sviluppa, ispirandosi a quelli contemplati dalla Association Internationale de la Couleur (AIC), sono i seguenti: Cos’è il colore. La natura fisica e psicologica del colore, i meccanismi della visione nei loro aspetti fenomenologici e teorici. A cosa serve il colore. Ruolo del colore nell’industria, nella moda, nella cosmesi, nell’edilizia, nell’arte, nel restauro, nell’architettura, nell’ambiente, nella grafica, nella cultura, nelle codifiche, ecc... Come funziona il colore. Il colore in relazione alla illuminazione, ai meccanismi della visione a colori, alla fisiologia. Il colore in presenza di deficienze e anomalie, negli aspetti clinici e biologici. Il colore nei modelli computazionali e nella visione artificiale. Il colore nella costruzione di armonie, di illusioni, di preferenze, cromatiche, nella memoria, nel trattamento dell’informazione. 48

Come si può controllare il colore. Colorimetria, fotometria, soglie di discriminazione dei colori, atlanti dei colori. Fenomeni dell’apparenza del colore, del metamerismo. Il colore nella sua riproduzione secondo le varie tecniche. Il colore digitale in relazione ai dispositivi per la sua gestione. Il colore nella comunicazione, nella visualizzazione, nella duplicazione, nella stampa. Il colore nell’arte, nell’architettura, nell’arredo, nel restauro, nell’archeometria. Il colore nell’industria. Come si può insegnare il colore. La didattica e gli ausili all’insegnamento del colore nelle scuole per la formazione industriale, terziaria e accademica. La storia della scienza e della pratica del colore. Le finalità del Gruppo del Colore consistono nel: - promuovere lo studio del colore in tutti i suoi aspetti, compresi quelli della visione ad esso collegati; - creare opportunità di incontro, divulgazione e scambio di idee tra persone collegate agli aspetti scientifici, industriali, estetici e didattici del colore; - favorire la formazione di standardizzazioni, specifiche, nomenclature e altri aspetti utili a favorire la ricerca nel campo del colore; - favorire la disseminazione dei risultati della ricerca sul colore ottenuti in Italia al resto del mondo e viceversa; - favorire la disseminazione della cultura del colore. Come da prassi consolidata, la Conferenza di Palermo è stata introdotta, durante la prima giornata, da un ospite internazionale e da tutorial tenuti da esperti dei vari campi d’interesse del Gruppo del Colore. Specificamente Stephen Westland (University of Leeds), nella sua relazione Color preference in context, ha trattato le problematiche correlate al color management. Claudio Oleari (Università degli Studi di Parma) ha presentato Il sistema OSA-UCS e le opponenze cromatiche. Nicola Ludwig (Università degli Studi di Milano) nel suo intervento Dalla spettrometria in riflettanza alla colorimetria ha illustrato gli sviluppi applicativi nell’ambito dei beni culturali. Di due casi significativi di Colorimetria nella conservazione dei beni culturali ha parlato Marisa Laurenzi Tabasso (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”): gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina e le Thangka Tibetane della Collezione Tucci. Infine, Paolo De Rocco della Società Centrica di Firenze ha introdotto le Nuove tecniche di calibrazione colore di files RAW. Tali tutorial hanno rappresentato un momento di scambio di conoscenze ed hanno dato luogo ad un interessante dibattito, coinvolgendo tutti i partecipanti. I lavori nelle due giornate successive sono stati articolati nelle seguenti Sessioni: Percezione e Psicologia; Beni


INCONTRI & DIBATTITI

Culturali: Restauro e Conservazione; Architettura e Urbanistica; Tinte/Pigmenti e Coloranti/ Superfici; Luce e Colore: misura ed elaborazione; Design e Comunicazione. In chiusura della Conferenza, nel corso della riunione annuale del Gruppo del Colore, Maurizio Rossi (Politecnico di Milano) è stato eletto Presidente del Gruppo per il prossimo biennio.

(*) Dipartimento di tecnologie dell’informazione Università Studi di Milano

NEUTRONI E LASER Per la ricerca di dipinti nascosti R. Merlino/D. La Mattina

La giornata di studio organizzata il 21 Ottobre 2009 ha rappresentato un contributo del CRPR alla diffusione di tecniche diagnostiche innovative non invasive per la ricerca di dipinti nascosti. Le nuove tecniche sono state messe a punto dai centri di ricerca ENEA di Casaccia e di Frascati in collaborazione con il Center of Interdisciplinary Science for Art, Architecture and Archeology dell’Università di San Diego–California, l’ University of Technology di Delft–Olanda e il National Institute of Information and Communications Technology –Tokyo. Antonino Cosentino, Visiting Scholar dell’Università di San Diego, ha aperto i lavori relazionando sulla tecnica NNA–Nanosecond Neutron Analysis. I neutroni, attraversando consistenti spessori di materiali che nascondono il campione da analizzare, interagiscono con gli elementi chimici (pigmenti pittorici) presenti nel campione e producono una radiazione gamma che, rivelata in tempi ristrettissimi (nanosecondi), permette di identificare gli stessi elementi chimici. Gli esperimenti condotti hanno qualificato la tecnica NNA per un suo futuro utilizzo nella localizzazione del materiale pittorico utilizzato da Leonardo da Vinci per la realizzazione del dipinto della Battaglia di Anghiari, oggetto di studio dal 1975 di Maurizio Seracini dell’Università di San Diego. La tecnica NBS–Neutron Back-Scattering è stata illustrata da Roberto Rosa, Primo Ricercatore del Centro Ricerche ENEA Casaccia (Roma). La tecnica utilizza neutroni per la ricerca di dipinti occultati da muri. La collisione dei neutroni con elementi leggeri come l’idrogeno, presente nei materiali utilizzati per la preparazione dei dipinti ad olio, permette il ritorno (back-scattering) di una parte dei neutroni che possono essere rivelati da dispositivi in grado di localizzare le aree con maggiore concentrazione di materiale idrogenato. Partendo dalla ipotesi che la Battaglia di Anghiari di Leonardo, realizzata tra il 1505 e il 1506, possa essere stata dipinta sulla parete est del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze e successivamente nascosta da un muro di mattoni eretto dal Vasari nel 1563 per l’esecuzione della sua opera, è stato realizzato, presso il Centro Ricerche ENEA Casaccia, un modello che riproduce le condizioni strutturali della suddetta parete sul quale è stata applicata la tecnica NBS. Giampiero Gallerano, Primo Ricercatore del Centro Ricerche ENEA Frascati (Roma) ha infine relazionato sulla radiazione Terahertz e le sue applicazioni nella diagnostica non invasiva per i beni culturali. La tecnica di Thz-imaging consiste nell’acquisizione di immagini a frequenze del THz che consente di rivelare dipinti coperti da materiali come gesso, calce o intonaco. La spettroscopia THz viene utilizzata invece per analizzare la composizione dei pigmenti.

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INCONTRI & DIBATTITI

SISTEMI BIOLOGICI E BENI CULTURALI Il convegno AIAR a Palermo Franco Palla Facoltà di Scienze MM.FF.NN. - Università di Palermo

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ella splendida cornice dell’Orto Botanico di Palermo, il 6 e 7 ottobre 2009 presso l’Aula Domenico Lanza, si è svolto il Convegno Nazionale Sistemi Biologici e Beni Culturali, con un comitato scientifico composto da studiosi ed esperti provenienti da tutta Italia (Atenei di Palermo, Catania, Messina, Milano-Statale, Parma, Roma-Tor Vergata, Siena, oltre ad esperti del CNR-Firenze e della Soprintendenza Beni Archeologici della Liguria). Il Convegno, organizzato dall’Università degli Studi di Palermo (Dipartimento di Scienze Botaniche), dall’AIAr (Associazione Italiana di Archeometria), dal CRPR (Centro Regionale per la Progettazione e il Restauro, Regione Siciliana) e con il concreto supporto della BioNat – Italia (Azienda di Ricerca e Sviluppo, Settore biotecnologie, Palermo) è stato rivolto a ricercatori, studiosi, restauratori e a tutti coloro che operano nel settore dei Beni Culturali. In particolare, ha proposto l’identificazione dei Sistemi Biologi come Beni Culturali (alberi monumentali, mummie moderne), come Causa di Degrado del patrimonio culturale (biodeterioramento) e come Fonte di Macromolecole utili per interventi di restauro (bio-pulitura); presentando innovazioni tecnologiche utili per uno studio integrale del bene culturale, per l’esatta caratterizzazione degli organismi che ne causano il deterioramento, per la realizzazione di un intervento di restauro conservativo, con un approccio multidisciplinare. Dopo la presentazione delle finalità e il saluto ai partecipanti, rappresentati dall’organizzatore Franco Palla, da Roberto Boscaino (Preside Facoltà Scienze MM.FF.NN.), da Mauro Bacci (Presidente AIArAssociazione Italiana di Archeometria), da Guido Meli (Direttore CRPR-Centro Regionale Progettazione e Restauro–Regione Siciliana) e da Francesco Maria Raimondo (Direttore Dipartimento Scienze Botaniche-Orto Botanico), i lavori sono stati aperti dallo stesso con la comunicazione Invasività e ripercussioni su paesaggio e beni architettonici di Aailanthus altissima (Simaroubaceae). Nelle tre sessioni sono stati affrontati specifici casi studio, attuati sia in siti italiani sia all’estero, inerenti: La conservazione degli alberi monumentali in Sicilia, La Paleogenetica e i beni culturali, Il complesso delle Latomie a Siracusa, Il deterioramento indotto da cianobatteri del tempio di Orissa (India), La diversità microbica in Catacombe pre e post trattamento con biocidi, L’indagine fitosanitaria del soffitto ligneo della sala magna di

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Palazzo Steri di Palermo, Il degrado Flos tectorii delle malte da intonaco in Sicilia, La protezione della carta mediante trattamento antiossidante, La conservazione preventiva nel Museo Diocesano di Palermo. Inoltre, è stata proposta la realizzazione di un Museo d’Arte Cristiana dei Cappuccini di Palermo. L’innovazione tecnologica è stata sviluppata nelle comunicazioni relative a studi di Microbiologia, Biochimica e Biologia Molecolare, inerenti: Enzimi batterici utili per il restauro conservativo dei beni culturali lapidei, Enzimi proteolitici da organismi marini utili per la pulitura di manufatti, Riparazione di carta invecchiata artificialmente e fotodegradata, La precipitazione batterica di carbonato di calcio nella conservazione di substrati lapidei, La tecnologia del DNA-microarray per l’identificazione di specie microbiche su superfici e nell’aerosol di ambienti confinati; oltre all’Applicazione della TC spirale multidetettore allo studio di reperti scheletrici e corpi mummificati e alla Datazione EPR di conchiglie fossili. Il programma scientifico del convegno è stato arricchito dalla sessione poster, in cui sono stati presentati studi riguardanti: La dendrocronologia e giardini storici, dei parchi delle dimore reali di Racconigi e Monza, I beni naturali diventano beni culturali, 1793; L’identificazione del legno nelle opere policrome in Sicilia; Analisi biometrica, morfometrica e strumentale di un campione di crani umani; La componente vegetale di ville storiche genovesi, tra conservazione e lotta al biodegrado, Rivelazione e caratterizzazione di consorzi microbici in reperti lignei sommersi; La caratterizzazione della biodiversità della grotta dei Santi in Licodia Eubea (Catania); Le specie legnose coltivate e spontanee in rapporto alla conservazione nel cimitero monumentale di Staglieno (Genova); La Rettoria di Casa Professa di Palermo le termiti sugli arredi lignei della sacrestia; Prime indicazioni sulle biocenosi associate alle mummie delle catacombe dei Cappuccini di Palermo; La microscopia elettronica (SEM, CLSM) per l’analisi dei microsistemi biologici che colonizzano i beni culturali; I servizi innovativi del gruppo Biores per i beni culturali per la prevenzione e la cura dei danni da biodeterioramento di origine microbiologica: diagnosi, monitoraggi e sperimentazione sui materiali per il restauro, Nuovi dati e strategie di lotta su Gastrallus pubens (Coleoptera, Anobidae) rinvenuto nel fondo antico della Biblioteca


INCONTRI & DIBATTITI

Regionale di Catania; Studio del biodeterioramento algale nel ginnasio romano di Siracusa; Analisi della comunità microbica intestinale di Reticulitermes lucifugus (Rossi) (Isoptera: Rhinotermitidae), Misura sperimentale della capacità antiossidante della lignina mediante voltammetria ciclica. Tra i fattori che hanno contribuito alla successo del Convegno è da annoverare l’Incontro tra Università-Centri di Ricerca-Imprese che operano, o intendono operare, nel campo della conservazione/restauro/fruizione dei Beni Culturali ospitato nel pomeriggio del 6 ottobre da Francesco Cascio, Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, presso la sala Gialla di Palazzo dei Normanni di Palermo. L’incontro, moderato da Ettore Artioli (Vice Presidente di Confindustria per il Mezzogiorno) ha visto la partecipazione di Roberto Lagalla (Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Palermo), di Rosario De Lisi (Presidente Corso di laurea in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali Università degli Studi di Palermo), di Davide Fais (Direttore IIRFRE, Istituto Italo Russo per la Formazione e le Ricerche Ecologiche) e dei già citati Mauro Bacci e Guido Meli, oltre a rappresentanti della BioNat-Italia di Palermo, della Algae di Roma e di altre realtà imprenditoriali. Questo incontro è stato anche l’occasione per la presentazione della Sezione siciliana della Società Italiana per il Progresso delle Scienze, che dal 5 ottobre ha sede a Palermo presso il Cerisdi. La SIPS, rappresentata in questa occasione da Salvatore Lorusso, fu fondata a Roma nel 1873 su proposta di Stanislao Cannizzaro e, come annunciato dal Presidente della sede palermitana Adelfio Elio Cardinale, proprio a questo grande scienziato sarà intitolata la Sezione Siciliana. La prima giornata del Convegno Sistemi Biologici e Beni Culturali si è splendidamente conclusav con la visita alla Cappella Palatina, a cura di Vlado Zoric. L’Organizzazione del Convegno, facendo propria l’attenzione dell’AIAr per la crescita scientifica dei giovani, di concerto con il Comitato scientifico e grazie al sostegno della BioNat-Italia, ha avuto l’opportunità di premiare quattro comunicazioni presentate da ricercatori/operatori di età infe-

riore a 35 anni. In particolare sono stati premiati: Valeria Gargano (La tecnologia del DNA-microarray per l’identificazione di specie microbiche su superfici e nell’aerosol di ambienti confinati), Rachele Lucido (La conservazione preventiva: il caso studio del Museo Diocesano di Palermo); Anna Pezzino (Studio del biodeterioramento algale nel ginnasio romano di Siracusa); Agnese Zuccarello (Datazione EPR di conchiglie fossili). Infine, a conclusione del convegno è stata presentata la proposta di formazione dell’area tematica Biologia e Biotecnologie all’interno dell’Associazione Italiana di Archeometria, accolta e sostenuta dai partecipanti al Convegno.

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RECENSIONI

DESCRIZIONI, NOTE E REPERTORI UN FONDO BIBLIOGRAFICO SEICENTESCO Carlo Pastena Servizio Beni Bibliografici ed Archivistici Soprintendenza BB.CC.AA. Palermo

Rita Di Natale, apprezzata autrice di numerose opere bibliografiche, dopo la pubblicazione di un primo volume relativo alle cinquecentine possedute dalla Biblioteca dell’Archivio di Stato di Palermo edito nel 2003, continua, insieme a Gabriella Cannata, questa operazione di “recupero” e “fruizione” del fondo antico. Questo secondo tomo, dedicato alle edizione del XVII secolo, è integrato con una piccola appendice relativa alle cinquecentine recentemente ritrovate e promette a breve la pubblicazione di un terzo volume, relativo alle edizioni del XVIII secolo. L’opera raccoglie le descrizioni bibliografiche di 33 cinquecentine e di 117 opere edite nel XVII secolo in Europa; ogni esemplare è descritto con estrema cura ed attenzione. E’ inserito, dopo la descrizione dell’edizione (autore, titolo, note tipografiche, paginazione, 52

ecc.), un ricco apparato di note sull’esemplare (presenza di note manoscritte, tipo di legatura, descrizione dei capitelli, presenza di ex libris, stato di conservazione dell’esemplare, provenienza, ecc.) seguito dall’elenco dei repertori bibliografici che citano altri esemplari dell’edizione. In appendice l’opera è arricchita da 10 indici, che impreziosiscono lo studio: indice degli autori o titoli, coautori e curatori, indice dei dedicanti e dedicatari, indice dei tipografi e degli editori, distinguendo tra edizioni del XVI ed edizioni del XVII secolo. Seguono infine l’indice topografico degli editori e l’indice cronologico delle edizioni, divisi anch’essi per secoli. Nel prendere in mano questo elegante libro una domanda sorge spontanea: “perché pubblicare a stampa un catalogo bibliografico, quando oggi esistono le banche dati informatizzate?”. In realtà, oltre l’indubbio piacere di potere sfogliare le pagine di un libro, la scelta di stampare il catalogo di un singolo fondo bibliografico risponde a precise esigenze scientifiche. Quando si affronta una ricerca in una specifica raccolta bibliografica, la consultazione di un catalogo cartaceo fornisce informazioni diverse da quelle che si hanno nel catalogo informatizzato, dove è necessario applicare numerosi filtri di ricerca, per identificare esclusivamente le opere

provenienti da un unico fondo. Inoltre la consultazione di un volume a stampa è, a volte, più agevole di quella che si ha interrogando una banca dati informatizzata, specie quando si deve passare da una scheda all’altra, confrontando due o più descrizioni; a testimonianza di ciò, basti citare la presenza di un considerevole numero di cataloghi a stampa, che continuano ad essere pubblicati nel mondo. Nel caso specifico, questo catalogo ha anche altri due pregi: il primo è il ricco apparato d’indici, ed il secondo è la scelta dello standard descrittivo. Quest’ultimo, invece di adottare uno short title, che “accorcia” i titoli, descrive le opere secondo gli ISBD(A) per SBN, che prevedono una riproduzione fedele del frontespizio, senza però dare una descrizione di tipo “quasi facsimilare”. Così, se da un lato i ricchi indici non fanno sentire la mancanza di un catalogo informatizzato, dall’altro utilizzando questo standard catalografico si rende possibile il rapido inserimento di queste descrizioni bibliografiche in SBN. E tutto senza bisogno di riprendere i volumi in mano, realizzando un perfetto connubio tra la descrizione bibliografica del catalogo cartaceo e quella informatizzata. Proseguendo nella lettura di quest’opera, nella sua premessa Armida Batori ricorda come “I libri antichi, posseduti dagli Archivi di

Stato, non provengono di solito da un fondo omogeneo [...] sono piuttosto legati a depositi di fondi archivistici diversi, ai quali si accompagnano spezzoni di biblioteche private o ecclesiastiche, più o meno casualmente uniti alle carte...”. Rita Di Natale ci introduce così in un universo diverso da quello che solitamente conosciamo, costituito da Biblioteche i cui libri sono stati raccolti in maniera più o meno organica nel corso del tempo, da una o più persone. I libri posseduti dagli Archivi di Stato, rappresentano un “elemento estraneo” alle collezioni di vecchie carte, circostanza questa, che porta al ritrovamento di opere ritenute scomparse, o vietate dall’Inquisizione. Queste ultime, conservate insieme ad atti amministrativi per varie circostanze, sfuggendo alle furie iconoclaste della censura che caratterizzano la storia dell’uomo, sono pervenute oggi a noi. Il fondo descritto in questo catalogo, non si sottrae a questa regola, come si può facilmente vedere anche da una lettura superficiale di questo libro. Tra le numerose edizioni ricche d’interesse, si possono citare, per le opere del XVII secolo, quella della Vindicata veritas panormitana, opera ritenuta rara dal bibliografo palermitano G.M. Mira, stampata a Venezia nel 1629. Inserita nell’Indice di libri proibiti, si conosceva solo un esemplare presso la Biblioteca


RECENSIONI

nazionale di Roma. E anche la Istoria della vita e morte di Santa Maria Maddalena, pubblicato a Napoli dal tipografo Andrea Colicchia nel 1679, di cui non si conoscono oggi altri esemplari. Sempre tra i libri editi nel XVII secolo, presenti in questo fondo bibliografico, si deve citare la Parte quinta del romanzo Della Cassandra originariamente in dieci volumi, scritta dal

drammaturgo Gauthier de Costes de la Calprenède. Stampata a Venezia nel 1679 da Biagio Maldura, non figura nei repertori bibliografici consultati. Tra le opere devozionali, va citato invece il volume Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio Maria protettrice di Messina, del gesuita Placido Samperi, stampata a Messina nel 1644, che conserva

quasi tutte le 70 carte di tavole incise, molto spesso mancanti negli esemplari che ci sono pervenuti. L’elenco delle rarità è lungo, e potrebbe continuare ancora, ma spostando l’attenzione sulle edizioni del XVI secolo, non inserite nel precedente volume, si deve citare la cinquecentina tedesca di S. Agostino, De Ebrietate vitanda. Stampata a Dillingen nel 1560 dal tipografo Sebald

Mayer, questo esemplare non è presente nei repertori relativi alle edizioni pubblicate in Germania nel XVI secolo. Rita Di Natale, non si è però fermata ad un superficiale controllo, ed ha voluto indagare ancora più a fondo, confrontando questo volume con l’edizione del 1559 conservato alla Biblioteca Vallicelliana. Ha così riscontrato nei due volumi una identica paginazione, segnatura dei fascicoli e impronta, ma notevoli differenze nei contenuti delle due edizioni prese in esame. La descrizione di questo esemplare è arricchita da una appendice di Gabriella Cannata sul tipografo tedesco Sebald Mayer, ricca di notizie sulla sua attività tipografica e dalla traduzione dal tedesco della stessa Cannata, di un lungo articolo tratto dalla Bibliographie der deutschen Drucke des XVI Jahrunderts, di Otto Bucher. Concludendo, questo volume risulta ricco di notizie e particolarmente completo nella descrizione degli esemplari, così oltre che per il recupero e la fruizione del fondo bibliografico dell’Archivio di Stato, può proficuamente essere impiegato come opera di riferimento e di esercizio per chi deve catalogare secondo lo standard descrittivo di ISBD(A) per SBN o più semplicemente catalogare un fondo antico. a cura di Rita Di Natale e Gabriella Cannata Le Seicentine della Biblioteca dell’Archivio di Stato di Palermo con un’aggiunta di Cinquecentine Palermo, 2009, pp.235

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RECENSIONI

ICOMUNICARE GIARDINI PERDUTI CON GLI ALBERI PER NON APPASSIRE LA MENTE Antonio Casano

Il libro di Barbera attraversa in lungo e in largo i campi del sapere, spaziando fra le scienze naturalistiche ed ambientali e gli ambiti del pensiero umanistico, nel reticolo dei vari campi e forme della sua partitura. L’abbraccio degli alberi si invoca allo scopo di definire la sostenibilità ecologica non solo dal punto di vista dell’arboricoltura e della selvicoltura (o della bellezza dei paesaggi), ma anche perché senza loro non sarebbero probabili le strategie sia pure abbozzate a livello planetario per intervenire sui grandi temi critici della modernità causati dalla società del rischio, categoria che mutuiamo dalla sociologia dell’ambiente: dall’effetto serra e quello della desertificazione -connessi all’anomalia temporale dei cambiamenti climatici- alla questione “alimentare” e “della sete”, vera emergenza e minaccia incombente sulla popolazione mondiale. “Piantarli e difenderli non è, quindi, solo affare degli arboricoltori, ma di chiunque abbia a cuore le sorti del pianeta e delle generazioni future. Tutte le risorse vanno messe in campo, non solo quelle della scienza e della tecnica, ma anche quelle della creatività. Valorizzare le diversità culturali e biologiche, approfittando di tutte le diverse funzioni che svolgono gli alberi, è la sola strada”. Nell’appassionante e documentato solco tracciato dal saggio, l’Autore riscopre quella fecondità dialettica 54

che originariamente ammantava di sacralità il legame degli uomini con gli alberi, ovvero di quella dimensione religiosa e mitica elaborata nelle società premoderne, in cui la vitalità vegetale era parte costitutiva del piano di immanenza esistenziale comunitaria: è con la separazione spirituale del soggetto dal mondo e con l’affermazione della trascendentalità dell’Essere collocata fuori dallo spazio terreno che viene inoculata la cesura antropocentrica che degrada tutti gli essenti a mera effettualità oggettuale. Non è un caso il ricorso di Barbera all’autorevolezza di un grande pensatore –LéviStrauss, padre dell’antropologia culturale recentemente scomparso- per mettere in risalto la cesura tra uomo e natura: “L’umanità…da aperta che era un tempo…si è sempre più rinchiusa in se stessa. Tale antropocentrismo non riesce a vedere, al di fuori dell’uomo, altro che oggetti. La natura nel suo complesso ne risulta sminuita. Un tempo, in lei tutto era un segno, la natura stessa aveva un significato che ognuno…percepiva. Avendolo perso, l’uomo oggi la distrugge, e con ciò si condanna”. Sostanzialmente il Nostro assume il rapporto tra l’uomo e gli alberi come paradigma progettuale -al tempo stesso scientifico e sociale-, dentro cui l’umanità dovrà saper coniugare la cointeressenza del regno animale e mondo vegetale, consapevo-

le del limite esistenziale transeunte e perciò stesso onerata non solo a conservare le condizioni della riproduzione per le nuove generazioni, ma a trovare ora, e non rinviando sine die, la chiave di riequilibrio che restituisca al regno vegetale la sacralità perduta:“abbiamo già tagliato almeno la metà delle foreste del pianeta, nonostante i loro alberi abbiano reso il suolo fertile e l’aria respirabile, mitigato gli eccessi del clima, fornito legna, frutti, ombra, bellezza per mille usi indispensabili e piacevoli”. Concludendo Barbera ci racconta degli alberi, del posto che di diritto “si sono conquistati nell’immaginario e nelle arti”. Certo essi hanno subito nei secoli un progressivo attacco dall’era dell’homo sapiens sino agli assalti frontali dell’homo tecnologicus del nostro tempo. Epperò, paradossalmente, è proprio quest’ultimo a cui ci si dovrà appellare per non sprofondare nell’aridità del deserto mondano, facendo ricorso sia alla ricerca scientifica sia al cambiamento degli stili di vita.

GIUSEPPE BARBERA Abbracciare gli alberi. Mille buone ragioni per piantarli e difenderli Mondadori, Milano, 2009, pp.208


rassegna libri curata da A. Casano

LA COLLEZIONE COLLISANI E LA GROTTA DEL VECCHIUZZO Museo Civico “Antonio Collisani” di Petralia Sottana, 2008, pp. 119 «Nella comunicazione su "La Sicilia e l'unità d'Italia" tenuta in occasione del "Congresso Internazionale di Studi Storici sul Risorgimento Italiano", mettevo in rilievo quello che a mio parere era l'episodio più significativo avvenuto nel periodo compreso tra gli anni TrentaQuaranta del secolo scorso, e cioè la scoperta, nel maggio 1936, della Grotta c.d. dei "Vecchiuzzo" sita nelle Madonie, nel Comune di Petralia Sottana. La scoperta, ad opera di Antonio Collisani, un giovane poco più che ventenne, appassionato di arte e di storia, dava l'avvio ad un ricerca archeologica programmatica ed ufficiale che restituiva un ricchissimo giacimento preistorico particolarmente notevole, testimonianza di una presenza umana nel lungo periodo compreso tra il Neolitico e l'età del Bronzo. II giovane scopritore, nato a Petralia Sottana, era un esperto conoscitore della catena montuosa delle "sue" Madonie sia dal punto di vista geografico che speleologico ed anche dei suoi abitanti e frequentatori: contadini e pastori o proprietari di appezzamenti agricoli soliti a trascorrervi i mesi estivi nelle loro residenze di campagna. La passione del giovane Collisani era totale, volta alla bellezza di una natura selvaggia e maestosa ed al tempo stesso alla cultura ed alla creatività degli abitanti di questi luoghi; in questo ambiente egli cercava di raccogliere quante più testimonianze possibili in quanto per lui ogni oggetto costituiva il coronamento dell’intelligenza e della manualità dell'uomo. Sia pur da dilettante, ma dotato di una notevole predisposizione allo studio e alla ricerca in senso globale, aveva un profondo senso del valore scientifico della disciplina archeologica, tanto da affidarsi, spesso, a chi riconosceva più esperto di lui in quanto conoscitore di metodologie volte a distinguere il vero dal falso. Fu così che lo conobbi. Nel tempo, infatti, il suo interesse per gli oggetti e le opere d'arte del mondo classico era cresciuto notevolmente tanto da spingerlo a raccogliere e ad acquistare tutto quanto gli fosse possibile al fine di salvarlo dalla dispersione; temendo però di prendere qualche abbaglio collezionando dei falsi di nessun valore, era solito richiamare la mia attenzione su oggetti di vario tipo, fossero essi vasi o statuette, in genere prodotti della tecnica e della fantasia umana e come tali depositari di storia e cultura. Per lui ogni oggetto nasceva dall'idea di un artigiano o dalla visione di un artista di cui riusciva a

cogliere le personalità e la differenza dell'uno o dell'altro. Ricordo con nostalgia le lunghe visite alla sua "Persiana", spesso in compagnia di mia moglie, e le lunghe conversazioni davanti ai quadri ed agli altri oggetti d'arte contemporanea esposti secondo un programma artistico personale ben definito e che da appassionato amatore offriva e sottoponeva con spirito critico alla osservazione di amici ed amatori dell'arte sollecitandone il loro giudizio. Il suo collezionismo appassionato, intelligente ed erudito tendeva a salvaguardare quanto riteneva prezioso per il suo valore estetico e formale pensando alla collettività che un giorno avrebbe potuto esserne partecipe» (p.13) (vincenzo tusa)

ed esauriente, su questo monastero in tutte le fasi della sua lunga storia e di offrire perciò all’attenzione degli studiosi o dei semplici lettori un’opera destinata a durare come strumento indispensabile alla ricerca e alla rivisitazione delle memorie del passato» (pp. XIX-XX) (filippo burgarella)

Anita Crispino/Agostina Musumeci MUSEI NASCOSTI Collezioni e raccolte archeologiche a Siracusa dal XVIII al XX secolo, Electa, Napoli-2008, pp. 184 Shara Pirrotti IL MONASTERO DI SAN FILIPPO DI FRAGALÀ (Secoli XI-XV). Organizzazione dello spazio, attività produttive, rapporti con il potere, cultura Officina di Studi Medievali, Palermo-2008, pp.418 «Il monastero sorgeva in quel Val Demone, abitato da una popolazione prevalentemente greca e ortodossa come quella della quasi prospiciente Calabria. Proprio con quest'ultima, d'altra parte, il medesimo Val Demone era in rapporti intensi e continui fin dall'epoca bizantina, fin dal X-XI secolo, come si evince dai più recenti studi dedicati alla gelsicoltura e alla produzione e commercio della seta. Si tratta di quel Val Demone che, a detta di Goffredo Malaterra, storico delle epiche gesta dei due più ardimentosi e fortunati conquistatori normanni, il duca e il granconte, cioè i fratelli Roberto il Guiscardo e Ruggero d'Altavilla, aveva un'alta densità di abitanti cristiani anche sotto l'arabocrazia. E significativamente il monastero è posto sotto il vocabolo di San Filippo, il santo nativo della provincia di Tracia al quale era dedicato un monastero nei pressi di Enna, ad Agira. Si tratta di un santo che ben si presta ad essere considerato il protettore del monachesimo greco di Sicilia sotto la dominazione islamica. Tra IX e X secolo, infatti, il monastero di Agira aveva accolto e formato personaggi destinati a irradiare la spiritualità e l'ascesi monacali di matrice orientale e greca in direzione di Calabria, Basilicata e Campania fino a Roma (...). Il libro di Shara Pirrotti ha il pregio di utilizzare intelligentemente una cospicua messe di fonti, non poche ancora giacenti inedite negli archivi, e di valersi criticamente dell’amplissima bibliografia degli studi al riguardo. All’Autrice va riconosciuto il merito di far luce, in modo nuovo

«Nel corso del XVIII secolo lo studio delle antichità … si manifesta secondo principi e modalità paragonabili a quelli delle scienze naturali: l'obiettivo primo è la rappresentazione visiva degli oggetti di studio. Di qui il ruolo e l'importanza crescente nel lavoro degli eruditi, sia naturalisti che antiquari, dell'illustrazione, del catalogo e dell'uso delle copie. Grazie al collezionismo … e al metodo comparativo, si costituisce un immenso corpus di oggetti, una sorta di pre-museo immaginario che ingloba e censisce iconograficamente le iscrizioni, le monete, i sigilli, tutti gli accessori della vita quotidiana pubblica e privata e i grandi edifici religiosi o civili. Il trasformarsi e mutarsi nel tempo degli interessi collezionistici e del loro concretizzarsi museografico non sono dovuti solamente a fattori di gusto e di suggestione emotiva, ma sono la tangibile dimostrazione del modo di porsi, di studiare e di rintracciare l'antico, che corrisponde anche allo sviluppo della ricerca archeologica, intesa come disciplina autonoma, strumento di indagine storica. Nel XVIII secolo dunque, il progetto di democratizzazione del sapere investe anche l'Antichità e trasforma l'antiquariato nella nuova scienza dell'archeologia. L'origine individuale e privata del primo collezionismo si trasforma nel corso del Settecento, per la mediazione di Università e Accademie, in ruolo didattico attivo, legato all'insegnamento: il museo d'arte esce dall'universo privato per assumere un ruolo pubblico, ma ciò sarà effettivamente possibile solo dopo il travolgente passaggio della Rivoluzione Francese. Con il 1789, infatti, prende tumultuosamente avvio il più grande processo di appropriazione di beni, allora per la prima volta definiti ufficialmente «beni nazionali». Per assicurare la salvaguardia di tante ricchezze, la Rivoluzione saprà approfittare del museo,

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riscattandone l'origine aristocratica ed individuale, trasformandolo in uno spazio neutro capace di far dimenticare il significato originario degli oggetti (religioso, monarchico e feudale), con l'attribuzione del valore unico di Patrimonio. La stessa parola Patrimonio, adottata per la prima volta in senso pubblico, testimonia che il valore primario del tesoro toccato in sorte al popolo è in prima istanza, oltre che nazionale e quindi collettivo, anche economico, come una vera e propria eredità. L'istituzione del Museo, inteso come spazio di collettiva fruizione, non mette fine al fenomeno del collezionismo, che è continuato fino agli inizi del secolo scorso, con l'adornare i saloni delle case patrizie e della ricca borghesia, con l'esposizione di manufatti anche di rilevante valore storico-artistico, ma avulsi dal contesto d'origine, visti come oggetti di puro ornamento. Tutto ciò è stato possibile fino a quando non è intervenuta la legislazione a mettere ordine in merito. L'Italia affida, infatti, la protezione dei suoi beni ad una legge speciale, la 1089 del 1939, che stabilisce che tutte le cose, immobili e mobili, rinvenute nel suo territorio che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, appartengono allo Stato» (p.14) (mariella muti)

rappresentano il luogo in cui è concentrato il maggiore consumo e la maggiore trasformazione delle risorse del pianeta. Questi problemi, - fra le tante questioni ambientali - ci pongono drammaticamente di fronte ad una realtà che richiede scelte difficili, che si riassumono nel cambiamento di stili di vita, nel ripensare l'uso dello risorse e dello spazio, riconsiderare il nostro impianto produttivo e procedere ad una sua trasformazione per arrestare la prospettiva minacciosa che abbiamo di fronte» (pp.10-11) (aurelio angelini)

Patrizia Li Vigni Tusa (a cura di) LE VIE DEL MARE. Catalogo della mostra itinerante nel mediterraneo, Ass.to Reg.le BB.CC.AA.e P.I.-Museo Storia Naturale e Mostra Permanente del Carretto Siciliano, Palermo-2008, pp.321

Rosalba Panvini/ Lavinia Sole LA SICILIA IN ETÀ ARCAICA Dalle apoikiai al 480 a. C. Contributi dalle recenti indagini archeologiche, CRICD, Palermo-2009. voll.2

Aurelio Angelini (a cura di) IL BATTITO D’ALI DI UNA FARFALLA Beni comuni e cambiamenti climatici Edizioni Fotograf, Palermo-2008, pp.685 «Il Rapporto Apat/OMS 2006 ha monitorato l'inquinamento in 13 città italiane. I risultati indicano che l'impatto sanitario è considerevole e si stima una media di 8.220 morti l'anno. I cambiamenti climatici rappresentano la punta dell’iceberg, hanno effetti quali malattie degenerative causate dall’inquinamento e pongono ulteriori limiti fisici alle risorse necessarie: acqua, riso, mais etc., in un contesto in cui la popolazione mondiale è in continua crescita e il progressivo impoverimento della biodiversità determina una sequenza a catena. (…) Il suolo svolge funzioni essenziali per garantire l'equilibrio degli ecosistemi. In particolare, esercita: una funzione produttiva; una funzione protettiva; una funzione regolatrice; una funzione naturalistica … conserva le testimonianze storiche e culturali dell'uomo negli immensi patrimoni monumentali e artistici dell'umanità . Il paesaggio, che rappresenta la ricchezza dei territori, oggi è sempre più compromesso dalla deturpazione e dall'invadenza degli ambienti antropizzati anche in considerazione che le città

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manufatti ceramici e metallici prodotti da Sicani, Siculi ed Elimi, cioè le tre etnie indigene, con le quali i Greci si confrontarono nel momento del loro arrivo nell'Isola» (pp.52/53) (r. panvini / l. sole)

«“La Sicilia in età arcaica. Dalle apoikiai al 480 a. C.” è il titolo della Mostra inaugurata a Catania (ottobre 2006-gennaio 2007) nei locali del Monastero dei Benedettini dell'Università di Catania, dopo il successo riportato nella precedente esposizione svoltasi negli spazi del nuovo Museo Archeologico di Caltanissetta (giugnoagosto 2006). (…) Si è trattato di un evento dagli altissimi contenuti scientifici, per la prima volta organizzato a livello internazionale, che ha permesso di vedere esposti circa 600 oggetti tra elementi architettonici, sculture in marmo, ceroplastica, ceramiche, manufatti in metallo, monete (le prime emissioni delle colonie siceliote), iscrizioni, scelti tra gli oltre 1000 manufatti che sono stati analiticamente inseriti in questo catalogo stampato a cura del Centro Regionale Inventario, Catalogazione e Documentazione. (…) Il percorso espositivo è stato articolato in quattro sezioni dedicate rispettivamente all'VIII, al VII, al VI secolo e al tardoarcaismo, cioè a quella delicata fase di transizione dal periodo arcaico allo stile severo. Tale strutturazione espositiva ha permesso di cogliere la nascita, la maturazione e l'evoluzione dell'arte e dell'artigianato del periodo arcaico in Sicilia, unitamente alle innovazioni che caratterizzarono le manifestazioni artistiche siceliote rispetto a quelle della madrepatria. I contatti fra i primi coloni greci e gli Indigeni di Sicilia sono stati documentati dai manufatti esposti nell'ampia sala dedicata all’VIII secolo, comprendenti, oltre ad alcuni vasi della necropoli della valle del Marcellino, nel retroterra di Siracusa, anche le più antiche importazioni di ceramiche greche ritrovate in Sicilia, associate a ceramiche di produzioni indigena, nonché a

«La Rete dei Musei del Mare è nata, dall'esigenza di approfondire la conoscenza del patrimonio inerente la cultura del mare sotto l'aspetto geologico, archeologico, naturalistico -evidenziandone la biodiversità- e antropologico, per documentare in particolare la cultura del mare e dare rilievo al patrimonio subacqueo -che soltanto attraverso un attività di tutela in Rete- può essere salvaguardato e studiato fornendo innumerevoli spunti di ricerca. Ogni Museo ha, quindi, arricchito i propri percorsi scegliendo i reperti dalle proprie collezioni, mantenendo inalterati sia il percorso museologico che gli aspetti scientifici legati ad esso. L'itinerario intrapreso ha rappresentato e rappresenta le fondamenta della cooperazione europea instaurata che è stata ed è in grado di avvicinare i musei alla cooperazione stabilendo l'ottimizzazione, secondo i nuovi concetti di museografia, dei percorsi espositivi e delle attività collaterali. La Mostra ha rappresentato questa RETE che metaforicamente racchiude nelle sue maglie i tesori più affascinanti, i racconti del mare, la simbologia delle decorazioni delle barche, la tradizione di un popolo che ha vissuto e vive bagnando la sua storia nel Mar Mediterraneo. Una rete che, attraverso i percorsi museali, lascia intravedere: reperti archeologici che testimoniano il commercio nelle varie epoche; reperti storico artistici che dimostrano come l'uomo, raccogliendo dal mare i suoi tesori, ha creato artefatti ed oggetti di inestimabile valore, in particolare dipinti e immagini apotropaiche, meravigliose opere d'arte in corallo, atte a scongiurare i pericoli del mare; documentazione delle prime forme di pianificazione per intraprendere il "viaggio" attraverso l'uso di carte nautiche riportanti rudimentali informazioni, descrizioni di carattere geopaleontologico e cartografie sulle profondità marine, sulle correnti, sulle coste; una raccolta diacronica di portolani che scorrono offrendo al visitatore un'informazione esaustiva di rotte, porti ed approdi» (p.29) (patrizia li vigni tusa)


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