La piccola America

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La piccola

“AMERICA” Sessant’anni di storia con il gas naturale a Crema

Nicoletta Bigatti

ALFREDO GALMOZZI RICERCA STORICA PER LA MEMORIA DEL TERRITORIO CREMASCO


Nicoletta Bigatti

La piccola “America” Sessant’anni di storia con il gas naturale a Crema

ALFREDO GALMOZZI RICERCA STORICA PER LA MEMORIA DEL TERRITORIO CREMASCO


Š Centro Ricerca Alfredo Galmozzi Piazza Premoli, 4 - Crema Progetto grafico ed impaginazione: Davide Severgnini Le fotografie sono tratte dall’archivio storico fotografico eni, tutti i diritti sono riservati. Per info sulle attivitĂ del Centro Ricerca Alfredo Galmozzi consultare il sito centrogalmozzi.it Stampato in Italia Finito di stampare nel mese di settembre 2013 da G&G Srl, Industrie Grafiche Sorelle Rossi, Offanengo


INTRODUZIONE

La figura di Mattei è fondamentale nella storia del nostro Paese del dopoguerra, perché senza di lui l’agip sarebbe stata liquidata, l’eni non sarebbe nata e l’Italia oggi conterebbe molto meno: attualmente l’eni è un’importante impresa impegnata nelle attività di ricerca, produzione, trasporto, trasformazione e commercializzazione di petrolio e gas naturale. snam è un gruppo integrato che presidia le attività regolate del settore del gas in Italia. Opera nelle attività di trasporto e di dispacciamento del gas naturale, di rigassificazione del gas naturale liquefatto di distribuzione e di stoccaggio di gas naturale. E tutto questo grazie a Mattei: gli italiani non dovranno mai dimenticarlo.

Antonio Canonaco, presidente della sezione cremasca dell’Associazione Pionieri e Veterani eni, decide di iniziare così la nostra conversazione. Dal tono delle parole e ancora di più dalla sua espressione cogliamo la convinzione e la passione con cui porta avanti l’incarico che gli è stato affidato, e che mette al primo posto proprio la perpetuazione del ricordo dell’illustre fondatore e primo presidente della società. Il riferimento a Mattei non può che far tremare i polsi a chi come noi ha dovuto scegliere come accostarsi a un tema variegato e complesso com’è quello dell’energia e degli idrocarburi. Se solo infatti avessimo deciso di prendere come punto di partenza della ricerca la figura di Mattei e la nascita dell’eni, il nostro lavoro avrebbe dovuto confrontarsi con un pezzo fondamentale della storia d’Italia, e con tutta l’immensa mole di articoli, tesi, pubblicazioni, studi dedicati a tali temi, da quelli che hanno indagato sotto ogni aspetto la personalità e l’attività del padre dell’allora Ente Nazionale Idrocarburi, a quelli che di tale ente hanno declinato in tutte le possibili sfumature l’organizzazione, le tecnologie e le vicende societarie1. Un compito francamente impari, del quale non ci sentiamo neppure all’altezza. Persino peggio sarebbe se fossimo stati tentati di dare alla nostra indagine un respiro ancora più ampio: se addirittura cioè avessimo deciso di partire da quanto accadde milioni di anni fa, quando dalla degradazione di materia organica depositatasi sui fondali marini e lacustri cominciarono a formarsi idrocarburi liquidi o gassosi, e da qui fossimo passati a raccontare dei primi pionieristici tentativi di estrazione (a cominciare da quel pozzo che a metà Ottocento il colonnello Edwin Drake scavò in Pennsylvania... ) per arrivare di narrazione in narrazione fino all’oggi. Un lavoro imponente, e di indubbio interesse storico e scientifico, ma certamente 1 Per una bibliografia esauriente ed aggiornata di tutti gli studi e le pubblicazioni riguardanti Enrico Mattei e l’eni si veda Daniele Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe. Tecnologia, conoscenza e organizzazione nell’Agip e nell’Eni di Enrico Mattei, Marsilio, Venezia 2009, pp. 517 ss.


non corrispondente agli scopi di questa ricerca. Quello che ci proponiamo è infatti qualcosa di ben diverso: intendiamo raccontare la storia della ricerca e dell’estrazione degli idrocarburi da una prospettiva assai più particolare e insolita, seguendo la nascita, l’evoluzione e le trasformazioni di quello che oggi è stogit, il Centro operativo di Crema2. Il mondo del gas e del petrolio visto quindi da una piccola realtà locale, distante anni luce (geograficamente, ma ancor più mentalmente) da quei centri di potere dove fortune e destini di intere nazioni si giocano intorno all’oro nero e ai colossali interessi da esso mobilitati: ecco la sfida che ci attende. Tale distanza porta con sé alcune peculiarità su cui spesso ci ritroveremo a confrontarci. In particolare essa ha reso il Centro operativo di Crema quasi una comunità a sé, che nei suoi sessant’anni di vita è riuscita a conservare quella dimensione “famigliare” (pur nella rilevanza dal punto di vista occupazionale via via assunta) che ancora oggi viene sottolineata dai lavoratori, e che in altre parti dell’universo eni e snam è forse più difficile cogliere. Forse proprio il permanere di questa “umanità” di rapporti ha generato l’elemento per noi più caratterizzante della storia che ci accingiamo a raccontare: non tanto una storia di macchine, tecnologie, o strategie industriali, ma soprattutto una storia di uomini, e della passione che li ha accompagnati per tutti questi decenni. Eccoci tornare quindi allo spirito evidenziato da Antonio Canonaco all’inizio della sua intervista: di passione infatti parleremo spesso, perché ne abbiamo colto la presenza in tutti gli incontri che abbiamo avuto, dai racconti in merito ai pionieri che per primi misero la propria esperienza e le proprie conoscenze a disposizione di quell’avventura fatta di gas e petrolio a cui pochi credevano, come dalle parole dei giovani che oggi proseguono il loro lavoro. Vite e vicende, le une e le altre, di cui poco si parla, e di cui raramente si trova traccia nei lavori degli storici, che di solito preferiscono dare la priorità ai grandi eventi e ai grandi personaggi, ma poco si occupano della gente cosiddetta comune. Un sindacalista che per alcuni anni ha seguito le vicende del Centro operativo di Crema3 ha fornito questa significativa lettura: 2 stogit è il nome attuale del Centro di Stoccaggio di Crema, che ha seguito anche nella denominazione i numerosi passaggi societari che hanno accompagnato gli anni Duemila. Oggi stogit è la società di snam attiva nello stoccaggio del gas naturale. stogit fornisce i propri servizi di stoccaggio (modulazione civile e industriale, strategico, bilanciamento trasportatori, minerario) ha 94 operatori, sulla base del codice di Stoccaggio approvato dalla Autorità per l’energia elettrica e il gas. Nella filiera del gas, lo stoccaggio, rappresenta un’attività strategica per garantire continuità di fornitura. Per lo stoccaggio stogit riutilizza i giacimenti di gas naturale esauriti, situati a 1.000‑1.500 metri di profondità. In tal modo senza alterare lo stato dei luoghi e privilegiando la salvaguardia dell’ambiente riesce a conservare il gas naturale nella stessa condizione di sicurezza nella quale la natura lo ha custodito per milioni di anni. stogit con 8 giacimenti attivi è il maggiore operatore italiano e uno dei principali in Europa. 3 Intervista a Palmiro Crotti, che come segretario provinciale dei chimici ha seguito il centro cremasco dal 1997 al 2004.


Si trattava una realtà poco visibile da fuori: c’era un mondo tutto rinchiuso qui dentro, collegato a qualcosa di molto più grande del contesto locale, ma di cui si faceva fatica a cogliere l’importanza che veniva dai tanti lavoratori che vi erano occupati e dalla ricaduta che le sue scelte industriali potevano avere sul territorio.

A questa mancanza di visibilità noi intendiamo porre rimedio, nella convinzione (che costituisce l’elemento fondante del nostro lavoro storico) secondo la quale la Storia è fatta anche e soprattutto delle esistenze di chi la costruisce ogni giorno con la propria fatica, coi propri sacrifici e, appunto, con la propria passione. Ecco allora che il nostro sarà un viaggio fra il granoturco della Valle Padana, nei terreni dove una mattina, nello stupore preoccupato della gente contadina, arrivarono strani personaggi che cominciarono a misurare e a scavare, e qualcuno diceva che cercavano il gas, ma la parola aveva la stessa valenza di un’espressione aliena. Vivremo la vita dei primi campi di estrazione, e capiremo perché proprio Crema sia stata scelta come centro nevralgico della sempre più imponente attività mineraria. Seguiremo le varie fasi del lavoro di pozzo, conoscendone i rischi e la durezza, e i grandissimi passi che sono stati fatti per limitare entrambi questi fattori. Parleremo quindi di ambiente e sicurezza, ma affronteremo anche il tema delle relazioni industriali all’interno della struttura di Crema, delle problematiche affrontate nel corso delle trasformazioni che l’hanno coinvolta. Trasformazioni che con l’avvento dell’informatica si sono tradotte in una vera e propria rivoluzione nei sistemi di lavoro e nel modo di gestire l’attività. Ci occuperemo poi di stoccaggio gas, cercheremo di comprenderne la funzione, le tecniche e le prospettive future. Ma tenteremo anche di capire quale ruolo abbiano giocato eni e snam nel territorio cremasco, quali siano state le interazioni reciproche, e anche cosa abbia voluto dire per una piccola realtà locale essere l’ingranaggio di un meccanismo industriale tanto complesso da faticare persino a coglierne nella sua interezza le dimensioni e l’importanza. Per questo viaggio così “intimo” nella realtà cremasca di eni e snam non potevamo che utilizzare come fonte primaria le voci e le narrazioni di chi al suo interno ha vissuto o vive una parte importante del proprio percorso lavorativo: tante esperienze che in tempi diversi e con differenti ruoli hanno seguito il cammino del Centro operativo di Crema, condividendone l’evoluzione e i cambiamenti. Per chi scrive l’ascolto di questi racconti ha rappresentato, oltre che un’occasione straordinaria di approfondimento professionale, anche un momento di grande arricchimento personale, e non poteva che essere così, data la partecipazione emotiva che ha sempre accompagnato le parole degli intervistati. Ad integrazione di quanto emerso dai racconti dei lavoratori ci è avvalsi della variegata documentazione aziendale (resa disponibile da stogit e snam e dall’archivio storico eni che ha sede a Pomezia), di articoli tratti dalla stampa locale e di pubblicazioni edite dalla stessa eni, arricchite dal materiale fornito da alcuni degli intervistati. Il quadro complessivo che alla fine è scaturito dalla ricerca non ha ovviamente


la pretesa di essere completo, ma crediamo presenti elementi di interesse non solo per coloro vi ritroveranno pezzi importanti della propria esistenza, ma anche e soprattutto per i giovani, che del mondo descritto conoscono al massimo la dimensione più recente e “tecnologica”. Per tale motivo riteniamo assolutamente preziosa la partecipazione al lavoro degli studenti dell’Istituto Pacioli di Crema: ci auguriamo che questa esperienza faccia loro comprendere come anche dietro le più avanzate innovazioni, dietro ogni progresso e trasformazione rimanga intatto nella sua importanza il fattore umano, quello che riunisce fatiche, sacrifici, impegno e, appunto, passione. Questa è forse la vera lezione che la storia che ci apprestiamo a raccontare vuole trasmetterci. Nicoletta Bigatti




Indice

Introduzione I

I cercatori di petrolio della Val Padana

p. 13

II

Gli anni d’oro della perforazione

p. 45

III

Lo stoccaggio del gas

p. 71

IV

Una questione nevralgica: la sicurezza

p. 87

V

Le relazioni sindacali

p. 111

VI

Le relazioni personali

p. 123

VII I grandi cambiamenti

p. 135

p. 143

I primi campi, p. 13; La nascita del Settore di Crema, p. 22; Il lavoro in cantiere, p. 30; Mazzini Garibaldi Pissard, p. 37.

La febbre del petrolio, p. 45; Storia di un campo, p. 50; I centri di formazione, p. 56; Esperienze all’estero e sul mare, p. 63.

Un cambio di prospettiva, p. 71; La centralità strategica dello stoccaggio, p. 74; Le tecniche per stoccare il gas, p. 78.

Le esperienze di Caviaga, Bordolano, Trecate, p. 87; I rischi dei pozzi, p. 96; La questione ambientale e i rapporti con il territorio, p. 99; Sicurezza oggi, p. 106.

Una situazione di privilegio, p. 111; Le battaglie, p. 116; I cambiamenti del presente, p. 119.

Una grande famiglia, p. 123; Il ricordo di Enrico Mattei, p. 126; Le iniziative del dopolavoro, p. 130.

Un cammino mai finito, p. 135; La rivoluzione dell’informatica, p. 136; La ricerca, p. 139; E domani?, p. 140.

Appendice



I CERCATORI DI PETROLIO DELLA VAL PADANA

I primi campi Ogni vicenda umana ha i suoi eroi sconosciuti, e quella che ci accingiamo a raccontare non fa eccezione. La loro storia si colloca nella seconda metà dell’Ottocento, fra i calanchi e i valloni dell’Appennino parmense, modenese e piacentino. Lì la gente contadina il petrolio lo conosce da secoli. Secondo un documento del 14601 in un villaggio della provincia di Modena «avvi una fossa del diametro di oltre due braccia in cui derivano venette sotterranee di acqua somigliante al siero di latte. Sovr’essa appaiono galleggianti alcuni occhiolini, i quali sono un olio di meravigliosa inestimabile virtù». Non c’è bisogno di scavare molto per trovare questo “olio di sasso”, in alcuni punti esso affiora naturalmente dal terreno, ed è sufficiente prelevarlo con dei secchi per poter godere dei suoi magici effetti: in base ad una ricetta che per secoli molti considereranno valida esso è ritenuto in grado di curare la diarrea, l’asma, la bronchite e persino il colera. In aggiunta alle funzioni curative i contadini lo utilizzano per illuminare la cascina e la stalla, ed è proprio in virtù di questa preziosa destinazione (più che dei poteri taumaturgici, sui quali qualcuno finalmente inizia a nutrire dubbi!) che nell’Ottocento si cominciano a studiare metodi più efficaci per strapparlo alla terra. I primi pozzi nascono così: sono di legno, per forare la terra si usa una palla di ferro tirata su e poi mollata per mezzo di una corda avvolta a una puleggia. L’energia utilizzata è esclusivamente umana, occorrono uomini robusti, ma quelli certamente in montagna non mancano. Le donne guardano alla nuova attività con timore e sospetto: le grandi buche sembrano volere arrivare all’inferno. Ma il lavoro di pozzaro garantisce una paga sicura, e mette al riparo dai rischi della tempesta e dagli scarsi raccolti, così diventano sempre di più coloro che sull’Appennino lasciano i campi per lavorare col petrolio. Nel 1880 i pozzi scavati sono già più di cento, e la ricerca va estendendosi verso la pianura Padana. I cercatori di petrolio sono figure toste, fiduciose ed entusiaste: grazie a queste caratteristiche riescono a superare difficoltà grandissime, fra cui la diffidenza delle banche a finanziare le ricerche (che spesso porta a ricorrere agli 1 Si tratta di una lettera scritta al duca di Modena da un pretore del vicino Appennino: citiamo da U. Bertoli, Pionieri senza leggenda, in «Ecos», anno III, nn. 17-18, ottobre 1974, p. 45 ss. La rivista Ecos è una delle tante pubblicazioni edite da eni.



I cercatori di petrolio della Val Padana

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usurai), gli ancora approssimativi studi geologici, l’arretratezza delle tecniche di perforazione. Non sono pochi coloro ai quali il miraggio del petrolio porta come dote la rovina economica, ma la tenacia di questi primi pionieri fa sì che all’affacciarsi del nuovo secolo le cose abbiano già cominciato a cambiare: i vecchi pozzi di legno vengono via via sostituiti dai «derrick2», le metodologie di scavo si affinano, i contadini che andavano a scavare in maniche di camicia sotto lo sguardo diffidente delle mogli lasciano il posto a tecnici sempre più preparati, grazie soprattutto alle nozioni apprese da realtà petrolifere più avanzate. Con l’aumentare della produzione3 le società impegnate nella ricerca diventano più grandi e più solide, e dopo il primo conflitto mondiale anche lo Stato italiano comincia ad interessarsi all’“affare petrolio”. Nasce così nel 1926 la prima compagnia a carattere pubblico: si tratta dell’Azienda Generale Italiana Petroli: l’agip. L’ottica con cui il nuovo ente viene costituito e guarda all’oro nero è in realtà ancora essenzialmente di tipo commerciale: secondo la ragione sociale, il suo ruolo principale è quello di acquistare prodotti petroliferi dall’estero, mentre l’attività mineraria rimane del tutto marginale, limitandosi per lo più agli studi geologici necessari all’individuazione di nuovi giacimenti. È però proprio in virtù di tali studi che l’agip avvia le sue prime perforazioni4: fra il 1927 e il 1929 nuovi pozzi vengono scavati fra le province di Parma e Piacenza, e anche la zona a sud di Milano comincia ad essere interessata. Fra i tecnici che approdano nei campi di perforazione appena avviati, c’è un giovane sardo fresco di diploma all’Istituto minerario di Sassari: il suo nome è Mazzini Garibaldi Pissard, e di lui ci occuperemo diffusamente nel prosieguo della nostra storia. Nel racconto della sua vita che Pissard regalerà ai nipoti molti anni dopo5 troviamo indicazioni su alcuni dei pozzi attivi nell’autunno del 1929: Le perforazioni in alta Italia si effettuavano a Podenzano, Miano, Fontevivo e Val Parola. Podenzano (Piacenza) produceva qualche migliaio di litri di petrolio dal primo pozzo perforato, e dalla profondità di 500 metri. Aveva in corso la trivellazione del secondo pozzo. […] Miano (Parma) lavorava con un impianto di perforazione e produceva qualche centinaio di litri di petrolio attraverso due pozzi profondi 100 metri. […] Fontevivo (Parma) aveva appena iniziato la trivellazione del primo pozzo, ed era l’unico ubicato nella Pianura Padana. […] Val Parola (Parma): era in corso la trivellazione del primo sondaggio alla profondità di 100 metri e doveva raggiungere i 500 metri.

2 Il derrick è il traliccio metallico che costituisce la parte visibile del pozzo, e che regge l’attrezzatura di perforazione. 3 Dal 1860 al 1880 la produzione complessiva di petrolio padano fu di sole 183 tonnellate; dal 1880 al 1900 essa salì a 23.000 tonnellate (cit. da U. Bertoli, Pionieri senza leggenda, cit., p. 47). 4 Ricaviamo i dati relativi ai primi pozzi dell’agip da D. Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe. Tecnologia, conoscenza e organizzazione nell’Agip e nell’Eni di Enrico Mattei Marsilio, Venezia, 2009, p. 89. 5 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere. Diario Mazzini Garibaldi Pissard, Documenti dell’Archivio storico eni, Roma 2008, pp. 34-35. A fianco: Pianura Padana, La torre di perforazione del pozzo Caviaga


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Per un quadro invece più generale dell’attività di ricerca sviluppata dall’agip negli anni antecedenti alla guerra possiamo far riferimento all’accuratissima relazione elaborata dalla «Sezione ricerche e Sfruttamenti» della società nel 19456. Da essa si ricava che fra il 1927 e il 1932 agip ha effettuato indagini geologiche e geofisiche nelle seguenti zone: Vogherese, S. Colombano e Podenzano (rispettivamente sulle rive sinistra e destra del Po), area appenninica fra il torrente Stirone e il Taro e area compresa fra Fidenza e Reggio Emilia7. Nel quinquennio successivo, sulla base degli studi fatti e dei primi risultati ottenuti, viene formulato un programma di sondaggi e quindi di perforazioni nelle zone «più favorevolmente indiziate» per la presenza di idrocarburi: a seguito di tali interventi San Colombano e il Vogherese vengono abbandonati e l’attenzione si concentra su Podenzano e sulla zona appenninica. È proprio a quest’ultima, e precisamente ai pozzi della Val Parola, che il giovane Pissard viene assegnato per il tirocinio. Il suo primo impatto con la vita di cantiere non è per la verità dei migliori: la preparazione ricevuta dalla scuola qui sembra non contare nulla, i tecnici e gli operai che lavorano nel campo fanno affidamento quasi esclusivamente sull’esperienza, e diffidano delle nozioni teoriche. A chi è abituato al mondo delle miniere, con macchinari all’avanguardia, procedure definite nel dettaglio e produzioni di valore internazionale, quella piccola realtà della montagna parmense appare arcaica e scoraggiante: In questo sondaggio […] è tutto pressapochista e per diventare esperto bisogna possedere un sesto senso ed essere assiduo in cantiere, perché i perforatori sono gelosi del proprio sapere e, per farsi ritenere bravi, raccontano balle, e se possono danneggiano il collega dell’altro turno. […] Appena arrivato provai una grande disillusione vedendo che i sogni di gloria e i mezzi che dovevano risolvere i nostri problemi energetici e quelli del mondo, dipendevano da quel complesso da terzo mondo8.

Per quanto alle prime armi, tuttavia, il nostro perito minerario non è tipo da farsi abbattere dalle difficoltà, e grazie ad una frequentazione assidua del cantiere riesce a carpire i segreti del lavoro ed a conquistare la fiducia degli operai: Quando gli operai videro che mi associavo a loro mi raccomandavano di stare attento perché potevo sporcarmi, farmi male o stancare troppo, mi consideravano il “siurein sardagnol”. Una volta constatata la testardaggine che mi distingue, mi subirono, mi presero a ben volere, mi insegnarono quanto era di loro conoscenza9.

È anche grazie alla passione e alla perseveranza di uomini come Pissard che dalla metà degli anni Trenta la dirigenza agip comincia ad incrementare il proprio 6 Ricerche petrolifere in Italia, 18 dicembre 1945. La relazione è reperibile presso l’archivio dell’associazione Pionieri e Veterani eni di San Donato Milanese. 7 La relazione riferisce che altre ricerche hanno riguardato la zona di Pescara, la Sicilia, il Teramese e l’Ascolano. 8 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 39. 9 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., ibidem.


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interesse per l’attività mineraria e a prevedere consistenti fondi per la ricerca e la produzione: attraverso di essi vengono estese ai campi della Pianura Padana le nuove tecnologie che altrove in Europa e nel resto del mondo sono già ampiamente utilizzate. In particolare, viene acquisito il sistema di perforazione rotary, che a confronto di quello a percussione usato precedentemente consente di raggiungere profondità ben maggiori10, mentre nell’ambito delle indagini geologiche si inizia a fare uso della prospezione sismica a riflessione, che rispetto ai sistemi gravimetrici e magnetometrici utilizzati fino a quel momento permette di ricostruire in modo ben più dettagliato la struttura geologica del sottosuolo11. Tali innovazioni non producono certo l’effetto di trasformare l’area padana in un piccolo Texas (e i risultati ancora modesti in termini quantitativi ed economici non inducono ad eccessivi ottimismi), ma saranno alla base dell’evento che cambierà definitivamente la storia della ricerca degli idrocarburi in Italia. Gli studi sismici avviati nel 1940 portano infatti alla scoperta del giacimento metanifero di Caviaga. Prima di fare la conoscenza di questa minuscola frazione di Cavenago d’Adda occorre però fare un’ultima considerazione: le riflessioni sin qui fatte sull’attività dei cantieri della Valle Padana potrebbero infatti condurre a pensare che le gesta dei primi pionieri del petrolio venissero seguite e vissute da vicino dalla dirigenza agip. In realtà, come anche Daniele Pozzi non ha mancato di rilevare12, il mondo dei campi di perforazione appare ancora del tutto periferico e lontano rispetto agli uffici romani della società. Dal diario di Mazzini Pissard si evince come anche i responsabili dei cantieri avessero contatti praticamente nulli con la direzione centrale, e nelle poche occasioni di incontro venissero guardati con non poca supponenza: … constato che i signori dirigenti, quasi tutti blasonati, sono ossequienti con il portiere e con il capo fattorini del piano. Ciò mi suscita invidia perché ho lo stesso stipendio, lui è riverito, io guardato dall’alto in basso; sovente ho desiderato prendere il suo posto13.

La scoperta di Caviaga avviene in piena guerra, senza che se ne colga immediatamente l’importanza: l’area padana è sotto occupazione, e come altre aziende anche l’agip mette in cima alle sue preoccupazioni quella di salvaguardare 10 Il sistema di perforazione rotary (in uso ancora oggi, pur con tutti i miglioramenti resi possibili dal progresso tecnologico) si avvale di uno scalpello che ruota su se stesso e penetra nel terreno grazie all’energia trasmessagli da un motore attraverso una colonna di aste. Nell’attrezzatura di perforazione viene continuamente iniettato del fango, che come vedremo ha molteplici funzioni: riportare in superficie i detriti, raffreddare lo scalpello e creare, grazie al suo peso, una contropressione verso gli strati geologici attraversati, evitando in questo modo il rischio di eruzioni. 11 La sismica a riflessione utilizza le proprietà delle onde sismiche per determinare la composizione del sottosuolo. I sistemi gravimetrici studiavano invece le variazioni della forza di gravità terrestre provocate dalla diversa densità degli strati geologici, mentre quelli magnetometrici misuravano le anomalie locali del campo magnetico terrestre. 12 Introduzione al diario di Mazzini Garibaldi Pissard, cit., p. 9. 13 M.G. Pissard, la leggenda del pioniere, cit., p. 69.


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gli impianti già in funzione dai bombardamenti e dalle rappresaglie nazifasciste. Non è che il metano non desti interesse, anzi: fin dagli anni Trenta la politica autarchica del regime fascista ha stimolato la ricerca di fonti di energia alternative al carbone, e lo scoppio del conflitto ha posto in primo piano il problema di reperire nuove fonti di approvvigionamento. L’interesse per il gas naturale si esprime nel 1940 con la costituzione della snam (Società Nazionale Metanodotti), e l’anno successivo anche l’agip fa il suo ingresso nel settore della vendita e distribuzione del metano. Ma gli eventi bellici incalzano, e con l’armistizio ogni attività, anche nel settore energetico, si blocca. Occorrerà arrivare alla pace, e al 1946, perché il nome di Caviaga assurga all’onore delle cronache. Degli eventi verificatisi in quell’angolo di Lodigiano nel primo anno di pace ci riferisce un articolo pubblicato molti anni dopo su una rivista edita dall’eni14. Caviaga, altitudine sul mare 71 metri, abitanti 533: comincia tutto con un camion e una jeep, che un mattino di buon’ora percorrono le strade acciottolate del paese, per poi sparire rapide nella campagna. I pochi abitanti in giro non ci fanno caso, ma l’interesse si risveglia di colpo quando nei giorni successivi altri autocarri arrivano, e una torre di metallo (che un po’ assomiglia a quella delle cartoline di Parigi) comincia ad alzarsi in mezzo al granoturco. La gente contadina guarda con diffidenza i forestieri, che hanno costruito anche baracche di legno e alluminio: li chiamano «quelli del petrolio», perché il metano appare qualcosa di difficile anche solo da immaginare. Quando il numero degli operai del cantiere comincia a crescere, anche il parroco del paese non nasconde più la preoccupazione: a destare il suo timore non è ciò che viene prelevato dalle viscere della terra, ma la virtù minacciata delle ragazze locali: tutti quei giovani uomini non solo sono “foresti”, ma vengono in gran parte dall’Emilia, perciò devono essere comunisti… con le conseguenze sui costumi femminili che da questa appartenenza politica potrebbero derivare!15 Il giacimento di gas scoperto a Caviaga, che tante diffidenze e timori scatena all’inizio fra la gente contadina, si rivela il più grande mai individuato in Europa: si trova alla profondità di 1.300 metri e contiene riserve pari a 12 miliardi di metri cubi di metano. Le sue potenzialità vengono colte in pieno da Enrico Mattei (da poco nominato Commissario straordinario dell’agip) che su di esse e sulle prospezioni geofisiche effettuate in pianura Padana dai tecnici dell’Ente fonda la propria convinzione secondo cui il futuro dell’Italia si giocherà proprio sulla scoperta e sullo sfruttamento del gas naturale. 14 Il primo pozzo. A Caviaga nel 1946 comincia l’età del metano, in «Il gatto selvatico», anno 1, n. 1, luglio 1955. 15 L’aneddoto sul parroco di Caviaga è stato raccontato dal direttore del quotidiano di Lodi «Il cittadino» in occasione della presentazione nel 2009 del libro di Daniele Pozzi (Da gatti selvaggi, cit.). Si veda l’articolo che fa la cronaca della serata (L’Eni e Mattei, una vicenda italiana: quando la storia passò per Caviaga, in «Il cittadino», 12 marzo 2009). A fianco: Pianura Padana, La torre di perforazione del pozzo Caviaga



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La sua fede nella necessità di estendere la ricerca mineraria, facendone il vero core business della società, trova non poche resistenze fra i vertici dell’agip, e Mattei deve combattere una battaglia lunga e durissima per affermare le sue posizioni16, che trovano definitiva accoglienza solo nel 1948, a seguito del rinnovamento dei vertici aziendali17. Nella sua nuova veste di vicepresidente egli avvia una profonda riorganizzazione dell’ente, ridisegnandone strategie e obiettivi. In tale opera Mattei è favorito dai nuovi ritrovamenti di idrocarburi che il sottosuolo dell’Appennino e della pianura Padana regalano ogni giorno: Ripalta, nel 1948, e Cortemaggiore nel 1949 sono i primi, poi ne seguiranno molti altri18, fra cui, alla fine del 1951, quello di Bordolano. Di quest’ultima scoperta abbiamo trovato riscontro diretto nei documenti societari: in una relazione al Consiglio di Amministrazione dell’agip19 il presidente Boldrini comunica ai soci che nel paese del Cremasco è stata riscontrata la presenza di gas con pressione di 200 atmosfere alla profondità di 1.900 metri, aggiungendo che «trattasi di nuovo giacimento, che si presenta fin dalla sua prima esplorazione ricco di promesse». È comunque il ritrovamento di Cortemaggiore a suscitare il maggiore entusiasmo nell’opinione pubblica, grazie anche ai roboanti articoli sul “petrolio italiano” che da subito iniziano a riempire le pagine dei giornali. Prendiamo in prestito da Daniele Pozzi20 le parole con cui su «Il Corriere della Sera» viene commentato il ritrovamento nel sottosuolo piacentino: Abbiamo tuffato le mani nel petrolio italiano. Italianissimo petrolio perché scaturito dal suolo della nostra valle Padana, perché sudata conquista di tecnici italiani, di una organizzazione italiana, che fa capo allo Stato. È dunque al Paese che va questa straordinaria ricchezza, a tutti gli italiani…

Mentre, qualche anno dopo21, ecco come una pubblicazione dell’eni descrive (non risparmiandosi toni elegiaci!) il panorama di Cortemaggiore: 16 Questa battaglia viene descritta sapientemente nel volume di Daniele Pozzi (Dai gatti selvaggi, cit., pp. 168 ss.). 17 Alla presidenza dell’agip venne nominato Marcello Boldrini, amico di vecchia data di Mattei e come lui protagonista della Resistenza. 18 Nonostante lo scontro in corso ai vertici, le ricerche in realtà non si erano mai interrotte: in un verbale del Consiglio di Amministrazione dell’agip del 1947 (seduta del 18 dicembre, in Archivio storico eni, Fondo agip Organi sociali, BE III 1 busta 3) si legge che la squadra geofisica dell’azienda si è trasferita a Copparo, nel Ferrarese, e ha iniziato dei profili sismici nella zona a sud del Po. Il documento prosegue informando che si pensa di eseguire dei rilievi anche nella zona fra Vercelli e Novara, «favorevolmente indiziata» per la presenza di idrocarburi, «allo scopo di stabilire la possibilità in futuro di una fonte di produzione in aggiunta a quella di Caviaga». 19 Verbale CdA, seduta del 13 dicembre 1951, in Archivio storico eni, Fondo agip Organi sociali, BE III 1, busta 3. 20 D. Pozzi, Dai gatti selvaggi, cit., p. 197. 21 G. Comisso, Un’acropoli d’acciaio nella pianura, in «Il gatto selvatico», anno 1, n. 4, settembre 1955.


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Avvicinandosi a Cortemaggiore la campagna tenue di un verde più lavorato sembra quasi ingenua, eppure sotto la sua crosta trattiene il gas antico pronto a tramutarsi in fiamma potente. Non come un incubo, ma come un lieto orgasmo ci accompagna questo pensiero per la forza caotica racchiusa.

Meno bucolico, ma certamente più tecnico, è il quadro che del nuovo giacimento viene tracciato da Mazzini Pissard, a cui Mattei affida la direzione dei lavori di perforazione22. Il giovane sardo si dimostra meritevole della fiducia: con la sua supervisione vengono trivellati dodici pozzi, tutti produttivi. I risultati sono fin dall’inizio così promettenti che vengono chiamati sul posto tecnici californiani con impianti di nuova concezione: una vera meraviglia tecnologica agli occhi degli italiani. Certo, l’impiego di questo personale non è esente da problemi: secondo Pissard gli americani hanno metodi di lavoro diversi, dimostrano poca capacità di adattamento alle situazioni difficili, e non reggono bene nemmeno il gelo e la nebbia della pianura Padana, al punto che ogni tanto devono essere recuperati dopo essersi persi con l’auto fra le brume dei campi. Ormai i preziosi frutti che il sottosuolo padano nasconde non fanno più paura. Forte delle aspettative che accompagnano ogni nuova scoperta, il rinnovato gruppo dirigente dell’agip può quindi proseguire nella sua opera di rilancio della ricerca mineraria. Dai documenti societari dell’agip possiamo avere un quadro abbastanza dettagliato di quella che era la situazione nel 1950, quindi nell’imminenza della nascita del Centro Operativo di Crema. Siamo nel mese di febbraio: in una sua relazione al Comitato Esecutivo dell’ente23, Mattei espone il «Programma sviluppo impianti e provvedimenti finanziari relativi» per il quinquennio 1950‑1954. Il prospetto prevede «l’acquisto di macchine di perforazione, l’esecuzione di rilevamenti geofisici e di sondaggi di esplorazione, nonché la messa in valore dei giacimenti già individuati mediante l’esecuzione di sondaggi di coltivazione e impianti accessori, e, infine l’esecuzione di nuovi metanodotti per il trasporto del gas dai luoghi di produzione ai centri di consumo». L’accenno ai metanodotti va a toccare quello che ormai sta divenendo il principale problema da affrontare: il gas che in quantità via via maggiore affluisce dai giacimenti individuati impone una rete di distribuzione all’altezza, che ne faciliti la vendita. Sulla questione Mattei è molto chiaro: Richiama l’attenzione sullo stretto legame tra erogazioni e disponibilità di mezzi di trasporto; sulla prevedibile saturazione delle effettive capacità di trasporto attuali – di circa 1.500.000 mc/g – già nel secondo semestre del corrente anno, e sulla conseguente necessità di provvedere, parallelamente, sia agli sviluppi delle ricerche, che alla predisposizione dei mezzi di trasporto del gas che si otterrà. 22 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., pp. 100 ss. Pissard lasciò Cortemaggiore nel 1950, quando Mattei lo chiamò a dirigere il nuovo settore cremasco. 23 Verbale del Comitato Esecutivo dell’agip, seduta del 3 febbraio 1950, in Archivio storico eni, Fondo agip Organi sociali, BE III 2 busta 16.


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Gli accordi con la snam, di cui agip possiede una quota importante di azioni24, hanno già permesso di raggiungere notevoli risultati: dalla relazione del 1950 si apprende che proprio snam ha appena ultimato il metanodotto Caviaga-MilanoSesto San Giovanni-Cesano-Castellanza, e già si pensa ad un ulteriore prolungamento fino a Gallarate e Novara, oltre alla realizzazione di altri tratti minori. L’impegno finanziario richiesto alle due società è enorme, ma per Mattei questa strada è ormai l’unica percorribile: il futuro del Paese, la sua trasformazione, la sua economia si giocano per molti versi sulla scoperta e lo sfruttamento del gas italiano. I primi piccoli cambiamenti, del resto, il metano ha già cominciato a provocarli, e l’evidenza di essi si coglie proprio laddove è cominciato tutto, a Caviaga: La faccia di tutta una regione d’Italia cambiò. Attorno a Caviaga dovunque si scavava un nuovo pozzo, dovunque si creava un posto di smistamento, dovunque si impiantava un laboratorio si creò un’atmosfera che fino ad allora non conoscevamo. Era nata una piccola America… Gli stessi tecnici americani lo dicevano: “little America”. L’elmetto di alluminio fu il distintivo, il segno caratteristico dell’esercito dei ricercatori in continua crescita25.

Il piccolo mondo agreste di questo paesino del Lodigiano sta definitivamente mutando, tralicci e sonde vanno sostituendo stalle e granoturco. Non troppo lontano da Caviaga anche Crema si accinge ad accogliere i “signori del gas”: l’arrivo avviene in sordina, e il cambiamento non è altrettanto brusco ed evidente, ma anche lì un’epoca nuova sta per cominciare. La nascita del Settore di Crema Proprio quando Mazzini Pissard inizia a raccogliere i primi riconoscimenti per il suo lavoro a Cortemaggiore, e la rilevanza dei ritrovamenti di gas e petrolio porta alla crescita progressiva del sito piacentino, una notizia viene a sconvolgere i progetti del giovane tecnico sardo: la Direzione dell’agip lo chiama a trasferirsi a Crema, dove dovrà dirigere il nuovo e importante settore che lì sta per essere creato. È quindi «col cuore straziato26» che egli lascia il suo incarico per affrontare la nuova sfida: siamo nel luglio del 1950. Troviamo conferma della tempistica nei documenti aziendali: proprio un mese prima il Comitato Esecutivo della società27 ha approvato l’acquisto in Crema di «un appezzamento di terreno di circa mq 16.000 al prezzo di ₤ 200 al mq» allo scopo di «costruirvi baraccamenti, uffici, magazzini, autorimesse, ecc.» 24 Occorrerà tuttavia attendere ancora qualche anno, fino alla costituzione dell’eni nel 1953, perché agip assuma interamente il controllo di snam. Per la fornitura delle tubazioni necessarie alla realizzazione delle condotte agip conclude un accordo con Dalmine e Finsider. 25 Il primo pozzo. A Caviaga nel 1946 comincia l’età del metano, in «Il gatto selvatico», anno 1, numero 1, luglio 1955. 26 M.G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 100. 27 Seduta del 17 giugno 1950, in Archivio storico eni, Fondo agip Organi sociali, BE III 2, busta 16. A fianco: costruzione di un metanodotto



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Perché Crema? Pare che la scelta venga da Mattei in persona. Da tempo il settore che fa capo a Lodi denuncia la carenza di spazi: le sistemazioni provvisorie rimediate dopo la guerra appaiono ormai insufficienti ad accogliere tutti gli uffici e i laboratori. C’è poi un fattore geografico da tenere in considerazione: la ricerca mineraria ora non si limita più all’area piacentina e lodigiana, ma coinvolge l’intera pianura Padana, quindi occorre individuare un luogo che anche dal punto di vista logistico possa fare da centro di controllo e di supervisione per i giacimenti che stanno via via venendo alla luce. Crema appare come la collocazione ideale, e Mazzini Pissard sembra a Mattei l’uomo in grado di far nascere dal nulla la nuova realtà. Perché proprio di questo si tratta, di iniziare dal niente: Faccio montare subito una casa di legno, provvisoria per me, poi un’altra un poco più robusta, che occuperò per circa tre anni. La Nera ha spazio sufficiente per il giardino, orto, galline e conigli. Verrà poi costruita una palazzina a tre piani per l’alloggio mio e di tre impiegati: Bacchini quale capo cantiere volante, Dazzi segretario tecnico, Toscano amministrativo. Ufficio, case, cantieri sono collegati con telefoni e radiotelefono28.

La famiglia di Pissard vive quindi all’interno del cantiere, e il figlio Paolo, che allora ha pochi anni, cresce fra operai, macchinari, galline e conigli (allevati dalla madre) e con la compagnia dei cani da guardia che di notte vengono lasciati liberi per scongiurare i furti di materiale, piuttosto frequenti. Nel corso dell’intervista che ci ha rilasciato29, Paolo Pissard ha così ricordato la stagione cremasca: Mio padre era esigente con me, ma aveva ragione perché le facevo grosse. Mi ricordo che una volta il capo garage aveva lasciato il camion con le chiavi infilate nel cruscotto: io sono entrato, ho messo la marcia e… ho tirato giù il muro del garage. Certo, mi mancavano i bambini: il cantiere qui a Crema era in estrema periferia, e noi vivevamo all’interno. C’erano due baracche di legno, in una vivevamo noi e nell’altra c’erano gli uffici. Non c’erano altri bambini, così solo quando ho cominciato la scuola ho potuto avere finalmente degli amici. Per questo non ho mai bigiato, neanche una volta!30

Dal punto di vista strutturale, il Centro di Crema è destinato a rimanere quello descritto da Pissard per molti anni. Vincenzo Bruno, che vi ha cominciato l’attività nel 1975, ancora lo racconta così: Qui a Crema non c’era nulla, solo la palazzina alla sinistra dell’ingresso e le officine, ciascuna con la sua disciplina: c’erano meccanici, elettricisti, strumentisti, persino i facchini. Poi mano a mano che l’importanza di Crema aumentava hanno cominciato a costruire gli altri uffici, prima due, poi quattro piani.

Alla modestia delle strutture fa da contrasto un’attività che diviene di giorno in giorno più rilevante, così dal settore lodigiano arriva in aiuto di Pissard l’ingegnere 28 M.G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 101. 29 Mazzini Garibaldi Pissard è scomparso nel 1988. 30 Intervista a Paolo Pissard, 17 aprile 2012. A fianco: Montaggio di un cantiere di perforazione



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Egidio Egidi, compaesano di Mattei e altra storica figura dell’azienda, di cui diventerà negli anni Settanta amministratore delegato, per poi essere nominato presidente dell’eni fra il 1979 e il 1980. Possiamo ricavare testimonianza della rapida crescita del Settore cremasco da un documento di qualche anno successivo, che dimostra come le intuizioni di Mattei sulle prospettive del gas italiano in pianura Padana sembrassero trovare puntuale realizzazione. Siamo nel 1956: a Piacenza, nell’ambito della mostra nazionale del metano e di quella internazionale degli idrocarburi, si svolge un convegno sui combustibili gassosi, che viene aperto proprio da Mattei31. Nel suo discorso egli fa fra l’altro il punto sui ritrovamenti padani: diciannove sonde operano sul territorio, la cui esplorazione strutturale è ad uno stadio «molto avanzato». Poi Mattei prosegue nominando una per una le scoperte fatte: Nel 1954 sono stati individuati i giacimenti di gas di Piadena, Sergnano, Soresina, Romanengo. […] Nel 1955, e nell’anno in corso, sono stati rinvenuti i giacimenti di metano di Pandino, Orzivecchi, Bagnolo Mella e Cremona sud. […] Meritano una segnalazione a parte i ritrovamenti effettuati negli ultimi tempi sul fianco della struttura di Selva, in provincia di Bologna e sulla adiacente struttura di Minerbio. Questi successi, che coronano una serie di studi e di lavori, hanno una grande importanza, non soltanto per l’entità dei ritrovamenti, ma perché il nuovo tema di ricerca fa sperare analoghi risultati sui fianchi di altre strutture della pianura Padana.

Nelle parole di Mattei c’è indubbia fiducia, ma nella sua prolusione non manca neppure una dose di sano realismo, diretta a spegnere i troppo facili entusiasmi: la pianura Padana non potrà mai essere il Texas, e neppure la California. Confronti come questi, afferma, non hanno ragione di essere, visti «il carattere assolutamente eccezionale» delle condizioni esistenti in quelle aree d’Oltreoceano e la specificità di ogni bacino sedimentario. Se si evitano paragoni improponibili ciò che resta è comunque l’altissima efficienza tecnica raggiunta dal nostro Paese, che ormai ha ben poco da invidiare ai sistemi “americani”. Quando Mattei pronuncia il discorso piacentino, la società ha già subito la sua trasformazione strutturale più radicale: con la legge n. 136 del 10 febbraio 1953 è stata infatti istituita l’eni. L’azienda petrolifera è quindi diventata un ente di diritto pubblico, al cui interno operano società operative settoriali fra le quali l’agip mineraria, competente su tutto l’upstream32: ad essa viene concessa l’esclusiva per la ricerca e la produzione di idrocarburi in valle Padana. Con la nascita dell’eni e con il progredire dell’attività mineraria il Settore operativo cremasco inizia a diventare un punto di riferimento importante per il 31 Il testo integrale del discorso di Mattei è riportato ne Il gas naturale nell’evoluzione dei consumi di energia, in «Il gatto selvatico, anno 2, numero 9, ottobre 1956. Oltre a quelli della pianura Padana, Mattei segnala anche i ritrovamenti in Abruzzo e Sicilia. 32 Come già accennato nel 1953 agip mineraria assume anche il controllo della rete di metanodotti di snam.


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territorio: le assunzioni procedono a ritmo crescente, e gli scambi fra la nuova società e le istituzioni locali si fanno più frequenti e significativi. In realtà già dal 1952 Crema ha cominciato a raccogliere i primi frutti della presenza del metano nella sue vicinanze: il 29 novembre la città ha inaugurato la sua rete di distribuzione del gas. La notizia della cerimonia viene riportata sia dal quotidiano «La Provincia» sia dal settimanale cattolico «Il nuovo Torrazzo», ma curiosamente di ben diverso tono è la cronaca che viene fatta dell’evento. Nelle pagine del primo si sottolinea infatti lo scarso entusiasmo della popolazione per la novità: Ieri sera, con una simbolica cerimonia, è stata inaugurata a Crema la rete per la distribuzione alla cittadinanza del metano puro per uso di cucina e di riscaldamento. Alle 21.10, alla presenza di poco pubblico quasi indifferente, il sindaco, da una finestra del Palazzo Municipale, dopo aver acceso tre becchi di fiamma terminali di una tubazione a forma di tripode ha pronunciato brevi parole33.

Mentre il resoconto de «Il nuovo Torrazzo» è di tutt’altro tenore: Il sindaco ha acceso una triplice fiammata il cui chiarore, vivido e tremulo, ha illuminato festosamente a giorno la piazza, mentre la folla esplodeva in una rumorosa ovazione34.

Dei primi approcci fra il Settore cremasco dell’eni e il territorio ci fornisce una preziosa testimonianza anche il diario di Mazzini Pissard. Siamo ancora nel 1953: eni è stata appena istituita e a Crema si studia un’originale forma di lancio pubblicitario per il nuovo ente. L’idea è quella di partecipare alla sfilata del carnevale cremasco, che proprio quell’anno è tornato agli antichi fasti dopo le ristrettezze dell’immediato dopoguerra. Pissard propende per una realizzazione rigorosamente “casalinga”: il carro allestito dai lavoratori dell’agip è accompagnato dal “Valzer del metano”, «parole di Adelio Bernardi e musica di Battista Pasquini, il primo impiegato, il secondo operaio, entrambi dipendenti del settore cremasco35», ed anche l’orchestrina che esegue il pezzo è altrettanto “autoctona”. Il successo è strepitoso: il manufatto dell’agip, denominato “Forze endogene”e decorato con tanto di cane a sei zampe che erutta fiamme, vince il primo premio. Ecco la cronaca della giornata come si legge nel quotidiano «La Provincia»: Al secondo passaggio da Piazza Duomo, la Giuria ha emesso la tanto attesa ed ardua sentenza: il 1° premio è stato assegnato al carro “Forze endogene” preparato ed allestito con molta cura e ricchezza dal settore cremasco dell’agip. Naturalmente il soggetto non poteva che rappresentare la ricchezza del suolo cremasco ed italiano. Vampe di fuoco 33 Inaugurata con una simbolica cerimonia la rete di distribuzione del metano, in «La Provincia», 29 novembre 1952. 34 Una grande realizzazione, in «Il nuovo Torrazzo», 6 dicembre 1952. Entrambe le citazioni sono tratte da AA.VV., Crema tra identità e trasformazione. 1952-1963, Centro Ricerca Alfredo Galmozzi, Crema 2006. 35 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 106.



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infatti uscivano dal cratere e dalla bocca. del mostro simbolico. Un’orchestrina allegra allietava e completava la coreografia del soggetto e nella ricchezza di costumi degli addetti al carro non poteva non avere come parte predominante il colore rosso. Due addetti però vestivano gli scafandri argentei antifiamme36.

Come responsabile del Settore Pissard ha anche frequenti rapporti con il mondo ecclesiastico locale. Non lo aiutano in quest’opera diplomatica i… trascorsi di famiglia: il padre era di convinzioni decisamente laiche, ed ha cresciuto la prole nell’unico culto della libertà e del rispetto per il prossimo37. Mazzini però dimostra anche in questo campo notevoli capacità relazionali: In località Sabbioni, alla periferia di Crema, c’è il convento dei Cappuccini, padre Crispino da Treviglio è il padre guardiano. Bussa perché lo aiuti a costruire il cinema. Trasporto gratuitamente tutti i materiali. […] Successivamente entra in Crema il nuovo vescovo, monsignor Giuseppe Piazza38 di Casalbuttano. Mi reco in curia per rendergli omaggio e dargli il benvenuto. Verrà in officina a concelebrare la santa Messa in occasione di Santa Barbara, eletta protettrice anche della Mineraria. Un certo giorno mi confida che desidera costruire una nuova chiesa appena in periferia […]. Gli diamo una baracca di legno, dodici metri per sei, montata in vicinanza di quella costruenda, può così cominciare l’opera di evangelizzazione, una somma in denaro e provvediamo al trasporto materiali39.

Mazzini Pissard dirige il Settore di Crema fino al dicembre del 1957, quando Mattei lo chiama alla guida del settore perforazioni della saipem40. Nei sette anni della sua permanenza a Crema l’attività mineraria in pianura Padana raggiunge il massimo sviluppo. Nel frattempo snam è già nata, l’Ente Nazionale Metano costitueito nel 1940, insieme ad agip, Regie Terme di Salso Maggiore e Società Anonima Utilizzazione e Ricerca Gas Idrocarburati (surgi) danno vita alla Società Nazionale Metanodotti (snam) per la costruzione e l’esercizio dei metanodotti e la distribuzione e vendita del gas. In tempo di guerra il metano era già diventato energia fondamentale per l’Italia tanto che un ingente quantità di acciaio, nonostante le necessità dell’industria bellica, viene destinata alla costruzione del primo metanodotto che porta a Lodi e a Milano il gas dei pozzi di Salso Maggiore 36 Il primo premio assegnato a “Forze Endogene” dell’AGIP, in «La Provincia», 18 febbraio 1953. Il celeberrimo logo del cane a sei zampe è il frutto di un concorso bandito nel 1952 da Mattei per dare un marchio riconoscibile alla benzina prodotta a Cortemaggiore, ed è opera dello scultore Luigi Broggini. 37 Da questa fede laica derivano i nomi decisamente originali attribuiti ai figli: Mazzini Garibaldi, Francia Repubblicana Laica, Repubblica Camelia Edera, Pace e Bontà, Disarmo Arbitrato, Libertà e Savoia (in omaggio alla regione di origine della famiglia). 38 In realtà il nome esatto è Piazzi. Monsignor Piazzi rimarrà vescovo di Crema dall’ottobre 1950 all’ottobre 1953. 39 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 106. 40 Società Anonima Italiana Perforazioni E Montaggi, istituita da Mattei nel 1957 fondendo snam Montaggi e saip. A fianco: Pianura Padana, Un campo di ricerca petrolifera, Anni ’50


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(Parma). La rete dei gasdotti che nel 1948 sviluppa complessivamente 257 chilometri nel 1950 già supera i 700, raggiungendo quota 2000 nel 1952 e 4600 nel 1960, concentrati in gran parte in Val Padana; prende il via la metanizzazione dell’Italia. È dunque il momento di conoscere un po’ più da vicino il lavoro nei cantieri. Il lavoro nei cantieri Il topografo al di là del torrente sta facendo la ricognizione sulla linea, sta rilevando i punti da segnare col picchetto. […] La sua opera è di avanscoperta, come si può dire per una sorta di guerra tranquillamente combattuta, con pazienza, con tenacia, contro un bizzarro, astuto nemico che si nasconde nelle cavità del sottosuolo e vuole dormire il suo sonno preistorico: il petrolio. L’uomo lo insegue, ne scopre le tracce, tenta di agganciarlo, d’imprigionarlo. […] Ma non è facile, il petrolio ha il vantaggio di una immensa, misteriosa mimetizzazione41.

Il tenace soldato che questo articolo descrive con tono quasi epico è uno dei membri di una squadra sismica dell’agip, la prima ad intervenire quando le caratteristiche di un bacino sedimentario ne mostrano le potenzialità petrolifere. L’autore della cronaca segue i tecnici dell’agip in una giornata di lavoro ai piedi dell’Appennino, «tra un diramarsi di torrenti che vanno verso il Po». Siamo nel 1957: ormai la tecnologia ha definitivamente promosso la sismica a riflessione come il sistema più efficace per individuare le “trappole” nel sottosuolo dentro cui può essersi accumulato il giacimento. La tecnica consiste nel generare onde sismiche che si propagano nel terreno e nel “leggerle”una volta che esse vengono riflesse in superficie: per energizzare il terreno in vicinanza di case si usano grossi camion che battono su di esso; in spazi aperti ci si serve invece di piccole cariche di dinamite, fatte esplodere alla profondità di novedodici metri. Le onde riflesse vengono catturate da sensori chiamati geofoni, e dal tempo intercorso fra la generazione delle onde stesse e il loro ritorno in superficie è possibile ricostruire la diversa composizione degli strati geologici. Un procedimento nel complesso semplice, che l’articolista non manca però di descrivere con un po’ di indispensabile “pathos”: L’artificiere tiene la mano sul pulsante dell’accensione. Tutto è pronto: «Fuoco!». Il terreno sobbalza, vibra sull’invisibile spirale della ripercussione. Lo schermo del registratore s’illumina di fulminei tratti rossicci. I geofoni hanno captato le gradazioni dello scoppio, le hanno trasmesse, e l’ago, come su di un elettrocardiogramma, ha segnato sulla pellicola le linee che indicheranno la conformazione degli strati del sottosuolo.

Da lontano i contadini osservano incuriositi e qualche volta preoccupati le operazioni degli uomini con l’elmetto: riceveranno delle compensazioni per i danni 41 Seguendo una squadra dell’Agip mineraria, in «Il gatto selvatico», anno 3, numero 6, giugno 1957.


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fatti ai campi, ma «sono gelosi del loro raccolto e spesso diffidenti di tutto ciò che non fa parte della loro vita», e vogliono essere sicuri che alla loro terra «non venga fatto troppo male». I componenti della squadra sismica sono in tutto ventisei, fra responsabili, tecnici e operai: l’articolo ce li descrive con le fattezze contadine, con in volto «l’impronta di una fatica lenta e caparbia», e soprattutto con la consapevolezza del carattere pionieristico della loro impresa: il complicato e frenetico mondo degli interessi legati al petrolio appare lontano mille miglia dal silenzio della campagna e dalle parole scarne dei protagonisti. I profili sismici realizzati vengono inviati alla Direzione di San Donato, dove il servizio geologico li interpreta: ogni linea, ogni tracciato viene letto, calcolato, controllato, ma anche se il responso è positivo il lavoro è solo all’inizio, occorre accertare se la possibile trappola contiene davvero idrocarburi (e non, magari, acqua) e se la quantità sia economicamente sfruttabile. Per saperlo si deve necessariamente realizzare un pozzo esplorativo, la cui funzione viene descritta in modo efficace da Enrico Barbieri, attuale responsabile per le perforazioni della Stogit42: Il pozzo esplorativo serve per confermare il risultato degli studi sismici, quindi per confermare la sequenza, lo spessore, le caratteristiche e la profondità delle rocce individuate con la sismica di riflessione, e consente di raccogliere informazioni dirette sulle caratteristiche petrofisiche della roccia serbatoio (porosità, permeabilità43) attraverso la raccolta di campioni che poi verranno analizzati in laboratorio, e di verificare la presenza e la qualità dei fluidi contenuti nella roccia serbatoio

Il pozzo esplorativo è una scommessa, una delle tante che i pionieri del petrolio si trovano ad affrontare. L’Ufficio lavori di Crema, competente per la costruzione del cantieri di perforazione in tutto il bacino padano, è quello a cui spetta collaborare alla verifica se tale scommessa andrà a buon fine: Attraverso lo studio di giacimento i geologi vedevano dove si poteva perforare e fornivano le coordinate. Con le coordinate si andava a vedere il terreno e attraverso il Comune o un contatto sul luogo si individuava il proprietario: se questo era d’accordo il terreno veniva acquistato o preso in affitto. Non era detto che il pozzo fosse produttivo, era sempre una scommessa, ma di regola due su tre erano buoni. Se non era così si puliva tutto, si chiudeva e si tornava a casa44.

Vittorio Maioli, che fra gli anni Sessanta e Ottanta ha avuto la funzione di sovrintendere a questo ufficio, ci ha fornito un quadro molto vivo delle spedizioni della squadra di perforazione su e giù fra la pianura e l’Appennino. In tale quadro il tempo appare l’elemento decisivo: la complessità del lavoro e gli enormi costi che 42 Lezione agli studenti dell’Istituto Pacioli di Crema, 19 marzo 2012. 43 Le caratteristiche di porosità e permeabilità sono condizioni indispensabili perché una roccia possa contenere idrocarburi. 44 Intervista a Vittorio Maioli, 15 febbraio 2012.


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esso comporta fanno sì che non si possa perdere giornate preziose. Non sempre i proprietari sono così disponibili a rinunciare al loro pezzo di terra: in realtà in questi casi l’eni avrebbe per legge la possibilità di espropriare, ma di regola si preferisce evitare azioni di forza, e giungere ad un accordo: Avevo dieci, dodici persone a disposizione, che curavano questa parte di preparazione. La Direzione ci diceva: domani andiamo a fare la perforazione lì, e noi si partiva. I proprietari dei terreni non erano sempre condiscendenti, ma grazie alla bravura dei tecnici in vent’anni abbiamo fatto solo un esproprio: riuscivamo sempre a convincerli che si trattava di una cosa buona e utile all’Italia. Di solito in pochissimi giorni si partiva: il mio record è stato quando mi hanno dato le coordinate del terreno alle quattro del pomeriggio e alla mattina del giorno dopo era già iniziato il lavoro: ho lavorato tutta la notte per acquisire l’area e fare il contratto con l’impresa per la postazione di perforazione.

Se i carotaggi, le analisi dei fanghi e dei detriti di roccia e i diagrammi registrati nel pozzo esplorativo45 danno i risultati sperati e se la qualità e la quantità del prodotto accertate dagli studi di giacimento rendono economicamente proficua la sua coltivazione, si procede allo scavo dei pozzi di produzione e al loro completamento. L’avviamento dei lavori di perforazione e di installazione degli impianti devono essere preceduti da accordi con il Comune interessato dal cantiere, sui cui inevitabilmente la nuova installazione provocherà ricadute non indifferenti, che a loro volta genereranno resistenze da parte della popolazione, già per sua natura abbastanza diffidente nei confronti della ricerca di idrocarburi nel sottosuolo. Anche le perplessità delle amministrazioni vengono però di solito superate in modo rapido attraverso il riconoscimento di adeguate compensazioni. Vittorio Maioli ha descritto in modo efficace il “metodo” seguito dall’agip nelle relazioni con il territorio, evidenziando come esso permettesse di velocizzare il lavoro preparatorio, al contrario, secondo lui, di quanto avviene oggi, per colpa della burocrazia che ostacola e rallenta: Allora si andava in Comune e se c’era qualche strada da allargare o un ponte da aggiustare per far passare le macchine ci pensavamo noi. Mi ricordo una volta, sull’Appennino piacentino c’era una strada per la quale il sindaco ci ha detto che non saremmo mai passati, perché franava tutti gli anni. Gli abbiamo detto di lasciarci fare: l’abbiamo aggiustata in modo tale che ancora oggi è in funzione. Così le amministrazioni di solito non ci vedevano male, perché avevano una contropartita: il sindaco si trovava la strada sistemata senza spendere nulla.

Con il passare degli anni, in realtà, la materia delle compensazioni da riconoscere ai Comuni non sarà più lasciata all’iniziativa del privato o dell’Ente interessato ai lavori, ma verrà disciplinata dal legislatore: la legge 6 agosto 1967 n. 765 (meglio conosciuta come “Legge ponte” e valida per ogni tipo di utilizzazione 45 I diagrammi servono per determinare la natura dei terreni attraversati e quella dei fluidi contenuti. A fianco: Prova di produzione di gas



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del territorio diversa da quella agricola) prevedrà infatti per chi intende realizzare l’insediamento l’impegno contrattuale a realizzare tutte le opere di urbanizzazione primaria (strade, rete idrica, illuminazione ecc.), nonché a contribuire in parte a quelle di urbanizzazione secondaria necessarie a far fronte a tutti gli effetti indotti dall’insediamento stesso. L’insorto obbligo di legge non priva tuttavia di significato il “metodo agip”, come ci è documentato da un’interessante relazione sull’avviamento dell’impianto di Malossa nel 197446, che risulta assai utile anche per comprendere quali in concreto siano le conseguenze prodotte sul territorio da un cantiere di perforazione. Il documento si apre riconoscendo che le ricerche petrolifere, pur auspicabili per il superiore interesse della comunità nazionale, provocano effetti sull’area di insediamento (ed in particolare sui servizi pubblici comunali) che devono essere accuratamente valutati in via preventiva. Tali effetti vanno dall’incremento del traffico stradale (determinato non solo dai lavori in corso, ma anche, si sottolinea, «dall’interesse e dall’attrattiva che questo eccezionale intervento suscita») alla sopravvenuta inadeguatezza degli uffici comunali (che dovranno essere potenziati per affrontare i nuovi compiti che saranno chiamati a svolgere), alla necessità di aumentare i servizi essenziali (rete fognaria, viabilità comunale, infrastrutture scolastiche e sportive, parcheggi) per accogliere il personale impegnato nella realizzazione e nella successiva gestione e manutenzione degli impianti. In ragione di tutti questi elementi, prosegue la relazione, il Comune di Casirate ha richiesto all’agip un contributo di 180 milioni di lire, che la società ha deciso di non contestare né contrattare in alcun modo, per velocizzare il progetto ed evitare che si crei «un’atmosfera di tensione con conseguenze negative per la [nostra] permanenza in zona». Una volta raggiunto l’accordo con il Comune interessato, viene avviata la preparazione del campo: La preparazione del campo durava circa un mese: prima si scorticava il terreno, perché solitamente il terreno agricolo non ha portanza, cioè non può reggere il peso delle macchine. Così si asportava lo strato di superficie e al posto del terreno si mettevano settanta o ottanta centimetri di ghiaia (a volte anche fino a un metro), poi si preparavano i vasconi (la perforazione usa fango che quando non è più utilizzabile si elimina e va stoccato momentaneamente nei vasconi prima di essere trasportato nelle discariche). In seguito si allestiva la piattaforma in cemento armato per la macchina di perforazione, con la cosiddetta cantina, dove la torre di perforazione era posizionata con le aste di perforazione. Venivano anche sistemate le pompe per aspirare l’acqua e i fanghi. Infine si allestivano gli uffici e le baracche per i lavoratori47.

Completato il montaggio degli impianti inizia la perforazione vera e propria di 46 Appunti relativi alla convenzione Agip – Comune di Casirate, 2 dicembre 1974, in Archivio storico eni, Fondo eni Presidenza, I. II. 1, busta 9. 47 Intervista a Vittorio Maioli, 15 febbraio 2012.


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un numero di pozzi variabile, ma comunque sufficiente a coprire tutto il giacimento. Dalle narrazioni dei lavoratori intervistati possiamo ricavare un quadro sintetico (senza addentrarci in dettagli troppo tecnici, che ci troverebbero necessariamente inadeguati!) di come si sviluppa tale fase. La perforazione di un pozzo viene realizzata utilizzando una torre a traliccio che consente di manovrare le attrezzature per lo scavo e il materiale all’interno del pozzo. Le attrezzature sono costituite da un sistema di rotazione a cui sono appese delle aste cave, all’estremità delle quali è avvitato lo scalpello che va a frantumare la roccia. I detriti che si formano nello scavo vengono riportati in superficie pompando del fango attraverso le aste: il fango esce dallo scalpello, ingloba i detriti e li porta all’esterno, dove vengono separati e poi raccolti e analizzati per ricostruire la sequenza delle rocce attraversate48. Il fango iniettato nel pozzo ha anche un’altra funzione: quella di controbilanciare le pressioni che si vanno ad incontrare nel giacimento e quindi di impedire eruzioni. In fase di completamento del pozzo vengono poi installati i tubi che servono a far transitare i fluidi dalla formazione produttiva alla superficie, dei filtri, che permettono di tenere confinata la sabbia del giacimento, e delle valvole di sicurezza, che permettono di regolare il flusso dell’idrocarburo e in caso di necessità di interromperlo. Alla fine si allestisce la testa pozzo (l’unica parte visibile di esso), dove sono presenti altre valvole di sicurezza. A quel punto il pozzo è pronto, e si passa all’allestimento degli impianti di superficie (con eventuali centrali di compressione, disidratatori, generatori di energia ecc.). Dal breve quadro tracciato si potrebbe ricavare la falsa impressione che col trascorrere degli anni nel lavoro di cantiere la tecnologia abbia via via finito per sostituire il lavoro umano. In realtà è vero che molti passi sono stati fatti: quando nel 1929 Mazzini Pissard approda nei campi petroliferi della pianura Padana rimane vivamente impressionato dalla durezza del metodo di perforazione a percussione: il manovale è costretto per dodici ore ininterrotte (tale è la durata del turno) a gesti ripetitivi, che al giovane sardo fanno venire in mente i sistemi di irrigazione dei terreni in uso nella sua isola, con «un asino, con occhi bendati, che gira attorno ad un pozzo tirando una stanga49». Per non parlare dello sforzo fisico: L’estrazione dello scalpello e il ritiro dei tubi consistono in un lavoro molto pesante per il personale. Non esistono attrezzature meccaniche ausiliarie e tutto si fa a mano con l’aiuto di paletti e stanghe. I manovali procedono a svitare i giunti, a portare fuori dalla torre e sistemare per terra quanto svitato. Per sveltire l’operazione il perforatore scende la taglia con una certa velocità, quindi il manovale, o i manovali, devono correre trasportando a spalla l’estremità dell’asta o spingendo il vagoncino dove è stato 48 Uno studio dettagliato sui sistemi di perforazione si trova in R. Mazzei, Sintesi delle attività di esplorazione, sviluppo e produzione dei giacimenti petroliferi, maggio 2009. Il pozzo è a diametro decrescente e alla fine della perforazione il foro viene rivestito con tubi di acciaio che vengono ancorati mediante operazioni di cementificazione. 49 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 37.


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La piccola “America” appoggiato il tubo50.

La progressiva introduzione del sistema rotary, nella prima metà degli anni Trenta, ha permesso grossi miglioramenti nella velocità e nella profondità delle perforazioni, ma il lavoro manuale ha continuato a rimanere prevalente. Solo con la grande stagione della ricerca mineraria avviata da Mattei nell’immediato dopoguerra, e con l’utilizzo sempre maggiore della più avanzata tecnologia d’Oltreoceano, la situazione ha iniziato davvero a cambiare. Mazzini Pissard, chiamato a dirigere il campo di Cortemaggiore, è stupefatto dalle «meravigliose americanate» introdotte dagli impianti di perforazione californiani, che consentono straordinari risparmi nei tempi, ma soprattutto affidano alla tecnologia quello che prima era esclusivo frutto del sudore umano: laddove in precedenza si operava con «paranco, rulli e palanchini» ora una sola gru fa tutto il lavoro51. Il miglioramento dal punto di vista dell’impegno fisico (ma anche da quello della sicurezza dei lavoratori52) è proseguito ininterrotto nei decenni successivi, ma questo non toglie che la vita dei perforatori e dei manutentori degli impianti sia rimasta comunque dura e con elementi di notevole disagio. Alcuni addetti alla manutenzione ci hanno raccontato lo svolgimento della loro giornata lavorativa. Anche dopo il completamento del cantiere e l’inizio della produzione l’attività non viene certo a decrescere. Prima di tutto il giacimento deve essere costantemente monitorato: La nostra unità seguiva tutta la vita produttiva del pozzo: il primo studio di giacimento chiaramente non è preciso, si conosce la permeabilità e la porosità della roccia in un punto, ma a duecento metri di distanza può essere diverso, quindi ogni anno occorreva fare una rivalutazione delle riserve. Si calcolava di quanto era scesa la pressione e questo permetteva annualmente di avere un quadro più preciso sull’effettiva capacità produttiva del giacimento. Si facevano dei test di portata o dei test di pressione e di temperatura53.

Inoltre ogni pozzo è oggetto di regolare manutenzione: quella prevista ogni anno, ma anche quella che può rendersi necessaria in caso di situazioni particolari. I tecnici addetti a questo incarico visitano i cantieri dove si presentava un problema, spesso anche fuori dal bacino padano. Un’attività (chiamata tecnicamente wire line) definita in alcune interviste «affascinante»: le apparecchiature calate dentro al pozzo vengono controllate dalla superficie e i valori forniti devono essere interpretati dall’esperienza dell’operatore. Ciò comporta la capacità da parte del tecnico di

50 Ibidem, p. 38. 51 Ibidem, p. 99. 52 Dell’aspetto della sicurezza e dei rischi del lavoro in cantiere ci occuperemo diffusamente nel capitolo 4. 53 Intervista a Giovanni Rossi, 6 marzo 2012.


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«imparare a cavarsela, a capire come risolvere i problemi da solo54», a tutto vantaggio della propria professionalità. Un’attività però anche faticosa, per i ritmi frenetici («il lavoro era tantissimo, le compagnie di servizi non esistevano, facevamo tutto noi dalla a alla zeta»), ma anche per i tempi imposti dalla natura degli interventi: L’attività di wire line era molto particolare e complessa: impegnava in pratica 365 giorni all’anno, partivi e non sapevi mai quando tornavi. Sui derrick c’erano problematiche da gestire e siccome non c’era un caso uguale all’altro, ogni pozzo era diverso, anche i tempi erano difficili da prevedere: 8 ore, 20 ore, in tutta Italia. Se andava bene in una giornata facevi tutto e tornavi a casa, ma spesso e volentieri arrivavi a 36‑48 ore ininterrotte di lavoro. La nostra squadra doveva infatti rimanere fino al completamento del lavoro. L’Unmig, l’ufficio statale per la sicurezza del sottosuolo che ha sede a Bologna, imponeva che non si potesse lasciare il lavoro fino a che tutto non fosse stato messo in sicurezza. È difficile passare le consegne a qualcun altro che non ha visto quello che c’è stato prima, e spiegarlo è difficile… così si doveva rimanere fino alla fine. Mi ricordo che una volta siamo arrivati a 53 ore filate, con solo delle pause, a turno, per mangiare.

Un impegno durissimo, reso ancora più gravoso dai fattori atmosferici: il lavoro si svolge tutto all’aperto, con qualsiasi clima e in qualsiasi condizione: La fatica derivava anche dagli elementi atmosferici: se pioveva prendevi l’acqua, se c’era il sole prendevi il caldo, se c’era la neve gelavi… lì eri e lì dovevi rimanere, nel punto preciso dove operavi. I primi due anni a causa di questo ogni tanto ero a casa con la febbre, il fisico cedeva… Poi si deve essere temprato, perché non ho più avuto un raffreddore!

La fatica del lavoro non escludeva naturalmente chi era chiamato a dirigere i cantieri, specialmente se viveva l’avventura del petrolio davvero con lo spirito dei pionieri, quindi in modo assolutamente totalizzante. È il caso di Mazzini Pissard, sulla cui figura già in diverse occasioni abbiamo avuto modo di soffermarci, ma che riteniamo meritevole ancora di altri cenni, per come incarna in sé i tratti distintivi di tanti della sua generazione. Mazzini Garibaldi Pissard Il 28 ottobre 1929 un giovanissimo sardo si presenta presso la Direzione ricerche dell’agip per l’Alta Italia, che ha sede a Medesano, un minuscolo villaggio del Parmense: ha appena terminato gli studi minerari, e l’Istituto di Iglesias dove si è brillantemente diplomato gli ha offerto la possibilità di andare sul continente ad approfondire le sue conoscenze nel settore del petrolio grazie ad una borsa di studio messa a disposizione dalla stessa agip. Mazzini Garibaldi ha accolto l’offerta con entusiasmo: il viaggio fuori dalla Sardegna rappresenta già di per sé un’avventura, ma tutto diventa ancora più attraente se la prospettiva è quella di «lavorare a cielo 54 Il testo, come quelli successivi è tratto dall’intervista a Alberto Mocchi, 6 marzo 2012.



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aperto, e non sottoterra come le talpe55». In realtà la permanenza garantita dall’Ente petrolifero è di soli tre mesi, nel corso dei quali il ragazzo dovrà dimostrare le sue capacità se vuole che l’avventura padana abbia un seguito, ma il giovane Pissard non è tipo da farsi scoraggiare dalle difficoltà. Nemmeno da quelle meteorologiche: l’inverno del ’29 passerà alla storia per essere stato uno dei più freddi del secolo, e per chi è sbarcato dal traghetto in abiti di tela l’adattamento non è certo facile: Il dramma più grave avvenne la sera della prima nevicata. […] A Pieve56 quella sera la campagna era completamente bianca, coperta da uno spesso manto di neve, a malapena si distinguevano gli alberi e le siepi; le strade non erano illuminate per cui mi persi. La paura di non ritrovare la strada e di morire assiderato fu tanta, la disperazione non mi faceva più avvertire il freddo; camminavo guardando l’infinito che mi circondava sperando di vedere un lumicino di una cascina, la salvezza57…

Ancora più duro delle basse temperature è comunque l’impatto con i diversi costumi sociali che “il continente” esibisce rispetto alla assai meno… emancipata Sardegna. Leggiamone il racconto che ne ha fatto Paolo Pissard: Sull’isola non era pensabile fare un incontro con una ragazza in sala da ballo: a Iglesias nelle balere gli uomini ballavano con gli uomini, poi c’erano i locali dove le ragazze ballavano fra loro. Di diverso c’erano le feste di compleanno e i matrimoni, dove tuttavia l’occhio vigile delle madri delle ragazze era assolutamente scoraggiante… Mio padre si è così trovato in un mondo del tutto diverso, che ha dovuto studiare e che gli ha procurato anche alcune situazioni spassose: ad esempio nelle balere si usava che le dame cambiassero i cavalieri, ma lui non lo sapeva, e la prima volta che sono venuti a portargli via la dama per poco non scoppiava una rissa! Poi gliel’hanno spiegato e l’allarme è rientrato, ma il suo spirito sardo è uscito immediatamente58…

Neppure il primo approccio con il lavoro è privo di difficoltà: abbiamo già visto la sorpresa di Pissard nel constatare l’empirismo che caratterizza il lavoro di perforazione e che gli appare anni luce lontano dall’organizzazione dell’attività mineraria. Per fortuna a fare da guida al giovane tecnico c’è una figura quasi leggendaria dell’universo agip, quella di Italo Veneziani59. Pissard impara da lui una lezione importantissima, che non mancherà di fare propria nel corso di tutta la sua vita lavorativa: il non essere geloso delle proprie conoscenze, la disponibilità a metterle a disposizione degli altri. Di questo straordinario maestro Pissard traccia un ritratto ammirato e devoto: 55 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 32. 56 Pieve Cusignano è la località dove Pissard trova alloggio, in una stanza presso la locale osteria: letto, sedia e sgabello, con latrina all’esterno, esposta alle… intemperie. 57 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 40. 58 Intervista a Paolo Pissard, 17 aprile 2012. 59 Italo Veneziani è stato uno dei più grandi esperti di perforazione petrolifera dell’agip. Dopo aver lasciato la società, nel 1940, fondò la Società Anonima Imprese perforazioni, da cui sarebbe nata la saipem. A fianco: Recupero delle aste di perforazione dopo l’attività di carotaggio


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La piccola “America” Col tempo imparai a conoscere l’ingegner Veneziani e constatai che era l’unico esperto eccelso, umanissimo e con uno spiccato senso dello humor […]. Era attivo e dinamico, pensate che ogni giorno visitava tutti i cantieri, diversificando sempre l’orario per evitare consuetudini e perché il suo arrivo doveva essere una sorpresa. Era un trascinatore, mi affascinò e mi conquistò al punto che lo amavo quanto il mio papà60.

Grazie agli insegnamenti di Veneziani, e all’impegno e alla passione dimostrati, alla scadenza dei tre mesi di apprendistato Pissard viene confermato nel ruolo di capo perforatore, e inizia una carriera luminosissima, che gli farà raggiungere ruoli molto importanti prima nell’agip e poi nell’eni, per conto della quale dirigerà e coordinerà cantieri in ogni parte del mondo61. Mantenendo sempre, nei rapporti interpersonali, la stessa regola di condotta: Con la sua idea di libertà e di rispetto per il prossimo mio padre ha sempre trattato superiori e colleghi allo stesso modo: se uno meritava la sua stima l’aveva, se uno non se la meritava non c’era niente da fare […]. La sua onestà non era solo interiore, ma si manifestava anche verso gli altri. Allora c’era un rapporto molto diretto riguardo alle assunzioni e ai licenziamenti, e lui non ha mai tollerato i ladri. Così quelle poche volte che ci sono state situazioni del genere è stato inflessibile. Per il resto invece ha sempre cercato di insegnare a tutti, consapevole della necessità di creare nuove generazioni di tecnici competenti62. Sono sempre stato più rigido con me stesso che con gli altri, tanto che nessuno ha mai potuto dire “predica bene ma razzola male”. Fondamentalmente non tolleravo inetti, falsi e ladri. Sul lavoro esigevo sincera collaborazione anche tra nemici; non ammettevo la bestemmia, sopportavo il turpiloquio63.

L’inflessibilità nei confronti di certe mancanze gravi non è ovviamente apprezzata da tutti e soprattutto nei convulsi anni della guerra capita che qualcuno si risenta non poco, arrivando a proferire minacce nei confronti del capo perforatore. Ma Pissard si inventa un sistema senza dubbio originale e… unico per coprirsi le spalle, approfittando della fama non proprio tranquillizzante che ancora circonda la Sardegna e i suoi abitanti: … In quel tempo [noi sardi] eravamo considerati banditi sanguinari. Ergo, è opportuno far credere che sono di Orgosolo. È il paese che ha la nomea di essere la culla del banditismo. Quando mi capita di parlare di questi fattacci, dico che sono stanco di sopportarli alla guisa continentale e che agirò secondo il nostro costume: aspettare il nemico in un posto isolato, o non visti per la nebbia o l’oscurità, bloccarlo con una testata nello stomaco. O una ginocchiata nei paesi bassi, squartagli il petto, mangiare 60 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 36. 61 Dopo il periodo a Crema Mazzini Garibaldi Pissard diventò come detto capo perforazioni della saipem, ed in tale ruolo si trovò a concludere accordi per conto della società fra Stati Uniti, Medio ed Estremo Oriente e a dirigere lavori in Argentina, Iran e Nord Europa. 62 Intervista a Paolo Pissard, 17 aprile 2012. 63 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 56. A fianco: Operatore con valvola di regolazione



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La piccola “America” il cuore ancora caldo e sorseggiando col suo sangue. Queste mie intenzioni sono state divulgate come confidenza da non dire a nessuno. Risultato: casi simili non sono più occorsi64…

Nella fedeltà a questi rigorosi principi, l’impegno di Pissard è assolutamente totalizzante, non solo quando la carriera lo costringerà a frequenti soggiorni all’estero, ma anche negli oltre sette anni (dal luglio 1950 al dicembre 1957) trascorsi come responsabile del Settore cremasco: nella postfazione alla biografia il figlio ricorda come Mazzini si considerasse «reperibile 24 ore su 24, 7 giorni su 765» e come questo non sia stato privo di conseguenze per la famiglia. Con grande amore, ma anche con non poco rimpianto Paolo Pissard ha scritto: Papà, dal punto di vista della coscienza era per la libertà: la sua religione, mi piace ripeterlo, era quella del dovere, cioè dare il meglio di se stesso sul lavoro, essere onesto col prossimo e nei confronti della famiglia. Non è vero! Non è mai stato così. Papà è stato un ladro, e lo ammette lui stesso. Ha rubato, in continuazione. Ha rubato tantissimo. Ha rubato tempo, tanto tempo, a sua moglie e a me, privilegiando i doveri invece dei diritti. Perché non ha fatto almeno fifty fifty66?

Ad influire su questa disponibilità totale nei confronti della società e del lavoro interviene sicuramente una convinzione che Mazzini conserverà intatta per tutto il suo lungo percorso lavorativo: per fare un buon tecnico gli studi non sono sufficienti, la pratica, l’esperienza maturate giorno per giorno a fianco dei grandi maestri (come per lui è stato Veneziani) rappresentano una condizione indispensabile di crescita professionale. Da qui la naturale diffidenza che egli prova nei confronti di quanti pensano di usare il loro titolo accademico per “insegnare il mestiere” a chi nei cantieri lavora da una vita. Da qui le delusioni provate quando, dopo il pensionamento nel 1968, Pissard inizia un’attività come libero professionista sempre nel campo del petrolio, offrendo assistenza consultiva e progettazione e occupandosi anche di direzione dei lavori in vari cantieri in Italia. I tempi infatti stanno cambiando, e se da una parte la burocrazia sembra ormai costituire un ostacolo insormontabile per quella rapidità di decisione e di esecuzione a cui Mazzini è stato abituato, come si ricava da queste osservazioni relative da un prestigioso incarico che gli viene affidato a Venezia: Per forare un pozzetto di 1.000 metri, ed un buchino di 8 centimetri, sono stato impegnato saltuariamente dal giugno 1969 al maggio 1972. In tre anni ho perforato 450 pozzi profondi 2.000 in Patagonia67… 64 65 66 67

Ibidem, p. 56. M.G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 178. Ibidem, pp. 193-194. Ibidem, p. 159. Pissard era stato incaricato dal Cnr della progettazione di sondaggi profondi nell’area lagunare. Tali sondaggi avevano lo scopo di determinare la natura dei sedimenti, il loro comportamento meccanico e le caratteristiche dei fluidi presenti nel sottosuolo di Venezia, per po-


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dall’altra Mazzini deve prendere atto con amarezza che i titoli ormai valgono di più di decenni di pratica sul campo: Alla fine della sua attività mio padre ha avuto un grosso dispiacere. Quando collaborava con il Cnr di Venezia lui era l’unico perito minerario in mezzo a un mare di laureati, ma l’hanno lasciato lavorare lo stesso. Qualche anno dopo invece in Sardegna non l’hanno voluto (anche se mio padre si sarebbe accontentato del rimborso spese) perché il titolo di studio è stato ritenuto inadeguato alla mansione. C’è rimasto malissimo e ha deciso di chiudere col lavoro. Proprio la sua isola l’aveva tradito68

Sì, i tempi stanno davvero cambiando, e, rendendosene conto, Mazzini Pissard preferisce dire addio al mondo del petrolio: lo fa non senza fatica, e negli anni del suo meritato riposo continua a sognare di piattaforme e perforazioni. Lo spirito del pioniere non riesce proprio a morire.

ter individuare le cause della subsidenza in atto. Allo stesso incarico fa cenno anche Paolo Pissard nella testimonianza riportata di seguito. 68 Intervista a Paolo Pissard, 17 aprile 2012. In Sardegna Pissard avrebbe dovuto occuparsi dello studio mediante carotaggi di una miniera per valutare la convenienza di estenderla in profondità.



GLI ANNI D’ORO DELLA PERFORAZIONE

La febbre del petrolio La scoperta del petrolio di Cortemaggiore suscita nel Paese un’ondata di eccitato entusiasmo. I giornali dedicano all’oro nero italiano intere pagine di speranzosi commenti e sulla scia di questa attenzione mediatica l’opinione pubblica comincia davvero a pensare che il ritrovamento piacentino cambierà le sorti dell’Italia, assegnandole finalmente un ruolo da protagonista sulla scena mondiale dell’energia. Anche i tanti che non sanno quasi nulla della materia cominciano ad interessarsi di petrolio e l’attenzione si estende anche al metano, sulle cui potenzialità ai fini dello sviluppo del paese sono invece ancora ben pochi a scommettere. L’ignoranza è così diffusa che molti sono ancora convinti in assoluta buona fede che i ritrovamenti di idrocarburi non siano frutto di rigorosi studi geologici e geofisici, ma il risultato di pratiche che con la scienza hanno poco o niente a che fare. Così i cercatori della val Padana appaiono ai più come una sorta di moderni stregoni, arrivati ad individuare le preziose sostanze nel sottosuolo grazie agli artifici della loro magia o solo in virtù di una sorte benevola. D’altra parte anche fra gli addetti al mondo del petrolio dei primi anni la componente magica, o quanto meno scaramantica, non è del tutto estranea, e si mescola senza particolari problemi all’aspetto scientifico della ricerca. Mazzini Pissard ricorda nel suo diario come negli anni Trenta illustri geofisici iniziassero le indagini su un terreno con la gravimetria e la sismica a riflessione, ma poi si avvalessero di sistemi decisamente originali per individuare il punto preciso in cui collocare il pozzo esplorativo. Per l’Alta Italia provvedeva l’eccelso professor Anelli, insegnava all’Università di Parma e Modena, scherzosamente si diceva che ubicava il pozzo nelle vicinanze di ottime osterie: per l’Italia centro-meridionale provvedeva il professor Migliorini, dell’Università di Firenze. Una volta individuata l’area di grande massima, invitava un bimbo mascotte a fare la pipì dove voleva, e in quel punto veniva ubicato il pozzo1…

Le scarse conoscenze sugli idrocarburi e sui sistemi per individuarli fa sì che la scoperta dell’oro nero di Cortemaggiore scateni una vera e propria febbre fra la gente: in moltissimi, soprattutto nel Nord Italia, si convincono di poter fare proprie le virtù “magiche” dei ricercatori, e altrettanti sono coloro che arrivano a 1 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 52.


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pensare, e ad augurarsi, che anche il proprio campo o il proprio giardino posseggano potenzialità petrolifere dalle quali scaturiranno ricchezze e fortuna. Questa febbre travolge un po’ tutti, contadini, operai, professionisti, pensionati: tutti in qualche modo sognano di condividere la grande avventura e con questo sogno in testa prendono carta e penna e scrivono lettere piene di speranza alla sede dell’agip Mineraria più vicina o direttamente alla Direzione di Roma. Presso l’archivio storico dell’eni un intero fascicolo2 è dedicato a queste missive: si tratta di testimonianze che spaziano nell’arco di tre decenni, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, ma che tutte insieme raccontano di un’Italia infinitamente diversa dall’oggi, un’Italia senza dubbio ingenua, ma anche autenticamente partecipe ed entusiasta della nuova era che le si stava spalancando davanti. Riteniamo opportuno dedicare almeno un piccolo spazio a qualcuna di queste lettere, non solo per la fiduciosa genuinità che appunto le caratterizza, ma anche perché ciascuna di esse, anche quelle dal contenuto più improbabile, riceve attenzione da parte della società, che non manca mai di dare puntuale risposta alle richieste. Il numero più consistente di comunicazioni riguarda i rabdomanti o radioestesisti: una gran quantità di loro propone i propri servigi alla società, allegando biglietti da visita e qualche volta persino un curriculum che riporta i presunti successi ottenuti nella professione. Una di queste “proposte di collaborazione” viene indirizzata direttamente ad Enrico Mattei: Siamo in possesso di interessanti notizie trasmesseci a suo tempo da un illustre radioestesista belga, di fama europea, circa l’esistenza di un giacimento di petrolio e metalli in un punto ben localizzato della pianura Padana. Stante il forzato rifiuto finora avuto da parte di importanti Ditte, sia europee che americane impossibilitate ad ottenere il diritto di ricerca in tale zona, ed intendendo comunque porci nelle condizioni di sfruttamento, Le chiediamo Signor Presidente se l’Ente che Lei tanto sapientemente presiede non fosse disposto ad assumersi l’onere che tale concessione comporterebbe, dietro un minimo compenso a nostro favore. Veniamo a precisare che i vari strati di utilizzazione si trovano a profondità più che accettabili, talché la spesa di estrazione non dovrebbe essere molto gravosa3…

Tale tipo di missive riceve dalla società sempre la stessa risposta. In questo caso essa è a firma del direttore generale di agip Mineraria Tiziano Rocco: … Vi comunichiamo che la nostra società non tiene mai in alcun conto le segnalazioni fornite da rabdomanti, pertanto quanto da Voi prospettato non riveste per noi alcun interesse4. 2 Archivio storico eni, Fondo agip Ricerche e produzione, AB III 4, busta 362. 3 Lettera da Mogliano Veneto del 18 agosto 1962. L’accenno al «forzato rifiuto» allo sfruttamento da parte di società straniere fa riferimento alla legge che nell’estate del 1951 aveva attribuito all’agip il monopolio sulla ricerca e la coltivazione degli idrocarburi in valle Padana. 4 Lettera del 5 settembre 1962. Tiziano Rocco è stato una delle più illustri figure di tecnico dell’a-



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A volte le lettere sono il frutto di errate interpretazioni di fenomeni rilevati presso il luogo di residenza dei mittenti: Io sono proprietario di circa 3 ettari di terreno nel comune di Resana vicino Castelfranco Veneto e nel mio fondo e in altri fondi vicini che confinano con il corso d’acqua Dese, spesso nei rigagnoli d’acqua che sfociano in detto corso, si vedono una specie di chiazze di nafta, di olio ecc. Vorrei così solo sapere a chi rivolgermi per fare un sopraluogo e vedere da cosa dipendono quelle chiazze. […] Io non ho i mezzi e nemmeno la competenza, ed è per questo che mi rivolgo a loro con la speranza d’avere una cortese risposta5…

E la risposta in effetti arriva, cortese e puntuale: Le comunichiamo che il fenomeno da lei descrittoci è comunissimo. Lo stesso però non ha alcun legame con l’esistenza o meno di idrocarburi nel sottosuolo. I numerosi sopraluoghi fatti eseguire dalla nostra società dietro segnalazioni identiche alla Sua, hanno precisato che le tracce di sostanze iridescenti presenti in alcune acque, e che a prima vista sembrerebbero dovute a idrocarburi, non sono altro che ossidi di ferro, che per l’appunto conferiscono tale aspetto alla superficie delle acque6.

Alcuni vedono una speranza di ricchezza anche dall’affioramento dal terreno di sostanze che assomigliano al petrolio. Una raccomandata del 19747 (siamo nel periodo della scoperta del giacimento di Malossa) segnala uno di questi affioramenti e propone che vengano eseguiti dei sondaggi. Lo scrivente è un uomo di 85 anni, padre di 10 figli, che si augura che dalla scoperta (sicura!) del giacimento possa derivare per lui e per la famiglia un «modesto compenso». La risposta della società cerca di evidenziare come la ricerca di idrocarburi sia in realtà ben più complessa di quanto possa sembrare ad occhi poco esperti: … dobbiamo precisarle che i fenomeni da Lei segnalati […], anche quando fossero effettivamente dovuti a petrolio, non hanno purtroppo alcuna relazione diretta con la possibile presenza di idrocarburi nel sottosuolo. La ricerca e l’individuazione di eventuali giacimenti sono il risultato dell’impiego di metodi e tecniche moderni e scientifici estremamente complessi, che la nostra Azienda applica correntemente a tutto il territorio italiano e sui cui risultati si basa per le sue operazioni8.

Non tutte le segnalazioni vengono però liquidate con una risposta gentile, ma… senza speranza: in qualche caso la società ritiene opportuno approfondire e chiedere pareri tecnici. Accade ad esempio per una lettera che arriva dalla Carnia

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gip. A lui si deve l’introduzione in Italia della sismica a riflessione come sistema di prospezione del sottosuolo. Lettera da Crespano del Grappa del 7 febbraio 1963. Lettera del 21 febbraio 1962. Lettera da Castel Todino (Terni) del 13 ottobre 1974. Lettera del 13 dicembre 1974. La firma è di Marco Pieri, un geologo al servizio dell’agip fin dai primi anni Cinquanta. A fianco: Malossa (Casirate d’Adda), Torre di perforazione in funzione



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alla Direzione di San Donato Milanese9 nel 1971: in essa il mittente racconta come qualche tempo prima nel corso dello scavo di una galleria per condutture d’acqua dell’enel fosse stato notato un liquido affiorante dalle spaccature che presentava un odore strano ed un alto grado di infiammabilità. Si trattava di petrolio? Alla domanda lo scrivente aggiunge una voce circolata fra gli operai che avevano eseguito il lavoro: «molti dissero che nessuno andò a fondo perché così facendo forse avrebbero ostacolato i lavori dell’enel10» e segnala che anche il carbone estratto nei pressi fino alla fine degli anni Quaranta conteneva «molto zolfo e catrame», mentre nel 1967 un esperto in materia aveva trovato traccia sempre nella stessa zona di giacimenti di uranio. La lettera presenta ai margini annotazioni a mano che indicano come l’agip non abbia subito giudicato non credibile la segnalazione: solo la consultazione di un tecnico che «esclude qualsiasi interesse per la zona» induce in un momento successivo a predisporre «due righe di risposta» del tenore di quelle precedenti. Speranze, aspettative, illusioni di ricchezza: il petrolio e il gas italiani, che la pianura Padana negli stessi anni sembra poter dispensare in grande quantità, portano anche questo. Ogni nuova scoperta induce ulteriori attese, ma comporta anche passi avanti e conquiste nelle tecnologie applicate, che portano l’agip e l’eni ad assumere un ruolo di primo piano fra gli specialisti internazionali del campo. Così accade quando in quel di Casirate d’Adda, un paesino a cavallo delle province di Milano e Bergamo, viene alla luce il giacimento di Malossa. Storia di un campo L’11 ottobre del 1974 la tranquillità agreste della località Cascine Malossa, nei pressi di Casirate d’Adda, viene sconvolta da una visita d’eccezione: il Capo dello Stato Giovanni Leone, accompagnato dal presidente del Consiglio Rumor e da quello delle Partecipazioni Statali Gullotti, vi giunge con il suo seguito di autorità, «accolto festosamente dalla popolazione». Questo racconta la cronaca della giornata, riassunta in un articolo pubblicato quello stesso mese da una rivista della società11: Dapprima Jaboli, Direttore Generale responsabile della direzione esplorazione, ha illustrato, servendosi di modelli, le varie fasi della ricerca negli strati profondi; successivamente gli ospiti sono saliti sul piano-sonda dove Girotti, Egidi, Gandolfi e altri dirigenti hanno illustrato i dettagli tecnici degli impianti e dell’estrazione già in atto. Leone si è intrattenuto cordialmente, nel corso della sua visita, con gli operai degli impianti. 9 Il centro direzionale di San Donato Milanese nasce nel 1953, su iniziativa di Mattei. 10 Lettera da Enemonzo (Udine) del 24 giugno 1971. 11 Malossa: il più vasto giacimento italiano di idrocarburi, in «Ecos», anno III, nn. 17-18, ottobre 1974. Nell’articolo si fanno i nomi fra gli altri di Raffaele Girotti, divenuto presidente dell’eni nel 1971, dopo le dimissioni dall’incarico di Eugenio Cefis, nominato alla guida di Montedison, di Dante Jaboli, un geologo che faceva parte di agip fin dagli anni Trenta, e di Egidio Egidi, che come abbiamo visto (cap. 1) aveva condiviso con Mazzini Pissard la costituzione del Settore di Crema.


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Tornato a Roma Leone invia al presidente dell’eni Girotti un telegramma molto significativo: Dalla odierna cerimonia, semplice, ma significativa, traggo la cauta, ma fondata fiducia in un nuovo sviluppo della ricerca delle fonti di energia in Italia, constatando come alla secolare penuria delle nostre risorse abbia sempre sopperito la volontà, l’intelligenza e lo spirito di sacrificio del nostro popolo. All’eni, a coloro che con ferma costanza hanno creduto a questa ricerca, continuata con impegno nonostante delusioni e insuccessi, ai tecnici, ai ricercatori, agli operai, a tutti coloro i quali hanno dato il loro contributo, invio il saluto grato e augurale della nazione12.

Ma su che cosa si fonda la «cauta ma fondata fiducia» del presidente della Repubblica? Che cosa ha di diverso e di nuovo, rispetto ai ritrovamenti che da quasi trent’anni si susseguono senza interruzione in val Padana, la scoperta di Malossa? Degli elementi per rispondere a queste domande li troviamo nella conferenza stampa che quello stesso 11 ottobre viene organizzata dall’eni al Centro direzionale di San Donato Milanese, e il cui testo è riportato nell’articolo più sopra citato: nel corso di essa Girotti si spinge ad affermare che il giacimento di Casirate «è il più grosso mai individuato in Italia in tutti questi 25 anni di lavoro13», con una riserva accertata di 50 miliardi di metri cubi di metano e di 40 milioni di tonnellate di petrolio. Non è solo l’estensione a fare di Malossa un sito speciale: il suo spessore produttivo è di oltre mezzo chilometro, «il che non si era mai verificato in giacimenti trovati nel nostro paese14». A quest’ultimo dato si aggiunge un’altra caratteristica, forse la più peculiare, del ritrovamento, cioè la sua profondità: i tre pozzi scavati a Casirate vanno dai 5.000 metri a ben oltre i 6.000, migliaia di metri in più di quelli realizzati fino a quel momento. Un articolo tecnico, contenuto nella stessa rivista15, racconta come si è riusciti ad arrivare a questa profondità, ed è una storia decisamente interessante. Ancora prima del secondo conflitto mondiale si era ipotizzato che potesse esistere, ben al di sotto delle profondità raggiunte dai pozzi allora attivi (scavati in terreni di età variabile fra uno e cinque milioni di anni, dentro strati che arrivavano al massimo a sessantacinque milioni di anni), una sorta di “valle Padana 2”, che poteva presentare grande importanza dal punto di vista minerario, con strati assai più antichi. Si trattava però appunto solo di un’ipotesi, che non era possibile suffragare con prove, visto che i sistemi geofisici erano ancora elementari e non consentivano di “vedere bene” in grande profondità. Verso la metà degli anni Sessanta il miglioramento delle tecniche di prospezione, di perforazione e di contenimento degli idrocarburi in uscita apre nuove possibilità. In particolare la sismica a riflessione, usata per costruire la carta geologica del 12 13 14 15

Malossa, il più vasto giacimento…, cit. Ibidem. Ibidem. A. De Falco, Il biglietto da visita di Casirate, in «Ecos», anno III, nn. 17-18, ottobre 1974.



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sottosuolo, compie passi avanti decisivi, sia nei sistemi di immissione e di distribuzione dell’energia prodotta dall’esplosione nel terreno, sia nei metodi di interpretazione dei dati raccolti. Tali innovazioni consentono di arrivare a “leggere” il sottosuolo molto più in profondità, esplorando strati ben più antichi: Sotto l’argilla, la sabbia, la ghiaia e la marna dell’epoca cenozoica, ecco il calcare, il calcare maiolica e la dolomia del mesozoico, con età fino a 200 milioni di anni16.

Una di queste prospezioni viene fatta appunto a Malossa: nel 1973: il primo pozzo esplorativo scende fino a 5.400 metri e raggiunge la dolomia principale, trovandola impregnata di idrocarburi. Seguono quindi altri due pozzi, che attraversano la dolomia per oltre 500 metri, trovando sempre metano e petrolio. L’eccezionalità della scoperta induce i responsabili della direzione mineraria dell’eni ad azzardare per il futuro le più rosee prospettive: … Verso la fine del 1975 a Casirate funzionerà un impianto di dimensioni industriali per la separazione del metano dal petrolio […] e soltanto allora, quindi, si potrà incominciare la produzione prevista in 3 miliardi di metri cubi di gas all’anno e 2 milioni e mezzo di tonnellate di petrolio (attualmente è in funzione un impianto pilota che ha per forza di cose una capacità ridotta: il metano viene immesso in un metanodotto della rete nazionale eni che passa a breve distanza, il petrolio invece viene portato con autobotti alla raffineria di San Nazzaro de’ Burgondi dove più avanti arriverà attraverso un oleodotto). Il gioco però vale la candela. Oltretutto il petrolio che sgorga alla Malossa è di eccellente qualità, anche se deve essere considerata soltanto una battuta quella sentita durante una visita ai pozzi, che si tratti di un liquido che può essere messo nei serbatoi delle nostre automobili così com’è17…

Proprio in ragione delle sue peculiarità, tuttavia, il ritrovamento di Malossa, pone fin da subito ai tecnici problemi altrettanto peculiari da risolvere. Alle profondità raggiunte gli idrocarburi hanno pressioni altissime, e occorre che in superficie ci siano attrezzature capaci di riceverli. Ma niente del genere è mai stato sperimentato nel mondo. Nemmeno gli americani, maestri per eccellenza in tutte le tecnologie inerenti la perforazione, hanno mai dovuto affrontare situazioni dello stesso tipo: Anche gli americani, che pure erano molto avanti, non ne sapevano molto. Loro lavoravano in modo diverso: avevano quelle pressioni, ma non portavano fuori come noi un prodotto pulito: avevano la presenza dell’idrogeno solforato e per contrastarlo usavano degli inibitori che iniettavano dentro. Iniettando questo liquido riducevano la pressione, così mentre noi erogavamo con sei-settecento atmosfere, loro erogavano con cento, motivo per cui non avevano i nostri problemi18.

Occorre quindi predisporre attrezzature “su misura”, che sappiano anche far 16 Ibidem. 17 Ibidem. 18 Intervista a Antonio Mazzon, 17 aprile 2012. A fianco: Operatore in azionamento di valvole



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fronte alle altissime temperature con cui il prodotto sgorga. I tecnici chiamati a cercare di risolvere questi problemi sono i migliori di cui l’eni dispone: fra quanti hanno vissuto quel periodo il ricordo è quello di un’entusiasmante epopea, che per due anni ha comportato un impegno durissimo («non c’era giorno e non c’era notte19»), ma che portato con sé anche l’immensa soddisfazione delle battaglie vinte: Malossa è stata un campo scuola non solo per eni, ma per le società di tutto il mondo che lavoravano nel settore. Quanto imparato lì ci è servito anche per i ritrovamenti successivi, come quello di Trecate20.

Nella “scuola” di Malossa i tecnici dell’eni si avvalgono della collaborazione diretta di società come la Breda, che producono i macchinari per le teste pozzo: gli esperti da esse incaricati lavorano fianco a fianco con il personale eni e ne condividono le difficoltà. Le lezioni apprese e le esperienze maturate nel corso di quei mesi di lavoro senza tregua rappresenteranno un prezioso bagaglio per il futuro: Io operavo con i miei collaboratori sui pozzi e contemporaneamente portavo avanti lo studio con queste società facendole venire sul posto per risolvere i problemi che via via si presentavano. Ad esempio la separazione fra olio e gas ci creava un aumento di temperatura alle teste pozzo, e c’è stato un momento in cui la dilatazione dei materiali provocava fughe di gas o di olio. A quel tempo i pozzi non erano attrezzati con valvole all’interno in profondità che si potevano chiudere in caso di necessità. Dopo questa esperienza cominciammo a inserire valvole a 300-400 metri di profondità in maniera che se c’erano problemi in superficie queste intercettavano il flusso. Un’altra modifica che si è resa necessaria ha riguardato le guarnizioni: ai tempi erano tutti elastomeri (gomma, neoprene ecc.), dopo sono diventate metalliche, così sono indeformabili e non presentano problemi legati alle variazioni di temperatura. Ancora un’altra modifica ha poi riguardato il modo di connettersi con la testa pozzo21.

Non trascorreranno infatti molti anni prima che gli insegnamenti di Malossa trovino un’altra preziosa applicazione: nel 1984 in località Villafortuna presso Trecate viene scoperto uno dei giacimenti di petrolio più grandi dell’Europa continentale: il giacimento si trova ad oltre 5.000 metri e la sua temperatura statica raggiunge i 180 gradi. Per far fronte a quest’ultima occorre apportare modifiche a saldature e componenti elettroniche dei macchinari (il pozzo numero 2 fra l’altro viene perforato con tecnica in orizzontale, con ulteriori problematiche connesse22), ma l’esperienza e le competenze maturate a Casirate risulteranno determinanti. L’epopea di Malossa conferma quanto fossero fondate le convinzioni che Mazzini Pissard aveva sviluppato trent’anni prima: l’esperienza fatta sul campo permette di 19 Intervista a Giovanni Rossi, 6 marzo 2012. 20 Intervista a Antonio Mazzon, 17 aprile 2012. 21 Intervista a Giovanni Rossi, 6 marzo 2012. 22 Quello realizzato a Trecate risulterà ai tempi il pozzo orizzontale più profondo del mondo, con 6.062 metri raggiunti. A fianco: Torre di perforazione a Trecate (Novara)


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perfezionare le conoscenze, le pure nozioni teoriche non sono da sole sufficienti per creare operai e tecnici davvero all’altezza. Certamente però la continua evoluzione delle tecnologie non consente di ammettere al lavoro nei cantieri personale impreparato o comunque non adeguato al compito. Per tale motivo fin dai primi campi realizzati in pianura Padana l’agip mette al primo piano il tema della preparazione e dell’addestramento del personale. Una storia nella storia, a cui vale senz’altro la pena di dedicare qualche cenno. I Centri di formazione Cortemaggiore è un paese tranquillo, spianato nella dolce opulenza padana, con distesi silenzi che invitano al raccoglimento mentale e a una sana disciplina fisica. Per un giovane che desideri diventare un bravo perforatore il soggiorno è ideale. La mensa è buona, sana. L’alloggio è particolarmente confortevole. La cosiddetta “baracca” è in realtà una specie di “bungalow” dipinto in verde cinabro, con tante camerette da tre letti, docce e l’orto retrostante dovizioso di verdura. Attorno stormiscono frassini e ciliegi. Il riposo notturno non potrebbe avere un miglior riconoscimento naturale23.

Se non fosse per il brevissimo riferimento alla perforazione, il brano sopra riportato potrebbe sembrare la descrizione di un campeggio estivo… Invece l’articolo intende rappresentare la realtà del Centro di Addestramento dell’agip Mineraria, che proprio in quell’anno 1957 ha avviato i suoi corsi. Il tono usato dall’autore riflette la realizzazione di un sogno, quello che Enrico Mattei aveva coltivato fin da prima della nascita dell’eni: la crescita rapidissima delle attività minerarie dell’agip rendeva infatti necessario l’inserimento continuo di personale preparato, che non sempre era disponibile sul mercato. Così dal 1949 la società, su impulso appunto di Mattei, aveva avviato dei propri corsi di addestramento, affidandone la conduzione ai suoi tecnici più esperti. Il volume di Daniele Pozzi24 ci fornisce alcuni dettagli su questi primi tentativi di formazione: i candidati vengono assunti con la qualifica di operai comuni, dopo sei mesi di corso e un esame diventano specializzati e dopo nove e un’ulteriore prova possono accedere ad una posizione di contratto analoga a quella di un impiegato. I corsi si tengono già a Cortemaggiore, e ben presto viene chiamato a dirigerli Mazzini Pissard, che ha da poco assunto la responsabilità del neonato Settore di Crema. A lui nel 1952 è anche affidato l’incarico di provvedere alla stesura del testo su cui le lezioni si fondano. Pissard vi si dedica nel tempo libero, nei dopocena e nelle primissime ore del mattino seguendo precise modalità: … stabilisco l’indice, raccolgo pubblicazioni da riviste americane per ogni capitolo – sono ricchissime e prolisse- opuscoli pubblicitari sulle modalità di uso di macchinari ed 23 L’addestramento a Cortemaggiore. I perforatori della Mineraria, in «Il gatto selvatico, anno III, n. 8, agosto 1957. 24 D. Pozzi, Dai gatti selvaggi, cit., pp. 221 ss.


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attrezzature, disegni fotografie. Cacciatore [un ingegnere della società] deve assimilarli e stilare la bozza del capitolo corredandolo dei disegni. Lo correggo e colmo le lacune. Lui rielabora io riesamino. Copiatura a macchina25.

Come ulteriore verifica, Pissard sottopone i vari capitoli ad alcuni suoi perforatori, che suggeriscono come rendere più comprensibile l’esposizione. Il libro viene concluso e dato alle stampe nel 1956: si compone di 851 pagine e 708 disegni e per molti anni verrà considerato il testo più completo in materia. Pochi mesi dopo la sua pubblicazione il sogno di Mattei giunge a compimento, e i corsi assumono veste più organica con l’apertura del Centro di addestramento di Cortemaggiore. Del suo primo anno di attività ci rende ancora un’utile testimonianza l’articolo citato più sopra26. La struttura inizia con un numero modesto di iscritti: sono in tutto 28, fra i diciotto e i ventiquattro anni. La loro tipologia e le motivazioni che li hanno spinti a presentare la domanda sono delineati dal cronista: Due mesi fa erano ancora apprendisti, manovali, presso differenti aziende quasi tutte di calibratura artigianale: qualcuno andava a scuola senza troppo entusiasmo, perché aveva imparato a intuire come non sarebbe stato poi tanto facile trovare una sistemazione, anche se munito di un diploma, e tutti ventotto, dai loro paesi, speravano d’incocciare nella buona occasione per sottrarsi all’incertezza. Nell’Italia rurale della seconda metà degli anni Cinquanta l’agip rappresenta la sicurezza, la certezza di migliorare le proprie condizioni: più ancora di un diploma, perché lo studio, per gran parte delle famiglie, è ancora qualcosa da lasciare ai giovani ricchi della città. Queste le motivazioni dei giovani. Quelle dell’eni, oltre alla difficoltà di reperire un numero sufficiente di tecnici preparati, si possono ritrovare scorrendo ancora lo stesso articolo: l’organizzazione industriale viene danneggiata quando l’operaio si mostra incerto nel compito da svolgere: l’«empirismo di vecchio stampo», che sopperiva alle carenze tecniche, non è più accettabile nei tempi nuovi che si stanno vivendo. Un operaio perforatore, istruito con le nozioni basilari di fisica, geologia, chimica e disegno geometrico, «avrà una visione e una conoscenza più chiare dell’opera che presta; ne eseguirà le fasi quotidiane con maggiore scioltezza e precisione, e una squadra di perforatori che sappiano tutti quelle nozioni condurrà un ritmo di lavoro sincronizzato e con minor fatica». È un dato ormai dimostrato, conclude l’autore, che un operaio qualificato rende assai di più di uno generico: la qualificazione, quindi, «è una necessità moderna, non è certo un capriccio del datore di lavoro, e porta a una migliore organizzazione produttiva». Un altro articolo dello stesso mensile dell’eni (posteriore di qualche anno, siamo nel 196227) spiega poi come i corsi di formazione rispondano anche ad un’esigenza pratica dettata dalla situazione economica in atto: gli studi, vi si afferma, dimostrano 25 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 105. 26 L’addestramento a Cortemaggiore, cit. 27 Una scuola modello per saldatori, in «Il gatto selvatico, anno VIII, n. 5, maggio 1962.



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che entro la metà degli anni Settanta almeno un milione e mezzo di lavoratori transiterà dall’agricoltura all’industria, e questo porrà un urgente problema di qualificazione professionale. In questo senso l’iniziativa messa in atto dall’eni rappresenta una scelta lungimirante. Ma non solo: essa risponde anche in modo perfetto al cambiamento culturale che si registra nel modo stesso di concepire la forza lavoro: La situazione del passato in cui la maggioranza dei lavoratori era considerata come «braccia» causava un enorme spreco di ricchezza per il non sapere e volere utilizzare le riserve di capacità ed intelligenza di ogni singolo e per l’impossibilità quindi di fornirgli «forza di lavoro» potenziale, istruzione ed educazione convenienti28.

Attenzione, rispetto e sensibilità nei confronti delle potenzialità del singolo lavoratore, rifiuto di considerarlo come massa anonima: nuovi concetti e nuove visioni si stanno decisamente affacciando. Il valore della preparazione professionale però non esclude, come si potrebbe pensare, quello della pratica “sul campo” tanto caro a Mazzini Pissard: in realtà fin dall’inizio i corsi dell’eni mescolano gli insegnamenti teorici con l’esperienza fatta direttamente sui macchinari. Al margine occidentale del cantiere di Cortemaggiore si eleva una torre di perforazione grazie alla quale gli studenti imparano concretamente come manovrare gli ingranaggi e quali cautele ed attenzioni usare. Il primo corso di formazione avviato a Cortemaggiore registra un tale successo che nel giro di pochi anni i Centri di addestramento si moltiplicano, diversificandosi anche nelle specializzazioni. Ce ne informa l’articolo del 1962, che indica come già attivi anche quelli di San Donato Milanese, Matelica29, Latina, Ferrandina, Acqualagna di Pesaro e Caviaga. In quest’ultima sede funziona la scuola per saldatori. Dalla descrizione dell’anno di corso 1962 ricaviamo come il riferimento all’urgenza di adeguarsi ai cambiamenti economici in corso sia ben vivo e pertinente: 72 allievi partecipano al corso trimestrale della scuola, che è articolata in 600 ore di addestramento tra lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche […]. L’età degli allievi partecipanti al corso varia tra i 16 ed i 21 anni, per l’80 % sono siciliani, il rimanente veneti e romagnoli; solo pochi hanno una precedente esperienza meccanico-tecnica o di officina, per la maggior parte provengono dall’agricoltura. Il curriculum scolastico degli allievi in genere non va oltre la licenza elementare, alcuni hanno la frequenza o il diploma di terza avviamento. È una piccola comunità operosa, tenace e concorde – con uno staff di istruttori veramente di prim’ordine – che non solo sta imparando un mestiere ma si sta costruendo un domani migliore; è certo che quando tra qualche settimana ritorneranno al loro paese si porteranno dietro un po’ di questo lievito che li sta trasformando, e qualcosa intorno a loro cambierà30. 28 Ibidem. 29 Matelica è la cittadina delle Marche che ha dato i natali a Enrico Mattei. 30 Una scuola modello per saldatori, cit. A fianco: Corso di formazione


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In effetti molte cose cambieranno negli anni successivi, ma non i principi che reggono i Centri di addestramento: necessità di formare al meglio tecnici preparati, diversificazione della preparazione, alternanza fra apprendimento concettuale e pratica sul campo. Nel 1975 il responsabile del Centro di Cortemaggiore Romolo Guatelli traccia in un’intervista31 un bilancio dei primi diciotto anni di vita della struttura: dal 1957 essa ha ospitato 203 corsi per vari settori e specializzazioni per un totale di 2.396 allievi. L’attività di addestramento del Centro si sviluppa in tre direzioni professionali: produzione, perforazione e manutenzione, e all’interno di esse si distinguono varie figure di tecnici. Altrettanta importanza, prosegue Guatelli, è attribuita alla formazione degli istruttori: agli allievi vengono trasmesse le tecniche di insegnamento più efficaci, affinché essi stessi, nelle rispettive sedi di lavoro, possano operare per istruire i colleghi. Il quadro illustrato dal responsabile di Cortemaggiore corrisponde del tutto ai racconti che ce ne hanno fatto i nostri intervistati. Così Antonio Canonaco, che ci ha evidenziato come, per quelli come lui assunti negli anni Sessanta, il passaggio dalla scuola piacentina fosse pressoché inevitabile: Ognuno di noi è passato per il Centro di Cortemaggiore, dove ha avuto un certo numero di mesi di addestramento, che riguardava tutti, ingegneri, diplomati, tecnici e operai, anche se esso era adeguato al titolo di studio e all’esperienza maturata precedentemente32.

In quegli anni ad occuparsi dell’insegnamento a Cortemaggiore sono per lo più dipendenti o ex dipendenti. Al rientro dopo un periodo trascorso nei campi petroliferi dell’Egitto e della Libia, anche Antonio Mazzon viene incaricato di questo compito e, come Pissard, si trova anche a predisporre i testi di studio: A quel tempo non c’era molta letteratura in materia, quindi avevo preparato io un manuale di work over e di completamento pozzo (cioè l’insieme di quelle attrezzature che si mettono dentro al pozzo per poter permettere all’idrocarburo di venire in superficie in sicurezza: valvole, sistemi di sicurezza ecc.). Questa esperienza di addestramento è stata molto interessante: mi è sempre piaciuto dare agli altri quello che ho dovuto faticare a imparare, e per questo sono stato gratificato da tanti futuri colleghi che hanno tratto vantaggio dai miei insegnamenti33.

Parallelamente ai centri di formazione dell’eni anche snam si attiva per organizzare l’addestramento: a Credera, nel Cremasco, vengono avviati i corsi per tecnici del gas e per la preparazione del personale addetto agli oleodotti e alle navi da trasporto degli idrocarburi. Anche qui il criterio seguito è quello dell’insegnamento 31 Come s’impara a Cortemaggiore, in «Ecos», anno IV, nn. 21-22, febbraio-marzo 1975. 32 Intervista a Antonio Canonaco, 15 febbraio 2012. Il signor Canonaco si ricorda benissimo del direttore Guatelli, che definisce «molto rigoroso e severo», però giustifica tale severità in quanto dettata dall’alto numero di studenti da gestire. 33 Intervista a Antonio Mazzon, 17 aprile 2012.


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teorico-pratico: Noi prendevamo il gas dall’agip, che era proprietaria dei pozzi, e lo trasportavamo sia con infrastrutture ad alta pressione (i grandi metanodotti) sia con le derivazioni che portano fino alle città e alle aziende di distribuzione e che sono a bassa pressione. I tecnici dovevano quindi avere grande competenza. Credera era un Centro molto conosciuto, a volte arrivavano richieste di collaborazione anche da aziende di distribuzione del gas, che ci mandavano il personale da formare su apparecchiature che noi avevamo in anteprima. Oltre alle aule il Centro aveva una strumentazione di laboratorio e una serie di simulatori: ad esempio simulazione di rete del gas o simulazione della parte dei controlli sulla meccanica della frattura, per verificare sui tubi di grande pressione la loro tenuta in caso di corrosione34.

I corsi di addestramento di eni e snam nascono quindi per rispondere a precise esigenze di professionalità indotte anche dalla fase economica: l’industria in crescita richiedeva continuamente nuovo personale specializzato, che non sempre il mercato riusciva ad assicurare. Sarebbe però sbagliato credere che essi abbiano esaurito la loro funzione con il mutare delle condizioni strutturali del Paese. In realtà accade proprio il contrario: il continuo evolversi della tecnologia, il differenziarsi delle specializzazioni e l’accresciuta attenzione rivolta a tematiche quali la sicurezza e l’ambiente impongono l’impiego di operai e tecnici sempre più preparati e all’altezza del compito. Ecco allora che, pur mutati nell’organizzazione e nelle forme, i Centri di addestramento rimangono tuttora per le due società lo strumento fondamentale di formazione del nuovo personale: il Centro di Cortemaggiore oggi fa parte di eni Corporate University35, e mentre in precedenza l’insegnamento era affidato per lo più ad ex dipendenti, ora si avvale della collaborazione di professionisti esterni e professori universitari. Del tutto inalterata è rimasta invece la scelta di alternare le lezioni teoriche alla pratica sul campo, come risulta evidente dal racconto di un giovane addetto alla manutenzione, assunto alla stogit nel 2007: Ho effettuato un percorso formativo a Cortemaggiore della durata di un anno. Il corso aveva una parte teorica e una parte pratica con affiancamento in centrale. Anche la parte teorica comunque non era lezione e basta: le operazioni venivano subito messe in pratica nei laboratori con dei simulatori (che riproducono esattamente i macchinari anche se ovviamente non contengono gas, ma aria) e tu avevi modo di applicare immediatamente quello che avevi imparato. In questo senso si tratta di una scuola molto attrezzata. Per me è stato un periodo molto gratificante perché avendo un percorso scolastico di perito chimico e non sapendo per dire nemmeno la differenza tra corrente continua e corrente alternata il corso mi ha permesso di allargare le mie 34 Intervista a Francesco Galimberti, 17 aprile 2012. 35 L’eni Corporate University gestisce l’intero processo di orientamento, reperimento e selezione del personale, realizza gli interventi di formazione per i lavoratori sia in Italia che all’estero e cura gli accordi con le istituzioni accademiche e con centri di formazione esterni. Di essa fa oggi parte anche la Scuola di Studi Superiori sugli Idrocarburi che è stata istituita da Mattei nel 1957 (e che per questo porta il suo nome) per la formazione post universitaria.


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La piccola “America” competenze36.

Sul medesimo concetto della necessità per i neoassunti di integrare il percorso scolastico ha insistito anche un altro manutentore, Ezio Comandù («il nostro è un mestiere molto particolare, che non impari a scuola o all’università, ma sul campo, con l’esperienza e con l’aiuto di quelli che lo sanno fare»), che ha posto l’accento pure su un altro aspetto molto importante, quello degli effetti negativi prodotti sul know-how del personale dalla decisione (presa all’inizio degli anni Duemila e rientrata recentemente) di affidare a ditte esterne i servizi di manutenzione: Con l’esternalizzazione della manutenzione i tecnici che fino ad allora se ne erano occupati sono stati spostati negli uffici a sovrintendere al lavoro di questi terzi, che però non erano specializzati come noi e dovevano essere continuamente seguiti. Così è stato deciso di di riportare tutto com’era prima, e la manutenzione è rientrata. Nel frattempo però sono passati dieci anni, e in tutto questo tempo la manualità un po’ si perde37.

Idee non molto diverse in merito sempre all’esternalizzazione dei servizi ha espresso il signor Galimberti: [L’esternalizzazione] è una cosa positiva, ma occorre che all’interno vengano mantenute delle professionalità in grado di controllare e di guidare le società che vengono coinvolte nell’appalto. Invece talvolta c’è asimmetria, dovuta al fatto che è difficile mantenere una comunità professionale ricca, se questa non opera direttamente. Per cui accade che a volte le interfacce interne non hanno le competenze necessarie per assumere questa funzione di guida38.

I corsi di formazione sono nati come si è detto in un periodo in cui la necessità di convertire al lavoro manifatturiero una larga fetta di personale proveniente dal settore agricolo imponeva di integrarne le competenze. Molto spesso la carriera scolastica di chi accedeva al lavoro nell’industria era stata breve o brevissima: abbiamo visto che ancora nel 1962 ben pochi dei settantadue iscritti al corso per saldatori di Caviaga potevano vantare il diploma di avviamento, mentre la maggioranza possedeva solo la licenza elementare. Oggi la situazione è ovviamente del tutto cambiata, e sempre più spesso chi si affaccia al mondo del lavoro porta con sé un titolo di scuola superiore, quando non addirittura una laurea. Nel mondo della produzione e della distribuzione di idrocarburi questo dato risponde in pieno alle nuove esigenze che i tempi correnti esprimono: se è vero infatti che la preparazione scolastica non è da sola sufficiente a formare un tecnico esperto, è altrettanto vero che le continue innovazioni nel lavoro e nella sua organizzazione (si pensi solo al ruolo dell’informatica, di cui avremo

36 Intervista a Antonio Carlo Zucchelli, 5 giugno 2012. 37 Intervista a Ezio Comandù, 5 giugno 2012. 38 Intervista a Francesco Galimberti, 17 aprile 2012.


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ampiamente modo di occuparci39) richiedono una base culturale sempre più solida ed estesa. Ce lo conferma quanto raccontatoci da Francesco Galimberti in merito a snam: Alla fine degli anni Novanta si è deciso di riarticolare un po’ la popolazione aziendale: tutta l’innovazione di processo che era stata fatta sui nostri impianti, il dispacciamento del gas controllato a distanza, la necessità di usare strumenti informatici, ci ha portato alla necessità di scegliere per tutte queste funzioni solo ed esclusivamente diplomati, cominciando poi a ragionare anche sulle lauree brevi. Questo anche perché anche l’organizzazione era cambiata, era diventata più snella, ed accorpare certe funzioni con molto più ruoli e responsabilità voleva dire avere un minor numero di dirigenti e un maggior numero di quadri e tutta una popolazione di specialisti40.

I lavoratori che abbiamo intervistato hanno dedicato molto spazio al loro periodo di formazione in azienda: non per tutti però esso si è tradotto immediatamente in un impiego presso il Settore di Crema o nei cantieri sparsi nella pianura Padana. Per molti il percorso professionale ha visto lunghi periodi trascorsi presso le sedi estere, a terra, o su piattaforme off shore, spesso in luoghi non certamente facili per condizioni di vita e situazioni socio ambientali. A queste esperienze crediamo sia giusto dedicare un po’ di spazio. Esperienze all’estero e sul mare Pochi anni dopo la sua nascita, l’eni inizia ad estendere l’attività mineraria al di fuori della pianura Padana41: grazie soprattutto ad un massiccio incremento degli investimenti vengono sviluppati campi in Abruzzo, Basilicata e Sicilia (nel 1963 viene inaugurato il petrolchimico di Gela). I risultati tuttavia rimangono modesti: secondo i dati forniti da Daniele Pozzi42 nel 1961 la percentuale di pozzi sterili al di fuori del territorio padano si aggira intorno all’86 %, e gli unici giacimenti di metano individuati sono Ferrandina (Basilicata), Gagliano (Sicilia) e San Salvo (Abruzzo), mentre Gela rappresenta la sola rilevante scoperta per quanto riguarda il petrolio. Tale situazione, unita alla previsione del progressivo esaurimento dei campi del nord Italia (esaurimento che si è poi riusciti a dilazionare grazie alla ricerca avviata nel mare di Ravenna e all’inizio delle perforazioni ad alta profondità nel bacino padano, alla fine del decennio Sessanta), induce la società a riprendere la politica di espansione all’estero che nel periodo prebellico era stata una delle sue caratteristiche peculiari. La vocazione internazionale dell’agip negli anni Trenta viene ampiamente documentata nel diario di Mazzini Pissard: il suo racconto delle avventure vissute 39 Vedi cap. 7. 40 Intervista a Francesco Galimberti, 17 aprile 2012. 41 Per una trattazione completa dell’estensione dell’attività dell’eni al di fuori della zona di esclusiva della valle Padana si veda D. Pozzi, Dai gatti selvaggi…, cit., cap.8 42 Ibidem, pp. 330-331.


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fra i cantieri dell’Africa Orientale italiana è estremamente indicativo per capire cosa significasse, in tempi così lontani, fare ricerca petrolifera in territori estremi. Così il giovane tecnico sardo descrive al suo arrivo (siamo nell’estate del 1939) l’isola di Dahlak, nel mar Rosso: L’isola è come una piazza lunga 70 chilometri, larga 10 chilometri, due pozzanghere di acqua leggermente salmastra, contornate da vegetazione, due, dico due, grossi alberi, distanti tra loro, sono riportati nella carta geografica come punti di riferimento; di tanto in tanto qualche acacia ombrellifera con foglie piccoline e spinose43…

Oltre alle difficoltà tecniche (le perforazioni esplorative nella salgemma fino a 2.500 metri di profondità non danno risultati, il pozzo si rivela sterile) il cantiere presenta innumerevoli problemi… di sopravvivenza: il caldo e l’umidità sono insopportabili, le condizioni igieniche quanto meno precarie, l’adeguamento ai costumi locali piuttosto complicato. Quanto al vitto, richiede parecchie capacità di adattamento: Con l’avvicinarsi dell’autunno, che si nota soltanto dal calendario e dall’aumento dell’umidità, compaiono a miriadi prima le formiche alate e poi le farfalline, vivono un giorno ma vengono rimpiazzate. Danno fastidio, vengono addosso. Ma il dramma avviene la sera durante la cena. Sono attratte dalla luce, la sala da pranzo è senza pareti, si posano anche nei piatti. Spegniamo tutte le luci, meno una debole lampadina ubicata in un angolino, invano. Facciamo scudo al piatto con il tovagliolo, portiamo la bocca al bordo del tovagliolo, la posata non esce da sotto il tovagliolo, nel masticare avvertiamo uno strano scricchiolio che non ha nulla a che vedere con il cibo che ci avevano portato. Constatiamo che si tratta delle formiche, per sopravvivere non rimane che ritirare il tovagliolo e mandar giù quanto arriva alla bocca44.

Mazzini Pissard viene rimpatriato in Italia a seguito di un’ulcera duodenale (a cui c’è da pensare non siano estranee le originali “specialità” gastronomiche appena descritte!) nell’autunno del 1939, pochi giorni dopo lo scoppio della guerra. Con l’inizio delle ostilità le ricerche all’estero si interrompono, per riprendere appunto solo a metà degli anni Cinquanta. Le condizioni logistiche che accolgono i tecnici dell’agip che espatriano dopo la ripresa postbellica non sono più quelle descritte da Pissard, ma è indubbio che per chi accetta le trasferte in campi dislocati nei punti più remoti del mondo, dalle sabbie dei deserti al gelo delle terre vicino al Circolo Polare, la vita non è semplice. A giudicare dai racconti che abbiamo ascoltato, però, il ricordo positivo dell’esperienza fatta supera di gran lunga quello delle difficoltà incontrate. Così ad esempio è per Valerio Galvagni, che alla fine degli anni Sessanta è partito per l’Iran: Alla fine del 1968 (forse anche perché venivo dal Trentino, e alle montagne ero 43 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 75. 44 Ibidem, p. 78. A fianco: Nave di perforazione operante nell’alto Adriatico



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La piccola “America” abituato!) mi hanno mandato in Iran, dove era stata avviata un’attività di perforazione molto particolare, a 3.500 metri di altezza. Si noti che erano i primi tempi che l’agip usciva, e i mezzi tecnici erano pochi… A oltre 3.000 metri si dovevano costruire delle teleferiche per alimentare la postazione: le strade non esistevano ed elicotteri di quella portata ancora non ne avevamo. Così gli impianti, molto leggeri, venivano sezionati tutti a un peso massimo di venti quintali, portati su, riassemblati, e poi si partiva. Il discorso si faceva molto complicato d’inverno, perché lì la neve cadeva a metri e metri: prima che arrivassi io il lavoro veniva sospeso fra settembre e aprile, ma quell’anno fu il primo in cui non ci fu l’interruzione. È stato il periodo più spensierato dal punto di vista lavorativo di tutta la mia vita: facevamo sei mesi di lavoro e uno di riposo, nei sei mesi di lavoro c’erano dei giorni di riposo che passavamo ad Isfahan, ma la città era lontana e non sempre ci andavamo. Fra l’altro, d’inverno da lì si poteva andare a sciare, ma d’estate col caldo che faceva45…

E di grandissimo arricchimento professionale e umano parla anche Antonio Mazzon in riferimento all’esperienza durata otto anni tra le sabbie del deserto del Sinai: Il periodo in Egitto è stato piuttosto duro, anche perché allora le normative non erano quelle di adesso, e non permettevano le turnazioni. A me hanno detto: “Mazzon, vai lì e quando hai finito torni a casa”. Finire voleva dire garantire un minimo di produzione (a quel tempo 80.000 barili al giorno). Così ho fatto partire 10 o 12 pozzi, facendo per tre anni il responsabile della produzione, poi passando a responsabile delle operazioni e in seguito a responsabile del campo. Il campo era enorme, un vero e proprio villaggio autosufficiente, in cui erano sempre presenti dalle 800 alle 1.000 persone. Dal punto di vista professionale l’Egitto è stato una palestra straordinaria: lì si trovava riassunto tutto il mondo del petrolio, dalla perforazione al work over, a tutti i sistemi di produzione (c’erano pozzi che producevano gas, altri petrolio, pozzi che producevano da soli e altri con le pompe) al trattamento. Facevamo anche l’iniezione di acqua per facilitare la fuoriuscita del combustibile, e quindi c’era poi anche il trattamento dell’acqua. E ancora: occorreva mandare l’olio al terminale marino con i camion e e spedire il gas via gasdotto… Tutto questo mi ha fatto crescere professionalmente, anche perché il rapporto con il personale locale mi ha costretto a imparare bene l’inglese e a cavarmela un po’ anche con l’arabo46…

Durante una parte del suo soggiorno in Egitto il signor Mazzon è accompagnato dalla famiglia, che nei giorni di riposo lui raggiunge al Cairo, dove la società le ha trovato casa. A distanza di anni il suo ricordo è quello dell’avventura «più bella e interessante» dell’intero percorso lavorativo, ricca di incontri con gente aperta e disponibile e in un paese «magnifico» dal punto di vista culturale e paesaggistico47. Ancora differente era l’esperienza di chi veniva inviato ad operare sulle piattaforme offshore: lì, in mezzo al mare, il lavoro era durissimo, e l’adattamento non era solo di tipo ambientale, ma coinvolgeva anche le capacità di convivenza 45 Intervista a Valerio Galvagni, 15 febbraio 2012. 46 Intervista a Antonio Mazzon, 17 aprile 2012. 47 Ibidem, 17 aprile 2012. Per i figli dei tecnici era a disposizione la scuola italiana del Cairo.


Gli anni d'oro della perforazione

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in spazi per necessità assai ristretti. È quanto ci ha raccontato Vincenzo Bruno, chiamato negli anni Ottanta a lavorare sulla piattaforma più grande di tutto il Mediterraneo, al largo della Libia. La sua intervista ci consente di capire prima di tutto come nascono questi giganti del mare: La piattaforma era fissa ed era appoggiata su un jacket alto più di 160 metri48 che era stato costruito a Taranto e portato sul punto individuato per mezzo di chiatte. Poi con un sistema di galleggianti che si riempivano d’acqua il jacket è stato messo in piedi e appoggiato sul fondo. Hanno quindi fissato dei pali nelle gambe della piattaforma per ancorarla perfettamente e una volta fatto questo hanno montato tutti i moduli (costruiti in Corea su licenza dell’agip) e le due torri di perforazione49. A quel punto si è potuto dare inizio al lavoro di perforazione.

Vincenzo Bruno si è soffermato a lungo sull’aspetto della vita di piattaforma, in un contesto che vedeva condividere i pochi spazi lavoratori di più di quindici nazionalità: La vita di piattaforma richiedeva di combinare le esigenze degli uni con quelle degli altri. C’erano cabine a un posto, altre a due o quattro, ciascuna aveva il bagno, nel complesso si stava bene. Facevamo turni da 21 giorni di lavoro e 21 a casa, e per ogni turno sulla piattaforma c’erano circa 250 persone. Per fare questa vita soprattutto all’inizio serve tanto spirito di adattamento: la famiglia lontana, i problemi legati alla convivenza, il lavoro che durava 12 ore al giorno… Nel poco tempo libero dal lavoro si mangiava, poi c’erano dei giochi, il biliardino, la sala TV, dei videogames. Il collegamento con la terraferma era garantito da un elicottero che veniva mattino e pomeriggio, poi c’era il trasporto via mare, con i rimorchiatori che venivano dalla Sicilia (c’era una base a Ragusa da cui arrivavano le merci e i pezzi di ricambio). Come cibo si stava benissimo: per quelli che venivano da altre nazioni era come stare in un albergo a cinque stelle! Arrivavano tutte le primizie dalla Sicilia e il cibo faceva da prezioso elemento di aggregazione50!

Tali esperienze così ricche di significato sia umano che professionale sono state intervallate o accompagnate anche per questi lavoratori da periodi più o meno lunghi trascorsi presso il Centro di Crema o nei tanti campi di produzione sparsi per l’area padana. Anche loro quindi hanno potuto seguire in prima persona la trasformazione epocale che ha visto il progressivo esaurirsi di molti giacimenti di questo territorio (con un trend in tale senso che ha trovato però come già detto una 48 Il jacket è la struttura di sostegno della piattaforma. A seconda della profondità del mare esistono diversi tipi di piattaforma. Sui medio-bassi fondali si utilizzano quelle costituite da strutture rigide, che vengono appoggiate e fissate sul fondo; per profondità maggiori invece si fa ricorso a piattaforme galleggianti, ancorate al fondo mediante un sistema di cavi. In entrambi i tipi la testa pozzo si trova in superficie. In alternativa esistono piattaforme in cui la testa pozzo è fissata sul fondo del mare e i pozzi sono collegati all’unità galleggiante per mezzo di tubature rigide o flessibili attraverso cui passano i fluidi prodotti. 49 Intervista a Vincenzo Bruno, 6 marzo 2012. 50 Ibidem, 6 marzo 2012.


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temporanea inversione con la ricerca a grande profondità e l’inizio dell’esplorazione nel mare di Ravenna) e l’inizio dei primi esperimenti di stoccaggio del gas: un passaggio che ha completamente rivoluzionato la fisionomia e le funzioni di quello che oggi è il Centro operativo Stogit di Crema.

A fianco: Alto Adriatico, Piattaforma off-shore di perforazione




LO STOCCAGGIO DEL GAS

Un cambio di prospettiva Se il decennio Sessanta si può ancora senz’altro comprendere nel periodo d’oro della ricerca e della produzione degli idrocarburi italiani, è tuttavia innegabile che qualche segnale nel corso di esso induce l’eni ad avviare riflessioni sui possibili scenari futuri: abbiamo già visto come il moltiplicarsi del numero di pozzi sterili nella pianura Padana e le previsioni relative al progressivo esaurirsi dei giacimenti ivi in attività spingano la società ad allargare la propria sfera d’azione all’estero, recuperando quella dimensione internazionale che era stata centrale in epoca prebellica. Lo sgretolarsi del sogno di un’Italia autonoma dal punto di vista energetico porta poi a sua volta come conseguenza la necessità di reperire fuori dai confini le quantità di gas indispensabili a garantire il fabbisogno interno: si inizia così a sondare la possibilità di importare metano da Algeria, Olanda, Russia o Libia, possibilità che si concretizza nel 1965, con un primo accordo con la Esso1. La presa d’atto della nostra dipendenza dal gas prodotto all’estero ha comportato un vero e proprio cambio di prospettiva, e ha posto questioni e problemi mai affrontati prima. Il primo e principale di tali problemi riguarda le modalità di fornitura del metano: essa infatti garantisce un quantitativo giornaliero costante, che però non si concilia con l’andamento variabile dei consumi sia civili che industriali. Mentre infatti essi si riducono durante l’estate (le aziende chiudono per ferie, i riscaldamenti delle abitazioni sono fermi), raggiungono invece il loro massimo picco nel corso dell’inverno. Da qui la necessità di trovare un sistema per immagazzinare (“stoccare”) il gas nel periodo estivo, per poi poterne disporre nei momenti di maggior uso. Ma dove stoccare il metano? La soluzione trovata e sperimentata in varie parti del mondo è quella dello stoccaggio in sotterraneo, in strutture geologiche che possono essere rappresentate da giacimenti di gas o olio totalmente o parzialmente esauriti, livelli acquiferi naturali o cavità saline. In Italia, quando il problema comincia a porsi nella prima metà degli anni Sessanta, appare naturale avviare la sperimentazione proprio in quelle strutture del sottosuolo che hanno ospitato idrocarburi, e in cui la produzione va esaurendosi. Non è però solo la disponibilità di tali strutture a far propendere per questa scelta rispetto alle altre due, come ci ha spiegato Daniele Marzorati, attuale responsabile giacimenti di stogit: 1 Ricaviamo queste informazioni da D. Pozzi, Dai gatti selvatici…, cit., p. 331.



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Le cavità saline sono delle caverne che vengono formate iniettando acqua dolce: esse hanno però una capacità decisamente più bassa rispetto a quella dei giacimenti esauriti, a fronte di un costo per la preparazione piuttosto elevato. Anche i giacimenti acquiferi richiedono grosse spese per verificare la tenuta della roccia di copertura. In Europa è la Francia a farne uso, non avendo giacimenti di gas esauriti. Questi ultimi richiedono minori investimenti, perché se ne conosce la storia e perché, avendo già contenuto gas, garantiscono la tenuta2.

I risultati positivi dei primi esperimenti, avviati come vedremo a Sergnano e Cortemaggiore, inducono l’eni a sviluppare e perfezionare la tecnica, e a ricercare altri siti adatti allo stoccaggio. La ricerca coinvolge in prima istanza la val Padana: per ragioni di economicità è infatti opportuno stoccare il gas il più vicino possibile alle zone di maggior utilizzo, quindi nelle aree più industrializzate del Paese. Una relazione di snam relativa al periodo 1973-19773 ci informa che a circa un decennio dal suo inizio l’attività di stoccaggio si è allargata anche ai campi di Ripalta e Brugherio, e segnala come, dato il calo della produzione italiana e la sempre maggior dipendenza dalle importazioni4, occorrerà estenderla ulteriormente, per «far fronte al crescente aumento della punta dei consumi». La progressiva crescita dell’attività di stoccaggio (e la contemporanea contrazione della produzione) convince quindi la società a individuare un luogo fisico dove concentrare la gestione e il controllo di essa, e la scelta, data la vicinanza con i campi interessati, cade inevitabilmente su Crema. Così, se fino a inizio Duemila i due comparti (produzione primaria e stoccaggio) procedono insieme, successivamente il Centro cremasco diventa sede operativa esclusiva per il controllo di ogni attività di stoccaggio effettuata in Italia. A seguito di tale riassetto aziendale nel 2001 eni ha creato la società stogit (Stoccaggio Gas Italia)5, acquisita totalmente nel gennaio del 2012 dal gruppo snam, che comprende anche snam Rete gas (per il trasporto del gas), Italgas (che cura la distribuzione del metano agli utenti) e Gnl Italia (che gestisce l’impianto di rigassificazione che ha sede in provincia di La Spezia). Oggi stogit controlla da Crema otto campi di stoccaggio, di cui quattro 2 Intervista al sig. Daniele Marzorati, 6 marzo 2012. I primi tentativi di stoccaggio sono stati avviati in Canada nel 1915 e negli Stati Uniti a partire dal 1916. Secondo i dati forniti da Renzo Mazzei (Sintesi delle attività di esplorazione, sviluppo e produzione dei giacimenti petroliferi, S. Donato Milanese, maggio 2009, p. 41) nel 2009 esistevano nel mondo oltre 580 siti di stoccaggio (più del 70 % dei quali negli usa, i restanti in Russia, Canada ed Europa). 3 Programma di produzione, importazione e stoccaggio, in Archivio storico eni, fondo snam Attività operative, BG II 1, busta 89. 4 Secondo i dati forniti dalla relazione, fra il 1973 e il 1977 la produzione da campi noti passa da 9,7 a 7,7 miliardi di metri cubi, con una previsione a lungo termine per il 1987 che scende a 1,9 miliardi di metri cubi. Sempre fra il 1973 e il 1977 le importazioni salgono da 2,8 a 15 miliardi di metri cubi. 5 La società stogit è stata costituita in ottemperanza alle disposizioni contenute nel DL 23 maggio 2000 n. 164 (attuativo della direttiva europea 8/30/CE del 22 giugno 1998) che prevede all’articolo 21 la separazione dell’attività di stoccaggio da ogni altra attività del settore gas, con la sola esclusione del trasporto. A fianco: Sergnano, Centrale di stoccaggio con colonne di disidratazione


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in Lombardia (Sergnano, Ripalta, Settala e Cinisello Balsamo), tre in Emilia (Cortemaggiore, Minerbio e Sabbioncello) e uno in Abruzzo (Fiume Treste) per un totale di 15,6 miliardi di metri cubi di gas movimentati nel 2010. Il Settore di Crema, nato nel periodo epico dei pionieri degli idrocarburi, voluto da Mattei per coordinare i grandi lavori di ricerca, perforazione e produzione padana, ha dunque oggi completamente cambiato la sua destinazione. Da quei primi tentativi di stoccaggio degli anni Sessanta un’altra storia si è aperta, di cui vale la pena di raccontare. La centralità strategica dello stoccaggio Prendendo a modello quanto già da molti anni si sta sperimentando Oltreoceano, agip avvia le prime prove di stoccaggio nell’aprile del 1964. La scelta è come detto quella di convertire a questo uso strutture già utilizzate per la produzione primaria di idrocarburi e collocate a una profondità compresa fra i 1.000 e i 1.500 metri: per la pianura Padana i siti ideali vengono individuati in Cortemaggiore e Sergnano, dove gli esperimenti vengono fatti partire quasi contemporaneamente. Come esperto di compressione del gas Antonio Canonaco ha avuto modo di seguire queste prove in prima persona: Per Sergnano venne utilizzato un vecchio compressore prelevato dalla centrale di compressione di Caviaga, che spingeva gas in uno dei pozzi per circa 100.000 metri cubi di gas al giorno. Per il campo di Cortemaggiore si commissionò alla Nuovo Pignone di Firenze quattro motocompressori che però ci diedero moltissimi problemi di messa a punto, ritardando l’inizio delle prove di stoccaggio. Comunque si arrivò a una portata complessiva giornaliera di circa 400.000 metri cubi.

A Ripalta, prosegue Antonio Canonaco, gli esperimenti sono facilitati dalla preesistenza di una centrale di compressione, che aspira il gas del campo per comprimerlo nei metanodotti della snam: nel 1968 due dei tre gruppi già attivi vengono modificati per adeguarli all’uso di stoccaggio e l’attività inizia. Nei primi anni Settanta con l’arrivo dei gas di importazione assumeva rilevanza l’aspetto strategico degli stoccaggi, in grado di minimizzare gli effetti di un’interruzione temporanea del gas importato (sicurezza dell’approvvigionamento), oltre a migliorare le performance tecnico-operative della produzione. La decisione in merito all’utilizzo di giacimenti in via di esaurimento non è dettata solamente dalla loro immediata disponibilità, ma è legata a un requisito che questi giacimenti presentano e che nell’esercizio dell’attività di stoccaggio risulta di importanza fondamentale: la conoscenza dei dati geologici e dei parametri fisici acquisita nel corso dello sfruttamento minerario primario, che permette di prevedere il possibile comportamento dinamico della struttura durante la fase di stoccaggio. Non tutti i siti di produzione primaria sono infatti idonei a tale uso: occorre che la roccia serbatoio garantisca elevati valori di porosità e permeabilità, mentre la roccia di copertura (che fa da “tappo” al giacimento ed è di solito formata da argille) deve


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possedere caratteristiche di impermeabilizzazione tali da impedire fughe di gas verso l’alto. I valori di porosità e permeabilità richiesti per poter aprire un sito di stoccaggio sono dal 2001 fissati per legge: porosità maggiore del 20 %, permeabilità maggiore di 20 millidarcy. Per verificare il rispetto di questi parametri si fa riferimento appunto agli studi di giacimento preesistenti, integrandoli con nuove indagini aggiornate: Prima di partire con lo stoccaggio il giacimento viene studiato: se ne fa un modello statico, da cui attraverso un simulatore matematico lo si ricostruisce in profondità con tutte le sue caratteristiche di permeabilità, porosità, pressione eccetera6.

I risultati degli studi geodinamici consentono anche di definire la capacità di stoccaggio, cioè la quantità di gas che può essere prodotto e iniettato ciclicamente (e che prende il nome di working gas), distinguendo quest’ultimo dal volume di gas inattivo (cushion gas) che invece dovrà essere mantenuto immobilizzato nel giacimento per tutta la durata dell’attività. Il cushion gas ha due funzioni: quella di garantire il mantenimento di una certa pressione e quindi la produttività dei pozzi e quella di tenere ferma l’acqua sottostante, che altrimenti andrebbe ad occupare lo spazio mano a mano lasciato libero dal working gas. Il decreto del 2001 prevede che l’efficienza del giacimento, cioè il rapporto fra il working gas e il volume totale del gas presente in giacimento (compreso quindi il cushion gas), debba essere superiore al 30 %. Gli studi inoltre forniscono i dati necessari a definire il numero dei pozzi da perforare. Non è infatti detto che quelli usati per la produzione primaria abbiano sempre le caratteristiche richieste dallo stoccaggio: I giacimenti di produzione e di stoccaggio sono gli stessi, quello che cambia è il pozzo: nella produzione esso deve avere capacità erogative molto inferiori a quelle richieste per lo stoccaggio. Infatti in produzione il pozzo rimane attivo mediamente vent’anni prima di esaurirsi; nello stoccaggio deve poter erogare in sei mesi e poi ricostituirsi nello stesso tempo. Per dare dei numeri, se in fase di produzione il pozzo al massimo eroga 200.000-300.000 metri cubi giorno, i pozzi di stoccaggio possono arrivare a due milioni di metri cubi giorno7.

La necessità di assorbire e restituire importanti volumi di gas in un arco di tempo ridotto richiede che i tubi abbiano un diametro più grande: Abbiamo anche seguito lo sviluppo del campo di Sergnano: lì, per favorire la produzione immediata, si sono fatti scendere per la prima volta tubi più grandi di quelli normalmente usati, che permettevano l’erogazione fino a due milioni di metri cubi al giorno8. 6 Intervista a Daniele Marzorati, 6 marzo 2012. 7 Ibidem, 6 marzo 2012. 8 Intervista a Giovanni Rossi, 6 marzo 2012. Il campo di Sergnano oggi ha 40 pozzi, in grado di


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Per lo stesso motivo si impone l’uso di tecnologie sempre all’avanguardia, come quelle relative ai filtri per fermare la sabbia9 e alle valvole di sicurezza in profondità, che intercettano il flusso in caso di necessità. Anche la collocazione dei pozzi nel campo deve rispondere ad esigenze diverse rispetto a quelle imposte dalla produzione primaria: I nuovi pozzi devono essere collocati in zone strategicamente utili per rispondere ai requisiti richiesti dall’attività di stoccaggio. Se ad esempio un giacimento di produzione primaria ha un’estensione areale relativamente ampia si cerca con i pozzi di coprirlo tutto per poter recuperare il massimo del gas. Lo stoccaggio invece si basa su presupposti diversi. Il cushion gas rimane sempre in giacimento, quindi avendolo sempre a disposizione c’è la possibilità di concentrare i pozzi al culmine della struttura, quindi in una zona dove c’è sempre gas per tutta la campagna erogativa da ottobre a marzo, così da poter chiedere ai pozzi stessi prestazioni elevate senza incorrere nel rischio di produrre acqua, che in giacimento è sempre presente sotto il gas. I pozzi marginali hanno per lo più invece la funzione di garantire il monitoraggio di come si sposta il gas all’interno del giacimento10.

Una volta attrezzati i pozzi necessari, occorre poi fornire la centrale degli impianti di superficie necessari al processo: quelli di compressione e quelli per il trattamento e la disidratazione del gas. Come si può facilmente dedurre da quanto detto finora, gli investimenti necessari per sviluppare un campo di stoccaggio sono molto elevati, a fronte di tempi di realizzazione che a giudizio dei tecnici da noi intervistati risultano essere ancora troppo lunghi, soprattutto per la complessità della fase autorizzativa. Occorre infatti tenere presente che i giacimenti vengono dati in concessione dal Ministero per vent’anni (più due eventuali proroghe di dieci anni ciascuna), e che in questo arco di tempo occorre rientrare dalle spese fatte e avviare una vendita lucrosa del gas (i cui prezzi non sono liberi, ma fissati dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas), sfruttando il giacimento in tutte le sue potenzialità: Mano a mano che si affacciano nuove tecnologie cerchiamo di ottimizzare le prestazioni dei campi esistenti, quindi dove è possibile si vanno a perforare nuovi pozzi nei giacimenti che già ci sono, e nel contempo cerchiamo di sviluppare nuovi asset, il tutto in un arco di tempo compatibile con quello concessoci dal Ministero. Purtroppo oggi i tempi sono ancora lunghi: si parla di un minimo di sette anni per sviluppare un campo11.

Ovviamente non tutti i campi risultano avere uguali livelli di efficienza: fornire fino a oltre 50 milioni di metri cubi di gas al giorno nel periodo di punta delle prestazioni. 9 Tali filtri, posizionati in profondità, servono a trattenere le particelle solide più fini che potrebbero pregiudicare il rendimento del pozzo. 10 Intervista a Enrico Barbieri, 6 marzo 2012. Oggi stogit dispone di 431 pozzi in esercizio, di cui 290 operativi e gli altri di monitoraggio. 11 Intervista a Enrico Barbieri, 6 marzo 2012. A fianco: Centrale di stoccaggio con particolare di valvole



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La piccola “America” Come Stogit in Lombardia ed Emilia abbiamo giacimenti ad efficienza molto elevata, che possono rispondere in modo efficace alle richieste di elevate prestazioni, mentre altri giacimenti ad efficienza minore servono a bilanciare quelle prestazioni che servono in testa o in coda alla campagna erogativa. La gestione integrata dei vari asset di stoccaggio permette così di rispondere in modo ottimale alle richieste del mercato12.

Dai pochi accenni tecnici fatti si intuisce già che la procedura di stoccaggio presenta aspetti di grande interesse. Vediamo quindi di conoscerla ancora più nei dettagli, con l’aiuto dei racconti degli esperti. Le tecniche per stoccare il gas L’attività di stoccaggio risponde a due distinte esigenze. Prima di tutto, come già accennato, essa consente di fronteggiare lo squilibrio stagionale che si verifica tra domanda e offerta di gas in conseguenza degli andamenti diversificati tra fornitura e consumi. Mentre infatti l’offerta di metano, alimentata per la gran parte dall’importazione13, registra solitamente un andamento costante nel corso dell’anno, la domanda di esso è influenzata dalle condizioni climatiche, e risulta tre o quattro volte superiore nella stagione invernale, soprattutto per le esigenze legate al riscaldamento domestico. Attraverso questo processo, quindi, è possibile immagazzinare gas nei giacimenti quando minore è la richiesta, per erogarlo poi nel periodo di maggior consumo. Ecco allora che ogni centrale di stoccaggio è organizzata per operare ciclicamente in due fasi: da aprile a ottobre per l’immissione del gas in giacimento e da ottobre ad aprile per l’erogazione e la successiva immissione nella rete di trasporto. La dipendenza del nostro Paese dal gas prodotto all’estero, però, affida all’attività di stoccaggio un’altra funzione fondamentale: una parte dei quantitativi immagazzinati nei giacimenti svolgono infatti il ruolo di “riserva strategica”, cioè possono essere utilizzati nel caso in cui si debbano affrontare riduzioni significative o prolungate delle forniture da paesi stranieri, o condizioni climatiche particolarmente rigide. Ecco che quindi la centrale deve poter in ogni momento far fronte ad esigenze improvvise. Nella fase di iniezione il gas, attraverso il punto di consegna del fornitore, entra in centrale, dove viene misurato per determinare il prezzo che gli importatori devono pagare per il servizio: Durante tutto il processo non c’è alcuna perdita di gas: ci sono invece dei consumi, perché ad esempio per stoccare servono delle turbine che vanno a metano: Per questo ci sono delle misurazioni fiscali: se mi danno 100 e io uso 1 per le turbine, di fatto stoccherò 99, e questo sarà quello che restituirò14.

12 Ibidem, 6 marzo 2012. 13 Con il gas italiano si riesce a coprire solo il 10 % del fabbisogno nazionale. 14 Intervista a Roberto Canevari, 15 febbraio 2012.


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Subito dopo il gas viene inviato all’impianto di compressione, dove subisce l’incremento di pressione necessario per poter essere immesso nei pozzi, e di seguito fatto arrivare a questi ultimi tramite pipeline. L’operazione è stata così descritta da Ezio Comandù, attualmente occupato nella centrale di Ripalta. A Ripalta Cremasca si fa la compressione, mentre a Ripalta Guerrina (a un chilometro di distanza, in mezzo c’è una strada) si trovano i pozzi. Prima viene fatta la compressione con i turbo gas che muovono il compressore e pompano nel giacimento: hanno una potenza di 35.000 cavalli – 25 megawatt – e aspirano a 50 bar il gas dalla rete per comprimerlo a circa 180 bar in giacimento. Le turbine sono le macchine più complicate che abbiamo, e anche adesso ci lavoro con qualcuno più esperto che viene dalla snam: prima infatti noi come agip curavamo solo il trattamento e lo stoccaggio, mentre la compressione veniva fatta dai tecnici della snam15. Il gas stoccato nei giacimenti verrà quindi estratto e restituito alla rete di commercializzazione quando l’aumento dei consumi o improvvise emergenze come quelle prima accennate lo renderanno necessario. Mentre però nella fase di iniezione il gas presenta già tutte le caratteristiche per essere pompato nei giacimenti, all’uscita da questi ultimi esso deve essere sottoposto a speciali trattamenti, per renderlo conforme ai parametri previsti per l’immissione in rete. In particolare occorre separare il metano dai liquidi (acqua ed eventuali idrocarburi pesanti) assorbiti nel sottosuolo ed eliminare il vapore acqueo presente. Tale processo di disidratazione avviene per gravità all’interno di colonne dedicate a questo scopo: all’interno di esse il gas passa attraverso una specifica sostanza, il glicole dietilenico o trietilenico, le cui proprietà igroscopiche (cioè di assorbimento di acqua) consentono di deumidificarlo. A quel punto il gas attraversa un filtro posto nella parte alta della colonna ed è pronto per l’immissione in rete. Il glicole utilizzato per l’operazione viene poi raccolto e inviato in un impianto di rigenerazione dove, mediante riscaldamento, è liberato dall’acqua assorbita e rimesso in circolo. I fluidi risultanti dal processo di disidratazione sono invece raccolti in appositi serbatoi e di seguito reiniettati in sottosuolo attraverso un pozzo apposito o smaltiti rispettando le disposizioni vigenti. Oltre alle colonne per la deumidificazione, nella centrale di trattamento sono quindi presenti anche altre infrastrutture, quali condotte di collegamento, impianti di rigenerazione del glicole, impianti di trattamento dei fluidi, sistemi di misura della portata e della quantità del gas, sistemi di sicurezza e generatori elettrici di emergenza.

Il procedimento di iniezione e di estrazione del gas stoccato fin qui descritto è rimasto nelle sue caratteristiche generali sostanzialmente lo stesso dai primi esperimenti avviati a metà degli anni Sessanta. L’evoluzione della tecnologia non è stata tuttavia priva di effetti sul processo, e i racconti di coloro che hanno avuto modo di seguirne professionalmente gli sviluppi ne danno chiara testimonianza. Una delle innovazioni più rilevanti riguarda la pressione di esercizio del giacimento (cioè quella con cui il gas viene pompato nel sottosuolo), che di regola 15 Intervista a Ezio Comandù, 5 giugno 2012.


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non può superare quella iniziale di scoperta: dal 2001 Stogit ha però avviato a Settala la sperimentazione per aumentare la prima del 7 % rispetto alla seconda, ampliando quindi la capacità di working gas e quindi la capacità di stoccaggio del giacimento. Ecco come Daniele Marzorati, responsabile dell’Unità giacimenti dell’azienda, ha ricostruito le tappe di questa importante innovazione: A Settala la sperimentazione è partita nel 2001 e approvata nel 201016: facendo un aumento solo del 7 % rispetto alla pressione originaria in superficie abbiamo potuto incrementare di 500 milioni di metri cubi, cioè del 30 %, la capacità del giacimento. La verifica della possibilità di applicare questa tecnologia passa per una lunga serie di studi, che permettono di acquisire una migliore definizione dell’assetto strutturale del giacimento attraverso una sismica in 3D, e mediante l’effettuazione di una serie di carotaggi che interessano tutta la copertura del giacimento, e sui quali vengono fatte analisi di meccanica delle rocce per stabilire quale valore massimo di pressione sia applicabile per evitare fratture nella roccia di copertura o migrazioni di gas verso di essa. Sulla base di queste analisi viene presentata un’istanza al Ministero dello Sviluppo Economico che farà le sue valutazioni e se ritiene il piano esaustivo darà l’autorizzazione alla sperimentazione, che può essere fatta in uno o due anni17.

La scelta di iniziare la sperimentazione dell’over pression a Settala, fra tutti i campi di stoccaggio in concessione a stogit, non è stata casuale, come spiega ancora Daniele Marzorati: Perché Settala? Il motivo è che lì c’è un acquifero molto forte, che in passato è risalito andando a ridurre lo spazio poroso di circa 300 milioni di metri cubi. Grazie alla sovrapressione si è potuto di nuovo spingere l’acquifero in basso18.

Esaurita la fase di sperimentazione è stata avviata la procedura per ottenere l’autorizzazione definitiva allo stoccaggio, che, come si desume dal racconto che segue, è piuttosto lunga e complessa: Alla fine della sperimentazione va presentato al Ministero che l’ha autorizzata un rapporto finale, sulla base del quale il Ministero stesso dà l’ok alla presentazione dell’istanza al Ministero dell’Ambiente per poter avviare la procedura di via. Ottenuta quest’ultima autorizzazione in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico e con l’Intesa Stato Regioni si definiranno le compensazioni che devono essere date al territorio (ad esempio per eventuali strutture aggiuntive in superficie, o per quelle del tutto naturali piccole perdite di gas che vanno a disperdersi in atmosfera) e quindi ci sarà il via all’esercizio. È una lunga trafila, a cui segue anche dopo l’avvio uno stretto monitoraggio diretto sia a controllare il gas nel sottosuolo (per noi il gas 16 La sperimentazione di over pression è stata avviata a Settala nel 2001 con l’autorizzazione del Ministero delle Attività produttive. Il progetto ha poi ottenuto il decreto di compatibilità ambientale dal Ministero dell’Ambiente il 27 gennaio 2010 e l’autorizzazione all’ampliamento della capacità di stoccaggio dal Ministero dello Sviluppo Economico nell’ottobre dello stesso anno. 17 Intervista a Daniele Marzorati, 6 marzo 2012. 18 Ibidem, 6 marzo 2012.


Lo stoccaggio del gas

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è come il soldo per le banche, non possiamo permetterci di perderlo!), sia relativo alla superficie (monitoraggio della subsidenza, monitoraggio ambientale). Ogni attività è corredata da rapporti che poi vanno consegnati agli enti competenti (ad esempio l’unmig, Ufficio Nazionale Minerario per gli Idrocarburi e le Georisorse, che per il nord Italia è situato a Bologna, e che è l’organo esecutivo del Ministero dello Sviluppo Economico) che svolgono funzioni di controllo19.

Oggi la sperimentazione in over pression è stata avviata anche nei campi di Ripalta, Sergnano e Minerbio, mentre si conta di estenderla anche ai giacimenti di Sabbioncello e Fiume Treste. L’evoluzione della tecnologia ha coinvolto in modo non meno significativo anche le modalità di perforazione dei pozzi. Non tutti i giacimenti come abbiamo detto hanno i medesimi requisiti di efficienza, e proprio per ovviare a queste differenze si è deciso di utilizzare una tecnica già applicata nel settore dell’upstream fin dagli anni Ottanta, quella dei pozzi orizzontali. Così Enrico Barbieri ne ha presentato i vantaggi: È chiaro che caratteristiche diverse della roccia serbatoio determinano nel giacimento di stoccaggio prestazioni diverse e quindi una diversa gestione e un diverso ricavo. Noi abbiamo giacimenti con caratteristiche petrofisiche importanti di permeabilità e porosità. Grossa porosità significa grande capacità di stoccaggio e grosso volume da poter stoccare in termini di spazio, ma se questi pori non sono comunicanti l’estrazione diventa difficile, e qui entra in gioco la permeabilità: se anche questa è elevata, allora un’alta efficienza è garantita. I giacimenti di Sergnano, Minerbio, Ripalta e Settala hanno grossa porosità ed elevata permeabilità, e questo ci permette di ottenere le massime prestazioni con pozzi completati con diametri grossi. Non è però che se le caratteristiche petrofisiche sono scadenti i giacimenti non siano sviluppabili: la concessione di Fiume Treste ad esempio ha caratteristiche petrofisiche decisamente inferiori a quelle della val Padana, così per rendere il giacimento performante abbiamo realizzato pozzi orizzontali, una tecnologia che prevede una lunga esposizione del tratto di pozzo in giacimento che va a compensare la scarsa permeabilità. Questo sistema si usa proprio quando si ha un giacimento di spessore ridotto e con ridotta permeabilità20.

Il primo esperimento in attività di stoccaggio di un pozzo che presenta nella sua parte terminale una traiettoria suborizzontale è stato realizzato da stogit a Ripalta nel 2005. Il bilancio aziendale del 2006 lo motiva così: La perforazione del pozzo Ripalta 61 Or, primo pozzo perforato con tecnologia orizzontale in ambito stoccaggio, è stata programmata e realizzata nell’ambito di un ampio progetto mirato a potenziare le prestazioni del campo di Ripalta, attraverso il miglioramento e l’ottimizzazione della gestione del reservoir, con incremento delle prestazioni di volume e di punta del campo. La fase realizzativa, iniziata con la perforazione del pozzo nel 2005, si è conclusa nel 2006 con il collegamento e la messa

19 Ibidem, 6 marzo 2012. 20 Intervista Enrico Barbieri, 6 marzo 2012.


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La piccola “America” in esercizio del pozzo alle facilities di superficie21.

Da allora l’utilizzo di tale tecnica di perforazione è andato diffondendosi e oggi rappresenta una pratica consolidata22, continuamente aggiornata e migliorata da strumentazioni sempre più raffinate: Rispetto ai pozzi verticali, la perforazione orizzontale è decisamente più costosa: un pozzo orizzontale costa circa il 30-40 % in più di quelli tradizionali, soprattutto per gli spessori ridotti nei quali si va ad operare. Per poter fare un foro orizzontale all’interno di uno spessore ridotto viene infatti messa in campo una tecnologia molto avanzata che si chiama geostyring e deriva dall’esperienza nella ricerca petrolifera: si tratta di una perforazione guidata che permette di avere informazioni in tempo reale su che tipo di roccia si sta attraversando e quindi di rimanere all’interno del corpo sabbioso. In questo modo, navigando dentro il corpo sabbioso, sviluppiamo fori di lunghezza mediamente di 200-300 metri23.

Anche per ciò che concerne la conoscenza delle caratteristiche del sito di stoccaggio l’evoluzione è pressoché continua, e si avvale dei progressi realizzati nell’attività di ricerca: La parte della ricerca e della migliore definizione del giacimento è un elemento determinante, per il quale occorre far ricorso a tutte le tecnologie che il mondo del petrolio ha a disposizione, a cominciare dalla sismica a 3D, che ormai copre tutti i nostri giacimenti e che ha lo scopo di evidenziare e dettagliare al meglio le caratteristiche geostrutturali del giacimento. Dopo di che ci sono controlli continui e aggiornamenti dei modelli dinamici sulla base del bilancio volumetrico che si ha per ogni campagna di stoccaggio. Attraverso questa azione continua abbiamo la possibilità di poter avere sempre al meglio il nostro strumento di lavoro principe, cioè il giacimento. L’acquisizione di sempre nuove informazioni permette anche di eliminare il concetto di rischio minerario, che è comunque sempre insito anche se il giacimento ha un passato di upstream24.

Il trasferimento di tecnologie dall’attività di upstream di ricerca petrolifera a quella di stoccaggio rappresenta per la società motivo di grande soddisfazione: Posso dire con orgoglio che siamo diventati un punto di riferimento per altri operatori anche a livello europeo. La nostra società è da considerare all’avanguardia nell’applicazione di tecnologie di perforazione e completamento. È infatti da considerare che l’attività di stoccaggio è strettamente connessa a quella di ricerca e di coltivazione di idrocarburi, per cui gli scambi tecnici sono continui. Tecnologie che quindi vengono usate dall’eni in Italia e nel mondo per la ricerca e la produzione possono rivelarsi utili 21 Società Stogit, Bilancio 2006, in www.stogit.it. 22 Oltre che a Ripalta e Fiume Treste Stogit dispone di pozzi orizzontali anche a Cortemaggiore e Sergnano. 23 Intervista a Enrico Barbieri, 6 marzo 2012. 24 Intervista a Daniele Marzorati, 6 marzo 2012. A fianco: Centrale di stoccaggio con collettore di raccolta/smistamento gas



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La piccola “America” anche alla perforazione e al completamento di pozzi destinati allo stoccaggio, perciò c’è una continua sinergia, che ha permesso la crescita di entrambe le attività25.

La continua innovazione tecnologica che investe il settore dello stoccaggio gas costituisce un’indubbia garanzia per il futuro, considerata la crescita a cui l’attività sembra destinata, come conferma anche Renzo Mazzei nella Relazione sull’esplorazione e produzione petrolifera da lui redatta nel 200926: Poiché nel trentennio 2000-2030 è prevista una crescita del consumo gas del 2,4 % all’anno, passando da circa 2.500 miliardi di metri cubi nel 2000 a circa 5.000 miliardi di metri cubi nel 2030, si prevede anche una crescita della capacità di stoccaggio.

Per l’Italia questa prospettiva potrebbe rivelarsi particolarmente favorevole, per la peculiare collocazione sul territorio dei principali campi adibiti a tale funzione: A mio parere l’attività di stoccaggio ha un grosso potenziale di sviluppo soprattutto in vista di una possibile apertura a un mercato a carattere europeo. L’Italia ha la fortuna di avere una serie di campi al nord, quindi molto vicini alle fonti di utilizzo principali; il fatto poi che questi campi siano anche vicini alla frontiera può essere un grosso vantaggio in una prospettiva europea27.

Certo, ha aggiunto Enrico Barbieri, bisogna fare i conti con l’esistente: i giacimenti sono quelli, l’efficienza è quella, gli investimenti rimangono molto elevati e i tempi per le autorizzazioni ancora troppo lunghi: tutti questi fattori non incoraggiano gli operatori, che nonostante ciò si stanno affacciando sul mercato per sfruttare nuove concessioni. E forse proprio l’interesse dimostrato, unito alle favorevoli prospettive future, costituisce il miglior viatico per il domani.

25 Ibidem, 6 marzo 2012. 26 R. Mazzei, Sintesi delle attività di esplorazione, sviluppo e produzione dei giacimenti petroliferi, in www.pionierieni.it, pp. 40-41. 27 Intervista a Enrico Barbieri, 6 marzo 2012. A fianco: Sergnano, Centrale di stoccaggio con particolare delle valvole di regolazione




UNA QUESTIONE NEVRALGICA: LA SICUREZZA

Le esperienze di Caviaga, Bordolano, Trecate Parlare di ricerca e produzione di idrocarburi e di stoccaggio gas significa inevitabilmente affrontare anche tutte le complesse tematiche relative alla sicurezza legate a queste attività. È una questione, quella della sicurezza, che appare sempre presente nei racconti degli addetti ai lavori – i quali proprio in virtù delle loro conoscenze tecniche sono ben consapevoli di tutti i rischi che il trattare con materiali potenzialmente così pericolosi comporta – ma che coinvolge anche in larga misura, e a volte non senza contrapposizioni vivaci, quanti si trovano a condividere il territorio con certe tipologie di impianti. È infatti innegabile che l’industria petrolifera soffre di una certa immagine negativa, derivata soprattutto da incidenti di grande portata e rilevanza che, allorquando si verificano, riempiono per settimane le cronache dei media: esplosioni, incendi, maree nere inducono timori ed allarme e portano inevitabilmente a collegare il mondo del petrolio con i problemi ambientali. Tutto questo induce oggi le società del settore a dedicare ricerche e grandi investimenti per migliorare la sicurezza degli impianti e ridurre i rischi minerari, ma anche per diffondere presso le popolazioni interessate le conoscenze necessarie sugli impianti in funzione e sulla natura dell’attività svolta: un impegno che si rende via via più stringente mano a mano che cresce la valenza politica, sociale e culturale delle problematiche ambientali. In tale ottica sicuramente anche gli incidenti che in passato si sono verificati hanno avuto un ruolo importante nell’accrescere le condizioni di sicurezza e nello sviluppare la tecnologia utile a tale scopo. È quanto è successo per agip, la cui ripresa dell’attività nel secondo dopoguerra è stata attraversata da alcuni episodi di eruzione di pozzi, che hanno appunto avviato una serie di studi e di sperimentazioni dirette ad evitare il ripetersi di simili evenienze. Il primo incidente ha avuto luogo a Caviaga, proprio nel giacimento su cui Mattei aveva fondato la sua scommessa in merito al metano “italiano”. Siamo nel marzo del 1949, pochi anni sono trascorsi da quando gli uomini dell’agip si sono installati fra i campi di questo paesino della bassa pianura vincendo le diffidenze degli abitanti, quand’ecco che accade qualcosa che nessuno ha previsto. Un articolo scritto nel 1955 per la rivista della società «Il gatto selvatico»1 fa una cronaca 1 Il primo pozzo. A Caviaga nel 1946 comincia l’età del metano, in «Il gatto selvatico», anno 1, n. 1,



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dell’evento in termini quasi romanzeschi: Una notte un mugghio spaventoso venne dalla terra. A Basiasco, che è un borgo di quattro case poco distante da Caviaga, ai margini del giacimento, un pozzo di metano era saltato, e il metano usciva impetuoso levandosi altissimo in un pennacchio bianco spumoso che, al sole, doveva rivelare inverosimili iridescenze. […] La natura si prende ogni tanto di queste rivincite sull’uomo. È la legge eterna delle miniere.

Che cosa è successo? Valerio Galvagni, che negli anni successivi avrà modo di occuparsi anche dei pozzi di Caviaga, così ha descritto l’incidente: A quei tempi gli impianti erano quello che erano, e anche le conoscenze. Successe questo: nell’attività di perforazione si è toccata la testa del giacimento che aveva una pressione leggermente più alta, e questo ha fatto sì che il gas si sia infilato alle spalle della batteria e sia fuoriuscito liberamente a testa pozzo. Così si è incendiato tutto. Nel frattempo il gas che usciva, trovando parzialmente chiusa la superficie, si è infilato nelle falde superficiali. Alla fine si è dovuto usare l’esplosivo: con l’esplosione si toglie l’ossigeno e la fiamma si spegne. Poi il pozzo è stato chiuso, ma questo non ha impedito al gas di infilarsi appunto nei terreni sabbiosi (e molto porosi) superficiali, così ogni tanto saltava fuori. Così si sono dovuti fare una serie di pozzi di drenaggio collegati con la centrale che prendevano il gas e lo reiniettavano nel metanodotto2.

L’eruzione del pozzo di Caviaga risveglia la paura fra i contadini della zona, che solo da poco hanno imparato a convivere con “quelli del petrolio”. Stando a quanto racconta l’articolo citato più sopra lo stesso Mattei è costretto ad intervenire per vincere le rinate resistenze della popolazione. Accade così che il paese si trovi ad ospitare una strana riunione. Dalle cascine del territorio una ventina di capifamiglia anziani ed autorevoli, accompagnati da due parroci, vengono ad incontrarsi con il potentissimo vicepresidente dell’agip: Cupi, affondati in certi mantelloni neri, col cappello calcato sulle orecchie, tutti stretti attorno a due parroci di campagna, entrarono in un capannone e si schierarono con la schiena appoggiata alle pareti. A questi uomini parlò Enrico Mattei. La scena, illuminata da lampade a gas che davano riflessi strani, caldi, ricordava quelle di certi film americani, quando un villaggio intero si riunisce per dichiarare guerra agli appaltatori di una nuova ferrovia3.

Nonostante l’atmosfera vagamente western, nessuna dichiarazione di guerra viene fatta all’agip. L’incontro dura un paio d’ore, e al termine un segnale visivo ne indica l’esito: luglio 1955. 2 Intervista a Valerio Galvagni, 15 febbraio 2012. Antonio Canonaco ha raccontato (intervista del 15 febbraio 2012) che l’impianto di compressione di Caviaga fu realizzato proprio a seguito della necessità di ricomprimere nel metanodotto il gas che dagli strati superficiali affiorava in superficie. 3 Il primo pozzo, cit. A fianco: Caviaga (Lodi), Pozzo in eruzione


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La piccola “America” I patriarchi di Caviaga, adesso, s’erano tolti il cappello che prima ostentatamente avevano tenuto in testa. Avevano capito4.

Mattei è riuscito a convincere i coriacei anziani del paese che la strada intrapresa è da proseguire: Il primo giacimento era stato anche il primo ad avere il fenomeno d’un pozzo che si era ribellato. La prima reazione della gente fu la paura, ma subito dopo la stessa gente s’accorse che aveva imparato ad amare quelle sue miniere perché significavano lavoro e benessere e che soprattutto voleva bene ai forestieri che erano venuti a scoprirle5.

L’eruzione verrà domata dopo sedici giorni con l’aiuto di tecnici americani, che non mancheranno di denunciare le carenze nelle attrezzature, secondo loro ancora troppo primitive per gestire adeguatamente giacimenti con pressioni elevate. I contatti con gli usa e con le loro moderne tecnologie consentono di fare fronte ai due successivi incidenti di Cortemaggiore, nell’ottobre e nel dicembre 1950. Il secondo in particolare, che colpisce il pozzo 21, porta alla distruzione dell’impianto e alla formazione di un grande cratere: per controllare l’eruzione gli operatori dell’agip devono sottoporsi a un lavoro durissimo, che si prolunga per mesi6. Passerà poco più di un anno prima che un altro pozzo “si ribelli”. Accade a Bordolano, e la vicenda assume grande rilevanza nazionale. È la notte fra il 21 e il 22 marzo 1952. Nel giacimento di gas di Bordolano, di cui solo pochi mesi prima il presidente dell’agip Boldrini ha comunicato agli azionisti la scoperta, definendolo «ricco di promesse7» è in corso il tubaggio dell’ultima colonna del pozzo numero 2, che dovrebbe essere cementata a fondo di quest’ultimo, a oltre 2.000 metri di profondità. A presiedere il lavoro è una nostra vecchia conoscenza, Mazzini Garibaldi Pissard, che nel 1951 ha ricevuto l’incarico di aprire e sviluppare il cantiere. L’operazione sembra procedere regolarmente, ma all’improvviso il pozzo va in eruzione: fango e gas cominciano ad uscire dalla tubazione in manovra. Il personale reagisce con prontezza: chiude il preventer, cioè l’apparecchio di sicurezza posto sull’intercapedine fra la colonna in manovra e quella precedente, e tenta di avvitare sulla bocca libera della colonna l’apposita testa di chiusura, ma quest’ultima manovra viene impedita dalla violenza dell’eruzione. Passa qualche minuto e arriva l’incendio, probabilmente causato da un cortocircuito nell’impianto di illuminazione della torre colpita dal violento getto di gas e fango. Scrive Pissard nel suo diario:

4 Ibidem. 5 Ibidem. 6 Degli incidenti di Cortemaggiore fa una cronaca accurata Daniele Pozzi (Dai gatti selvatici, cit., pp. 254 ss.). 7 Verbale del Consiglio di Amministrazione, seduta del 13 dicembre 1951, in Archivio storico eni, Fondo agip Organi sociali, BE III 1 busta 3. A fianco: Visione notturna di una prova di scarico di gas in atmosfera



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La piccola “America” La fiamma era alta circa 100 metri ed era visibile per un raggio di 50 chilometri, si vedeva anche da Crema. Il ruggito dell’eruzione era sopportabile solo usando speciali tappi nelle orecchie. Per un raggio di 50 metri dal pozzo la terra trema in movimento sussultorio e provoca la diarrea a chi non ha l’intestino robusto. La fiamma attira le pernici che bruciano pur essendo ancora relativamente lontane. Il personale che deve lavorare nei pressi indossa tute di amianto e viene abbondantemente innaffiato con getti d’acqua8.

Ma qual è la causa dell’eruzione? Troviamo la risposta nella nota informativa sull’incidente che qualche giorno dopo l’ingegner Carlo Zanmatti9, direttore generale della Mineraria, scrive a Mattei: responsabile del disastro è la rottura improvvisa ed inaspettata della valvola di fondo della tubazione che si stava calando nel pozzo, destinata a far “galleggiare” la tubazione stessa nel fango di cui il pozzo è riempito. Aggiunge Zanmatti che tale rottura è stata provocata da uno squilibrio di pressione tra l’interno della colonna in manovra e l’esterno della medesima che può aver determinato una spinta dal basso verso l’alto sulla valvola superiore alla sua resistenza. Ciò tuttavia non spiega l’accaduto, in quanto questo tipo di valvole dovrebbe resistere a pressioni ben superiori. Ecco allora che ad entrare in gioco è stato un evento del tutto imprevedibile, cioè un «accidentale occulto difetto del materiale (ghisa e bachelite) di cui la valvola è costituita». Un difetto di fabbricazione, insomma, non attribuibile in alcun modo alla responsabilità degli operatori. Nelle sue note il dirigente della Mineraria insiste con fermezza sulla casualità dell’accaduto, e considerazioni simili vengono fatte anche in un altro interessante documento redatto nelle stesse giornate dallo staff del Ministro dell’Industria in risposta ad un’interrogazione parlamentare sull’incidente di Bordolano10: Non v’è dubbio che la fase del tubaggio è sempre un’operazione molto delicata e rappresenta un periodo di crisi per il pozzo, dovendosi forzatamente mantenerne la bocca aperta per i frequenti avvitamenti dei tubi da abbassare. […]. Le operazioni in corso di attuazione al momento del sinistro erano improntate alla migliore osservanza delle norme tecniche ed erano affidate ad una squadra composta di tecnici cauti e molto sperimentati. Si deve pertanto concludere che il grave incidente verificatosi, peculiare e purtroppo frequente nei lavori di perforazione in giacimenti ad alta pressione, sia da attribuirsi a mera fatalità.

L’insistenza sul carattere accidentale dell’eruzione intende rispondere ai durissimi attacchi che in quelle ore l’agip sta subendo da parte delle società petrolifere americane ed inglesi, le quali, in un periodo in cui già si parla di concedere alla 8 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 104. 9 Appunto per l’onorevole Mattei, 28 marzo 1952, in Archivio storico eni, Fondo eni Presidenza, H III 3, busta 48. Carlo Zanmatti, ingegnere civile, venne assunto dall’agip nel 1927, e ricoprì incarichi di dirigenza all’interno della società fino agli anni Ottanta. 10 Elementi per la risposta all’interrogazione n. 3772 degli onorevoli Cavinato, Belliardi e Giovi, in Archivio storico eni, Fondo eni Presidenza, H III 3, busta 48.


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società italiana l’esclusiva nella ricerca e produzione di idrocarburi in valle Padana, colgono la preziosa occasione per denunciarne le presunte carenze tecniche. Ecco infatti cosa scrivono le “sette sorelle11” all’agenzia di stampa “L’Informazione” il 26 marzo: È convinzione che la serie di disastri che troppo spesso si verificano nei giacimenti di gas naturale nella valle Padana non vanno attribuiti a fatalità o incidenti imprevedibili. Si tratta invece di deficienza di organizzazione e soprattutto di mancanza di esperienza dei tecnici e delle maestranze […]. Infatti in nessuno dei giganteschi giacimenti metaniferi nel Texas, in Argentina, Canada, Russia, Romania ecc. si sono mai verificati così disastrosi incendi12…

Quest’ultima affermazione è contraddetta dalle note redatte dal Ministero dell’Industria13, secondo il quale gli incidenti nei pozzi americani sono stati «più di 40»; d’altra parte, prosegue il documento, occorre porre l’accento sull’impossibilità di prevenire e di impedire del tutto il ripetersi di incidenti simili, dal momento che «il lavoro minerario è uno dei più pericolosi, e pur riconoscendo che nei giacimenti di metano gli incidenti hanno una dimensione spettacolare che impressiona e commuove, possiamo ringraziare la provvidenza che finora ha limitati i danni al solo campo materiale». Anzi, in futuro la provvidenza dovrà esercitare un’ancora più attiva vigilanza: ormai i pozzi produttivi sono centinaia, sempre più profondi e con pressioni sempre più alte, condizioni per le quali «malgrado i più attenti sforzi e la ormai consumata perizia degli operatori» si dovrà mettere in conto una certa quota di incidenti. Mentre la polemica sulle sue cause si arroventa, l’eruzione di Bordolano non accenna a fermarsi. La spettacolarità di essa (non a caso richiamata dallo staff del Ministero) finisce per farne quasi un evento popolare, e Mazzini Pissard non manca di riferire con ironia su questo aspetto: L’incendio attira folle curiose, il cantiere è meta di pellegrinaggio, la forza pubblica fatica molto a tener lontano i curiosi. Gli affaristi spuntano come i funghi con bancarelle di ogni genere di conforto, e funzionano giorno e notte. Uno aveva montato una baracca uso osteria. Col soffocamento dell’eruzione ha perso i clienti, viene in ufficio reclamando il risarcimento danni perché non ha ancora ammortizzato le spese14.

Un ricordo molto simile ce l’ha Giancarlo Dossena, allora ragazzino: Alla sera da Crema si vedeva il cielo rosso in direzione di Bordolano, così siccome c’erano 11 L’espressione fu coniata da Mattei, e stava ad indicare le sette compagnie petrolifere più ricche del mondo: Standard Oil of New Jersey, Royal Dutch Shell, Anglo-Persian Oil Company, Standard Oil of New York, Texaco, Standard Oil of California, Gulf Oil. 12 Le cause dell’incendio del pozzo metanifero di Bordolano, Agenzia di stampa L’Informazione, 26 marzo 1952, in Archivio storico eni, Fondo eni Presidenza, H III 3, busta 48. 13 Elementi per la risposta, cit. 14 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 105.



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poche attrattive (la guerra non era finita da molto) la gente si faceva 35 chilometri in bicicletta per vedere il pozzo che bruciava. Mi ricordo che ci andai con tutta la famiglia, con tanto di soste all’osteria durante il tragitto per un po’ di pane e salame15…

La visione del pozzo in fiamme è così grandiosa che, come ha ricordato Antonio Mazzon16, persino la Domenica del Corriere finisce per interessarsene: una tavola di Beltrame riprodurrà l’incendio nel mezzo delle colture in fiore. L’impossibilità di trovare da soli una via di uscita che fermi l’eruzione induce i tecnici dell’agip a chiedere l’aiuto degli esperti americani. Dal Texas arriva allora Mister Kinley, l’uomo del fuoco, leggendaria figura che ha già all’attivo lo spegnimento di oltre 250 pozzi, «unico esperto al mondo capace di tanto17». Mr. Kinley è un personaggio nel senso vero della parola: quando viene a sapere che l’agip è un’impresa di Stato rifiuta l’incarico, ritenendola «rognosa come tutte le altre società statali per le quali ha lavorato», ma dopo qualche ora di «insistenti preghiere e assicurazioni» ritorna sulla sua decisione, non prima di essersi fatto giurare da Pissard e dagli altri tecnici italiani di non interferire sulle sue decisioni e di garantire «obbedienza pronta e assoluta». Così l’operazione di spegnimento può avere inizio. Dopo due mesi di sforzi, e grazie anche alla realizzazione di due pozzi direzionati verso il fondo del pozzo numero 2, a cui collabora anche un altro tecnico di una società usa specializzata in questo tipo di scavi, l’eruzione viene finalmente domata. L’uomo del fuoco ha vinto, e non senza ragione la sua impresa eccita la fantasia delle pubblicazioni popolari, che gli dedicano ampio spazio. Anche i tecnici italiani ricevono grandi riconoscimenti per l’abnegazione dimostrata nelle fasi di spegnimento: lo stesso ingegner Zanmatti riconosce a Mazzini Pissard un premio di 250.000 lire per il lavoro compiuto18. Negli anni successivi non si registrano più incidenti di questa portata. L’unica eruzione grave ha riguardato uno dei pozzi a olio di Trecate, che nel febbraio del 1994 è entrato in eruzione non controllata, provocando la ricaduta di greggio nebulizzato misto ad acqua su una superficie di 2.800 ettari. Ecco la cronaca che dell’incidente ci ha fatto Giancarlo Dossena, a quei tempi responsabile del Servizio Ambiente a Crema: Alle 15.45 del 28 febbraio 1994 mi chiama in ufficio un collega della perforazione e mi dice: “Siamo in blow out a Trecate 24, attiva subito il piano di emergenza ambientale”. Era successa la cosa più grave che può accadere in campo petrolifero: un pozzo era andato fuori controllo e aveva cominciato a eruttare petrolio. Per i tecnici dell’ambiente il piano di emergenza consisteva nell’attivarsi immediatamente per capire quale impatto sarebbe derivato dall’uscita del greggio. Il blow out inizia alle 15.30 e termina 36 ore 15 16 17 18

Intervista a Giancarlo Dossena, 30 ottobre 2012. Intervista a Antonio Mazzon, 17 aprile 2012. M.G Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 104. Ibidem, p. 105.

A fianco: Pozzo in eruzione in Pianura Padana


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La piccola “America” dopo, alle sei del mattino, grazie alla chiusura del pozzo provocata dal crollo delle pareti dello stesso. Da quel momento siamo potuti intervenire per ripulire l’area, che era coperta di risaie e produceva riso di qualità pregiata. Questo tipo di produzione sotto certi aspetti rappresentava per noi una fortuna, perché i bacini delle risaie sono impermeabilizzati con l’argilla, e quindi il petrolio non dovrebbe infiltrarsi; abbiamo però avuto la sfortuna che alcuni pozzetti che i risaioli usano per scaricare l’acqua a fine stagione, erano rimasti aperti, dando modo al petrolio di penetrare in profondità. L’azione di bonifica è durata sei anni, ma già tre anni dopo i terreni sono stati restituiti agli agricoltori e la produzione di riso doc è ripresa19.

Sebbene l’indagine penale non abbia rilevato condotte colpose da parte dell’agip, l’episodio di Trecate ha rappresentato un prezioso insegnamento sul peso che l’ambiente può giocare nell’esercizio di un’attività industriale. L’articolo scritto su una pubblicazione aziendale qualche anno dopo20 fa luce su questo importantissimo aspetto: Questo tipico incidente ambientale ha esposto l’azienda a dover sostenere costi molto ingenti, ammontanti (al 30 giugno 1999) a 217 miliardi di lire. L’incidente ha comportato infatti, oltre alla necessità di provvedere alla messa in sicurezza e alla riperforazione del pozzo, alla pulizia dei centri abitati e alla bonifica dei terreni, anche il risarcimento dei danni subiti da terzi, con immaginabile lievitazione sia dei costi “esterni” che di quelli interni […]. Alle conseguenze di carattere economico va inoltre aggiunto il danno all’immagine della società che simili incidenti inevitabilmente provocano.

L’episodio di Trecate ha quindi fatto ulteriormente crescere l’attenzione verso la sicurezza, e negli ultimi venti anni specifiche ricerche ed ingenti investimenti sono stati dedicati a questa problematica. Vediamo quindi di esaminare la questione sotto il duplice punto di vista di quanti operano dentro gli impianti e di chi vive nel territorio circostante. I rischi dei pozzi Leggendo le cronache e i racconti delle prime perforazioni italiane non si può fare a meno di notare come nel lavoro i pionieri del petrolio si affidassero per lo più alla loro… buona sorte: la pericolosità intrinseca dell’attività e dei materiali con cui si trattava non era infatti contrastata da pressoché alcuna misura di sicurezza. Non furono pochi coloro che pagarono con la vita questa situazione, e se delle più note fra tali vittime almeno si ricorda il nome, nulla si saprà mai dei tanti oscuri “pozzari” che perirono nel corso di questi primi leggendari tentativi. Solo nel secondo dopoguerra cominciò a svilupparsi una sensibilità in materia di sicurezza dei lavoratori, se non altro vista come un vantaggio anche per l’imprenditore. Un articolo pubblicato sulla rivista dell’agip “Il gatto selvatico” nel 19 Intervista a Giancarlo Dossena, 30 ottobre 2012. 20 Tutto il peso dell’ambiente, in «Notiziario interno Agip», n. 133, novembre 1999.


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1955 affronta il problema proprio in quest’ottica: Il problema della prevenzione degli infortuni interessa direttamente il datore di lavoro sotto due profili: la responsabilità umana e sociale, prima ancora che giuridica, e il pieno rendimento del lavoro. Queste due finalità sono parallelamente e strettamente collegate e il capo d’azienda, la cui iniziativa infortunistica le tenga presenti, otterrà un duplice risultato. Il primo sarà un fatto psicologico, giacché l’operaio che si sente sicuro e protetto nella sua integrità fisica e psichica, è nella condizione ideale per dare il massimo del suo rendimento e per mantenere nei confronti della macchina e in genere di tutto l’ambiente di lavoro, un atteggiamento sereno e superiore: la macchina sarà la collaboratrice dell’uomo e non viceversa. Il secondo risultato sarà pratico: è evidente che una squadra di dieci uomini svilupperà più lavoro di una squadra ridotta a soli nove perché il decimo è all’infermeria o all’ospedale21.

Dopo questa lapalissiana conclusione l’articolo passa ad insistere sulla necessità di «istruire perfettamente l’operaio sull’uso delle macchine alle quali sarà assegnato» e di creare una «coscienza antinfortunistica», traguardi raggiungibili solo integrando l’istruzione professionale con appositi corsi aziendali (non a caso proprio in questi anni sta nascendo il Centro di addestramento di Cortemaggiore22). Di seguito l’autore dello scritto passa ad illustrare quanto è stato realizzato in una delle società del gruppo, la snam, che in questo campo appare decisamente all’avanguardia per i tempi. L’azienda ha infatti istituito un apposito ufficio con il compito esclusivo di studiare l’ambiente e le tecniche di lavoro in relazione agli infortuni verificatisi, per cercare di individuarne le cause, i modi e l’entità. Sulla base dei risultati ha poi elaborato delle tabelle statistiche23, sulla base delle quali ha avviato un’attività diretta in due direzioni, quella della propaganda antinfortunistica e quella normativa e di controllo. A questo scopo è stato quindi creato un Comitato centrale di sicurezza composto da diverse figure professionali (medici, psicologi, tecnici, rappresentanti del personale) per formulare una regolamentazione in materia di prevenzione ed elaborare materiale propagandistico, come i cartelloni esposti in tutti gli stabilimenti e impianti della società. Nonostante il quadro indubbiamente avanzato per quei tempi illustrato in queste righe, dovranno passare ancora molti anni perché quello della sicurezza diventi un tema centrale: ancora nei decenni Settanta e Ottanta per chi lavora nei cantieri i fattori di rischio sono considerevoli. Ecco come Alberto Mocchi ha descritto la sua attività in quegli anni: Era senz’altro un lavoro rischioso, a Ravenna qualche collega ci è rimasto: il gas che 21 La sicurezza nel lavoro, in «Il gatto selvatico», anno 1, n. 6, dicembre 1955. 22 Vedi cap. 2. 23 I numeri indicati in queste tabelle e riportati dall’articolo indicano quanto urgente fosse agire su questo fronte: in quel 1955 presso la snam ogni cinque minuti un operaio subiva un infortunio piccolo o grande, e nello spazio di un semestre questo aveva portato alla perdita di 2.831 giornate lavorative.


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La piccola “America” non si vede, la pressione… occorreva un alto tasso di attenzione. Fra l’altro non c’erano tutte le regole che oggi esistono: quello che contava era il risultato finale, “fallo come meglio credi, ma fallo”, allora era così. Ho provato a lavorare sulle piattaforme semi galleggianti nel Mare Adriatico, dove si operava su passerelle fatte di corda a 28-30 metri di altezza, ma anche senza andare in mare c’era un giacimento a Carpi dove le teste pozzo erano stracariche di olio, quindi scivolosissime, e tu ti dovevi arrampicare per tre o quattro metri su quella ferraglia senza impalcature né linee guida come oggi24.

Alberto Mocchi accenna anche ad altri rilevanti rischi del lavoro di cantiere. Innanzi tutto le sostanze invisibili, prima tutte l’idrogeno solforato, vero incubo degli addetti ai pozzi: La nostra più grande preoccupazione durante la perforazione è quello di incontrare l’idrogeno solforato, che se in percentuali molto basse lo individui dall’odore (uova marce), ma se la concentrazione sale anestetizza il sistema olfattivo e non te ne accorgi. È una situazione molto pericolosa, perché se ci rimani esposto a concentrazioni molto alte ti provoca la paralisi del sistema respiratorio. In passato è successo molte volte25.

Rischi altrettanto importanti derivano dalle pressioni sempre più alte dei giacimenti, che come già detto impongono misure di controllo rigorose per evitare eruzioni e quindi danni agli operatori o all’ambiente: Quando aumentano le pressioni diventa necessario un maggior controllo. Perforando un pozzo infatti ci possono essere sempre momenti di criticità. Non si deve dimenticare infatti che lo scalpello scende con un liquido fangoso a pressione, che ha lo scopo di far sì che la pressione che c’è sotto non ti spinga tutto verso l’alto… Così tu dall’alto devi da un lato spingere e dall’altro recuperare i detriti26…

Contro questi fattori di rischio oggi si è sviluppata una serie di misure dirette a ridurne al minimo la portata. Determinante in questo senso a detta dei tecnici intervistati è stata l’approvazione nel 1996 del decreto legislativo n. 624 «Attuazione della direttiva 92/91/cee relativa alla sicurezza e salute dei lavoratori nelle industrie estrattive per trivellazione e della direttiva 92/104/cee relativa alla sicurezza e salute dei lavoratori nelle industrie estrattive a cielo aperto o sotterranee», anche se sotto certi aspetti eni sembra aver anticipato i tempi, come ci conferma il signor Crotti, che ha vissuto da sindacalista quella stagione: Quando è entrata in vigore la normativa sulla sicurezza noi qui eravamo già più avanti, anche perché c’era una coscienza in questo campo che i lavoratori del settore si portavano appresso: quando sei vicino al pericolo a volte arrivi tu prima della normativa. Anche l’azienda aveva una percezione molto viva sull’argomento, e come sindacalisti non

24 Intervista a Alberto Mocchi, 6 marzo 2012. 25 Intervista a Valerio Galvagni, 15 febbraio 2012. 26 Intervista a Giovanni Antonio Vigani, 15 febbraio 2012.


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abbiamo mai dovuto fare grosse discussioni in merito27.

Già in precedenza il decreto legislativo n. 626 del 1994, oltre a dare forma organica alle normative precedenti sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, aveva rivoluzionato l’approccio a questa tematica, introducendo fra l’altro la figura del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione. Tali normative hanno permesso di definire tutte le procedure per le attività, oltre alle competenze per svolgerle. A questo proposito qualcuno degli intervistati ha evidenziato come alcuni problemi siano sorti a seguito dell’affidamento a società esterne di molti lavori: Le cose non vanno più come subito dopo la guerra, quando la società affidava tutta l’attività a personale che dipendeva da lei e che lei stessa addestrava. A un certo punto si è cominciato ad utilizzare compagnie di servizio esterne che vengono incaricate di lavori specifici (il cosiddetto out sourcing). Così può succedere che queste compagnie, non avendo un lavoro ben quantificabile durante l’anno, si guardano bene dall’assumere persone per tenerle in certi periodi inattive, e così utilizzano lavoratori non all’altezza. Se usi personale tuo sai dal suo back ground quello che sa e quello che non sa, ma quando ti capitano persone magari di altra nazionalità che hanno fatto lavori diversi il problema cresce28.

Ancora più severa appare l’analisi di Giovanni Rossi, che ha rilevato come con gli anni sia un po’ venuta meno la qualità del lavoro, in parte appunto per l’arrivo di società esterne (perché non di rado esse metterebbero al primo posto l’aspetto economico), ma in parte anche per il venir meno dell’attaccamento al proprio mestiere («C’è poca voglia di lavorare, vogliono stare tutti dietro un pc…»). Quali che siano i punti vista individuali, per tutti gli intervistati oggi più che mai occorre rispettare in modo rigoroso le procedure e le normative vigenti e, anche se questo può costare fatica (certi standard di qualità hanno un costo elevato), pretendere il medesimo rispetto da parte degli operatori esterni: solo in questo modo si garantiscono la salute e la sicurezza dei lavoratori impiegati, ma anche di chi vive nel territorio circostante. La questione ambientale e i rapporti col territorio Negli ultimi decenni le tematiche ambientali hanno assunto una rilevanza mai avuta in precedenza: l’acqua, l’aria, il territorio oggi sono finalmente visti come un patrimonio da tutelare e da difendere, e ciò comporta una crescita di attenzione e di vigilanza verso quelle attività umane e industriali che, a torto o a ragione, sono viste come una minaccia a tale patrimonio. A questo nuovo atteggiamento ha contribuito in maniera non secondaria l’incidente di Seveso29, che ha reso sensibili 27 Intervista a Palmiro Crotti, 6 marzo 2012. 28 Intervista a Valerio Galvagni, 15 febbraio 2012. 29 Il 10 luglio 1976 dall’azienda ICMESA di Meda fuoriuscì una nube tossica di diossina che investì


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e consapevoli anche i meno attenti a questi problemi: Negli anni Ottanta cominciavano a farsi evidenti i primi problemi ambientali, e da parte nostra si cominciava a capire che non potevamo fare quello che volevamo. Iniziava ad esserci il problema dello smaltimento dei rifiuti, della qualità dell’aria, delle acque dei pozzi e di come smaltirle. Fra l’altro non erano molti anni che era avvenuto il disastro di Seveso, che aveva evidenziato come la sicurezza degli impianti industriali non riguardava solo l’interno di essi, ma anche le conseguenze per il territorio circostante di possibili incidenti. E la gente da parte sua aveva cominciato a capire che avere un impianto industriale vicino poteva creare dei problemi30.

A tale accresciuta sensibilità si è cercato di rispondere innanzitutto con le innovazioni tecnologiche: si è già avuto modo di accennare alle valvole di sicurezza che intervengono sia in profondità che a testa pozzo per bloccare eruzioni improvvise, ma l’innovazione ha riguardato ad esempio anche le misure per evitare l’inquinamento del terreno e delle falde acquifere: Negli ultimi periodi in cui mi sono occupato di preparare i campi dopo l’asportazione dello strato di terreno agricolo si metteva del tessuto non tessuto (una specie di feltro) su tutta l’area in modo da non contaminare il terreno sottostante con la ghiaia che si metteva sopra. Oltre a questo si è cominciato ad impermeabilizzare i vasconi per i fanghi con dei teli speciali che tenevano gli idrocarburi, e anche quando usavamo il gasolio per la perforazione (accadeva quando – di solito nei pozzi a olio molto profondi – il calore del terreno non consentiva di usare l’acqua, perché sarebbe evaporata e lo scalpello si sarebbe impastato) non c’erano infiltrazioni in quanto veniva usato un fango che teneva la pressione idrostatica laterale in modo che il liquido che circolava nel tubo di perforazione non andasse a contaminare niente31.

Precauzioni simili sono state adottate anche nelle centrali di stoccaggio: Dal punto di vista degli scarichi non c’è pericolo, è tutto isolato, qualsiasi scarico viene convogliato in bacini di contenimento che sono isolati da tutto il resto. Se piove anche l’acqua piovana viene convogliata in vasche che la analizzano prima di mandarla in roggia. Quanto all’acqua che viene estratta dal gas negli impianti di disidratazione, essa ha un trattamento diverso: o viene reiniettata in pozzi apposta o se non ci sono questi pozzi viene trattata e smaltita in discariche specializzate. Oggi fra l’altro ci sono leggi molto restrittive che disciplinano tutta la materia, e i controlli sono molto serrati32.

Quest’ultimo accenno di Roberto Canevari ci permette di aprire una breve parentesi sulle normative in materia ambientale relative ai siti industriali che usano una vasta area di terreni nei comuni limitrofi, in particolare Seveso. Circa 240 persone furono colpite da gravissime forme di dermatosi, e a tutt’oggi sono ancora incerti e controversi gli effetti prodotti a lungo termine dalla sostanza. 30 Intervista a Enzo Legnani, 17 aprile 2012. 31 Intervista a Vittorio Maioli, 15 febbraio 2012. 32 Intervista a Roberto Canevari, 15 febbraio 2012. A fianco: Trecate (Novara), Pozzo in eruzione



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sostanze pericolose. Anche in tale campo il disastro di Seveso ha comportato un preciso cambio di rotta: la Direttiva europea33 che prende il suo nome proprio dal comune della Brianza sede dell’incidente ha inteso disciplinare in maniera severa la questione della prevenzione dei grandi rischi industriali, e sotto di essa oggi ricadono le attività di perforazione e di stoccaggio. Tale Direttiva prevede fra l’altro l’obbligo di identificare gli stabilimenti a rischio, l’informazione della popolazione, il controllo dell’urbanizzazione circostante e la creazione di autorità preposte all’ispezione dei siti, che per l’Italia sono costituite dai Vigili del Fuoco, dall’arpa e dal Comitato Tecnico Regionale, a cui si affianca l’unmig (Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse). L’unmig in particolare esercita controlli severissimi: come ci ha raccontato Ezio Comandù «se una cosa non è come dicono loro non si apre nemmeno l’impianto, e ogni variazione sull’impianto stesso deve essere da loro approvata34». Una disciplina così rigida ha comportato l’appesantirsi delle pratiche burocratiche, e per qualcuno questo rappresenta un po’ il rovescio della medaglia: Per tutte le centrali del Cremasco si sono dovuti fare studi per capire ogni aspetto relativo alla sicurezza del territorio intorno. Peccato che poi la burocrazia abbia preso il sopravvento, e dallo studio reale dei problemi si è passati al quintale di scartoffie che andavano preparate per ogni cosa35.

Un altro elemento negativo viene letto nelle non rare “incomprensioni” col mondo della politica. Sempre Enzo Legnani ha infatti raccontato: Quando abbiamo cominciato a costruire la centrale di Trecate io ero il responsabile Ambiente Sicurezza e relazioni pubbliche e passavo praticamente metà del mio tempo alla regione Piemonte a parlare con questo e con quello, a convincere l’uno o l’altro. C’erano delle legittime preoccupazioni, ma c’erano anche dei timori ingiustificati da parte dei politici e dei burocrati. Per fortuna eravamo ancora agli inizi e ancora si poteva parlare con le persone: non so quanti meeting abbiamo fatto con i Consigli comunali della zona… Oggi è ancora peggio, basta che qualcuno faccia ricorso e tutto si blocca…

La severità della normativa, e le rigorose verifiche sul rispetto di essa, la migliorata tecnologia e le conoscenze acquisite nel tempo fanno pensare a tutti gli intervistati che attualmente le possibilità di incidente ambientale siano davvero ridotte al minimo, soprattutto nell’attività di stoccaggio: quelli su cui si opera, viene detto, sono giacimenti di cui si conosce nei minimi dettagli la “storia” e le caratteristiche, e tale perfetta conoscenza rappresenta la più solida garanzia di sicurezza. Ciò secondo gli operatori dovrebbe valere anche per quanto concerne il rischio sismico, su cui pure ancora oggi si accendono non poche discussioni: la frequenza infatti con cui nel nostro Paese si verificano eventi tellurici ha indotto una parte 33 Direttiva europea Seveso (82/501/CEE), recepita in Italia con DPr. 17 maggio 1988. 34 Intervista a Ezio Comandù, 5 giugno 2012. 35 Intervista a Enzo Legnani, 17 aprile 2012.


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dell’opinione pubblica a interrogarsi da una parte sull’esistenza di un collegamento fra perforazioni e terremoti, e dall’altro sugli effetti che potrebbero essere provocati da un sisma che avesse il suo epicentro nei pressi di un sito di stoccaggio. Di questi timori abbiamo ad esempio testimonianza in un carteggio risalente agli anni Settanta e reperibile presso l’archivio dell’eni. Esso in realtà riguarda l’attività di perforazione in mare (precisamente nell’Adriatico centrale), ma ci pare ugualmente significativo. In un appunto indirizzato al presidente Raffaele Girotti36 un dirigente della società lamenta la cattiva pubblicità che il Corriere dell’Adriatico sta arrecando alla stessa attraverso «vistosi» articoli che prospettano collegamenti fra i frequenti terremoti di Ancona e l’attività della piattaforma petrolifera agip posta a 130 chilometri dalla costa. Secondo l’estensore del documento gli articoli pubblicati non farebbero altro che «mantenere vive le preoccupazioni della popolazione nei confronti dell’attività di perforazione» e condizionerebbero pesantemente le amministrazioni interessate. Proprio a conferma di quest’ultima osservazione, negli stessi giorni viene presentata al Consiglio regionale delle Marche un’interrogazione che chiede chiarimenti su quanto ipotizzato dal giornale. Questa volta a intervenire per l’agip è il Direttore generale della Divisione Mineraria Egidi: in un telegramma spedito al presidente della giunta marchigiana egli definisce del tutto infondate ed irresponsabili le voci diffuse, invitando i membri del governo regionale ad «incontri con esperti qualificati per illustrare e dimostrare obiettiva estraneità ricerche effettuate da agip Mineraria rispetto a fenomeni tellurici». Nonostante le tante rassicurazioni le preoccupazioni relative a eventuali legami fra perforazioni e terremoti, nonché agli effetti di questi ultimi sugli impianti di produzione o di stoccaggio sembrano tutt’altro che scemate. Nel racconto che ci ha fatto Giancarlo Dossena ha voluto quindi fare alcune precisazioni: Bisogna innanzitutto avere le idee chiare sull’origine dei terremoti. Occorre capire dov’è l’ipocentro, cioè dove nasce il terremoto nel sottosuolo, e in Italia esso si trova di solito a profondità dell’ordine di 15-20 chilometri. Ora, i giacimenti di gas e petrolio sono molto più superficiali (al massimo a 5.000 metri, quindi quando mi parlano di legami fra giacimenti di gas e terremoti non posso che pensare a delle fantasie. Quanto poi agli effetti sugli impianti di un terremoto, bisogna tenere presente che tutte le strutture sono antisismiche (grazie anche al loro materiale, l’acciaio, particolarmente elastico): quando ci furono imponenti terremoti nel golfo Persico le piattaforme petrolifere non corsero nessun rischio37.

Anche Daniele Marzorati ha voluto soffermarsi su questo tema, con particolare riguardo all’attività di stoccaggio:

36 Appunto per l’ingegner Girotti, 5 ottobre 1972, in Archivio storico eni, Fondo eni Presidenza, I II 1, busta 9. 37 Intervista a Giancarlo Dossena, 30 ottobre 2012.


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La piccola “America” Per ciò che concerne la sicurezza degli impianti abbiamo una rete microsismica che stiamo cercando di impostare per ciascun giacimento in sovrapressione per poter avere un quadro di tutte le possibili relazioni fra sismicità naturale e attività di stoccaggio. Ora dagli studi fatti è stato verificato che anche andando in sovrapressione non si creano situazioni critiche sotto questo aspetto. È però innegabile che la domanda su quale effetto un sisma profondo può provocare è molto sentita dalla popolazione. Su questo la società è molto attenta e organizza spesso degli open day con la gente, nel cui ambito è possibile rivolgerci tutte le domande e noi cerchiamo non solo di dare risposte efficaci, ma anche di confutare con dati sicuri certi tipi di timori. Ad esempio a Minerbio c’è stato il caso del terremoto che ha preceduto quello dell’Aquila raggiungendo circa quattro e mezzo di magnitudo e che ha colpito il giacimento mentre era in piena fase di iniezione: ebbene, abbiamo visto che i sensori di pressione non hanno segnalato nessuna perdita di gas, il che sta a certificare che il sistema ha retto in pieno all’onda d’urto38.

Daniele Marzorati fa un importante riferimento, che vale la pena di sottolineare: nell’esercizio di attività critiche dal punto di vista ambientale quali sono quelle legate agli idrocarburi il rapporto con la gente diventa di primaria importanza, soprattutto in quanto esse di solito non si esauriscono in poco tempo, ma al contrario si trovano a far parte integrante per molti anni della vita del territorio, condizionandone le scelte amministrative, l’economia, il tessuto sociale. Abbiamo già avuto modo di occuparci delle compensazioni che erano previste per le aree sedi di giacimenti di produzione39, ma la situazione non è certo dissimile oggi, nella fase di preparazione di un sito di stoccaggio. Spiega infatti Daniele Marzorati: La nostra attività non può prescindere da un inserimento ottimale nel territorio: c’è quindi un continuo scambio di informazioni con la gente, che consente di creare i necessari rapporti di convivenza. Una concessione dura 20 anni, con possibilità di due estensioni di 10 anni: dovendo stare sul territorio magari 40 anni bisogna cercare di avviare per forza le migliori relazioni possibili, senza raggiungere situazioni di conflittualità40.

Ovviamente questo non significa che la scelta di localizzare in una certa area un impianto di produzione o di stoccaggio sia accolta senza difficoltà: proprio il crescere della sensibilità ambientale infatti a volte contribuisce a sviluppare delle contrarietà. È quanto succede ad esempio a Bordolano, dove stogit ha in progetto di trasformare il vecchio sito di produzione ormai esaurito, in un impianto di stoccaggio. Il rapporto con le popolazioni dei territori ha consentito di affrontare anche altri tipi di questioni ambientali, non legate precipuamente alla sicurezza, ma importanti e significative per chi abita in prossimità dei cantieri. La principale di esse è inerente 38 Intervista a Daniele Marzorati, 6 marzo 2012. 39 Vedi cap. 1. 40 Intervista a Daniele Marzorati, 6 marzo 2012.


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all’inquinamento di tipo acustico che le attività del cantiere possono comportare per le abitazioni vicine. Anche in tale ambito la tecnologia ha sicuramente migliorato l’impatto, ma i problemi non si sono del tutto esauriti: Il problema è che una volta i pozzi erano nelle campagne, mentre oggi ci sono costruzioni intorno e ci si può sentire disturbati. Comunque adesso intorno al pozzo ci sono pannelli fonoassorbenti e gli impianti di perforazione non sono più meccanici, ma idraulici, e questo ha diminuito fortemente il rumore. Mi ricordo che anni fa a Settala chi abitava nelle case che erano a 150 metri di distanza si è lamentato perché sentiva il cicalino del muletto in retromarcia: così abbiamo tolto il cicalino, ma siccome così non era più in sicurezza abbiamo sospeso le operazioni dalle 22 alle 641.

A conclusione di questa panoramica vale ancora la pena di dedicare alcuni cenni a due aspetti finora trascurati. Il primo riguarda la sicurezza nei cantieri all’estero. Con il miglioramento della professionalità, della tecnologia e della sensibilità in materia anche l’attività di chi lavora nei cantieri all’estero ha registrato decisivi miglioramenti. La situazione era invece ben diversa nei primi, rampanti anni delle esplorazioni dell’eni in Asia e Africa. Per i tecnici che accettavano di trascorrere lunghi periodi in questi cantieri remoti, infatti, alla durezza del lavoro si accompagnavano spesso rischi non indifferenti. Riportiamo in merito una testimonianza che documenta in modo efficace la componente “eroica” che in alcuni casi accompagnava queste trasferte: In Kazakhstan nel ’93 la situazione era drammatica. Lavoravamo in una centrale che produceva dell’olio con una percentuale di solfuro di idrogeno dieci milioni di volte superiore a quella letale: l’ordine che avevamo era che appena avevamo sentore che potesse accadere qualcosa dovevamo tagliare la corda… Il problema però era che il solfuro si sente finché è poco, poi quando supera una certa soglia non si sente più… L’impianto era tenuto insieme col filo di ferro, c’erano rischi pazzeschi, per fortuna non è mai successo niente. Poi mano a mano con il passare el tempo abbiamo preso noi in mano la situazione, così abbiamo migliorato la sicurezza e cominciato a costruire impianti nuovi42.

Il secondo aspetto a cui appare opportuno dedicare qualche attenzione riguarda i metanodotti. Oggi stogit fa parte di snam, nel cui gruppo c’è anche snam Rete Gas, che si occupa del trasporto del metano attraverso il Paese. Fra le esperienze lavorative ascoltate ci sono quindi anche quelle connesse alla rete di metanodotti, e quindi alle problematiche in materia di sicurezza da essi indotte. Il signor Galimberti, che si è occupato di questo ambito durante la sua attività in snam Rete Gas, ha voluto sottolineare come ad esempio molti studi siano stati dedicati (anche 41 Intervista a Giovanni Antonio Vigani, 15 febbraio 2012. Oggi si cerca di intervenire per attenuare anche l’impatto visivo degli impianti: secondo le testimonianze per la nuova centrale di Bordolano verranno usati materiali e progettati spazi verdi che renderanno più gradevole l’inserimento nella campagna circostante. 42 Intervista a Enzo Legnani, 17 aprile 2012.


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in collaborazione con il mondo universitario) ad affrontare al meglio la questione dei tubi da montare in terreni particolarmente impervi o franosi, e come proprio tale attenzione, forse addirittura superiore a quanto strettamente richiesto, abbia permesso di evitare grossi problemi. Ha anche aggiunto che in questo particolare settore la strumentazione non può ancora sostituire del tutto l’intervento umano: Si pensi al controllo aereo sui metanodotti: è una gran bella cosa, perché consente di verificare il tracciato della linea e di verificare se ci sono cose fuori norma (ad esempio gente che costruisce o fa cose strane intorno ai metanodotti), però questo va bene finché tutto è molto visibile, mentre se l’analisi del dettaglio non è possibile è ancora necessario il pedonamento43.

L’analisi svolta finora sul tema sicurezza (considerato appunto sia con riferimento a chi lavora dentro gli impianti che dal punto di vista di quanti vivono nelle loro vicinanze, e dunque della tutela ambientale) ha voluto sottolineare il cambiamento di approccio ad esso che diversi fattori – tempo, innovazione tecnologica, sviluppo di nuove sensibilità sociali – hanno indotto. Rimane da chiedersi se gli anni Duemila stiano portando ad un’ulteriore evoluzione nei modi di affrontare il problema. In altre parole: cosa vuol dire sicurezza oggi? Sicurezza oggi Il quadro introdotto dalla normativa degli ultimi quindici-vent’anni (i già citati Decreti legislativi 626 del 1994 e 624 del 1996, ma anche il Decreto legislativo n. 334 del 1999, relativo al controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose) mira a favorire la nascita di una vera “cultura” della sicurezza, diretta a definire procedure, regole di comportamento e organizzazione delle attività industriali, con particolare attenzione appunto a quelle che utilizzano sostanze pericolose e comportano rischi per i lavoratori e per l’ambiente. In questo spirito negli anni Duemila sono stati istituiti i Sistemi di Gestione Integrata hse (Health, Safety and Environment), dei modelli organizzativi finalizzati al raggiungimento di obiettivi di salute e sicurezza e di salvaguardia dell’ambiente. stogit si è dotata di un sistema di questo tipo nel 2001: ciò significa, come viene specificato nel sito della società, che «tutte le fasi dell’attività (progettazione, realizzazione, gestione operativa, dismissione) sono gestite considerando gli aspetti salute, sicurezza ed ambiente associati e, in particolare, sottoponendo a controllo operativo, sorveglianza e misurazione quegli aspetti valutati significativi44». Tale sistema di gestione intende essere lo strumento per realizzare una serie di obiettivi che vengono indicati in maniera estesa e dettagliata nella Circolare n. 90 del 23 maggio 200845, obiettivi fra cui troviamo: agire nell’integrale rispetto delle leggi 43 Intervista a Francesco Galimberti, 17 aprile 2012. 44 Sistema di gestione integrato hse, in www.stogit.it. 45 Politica hse, in www.stogit.it.


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vigenti in materia; responsabilizzare sui temi in questione la linea organizzativa e promuovere il massimo coinvolgimento dei propri dipendenti e dei contrattisti; valutare e controllare i rischi e gli effetti delle proprie attività per mettere in atto tutte le misure di prevenzione, protezione e attenuazione degli impatti delle attività stesse; promuovere la ricerca e l’innovazione tecnologica per ridurre rischi e impatto ambientale; mantenere e sviluppare il know how attraverso la formazione, l’informazione e l’addestramento; verificare periodicamente il rispetto degli impegni indicati assicurando adeguata informazione in materia alle parti interessate. Un programma senza dubbio ambizioso, in cui spiccano due elementi fondamentali, quello della prevenzione e quello della formazione. Gli stessi fattori che ritroviamo anche richiamati da eni: Nei siti operativi, sono condotte attività di valutazione dei rischi per individuare i principali pericoli per la sicurezza del personale e a seconda delle rilevanze emerse sono sviluppate misure di prevenzione e protezione a tutela delle persone e degli asset. La rilevazione e la registrazione degli eventi incidentali viene messa in atto attraverso un sistema informativo, gestito a livello centrale, che consente di sviluppare dei processi di investigazione interna ed analisi, al fine di intraprendere le opportune azioni di miglioramento. Per la gestione delle emergenze rilevanti, eni si è dotata di un’apposita Unità di Crisi. Ogni anno vengono assegnati specifici obiettivi ai manager per il miglioramento continuo delle attività e degli indici di sicurezza. La formazione avanzata ed elevate competenze degli operatori rappresentano per eni la migliore garanzia di sicurezza. La formazione è uno degli strumenti principali per diffondere la cultura della sicurezza. eni responsabilizza e coinvolge le sue persone nel raggiungimento degli obiettivi di integrità e attiva iniziative di formazione specifica per promuovere comportamenti mirati alla prevenzione46.

Sugli stessi concetti sembra insistere la documentaristica delle due società: così se in un opuscolo divulgativo di eni e snam47 troviamo sottolineata l’importanza di un’attenta e capillare mappatura dei rischi, nella scheda informativa distribuita dalla centrale di Sergnano abbiamo indicate fra le misure più idonee ad evitare incidenti la «selezione adeguata del personale», l’«addestramento periodico» e i «corsi di aggiornamento48». E dalle testimonianze dei lavoratori parrebbe che quelli precedenti non siano solo buoni propositi: La sicurezza è la base di questa azienda, l’obiettivo numero uno. Non so se questo venga ancora dalla mentalità Mattei, comunque questa tematica è sempre al primo posto. Prima di cominciare qualsiasi attività noi dobbiamo metterci in sicurezza: è vietatissimo 46 La sicurezza, in www.eni.com. 47 Rischio: se le conosci lo eviti, in «Obiettivo sicurezza news», n. 2, ottobre 2011. 48 Scheda informativa sui rischi di incidente rilevante per i cittadini ed i lavoratori, Centrale Stoccaggio Gas di Sergnano. La scheda contiene ampie e dettagliate informazioni sulle attività svolte in Centrale, sulle sostanze pericolose utilizzate e sulle misure di prevenzione e sicurezza.


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La piccola “America” fumare, i cellulari ammessi sono solo quelli antideflagranti, abbiamo radio anche quelle antideflagranti, come tutto quello che riguarda l’impianto. Abbiamo anche quello che si chiama “Obiettivo Sicurezza”: noi lavoriamo con un palmare che ogni giorno ci dice le operazioni che dobbiamo fare. Bene, ogni volta che lo accendiamo appare una scritta che ci dice da quanti giorni in quel luogo di lavoro non succede un infortunio. Ci sono anche dei premi per chi va avanti più a lungo senza incidenti49.

A detta di tutti gli intervistati è necessario che questa attenzione non venga mai meno, e che l’argomento sicurezza venga portato avanti con determinazione e convinzione. Questo anche in considerazione di un quadro generale che non vede certo il nostro Paese e il nostro sistema produttivo eccellere in materia. «Non è accettabile che in Italia oggi ci siano più di mille morti all’anno sul lavoro», ci ha detto il signor Galvagni, e noi non possiamo che sottoscrivere il suo pensiero.

49 Intervista a Ezio Comandù, 5 giugno 2012. A fianco: blow out di Trecate 24




LE RELAZIONI SINDACALI

Una situazione di privilegio Scorrendo le trascrizioni delle nostre interviste ai lavoratori che in periodi diversi hanno prestato la loro opera professionale nel Centro operativo di Crema non può non saltare all’occhio un elemento ricorrente: l’insistenza nel definire l’esperienza lavorativa vissuta come di indubbio privilegio, non solo rapportandola a quelle che oggi i giovani sono così spesso costretti a sperimentare, ma anche rispetto alle condizioni in cui si trovavano negli stessi anni altri lavoratori. Essere assunti all’agip rappresentava per gli abitanti del territorio un traguardo ambito e una fortuna non da poco. In realtà almeno fino agli anni Ottanta questa sensazione di lavorare in un contesto privilegiato era comune a molti di quanti erano occupati nelle maggiori realtà industriali: la grande fabbrica assicurava una paga garantita fino alla pensione, e accompagnava di padre in figlio intere famiglie, dai primi passi nel mondo del lavoro alla naturale chiusura del percorso occupazionale. Non si trattava però solo di questo, della sicurezza del posto mantenuto per tutta la vita: le aziende più importanti garantivano molto spesso una serie di supporti impossibili da trovare altrove, davano la casa dove vivere, fornivano scuole, asili e colonie estive per i figli, organizzavano le iniziative del dopolavoro, a volte disponevano persino di Mutue interne a cui ricorrere in caso di malattia. Tutti questi beni e servizi offerti ad un prezzo inferiore a quello di mercato consentivano di mantenere basso il conflitto sociale dentro la fabbrica e nel contempo permettevano di contenere i salari, ma per alcuni imprenditori rappresentavano anche la realizzazione di una propria visione dei rapporti con le maestranze, tesa a sviluppare in esse un forte senso di appartenenza a una comunità, che non si riduceva alle sole ore di lavoro, ma coinvolgeva ogni aspetto della vita. Proprio su questa chiave di lettura hanno ad esempio insistito i signori Comandù e Galimberti, entrambi richiamandosi alla figura di un altro industriale illuminato, Adriano Olivetti: Eravamo molto agevolati in tante cose. Anche adesso, se si pensa a quello che succede fuori, lo siamo, ma certo prima lo eravamo davvero tanto. C’era una filosofia portata avanti da Mattei che secondo me era molto simile a quella degli Olivetti: il dipendente era al centro dell’attenzione. Secondo me Mattei aveva capito che l’umanità era la carta vincente per avere il massimo da un dipendente. Così aveva organizzato le colonie estive dove si potevano fare le ferie in posti di elite, come Cortina, Maratea e Pugnochiuso; c’era anche una clinica a San Donato dove tutti i dipendenti andavano a


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La piccola “America” fare screening di prevenzione, cosa che le asl adesso fanno con tutti i cittadini, mentre noi lo facevamo già vent’anni fa1. Il gruppo eni in generale e le società collegate hanno avuto la grande fortuna di collocarsi in un momento storico nel quale l’esperienza di Olivetti aveva lasciato il segno; con la sua grandissima attenzione alle persone, viste non solo come prestatori d’opera, ma come individui in grado di portare il loro vissuto, le loro motivazioni, la loro carica interna dentro l’azienda2.

L’accenno alle vacanze in località famose ci permette di dedicare qualche spazio ad un’iniziativa alla quale i lavoratori di Crema hanno più volte annoverato fra quelle più riuscite messe in campo dalla società: il villaggio eni di Borca di Cadore. Di questo progetto la società comincia a parlare nel 1955, in un primo momento solo come ipotesi di estensione della colonia per i figli dei dipendenti già attiva a Cesenatico. La relazione di Enrico Mattei a un Consiglio di Amministrazione di agip Mineraria di quell’anno3 segnala come tale struttura non sia più sufficiente ad accontentare tutte le richieste, e come la situazione sia destinata a peggiorare a seguito dell’«approssimarsi all’età minima richiesta delle nuove leve di bambini, figli di dipendenti, quasi tutti giovani, assunti negli ultimi cinque anni». Aggiunge ancora il documento: Il programma è di realizzare una colonia montana della capienza di 400 posti, pari a 1.200 posti annui per tre turni di frequenza. Tale colonia verrebbe costruita in un vasto comprensorio boschivo nel Comune di Borca di Cadore, nelle vicinanze di Cortina d’Ampezzo, già acquistato dall’agip a condizioni particolarmente favorevoli.

Appena un anno dopo l’iniziativa ha però assunto ben altre dimensioni. Un articolo pubblicato sul mensile «Il gatto selvatico»4 segnala che sui 1.000 ettari di Borca sorgeranno, oltre alla prevista colonia di 400 posti, un Centro sociale con chiesa, cinema e negozi, un albergo per dipendenti non sposati o coniugati senza figli, un campeggio per ragazzi più grandi e soprattutto un vasto complesso residenziale di 400 casette progettate dal famoso architetto Edoardo Gellner e destinate ad ospitare le famiglie dei lavoratori. Un progetto faraonico, che però procederà con passo spedito, come testimoniano i dati forniti da una relazione del presidente eni Boldrini all’assemblea degli azionisti agip del 19635: nell’estate precedente la colonia ha ospitato 486 bambini, il campeggio 133 ragazzi, mentre nelle villette già

1 Intervista a Ezio Comandù, 5 giugno 2012. 2 Intervista a Francesco Galimberti, 17 aprile 2012. 3 Verbale del Consiglio di amministrazione, seduta del 12 ottobre 1955, in Archivio storico eni, Fondo agip Mineraria, BE III 2, busta 21. 4 Il villaggio sociale dell’Eni, in «Il gatto selvatico», anno II, n. 10, ottobre 1956. 5 Verbale Assemblea Azionisti agip. Seduta del 29 aprile 1963, in Archivio storico eni, Fondo eni Presidenza, I II 1, busta 9. A fianco: Cesenatico, Colonia estiva per i figli del personale



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edificate sono stati accolte 297 famiglie6. Per generazioni di lavoratori di Crema le villette, la colonia e il campeggio di Borca hanno rappresentato l’unica possibilità di godere di un periodo di vacanza per sé e per i figli, e il ricordo che se ne conserva è ancora ben vivo: Poi c’erano le vacanze: l’eni aveva un bellissimo villaggio vicino a Cortina (da pochi anni è stato ceduto) con due alberghi e casette bellissime, indipendenti e funzionali. All’interno del villaggio c’era anche la colonia, e poi c’era i campeggio, con delle tende rialzate e delle parti in legno. Mio figlio ci è andato a partire dai sei anni, i soggiorni duravano tre settimane e moltissimi bambini partecipavano. Si trovavano tutti bene, era uno splendido modo per socializzare e per imparare a stare lontano da casa: in quei giorni mio figlio imparava gli accenti di tutte le parti d’Italia, era un modo per conoscere bambini che venivano da lontano. Fra l’altro i contatti non finivano con il rientro a casa: durante l’anno si scrivevano, così mantenevano le amicizie7.

Non erano queste le sole forme di sostegno che la società prevedeva per i suoi dipendenti: a Crema l’eni ha costruito palazzine da destinare ai lavoratori che venivano da fuori, e non mancavano altre forme di supporto, come le borse di studio all’estero per i figli, gli aiuti alle famiglie bisognose, o l’assistente sociale «per chi aveva problemi di salute o di pensione8». Anche i salari, almeno per tutto il periodo più fortunato della ricerca di idrocarburi in val Padana, erano decisamente superiori rispetto ad altre occupazioni industriali: qualche intervistato è arrivato a dire che i tecnici dell’epoca guadagnavano ben più di un bancario. Tutto questo induceva a considerare l’assunzione in agip come «la più grande fortuna che potesse capitare9» e diffondeva fra i “fortunati” quel senso di appartenenza a cui sopra si accennava, unito a un altrettanto forte attaccamento al proprio lavoro: Erano tutti innamorati del loro lavoro, l’assenteismo era zero e il rendimento era altissimo: in trent’anni non ho mai visto una mancata produzione, non è mai accaduto che snam chiedesse un certo quantitativo di gas e che noi non fossimo in grado di fornirglielo. Qui non è come un’officina, dove c’è uno che cura quello che devi fare e controlla, eppure ciascuno era coscientemente attivo, come se l’azienda fosse sua10. C’era un senso della comunità spinto al limite: quando incontravi una persona con il 6 Un articolo de «Il gatto selvatico» del 1964 (anno 10 n. 1, gennaio 1964) comunica l’entrata in funzione di un secondo albergo. Il villaggio residenziale di Borca, denominato Corte di Cadore, venne poi ridimensionato rispetto all’idea iniziale: alla fine risultò composto di 263 villette di varie metrature. Interessante e decisamente “moderno” appare il criterio con cui le case vacanze erano assegnate ai dipendenti: senza nessuna distinzione fra operai e impiegati, contava solo la dimensione del nucleo famigliare, con le case più grandi destinate alle famiglie più numerose. Oggi le villette non sono più di proprietà eni, e la loro vendita ha scatenato gli appetiti del mercato immobiliare. 7 Intervista a Loredana Peletti, 5 giugno 2012. 8 Intervista a Giovanni Antonio Vigani, 15 febbraio 2012. 9 Ibidem, 15 febbraio 2012. 10 Intervista a Ezio Comandù, 5 giugno 2012.


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cane sulla tuta [il cane a sei zampe simbolo dell’agip] ti salutava sempre, ed era quasi obbligatorio fermarsi a scambiare due parole11.

Si potrebbe essere tentati di chiedere se fosse solo il desiderio di far nascere questo “spirito di corpo” fra i dipendenti a convincere la società a concedere tutti i supporti descritti. Certamente, come per le altre grandi realtà industriali, a giocare un ruolo fondamentale era il periodo economico favorevole, ma forse intervenivano anche fattori di altro tipo legati alla specificità del lavoro: Forse questi vantaggi dipendevano dal tipo di lavoro particolare: chi veniva addestrato diventava molto importante per l’azienda, perché se se ne fosse andato non avrebbero potuto sostituirlo subito12.

Questa sorta di doppio filo da cui manodopera e azienda erano legati non poteva essere privo di conseguenze a livello di rapporti sindacali: più di un intervistato ha sottolineato come fino ai primi anni Ottanta la sensazione di lavorare in una situazione in qualche modo privilegiata “narcotizzasse” il bisogno di tutela da parte del sindacato e limitasse di molto l’attività dello stesso all’interno del Centro agip di Crema. Per chi veniva da realtà assai più combattive l’impatto iniziale poteva risultare sotto questo punto di vista piuttosto spiazzante: Quando sono entrato io, nel 1981, il sindacato qui non esisteva. Io venivo dalla ferriera, e sapevo bene cos’era la struttura sindacale, per cui all’inizio mi sono trovato un po’ spaesato. Il fatto di essere trattati meglio dal punto di vista economico, e di avere anche molti supporti da quello sociale, faceva sentire meno necessaria la tutela sindacale13.

Le cose cambiano appunto all’inizio del decennio Ottanta, e i motivi della progressiva sindacalizzazione, per chi l’ha vissuta, vanno collegati prima di tutto alle trasformazioni nella composizione del personale che l’azienda cremasca subisce in quel periodo: Il bisogno del sindacato è nato quando si è trasformato il contesto sociale. Negli anni Ottanta, a seguito di tutti i riposizionamenti del personale sul territorio nazionale, sono cambiati i criteri delle assunzioni: si è cominciato ad assumere gente del luogo, quindi l’aspetto sociale e i supporti logistici sono diventati meno necessari (per chi veniva da fuori la casa era un bisogno, e il fatto che l’azienda te la procurasse era un grosso vantaggio: creandosi un nucleo di lavoratori del luogo questa cosa è diventata meno urgente) e ha cominciato a prevalere l’aspetto del salario. A quel punto la presenza del sindacato è diventata più importante14.

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Intervista a Giovanni Antonio Vigani, 15 febbraio 2012. Intervista a Ezio Comandù, 5 giugno 2012. Intervista a Giovanni Antonio Vigani, 15 febbraio 2012. Ibidem, 15 febbraio 2012.


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Ma non è questo l’unico elemento: Alberto Mocchi15, che operava nel settore della manutenzione, dove gli elementi di disagio lavorativo erano particolarmente significativi, ha sottolineato come anche lo svilupparsi della sensibilità sui problemi della sicurezza abbia contribuito al crescere della coscienza sindacale. Spetta agli assunti più giovani il compito di far nascere quasi dal niente l’organizzazione sindacale, e molti di loro si trovano catapultati all’improvviso nel ruolo di rappresentanti dei lavoratori: a determinare la scelta può essere di volta in volta l’esperienza maturata in altri contesti lavorativi, il fatto di condividere un certo tipo di attività (e di poterne comprendere quindi le problematiche), o la riconosciuta capacità di confrontarsi e trattare con i superiori. Quali che siano i motivi alla base della scelta dei delegati, il loro impegno non resta privo di frutti: in pochi anni l’agip di Crema sviluppa una forte presenza del sindacato e una massiccia adesione ad esso da parte dei lavoratori. Chi arriverà a conoscere questa realtà vent’anni dopo16 troverà una tradizione di relazioni ormai consolidata, con un livello di rappresentanza che fungeva da modello per tutti gli altri distretti dell’agip. Una situazione quindi favorevole, che però ovviamente non escludeva del tutto momenti di confronto e di dialettica con la dirigenza. Le battaglie I giovani delegati che in quegli anni si sono adoperati per avviare a Crema il percorso sindacale conservano il ricordo di una bella esperienza vissuta: tutti hanno evidenziato la grande partecipazione dei lavoratori e il coinvolgimento che quel tipo di impegno comportava: come ha detto Vincenzo Bruno17 «non c’era solo da occuparsi del lavoro, dei passaggi di categoria, della professionalità: bisognava seguire anche i casi personali, e questo ovviamente ti “prendeva” direttamente». Le vertenze riguardavano naturalmente ogni aspetto del lavoro, ma tutti concordano nel sostenere che per ciò che concerne la tematica della sicurezza la Direzione di Crema è sempre stata «attenta e sensibile18», per cui la questione non ha mai originato grossi contrasti. La materia si faceva certamente più delicata quando le frequenti riorganizzazioni aziendali incidevano sul numero o sulla distribuzione della manodopera: anche negli ultimi anni non sono stati infatti rari i casi in cui le trasformazioni societarie hanno dato luogo a spostamenti del personale da Crema ad altre sedi. E se da alcuni questo è stato accettato senza particolari sofferenze Qualcuno ha accettato lo spostamento di buon grado, perché magari lo avvicinava a casa (non siamo tutti di Crema, qualcuno viene dall’Emilia, dal Piemonte o da altre

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Intervista a Alberto Mocchi, 6 marzo 2012. Intervista a Palmiro Crotti, 6 marzo 2012. Intervista a Vincenzo Bruno, 6 marzo 2012. Intervista a Roberto Canevari, 15 febbraio 2012.


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parti) o perché non aveva particolari problemi a trasferirsi con la famiglia19.

In altri casi questo tipo di decisioni ha dato luogo a reazioni importanti da parte dei lavoratori e del sindacato. È quanto accaduto ad esempio alla fine del 2000, con l’annuncio da parte di agip che col trasferimento della produzione a Ravenna e il mantenimento a Crema del solo stoccaggio gas 98 dei 258 dipendenti sarebbero stati destinati alle unità di Trecate, San Donato e Ravenna. A tale comunicazione è seguita immediatamente la mobilitazione dei lavoratori: il timore che correva nelle menti di tutti è che al ridimensionamento del polo cremasco potesse fare seguito una successiva chiusura, come risulta chiaramente dal racconto di Giovanni Antonio Vigani: Una conquista importante, anche se non riconosciuta da tutti, è stato il rapporto collaborativo con il management di agip perché Crema diventasse il polo dello stoccaggio: non era infatti così scontato, tutto lo scenario politico e sindacale nazionale era più orientato su Ravenna, che era sempre stato il punto di riferimento per eni. Poi la logistica dei pozzi ha permesso che il polo fosse confermato a Crema, anche perché dalla parte aziendale c’era chi la pensava come noi. Certo, abbiamo perso qualche pezzo (la perforazione, alcune ingegnerie), ma il grosso è rimasto qui, e se oggi c’è ancora una sede a Crema lo si deve a quella battaglia20.

La lotta per concentrare a Crema tutto il polo di stoccaggio e per contenere le conseguenze dei trasferimenti ha visto momenti di confronto vivace, insoliti nella tranquilla realtà cremasca. Il corteo e il blocco stradale che ne sono scaturiti21 hanno portato all’attenzione del territorio una realtà produttiva che forse non era visibile come altre. Uno dei protagonisti di quelle giornate, Palmiro Crotti (allora segretario provinciale di categoria per la cgil), così ha ricordato la peculiarità del confronto: Da parte nostra quella fu una prova di forza rara nel mondo della chimica e dell’energia: il sindacato dei chimici per sua natura non era un sindacato conflittuale, era sempre alla ricerca dell’accordo. L’essere usciti in maniera così forte e visibile era una cosa strana per quel mondo, ma è servito. Le trattative durarono tantissimo, ma l’incontro diretto con la città si ebbe proprio nel corso di quelle settimane in cui ci fu la comunicazione, poi la manifestazione, i volantinaggi, le prese di contatto con le amministrazioni… Da quel momento l’azienda prese coscienza che doveva gestire questa fase con l’aiuto di tutti22.

Nello stesso periodo anche snam, con la separazione fra approvvigionamento e vendita gas, ha dovuto affrontare un processo di ristrutturazione con riduzione del personale, ma a detta delle testimonianze pure questa fase è stata gestita senza ricorrere ai licenziamenti: 19 Ibidem, 15 febbraio 2012. 20 Intervista a Giovanni Antonio Vigani, 15 febbraio 2012. 21 I giornali locali diedero notevole rilievo alla protesta dei lavoratori agip: si veda ad esempio l’articolo de «La provincia di Cremona» Agip, corteo e proteste, del 17 novembre 2000. 22 Intervista a Palmiro Crotti, 6 marzo 2012.


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La piccola “America” Non abbiamo avuto scioperi: è stato fatto un accordo col sindacato secondo il quale mano a mano che riorganizzavamo le varie realtà concordavamo gli incentivi all’uscita per chi aveva già maturato il diritto alla pensione; per chi non l’aveva maturato abbiamo invece fatto degli accompagnamenti alla pensione in cui veniva garantita la contribuzione volontaria a nostro carico, un’indennità di mobilità e vari incentivi23.

La definizione di questi accordi, ha proseguito il signor Galimberti, in quel periodo direttore del personale, è stata frutto della filosofia che guida le relazioni col sindacato: Noi abbiamo sempre pensato che un progetto imposto non fosse utile né all’azienda né ai dipendenti. Per questo ogni nuovo progetto veniva comunicato e poi esaminato insieme attraverso molti incontri e tavoli che coinvolgevano le rsa aziendali. Certo, era un metodo faticoso, che esigeva da parte aziendale una capacità di progettazione seria, e da parte sindacale la necessità di una accurata preparazione. Su questo devo dire che la conoscenza da parte del sindacato delle dinamiche territoriali ha fatto sì che in alcuni casi l’azienda ha dovuto convenire che le soluzioni da loro proposte erano più valide delle nostre…

La disponibilità a confrontarsi da parte dell’azienda, cui fanno cenno gli ultimi racconti, è comunque un elemento che ricorre spesso nelle interviste: tutti concordano nell’affermare che complessivamente le relazioni industriali nel distretto di Crema sono sempre state buone, con un riconoscimento del ruolo del sindacato che evitava comunque frizioni troppo forti. Fra i motivi della bassa conflittualità qualcuno ha citato il livello del business (trattando con grossi capitali era possibile concedere di più ai lavoratori: lo stesso principio che stava alla base del favorevole trattamento economico e delle misure sociali a vantaggio della manodopera), ma i più hanno insistito sul “potere contrattuale” di cui il personale disponeva: La nostra grande forza era data dal potere contrattuale che possedevamo e che era legato alla natura degli impianti di trattamento e di produzione: fermarne uno rappresentava un grosso danno, e noi avevamo la capacità di farlo24. Un potere enorme ci era dato dal tipo di attività: un conto è fermare una fabbrica che fa bulloni, un conto è fermare una centrale da cui dipende la distribuzione del gas25.

A detta degli intervistati molti di questi elementi sono andati progressivamente mutando col tempo, e oggi le relazioni industriali, il ruolo del sindacato e anche le risposte dei lavoratori risentono in modo consistente delle diverse condizioni sociali, economiche ed occupazionali. Su tali trasformazioni vale la pena di soffermare un po’ l’attenzione.

23 Intervista a Francesco Galimberti, 17 aprile 2012. 24 Intervista a Giovanni Antonio Vigani, 15 febbraio 2012. 25 Intervista a Palmiro Crotti, 6 marzo 2012.


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I cambiamenti del presente È indubbio (e infatti l’elemento ricorre costantemente nei racconti degli intervistati) che il cambiamento del quadro economico ha influito non poco sul modo di “fare” sindacato: la disoccupazione crescente, la sempre più diffusa precarietà lavorativa, la varietà delle tipologie contrattuali condizionano le relazioni industriali, e costringono gli organismi di tutela dei lavoratori ad aggiornare ed adeguare continuamente i propri strumenti di azione. I giovani che oggi iniziano il loro percorso occupazionale nel distretto di Crema non sono uguali a quelli che negli anni Ottanta misero praticamente in piedi dal nulla il sindacato: è cambiata la società, e sono cambiate le persone. Giovanni Antonio Vigani ha colto lucidamente questo passaggio: Oggi come numero di iscritti al sindacato siamo ancora forti, ma le cose stanno progressivamente cambiando: l’ingresso di giovani a tempo determinato, a contratto di apprendistato, fa sì che siano condizionabili, e non se la sentano di esporsi. Questo ci mette in difficoltà, perché il sindacato ha bisogno di turn over e se fino ai quarantenni riusciamo ad arrivare a fare il passaggio con quelli più giovani si fa fatica. Ci sono difficoltà a relazionarsi con loro anche dal punto di vista culturale: sembra che sentano meno il discorso della tutela dei diritti, anche se gli diciamo che niente è garantito per sempre26.

Esiste insomma un problema di ricambio generazionale, indotto certamente dalla «paura ad esporsi» che la precarietà del lavoro porta con sé, ma per il quale, forse, esiste anche una corresponsabilità da parte di chi ha vissuto la fase più favorevole: Le passate generazioni di lavoratori, quelle che hanno prodotto grandi capacità di coinvolgere i colleghi, di farsi interpreti dei bisogni, hanno forse mancato un po’ nel passaggio del testimone. Certo, non sono stati aiutati dal cambio generale di visione che ha caratterizzato questi ultimi vent’anni e che ha visto il passaggio dall’esigenza di leggere le cose in un’ottica collettiva, a un punto di vista più individuale. È insomma cambiato il modo di approcciarsi delle persone non solo al lavoro, ma alla vita in generale27.

Difficoltà a trasmettere la voglia di impegnarsi, venir meno della convinzione della necessità di lottare insieme, tendenza a pensare a se stessi: un rinato egoismo che sembra non coinvolgere la sola sfera lavorativa. Ed ecco allora che anche l’atmosfera da “grande famiglia” che caratterizzava l’azienda cremasca, e che induceva a condividere con i colleghi di lavoro anche larghi spazi del tempo libero, ha subito un pesante ridimensionamento: Per i giovani è diverso, loro non vivono l’azienda come una famiglia, sono più distaccati. Chissà, forse noi venivamo da un clima culturale diverso. Loro sono cresciuti più autonomi, più indipendenti e anche più individualisti. Finito il lavoro, se non c’è 26 Intervista a Giovanni Antonio Vigani, 15 febbraio 2012. 27 Intervista a Palmiro Crotti, 6 marzo 2012.


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La piccola “America” un’amicizia generata da interessi comuni, ognuno se ne va per conto suo28. Questa evoluzione culturale però per qualcuno non basta a spiegare il mutato atteggiamento dei giovani nei confronti del lavoro. Per chi ha vissuto gli anni d’oro della perforazione, per chi ha seguito le tappe di una carriera lavorativa che ha conosciuto i rischi delle trasferte in luoghi remoti, i disagi e le fatiche che l’attività imponeva, e l’orgoglio di essersi costruiti dal nulla un alto livello di professionalità, ad essere venuto meno è lo spirito “eroico” di quei tempi: così ad esempio il signor Galvagni ha evidenziato come oggi secondo lui manchi la «voglia di fare sacrifici», di «partire da zero e da lì andare avanti29.

Di certo attualmente le retribuzioni corrisposte non sono da sole sufficienti a indurre ad accettare tali sacrifici: il cambiamento del quadro economico ha condotto ad un appiattimento dei salari, che quindi non hanno più il potere di attrazione di un tempo: così capita che «mentre prima era un sacrilegio lasciare un posto all’agip, oggi c’è parecchio ricambio, e molti sono quelli che vengono, fanno esperienza e poi se ne vanno30». Tornando al lavoro di chi sceglie di rappresentare i lavoratori, è comunque certo che oggi tale attività presenta anche difficoltà che non derivano dal diverso modo di porsi dei giovani nei confronti del lavoro e del sindacato. Altri fattori sono intervenuti, primo fra i quali il venir meno di quel “potere contrattuale” cui si faceva precedentemente cenno, quello che, a fronte dei danni che sarebbero derivati dall’interruzione della produzione, induceva l’azienda ad accettare le richieste dei lavoratori pur di evitare lo sciopero. A incidere non poco su questo è stato il passaggio dall’upstream allo stoccaggio gas, e il diminuito bisogno di personale che ne è derivato. Oggi lo sciopero appare un’arma spuntata: Nel territorio oggi non ci sono più i grandi pozzi di produzione, e il pozzo di stoccaggio eroga da solo. Da Crema si gestisce tutto quanto, per cui l’assenza per sciopero di qualcuno viene gestita facilmente. Inoltre ci sono tutte le normative di garanzia e di tutela, per cui esiste un accordo sull’assetto degli impianti per il quale di fatto praticamente la giornata di sciopero è una giornata normale, tutto funziona lo stesso31.

Altri problemi sono stati originati dalla distribuzione dell’attività e del personale fra diverse società satelliti: ciò ha creato uno “spezzatino” occupazionale che non facilita le trattative: se prima infatti «avendo la forza dei numeri potevi fare anche la contrattazione locale, oggi ogni piccola parte viaggia per sé e i rapporti di forza sono cambiati32». Le ristrutturazioni aziendali hanno influenzato anche le relazioni fra i lavoratori: più di un intervistato ha sottolineato come col tempo la gerarchia si sia fatta più 28 29 30 31 32

Intervista a Loredana Peletti, 5 giugno 2012. Intervista a Valerio Galvagni, 15 febbraio 2012. Intervista a Giovanni Antonio Vigani, 15 febbraio 2012. Ibidem, 15 febbraio 2012. Intervista a Alberto Mocchi, 6 marzo 2012.


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rigida, e sia un po’ venuto meno quel clima di consultazione fra colleghi che faceva sentire parte delle decisioni, e permetteva di far emergere la propria professionalità. È mutata anche l’organizzazione del lavoro, ora più pianificata e meno affidata all’esperienza e alle competenze del singolo. Il che non costituisce sempre un vantaggio: Noi eravamo più legati all’imprevisto, e pronti mentalmente e culturalmente ad attività di pronto intervento. Oggi ognuno fa il suo pezzettino… ma un impianto anche adesso può avere degli imprevisti, e la programmazione da sola può non essere sufficiente, a volte è utile anche sapere improvvisare33…

In tutto questo vorticoso giro di trasformazioni, che coinvolgono il modo di lavorare e di porsi nei confronti del lavoro, le relazioni personali, le motivazioni e la tipologia dell’impegno sindacale, crediamo sia interessante chiedersi quale visione abbiano del percorso intrapreso dentro l’azienda coloro che tale percorso hanno appena avviato. In altre parole: la condizione di “privilegio” che una volta si associava all’occupazione dentro l’azienda di Crema, persiste ancora? È ancora una “fortuna” esservi assunti? Come la pensano le “nuove leve”? L’impressione che si ricava dalle testimonianze ascoltate è che, per quanto i tempi non siano più quelli passati, rispetto al panorama lavorativo che così spesso si presenta ai giovani quella di Crema sia ancora un’isola felice. Ecco il significativo racconto fatto da Antonio Carlo Zucchelli: Prima dell’assunzione qui avevo lavorato in un bar e poi in una ditta di cosmetici. Il tipo di contratto era a termine e ogni mese me lo rinnovavano: la situazione era insomma quella di tanti giovani oggi. Il contratto che mi offrivano qui era invece di apprendistato per 4 anni, e il fatto di non avere ogni mese l’angoscia di aspettare la telefonata per capire se avrei avuto il rinnovo era già un deciso passo avanti. Così ho detto: proviamo, e mi è andata bene. Con l’azienda ho avuto un bell’impatto: il fatto di essere seguito, di avere otto ore al giorno a fianco persone di riferimento pronte a risolvere dubbi e perplessità mi ha aiutato moltissimo34.

Abbastanza simile è l’esperienza di Sara Fragassi, ingegnere elettronico e unica donna a Crema occupata nell’area pozzi: Sono entrata subito a tempo indeterminato, e questo considerando le esperienze di tanti compagni di università rappresenta già una fortuna. Poi dipende: se parlo con qualcuno che ha qualche anno più di me mi decanta la situazione che c’era prima, ma bisogna tenere conto che oggi la realtà è molto diversa. Io ho moltissimi amici della mia età che vanno ancora avanti con contratti a tempo determinato… insomma, dipende dal punto di vista con cui si vedono le cose35…

33 Ibidem, 15 febbraio 2012. 34 Intervista a Antonio Carlo Zucchelli, 5 giugno 2012. 35 Intervista a Sara Fragassi, 5 giugno 2012.


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Viene spontaneo chiedersi, dopo queste parole, se la positività dell’impatto lavorativo abbia riguardato il solo aspetto contrattuale, se cioè, in altre parole, l’ingresso in un mondo totalmente “al maschile” non abbia comportato difficoltà od ostacoli per una giovane donna all’inizio della carriera. L’ingegner Fragassi però ha tenuto a sfatare anche questo dubbio: Come donna non ho avuto problemi particolari. Ovviamente ci sono degli aspetti di personalità che magari rendono diverso il modo di comportarsi verso una donna, ma di cose che ti impediscono di lavorare bene o di ricoprire ruoli di responsabilità no, non ne ho mai incontrate. Certo, magari all’inizio susciti un po’ di curiosità, ma se sai fare il tuo mestiere36…

Insomma, grinta, passione e soprattutto capacità sembrano a Crema elementi sufficienti a sconfiggere qualsiasi possibilità di discriminazione! Sara Fragassi ha anche indicato il principale motivo che sta alla base della sua passione per il lavoro che svolge. Con le sue parole ci sembra giusto e opportuno chiudere questa parte del nostro racconto: In questo momento svolgo un tipo di lavoro in cui ho delle idee che posso sperimentare, provare e cercare di realizzare: è una cosa bellissima e secondo me molto rara.

36 Ibidem, 5 giugno 2012.


LE RELAZIONI PERSONALI

Una “grande famiglia” Abbiamo già avuto modo di accennare come più di un intervistato abbia definito l’ambiente lavorativo di Crema come quello di una “grande famiglia”: per l’amicizia fra i dipendenti, che spesso coinvolgeva le famiglie e le attività al di fuori degli orari di ufficio e di cantiere, per la solidarietà che caratterizzava i rapporti all’interno dell’azienda, per lo spirito di corpo che rendeva motivo di orgoglio l’appartenenza al mondo agip. È un elemento, questo, che viene particolarmente messo in luce dagli ex dipendenti più anziani, per i quali ancora ben vivo è il ricordo dell’entusiasmo, della passione per il lavoro, della voglia di ricominciare che caratterizzò gli inizi dell’avventura avviata da Enrico Mattei. Antonio Canonaco, che ha vissuto in prima persona quegli anni, ne ricorda ancora con commozione l’atmosfera: A quei tempi c’era molta collaborazione e familiarità fra tutti gli addetti, dal capo centrale agli operatori, da quelli che dovevano fare il giro pozzi, a quanti erano incaricati degli impianti di disidratazione e compressione. Ricordo con grande piacere lo spirito di corpo che esisteva fra di noi a San Donato come a Crema, come in tutte le altre sedi dove sono stato. Forse a giocare un ruolo era anche il fatto che venivamo fuori da una guerra disastrosa, e questo faceva crescere la combattività, la voglia di rivincita1…

Le parole di Antonio Canonaco trovano del resto piena rispondenza nel lungo diario di Mazzini Garibaldi Pissard, ogni pagina del quale evidenzia, pur nelle difficoltà dell’epoca, il legame di solidarietà e di collaborazione che univa tutti i livelli della struttura messa in piedi seguendo le direttive di Mattei: una struttura sotto certi aspetti “rivoluzionaria” rispetto ai modelli precedenti, se è vero che a caratterizzarla era il principio per cui «tutti, direzione e periferia agiscono in piena responsabilità, evitando il gioco del fiammifero e smettendola col proverbio “il superiore ha sempre ragione”2». Un’assunzione individuale di responsabilità che appunto rinsaldava la coesione fra gli addetti. Questo spirito da “grande famiglia” si è comunque mantenuto, almeno in parte e almeno a Crema, fino ad oggi. Nel corso degli anni ciò è stato colto con particolare evidenza da chi è approdato al Centro cremasco provenendo da strutture assai più consistenti come numero di addetti: forse proprio le dimensioni relativamente 1 Intervista a Antonio Canonaco, 15 febbraio 2012. 2 M. G. Pissard, La leggenda del pioniere, cit., p. 92. Delle novità gestionali introdotte da Enrico Mattei parla anche Daniele Pozzi (Dai gatti selvatici, cit., p. 159).



Le relazioni personali

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modeste di esso (per lo meno rispetto alle tante realtà produttive che ancora nei primi anni Ottanta occupavano migliaia di lavoratori!) hanno infatti contribuito a mantenere una certa umanità di rapporti e di relazioni. È l’impressione ricavata ad esempio da Loredana Peletti, arrivata qui negli anni Settanta dopo un periodo trascorso nella sede di San Donato: A Crema mi sono calata in una realtà che mi è piaciuta subito: da una grande azienda mi sono trovata a a passare ad un ambiente molto più familiare, più “soft”, anche se eravamo comunque 150 persone. Non so, forse è stato il passaggio da quei grandi palazzoni a una struttura più piccola, dove si finiva per conoscersi tutti, anche se tanti venivano da fuori3…

E la medesima sensazione, dopo oltre trent’anni, l’ha provata Sara Fragassi, che proviene da una prima esperienza lavorativa nell’ambito di una multinazionale: La società è tutto sommato piccola, io venivo da una multinazionale e il passaggio ha comportato dei sicuri vantaggi, in particolare perché le dimensioni ridotte permettono di avere sempre dei punti di riferimento nell’ambiente lavorativo, con il capo e con i colleghi. Non si tratta affatto di una cosa scontata: prima ero abituata a lavorare sempre con persone diverse, mentre il fatto di operare in un posto dove io conosco i miei colleghi e loro conoscono me, dove non devo ogni giorno affermare me stessa, dove sono inserita in una realtà di gruppo in cui sono apprezzata e io apprezzo gli altri è per me una cosa importantissima4.

Allo stesso modo un altro giovanissimo, Antonio Carlo Zucchelli, ha voluto sottolineare come, pur nel generale venir meno dei valori che caratterizza l’epoca attuale, nel lavoro di centrale esista ancora il senso della solidarietà reciproca, per cui «se una cosa non va non ti dicono arrangiati, ma ti aiutano5». Certo, non si può dire che tutto sia rimasto esattamente come ai tempi di Mattei: è cambiata la società, sono cambiate gli stili di vita, le relazioni, le abitudini, e neppure il microcosmo di Crema poteva pensare di uscirne indenne. Non a caso quindi in molte delle interviste ritroviamo comunque il rimpianto per qualcosa che non c’è più, per un modo di vivere e di lavorare che sembra definitivamente perduto («prima eravamo tutti uniti, quando uno veniva promosso tutti si complimentavano, adesso quasi non ci conosciamo l’uno con l’altro6»). E se qualcuno percepisce il cambiamento come una sensazione che si coglie sulla pelle, ma di cui non si riescono a definire i contorni e la sostanza, altri cercano di individuarne le possibili cause e gli effetti sulla vita lavorativa. Ecco allora l’attenzione incentrarsi di volta in volta sulle nuove leve di tecnici, ai quali la difficile realtà attuale quasi impone modelli più individualistici e meno solidali, o 3 4 5 6

Intervista a Loredana Peletti, 5 giugno 2012. Intervista a Sara Fragassi, 5 giugno 2012. Intervista a Antonio Carlo Zucchelli, 5 giugno 2012. Intervista a Vincenzo Bruno, 6 marzo 2012.

A fianco: Caviaga, Momento conviviale in un capannone


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sulle ristrutturazioni che la società ha subito nel corso degli anni, e che potrebbero aver inciso sui rapporti. Qualcuno ha invece posto l’accento su un altro elemento, il cui ruolo in questo cambiamento di clima vale la pena di valutare: ci riferiamo all’avvento dell’informatica, che avrebbe fatto venir meno quella vicinanza e quell’interazione fra colleghi che contribuiva a cementare le relazioni: «siamo diventati più dipendenti dalle macchine e ci confrontiamo sempre meno con chi ci lavora vicino», ha detto Loredana Peletti7, e noi non ce la sentiamo di darle torto. Accade nelle famiglie, ma può accadere anche nelle comunità allargate come quella di cui stiamo raccontando la storia: il computer ci apre al mondo, ma paradossalmente ci rende anche più estranei gli uni agli altri, ci riempie di conoscenze, ma ci priva della sapienza che solo lo scambio con gli altri può generare. Più informati, insomma, ma anche decisamente più soli. Il ricordo di Enrico Mattei È la presenza invisibile, ma costantemente presente che ci accompagna dall’inizio del nostro percorso: abbiamo cominciato con le parole dedicategli da Antonio Canonaco e per ultimo abbiamo accennato al contributo da lui dato nel cementare quello spirito di corpo che fu una delle caratteristiche pregnanti dell’universo eni negli anni d’oro della ricerca petrolifera in Italia8. Di Enrico Mattei, e del ruolo da lui giocato nella storia del nostro Paese, si è detto e scritto moltissimo, e non rientra fra i nostri compiti (come già abbiamo avuto modo di dire non ne saremmo neppure all’altezza!) il tentare di ricostruire anche solo per sommi capi quanto contenuto in questa enorme mole di documentazione. Ci parrebbe tuttavia un’incomprensibile lacuna arrivare alla fine della nostra storia senza dedicare qualche spazio a quello che Mattei ha lasciato a quanti anche a Crema hanno vissuto tutta la loro esperienza lavorativa nella costante memoria delle sue idee e delle sue scelte. Non è un caso se abbiamo sentito spesso ricorrere il nome di Mattei nelle interviste, anche in quelle di chi ha iniziato il lavoro molti anni dopo la sua morte9: di lui i lavoratori hanno parlato evocando il profondo attaccamento che i tecnici dell’agip Mineraria manifestavano nei suoi confronti, ma anche l’umanità nei rapporti con i dipendenti, umanità che si allargava alla loro vita fuori dall’azienda, 7 Intervista a Loredana Peletti, 5 giugno 2012. 8 A questo proposito Daniele Pozzi (Dai gatti selvaggi, cit., p. 226) ha scritto: «[Mattei] veniva identificato con l’azienda stessa e l’assoluta fedeltà personale dei tecnici nei suoi confronti diventava il principale elemento di coesione [...]. Le eccezionali capacità di comunicatore possedute da Mattei diventavano un potente catalizzatore per il rafforzamento del già spiccato spirito di corpo del ramo minerario.». 9 Enrico Mattei è scomparso il 27 ottobre 1962, a Bascapè, in un disastro aereo di cui ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, si dibattono le cause e le circostanze. L’ultima inchiesta, chiusa nel 2003, ha sostenuto la validità dell’ipotesi del sabotaggio.



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come dimostrano le numerose iniziative per il tempo libero istituite su sua indicazione. Riteniamo però di dover affidare questo breve ricordo del fondatore dell’eni a chi lo ha conosciuto di persona, condividendo con lui anche momenti di vacanza: parliamo di Paolo Pissard, al cui padre, Mazzini Garibaldi, Enrico era legato da un rapporto di solida amicizia. Le due famiglie si incontravano spesso, e da questa regolare frequentazione Paolo Pissard ha ricavato un ritratto molto sentito delle doti umane ed intellettuali di Mattei: Mio padre raccontava che finita la guerra Mattei ha detto: bene, signori, adesso non ci sono più destra, sinistra e centro, adesso si lavora. In questo modo ha avuto il sostegno e la fiducia anche di persone che idealmente erano dall’altra parte. La nostra famiglia ha avuto e ha tuttora il mito di questa figura. Mattei si vergognava di prendere 15 volte la paga di un operaio e anche per questo devolveva i ricavi della fabbrica chimica di vernici e colori che aveva insieme al fratello alle suore di Matelica: lui la democrazia la viveva e la diffondeva. Per questo avevamo per lui un grande rispetto. Emanava una carica di energia straordinaria10…

Le qualità umane di Mattei si manifestavano in modo ancora più spontaneo e per così dire genuino nei momenti privati, quelli che sono rimasti patrimonio di una ristretta cerchia di amici e familiari. Di uno di questi momenti Paolo Pissard ci ha fatto una cronaca molto vivace e personale: se ne ricava un ritratto del fondatore dell’eni lontano anni luce da quello dell’abilissimo capitano d’industria che trattava ad armi pari con i grandi della Terra, un ritratto per tale motivo certamente più vero ed autentico. Siamo nell’inverno del 1960, da qualche anno il villaggio di Borca di Cadore ospita il villaggio per le vacanze dei dipendenti eni voluto e realizzato da Mattei, che cerca appena può di ritagliarsi dei momenti di relax nella splendida cornice delle Dolomiti ampezzane. Nello stesso villaggio è ospitata anche la famiglia Pissard e in occasione del cenone di Capodanno il giovane Paolo riceve un invito inaspettato: quello di sedersi allo stesso tavolo di Mattei. Ecco il racconto che ci ha fatto di quella serata speciale: Siccome in occasione di quelle vacanze invernali mia mamma e mia zia avevano conosciuto la sorella di Enrico, la signora Rina (una donna deliziosa, che non “se la tirava” in nessun modo), sono stato invitato alla cena di Capodanno. Così mi sono trovato a tavola con Mattei, la moglie, signora Greta, una loro nipote e un nobile spagnolo che poi avrebbe partecipato a dei film di Fellini. È stata una serata incredibile, Mattei si è abbassato al livello mio, che facevo la quarta liceo, e della nipote, che aveva un paio d’anni più di me, informandosi sui nostri studi. Un’esperienza magica, per come si sviluppava la conversazione, per l’affetto che si dimostravano fratello, sorella e cognata, per la bellezza della signora Greta (aveva degli occhi in cui ti ci potevi

10 Intervista a Paolo Pissard, 17 aprile 2012.


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tuffare11...).

Nel corso di questa cena dal tono così intimo e familiare, un divertente episodio interviene a ricordare che il caloroso e attento commensale di Paolo è uno degli uomini più potenti d’Italia. Prosegue infatti il racconto: Mi ricordo che in questo ristorante in stile tirolese, dai soffitti bassi, faceva molto caldo. Così ad un certo punto la Rina dice ad Enrico: “Enrico, dai, guarda Paolo come sta sudando! Togliti la giacca, così ci mettiamo tutti in libertà”. Ma lui mi dice: “Non posso togliermi la giacca”. “Perché?” chiedo. “Perché se me la tolgo cade il Governo! Ho indosso le bretelle rosse che mi ha regalato Nasser12!”. Poi aggiunge: “Metti la mano sotto il tavolo, così me le tolgo e te le passo...” E così ha fatto! Poi me le ha regalate, le conservo ancora13…

Ulteriori aspetti poco conosciuti della personalità di Mattei si evidenziano in un altro aneddoto, che il figlio di Mazzini Garibaldi ha voluto narrarci e che risale sempre al periodo in cui il padre era il responsabile del Settore cremasco: Mio padre aveva un autista che si chiamava Cicognini: abitava a Sant’Angelo Lodigiano e aveva tanti figli. Era magrissimo, ma di statura era come l’onorevole Mattei, e con un portamento aristocratico. Un giorno Mattei disse a mio padre: “Ma se io regalassi qualche vestito a Cicognini crede che si offenderebbe?”. Mio padre lo rassicurò subito in questo senso, così qualche giorno dopo gli portò un paio di abiti. Cicognini era al settimo cielo, e gli ha detto: “Onorevole, ma adesso quando metto uno dei suoi vestiti mi sembrerà di indossare la storia!”14

La storia, già. Dal punto di vista di una cittadina come la Crema di quegli anni, le avventure mondiali di Enrico Mattei, i grandi scontri con le Sette Sorelle, le infinite discussioni politiche sulle sue scelte dovevano apparire probabilmente qualcosa di assai lontano e poco comprensibile. Forse proprio per questo la sua figura ha mantenuto un’aura quasi mitica, che da una parte ne rende costantemente vissuto e praticato il ricordo (l’attività dell’Associazione Pionieri e Veterani eni è lì a dimostrarlo!) e dall’altra conferisce ancora più valore ai piccoli aneddoti sull’uomo 11 Ibidem, 17 aprile 2012. Proprio nel corso della conversazione sugli studi futuri di Paolo e dell’altra giovane commensale, Mattei ebbe modo di dimostrare notevoli doti di lungimiranza: gli suggerì infatti, nel caso avesse scelto la facoltà di ingegneria, di imparare il cinese e di frequentare l’università di Pechino, dove lui «vedeva il futuro». 12 Gamal Abdul Nasser era diventato presidente dell’Egitto a seguito del colpo di Stato militare del 1952. Nel 1954 Mattei aveva avviato trattative con il nuovo governo egiziano per ottenere petrolio a basso prezzo, sviluppando un forte rapporto personale con lo stesso Nasser, del quale condivideva la posizione critica nei confronti delle compagnie petrolifere inglesi e americane e l’acceso anticolonialismo. L’ingresso dell’eni in Egitto fu molto osteggiato in Italia: il fondatore dell’eni venne accusato di sostenere le rivendicazioni dei popoli arabi contro i paesi occidentali, e di compromettere quindi il rapporto con questi ultimi. 13 Intervista a Paolo Pissard, 17 aprile 2012. 14 Ibidem, 17 aprile 2012.


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Mattei che quanti gli erano più vicini hanno potuto raccontare. Ci auguriamo che queste poche righe siano servite come piccolo contributo alla sua memoria. Le iniziative del dopolavoro La definizione di “grande famiglia”, che per lungo tempo secondo gli intervistati è stata quella che meglio si attagliava al clima respirato da chi operava nel Settore cremasco, non riguardava solo le ore di lavoro: dirigenti, tecnici e operai si frequentavano spesso anche al di fuori dei tempi imposti dall’attività, mogli e figli si conoscevano e condividevano passatempi e giorni di vacanza. Certo, questo tipo di condivisione era favorito dalle dimensioni della città: molti dipendenti abitavano nelle vicinanze della sede di via Libero Comune (dove abbiamo ricordato che l’eni aveva costruito anche delle palazzine per la manodopera che si trasferiva a Crema per lavorare), i loro bambini studiavano nelle stesse scuole, e la vita “a misura d’uomo” che Crema consentiva rendeva facili gli incontri e gli scambi. Allo stesso modo le colonie organizzate al mare e in montagna, i campeggi, i centri vacanza (in particolare quello di Borca di Cadore) contribuivano a rafforzare amicizie e socializzazione. Ma a rinsaldare ulteriormente questi legami era l’attività intensa e variegata di un organizzatissimo dopolavoro, alle cui iniziative tutti i lavoratori potevano accedere dietro pagamento di una modesta quota. Il cral aziendale promuoveva momenti di svago e di incontro estremamente diversificati, che andavano dalle gite (di cui Loredana Peletti ha ricordato il valore aggregante: «erano momenti molto positivi, in cui anche i figli avevano modo di conoscersi e di legare15») alle vendite promozionali, alle iniziative benefiche: A fine anno si faceva una festa con un piccolo regalo per tutti gli iscritti al dopolavoro: per alcuni anni si era creato anche un rapporto con una cooperativa che dava lavoro a ragazzi disabili, ed erano loro a creare questi piccoli oggetti. Durante l’anno poi si organizzavano anche delle vendite degli stessi oggetti16.

L’azienda era anche dotata di una propria squadra di calcio, che veniva coinvolta in partite e tornei molto combattuti: C’era un gruppo che organizzava partite a Crema e anche fuori, con le ditte contrattiste. Il nostro responsabile della perforazione, il signor Fratus, aveva contatto nella sua attività con molte di queste ditte, così si organizzavano veri e propri tornei. C’era poi il signor Vailati, che stava in una cooperativa che lavorava per l’agip e che nell’ambito della parrocchia di Santa Trinita seguiva i ragazzi del calcio: così ha messo a disposizione questa esperienza e si è offerto di fare da allenatore17. 15 Intervista a Loredana Peletti, 5 giugno 2012. 16 Ibidem, 5 giugno 2012. 17 Ibidem. A fianco: Territorio cremasco, Manifestazione sportiva



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Ad un certo punto nelle disfide calcistiche vengono coinvolte anche le donne. L’addestramento della squadra “rosa” segue un rigoroso programma, a cui, data la quantità ancora piuttosto ridotta di personale femminile, risulta piuttosto difficile sottrarsi... e questo nonostante i sistemi piuttosto decisi usati dall’allenatore: Ad un certo momento Vailati ha cominciato a dire che anche noi donne dovevamo partecipare, perché eravamo in numero sufficiente (da 2 o 3 che eravamo negli anni Ottanta, nel decennio successivo eravamo arrivate a più di 10). Così ci portava nel campetto dell’oratorio di Santa Trinita a fare gli allenamenti... e siccome imparare a prendere la palla con i piedi anziché con le mani non era cosa da poco, lui ci legava le mani dietro alla schiena! Quando siamo state pronte (ci sono voluti mesi di allenamento alla sera, più i... ripassi a casa!) abbiamo cominciato a fare le partite contro gli uomini. Sono stati momenti molto belli, i nostri figli erano scatenati in tribuna a fare il tifo!18

Le donne partecipano anche ad un’altra iniziativa del dopolavoro, una delle poche rimaste ancora oggi: la gara di pesca: Alla gara di pesca concorrevamo anche noi donne: mi ricordo andavamo nel campetto vicino a casa a imparare a fare i lanci con la canna... e così si finiva per coinvolgere anche i figli! Ci si trovava poi al mattino presto nelle cave (a cava Isolotti o a Soncino), e alla fine si mangiava qualcosa tutti insieme19.

Questi momenti di svago erano assai frequentati, ma con l’andare del tempo il coinvolgimento è andato diminuendo, con il conseguente venir meno di molti di essi. Loredana Peletti attribuisce questo calo alla perdita dell’entusiasmo che all’inizio caratterizzava gli stessi organizzatori, disposti a rinunciare a una parte importante del loro tempo libero per preparare le varie iniziative. Sia questo il solo motivo, o si debba aggiungere (e noi pensiamo lo si debba fare) l’evolversi di un modello sociale che ormai anche nelle piccole città prevede sempre nuove e diverse occasioni di svago, di fatto molti degli intervistati ricordano con un certo rimpianto i momenti di divertimento trascorsi in serenità ai bordi o dentro un campetto da calcio, e vorrebbero recuperarli. Una “grande famiglia”, in fondo, si riconosce anche in questo modo.

18 Ibidem. 19 Ibidem. A fianco: Trecate, Signor Bandini e l’ing. Vaghi in cantiere




I GRANDI CAMBIAMENTI

Un cammino mai finito Durante il nostro viaggio ci siamo più volte confrontati con le grandi trasformazioni che il mondo della ricerca e della produzione di idrocarburi prima e dello stoccaggio gas poi hanno subito nel corso del tempo: solo per citare alcuni di questi passaggi, abbiamo seguito l’evoluzione dei sistemi di perforazione dei pozzi dal metodo tradizionale a percussione alla novità rappresentata dal Rotary, così come nell’indagine geologica abbiamo documentato i vantaggi determinati dalla sismica a riflessione; allo stesso modo si è evidenziato come l’introduzione di nuovi macchinari e materiali abbia permesso di scavare a profondità sempre maggiori ed in presenza di pressioni sempre più alte, mentre attraverso l’utilizzo della tecnica di perforazione orizzontale è stato possibile ridurre il numero dei pozzi da realizzare e nel contempo assicurare il miglior drenaggio possibile del giacimento. È sufficiente leggere poche righe di descrizione di quest’ultima tecnica per comprendere perché un millennio (anziché poco più di cento anni) sembri separarci dalla stagione dei pozzari contadini, dei tralicci in legno, delle palle di ferro battute sul terreno per vincerne la resistenza, la stagione in cui gli uomini del petrolio coi loro rudimentali attrezzi parevano intenti a cercare l’inferno nelle profondità della terra: La batteria di perforazione orizzontale è composta da tre parti: al centro c’è la turbina che, mossa dalla pressione del fango, fa girare lo scalpello e l’apparecchiatura per la trasmissione dei dati, che consente il controllo della deviazione dello scalpello, trasmettendo istante per istante i dati della direzione e inclinazione del foro. Il sistema, attraverso una serie di giranti, produce degli impulsi che come onde si trasmettono lungo il fango in movimento fino alla superficie, dove vengono letti da un apparecchio trasduttore1.

Processi quasi da fantascienza e per di più in continua evoluzione, al punto che le poche righe sopra riportate, «vecchie» di dieci anni, in questo momento potrebbero essere già superate dal punto di vista tecnico. Lo stesso discorso vale per lo stoccaggio del gas: abbiamo parlato delle prime esperienze di over pression, e sottolineato come ogni innovazione nel campo dell’upstream sia suscettibile di applicazioni anche nell’attività di stoccaggio, il che genera scambi continui fra i due settori. Ovviamente (e anche su tale aspetto abbiamo voluto soffermarci) la complessità 1 Un pozzo da primato, in «Ecos», anno XXX, n. 2/2001.


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delle tecnologie a disposizione richiede sempre maggiori competenze, e questo impone una costante opera di formazione e di aggiornamento del personale, con caratteristiche e procedure necessariamente diverse rispetto al passato. Ad un’analoga evoluzione si è poi visto sono andate incontro le tematiche relative alla sicurezza del lavoro e alla tutela dell’ambiente, con un’accresciuta sensibilità sociale che ha portato con sé nuovi modi di affrontare e gestire i problemi relativi. Si può insomma dire che il cammino avviato con gli scavi dei primi pozzi nell’Ottocento non ha mai conosciuto pause o intervalli, e ogni giorno apre alla possibilità di nuovi passi avanti. Ciò risulta particolarmente evidente oggi, grazie a quella che può essere considerata l’icona dei nostri tempi, cioè l’informatica. L’avvento dei computer ha influito in modo determinante su ognuno degli aspetti più sopra richiamati: ha rivoluzionato la progettazione e la tecnologia impiantistica, ha trasformato le modalità di gestione e manutenzione degli impianti, ha rinnovato completamente le attività di controllo e monitoraggio degli stessi, ha elevato i livelli di sicurezza per le persone e per l’ambiente. Se è vero quindi, come è stato detto da alcuni intervistati, che la dipendenza dalle macchine può aver reso l’ambiente di lavoro più freddo e meno solidale, facendo venir meno quella vicinanza fisica con i colleghi che favoriva amicizie e socializzazione (e sappiamo come riflessioni di questo tipo non riguardano solo il “piccolo mondo” di cui stiamo raccontando!), è necessario anche parlare di quello che di più e di meglio l’informatizzazione ha comportato. È ciò che intendiamo fare nelle prossime pagine. L’avvento dell’informatica È una riflessione che ricorre costantemente nelle interviste: chiunque abbia sviluppato nel corso di decenni la sua attività fra la sede operativa di Crema e i cantieri di produzione e stoccaggio che ad essa fanno capo fatica a trovare elementi comuni fra il lavoro di oggi e quello praticato solo vent’anni fa: l’informatica ha fatto il suo ingresso ovunque, trasformandone e ridisegnandone ogni aspetto. Abbiamo più sopra richiamato, facendo l’esempio della tecnica di perforazione orizzontale, il ruolo fondamentale giocato dai computer nell’ambito delle nuove tecnologie, ma se è possibile ancora più evidente appare l’importanza dell’informatica nella complessa e delicata gestione dei cicli di iniezione ed erogazione del gas legati all’attività di stoccaggio. Oggi Stogit gestisce da Crema attraverso un sistema di telecontrollo l’aquisizione dei parametri di esercizio degli impianti di stoccaggio (compressione e trattamento) e la loro gestione in telecomando sul territorio nazionale, assicurando nel contempo il presidio della sicurezza operando in costante e continuo monitoraggio dei paramentri di eservizio e predisponendo le relative azioni in campo. Gli impianti sono in ogni caso dotati di propri sistemi di sicurezza che, in modo autonomo e automatico, intervengono prima che si verifichino situazioni di criticità. Tale


I grandi cambiamenti

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sistema riguarda prima di tutto l’apertura e la chiusura dei pozzi, ed ecco infatti come Massimo Ragazzi ha descritto l’evoluzione conosciuta in questo campo dai primi anni Ottanta: All’inizio ho fatto manutenzione delle telemisure, cioè delle apparecchiature che gestivano le centrali di stoccaggio via ponte radio. Si trattava di uno dei primi computer della Pignone di Roma, che appunto con dei collegamenti via radio attraverso delle periferiche collocate nelle centrali di stoccaggio le comandava e le gestiva qui da Crema: apertura e chiusura dei pozzi, allarmi, segnalazioni, variazioni di stato.... tutto da una sala di controllo posta a Crema. Via via poi il sistema si è evoluto: ad esempio all’inizio si doveva aprire pozzo per pozzo, colonna per colonna, mentre oggi si lancia la sequenza, cioè si mette sul computer la centrale in erogazione con la portata che si vuole e il computer regola tutto il processo automaticamente2.

Dalle parole di Massimo Ragazzi si desume come il sistema integrato di telecontrollo presenti aspetti di estrema complessità: ad esso, e all’unità operativa a cui è assegnato (il Centro di Dispacciamento) è affidata tutta la programmazione dell’attività di stoccaggio: sulla base delle richieste pervenute dai clienti, cioè dalle società operatrici proprietarie del gas stoccato, provvede ad una gestione ottimizzata dei singoli giacimenti e dell’intero processo: Da Crema vengono prese tutte le decisioni su quali giacimenti aprire, con che volumi e prestazioni e su cosa chiedere ad ogni giacimento in modo da garantire la massima efficienza3.

A tale scopo stogit utilizza specifici software messi a punto in ambito aziendale, di cui ci ha parlato dettagliatamente Daniele Marzorati: Oggi siamo in possesso di uno strumento che è in grado di prevedere la potenzialità del sistema stoccaggi: non parliamo del singolo campo, ma di un’integrazione di tutti i campi a disposizione. Ciascun campo ha infatti delle caratteristiche per le quali se utilizzato in certe situazioni può garantire le migliori performances: si tratta quindi di integrare queste caratteristiche, in modo da avere la massima potenzialità disponibile nel periodo di maggior richiesta del mercato, cioè gennaio e febbraio. Così abbiamo messo a punto, in collaborazione con alcuni specialisti della divisione E&P di eni un software che si chiama Imaginery (Integrated MAnagement of Gas INjEction and withdrawal in Reservoirs) e che ha vinto il premio tecnologico eni nel 2000: con questo strumento informatico siamo in grado di monitorare l’intera campagna di stoccaggio e di fornire quelle che sono le prestazioni sulla base delle richieste e sulla base della storia pregressa (volumi erogati nella campagna). In questo modo possiamo avere un quadro di quelle che sono le potenzialità che possiamo mettere a disposizione in qualsiasi momento: questo è particolarmente utile nei casi di emergenza climatica, quando le richieste sono molto elevate4. 2 Intervista a Massimo Ragazzi, 17 aprile 2012. 3 Intervista a Enrico Barbieri, 6 marzo 2012. 4 Intervista a Daniele Marzorati, 6 marzo 2012. E&P è la divisione Exploration and Production eni.


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A fianco di Imaginery un altro software, denominato perseo (PErformance Reservoir StoragE Optimization) ed elaborato da Daniele Marzorati in collaborazione con il collega responsabile dell’area Pozzi, Enrico Barbieri, consente, come ci informa il sito web di stogit5 di «monitorare in tempo reale i parametri dinamici operativi dei pozzi e dei giacimenti di stoccaggio al fine di una loro gestione ottimizzata». L’utilizzo di tali sistemi informatici consente quindi un continuo monitoraggio dei pozzi. È il lavoro di cui si occupa Sara Fragassi, che con grande passione lo ha così descritto: Il mio lavoro si svolge per lo più in ufficio: io ricevo i dati di tutti i campi e li analizzo. Da questa analisi e interfacciandomi con i colleghi decidiamo se e dove intervenire: nel caso di necessità ci saranno delle squadre che faranno i lavori richiesti ripristinando le condizioni ottimali. Dobbiamo monitorare più di 300 pozzi, che sono in attività 24 ore su 24, e quindi è indispensabile essere dotati di un sistema dinamico che ci permetta di localizzare i problemi e ci aiuti a trovare delle soluzioni, per garantire al meglio la vita dei pozzi e le attività. L’attività di pozzo richiede infatti tecnologie molto avanzate e costose, per cui occorre scongiurare a ogni costo il rischio che un pozzo non sia più utilizzabile... e per fortuna non è mai accaduto! Soprattutto nei momenti di maggiore domanda occorre che i pozzi siano performanti, cioè in grado di erogare quanto richiesto, ma non è sempre così, perché durante l’erogazione si possono creare problemi come trascinamento di sabbia, ostruzioni ecc., così noi monitoriamo perché ciò non avvenga6.

Sempre Sara Fragassi è oggi impegnata per un nuovo progetto «per un grande database dove convogliare tutti i dati, poterli analizzare, creare dei trend e poter vedere negli anni quale è stata l’evoluzione e quali sono stati i cambiamenti7». Il supporto dell’informatica, e il monitoraggio continuo che tale tecnologia consente, permettono di elevare anche i livelli di sicurezza: ogni caso di anomalia è immediatamente segnalato, ed immediato è l’intervento per scongiurare rischi di incidenti. Il telecontrollo dei pozzi ha modificato in modo sensibile i tempi del lavoro: il personale delle centrali smonta alle 17, e fino alle 8 del giorno successivo ogni attività è affidata al Centro Dispacciamento di Crema. Questo non significa ovviamente che tutto è affidato alle macchine: come ha sottolineato Ezio Comandù8, «il telecontrollo serve solo a muovere delle cose, se qualcosa non va (se una turbina non parte, se una valvola non si apre ecc.) devono intervenire i tecnici». Da qui la necessità che per ogni turno venga garantita la reperibilità di alcuni operatori: la componente umana (per fortuna!) gioca ancora un ruolo fondamentale. Il supporto dell’informatica interviene anche in fase di pianificazione della manutenzione di centrale, che da alcuni anni è stata di nuovo internalizzata: gli 5 6 7 8

www.stogit.it, Innovazione e ricerca, Asset Management. Intervista a Sara Fragassi, 5 giugno 2012. Ibidem, 5 giugno 2012. Intervista a Ezio Comandù, 5 giugno 2012.


I grandi cambiamenti

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addetti vengono forniti di un programma con tutte le scadenze da rispettare. Ultimamente la tecnologia in materia ha fatto un ulteriore passo avanti, ancora una volta grazie ai computer: Da quest’anno ci sono dei palmari su cui il manutentore di centrale trova giorno per giorno il programma sugli interventi che deve fare. Alla sera poi scarica sul palmare stesso tutto quello che ha fatto durante la giornata, e a noi arrivano tutte le informazioni relative9.

Da quanto abbiamo detto finora risulta evidente come tutte le innovazioni introdotte siano il frutto di un complesso lavoro di ricerca, spesso sviluppato in seno alla società e con la collaborazione di enti ed istituzioni accademiche italiane e straniere. Un’attività che stogit e prima di lei eni hanno sempre considerato come un tratto distintivo della propria mission. La ricerca Navigando all’interno dei siti delle due società10 si possono raccogliere interessanti dati sull’attività nel settore dell’Innovazione e della Ricerca. Come già accennato si tratta molto spesso di un impegno condiviso, che permette continui scambi ed integrazioni fra l’upstream e lo stoccaggio. Così ad esempio il Centro ricerche di San Donato, inaugurato nel 1985 e dedito specificatamente allo sviluppo tecnologico nel settore Petrolio e Gas, accoglie progetti che per l’upstream riguardano temi come la geologia, la geochimica, l’ingegneria del petrolio, l’Area Pozzo e la Radioprotezione, e vanta collaborazioni con i Politecnici di Milano e Torino, con il Cnr e con diverse Università straniere11. Dal canto suo Stogit annovera fra gli altri rapporti con eni E&P e con l’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia per nuove metodologie di indagine sui giacimenti, mentre con altre due società ha sviluppato un nuovissimo impianto di perforazione idraulica (HH220 “Leonardo”) a elevato contenuto tecnologico per la realizzazione di nuovi pozzi nei campi di stoccaggio che assicura «ridotto impatto ambientale, minimizzazione del rumore ed elevati standard di sicurezza». L’attenzione dedicata all’innovazione e alla ricerca è stata sottolineata anche nel corso delle nostre interviste. Così Daniele Marzorati, dopo aver ricordato che è in fase di progettazione e realizzazione un sistema di monitoraggio integrato nei giacimenti in over pression (sismogis, acronimo che sta appunto per Sistema di monitoraggio integrato 9 Intervista a Massimo Ragazzi, 17 aprile 2012. 10 www.stogit.it; www.eni.com. 11 Oltre a quello di San Donato, eni dispone dei centri ricerche di Novara e san Filippo del Mela (ME), nonché dei centri Versalis (le cui ricerche si concentrano nell’ambito dei materiali macromolecolari) con sede a Mantova, Ravenna e Ferrara.


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La piccola “America”

Giacimenti di Stoccaggio gas), il quale renderà possibile fra l’altro l’acquisizione di immagini da satellite attraverso un sistema radar avente lo scopo di controllare i movimenti del suolo, ha segnalato l’attività di studio in atto con il Politecnico di Torino per approfondire gli aspetti legati al monitoraggio della sismicità. Ma la collaborazione con le università si esprime anche in altri campi: I rapporti con gli atenei riguardano anche ad esempio la turbolenza per quanto concerne il moto dei fluidi nel giacimento. Con l’Università di Padova abbiamo inoltre avviato degli studi su come prevenire negli anni la subsidenza, un problema che è partito nell’Alto Adriatico e poi è andato a interessare un po’ tutte le attività12. Abbiamo avuto delle collaborazioni anche con il Politecnico di Milano in materia di progetti sulle infrastrutture e sugli impianti, in particolar modo per i tubi ad alta pressione, per i quali bisognava studiare soluzioni per certi tipi di terreni e per la corrosione13.

Simili forme di interazione con altre società e con enti ed istituti di ricerca sono destinate non solo a proseguire, ma anche a svilupparsi nel futuro: ad imporre continui sforzi in questa direzione è lo stesso scenario economico ed energetico mondiale. Su tale aspetto si è soffermato in un’intervista risalente all’inizio degli anni Duemila l’allora responsabile dell’Area Pozzi del Distretto di Crema, William Scaruffi, con le cui parole ci sembra opportuno chiudere questa piccola ma importante parentesi: Nel settore petrolifero i record sono quasi obbligati dalla concorrenza che esiste fra le maggiori compagnie petrolifere. Tuttavia la ricerca e la collaborazione internazionale hanno fatto passi da gigante, riuscendo a rendere economico lo sfruttamento di giacimenti di frontiera, abbassando i livelli di impatto ambientale, creando rapporti innovativi tra Paesi produttori e Paesi consumatori. Ma questo è solo un punto di partenza. Nel mondo dell’energia le sfide non finiscono mai. E sono sfide a tutto campo – ecologiche, tecniche, economiche, organizzative, culturali – che non si possono perdere14».

E domani? Appare naturale chiedersi, alla fine di questo lungo viaggio attraverso la storia umana ed aziendale di stogit e del Distretto di Crema quali siano le prospettive future di questa realtà così importante per il territorio. Che avvenire si prefigura per la comunità professionale che vi opera? Quali 12 Intervista a Daniele Marzorati, 6 marzo 2012. Il signor Marzorati ha comunque voluto sottolineare che sulla base degli studi compiuti «non esistono evidenze di legami fra subsidenza e attività di stoccaggio». 13 Intervista a Francesco Galimberti, 17 aprile 2012. 14 Un pozzo da primato, in «Ecos», anno XXX, n. 2/2001.


I grandi cambiamenti

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scenari si aprono per l’attività che nel nuovo secolo ha qui definitivamente preso il posto del tradizionale business legato alla produzione di idrocarburi, cioè lo stoccaggio gas? Nelle mille incertezze che caratterizzano l’attuale momento economico, una considerazione sembra potersi fare con sicurezza: lo stoccaggio gas sembra destinato a mantenere un’importanza fondamentale nel mercato italiano del settore, per la sua capacità di compensare le diverse esigenze fra l’approvvigionamento dall’estero, che ha un andamento costante nel corso dell’anno, e la variabilità stagionale del consumo. Di questa rilevanza sembra essere consapevole anche il legislatore, che con il decreto n. 130 del 13 agosto 2010 ha gettato le basi per consentire al nostro Paese di assumere il ruolo di hub del gas per il Sud Europa. Il titolo III del decreto («Incremento dell’offerta di servizi di stoccaggio di gas naturale») stabilisce infatti la necessità di «sviluppare nuove infrastrutture di stoccaggio di gas naturale o sviluppare quelle esistenti» in modo che esse «rendano disponibile nuova capacità di stoccaggio per un volume pari a 4 miliardi di metri cubi15». L’attività del distretto di Crema si colloca esattamente all’interno di questo quadro legislativo: l’ottimizzazione dei campi esistenti e lo sviluppo di nuovi asset rappresentano il cuore del business della società. La ricerca, l’innovazione tecnologica, il continuo miglioramento del know how in materia di conoscenze geologiche, di valutazione del rischio minerario, di gestione sinergica dei giacimenti e di qualità del servizio rendono possibili sempre nuovi traguardi. Tantissima strada è stata percorsa dai tempi eroici dei primi pozzari della val Padana: il ricordo delle loro fatiche dovrà accompagnare nelle sfide del futuro.

15 Decreto legislativo n. 130, 13 agosto 2010, titolo III, art. 5.



Appendice

Successione dei Presidenti e Amministratori Delegati, dei Responsabili del Distretto Operativo di agip Mineraria-agip-eni e della Sede Operativa stogit di Crema: Mineraria – agip – eni Divisione Exploration & Production Direttori operativi:1950 p.m. Garibaldi Mazzini Pizzard; 1955 ing. Adalberto Gulli; 1958 ing. Gian Carlo Vaghi; 1962 dr. Andrea Ziliani; 1964 ing. Eduardo Ricco; 1967 p.i. Franco Bandini; 1988 ing. Francesco Pellei; 1994 ing. Luigi Torricelli; 1995 ing.Massimo Pulga; 1997 dr. Andrea Gallori; 1999 dr. Giorgio Giorgetta; 2001 ing. Massimo Moschini.

agip

stogit

2001, Presidente: Giorgio Ruffoni; 2002, Presidente: Giorgio Ruffoni; 2003, Presidente: Giorgio Ruffoni; 2004, Presidente: Giorgio Ruffoni, Amministratore Delegto: Adelmo Schenato; 2005, Presidente: Roberto Bonaventura D’Amico, Amministratore Delegato: Adelmo Schenato; 2006, Presidente: Roberto Bonaventura D’Amico, Amministratore Delegto: Adelmo Schenato, 2007, Presidente e Amministratore Delegto: Adelmo Schenato; 2008, Presidente e Amministratore Delegato: Enrico Cingolani; 2009, Presidente: Federico Spiller, Amministratore Delegato: Enrico Cingolani; 2010, Presidente: Federico Spiller, Amministratore Delegato: Paolo Bacchetta; 2011, Presidente: Sergio Polito, Amministratore Delegato: Paolo Bacchetta; 2012, Presidente: Antonio Paccioretti, Amministratore Delegato: Paolo Bacchetta; 2013, Presidente: Antonio Paccioretti, Amministratore Delegato: Paolo Bacchetta. Responsabile operativo Stogit: Da novembre 2001 a settembre 2002, ing. Roberto D’amico; da ottobre 2002 a aprile 2008, ing. Vanni Damiani; da maggio 2008 a aprile 2013, ing. Renato Maroli; da maggio 2013 ing. Davide Dall’Olio.



Riflessioni e commenti degli alunni dell’Istituto Pacioli

Gli studenti dell’Istituto Pacioli di Crema hanno collaborato alla ricerca; di seguito pubblichiamo alcune delle riflessioni scaturite dall’esperienza: “I signori sono riusciti a catturare la mia attenzione, perché raccontando vicende della loro esperienza personale e come funziona un sistema complesso con l’eni stogit, ho capito come fosse importante il loro lavoro e come un’industria dia tanto lavoro ad un numero ampio di persone” Alessandro Annunziata; “Questa attività’ mi è’ interessata in quanto oltre ad essere venuto a conoscenza di cose a me nuove, ho potuto conoscere possibili sbocchi lavorativi che non pensavo fossero di competenza di un geometra” Cucchetti Stefano; “Grazie all’esperienza svolta all’impianto a Sergnano ho capito l’importanza della salvaguardia dell’ambiente e della natura vedendo i sistemi con i quali si è’ cercato di non danneggiare i paesaggi […] l’incontro ci ha aperto gli occhi verso il mondo del lavoro facendoci capire tutte le possibilità’ che potremmo avere in futuro in differenti attività” Clerici Vittoria; “Dopo l’intervento dei tecnici dello stoccaggio del gas mi ha colpito la progettazione e realizzazione delle condotte del gas” Miriam Idilli; “Gli sbocchi nel campo dello stoccaggio c’è ne sono ma da quello che ho capito bisogna fare molti sacrifici, per esempio uno degli ex-tecnici che è venuto a parlatrici ci ha raccontato la sua storia di quando l’aveva o trasferito in Egitto e a volte faceva mesi senza tornare a casa e senza vedere la famiglia […] erano delle persone molto preparate e in più avevano dalla loro parte l’esperienza perché essendo persone di una certa età ne avevano viste di tutti i colori” Nicolò Arpini; “Abbiamo visto la turbina, secondo me è uno dei macchinari più utili ed efficaci. Questi studi approfondimenti e nuove visite a macchinari sempre più sofisticati penso che saranno il mio futuro un domani nel senso che mi apriranno nuove strade verso il mondo del lavoro in quanto al giorno d’oggi sono i macchinari a mandare avanti il mondo” Simone Cantoni; “La cosa che mi ha stupito di più è stato vedere tutto quel complesso di macchinari che grazie a continui lavori e manutenzioni ci mandano energia utile nelle nostre case” Salvatore Mennella; “Sono rimasto colpito da come ci hanno spiegato la centrale di stoccaggio di Sergnano, in modo simpatico ed amichevole […] in questo modo abbiamo imparato divertendoci


apprendendo molto facilmente il funzionamento della centrale di stoccaggio, per esempio nel periodo estivo il gas viene immagazzinato in quei giacimenti naturali che si potrebbero definire “geologicamente collaudati” mentre durante l’inverno il gas viene estratto e immesso nelle reti di distribuzione per soddisfare le esigenze dei consumatori finali” Andrea Moro; “Può essere un’introduzione alla vita lavorativa, un modo per approfondire le proprie conoscenze, per catturare l’interesse di alcuni e condurli verso una strada da seguire […] oltre alla visita fatta all’impianto tecnici della stogit sono venuti di persona nella nostra scuola. Hanno descritto esperienze proprie basate su una vita dedicata a questo progetto, iniziato con Mattei e attivo ancora oggi per collaborare e illuminare l’Italia” Kristian Lesaj; “Ci sono state due tipi di attivita’, cioè la visita alla Centrale di stoccaggio stogit di Sergnano e l’ incontro con gl’ingegneri della centrale stessa ed ex impiegati Eni […] È stato istruttivo poiché tutte le spiegazioni sono state molto esaurienti e fatte direttamente da chi lavora in quel campo ogni giorno o comunque da persone che ci hanno lavorato molti anni” Alex Cantoni; “Tra gli sbocchi lavorativi, quelli più in evidenza inerenti all’attività di stoccaggio, penso sia il geologo che si basa soprattutto sullo studio della terra e dei suoi processi che la cambiano e la plasmano” Denise Tesino; “La visita alla centrale di stoccaggio di Sergnano e l’incontro con il personale e i lavoratori che hanno dedicato la loro vita alla stogit mi sono piaciuti particolarmente, soprattutto sentir parlare e raccontare le loro esperienze lavorative agli ex lavoratori della stogit è stato molto bello perché mi ha fatto avvicinare in qualche modo al mondo del lavoro” Gabriele Rasetti; “Quello che ho capito da questi incontri e dalla visita di uno stabilimento stogit è l’importanza della loro attività e della loro sostenibilità e che senza di esso noi ne risentiremmo dal punto di vista energetico […] la cosa che mi ha colpito è la gentilezza, la simpatia nonché la cura e la professionalità che essi danno al loro lavoro e anche l’interesse che hanno dato a noi giovani per farci conoscere e apprezzare il loro lavoro” Federico Bizzoni; “Prima dell’esperienza per me l’eni era solo un gruppo che distribuiva benzina come tante altre, ma grazie a queste persone ho potuto scoprire come è nata e le grandi persone che l’hanno fatta crescere” Luca Bellanda; “Abbiamo visto la centrale di stoccaggio accompagnati dal personale che ci ha spiegato come funziona e cosa avviene in essa ma soprattutto qual è il suo scopo, ovvero quello di stoccare il gas immagazzinandolo sottoterra e di erogarlo e distribuirò quando la richiesta aumenta in inverno. Quest’ultimo è uno degli aspetti e una delle cose che non sapevo che ha attirato la mia attenzione e curiosità, siccome è grazie ad esso che il gas arriva a casa mia” Fabio Cicinelli; “L’eni ha fondato anche la stogit che oggi è un ente molto importante dello stoccaggio del gas naturale . Il gas metano oggi viene stoccato lavorato e distribuito a tutte le case


italiane grazie ad una rete di condotti sotterranei. La stogit e l’eni offrono sbocchi di lavoro che possono essere sfruttati anche da noi geometri che potremmo lavorare negli uffici tecnici della stogit” Stefano Caravaggi; “Gli sbocchi lavorativi nel settore sono numerosi, infatti una volta entrati come dipendenti in questa impresa si aprono una serie di strade che permettono una carriera lavorativa dignitosa e variegata […] l’esperienza è stata interessante e coinvolgente” Alfredo Guida; “L’incontro con i tecnici della stogit e dell’eni, nella nostra scuola, sono stati davvero interessanti durante queste riunioni ho appreso e conosciuto le gesta e le importanti azioni di Enrico Mattei e mi è piaciuto molto anche ascoltare le esperienze dei veterani che hanno lavorato in questa industria, ho apprezzato tantissimo il modo in cui questi signori raccontavano le cose: con il sorriso” Mattia Ferla; “Abbiamo avuto diversi esperti dal lavoratore presso l’agip ad un geometra. Durante l’esposizione è stato definito che era il geologo nella ricerca del petrolio” Lucia Invernizzi; “Questi incontri ci hanno offerto l’idea di avere altri sbocchi lavorativi che non sono i tradizionali: l’ambito energetico è comunque inerente al diploma di geometra, soprattutto nell’ambito dei controlli sulla sicurezza sul lavoro e della gestione degl’impianti” Asia Alfano; “In questi due anni abbiamo avuto il modo di conoscere il mondo dell’eni e della stogit […] personalmente è stata un’esperienza molto positiva perché ho capito e conosciuto molte cose delle quali non ero a conoscenza” Singh Kanwarpal; “L’esperienza che più mi ha colpito e stata la visita a Sergnano alla stogit perché ho potuto osservare di persona come funziona il processo di stoccaggio del gas naturale” Irene Ballini; “Ci hanno spiegato come il gas viene stoccato e raccolto dalla centrale che poi lo smista nelle diverse reti, come è formato il pozzo e come viene controllato” Matteo Stombelli; “Interessanti sono stati anche gli incontri con i tecnici dell’Eni e della snam che ci hanno parlato di Mattei e della sua Storia e di come le sue idee hanno cambiato l’Italia e la gestione del gas metano” Gianluca Caldara Arpini; “Ci hanno spiegato approfonditamente e in modo specifico gli strumenti e gl’impianti utili per la distribuzione del gas metano” Mattia Lanzeni; “Il corso che sto seguendo potrebbe darmi degli sbocchi lavorativi proprio in queste società che cercano delle persone con un titolo di studio come il geometra. Durante gli incontri si è parlato della posa, della saldatura e di tutte le varie fasi che comportano la costruzione dei condotti sul terreno, che spesso può presentare molti ostacoli alla costruzione” Francesco Danelli.



RINGRAZIAMENTI

Questa ricerca non sarebbe stata possibile senza la collaborazione, la pazienza, la passione e l’entusiasmo dei tanti che mi hanno accompagnato nel corso di essa. Il primo ringraziamento va naturalmente alle lavoratrici e ai lavoratori di stogit e del Distretto di Crema di snam che mi hanno arricchito con le loro testimonianze e i loro ricordi, e che nomino con infinito piacere: Enrico Barbieri, Vincenzo Bruno, Roberto Canevari, Antonio Canonaco, Ezio Comandù, Palmiro Crotti, Giancarlo Dossena, Sara Fragassi, Francesco Galimberti, Valerio Galvagni, Enzo Legnani, Vittorio Maioli, Daniele Marzorati, Antonio Mazzon, Alberto Mocchi, Loredana Peletti, Paolo Pissard, Massimo Ragazzi, Giovanni Rossi, Giovanni Antonio Vigani, Antonio Carlo Zucchelli. Un grazie particolare va al presidente dell’Associazione Pionieri e Veterani Eni Antonio Canonaco, per l’assistenza e per il prezioso archivio fotografico messo a disposizione e Giancarlo Dossena, che con passione ha seguito il lavoro e lo ha indirizzato con preziosi consigli. Un ringraziamento sincero va anche Paolo Pissard, figlio del mitico pioniere Mazzini Garibaldi, per aver condiviso con noi la memoria commossa di suo padre. Il lavoro è stato arricchito e migliorato con il supporto di snam e dal materiale che eni mi ha concesso di visionare presso l’archivio storico di Pomezia: per questo ringrazio Laura Ferilli della sede sanm di San Donato; Lucia Nardi, Anna Landolfi e Antonella Bovi della sede eni di Roma. La ricerca si è anche avvalsa della collaborazione dei ragazzi della terza e quarta Geometri dell’Istituto Pacioli di Crema, di cui ringrazio il preside Giuseppe Strada e la professoressa Cristina Piazzi. Un grazie quasi scontato ma assolutamente dovuto va infine agli amici del Centro Galmozzi di Crema, che come sempre mi hanno supportato con passione e professionalità: grazie quindi al presidente Felice Lopopolo, a Gilberto Bernardinangeli e a Stefano Erinaldi. Nicoletta Bigatti



Appendice fotografica La piccola “America”










Se la storia di un’azienda è talvolta un insieme di date, di risultati, di sviluppi tecnologici, è altrettanto vero che è anche, se non soprattutto, storie di uomini, di territori, di passioni, e solo se non disgiunti dalle emozioni umane, il progresso e il futuro si accendono e prendono vita. Nel corso degli ultimi sessant’anni il cremasco ha vissuto una storia unica in Italia: dai primi “cercatori di petrolio” della Val Padana, autentici pionieri mossi da una “febbre” quasi texana, agli entusiastici anni delle perforazioni e del ritrovamento di giacimenti che avrebbero portato lavoro e benessere alle comunità, dalla grande intuizione di trasformare i pozzi esauriti in preziosi campi di stoccaggio alla straordinaria determinazione nel realizzare quell’idea. Ecco, io ho conosciuto quelle persone, la loro invidiabile capacità di immaginare sempre nuovi traguardi, e la passione per raggiungerli e superarli; ho provato grande soddisfazione nell’ascoltare i loro racconti, felice di potermi sentire parte di questa “piccola America” e della comunità di coloro che, a buon diritto, possono vantare di aver dato vita a uno dei più importanti operatori nel campo dello stoccaggio del gas naturale a livello europeo. Mi riferisco a stogit, il cui dna è inevitabilmente quello del Centro Operativo di Crema, e che insieme alle consorelle del Gruppo snam – snam Rete Gas, Italgas e gnl Italia – continuerà a garantire al Paese l’energia di cui ha bisogno. Ho raccolto con grande piacere l’invito dei nostri pionieri a sostenere la realizzazione di quest’opera in collaborazione con il Centro Ricerca Alfredo Galmozzi e i ragazzi dell’Istituto Tecnico L. Pacioli di Crema; non soltanto perché si trattava della nostra storia raccontata da coloro che l’hanno fatta – e come tale il primo e più grande dei frutti da lasciare alle generazioni future – ma anche perché in filigrana essa dimostra come lo sviluppo economico, culturale e sociale possa e debba essere conseguito preservando il territorio, collaborando con le comunità, dialogando con le istituzioni. Paolo Bacchetta, Amministratore Delegato stogit

Progetto sostenuto da stogit In collaborazione con eni apve e Istituto Pacioli di Crema


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