Storie di malattia, storie di guarigione nella salute mentale

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Premio di Laurea Cesvol 2018

CESVOL UMBRIA EDITORE


Premio di Laurea Cesvol 2018 2

Edizione 2019


Cesvol Centro Servizi Volontariato Umbria Sede Legale: Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia tel 075 5271976 fax 075 5287998 www.pgcesvol.net pubblicazioni@pgcesvol.net

Edizione marzo 2019 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono in copertina: quadro realizzato da alcuni artisti del

Centro di Salute Mentale di Magione Stampa Digital Editor - Umbertide

Per le riproduzioni fotografiche, grafiche e citazioni giornalistiche appartenenti alla proprietà di terzi, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire. E’ vietata la riproduzione, anche parziale e ad uso interno didattico, conqualsiasi mezzo, non autorizzato.

ISBN 9788896649855


centro servizi volontariato

Presentazione Il volume è la pubblicazione del premio di laurea “Cesvol”, che si inquadra nell’ambito di una convenzione siglata tra il Centro Servizi Volontariato di Perugia ed il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia. Il bando prevede la pubblicazione della tesi e vi possono concorrere studenti che abbiano conseguito la Laurea Magistrale in Sociologia e politiche sociali, Comunicazione pubblica, digitale e d’impresa, Scienze della politica e dell’amministrazione. Il premio si inquadra nell’ambito di una più ampia collaborazione istituzionale, che prevede anche la possibilità di svolgimento presso il Cesvol Perugia del tirocinio di formazione ed orientamento di studenti e/o laureati dell’Ateneo perugino. Il formale rapporto di collaborazione siglato da Cesvol Perugia e Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia prevede infine la promozione di varie attività che consentano esperienze di partecipazione a pieno titolo nel volontariato e nel non profit, finalizzandole ad una riflessione sulle varie dimensioni delle realtà sociale. La tesi della dott.ssa Cristina Burini ha preso in esame l’ambito della salute mentale, analizzando l’articolata relazione tra servizi pubblici (Dipartimento di salute mentale della USL Umbria1) e alcune Comunità terapeutiche del privato sociale in Umbria. Al centro della tesi si colloca l’analisi delle forme di recovery e di psichiatria di comunità, attraverso un’attenta riflessione teorico-metodologica, che spazia


dall’ambito psico-sociale a quello antropologico, rilevabile dall’ampia bibliografia che correda la tesi. La ricerca ha visto coinvolta la dott.ssa Burini in due strutture territoriali della salute mentale: la Comunità terapeutica “Torre Certalda” di Umbertide (ente accreditato dalla Cooperativa ASAD) e il Circolo “Noi insieme”, afferente al Centro di Salute mentale di Magione, che lo gestisce con la Coop. POLIS. Il lavoro di ricerca rende evidente l’importanza della relazione tra privato sociale e servizi pubblici, sia nella costruzione di un progetto condiviso per raggiungere il benessere della persona, sia nella metodologia di lavoro. La narrazione della malattia e il vissuto delle emozioni, degli utenti come degli operatori, è il focus centrale del lavoro di ricerca, secondo un approccio innovativo e personalizzato, che viene valorizzato attraverso laboratori e colloqui semi strutturati con i professionisti. Ne emerge un quadro articolato, che evidenza innovazioni e sperimentazioni, ma anche aspetti critici di un settore della sanità, del quale il terzo settore è diventato uno dei principali protagonisti. La tesi si presenta come un’approfondito percorso di analisi e di riflessione, che può servire da modello per ulteriori ricerche in questo specifico settore.


Storie di malattia, storie di guarigione nella salute mentale: la narrazione delle emozioni nei professionisti dell’aiuto e negli utenti

di Cristina Burini



Donatella: Dice che sto troppo male per tenere il bimbo e me lo levano subito. Beatrice: Chi, chi lo dice? Donatella: I servizi sociali, dicono “inidoneità genitoriale”. Una mattina vengono a prendermelo in otto, c’erano anche i carabinieri. Lui dormiva, piccino. Non me lo fan nemmen cambiare. Lo mettono in una casa famiglia. Solo, solo, per un po’ di tempo. Dice: «Te aspetta, dobbiamo decidere». Beatrice: Ma decidere chi? Donatella: Loro…Io aspetto, piango tutto il giorno, ma aspetto. «Piangi troppo» dice «depressione maggiore» dice. Datemelo, no? Non piango più. «No, te hai sempre pianto». Beatrice: Sì, anch’io. Donatella: «Piangevi a scuola». Sanno tutto sanno, piangevo per i compiti, piangevo per babbo, piangevo in ascensore. Beatrice: Sì, anch’io. Donatella: Piangevo quando mamma mi sgridava che piangevo. Beatrice: Sì, anch’io. Donatella: C’ho questa depressione maggiore, va bene, allora curatemi no? Sono nata triste. Beatrice: Anche io sono nata triste. Donatella: Allora curatemi, datemi Elia! Che mi curate levandomelo? Beatrice: Certo i bambini danno allegria. Donatella: E allora mi dicono: «Va bene, puoi andare in quella casa famiglia a vederlo». E allora io ci vo tutti i giorni, ci sto tutto il giorno. Gli do gli omogeneizzati, alla carne no, gli piace solo mela e biscottino. Si ride io e Elia, sai. Solo che quando mene vo, piange, lui piange fortissimo, mi si attacca addosso. Me lo devono staccare ditino per ditino ed io devo lasciarlo lì, devo fargli credere che sono io che lo lascio lì. Dice: «Non guarisci», dice. Voglio guarire, voglio! Beatrice: Anche io voglio guarire. (Dal film La pazza gioia, 2016, Paolo Virzì)



INDICE Introduzione CAPITOLO I - Introduzione alla ricerca: concetti di base 1.1. Il racconto della malattia. Dalla evidencebased medicine alla illness narrative nell’antropologia medica 1.2. La narrazione della malattia come racconto culturalmente condizionato 1.2.1. Verso una definizione di medicina narrativa 1.3. La medicina narrativa 1.4. L’approccio narrative-based

p.1 p.7

p.11 p.22 p.29 p.31 p.36

CAPITOLO II - Narrazione e salute mentale 2.1. L’uso della narrazione in salute mentale 2.2. Il dolore che distrugge il quotidiano 2.3. Raccontare la sofferenza psichica per uscire dalla passività 2.4. Le tappe delle storie di guarigione 2.5. Raccontare, esprimersi, ritrovare il proprio sé 2.6. La parola è farmaco: l’importanza della narrazione di sé 2.7. Le emozioni 2.7.1. Lo studio delle emozioni nelle scienze sociali 2.7.2. Definire il concetto di emozione 2.7.3. Sentimenti

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CAPITOLO III - Strumenti e metodi di una ricerca che emoziona 3.1. L’idea di partenza e la metodologia utilizzata per la ricerca

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p.55 p.62 p.65 p.70 p.76 p.78 p.81 p.86

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3.2. I luoghi della ricerca 3.3. I tempi della ricerca 3.4. Le interviste e i temi principali 3.4.1. Setting disturbato e dati condizionati CAPITOLO IV - Esprimere le emozioni attraverso l’arte: i laboratori di pittura, teatro e scrittura 4.1. L’arte che emoziona 4.1.1. Osservazione partecipante in un laboratorio di pittura 4.1.2. Come nasce un laboratorio di pittura 4.2. Quando la maschera libera le emozioni: il laboratorio di teatro 4.2.1. Aspetti fondamentali del teatro in ambito terapeutico 4.2.2. Il laboratorio di teatro al Circolo Ricreativo "Noi Insieme" di Magione 4.3. Il laboratorio di scrittura presso la Comunità Terapeutica "Torre Certalda" 4.3.1. Scrivere per allontanare le paure 4.3.2. Libero Pensiero, il Giornalino di "Torre Certalda" 4.4. I laboratori e l’auto-aiuto CAPITOLO V - Gli "esperti per esperienza": il rapporto con gli utenti e il lavoro emotivo. Analisi delle interviste 5.1. La medicina narrativa secondo le psichiatre 5.2. Storie di malattia, storie di persone 5.3. Guarigione o remissione clinica in salute mentale 5.4. Psichiatre e assistenti sociali: le emozioni delle professioniste 5.5. L’ascolto attivo nelle storie di malattia

p.95 p.101 p.102 p.106

p.109 p.114 p.117 p.121 p.133 p.136 p.138 p.145 p.146 p.152 p.158

p.162 p.163 p.170 p.179 p.189 p.202


5.6. La patologia psichiatrica e il pregiudizio 5.7. Maschere emotive e le professioni di aiuto: il rischio burnout 5.7.1. Il burnout nelle psichiatre e nelle assistenti sociali 5.7.2. Gli educatori, tra rischio burnout e lavoro sulle emozioni 5.8. La forza dell’équipe 5.9. L’assistente sociale nella salute mentale 5.9.1. L’assistente sociale e la relazione con gli utenti 5.9.2. Il ruolo dell’assistente sociale in ambito sanitario 5.9.3. L’assistente sociale: una professione al femminile

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Riflessioni conclusive

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Riferimenti bibliografici Sitografia Ringraziamenti

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p.220 p.224 p.227 p.234 p.243 p.247 p.251 p.257



INTRODUZIONE

Il presente lavoro di tesi, attraverso una breve ricerca sul campo, intende analizzare la capacità di espressione delle emozioni che gli utenti della salute mentale acquisiscono grazie ai laboratori di scrittura, pittura e teatro, e anche il modo attraverso il quale i professionisti dell’aiuto riescono a riflettere sulle emozioni che entrano in gioco quando si vive a contatto con la sofferenza altrui. Il mio interesse per questa tematica nasce da alcune considerazioni che ho maturato nel corso degli ultimi due anni di studio, in particolare, sulla mancanza di un lavoro sul vissuto emotivo nella formazione degli assistenti sociali di domani. Questo aspetto l’ho riscontrato anche stando a contatto con le studentesse e gli studenti del Corso di Laurea Triennale in Servizio Sociale, durante il mio incarico di tutor dei tirocini per l’anno accademico 2016/2017. Mi sono domandata come avrei affrontato questo argomento in futuro, da professionista, se durante la mia formazione non avevo, quasi mai, preso parte ad un corso sulle emozioni. L’interesse per l’area della salute mentale, è pervenuto grazie ai quattro mesi di tirocinio presso l’Ufficio di Coordinamento dei Servizi Sociali della U.S.L. Umbria 1 di Perugia con Patrizia Cecchetti che, oltre a questo, è anche la Referente per il Servizio Sociale del Dipartimento di Salute Mentale. Altri punti di riferimento sono state le riflessioni sui concetti di recovery e di psichiatria di comunità, durante il Convegno Il territorio oltre i luoghi della cura tenutosi 1


presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia nel giugno 2017. Da questo è nata l’idea di una ricerca in due strutture umbre della salute mentale: la Comunità Terapeutica "Torre Certalda" di Umbertide, un ente privato accreditato della Cooperativa ASAD e il Circolo Ricreativo "Noi Insieme", afferente al Centro di Salute Mentale di Magione che lo gestisce in appalto con la Cooperativa Sociale POLIS. Entrambe accolgono utenti con un’età compresa tra i 18 e i 65 anni. In questi due luoghi ho preso parte, come osservatrice partecipante, ai laboratori di scrittura (C.T. di Umbertide), quelli di pittura e teatro (Circolo di Magione) per circa due mesi e mezzo (metà dicembre 2017, gennaio-febbraio 2018). Nell’ambito della ricerca ho svolto colloqui semistrutturati ai testimoni privilegiati che ritenevo utili per rispondere alle mie domande. Essi sono rappresentati dalle psichiatre responsabili delle strutture di cui sopra, dalle assistenti sociali presenti e dagli educatori che conducono i laboratori. A questi, vanno aggiunte la psichiatra Responsabile della Struttura Complessa per la Salute Mentale Area del Perugino della U.S.L. Umbria 1, Elisabetta Rossi e altre due assistenti sociali, una del Centro di Salute Mentale di Perugia Centro e una del C.S.M. di Ponte San Giovanni. Avrei voluto coinvolgere altri psichiatri ma, non tutti si sono dimostrati disponibili a rispondere alle mie domande, o per impegni di lavoro o per ragioni personali. L’area medica e quella sociale sono rappresentate da sole donne, mentre gli educatori sono tutti uomini. Gli utenti non sono stati intervistati con lo stesso temario dei professionisti, bensì attraverso colloqui informali che ho riportato nei diari di campo. 2


Per dare un quadro di riferimento teorico alla mia ricerca, nel Capitolo I ho inserito il Piano d’Azione per la Salute Mentale 2013-2020 redatto dal Ministero della Salute. Questo documento ribadisce la necessità di un lavoro integrato tra il settore pubblico e quello privato nel trattamento delle patologie psichiatriche e sostiene, in un’ottica di empowerment e di recovery, che gli utenti dovrebbero essere parte attiva nel percorso di cura ed essere rappresentati come veri e propri stakeholders nella progettazione dei servizi. Per essere preso in considerazione, l’utente deve essere ascoltato nel racconto della propria malattia e della propria storia di vita. Partendo da questo ho trattato della medicina narrativa. Essa rappresenta un bisogno spontaneo degli individui per avere voce nel percorso di cura, ma è anche uno strumento utile ai professionisti per mettere in atto percorsi riabilitativi con persone partecipi e portatrici di un sapere non minoritario rispetto ad un tecnico. L’approccio antropologico risulta centrale in questo discorso; attraverso i lavori di Good e Kleinman, infatti, ho cercato di definire come il concetto di malattia sia un prodotto culturale. Parlando di narrazione della malattia, si fa rifermento al concetto di illness, cioè la spiegazione che il paziente attribuisce al proprio vissuto di malattia che, attraverso un lavoro di accettazione, condivisione e riflessione sulla propria condizione e sulle emozioni, risulta essere un prezioso supporto nel percorso di cura. Nel Capitolo II utilizzo alcuni documenti nei quali Giuseppe Tibaldi, psichiatra piemontese, descrive la patologia psichica come una tappa nel racconto di persone che possono, secondo lui, passare dalla catastrofe ad una storia di guarigione. Questo risulta possibile 3


attraverso un dialogo vero che i professionisti devono riuscire a mettere in pratica con i propri utenti, un percorso di cura dove la partecipazione sia reale. Essi sono "esperti per esperienza" e per questo parte fondamentale per un progetto che vada oltre la riabilitazione, ma conduca alla cura dove anche l’uso dei farmaci diventa un accessorio al recupero, non la parte fondamentale e imprescindibile dello stesso. Quando un paziente racconta una storia, lo fa per cercare di ricostruire qualcosa che, a causa della malattia, dentro di sé si è rotto. Uno dei mezzi grazie ai quali la ricostruzione può avere luogo, è la scrittura. A tal proposito, sempre nel Capitolo II, parlo dell’incontro con Duccio Demetrio, filosofo dell’educazione, docente e fondatore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, al Convegno La narrazione autobiografica per lo sviluppo sociale, tenutosi a Perugia il 16 dicembre 2017. Demetrio è autore di numerosi testi che insistono sul ruolo della narrazione di sé come momento di riflessione sulla propria vita. La narrazione di sé si intreccia al bisogno, per chi vive l’esperienza della patologia psichiatrica, di prendere coscienza di quanto accaduto, metterlo su carta se necessario, o comunque trovare un modo per poter esprimere gli stati d’animo che si associano a questo evento, per far sì che esso diventi reale, che lo si accetti come parte del percorso di vita, ma non come del tutto determinante per la stessa. L’ultima parte del Capitolo II tratta i concetti di emozione e di sentimento nelle scienze sociali. L’interesse per questo argomento è nato a seguito della partecipazione al corso di Sociologia del Mutamento Sociale con il docente Massimo Cerulo. 4


La prima a parlare di questa branca della sociologia è Arlie Russell Hochschild, secondo la quale le emozioni sarebbero la modalità attraverso la quale gli individui sono soliti classificare e spiegare a se stessi ciò che sentono, nonché quello che mostrano di provare durante le relazioni sociali. Tutti gli individui che la sociologa definisce "senzienti", dovrebbero essere in grado di mettere in atto un lavoro emotivo (emotion work), quindi non reprimere il proprio sentire, ma saperlo adattare alla situazione imposta dal contesto, pur rimanendo consapevoli del mascheramento operato. Nel Capitolo III presento la ricerca da un punto di vista metodologico, descrivo il campione, i luoghi nei quali ho svolto l’osservazione partecipante e le tematiche presenti nei colloqui semi-strutturati che ho somministrato ai professionisti. In questa sede mi soffermo anche nella descrizione delle difficoltà che ho incontrato durante le interviste, prima fra tutte, il setting particolarmente disturbato. Il Capitolo IV analizza i laboratori di espressione artistica ai quali ho preso parte: pittura, scrittura e teatro. Ognuno con le proprie specificità, mostrano come la rielaborazione della sofferenza possa avvenire attraverso un racconto, un dipinto o una rappresentazione teatrale, e quanto essi siano centrali per la persona con patologia psichiatrica nel percorso riabilitativo. Il Capitolo V, infine, include l’analisi delle interviste svolte con le psichiatre, le assistenti sociali e gli educatori. Con le psichiatre ho discusso, in particolare, sull’importanza della narrazione della storia di malattia nell’impostare un piano terapeutico-riabilitativo, sull’uso dei farmaci e sulla definizione di guarigione o remissione clinica in salute mentale. 5


Con gli educatori, invece, mi sono soffermata sulla metodologia che utilizzano nell’organizzazione dei laboratori, quali sono gli obiettivi che si pongono e come si lavora sulla sofferenza utilizzando l’arte. Ho, inoltre, riflettuto sulle diverse risposte che i professionisti hanno dato su temi, quali l’ascolto attivo, il superamento del pregiudizio verso la patologia psichiatrica, il burnout, la supervisione di gruppo. Alle assistenti sociali, oltre all’analisi dei colloqui, ho dedicato un paragrafo nel quale si esamina brevemente come è cambiato il ruolo all’interno di un servizio specialistico ad elevata componente sanitaria. Oltre alla minore presenza numerica rispetto al personale medico e paramedico, queste professioniste, negli anni, sono state ostacolate nell’affermare la propria autorità professionale anche perché l’elevata presenza femminile può essere vissuta come elemento negativo e sinonimo di minore competenza per le donne.

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CAPITOLO I Introduzione alla ricerca: concetti di base Premessa In questo primo capitolo intendo trattare la medicina narrativa da un punto di vista antropologico e sociale, affinché sia chiaro il valore della narrazione di sé e dell’esperienza di malattia nelle persone affette da disturbi psichici. La narrazione non è soltanto la descrizione che l’individuo che vive la malattia fa dei sintomi o dei disturbi che lo affliggono, ma è soprattutto una riflessione profonda sulle emozioni che questa persona prova e che durante la sofferenza tende a reprimere. Rispetto a questo, ho analizzato le modalità attraverso le quali i laboratori di espressione artistica sono in grado di contribuire alla rielaborazione dei momenti dolorosi, prenderne le distanze e riuscire ad evocare emozioni positive che in certe situazioni vengono dimenticate.1 Prima di iniziare la trattazione vera e propria sulla medicina narrativa, è opportuno sottolineare l’importanza che riveste il Piano d’Azione per la Salute Mentale 20132020. Questo documento offre numerosi spunti di riflessione per il trattamento delle patologie psichiatriche, 1

Nel corso di questo primo capitolo ho descritto come le storie di malattia, come tutte le storie, si compongono di elementi quali la trama, il tempo, il bisogno di un interlocutore. È importante, però, considerare che la medicina narrativa si differenzia dallo story telling, cioè dal racconto strutturato e coerente. Le storie narrate dagli utenti hanno sì una struttura, ma essa non è rigida, non sempre viene rispettata e non sempre si segue uno schema logico (Miselli, 2015, pp.1-2).

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essi si ricollegano a concetti quali l’empowerment della persona come attore partecipe nel percorso di cura, il ruolo di snodo che hanno i professionisti e l’importanza dell’ascolto. Tutte queste tematiche sono discusse e approfondite nei capitoli successivi. Il Piano d’Azione, attraverso un approccio sinergico tra il settore sanitario e quello sociale, intende fornire delle linee guida nella presa in carico delle persone con disturbi psichici, integrando la prevenzione delle patologie, la promozione della salute e di una vita autonoma, il diritto alle cure e la riabilitazione in un’ottica di recovery.2 Antonio Maone, medico psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale della A.S.L. Roma/A, scrive quanto segue su questo concetto: […] in psichiatria abbiamo attualmente a che fare con due diverse accezioni del concetto di recovery. La prima è radicata storicamente nella tradizione medica e allude […] a una condizione clinica, valutata in base a quanto vengano soddisfatti criteri di guarigione operazionalmente definiti: remissione dei sintomi, ripristino del funzionamento personale e sociale ecc. La seconda e più recente accezione riguarda invece, fondamentalmente, la soggettività del paziente e la sua esperienza vissuta della malattia mentale; più che riferirsi all’esito clinico, essa riflette un processo autenticamente personale […] caratterizzato da un impegno attivo del 2

Il termine in italiano può essere tradotto con "guarigione", ma in inglese, la sua accezione risulta più ampia dal momento che può essere inteso come una condizione di ripresa o di recupero, anche quando la malattia non è del tutto scomparsa. Maone, D’Avanzo, 2015, p. 3.

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paziente nel tentativo di ripristinare un certo grado di controllo sulla propria vita e di recuperare potenzialità e aspettative di realizzazione di sé che la malattia, la disabilità e lo stigma sociale avevano compromesso in modo apparentemente irreversibile. Essere in "recovery" […] non implica primariamente una riduzione dei sintomi o dei deficit […] richiede piuttosto, che il disturbo mentale venga considerato come solo uno degli aspetti della persona nella sua totalità (Maone, in Maone, D’Avanzo, 2015, p. 4). L’aspetto del Piano rilevante per questa trattazione, è l’aver messo in evidenza la difficoltà di garantire un adeguato trattamento ai soggetti affetti da patologie psichiatriche. A questo, si aggiungono i dati dell’ISTAT che nel 2015 pubblica il Rapporto Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari, rilevando un drastico aumento delle diagnosi di patologia psichiatrica per l’anno 2012-2013. L’invalidità per questo tipo di malattie colpisce circa 700 mila individui e, nel periodo 2005-2012, circa un milione di persone in più rispetto all’indagine precedente, risultano essere in condizioni di vulnerabilità psichiatrica.3 L’Organizzazione Mondiale della Sanità, pubblica nel 2014 il Mental Haelth Atlas, esso ha una portata mondiale ed è stato redatto affinché rappresentasse una guida per i piani d’azione nazionali sulla metodologia di intervento. Nel documento dell’O.M.S., analogamente ai due sopracitati, si evidenzia sia la scarsità delle risorse a 3

ISTAT, Condizioni di salute e ricorso ai servizi socio-saniatri 2012-2013, in Starace, 2017, p. 4.

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disposizione per affrontare i disturbi mentali nei vari paesi, sia la non equa distribuzione delle stesse ed il loro impiego inadeguato.4 Alla luce di questo, infatti, all’interno del Piano d’Azione si afferma che il 67% delle risorse del sistema sanitario vengono destinate agli ospedali psichiatrici malgrado i risultati, in termini di promozione della salute, di riabilitazione e riconoscimento dei diritti umani, non siano tra i migliori (Piano d’Azione per la Salute Mentale 2013-2020, p. 8). Per rimediare a questo, il Piano pone tra i suoi obiettivi un approccio multisettoriale alla cura: […] un approccio globale e coordinato in materia di salute mentale presuppone un coinvolgimento di vari settori pubblici quali, quello della sanità, dell’istruzione, del lavoro, della giustizia, dell’abitazione, dell’assistenza sociale e di altri settori rilevanti, nonché del settore privato, secondo modalità appropriate alla situazione del paese (ibidem). Questo è il primo aspetto interessante per il lavoro che ho sviluppato nelle pagine che seguono. La salute mentale è un ambito all’interno del quale lavorano molteplici figure professionali che hanno competenze e ruoli differenti e si approcciano alle problematiche ciascuna con la propria mission. In questo scenario, la sfida per i servizi è quella di saper riconoscere l’importanza di un lavoro che unisca ed integri le diverse capacità, affinché le risorse vengano utilizzate al meglio nell’interesse dell’utente. Oltre ad un lavoro multisettoriale tra professionisti, la stessa metodologia andrebbe adottata anche tra le istituzioni pubbliche e private, a livello nazionale e territoriale. 4

World Health Organization, Mental Health Atlas 2014, pp. 30-47.

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Altro aspetto fondamentale del Piano, è l’empowerment delle persone affette da patologie psichiatriche. Questi soggetti dovrebbero essere presi in considerazione nel percorso di cura e riabilitazione con i professionisti, dovrebbero anche avere il diritto di essere rappresentati nella progettazione di servizi, come veri e propri stakeholders nell’attuazione delle politiche sociali. Questo punto mi consente di aprire la strada alla medicina narrativa che nasce sia come bisogno spontaneo degli utenti di avere voce nel percorso di cura, sia come strumento dei professionisti in grado di mettere in atto percorsi riabilitativi con persone partecipi e portatrici di un sapere non minoritario rispetto a quello di un tecnico. L’integrazione dei vari saperi e la collaborazione, si rivelano degli strumenti preziosi per giungere al superamento della sofferenza; attraverso la riabilitazione, il dialogo, l’ascolto della persona che vive la malattia, è possibile superare il dolore, prendere coscienza della propria condizione ed impegnarsi per iniziare un percorso terapeutico-riabilitativo che trasformi una storia di malattia in una di guarigione.

1.1. IL

RACCONTO DELLA MALATTIA. DALLA EVIDENCEBASED MEDICINE ALLA ILLNESS NARRATIVE NELL’ANTROPOLOGIA MEDICA

Le illness narratives, le narrazioni di malattia, sono le pratiche discorsive con cui le persone raccontano la propria illness, ovvero la declinazione soggettiva, esperienziale e al contempo sociale, del loro malessere o della loro malattia. (Cozzi, Le parole dell’antropologia medica. Piccolo dizionario, 2012b, p. 205) 11


Per uno studio più completo della medicina narrativa è opportuno adottare l’ottica antropologica, nello specifico quella dell’antropologia medica, e chiarire una serie di concetti-chiave che torneranno in questa trattazione anche nei capitoli successivi. Il punto di partenza è l’assunto secondo il quale la medicina, come le altre discipline scientifiche, è un prodotto culturale; quindi il linguaggio che utilizza, la metodologia che va dalla diagnosi ed arriva alla cura e alla riabilitazione, sono prodotti culturalmente costituiti che non hanno un linguaggio univoco per tutti, ma sono estremamente condizionati ed immersi nel contesto di appartenenza. Lo stesso vale, come vedremo, anche per le emozioni e per la loro manifestazione. Non è possibile, dunque, scindere il vissuto della malattia (illness) e la malattia stessa (disease) dal contesto culturale e sociale. Per una disamina su questo tema, verrà preso come riferimento il testo Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente (1999) di Byron J. Good, docente di antropologia medica della Harvard Medical School. Prima di occuparci di questo, ritengo possa essere utile fissare alcuni concetti: quelli di disease, illness e sickness. In ogni ambito del sistema medico, ci si trova a fare i conti con differenti modelli esplicativi. Essi, scrive Arthur Kleinman, includono al loro interno l’eziologia, i sintomi iniziali, la fisiologia, il decorso della patologia

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che comprende la gravità della stessa e il ruolo del malato, infine, la terapia. 5 Ogni modello esplicativo possiede una stretta relazione sia con dei sistemi di conoscenze, sia con degli specifici valori dei diversi settori del sistema medico. Queste conoscenze e questi valori sono prodotti culturali, storici e sociali nonché politici, per questo, le interazioni che avvengono tra il medico e il paziente e il medico e i familiari del paziente, possono essere analizzate come comunicazioni tra differenti modelli, che si intrecciano con i sistemi cognitivi e quelli culturali di riferimento. In ogni modello esplicativo della medicina, il concetto di salute, quello di malattia, l’esperienza della stessa che il paziente vive e comunica, vengono inseriti in una rete socio-culturale che include credenze ed esperienze, a volte anche molto diverse tra loro. Per questa ragione, può accadere che alcuni modelli esplicativi si trovino in conflitto tra loro. Quando questo accade, rileva sempre Kleinman, l’assistenza medica ne risulta ostacolata. La comunicazione è un fattore primario per ottenere un atteggiamento collaborativo da parte del paziente; al contrario, la mancanza di comprensione, l’assenza di un reale ascolto del paziente e una non considerazione del contesto culturale di provenienza, incide negativamente sulla cura del malato (Kleinman, in Quaranta, 2006, pp. 7-9). Dal momento che non è possibile dimenticare che gran parte della comunicazione avviene all’interno della rete 5

Arthur Kleinman è un medico psichiatra e si occupa di antropologia medica presso il Dipartimento di Antropologia di Harvard del quale è anche il direttore. Collabora, inoltre, con il Dipartimento di Medicina Sociale della Harvard Medical School. I suoi interessi sono rivolti alla sofferenza sociale e alle implicazioni morali dell’esperienza di malattia.

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familiare e/o amicale più stretta della persona-utente, il modello diadico del rapporto medico-paziente necessita di un’apertura; è opportuno, quindi, considerare, o riconsiderare, che l’efficacia della terapia passa anche attraverso le relazioni sociali della persona, infatti: Il medico sarà considerato soltanto uno, e forse non il più importante, degli agenti della cura. La relazione famigliapaziente o famiglia-medico sarà invece considerata la vera relazione terapeutica (ivi, p. 14). Quindi, anche il sistema famiglia possiede i propri modelli esplicativi, e ancora più importanti sono quelli che possiede il paziente. Questi modelli si scontrano spesso con quello biomedico che, nella cultura occidentale, tende ad essere considerato sempre un gradino più in alto nella scala di importanza. Questo conflitto tra modelli esplicativi è alla base delle difficoltà di comunicazione tra medico, paziente e familiari, sia entro uno stesso contesto culturale, sia in contesti diversi (si pensi, ad esempio, a tutta la tematica che l’etnopsichiatria affronta nel trattamento delle patologie psichiatriche con persone immigrate che attribuiscono la causa di certi malesseri a credenze culturali proprie, dove l’approccio della psichiatria occidentale si rivela inadeguato e inefficace). Il problema del difficile dialogo tra i diversi modelli esplicativi (professionali e profani), ci è utile per mostrare il terreno sul quale questo scontro è, forse, maggiormente acceso e comporta maggiori conseguenze in termini di prestazioni inadeguate e, spesso standardizzate, ovvero il trattamento delle malattie, specie quelle che ho trattato più da vicino, quelle psichiatriche (Kleinman, in Quaranta, 2006, pp. 14-15). 14


Nel dare una spiegazione dei concetti di disease, illness e sickness (come si incontra in quasi la totalità dei testi che ne trattano, si è soliti lasciare l’inglesismo dato che non vi è una distinzione corretta traducibile in italiano) si fornisce una spiegazione di ciò che in antropologia si intende con il termine "malattia". Fabio Dei, antropologo culturale presso l’Università degli Studi di Pisa, definisce come segue queste nozioni: Con disease si è soliti considerare la malattia come entità nosologica identificata dalla biomedicina. Si tratta di una trasformazione fisicamente evidente (attraverso rivelazioni o misurazioni strumentali) della struttura o della funzionalità del corpo, cioè l’allontanamento da uno stato di normalità che viene fatto discendere da cause specifiche (ad esempio un trauma oppure l’intervento di agenti patogeni esterni, come batteri e virus). […] Con illness si intende, invece, l’esperienza soggettiva di sofferenza e il significato che gli individui attribuiscono a questa esperienza: un significato che fa spesso riferimento a categorie e modelli di spiegazione «popolari», che non necessariamente coincidono con quelli della scienza medica (Helman 1984, p. 69). Infine sickness si riferisce al ruolo sociale dell’ammalato, alle conseguenze sul piano dei comportamenti e delle relazioni interpersonali del riconoscimento pubblico di un soggetto come colpito da una malattia. […] Ma di fatto le tre dimensioni non sempre coincidono. Si può avere illness ma non disease, ad esempio, come quando si prova un disagio che i medici non collegano ad alcuna apparente anomalia (Dei, 2012, pp. 156-157). Tale distinzione risulta utile perché, quando si parla di narrazione della malattia, si fa rifermento alla illness che, 15


attraverso un lavoro sulle emozioni volto a migliorare la capacità di espressione delle stesse quando si affronta la patologia psichiatrica, risulta essere di supporto nel percorso di cura al pari, e spesso anche in misura maggiore, della terapia farmacologica (è chiaro che questo discorso può calarsi anche nella narrazione di altri tipi di patologie). I concetti appena analizzati, sono stati inquadrati come modelli esplicativi della malattia: uno che si riferisce alla condizione in cui l’organismo risulta alterato nelle sue funzioni (disease), l’altro indica la spiegazione che il paziente attribuisce al proprio vissuto di malattia (illness). Per ribadire l’importanza del secondo, Kleinman scrive: Predisporre al cuore dell’incontro terapeutico una sistematica esplorazione della prospettiva del paziente, emerge come il presupposto fondamentale per guidare il clinico nel suo lavoro diagnostico oltre che terapeutico. Tale esplorazione, tuttavia, difficilmente potrà avvenire se non si riconosce dignità alla prospettiva del paziente […]. Riconoscere la natura culturale del proprio operare, non significa tanto delegittimarlo, quanto piuttosto divenire consapevoli che, al cuore del ragionamento clinico, opera in modo implicito un processo di selezione culturale che rischia di offuscare dimensioni che potrebbero essere determinanti nel processo diagnosticoterapeutico (Kleinman, in Quaranta, 2012, pp. 26-28). I laboratori di espressione delle emozioni, pensati per persone affette da patologie psichiatriche, intendono mostrare come la narrazione del vissuto emotivo, che può avvenire attraverso un racconto, un dipinto o uno spettacolo teatrale, rappresenti una componete 16


fondamentale nella illness della persona con patologia e del suo percorso riabilitativo. Quando si apre il discorso sulla medicina narrativa e sul racconto che un individuo fa ad un ascoltatore sulla propria storia di sofferenza, inevitabilmente entrano in gioco almeno due, ma spesso più soggettività: quella del narratore e quella dell’ascoltatore, e con questa un insieme di significati che chi sta ad ascoltare, specie se si tratta di un professionista, dovrebbe saper cogliere, ad esempio il linguaggio non verbale, il riconoscimento dei sintomi, l’attribuzione del significato che si dà alla patologia. In una riflessione antropologica sul vissuto della malattia, è importante analizzare il termine "incorporazione", detto embodiment dal verbo inglese to embody, che corrisponde all’italiano "incorporare" (Pizza G., Johannessen H., in Cozzi, 2012, p. 114). Questo concetto è stato introdotto nel linguaggio antropologico da Thomas Csordas nel 1990; egli considera il corpo come un soggetto nel suo rapporto con la cultura e lo definisce: «come l’entità biologica, materiale, e "l’incorporazione" come un campo metodologico indeterminato, definito dalla esperienza percettiva e dalle forme della presenza e dell’essere impegnati nel mondo» (Csordas, in Cozzi, p. 115). L’incorporazione è, quindi, un atto strettamente collegato al corpo umano. Gli autori proseguono affermando che: In questa lettura, l’incorporazione diventa un concetto riferito alla percezione corporea e all’esperienza dell’essere-nel-mondo, in una stretta connessione con il corpo umano individuale destinata a consolidarsi nel 17


dibattito successivo, senza mai essere messa in discussione (ivi, pp. 115-116). Il contesto culturale esercita un enorme potere sul modo di concepire il proprio corpo, anche l’esperienza del dolore e della sofferenza sono il prodotto di una incorporazione: Abbiamo spesso fatto riferimento al potere che il contesto culturale esercita sul modo di concepire il corpo, così come la salute e la malattia. Anche il corpo è un prodotto culturale, egli non può essere separato da un altro prodotto che è la mente (si parla infatti di mindful body). Gli esseri umani in-corporano il modo di concepire se stessi e di vivere l’esperienza della sofferenza, ma anche le attività elementari, quali camminare, sedersi a tavola, la divisione sessuale: «il gesto è tecnica, il corpo è strumento» (Di Miscio, 2011, pp. 16-17). Questo concetto è interessante visto che, anche il modo attraverso il quale una persona sceglie di raccontare la propria esperienza di malattia, è il risultato di una serie di significati e spiegazioni che ella attribuisce a ciò che si trova a dover vivere. Questi significati sono impregnati nel contesto culturale, sono incorporati, fatti propri e guidano anche l’esperienza della malattia, il modo attraverso il quale si percepisce se stessi, si riportano i sintomi, si colloca l’esperienza di sofferenza socialmente. La conoscenza del "codice di significati" e del rapporto tra il corpo e la cura che i pazienti possiedono, è indispensabile per chi si occupa di assistenza sociosanitaria, non solo nella salute mentale (Ricca, in Quaranta, Ricca, 2012, p. 57). 18


In questa sede il richiamo all’antropologia medica è d’obbligo; essa contribuisce, insieme ad altre discipline, ad ampliare il significato dei concetti di salute e di malattia, nonché, come vedremo, quello di narrazione della malattia. L’antropologia medica è una branca dell’antropologia e una disciplina necessaria anche per la formazione dei professionisti di domani, non solo per i futuri medici, ma anche per tutte quelle professioni che si troveranno a relazionarsi con persone che incontrano la malattia, qualsiasi essa sia.6 A proposito del ruolo di questa disciplina nello studio della relazione tra biologia e cultura, e tra concetti che fanno riferimento al mondo medico, riporto quanto segue: L’antropologia medica focalizza il proprio interesse sul problema dei rapporti tra biologia e cultura, sulla sofferenza umana e sugli sforzi rituali per venire a capo dei disturbi e delle nostre paure, e quindi sullo studio dell’esperienza umana e delle radici esistenziali della cultura (Good, 1999, p. 7). L’approccio biomedico concepisce le malattie come entità biologiche o psicofisiche, che si manifestano come conseguenza di lesioni o disfunzioni dell’organismo. Queste lesioni sono visibili perché insorgono e possono essere osservate utilizzando strumenti di laboratorio, o comunque una serie di procedure diagnostiche cliniche. Ne consegue, sostiene Good nel suo testo, che stando a quanto descritto, il compito della medicina clinica è la diagnosi, cioè la corretta interpretazione dei sintomi di un 6

L’antropologia medica oggi viene inserita nei corsi di medicina, di infermieristica, di ostetricia e altri corsi paramedici.

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soggetto, la traduzione di questi sintomi in patologie e l’attribuzione dei fattori scatenanti a cause funzionali e/o strutturali (ivi, pp. 13-14). Nel caso in cui il sintomo di una persona necessiti di un trasferimento in termini culturali, il compito del medico si fa maggiormente complesso al punto da dover tentare di operare una traduzione degli stessi, utilizzando non il proprio sistema simbolico di riferimento, ma quello di una cultura diversa, che è quella del soggetto che in quel momento egli ha di fronte. L’aspetto nel quale risiede la frattura tra l’approccio biomedico e quello antropologico, è quello che Good definisce "epistemologia ingenua", non del tutto scomparsa dalla pratica clinica contemporanea (ivi, p. 16). Secondo questo criterio, il sintomo di un soggetto può considerarsi dotato di significato solo se ha un riscontro empirico, ovvero se è dimostrabile attraverso indagini diagnostiche oggettive. Questo modo di concepire la diagnosi delle patologie manca di una componente fondamentale, quella culturale, nella quale risiede la capacità di attribuire un significato alla malattia. Per questa ragione, gli antropologi, si sono impegnati nel sostenere che una risposta alla malattia che non concordi con quanto sostenuto dal sapere medico non sia per questo meno razionale, meno competente, ma sottolineano con forza che: […] Sono risposte che attingono a una cultura, a un sistema di credenze e di pratiche che, per quanto dissimile dalla biomedicina, hanno una propria struttura logica - una logica culturale – con funzioni adattive spesso misconosciute. Pertanto la cultura diviene una caratteristica centrale nella risposta umana alla malattia, 20


una caratteristica ampiamente ignorata dalle scienze medico-comportamentali […] (Good, 1999, pp. 59-60). Da qui la critica di Good al paradigma empirista e a quello biomedico. In questo non è possibile esimersi dal fare riferimento al concetto di "credenza", che è presente anche nelle citazioni tratte da Good. Il termine "credenza" viene spesse volte utilizzato come spartiacque tra la cultura medica popolare, ritenuta la medicina "profana", contrapposta alla scienza medica propriamente intesa. Stando a quanto sostenuto dall’"epistemologia ingenua", il medico, quando viene a conoscenza della storia di malattia della persona che ha di fronte, compie delle operazioni mentali specifiche, tra cui il "ragionamento clinico" che ha come fine ultimo l’arrivo ad una diagnosi che riassuma quello che il paziente ha tentato di spiegare nel suo racconto di malattia. Lucia Zannini scrive in proposito: Sinteticamente, egli (il medico) innanzitutto rinomina determinati fenomeni riportati dal paziente attraverso l’uso di una specifica terminologia medica, per cui, per esempio, una "fitta violenta dietro lo sterno" diviene "dolore retrosternale" (Zannini, 2007, p. 44). 7 Questa "traduzione" si realizza attraverso l’impiego di un metodo ipotetico deduttivo che procede dall’anamnesi, passa per l’esame del paziente fino ad arrivare, in un 7

Lucia Zannini è docente di Pedagogia Generale e sociale presso l’Università degli Studi di Milano, si occupa di pedagogia e didattica in ambito sanitario ed ha svolto attività di consulenza e formazione per i professionisti per numerosi enti in ambito medico-sanitario.

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primo momento, all’ipotesi di valutazione che viene fatta sulla base dei sintomi soggettivi riportati dalla persona e l’esame obiettivo svolto dal medico. Per giungere alla diagnosi vera e propria e quanto più esatta possibile, si eseguono degli esami clinici che intendono confermare le ipotesi dell’esame diagnostico o smentirle, ma soprattutto aumentano la credibilità dei sintomi riportati dalla persona. In questo iter che viene seguito meccanicamente, specie nelle fasi inziali, la storia di malattia del paziente riveste pochissima importanza per il percorso di cura, è quello che viene definito un approccio di evidence-based medicine (E.B.M.) (ivi, p. 45). Questo criterio, indica le procedure di selezione che i medici operano per elaborare la diagnosi. Queste pratiche, si servono di una serie di test che si conformano ad un certo numero di evidenze che il medico deve conoscere e considerare, e che convogliano nelle linee guida delle patologie mediche che offrono complete indicazioni su come trattare determinate patologie dalla diagnosi, al percorso di riabilitazione, fino alla cura.

1.2. LA

NARRAZIONE DELLA MALATTIA COME RACCONTO CULTURALMENTE CONDIZIONATO

Come il concetto di malattia, anche la sua narrazione è un costrutto culturalmente determinato, essa risente quindi del contesto culturale al quale si appartiene e del sistema simbolico di riferimento che condiziona le esperienze. Dal momento che narrare il vissuto di malattia significa costruire un racconto, o comunque utilizzare delle forme espressive (non solo la parola scritta) che hanno alla base l’intenzione di rendere nota una storia, essa viene 22


costruita attraverso un ordine preciso, nel quale si susseguono eventi ed esperienze. In un secondo momento viene condivisa ed ascoltata dall’interlocutore, egli la recepisce tenendo conto che il sistema di simboli e credenze che possiede, può essere il medesimo del narratore, oppure no. È bene precisare sin da questo momento, che ascoltare una storia di malattia, che auspicabilmente diventerà storia di guarigione, non significa, per un professionista della salute mentale, qualsiasi sia il contesto culturale di riferimento, avere la pretesa di comprendere appieno la storia che ascolta e immedesimarsi al punto di comprendere il vissuto di chi la vive direttamente. Accogliere la sofferenza altrui, non significa vivere quell’esperienza, ma ciò che assume un significato cruciale, è la capacità di ascolto, è questa che rende una storia di malattia un racconto utile in un percorso di cura. L’antropologia si è nel tempo occupata di svolgere ricerche sperimentali sulla narrazione in ambito medico, in modo particolare, molte di queste intendevano esaminare il dialogo tra medico e paziente, andando ad approfondire anche le tecniche comunicative e di conversazione che in questa relazione venivano messe in atto (Good, 1999, p. 217). Evelyn Early, ad esempio, conduce delle ricerche sulle "narrazioni terapeutiche" che sono tra le prime realizzate da un’antropologa su questo tema. La Early, nei suoi studi, ha trattato i vissuti delle donne del Cairo ascoltando e analizzando le loro esperienze di malattia, Good ne rileva l’importanza come segue: Ella (Evelyn Early) sostiene che tali storie operano come una sorta di «livello intermedio tra esperienza e teoria», che consentono a queste donne di sviluppare 23


un’interpretazione della malattia in relazione a una logica esplicativa locale e al contesto biografico della malattia (ivi, pp. 217-218). Chi, insieme a Byron Good, ha svolto un copioso lavoro di studio e ricerca nell’ambito della narrazione in ambito clinico, è senz’altro Arthur Kleinman, che ha utilizzato le ricerche etnografiche sui malati cronici per dimostrare come il «significato viene creato nella malattia», questo, ad indicare quanto i valori culturali e le interazioni sociali, siano influenti nella concezione del corpo e di quella della malattia (Kleinman, in Good, 1999, p. 218). Kleinman sostiene che «lo studio dell’esperienza della malattia ha qualcosa di fondamentale da insegnare a ognuno di noi in merito alla condizione umana» e dimostra come le pratiche correnti in medicina abbiano contribuito alla creazione di una frattura tra il malato cronico ed gli operatori medico-sanitari; ciò ha indotto questi ultimi ad abbandonare «quell’aspetto dell’arte del guaritore che è la più antica, la più efficace, e la più gratificante dal punto di vista esistenziale» (ivi, p. 219). Larga parte della letteratura sulle narrazioni si era occupata, fino a Good, delle storie di malattia e della loro analisi da un punto di vista strutturale, cioè quanto le storie dei malati fossero influenti e significative per la loro condizione esistenziale. Il lavoro dell’antropologo americano, invece, è stato quello volto ad approfondire maggiormente il modo attraverso il quale la malattia e l’esperienza della stessa, si costituiscano attraverso pratiche interpretative, prestando attenzione al ruolo della teoria della «risposta del lettore» utilizzata per l’analisi delle storie dei pazienti. 24


Le correnti antropologiche di studio delle narrazioni delle malattie, vengono suddivise in due: quelle del filone strutturalista del folklore e della mitologia e quelle che si occupano della performance narrativa da un’ottica sociolinguistica. Quest’ultima corrente, in particolare, intendeva contribuire elaborando una teoria di stampo strutturalista della narrazione e Good, come molti altri quali Paul Ricoeur (1981) e Victor Turner (1981), ha voluto soffermarsi sul carattere temporale della narrazione e sull’importanza dell’interazione tra i protagonisti della storia per giungere alla risoluzione del problema (Good, 1999, p. 221). Citando Ricoeur e Turner, il primo parla di «tempo narrativo», il secondo sostiene che il racconto non si basa soltanto sul contenuto, ma è profondamente immerso nel contesto sociale all’interno del quale avviene. Anche la componente temporale non è di minore importanza. Le narrazioni di malattia, come tutti gli eventi che accadono nella vita di un individuo, sono determinate dal tempo: il momento nel quale si vive influisce sul racconto, sui particolari ritenuti importanti e su quelli meno degni di nota. Per comprendere questo passaggio, si può provare ad immaginare come potremmo descrivere in questo momento la nostra infanzia. L’immagine che si trasmetterebbe oggi, non è la stessa di quando eravamo adolescenti, questo perché il tempo modifica il modo di concepire la nostra vita e le esperienze vissute. Lo stesso avviene per le storie di malattia. Un ulteriore aspetto della narrazione, riguarda il fatto che essa, proprio perché viene considerata una vera e propria storia, si compone di una trama. Essa non è già presente come struttura narrativa precostituita, ma risulta dal 25


racconto del protagonista e, non solo, necessita dell’abilità del lettore o dell’ascoltatore che, specie nelle storie di malattia, dovrebbe saper anticipare la struttura e il significato degli eventi che si sviluppano. Come scrive Good, che a sua volta cita Ricoeur, si tratta della capacità di «estrarre una configurazione di una successione», che permette il concretizzarsi della storia (Ricoeur, in Good, 1999, pp. 220-221). Prima di proseguire, vorrei soffermarmi brevemente su quest’ultimo aspetto estrapolato da Ricoeur. In particolare, facendo riferimento a quello che è l’oggetto della tesi, trovo che l’importanza di quanto sostenuto sia fondamentale nel lavoro dei professionisti che operano nella salute mentale. Per un medico psichiatra, un assistente sociale o un educatore, l’attività di narrazione non consiste soltanto nell’aggiungere ad una storia episodi in sequenza, ma riuscire a creare una sintesi ordinata in un insieme di eventi confusi. La capacità di «estrarre una configurazione di una successione» dalle storie di malattia degli utenti, è, forse, l’aspetto più complicato del lavoro. Se da un lato è uno dei passaggi più complessi del percorso terapeutico-riabilitativo, dall’altro è anche la chiave per una rivoluzione completa nell’ambito dell’approccio alla cura. Se i professionisti della salute mentale riuscissero ad operare una sintesi tra la storia dell’utente, cioè il contesto socioculturale di provenienza, ed il testo "virtuale" della narrazione di malattia, si otterrebbe quello che Tibaldi descrive come «uscita dal torpore» riferito ai medici. Ammettere, quindi, che le storie degli utenti non rappresentano dei racconti di fantascienza, ma che essendo parte integrante della loro vita, diventano 26


anche parte del loro percorso di cura (Tibaldi, 2018, p. 2). A questo proposito, riprendo ancora Good che cita Wolfgang Iser (1978) nel tentativo di avvalorare l’importanza di quanto sostenuto in questo lavoro, anche attraverso il riferimento a studi teorici. Iser ritiene che colui che interpreta il testo (nel nostro caso, lo psichiatra, l’assistente sociale, l’educatore), dovrebbe essere in grado di coglierne il "non detto", ovvero il significato celato, quello che non viene espresso in modo palese, ma che dev’essere "letto tra le righe": […] la produzione del significato non è inerente né al testo né alla sola struttura, e nemmeno all’attività del solo lettore, ma all’interazione tra lettore e testo. (Iser, in Good, 1999, p. 221). Il "testo" di cui parla Iser, è la storia di malattia dell’utente e il lettore, cioè il professionista, ha il compito di analizzare questo testo. Lo "scrittore" è guida prescelta per il lettore nell’interpretarlo e nel costituire la trama di una storia che, da storia di malattia, passa ad essere storia di guarigione. Quando si procede alla sintesi di una narrazione, sostiene Iser, si cerca di entrare nel testo, comprendere i significati che il narratore vi attribuisce e ricalibrare il punto di vista di chi legge cercando di seguire il vissuto di chi scrive la storia. Questo racconto subisce innumerevoli modificazioni nel corso del tempo, come conseguenza del mutare di certe situazioni, a seconda del lettore e del momento (ivi, p. 222).

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Quest’ultimo concetto, rimanda all’importanza dell’approccio multidisciplinare per i professionisti che si trovano a lavorare con soggetti portatori di bisogni.8 Proprio perché le narrazioni non sono storie frutto dell’immaginazione, esse sono un utile mezzo per conoscere una patologia. Nel caso dei disturbi psichici, ad esempio, si sono rivelante un utile strumento per prendere coscienza del manifestarsi di sindromi psicotiche, come nel caso del testo di un ex uditore di voci, Ken Steele, E venne il giorno che le voci tacquero. Un viaggio nella follia e nella speranza (2005). In questo testo, l’autore e protagonista, riesce a riportare per iscritto il malessere vissuto negli anni segnati dalla patologia psichiatrica. Steele, dopo essere guarito, è stato consulente per le famiglie con figli affetti da psicosi in giovane età, oltre che punto di riferimento per molti psichiatri nel trattamento degli uditori di voci. Estratti della sua storia saranno spesso ripresi in seguito. Secondo alcuni psichiatri, la narrazione durante il delirio è fonte di informazioni utili ai terapeuti per comprendere la condizione del paziente. Un medico che ho intervistato sostiene quanto segue in proposito: Allora, qualsiasi delirio, secondo il mio punto di vista, ha una base di realtà. Poi che questa realtà sia distorta siamo d’accordo, altrimenti non staremmo parlando di un delirio. Quando un paziente è in preda al delirio e non è in nessun modo collaborativo, qui entrano in gioco i familiari o comunque una rete, essi possono essere d’aiuto. Ma partendo dal delirio c’è sempre una base di realtà, sta a noi professionisti lavorarci. Quando la 8

Per il ruolo delle diverse professioni nella salute mentale e per il lavoro multidisciplinare, si rimanda al Capitolo V.

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condizione acuta rientra si cerca il modo per lavorare su questo insieme alla persona (Nicoletta Marinelli, psichiatra – Centro di Salute Mentale di Magione). 1.2.1. VERSO UNA DEFINIZIONE DI MEDICINA NARRATIVA Ogni narrazione, come abbiamo visto, non solo quella che riguarda la salute o la malattia, è frutto di una selezione messa in atto dalla persona. Questo atto può essere voluto o meno, gli aspetti scelti sono quelli che sono ritenuti degni di nota, ma non è detto che questa trama abbia un carattere unitario. Per quanto nell’approccio biomedico questo aspetto non venga considerato come parte di un percorso di riabilitazione, in realtà, una narrazione della malattia è sempre stata presente nel rapporto medico-paziente, dal momento che, seppur frammentata e con omissioni che in certi casi potrebbero rivelarsi importanti, una storia del paziente sulla propria condizione è sempre presente, perché è il primo approccio con il professionista, il primo passo per la relazione. Lucia Zannini scrive su questo come segue: Nel raccontare la sua storia di malattia, il paziente si riferisce alla sua storia di vita, della quale fornisce una rapida immagine durante l’incontro con il terapeuta. Egli offre, attraverso la storia di malattia, dei frammenti della sua esistenza e del suo passato. […] la storia di malattia del paziente è carica di emotività, nonché di vissuti, di rappresentazioni, di influenze da parte del contesto culturale e sociale di appartenenza; spesso si basa su storie ingenue, non scientifiche, di malattia (illness) (Zannini, 2007, pp. 56-57). 29


Le storie dei pazienti, sono tutt’altro che resoconti ben strutturati di ciò che accade, in esse, infatti, la rielaborazione temporale è molto importante e lo è anche la carica emotiva che le accompagna, allo stesso modo dei retaggi culturali e sociali dentro in quali ci si trova a vivere. Nel Capitolo V tratteremo in modo quanto più possibile approfondito, l’ascolto dell’altro, strumento fondamentale nel lavoro clinico e sociale. Per adesso mi limito solo ad accennare l’importanza della messa in atto di un ascolto attento e partecipe, dal momento che ogni narrazione fatta ad un professionista presuppone la volontà di condividere parte della propria storia, sia di malattia, ma, come si è visto, anche di vita, dato che nella narrazione vi si inseriscono aspetti che rimandano alla storia personale dell’utente. Egli si aspetta dal personale "esperto" delle risposte "mediche", quindi indicazioni sulla natura del disturbo, sulle possibili cause, le indicazioni farmacologiche per trattarlo. Oltre a questo, una persona che si presenta con un bisogno, necessita di una risposta anche "narrativa": […] ossia di una nuova storia – co-costruita con il terapeuta […]. Perché la narrazione, lo ricordiamo, è "un esercizio reciproco, consistente tanto nell’atto di raccontare, quanto in quello di rispondere al racconto" (ivi, p. 59). Lo sforzo che si ritiene debbano fare i professionisti che si trovano a dover fare i conti con il benessere, fisico, psichico e sociale delle persone, è quello di cercare di andare al di là della "metastoria" (ivi, p. 60), cioè del comprendere solo come si è biologicamente arrivati ad una certa condizione di malattia (disease). È opportuno, 30


allora, prestare attenzione all’utente e alle parole che riferisce, utilizzare una rinnovata capacità di ascolto e propensione all’altro, come agente rilevante nel proprio percorso di riabilitazione. Eccoci giunti ad introdurre la medicina narrativa, una modalità di approcciarsi alla cura nella quale vi è una cocostruzione della storia, dove un medico o un assistente sociale non sono soggetti posti su di un piedistallo rispetto alla persona che chiede supporto; un sapere che chiama in causa quello antropologico, quello sociologico, psicologico e anche quello medico per costituirsi.

1.3. LA MEDICINA NARRATIVA La medicina narrativa è stata definita: (una) medicina praticata con competenza narrativa, che consiste nella capacità di assorbire, interpretare e rispondere alle storie (di malattia) (Zannini, 2007, p. 65). In questo approccio alla cura vi è un processo circolare, nel quale colui che racconta il proprio vissuto, risulta essere coinvolto tanto quanto il professionista che lo prende in carico. La storia di malattia, infatti, subisce un processo di co-costruzione nel quale utente e professionista apportano un contributo che conduce alla cura (ivi, p. 66). Secondo Rita Charon, la medicina, anche quella che ha rifiutato l’approccio narrativo relegandolo ad un livello inferiore sulla scala di importanza nel processo terapeutico, ha delle caratteristiche intrinsecamente narrative perché non può eludere da elementi quali il

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tempo, la singolarità, la costruzione di una trama, l’intersoggettività e l’eticità.9 In un’intervista per la rivista culturale DoppioZero del 2015, la Charon sostiene quanto segue a proposito della medicina narrativa: La medicina narrativa induce riflessione, richiede professionalità specifica e crea un rapporto di fiducia, quel bridging tra medico e paziente, senza il quale nessuna terapia può essere accettata in modo efficace; la possiamo definire una medicina centrata sul paziente, ma è utile anche al medico per riflettere sul significato della sua professione. «Forse per noi qui è stato più facile, perché alla Columbia c’è sempre stata familiarità e interscambio con il mondo della filosofia, della letteratura e della antropologia, perché gli studiosi di queste discipline per primi volevano capire che strano mondo di relazioni esiste in ospedale, dove i ruoli sono definiti ma sospesi nello stesso tempo, dove i malati sono diversi da come erano fuori e si consegnano nelle mani di qualcun altro come non avevano mai fatto prima; già studiavano i rapporti in essere e le loro conseguenze in termini di terapia». Queste interazioni proattive non devono essere spezzate dalla malattia e il paziente ha bisogno della coesistenza di questi mondi. Fatto sta che i medici si sono ritrovati a leggere Dostoevskij e poi le scritture dei malati sulla loro malattia (Miselli, 2015, p. 2). 9

Rita Charon insegna presso il Dipartimento di Medicina della Columbia University di New York, è considerata la madre del paradigma narrativo che è a fondamento delle medical humanities. Ha inoltre fondato il primo corso di medicina narrativa e lo ha inserito nel percorso formativo della Medical School presso la Columbia University (Miselli, 2015, p. 1).

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Il lavoro clinico, ma anche quello psicosociale, si svolge in un arco temporale, prende in considerazione in modo singolo i protagonisti, ma necessita anche di un approccio intersoggettivo, in quanto ogni storia, per evolvere in guarigione, necessita di un ascoltatore. Qui si intrecciano in valori che i due o più soggetti, si trovano a far comunicare, quindi anche l’eticità di ciascuno entra in questo processo (Zannini, 2007, p. 66). A questo punto appare utile, per definire ancor meglio la medicina narrativa, chiarire il significato di alcune dimensioni che la compongono e alle quali abbiamo fatto cenno nel paragrafo precedente, ma che sono anche elementi della medicina "di base" e che, ancor prima, sono parti del mosaico di cui si compone una storia qualsiasi: Il tempo: è un elemento cruciale nella pratica clinica e psicosociale. Lucia Zannini lo descrive come segue: Il tempo è l’asse fondamentale attorno al quale ruota la prevenzione […], la diagnosi (pensiamo per esempio alla sua "tempestività", che è una categoria temporale, la terapia (si parla per esempio dei "tempi di risposta") e anche la palliazione (ivi, p. 67). Oltre che per il percorso che va dalla diagnosi alla terapia, fino alla riabilitazione, il tempo scandisce anche l’esperienza della malattia, perché, come sostiene Good, il tempo durante la malattia cambia radicalmente (Good, 1999, p. 220), spesso si tende a fare una divisione tra il tempo del benessere e quello della malattia che appare maggiormente soggetto a continui mutamenti. Non che il tempo del benessere sia dato per scontato o lineare, ma quello della malattia ci appare come più incerto, perché 33


più mutevole è la situazione in quel momento e non si sa quanto durerà. La singolarità: la differenza di status tra i professionisti e gli utenti. Nel caso delle persone con patologia psichiatrica, il tema della singolarità merita un discorso a sé dato che questa categoria di soggetti solo in tempi recenti, ovvero dopo la Legge Basaglia, ha potuto gradualmente ottenere maggiore voce in capitolo nei percorsi terapeutici. 10 La trama: come in tutte le narrazioni, lo abbiamo visto, l’elemento trama è quello sempre presente, è quello nel quale la storia si sviluppa, vi si inseriscono ulteriori personaggi e si riportano eventi significativi allo sviluppo della storia. Nella pratica clinica, la trama segue quasi sempre il nesso di causa-effetto, vale a dire che alla base di un sintomo vi sono dei fattori biologici, fisici e patologici che lo producono. Ancora, una trama è presente nel racconto che l’utente fa al professionista per esporgli il problema che lo affligge, ma anche il medico, l’assistente sociale o l’infermiere ricorrono ad una trama inserita in un racconto per cercare di far comprendere in termini chiari all’utente qual è il suo problema: La messa in trama dell’esperienza nei contesti sanitari è quindi un fenomeno molto più diffuso di quanto si pensi (Zannini, 2007, p. 67).

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La Legge n.180 del 13 maggio 1978, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, è conosciuta come "Legge Basaglia" da Franco Basaglia, lo psichiatra e neurologo veneziano promotore della riforma della psichiatria in Italia alla fine degli anni Settanta, Ministero della Salute: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_normativa_888_allegato.pdf.

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L’intersoggettività: non è pensabile una storia, dalla favola alla storia di malattia, senza un interlocutore che sia disposto ad ascoltarla e soprattutto, senza tener conto di un elemento molto importante: le narrazioni non sono mai uguali, esse cioè cambiano in base all’interlocutore che si ha di fronte. Questo non avviene soltanto nelle storie attraverso le quali si intende comunicare un problema, una malattia, un bisogno, ma si verifica sempre. Per comprendere appieno questo passaggio, basti pensare a come cambia il modo con cui un individuo descrive se stesso e la propria vita in relazione all’interlocutore che ha di fronte; lo stesso avviene tra i professionisti e gli utenti. L’etica: Lucia Zannini, per dare una spiegazione di cosa sia l’etica in questo contesto, porta l’esempio delle opere di Shakespeare. Esse, secondo la pedagogista, inducono il lettore alla riflessione su cosa sia la giustizia, il bene, l’amicizia, allo stesso modo, le narrazioni degli utenti portano chi sta dall’altra parte, ovvero i professionisti, ad interrogarsi sul proprio operato, sui propri stereotipi e pregiudizi, sull’etica, appunto, da tenere sempre in considerazione nell’affrontare il percorso con l’altro (Zannini, p. 67). Per concludere: […] a partire da quanto finora detto, la medicina, nella sua declinazione clinica, si caratterizzerebbe fortemente anche – ma non solo, ovviamente – come pratica narrativa. […] la medicina clinica condivide, in parte (dato che la medicina è una scienza), il suo modo di conoscere il paziente con la storia, la giurisprudenza, la psicologia, l’antropologia e le altre scienze umane, ossia con le cosiddette scienze "morbide", più legate al significato e meno alle certezze dei fatti. Ma, a differenza di quelle discipline, la medicina non riconosce 35


esplicitamente il suo carattere narrativo e le modalità che utilizza per individuare con il paziente il significato della malattia (ivi, p. 68). 1.4. L’APPROCCIO NARRATIVE-BASED Quello che verrà riportato di seguito non intende essere un rigido decalogo da seguire qualora si intenda mettere in atto un approccio narrative-based, bensì una serie di accortezze da considerare e che si sono rivelate utili nel percorso di cura, affinché esso sortisca il risultato migliore per la persona che ha chiesto aiuto. Detto questo, un’altra precisazione è la seguente: […] la medicina narrativa non va pensata come contrapposta alla medicina disease-centered, né, tantomeno a quella patient-centered, ma come un ulteriore ampliamento di quest’ultima. Esercitare una medicina narrative-based significa quindi […] raccogliere in modo adeguato tutte le informazioni utili sul disease, analizzare la illness del paziente attraverso le tecniche di comunicazione più idonee (cioè quelle patient-centered) e co-costruire con lui/ lei la storia di malattia. […] La medicina narrativa – come specifica Launer, rendendola molto più concreta […] – è finalizzata, oltre a comprendere il disturbo del paziente (disease) e la suea esperienza di sofferenza (illness), a costruire una "buona storia di malattia" […] (Zannini, 2007, p. 69). 11 11

John Launer è medico, terapeuta familiare, educatore e scrittore pluripremiato. Le sue principali aree di interesse includono la medicina narrativa, la supervisione clinica per i medici, e la psicologia evolutiva (Fiorencis, 2014, pp. 1-2).

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Alla luce di quanto appena detto, quattro sono le basi dalle quali partire per un approccio alla cura basato sulla narrazione:12 Ridurre la distanza tra professionista e utente: il primo passo per un medico, per un operatore sanitario e per tutto il resto dell’équipe, è riuscire a scendere da una posizione di superiorità nei confronti dell’utente e ridurre la distanza che si ha con esso. Questo significa riconoscere la soggettività della persona che si trova in una condizione di malattia, ma che, appunto, nonostante questa, non cessa di essere priva della propria identità. La distanza si riduce anche nel momento in cui l’équipe dà voce all’utente e, soprattutto, fa capire a quest’ultimo che le sue opinioni hanno pari valenza. A quanto detto sopra, si aggiunge l’importanza dell’analisi della trama presente nella storia che del paziente, quindi ricostruire il vissuto, il contesto sociale e la cultura di provenienza, inserendo in una cornice di valori il racconto che essi si trovano ad ascoltare. Durante il colloquio, è opportuno porre domande che incoraggino l’altro ad esprimersi: queste domande dovranno dunque essere aperte, circolari, che richiamano quanto detto dalla persona ed aprono a nuovi collegamenti. Questo porta all’instaurarsi di una relazione, che, quando include fiducia e comprensione reciproca, viene definita "significativa". Fare in modo che il dialogo con l’utente sia un utile spazio di riflessione, sia per lui che per il professionista. 12

L’elenco che segue è tratto dal contributo di Giuseppe Tibaldi, in Maone A., D’Avanzo B., 2015, pp. 43-57. Nel Capitolo II, analizzo il lavoro di Giuseppe Tibaldi, psichiatra piemontese, che tratta pazienti con disturbi psichiatrici gravi. Egli sostiene che il mito della non guaribilità in salute mentale sia scientificamente infondato.

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In particolare, la persona che intraprende il percorso di cura deve poter essere messa al centro di questo cammino, affinché si senta parte attiva nell’ottica di quello che tecnicamente viene definito empowerment.13 È opportuno, quindi, come sostiene a gran voce Giuseppe Tibaldi, aprire il dialogo tra coloro che sono "esperti per professione" e coloro che vanno allo stesso modo considerati esperti, ma per esperienza. Grazie alla condivisione, ai laboratori, ai gruppi di autoaiuto, molti dei cosiddetti "esperti per esperienza" si sono sentiti in dovere di diventare loro stessi punto di riferimento per altri con le loro stesse problematiche ed essere la testimonianza dell’esistenza una via d’uscita, non è, quindi, utopistico parlare di "storie di guarigione". Bisogna riuscire ad abbandonare l’approccio secondo il quale è possibile giungere alla conoscenza dei fenomeni attraverso un ragionamento che si basa su dati scientifici, prove causa-effetto, rilevi diagnostici, per sposare un nuovo modo di relazionarsi. Prima di concludere e passare ad un focus sulla medicina narrativa nella salute mentale, si ricorda che non si intende promuovere una modalità di approccio alla cura a scapito di un’altra, bensì mostrare che molti degli ostacoli che si trova a dover affrontare la medicina evidence-based, possono trovare delle soluzioni nell’approccio narrative-based, è opportuno, infatti, «[…] imparare a calare le evidenze scientifiche nella storia del singolo paziente» (Zannini, 2007, p. 77). La evidence-based medicine resta il punto di partenza privilegiato per rendere noti, nella pratica clinica, i risultati delle ricerche e per rendere più efficace possibile la parte relativa alla diagnosi e alla terapia farmacologica. 13

Il concetto di empowerment sarà ripreso nei Capitoli 3 e 4.

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Questo approccio, fondamentale da un lato, risulta dall’altro non del tutto idoneo nel riportare i risultati emersi alla persona che si ha di fronte. Questo trasferimento non può prescindere dalla prospettiva dell’utente, dal modo attraverso il quale egli attribuisce significato alla malattia. Ecco, quindi, la particolarità della medicina narrativa: La medicina narrativa, saldata con la E.B.M., permette sostanzialmente di dare "colore" alla migliore soluzione trovata in letteratura per quel paziente (ibidem). I professionisti, gli "esperti per professione", dovrebbero riuscire ad adattare il linguaggio tecnico all’interlocutore che hanno di fronte. È opportuno che essi si aprano ad una negoziazione, sia con l’utenza in carico, sia ampliando la loro équipe con altre figure professionali, quali gli antropologi. L’obiettivo è quello di occuparsi delle storie di malattia mettendosi "dall’altra parte", come mostrato con le analisi di Good e Kleinman. Sono numerosi gli studi di antropologi, come anche di sociologi, sul tema, ad indicare la forte interdisciplinarietà dell’argomento. Tornando all’incontro tra il sapere del medico, dell’assistente sociale e quello dell’utente, tra i due dovrebbe avvenire una negoziazione da entrambe le parti. Questo ha luogo se si getta lo sguardo alle storie di malattia da diverse angolazioni, comprensibili e allo stesso modo degne di nota per tutti i soggetti coinvolti. Il contributo fondamentale che la medicina narrativa apporta a quella evidence-based, è di offrire una visione olistica di un problema e proporne un altrettanto olistica soluzione: 39


L’esplorare altre dimensioni della storia di malattia del paziente, oltre a quella biomedica, consente non solo di avviare la negoziazione, ma anche di trovare modalità alternative di descrivere un evento (la malattia), al di fuori di quelle legate all’esercizio di potere e al controllo della medicina ufficiale [Foucault, 1963]. In questo senso, la medicina narrativa è una pratica di empowerment del paziente, che, proprio perché mette in crisi il potere precostituito della medicina tradizionale, è per certi versi un’attività "sovversiva" (Launer, in Zannini, 2007, p. 79). In conclusione, ritengo utile ribadire l’importanza dell’integrazione tra i due modelli di approccio alla cura e la promozione della negoziazione tra i vari saperi per i percorsi terapeutico-riabilitativi nella salute mentale. È opportuno, inoltre, il dialogo tra le conoscenze degli "esperti per professione" e quelle degli "esperti per esperienza", affinché gli utenti siano più possibile attivi nella cura. Al tempo stesso, non si possono ignorare le crescenti difficoltà nell’attuare una simile collaborazione all’interno dei servizi specialistici territoriali, sia per problemi di tempo da dedicare al singolo utente, sia per la riduzione del personale e dell’alto numero di bisogni ai quali dover far fronte. Questi elementi aumentano inevitabilmente il rischio di prestazioni sempre più standardizzate da parte del personale socio-sanitario. Anche di questo cercherò di discutere, attraverso le interviste, con alcuni professionisti che operano nelle due strutture della salute mentale che ho frequentato per questa ricerca.

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CAPITOLO II Narrazione e salute mentale

Debbo scusarmi di aver introdotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato rinverdisse […]. Sembrava tanto curioso di conoscere se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate! (Italo Svevo, 1923, La coscienza di Zeno, p. 3)

Nel capitolo precedente ho presentato i caratteri distintivi della medicina narrativa, le peculiarità che la rendono una componente fondamentale del percorso di cura per qualsiasi tipo di patologia e bisogno. Si è, quindi, fatto riferimento alla malattia in generale, per cui il discorso sulla medicina narrativa potrebbe essere preso e riadattato per numerose patologie mediche, ad esempio le malattie croniche, quelle cronico-degenerative, e molte altre. In questo capitolo si intende approfondire l’uso di questo approccio nell’ambito della salute mentale. Questo focus è utile per entrare sempre più nel vivo della ricerca. Siamo partiti dal generale, dai concetti di salute e di malattia, li abbiamo analizzati e ci siamo serviti di un punto di vista antropologico per dimostrare quanto, anche nell’ambito medico, l’influsso delle discipline socioantropologiche sia rilevante. Abbiamo, in seguito, messo a confronto due approcci alla cura: la evidence-based 41


medicine e la medicina narrativa Di quest’ultimo ne abbiamo tracciato i caratteri distintivi senza dimenticare che le due metodologie di cura non si escludono a vicenda, anzi, se ne auspica la sempre maggiore interconnessione. 2.1. L’USO DELLA NARRAZIONE IN SALUTE MENTALE Le narrazioni di malattia fanno in modo che le persone riescano a modificare i momenti tragici della propria esistenza in momenti di incontro con gli altri, cercando un nuovo modo di comunicare, guardando all’evento catastrofico come un messaggio da decifrare, anziché un qualcosa di incomprensibile, affinché, dalla tragedia si tragga insegnamento. In questo senso, la malattia non arreca solo dolore, ma insegna qualcosa in più sulla possibilità di creare e ripensare le relazioni con gli altri (Cozzi, 2012, p. 205). Il mio interesse per la medicina narrativa nasce da un incontro con Giuseppe Tibaldi, medico psichiatra presso la A.S.L. 2 di Torino Nord. Egli è intervenuto al Convegno Il territorio oltre i luoghi della cura, che si è tenuto presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia nel giugno 2017. 14 14

Giuseppe Tibaldi è Coordinatore Scientifico del Centro Studi e Ricerche in Psichiatria presso la A.S.L. Torino n. 2 e Direttore Scientifico del Concorso Letterario Storie di guarigione di Biella, il cui sito internet è stato consultato più volte durante la stesura di questo elaborato (Storie di Guarigione: http://www.storiediguarigione.net). Sin da questo momento intendo ringraziare Tibaldi per i preziosi consigli bibliografici che mi ha fornito durante tutto il periodo di stesura dell’elaborato, tra questi vi è anche un testo non ancora pubblicato che quello che cito all’inizio di questo paragrafo.

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In uno dei documenti redatti dallo psichiatra dal titolo Le storie di guarigione. La catastrofe è solo una tappa, nel racconto dei sopravvissuti (2018), egli descrive il modo grazie al quale si è avvicinato alla psichiatria e, in particolare, ribadisce la convinzione, come si evince dal titolo del documento, che anche per la salute mentale si possa parlare di "storie di guarigione". Si fa, quindi, riferimento alla cura, alla riabilitazione anche per quelle patologie che, troppo spesso, vengono considerate come destinate o a stabilizzarsi, o peggio, a cronicizzarsi senza nessuna possibilità di ritorno ad una condizione di benessere. Riporto di seguito le parole di Tibaldi che fanno riferimento al motivo del suo interesse per la psichiatria. Esso risale ai tempi del liceo, quando conobbe Costanza, una coetanea vicina di casa, che aveva una lunga storia di ricoveri nei reparti psichiatrici, ma che egli scoprì non essere più in cura presso il Centro di Igiene Mentale di Alba, quando vi prese servizio. Questa storia di guarigione, rappresentò una svolta per il medico che la descrive come segue: Mi ha suscitato la curiosità per l’universo parallelo che spesso tentiamo di nascondere, anche a noi stessi. Mi ha messo in contatto con la transitorietà delle fasi critiche e con la certezza di una ripresa, di un passaggio ad una fase nuova. Mi ha portato a credere che potevo essere un buon compagno di viaggio anche nelle Odissee più private (Tibaldi, 2018, p. 1). Per far sì che la "catastrofe", come lui la chiama, e cioè la patologia psichiatrica, diventi una fase momentanea nella vita della persona che viene colpita, è d’obbligo un 43


lavoro di revisione dell’approccio dei professionisti verso queste patologie e verso le persone. Per prima cosa, Tibaldi sottolinea l’importanza dell’ascolto. Affinché si tratti di un ascolto attivo e partecipe i professionisti "[…] devono alleggerirsi dal narcisismo teorico […]" (ivi, p. 2) e contemporaneamente, in modo particolare gli psichiatri, dovrebbero ragionare sul potere, spesso anche negativo, dell’uso smodato dei farmaci.15 Tra le controindicazioni degli psicofarmaci, la più dannosa è il torpore, l’assuefazione della persona. Tibaldi vede in quest’ultimo un effetto che si produce sul paziente, ma vi è anche un torpore che colpisce il professionista quando egli non si mostra adeguatamente interessato alla storia dell’altro: Le esperienze di più intensa sofferenza mentale, che sono dominate da una rottura drammatica del nucleo centrale della nostra identità, sono delle vere catastrofi, che travolgono l’individuo e tutto il suo contesto. Troppe volte i professionisti della salute mentale si fermano frettolosamente – a contemplare la catastrofe e a darne una inutile definizione. Troppe volte, prima di volgere altrove il proprio sguardo distratto, esprimono la convinzione che non vi siano sopravvissuti e – se mai ve ne fossero – essi non abbiano una qualche possibilità di ricostruzione (ivi, p. 3). Le storie dei pazienti possono essere descritte come «i tentativi compiuti dai personaggi per risolvere il problema della sopravvivenza post bellica» (ibidem) e i 15

La questione farmaci è un tema molto discusso in psichiatria. Nel Capitolo V riporto le opinioni delle psichiatre intervistate sull’argomento.

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medici e tutte le altre professioni che si pongono alla guida del percorso terapeutico, dovrebbero sforzarsi di non definire queste storie come racconti privi di ogni collegamento con la realtà, ma come il modo di prendere coscienza di quanto accaduto, mentalizzare (corsivo mio) il proprio vissuto, rielaborando le emozioni che si provano vivendo un momento di crisi. Il tutto, considerando questa parte alla stregua del colloquio con lo psichiatra o con l’assistente sociale, che sia parte del percorso terapeutico. Per continuare a discutere su quanto sia importante, anche in salute mentale, parlare di percorso di cura, lo stesso Tibaldi, nel documento citato, mette a confronto l’approccio che fa leva sulle storie di guarigione come tappe per una riabilitazione completa, contro le correnti biologiche che parlano del "cervello rotto". Queste ultime, sono le teorie del "lasciate ogni speranza, o voi che entrate", che ritengono la patologia mentale, ad esempio la schizofrenia, come la conseguenza di un preesistente danno cerebrale della persona che si palesa nel momento in cui il disturbo si manifesta. In questo quadro, non sorprende che chi aderisce a questa corrente, ritenga che sia impensabile una sospensione degli antipsicotici (Tibaldi, 2018, p. 4). In proposito Tibaldi scrive: I teorici del cervello rotto propagandano l’idea che si "è schizofrenici", mentre i racconti dei protagonisti ci fanno capire che si "ha l’esperienza della schizofrenica". […] Quando si ha la polmonite, il presupposto condiviso – anche tra i medici – è che sia qualcosa di transitorio e rimediabile: nel territorio concettuale e linguistico della psichiatria, i professionisti sono abituati a preferire il verbo "essere" (è schizofrenico, è bipolare, è borderline, 45


è cronico). Mi sono andato convincendo che queste scelte linguistiche siano retaggi manicomiali […]. Questo linguaggio manicomiale continua a contaminare anche i diretti interessati ed i loro familiari: provo sempre molto disagio quando mi trovo di fronte ad una persona che, dopo aver incontrato altri specialisti, mi si presenta dicendo: "dottore, sono schizofrenico" (ibidem). Molte sono negli ultimi anni, le ricerche scientifiche che invitano a proseguire nell’ottimismo per quanto concerne un ritorno ad una condizione di benessere in salute mentale. Si rimanda, tra i moltissimi, allo studio che Tibaldi cita nel suo testo che è di Martin Harrow, medico psichiatra presso il Department of Psychiatry della University of Illinois a Chicago. Il dottor Harrow ha condotto un’indagine su due gruppi di soggetti affetti da patologia psichiatrica che dovevano decidere spontaneamente se proseguire con il trattamento antipsicotico o meno, ed ha seguito il loro percorso per quindici anni (Harrow, 2007, Whitaker, 2010, Harrow et al., 2012, Wunderink et al., 2013, in Tibaldi, 2018, p. 5).16 Al termine dello studio, gli esiti dei due gruppi erano particolarmente diversi: tra chi aveva sospeso, il 40% era guarito, il 46% era decisamente migliorato ed il 14% aveva chiari segni di disturbo. Tra chi aveva proseguito, invece, il 5% era guarito, il 46% era considerevolmente migliorato, mentre il 49% presentava ancora dei fenomeni di scompenso. Dato che, prosegue Tibaldi, furono mosse numerose critiche alla ricerca appena riportata, ne seguì un’altra 16

Per un approfondimento sull’uso dei farmaci e sui T.S.O. nelle regioni italiane, si rimanda a Starace, Baccari, Mugnai, 2017, pp. 3343.

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realizzata in Olanda da Lex Wunderink (psichiatra olandese), che ne rappresenta il necessario completamento: […] i soggetti sono stati distribuiti casualmente tra le due opzioni (prosecuzione dei farmaci oppure riduzione/sospensione). Nel campione olandese, seguito per 7 anni, chi ha ridotto o sospeso è andato incontro ad una guarigione nel 40% dei casi, mentre chi ha proseguito i trattamenti farmacologici ha avuto un analogo esito positivo nel 19% dei casi (ivi, pp. 6 -7). Questa discussione, verrà ripresa con i medici psichiatri che sono stati coinvolti in questa ricerca per mezzo di colloqui semi-strutturati. L’obiettivo delle ricerche riportate che, ricordo essere una minima parte di quelle presenti in letteratura negli ultimi dieci anni, rafforzano l’importanza e la presa in considerazione delle storie che i diretti interessati nella patologia psichiatrica raccontano, come parte della cura, al pari dei farmaci, al pari del colloquio conoscitivo con i professionisti. Una vera e propria tappa del percorso, non si dimentichi, non un percorso terapeutico soltanto, ma terapeutico e di cura. Sarebbe opportuno un dialogo reale tra la ricerca scientifica e la pratica clinica, affinché si possano mettere in discussione le pratiche consolidate che ancora impostano la cura facendo venire meno il parere dell’utente. Tibaldi continua a questo proposito sostenendo che, spesso, la ricerca scientifica in questo campo e la relazione con gli utenti sono ritenuti aspetti secondari, sempre per queste ragioni, si ha la tendenza a considerare la relazione con la persona più come rapporto con il 47


Servizio che con il professionista o l’équipe che la prende in carico (ivi, p. 5).

2.2. IL DOLORE CHE DISTRUGGE IL QUOTIDIANO Fino ad ora non si è volutamente fatto cenno al dolore, si è parlato di salute, si è parlato di malattia, ma non del dolore. Il dolore, come scrive Good (1999), non è qualcosa di quantificabile, di misurabile, non esistono, infatti, rilevatori o tecniche scientifiche che ne indichino l’oggettiva entità. Qualsiasi esso sia, si ritiene che quello provato dalle persone con patologia psichiatrica, possa essere maggiormente complesso da comprendere. Cosa prova realmente una persona affetta da psicosi, che convive da anni con le voci che le ordinano di compiere i gesti più estremi o di fare del male ai propri cari? Come si misura il dolore di una persona affetta da depressione o da attacchi di panico o da fobie di varia natura? Ecco perché si apre il discorso sul dolore. Nel capitolo precedente ho affrontato il concetto di malattia nelle sue accezioni varie, disease, illness e sickness, e quanto questa rappresenti un momento di rottura nella vita di un individuo, una sorta di spartiacque tra ciò che era la vita prima di essa e ciò che invece c’è dopo, i cambiamenti, il riadattare la quotidianità a seguito di un evento destabilizzante. Quando la malattia irrompe nella vita di una persona, è come se tutto d’un tratto questa abbia smarrito i punti di riferimento per orientarsi nel mondo, nella sua quotidianità, oltre ad aver perso anche la meta, i progetti, il senso che attribuiva alle giornate. Ciò che sembrava procedere secondo un ordine, un susseguirsi di eventi per 48


larga parte programmati e volti al futuro, d’un tratto svanisce. Tutto resta sospeso, tutto immediatamente cessa di importanza. Ecco perché, sovente, la malattia è paragonata ad un naufragio: «[..] una condizione nella quale il presente non corrisponde a ciò che in passato si era immaginato e il futuro resta drammaticamente incerto» (Cardano, in Olagnero, Cavalletto, 2008, p. 140).17 Di nuovo l’antropologia torna di estrema utilità nell’analisi del concetto di dolore attraverso la disamina che ne fa Good, servendosi come linea guida della visione sociologica di Alfred Schutz (a sottolineare l’interdisciplinarietà del tema). Quest’ultimo, concepisce la malattia come qualcosa che non solo coinvolge il corpo, lo modifica, lo sottopone a delle sofferenze, ma che investe tutta la vita dell’individuo (Schutz, in Good, 1999, pp. 190-193): La mia tesi è che le categorie di Schutz dell’analisi della «realtà di senso comune» ci possono offrire strumenti per indagare il mondo della malattia cronica (e non solo), facendoci capire come il mondo quotidiano venga sistematicamente sovvertito o «distrutto» (ibidem). Continuando a citare Schutz, Good riprende la categorizzazione che il primo fa dei tre punti fermi del mondo della vita quotidiana. La malattia provoca la distruzione di tre elementi cardine che ogni persona ha e che contribuiscono alla sua salute fisica, psichica e sociale. Per prima cosa, il dolore altera la percezione del sé, esso è ciò che permette all’individuo di esercitare la propria 17

Ringrazio sin da questo momento Mario Cardano per i preziosi consigli bibliografici che mi ha gentilmente fornito.

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azione nel mondo, di programmare le azioni per il futuro. È per mezzo del corpo, quindi, che il soggetto si manifesta al mondo, nel quotidiano, e si rende protagonista attivo in esso (ivi, p. 191). Il dolore, come anche la malattia, provocano nel sé una frattura: esso si trova a non riconoscere più il corpo, questo accade frequentemente nelle patologie che colpiscono il fisico da un punto di vista meccanico, mutilazioni o gravi disabilità fisiche. È come se d’un tratto il corpo, il mezzo fondamentale che rende il soggetto protagonista nel suo mondo e con gli altri, risultasse scollegato dal sé e non venisse più riconosciuto come proprio: Il dolore, oggettivato o localizzato in un luogo del proprio corpo, congiura contro l’autonomia del soggetto, si fa ora coprotagonista delle sue azioni, ora gli si contrappone divenendo un nemico sordo, contro cui combattere (Cardano, in Olagnero, Cavalletto, 2008, p. 140). Oltre alla frattura che con la malattia e con il dolore avviene tra il soggetto ed il proprio sé, ve n’è un’altra, di grande rilievo, al pari della prima, che è quella che si produce tra il sé e gli altri, quindi, ciò che accade tra il soggetto e il resto della comunità nella quale è inserito. Per chi soffre, questo senso di estraneità dagli altri è, molte volte, particolarmente acuto. Il dolore resiste a ogni oggettivazione da parte dei test medici ordinari; non esistono sistemi che lo misurino, né saggi biochimici. Esso, poi, come scrive Elaine Scarry, si oppone anche alla localizzazione:

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[…] la maggior parte degli sforzi per identificare la sede del dolore cronico fallisce, nonostante tutti i progressi della diagnostica per immagini […]. Considerato lo stretto legame tra il visibile e il reale nelle pratiche cliniche della medicina, la resistenza a manifestarsi visivamente è una sfida alla realtà della sofferenza ed è una sconfessione del paziente. Il dolore, che per il paziente è una certezza assoluta, per tutti gli altri è oscuro e impenetrabile; esso rimane interno, resistente a ogni conferma sociale (Scarry, in Good, 1999, p. 192). 18 In quest’ottica di non comprensione del dolore, si presenta un ulteriore rischio per il soggetto afflitto dalla malattia, cioè la sempre più sporadica comunicazione tra questi ed il mondo esterno: se il soggetto percepisce che l’altro non è in grado di comprendere la propria complessità, dall’altra parte, all’esterno, non potendo capire, si mette in dubbio la sofferenza altrui e la credibilità di colui che soffre (ivi, p. 193). Il terzo aspetto che Good riprende da Schutz, è la diversa concezione del tempo nel momento in cui subentra il dolore per la malattia. La consapevolezza della precarietà di un individuo nel mondo risulta quanto mai lampante nel momento della malattia, durante la quale, come detto, la quotidianità cambia, muta il modo di progettare ed 18

Elaine Scarry è docente di letteratura inglese presso la Harvard University. Nei suoi studi, ella sottolinea come la manifestazione del dolore, a differenza di altre capacità umane come udire o toccare, si distingue perché non è comunicabile oggettivamente all’esterno. Il dolore è, dunque, refrattario al linguaggio, perché non lo si può esprimere con esattezza e la sua intensità non può essere condivisa, infatti, quando si parla del proprio dolore fisico e di quello di un’altra persona, spesso, è come se ci si riferisse a due eventi totalmente distinti, anche se causati dal medesimo agente (Cozzi, 2012, pp. 96-97).

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aumenta la tendenza a non rimandare, c’è più impazienza verso l’attimo che l’individuo sta vivendo, proprio perché è consapevole di quanto mutevole sia la propria condizione. A proposito del tempo, Good scrive: Il tempo collassa. Passato e presente perdono la loro sequenza. Il dolore rallenta il tempo personale, e il tempo esterno accelera e viene perduto: «Provo come la sensazione che il mondo mi scavalchi» mi disse un altro paziente. Per dare ordine al tempo, è necessario un atto di volontà, e il tempo riempito dal dolore viene percepito come tempo perduto. […] Il dolore prevarica sullo spazio e sul tempo, e il mondo interiore non solo perde la sua relazione con il mondo in cui gli altri vivono, ma le sue stesse dimensioni costruttive iniziano a crollare. Il dolore minaccia di distruggere il mondo e, di conseguenza, di coinvolgere il sé (ivi, p. 194). L’indecifrabilità del dolore attraverso il linguaggio, è forse uno degli aspetti che rende più complesso l’aiuto di coloro che ne fanno esperienza; il dolore non ha un oggetto e per questo non può assumere una forma materiale. Anche per questo, spesso la persona che riferisce un’afflizione dubita di essere creduta, la difficoltà della sua spiegazione in un linguaggio culturalmente accettabile, insinua il sospetto di un malessere che sia frutto dell’immaginazione (Scarry, in Cozzi, 2012, p. 97). Il dolore, quindi, può causare un gap comunicativo tra chi lo prova e chi è dall’altra parte, non solo l’équipe della cura, ma gli altri in senso esteso. In questo caso, come ribadisce Donatella Cozzi:

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[…] l’esperienza del dolore richiede sempre un riorientamento cognitivo da parte della persona. […] Diventa a questo punto importante concentrarsi su come viene riferita, narrata, proposta l’esperienza del soggetto, rivelando la dialettica tra i generi, le modalità di "resistenza", le condizioni socio-economiche che contribuiscono a mantenere subordinazione, miseria, malattia, disabilità, dispiegate come embodiment, incorporazione (ivi, p. 101). Recentemente è stato anche stilato un documento con relative tecniche di rilevazione del dolore (ivi, pp. 108112): tutte queste procedure hanno subìto non poche critiche dal momento che il loro carattere culturalmente determinato, non le rende uno strumento oggettivo a tutti gli effetti. Il dolore nei soggetti affetti da patologie psichiatriche è stato oggetto di discussione dai tempi della chiusura dei manicomi. Prima della Legge n. 180 del 1978, si riteneva appropriata l’induzione di dolore ai ricoverati in manicomio. L’elettroshock era la pratica utilizzata in queste strutture per alleviare gli stati ansiogeni, psicotici di chi vi era ricoverato. Quindi arrecare dolore per alleviarne un altro. Tornando alla distanza tra ego e alter nelle patologie mentali, quale esempio migliore se non la quasi, incapacità, per chi non ne è stato mai colpito, di comprendere il disturbo psicotico che provoca le allucinazioni uditive (udire le voci) o visive. Com’è possibile giungere a progettare un percorso di cura per queste patologie se non attraverso un approccio narrativo che coinvolga, ad esempio, l’uditore di voci in prima persona, affinché il dolore che lo affligge possa essere 53


palesato nel tentativo di ridurre la distanza di questo dal mondo della vita quotidiana. Cardano nel suo testo cita Good che, a sua volta, scrive della narrazione: «[…] la narrazione costituisce […] lo strumento principe con cui procedere alla ricostruzione del sé (Good, 1999, p. 250)» (Cardano, in Olagnero, Cavalletto, 2008, p. 141). Dopo la frattura, quindi, attingere alla narrazione per ricostruire la propria identità e cercare di colmare, per quanto possibile, la distanza tra il mondo di chi prova dolore e quello dell’altro. Si è parlato, nei paragrafi precedenti, di come la narrazione sia prima di tutto una storia e, come tutte le storie, anch’essa si struttura secondo uno schema che include il tempo, la trama, l’intersoggettività. La storia che un soggetto fa del proprio vissuto di malattia aggiunge altri elementi tra cui: il perché, la motivazione del dolore e della malattia che lo affligge. Questo conduce automaticamente ad uno sguardo verso il passato della persona con l’intento di trovare una causa che aiuti ad accettare la condizione di sofferenza. Alla ricerca della ragione scatenante, si aggiunge l’atto di dare una spiegazione alla sofferenza attraverso la narrazione e tutto il sistema di simboli che fanno parte della cultura. Attraverso il sistema di simboli di ciascuna persona, si procede alla ricostruzione di ciò che si ritiene possa aver determinato lo stato di sofferenza. Questa parte è significativa nelle narrazioni fatte all’équipe che prende in cura un utente perché consente di esplorare il vissuto, la rete familiare e sociale, la quotidianità dello stesso. Un altro aspetto di queste narrazioni, è quello che concerne i dubbi e le paure, definibile come vissuto emotivo persona che si trova a dover fare i conti con la propria vita ed una nuova condizione prima sconosciuta, 54


la sofferenza (Cardano, in Olagnero, Cavalletto, 2008, p. 142). Per concludere questa parte riprendo nuovamente Cardano: Le narrazioni di malattia svolgono questa funzione (l’autore fa riferimento alla funzione di sense-making: la narrazione aiuta a ricostruire l’identità della persona creando un collegamento tra il passato, il presente e il futuro) legando fra loro, ora gli eventi che hanno condotto all’esordio della malattia, ora quelli che gli hanno fatto seguito, ma anche e direi soprattutto, inscrivendo questa connessione in un doppio registro, morale e gnoseologico, capace di rispondere ai quesiti più insidiosi che si impongono al sofferente: «perché» e «chi sono diventato?» (ivi, p. 137).

2.3. RACCONTARE

LA SOFFERENZA PSICHICA PER USCIRE

DALLA PASSIVITÀ

The mad things done and said by the schizophrenic will remain essentially a closed book if one does not understand their existential context. (Laing, in Roberts, 2010, p. 436) La narrazione nell’area della salute mentale viene utilizzata per rendere il disagio maggiormente decifrabile, meno criptico e comprendere che tipo di significato la persona gli attribuisce e come influisce sul contesto di vita. Si è visto come la pratica clinica possa essere considerata, nonostante l’ancora forte reticenza nell’ammetterlo, una scienza narrativa perché, per 55


diagnosticare una patologia si avvale prima di tutto di una storia, cioè del racconto dei sintomi che il paziente fa al medico che va a costituire l’anamnesi. Quest’ultima però, non può essere considerata una narrazione come intesa in questa tesi, bensì può definirsi una «narrazione non dialogica», questo perché contiene solo i sintomi, un’ipotesi di diagnosi ed una breve storia dell’utente, ma senza entrarvi troppo nel merito. In questa esposizione, ciò che spicca maggiormente, è la totale assenza di dialogo, non vi sono interlocutori. Un’altra narrazione di questo tipo può essere considerata quella che riportano gli utenti quando sono ancora vittime della psicosi, anche queste, come le prime, sono narrazioni basate sul presente, senza alcuna connessione e possibilità di interlocuzione (Tibaldi, in Maone - D’Avanzo, 2015, p. 44). Quanto alle narrazioni autobiografiche, invece, esse sono il risultato di un tentativo di recupero e ricomposizione di una frattura che ha avuto luogo dentro l’individuo: Attraverso la scrittura, le esperienze traumatiche "indigeribili", che sono la radice biografica del crollo psicotico, diventano – dolorosamente – comprensibili e raccontabili, così come le strategie difensive incongrue (le interpretazioni e le voci) che hanno preso il sopravvento nella fase di massima sofferenza. Chiunque partecipi attivamente alla formulazione progressiva di nuove versioni della narrazione autobiografica condivide, e stimola, questa esigenza digestiva rimasta lungamente inibita. Quando essa si manifesta è improbabile che possa tornare ad essere soffocata (ivi, p. 46).

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Il bisogno di esprimere attraverso le parole, la raffigurazione di immagini, la sofferenza che provocano le patologie psichiatriche, sono pratiche diffuse già nel XV secolo (più di 900 testimonianze scritte di pazienti psichiatrici risalenti a quel periodo, sono state rinvenute in Inghilterra), particolarmente elevate sono anche le testimonianze dei familiari di questi pazienti. Queste persone erano affette da schizofrenia, depressione, bipolarismo e provenivano da vari contesti e livelli sociali, due aspetti li accomunavano: la patologia psichiatrica ed il bisogno di raccontare cosa stessero vivendo (Hornstein, 2011, p. 1).19 Un chiaro esempio di quanto appena sostenuto, è contenuto nel video-documentario di Pier Nello Manoni (fotografo ed esperto nella realizzazione di cortometraggi) dal titolo I graffiti della mente (2002). La storia è ambientata nell’ex manicomio di Volterra in Toscana.20 In questo documentario, il regista si serve della guida di un ex infermiere dell’ex Ospedale Psichiatrico per un viaggio all’interno di quella che era un’istituzione totale a tutti gli effetti. La trama non verte sulle condizioni di vita e lavorative all’interno dell’edificio, ma narra la storia di vita di un paziente, Oreste Fernando Nannetti, è lui l’autore dei "graffiti della mente". Nato a Roma nel 1927, Oreste Fernando fu internato prima nel manicomio "Santa Maria della Pietà" di Roma e poi in quello di Volterra, per un totale di circa trent’anni all’interno degli ospedali psichiatrici. Morì in una casa famiglia a Volterra nel 1994, senza aver mai 19

Questo documento fa parte del materiale gentilmente fornitomi da Giuseppe Tibaldi. 20 Ringrazio Lea Leonarda Bresci che, tramite Patrizia Cecchetti, mi ha fornito il documentario.

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ricevuto alcuna visita e senza aver mai rivisto la sua amata Roma (Tani, 2008, pp. 1-4). Il signor Nannetti, durante i suoi dodici anni di manicomio, ha inciso, servendosi della fibbia della cintura che chiudeva la divisa che lui e gli altri pazienti indossavano, oltre 100 metri del muro esterno dell’istituto. In questo lungo libro di pietra le trattazioni spaziavano su vari ambiti, dalla storia di vita di Nannetti, le origini dei genitori e di altri membri della famiglia, al dolore inflitto ai pazienti in manicomio. Egli scrive e disegna la sua sofferenza, in un misto tra racconti lineari e momenti nei quali il delirio prevaleva rendendo più scollegata la trattazione. I graffiti trattano di viaggi immaginari, di collegamenti con personaggi frutto della fantasia dell’autore attraverso la telepatia e di un eroe, tale "Nanof" (N.O.F. 4 era la sigla di riconoscimento di Nannetti all’interno del manicomio). Nanof viene descritto come Colonnello dell’Astronautica Mineraria Astrale e Terrestre, un uomo che tra una battaglia con creature mitologiche e l’altra rievoca il suo passato, la vita a Roma e i suoi affetti. L’esempio di Oreste Fernando mostra il bisogno di raccontare la sofferenza, ma anche la vita degli utenti psichiatrici. Nel suo caso, le condizioni erano di reclusione, privazione totale della libertà personale; una vita diversa, fortunatamente, è quella di oggi per l’utente della salute mentale. Il bisogno che persiste è quello dell’espressione del sé interiore, anche nei soggetti più introversi (come era Nannetti), da qui nascono le idee dei laboratori di espressione che vengono organizzati e di cui si parlo in seguito.

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Oreste Fernando Nannetti (foto di Pier Nello Manoni).

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La divisa che indossava Nannetti e la fibbia con la quale ha inciso le sue "pagine di pietra" (foto di Pier Nello Manoni).

Alcuni dettagli dei graffiti di Nannetti presso l’ex Ospedale Psichiatrico di Volterra. Le parti non incise 60


mostrano la sagoma di altri pazienti che sedevano sulla panchina mentre Nannetti continuava la sua narrazione sulla pietra (foto di Pier Nello Manoni).

Quello che resta attualmente delle incisioni di Nannetti (foto di Per Nello Manoni).

Nella parte superiore del muro vi sono le incisioni che narrano la storia di un bombardamento ad opera di Nanof, "Colonnello dell’Astronautica Mineraria Astrale e Terrestre". La figura di donna al centro, rappresenta probabilmente la madre o la nonna di Nannetti (foto di Pier Nello Manoni). 61


2.4. LE TAPPE DELLE STORIE DI GUARIGIONE Si è detto che i racconti di malattia, come ogni storia che si rispetti, hanno una struttura ben precisa, composta da una trama, uno spazio, un tempo, un interlocutore. È chiaro, lo abbiamo visto, che questa struttura dev’essere ricostruita con l’impegno del protagonista e di chi lo accompagna nel percorso di cura, dato che spesso i racconti degli utenti non seguono un copione definito, ma vanno avanti e indietro, omettendo particolari e personaggi. Giuseppe Tibaldi, di cui abbiamo parlato e che ritornerà spesso nel corso di questa trattazione, propone delle tappe che ricorrono in tutte le trame delle storie che egli, da medico psichiatra, ha ascoltato da molti dei suoi utenti (Tibaldi, 2015, in Maone, D’Avanzo, p. 51). Egli ne propone uno schema ricostruttivo che può essere sintetizzato come segue. La prima è la cosiddetta «fase precontemplativa» e rappresenta il momento in cui la patologia psichiatrica entra repentinamente nella vita della persona, sconvolgendole la quotidianità, il modo di rapportarsi ai propri cari. La vittima di questa sofferenza vive l’impotenza della propria condizione. Uno dei testi che, grazie a Tibaldi ho potuto conoscere e leggere, è la già citata l’autobiografia di Ken Steele (2005), per anni condannato a convivere con la psicosi. Egli nella sua storia racconta il dolore provocato dalle voci che, nella loro fase iniziale, lo hanno portato a perdere ogni legame affettivo con la famiglia, con il proprio contesto sociale. In seguito, nella «fase contemplativa», nella persona sorge il desiderio di uscire dalla condizione di sofferenza, ricominciando in primo luogo ad avere fiducia nella speranza. È qui che i professionisti che lavorano nella 62


salute mentale diventano fondamentali per l’utente che hanno in carico. Si vedrà approfonditamente questo nel quinto capitolo, ma già adesso è opportuno spendere alcune parole sul ruolo dell’équipe professionale. L’utente in carico dovrebbe poter contare su una o più figure che sappiano ascoltare la storia che egli propone, è qui che assume importanza l’espressione "storia di guarigione", poiché in questo modo si invia un messaggio che riaccende la speranza nell’altro, quello di una soluzione possibile di tornare alla condizione precedente alla sofferenza. Questo tipo di percorso, che dovrà essere progettato e condiviso con l’utente, utilizza tecniche specifiche, quali l’ascolto attivo, il colloquio ed il coinvolgimento della persona che incoraggiano l’empowerment e la partecipazione. È pur vero che, non di rado, la speranza ed il conforto possono arrivare anche dal rapporto con chi ha vissuto o sta vivendo la medesima esperienza di dolore, ecco quindi, l’importanza dei gruppi di auto-aiuto all’interno dei quali il professionista fa più da sfondo, da mediatore in un gruppo di persone che vengono incoraggiate a raccontarsi pubblicamente, affinché si apra tra loro una condivisione e nuove soluzioni alle loro sofferenze. Si giunge, poi, alla tappa della «preparazione»; è opportuno considerare, proprio perché si tratta di un lavoro tra la persona ed i professionisti, che è importante crederci, cioè volervi prendere parte e aderire al progetto realmente. Questo non è affatto facile, specie in salute mentale, perché è un’area all’interno della quale risulta ancora difficoltoso l’atto di scendere a compromessi con l’utente e dove, il sapere medico psichiatrico, detiene maggior potere sul resto dell’équipe. 63


In questa fase anche lo psichiatra, l’assistente sociale, l’educatore, necessitano di un’appropriata e continua formazione perché, se dovessero lasciarsi coinvolgere eccessivamente dalla sofferenza altrui, rischiano di far saltare sia il progetto di cura sia la loro serenità professionale. Dopo la preparazione, si passa all’«azione», ciò che si è messo su carta con l’équipe dev’essere attuato nella pratica, nel quotidiano. Tibaldi scrive a proposito di questa fase: […] è il momento in cui si comprende quali attività, e quali persone, ci disturbano e ci inquietano e quali invece ci rilassano e ci fanno star bene e trarne le quotidiane conseguenze. È il frangente in cui si può decidere che vale la pena di passare da una storia individuale ad una storia collettiva (Tibaldi, 2018, p. 6). A questo punto, si sperimenta la reale autonomia dell’utente nel percorso di cura, ovvero, se egli ne è davvero il protagonista e se la distanza tra "esperti di professione" ed "esperti per esperienza" è stata davvero ridotta. Ultima tappa di questo percorso è rappresentata dalla «fine della passività». Per "passività" Tibaldi intende innanzitutto quella verso la malattia, verso la sofferenza che questa ha provocato, poi verso i professionisti; verosimilmente, se il percorso si è rivelato positivo per la persona, questi rappresenteranno per lei dei punti di riferimento anche al termine della riabilitazione. Inoltre, una fine della passività è anche che consente di proiettare la vita all’insegna dell’autonomia, della libera scelta anche dall’assunzione o meno dei farmaci. (ivi, pp. 6-8). 64


2.5. RACCONTARE, ESPRIMERSI, RITROVARE IL PROPRIO SÉ La Terra Santa Io sono certa che nulla soffocherà più la mia rima, il silenzio l’ho tenuto per anni chiuso nella gola come una trappola da sacrificio, è quindi venuto il momento di cantare una esequie al passato. (A. Merini, 2010, Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, p. 228) Questa poesia di Alda Merini è più volte citata da Giuseppe Tibaldi nei suoi interventi durante i convegni sulla medicina narrativa. La riporto per ricordare l’autrice, che è stata una delle più importanti testimoni italiane della sofferenza vissuta all’interno dei manicomi. Questo grazie ai numerosi scritti, alla volontà, che era insieme anche bisogno, di lasciare una testimonianza di quanto vissuto in quella realtà. La stessa Alda Merini, descriveva l’ospedale psichiatrico come luogo all’interno del quale è alto il rischio di sprofondare nel silenzio, alla stregua di una condanna, un destino impossibile da modificare. Di seguito verrà nuovamente discusso un intervento di Tibaldi dal titolo Il ruolo elaborativo, e trasformativo, della soggettività e delle testimonianze scritte (in Maone, D’Avanzo, 2015), per descrivere quali sono i principali temi che ricorrono nelle storie di chi vive la patologia psichiatrica sulla propria pelle e decide di condividerla con il cosiddetto "esperto per professione". Questo tipo di narrazioni sono quelle "dialogiche", si differenziano dall’anamnesi o dal colloquio conoscitivo con l’utente perché scavano più nel profondo, mirano ad 65


una relazione con l’altro e ad una condivisione della propria vita. Esistono, secondo Tibaldi, degli elementi che tendono a ripetersi anche in storie diverse: Ritrovare la speranza: accade con frequenza che la diagnosi di una patologia psichiatrica venga descritta all’utente e ai suoi familiari come qualcosa di incurabile, come una patologia controllabile attraverso la somministrazione di dosi di psicofarmaci specifici per il problema, ma senza possibilità di ritorno ad una condizione di benessere. A dire il vero, negli ultimi anni, la tendenza a presentare un quadro meno infausto della patologia è più diffusa anche se con scetticismi da parte della psichiatria. In generale, all’inizio è la disperazione, lo sconforto che fanno da padroni nella vita di chi si sente di essere etichettato come "utente psichiatrico" (questo, chiaramente in chi acquisisce la patologia, diverso è il discorso per chi ne è affetto dalla nascita). Sperare di migliorare la propria condizione e riuscire ad utilizzare i medicinali come sussidio iniziale, ma non necessariamente come compagni per la vita, appare un’utopia. La svolta è possibile nel momento in cui si incontrano persone disposte a condividere un’esperienza simile (gruppi di auto-aiuto) e un’équipe di professionisti che vedono nella condivisone in gruppo, in quella individuale (attraverso la scrittura di sé, la scrittura creativa, le rappresentazioni teatrali, le arti figurative) parte della terapia tanto quanto la cura farmacologica. Prendere coscienza della propria condizione: altro elemento chiave è l’accettazione. All’inizio di una diagnosi di patologia psichiatrica, può essere complicato accettare l’idea di avere una problematica importante che necessita di un percorso medio-lungo per poter essere superata. Questa difficoltà può essere presente tanto nella 66


persona che ne è affetta quanto nei suoi familiari, per questo il lavoro dell’équipe deve estendersi anche alla rete degli utenti e al loro contesto di vita. Nel momento in cui si riconosce che qualcosa non va, già si può ritenere superato un primo ostacolo, dopodiché si procede alla conoscenza della patologia, sempre sotto la guida dei professionisti. Dopo una fase acuta, un T.S.O. (trattamento sanitario obbligatorio), la conseguenza più frequente è l’isolamento della persona, una fase di apatia, una chiusura in se stessi che rimanda a quella che Good definiva "la distanza tra chi prova dolore e il mondo esterno" che non può comprendere. Dopo la "catastrofe", è importante che la persona riprenda la sua vita in mano e guardi oltre la patologia, torni quindi ad essere protagonista della propria esistenza. Un passo importante in questa direzione è l’essere coinvolti attivamente nel percorso di cura. Evitare la passività: quanto detto al punto precedente, si ricollega il tema della passività, dato che può accadere che siano gli stessi medici, assistenti sociali o psicologi a indurre questo senso di assuefazione e dipendenza negli utenti spingendoli a seguire le terapie, frequentare un centro diurno o delle attività piuttosto che altre. Tibaldi in proposito scrive: I percorsi positivi che emergono dalle narrazioni autobiografiche sono caratterizzati, invece, dal riemergere di un sentimento di responsabilità personale rispetto alla propria vita. Esso si traduce nel prendere decisioni concrete, nell’assumersi dei rischi, nel fare scelte autonome, nel prendersi il compito di valutare da soli il proprio equilibrio emotivo. Questo insieme di attività (coping strategies) consente di acquisire 67


consapevolezza delle proprie specifiche fragilità e di mettere a fuoco le soluzioni migliori da adottare (che possono variare in funzione degli eventi stressanti) (Tibaldi, in Maone, D’Avanzo, 2015, p. 49). 

Evitare di ridurre la rappresentazione di se stessi a quella di soggetti malati: si è detto più volte quanto sia fondamentale evitare di ridurre la persona alla patologia dalla quale è stata colpita. Ebbene, nelle fasi iniziali della diagnosi, non è semplice per l’utente cogliere questa differenza tra il sé che ha un problema e che dev’essere affrontato, e un sé che resta sempre lo stesso. Spesso, ma questo non avviene solo in psichiatria, questa differenza non è facile da vedere; la persona si identifica con la patologia e i medici non sono d’aiuto, anzi ne incoraggiano la spersonalizzazione. Imparare ad accettare che la malattia è solo una parte dell’individuo è un modo tentare di superarla e combattere il pregiudizio ad essa asscociato. L’importanza delle attività laboratoriali, delle occupazioni, dei gruppi di auto-aiuto: dopo un T.S.O., una degenza più o meno lunga nel reparto psichiatrico o in una comunità terapeutica, l’utente corre il rischio di interiorizzare lo stigma secondo il quale, chi soffre di un disturbo psichiatrico, non può essere preso troppo sul serio, né può assumersi particolari responsabilità data la mutevolezza della propria condizione. L’individuo rischia così di perdere fiducia in se stesso e nelle proprie capacità, condizione che ritarda e ostacola la risoluzione del problema. Frequentare gruppi di auto-aiuto dove poter condividere l’esperienza che si vive con chi è nelle stesse condizioni, o ne è uscito, può essere di grande supporto; prendere parte ad attività artistiche che vengono organizzate nelle strutture terapeutiche, ad 68


esempio, può incoraggiare l’espressione emotiva che contribuisce all’accettazione della propria condizione e alla sua elaborazione. Infine, una volta accertato un miglioramento, è possibile aprirsi alla possibilità di svolgere un lavoro o comunque avere un impiego, un obiettivo nel quale investire le proprie energie aiuta a ritrovare la fiducia in se stessi e nelle proprie abilità. Il percorso di cura tra alti e bassi: sposare assieme all’équipe il percorso di cura, significa anche mettere in conto eventuali e possibili fallimenti in corso d’opera. Sia il professionista che l’utente, devono avere chiaro che non esistono manuali di istruzioni standardizzati per la cura delle patologie psichiatriche che il percorso è di norma lungo, fatto di momenti positivi e altri negativi riconosciuti come necessari. In quest’ottica, non si può ignorare il ruolo di snodo che hanno i familiari dell’utente che insieme agli operatori, ai medici, agli assistenti sociali, agli psicologi svolgono un lavoro di squadra per il supporto della persona (Tibaldi, in Maone, D’Avanzo, 2015, p. 50). Questo elenco è stato utile nelle interviste somministrate ad alcuni dei professionisti che fanno parte dell’équipe dei due servizi indagati. La base di tutte le narrazioni, sia che esse culminino in opere autobiografiche vere e proprie come quella di Ken Steele o meno, è sempre che «[…] la catastrofe (psicotica e non solo quella) è una tappa della nostra esistenza», una tappa appunto, non l’essenza di un’esistenza (ivi, p. 12).

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PAROLA È FARMACO: L’IMPORTANZA DELLA NARRAZIONE DI SÉ

2.6. LA

La scrittura mi ha aiutato a non aver paura della vita. (Duccio Demetrio, Perugia, 17 dicembre 2017) L’idea di inserire un paragrafo sull’importanza della narrazione del sé nasce dalla mia partecipazione al Convegno La narrazione autobiografica per lo sviluppo sociale organizzato da ASPIC Umbria (Alta formazione alla relazione d’aiuto) e da COME Umbria (Agenzia di formazione accreditata dalla Regione Umbria). L’evento si è tenuto a Perugia il giorno 16 dicembre 2017 presso la Sala Sant’Anna, la prima parte, e presso Palazzo dei Priori il pomeriggio. Durante la mattinata l’intervento più atteso è stato senz’altro quello con Duccio Demetrio, filosofo dell’educazione, docente presso l’Università Milano Bicocca e Direttore del centro di ricerche e studi della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Duccio Demetrio è autore di numerosi testi che insistono sull’importanza della narrazione di sé come momento di riflessione sulla propria vita, sulle vicende vissute, nonché sull’importanza di rileggersi. La scrittura di sé, diventa in questo modo un mezzo, non solo per lasciare una traccia della nostra presenza nel mondo, ma anche per riflettere su eventi accaduti, sulla nostra condizione attuale. La scrittura consente a chi la sperimenta come tecnica per indagare il proprio io, di dare forma ai ricordi, alle memorie, alle impressioni. In particolare, la scrittura autobiografica, rappresenta un atto di libertà, un atto che lo scrivente fa nei confronti delle censure che gli impone 70


il contesto nel quale vive o, addirittura, verso le imposizioni che egli fa a se stesso, quando ad esempio si obbliga a non esprimere emozioni, stati d’animo, pensieri, dolori. Scrivere di sé è sì un atto di libertà, ma come tutti i racconti di storie che solo chi le vive in prima persona può conoscere, non garantisce la verità, non è un resoconto oggettivo. Demetrio, tra le varie opere, ha scritto un libro molto interessante e ricco di spunti di riflessione per l’argomento che si sta trattando dal titolo Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé (1995). Il bisogno di raccontarsi, quello che nel teso citato Demetrio chiama «pensiero autobiografico» (ivi, p. 9), è un modo per volgere lo sguardo verso qualcosa che l’individuo ha vissuto nel passato, a volte un passato che ha destato dolore, paura, angoscia, qualcosa che nel momento in cui si verificava suscitava in lui emozioni negative, ma nell’atto di rievocarlo, provoca un senso di affrancamento col passato. Una sorta di riappacificazione con se stessi. Attraverso il lavoro autobiografico, quello che appartiene al passato di una persona viene gettato al di fuori di essa: Nel mentre ci rappresentiamo e ricostruiamo – ci rivediamo alla moviola e, come ebbe a dire Marcel Proust, "sviluppiamo i negativi della nostra vita" -, ci riprendiamo tra le mani. Ci prendiamo appunto in carico (in cura) e ci assumiamo la responsabilità di tutto ciò che siamo stati o abbiamo fatto e, a questo punto, non possiamo che accettare (ivi, p. 12). Ecco quindi riprendere quanto detto a proposito delle tappe delle storie di guarigione; è qui che l’importanza 71


della narrazione di sé si intreccia al bisogno, per chi vive l’esperienza della patologia psichiatrica, di prendere coscienza con quanto accaduto, metterlo su carta se necessario, o comunque trovare un modo per poter esprimere le emozioni che si associano a questo evento, per far sì che esso diventi reale, che lo si accetti come parte del percorso di vita, ma non come del tutto determinante per la stessa. Un altro aspetto che ritengo degno di nota, è quello che invita a considerare l’autobiografia uno sguardo distaccato verso ciò che una persona si trova a vivere. Spesso, questo "essere spettatori" è considerato in modo negativo, anche in questa trattazione si è più e più volte insistito sull’importanza del mettere l’utente al centro del percorso di cura al fine di evitare, appunto, che egli risulti uno spettatore della propria vita. Si sta forse proseguendo con un discorso contraddittorio? La risposta è negativa in quanto, a volte, quando un soggetto si trova a scrivere di sé, prendere un minimo le distanze da quanto si sta raccontando risulta essere d’aiuto nella stesura. La presa di distanza, lo sguardo offuscato verso uno o più eventi del passato che hanno rappresentato un trauma, consentono una narrazione più autentica. In questo modo il pensiero autobiografico rappresenta un supporto per far sì che un prodotto individuale, redatto dal soggetto solo ed esclusivamente per se stesso, si apra alla condivisione con l’esterno, con l’altro. Con lo stesso altro che, in una situazione di dolore, può apparire come molto distante da chi soffre, utilizzare lo strumento autobiografico per far dialogare due mondi: il sé che si apre a se stesso e contemporaneamente che apre un varco anche verso l’esterno. Duccio Demetrio scrive a proposito di questo: 72


Per tale motivo il pensiero autobiografico in un certo qual modo ci cura; ci fa sentire meglio attraverso il raccontarci e il raccontare che diventano quasi forme di liberazione e di ricongiungimento (ivi, p. 11). Prima di passare all’autobiografia impiegata in ambito clinico, è opportuno sottolineare che questa tecnica è un modo per parlare di sé che chiunque può e dovrebbe essere incoraggiato a sperimentare. Al tempo stesso, però, non dev’essere considerata una formula magica che consente di affrancarsi da un passato o da un evento spiacevole per prenderne le distanze e metabolizzarlo. Essa è una parte importante, ma pur sempre una parte, di un percorso terapeutico, non può funzionare da sola. Si fa sovente riferimento alla scrittura di se stessi riferita al passato, in realtà, quando questa pratica diventa un’abitudine, un bisogno, è importante anche scrivere del presente, di quello che una persona sperimenta ogni giorno, per vivere intensamente e profondamente, riflettendo su quanto accade nel quotidiano. Quello che desta stupore della scrittura autobiografica, è la capacità di indurre ad apprendere dalla propria esperienza, quindi da se stessi e trovare, come detto sopra, una sorta di pace con quanto accaduto o fatto in passato. Il convegno di Perugia di cui si è fatto cenno all’inizio di questo paragrafo, prevedeva una parte laboratorialepratica alla quale ho partecipato. Prima di entrare nel dettaglio nel contenuto del laboratorio, ritengo opportuno condividere quanto rilevato sia in buona parte dei partecipanti che in me. Alla fine della mattinata di formazione, la maggior parte degli iscritti al laboratorio (studenti, ma anche docenti, 73


assistenti sociali, psicologi, persone incuriosite dal tema, insomma, un gruppo eterogeneo) erano tentati dal fare ritorno alle proprie case, data la forte pioggia che si stava abbattendo sulla città e il tratto medio-lungo da dover fare a piedi, perché il laboratorio si sarebbe svolto in un palazzo del centro storico. Nonostante tutti questi aspetti che avrebbero incoraggiato a congedarsi dalla giornata di formazione, all’appuntamento pomeridiano molte delle facce del mattino erano presenti. È’ stata fatta una divisione in due gruppi, più o meno di eguale numero e i partecipanti sono stati invitati a fare il loro ingresso nella sala indicata da coloro che avrebbero condotto il laboratorio, due insegnanti della Libera Università di Anghiari. L’attività aveva delle regole che ogni partecipante avrebbe dovuto osservare e che sono le stesse che valgono nei laboratori di scrittura che ho svolti con gli utenti della salute mentale: ogni persona sceglie quanto e cosa scrivere, non esiste una scrittura corretta e una meno, essa è libera. La conduttrice del laboratorio nel quale ero inserita, era la dottoressa Marina Biasi, psicologa e insegnate della Libera. Il suo ruolo è quello di fornire ai partecipanti uno stimolo per facilitare la scrittura; si lavora individualmente e, alla fine, si condivide con il gruppo quanto prodotto. Anche questo è un atto che si può non fare, è libero come la scrittura.21 Duccio Demetrio, in un altro illuminante testo dal titolo La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali (2008), sostiene ancora il potere 21

Tra gli Allegati ho inserito la traccia di questo laboratorio.

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della scrittura autobiografica facendo riferimento, in particolare, alla capacità di prendersi gioco di qualcosa che provoca sofferenza. Attraverso la parola scritta, quella sofferenza viene accettata come qualcosa di reale, ma che messa su carta, risulta meno dolorosa. La scrittura può fungere da sussidio per le fragilità della vita, quelle della quotidianità, quelle scaturite dal male di vivere, che ogni individuo è soggetto ad incontrare nel corso della propria esistenza. La fragilità non dev’essere, dunque, intesa come una condizione propria solo di soggetti che affrontano una malattia, bensì una parte dell’esistenza umana che è presente in tutte le persone, uno stato transitorio che dovrebbe essere incoraggiato affinché si riveli e su di esso si possa lavorare (Demetrio, 2008, p. 63). Per quanto concerne il valore della scrittura nell’elaborazione di un malessere che affligge un individuo, quello che viene descritto come il "male di vivere", Duccio Demetrio ne dà prova come segue: Non è un mero sfogo, lo sbocco di un disciogliersi del groppo fino a quel momento inespresso, a produrre la panacea. Si può iniziare a scrivere per tentativi, con svogliatezza e scetticismo, scarsa autostima. Poi, se si prosegue, è un’affatto tranquilla passione ad avere il sopravvento. Può mutarsi in controllata eccitazione o persistere in uno sfrenato andamento. La scrittura di sé è comunque uno stratagemma di chiunque, purché sappia scrivere almeno poco, può giovarsi senza risparmio (ivi, p. 59). Il quinto capitolo di questa tesi sarà dedicato all’approfondimento del ruolo dei professionisti che lavorano nell’ambito della salute mentale. 75


Senza anticiparne troppo i contenuti, è opportuno aprire una perentesi sull’importanza della scrittura non solo come pratica clinica, quindi come parte del percorso di cura, ma anche come strumento caro al professionista per se stesso, per migliorare l’approccio verso l’altro e verso il suo lavoro. Questa pratica, lo si vedrà anche nelle interviste, tranne che in casi eccezionali, non è abitualmente in uso né per gli operatori che lavorano nei reparti psichiatrici, né in quelli delle comunità terapeutiche, né di altri servizi sia pubblici che privati. Il prossimo paragrafo è quello che affronta le emozioni, perché la rielaborazione di un vissuto, bello o tragico che sia, evoca nello scrivente (che sia un professionista dell’aiuto o un utente) delle emozioni che sono troppo spesso ignorate.

2.7. LE EMOZIONI Quando si discute di vita quotidiana non si può non fare riferimento alle emozioni, in particolare, alle numerose interazioni emotive con le quali i soggetti che vivono all’interno di un dato contesto sociale, si trovano a dover fare i conti.22 Tutte le attività che un individuo svolge, i luoghi che frequenta, le persone che incontra e con le quali si relaziona, attivano le emozioni più varie, non sempre uguali; ogni contesto si caratterizzerà per l’evocazione di specifiche emozioni. Ognuno di essi però, dona al 22

Durante il Corso Magistrale, la frequentazione delle lezioni del Corso di Sociologia del Mutamento Sociale tenute, per l’anno accademico 2016-2017, da Massimo Cerulo, è stata un’interessante opportunità di riflessione sul tema.

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soggetto la certezza di una sua collocazione nel mondo, di un suo «essere nel mondo» (Cerulo, 2015, p. 13). L’interesse per questo tema nasce dalla riflessione su qualcosa che appare ovvio, ma che ovvio non è affatto, cioè l’essere immersi nelle emozioni e nell’interazione con esse; il fatto che le emozioni condizionino il benessere o il malessere degli individui, a seconda degli ambienti o delle circostanze. L’assenza, o la quasi assenza, di una tale riflessione all’interno di un corso di studi universitari che intende preparare all’aiuto di chi incontra delle difficoltà, ha contribuito, insieme ad altri, a far nascere il desiderio di approfondire l’argomento. Prima di trattare le emozioni da un punto di vista socioculturale, vorrei spendere poche righe per parlare di un'altra fonte illuminante per la mia tesi, il testo dell’oncologo Christian Boukaram, Il potere anticancro delle emozioni (2014).23 Questo libro tornerà utile, in seguito, per approfondire l’importanza delle forme d’arte per elaborare il vissuto emotivo, prima e durante la malattia. Boukaram, da medico, dimostra la necessità di un approccio integrato per la cura, nel suo caso delle patologie oncologiche, ma è un discorso che si adatta anche a quelle psichiatriche. Uno dei passi che ha maggiormente catturato la mia attenzione e che ha molto in comune con quanto sostenuto dai sociologi delle emozioni, è il seguente: Ogni giorno siamo bombardati da emozioni. Il nostro corpo ci invia delle sensazioni fisiche (fame, sete, dolore, 23

Christian Boukaram è un medico oncologo e docente di neurologia presso l’Università di Montréal in Canada. Egli si interessa della cura dei pazienti attraverso un approccio multidisciplinare prestando attenzione al loro vissuto emotivo e rielaborandolo con essi.

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ecc.) per informarci sui suoi bisogni fisici, ma ci manda anche dei segnali emotivi per avvertirci delle esigenze mentali. […] Quando non l’ascoltiamo (l’emozione), la paura si radica in noi, distruggendo risorse importanti e allontanandoci dalla pace e dall’amore, che sono riserve di salute. Le emozioni negative costanti possono potenziare altri fattori di rischio del cancro. Affrontando le emozioni all’origine, ci sbarazzeremo dell’ansia e ricercheremo la verità in noi stessi. Quella pace che agisce direttamente sulle nostre strutture fisiche (ivi, pp. 104-105). 2.7.1. LO STUDIO DELLE EMOZIONI NELLE SCIENZE SOCIALI Quando si fa anche solo cenno alla sociologia delle emozioni è importante andare a ricercare le radici di questa disciplina. Le origini vengono fatte risalire agli anni Settanta negli Stati Uniti, dove un importante gruppo di studiosi da tempo si stava interessando di vita quotidiana, dell’interazione degli individui tra loro e del loro agire emotivo e affettivo. Queste tematiche erano già state oggetto di studio dalla Scuola di Chicago e da quella di Francoforte, già Simmel, Weber e Durkheim avevano iniziato ad occuparsene. Nel 1973 Edgar Morin, pubblica un libro da titolo Le paradigme pedu: la nature humaine, nel quale si discute dell’importanza degli affetti nella vita quotidiana e del vivere in società, nonché dell’azione individuale. Da questo momento in avanti, si tende ad abbandonare la concezione delle emozioni come qualcosa di deleterio per l’essere umano, ma come strumenti utili per vivere nella società (Cerulo, 2009, p. 14). 78


La definizione, così come viene usa oggi, di "sociologia delle emozioni" la si deve ad Arlie Russell Hochschild secondo la quale: […] l’espressione «sociologia delle emozioni» indica un corpus di ricerche che articolano i legami fra idee culturali, situazione strutturale e un insieme di aspetti che hanno a che fare con le sensazioni: modi in cui mostriamo di sentire quello che proviamo nelle situazioni sociali, nonché i modi in cui facciamo attenzione, classifichiamo e spieghiamo a noi stessi ciò che effettivamente sentiamo. La sociologia delle emozioni costituisce quindi un completamento e un approfondimento delle teorie sul modo in cui le persone pensano o agiscono (ivi, p. 19). Le emozioni vengono studiate ed esaminate attraverso approcci sociologici differenti, a seconda del tipo di corrente che si decide di sposare; tra queste si ricorda il filone culturale (detto anche drammaturgico) del quale fanno parte Goffman e la Hochschild. Qui le emozioni sono considerate come inserite all’interno di un contesto culturale che le norma e che ne determina le relazioni tra gli appartenenti, relazioni che si strutturano secondo codici e regole ben definiti. L’approccio rituale, invece, evidenzia il potere delle emozioni di creare integrazione sociale all’interno dei gruppi. La corrente interazionista simbolica, si caratterizza per concepirle come determinanti nella costruzione dell’identità dei soggetti, ma l’aspetto più rilevante di questo approccio, è il considerarle significative solo all’interno di un’interazione con altri. La teoria dello scambio, invece, concepisce le emozioni come mezzi per 79


esercitare un potere e, quindi, rilevanti anche per mantenere un controllo all’interno della società. Le ultime due correnti sono quella strutturale, che vede le emozioni come fenomeni strettamente legati alla biologia, presenti universalmente in tutti gli esseri viventi e determinate da fattori biologici, e quella evoluzionista, nella quale le emozioni sono lo strumento per un’analisi delle società e degli individui, in contesti ed epoche che si modificano rapidamente (Cerulo, 2009, pp. 28-29). Durante tutta la sua carriera, la Hochschild, studia da un punto di vista sociologico le emozioni e i sentimenti; entrambi vengono esaminati come elementi che plasmano la realtà sociale entro cui gli individui si trovano a dover vivere e a doversi relazionare tra loro. Secondo la sociologa statunitense, lo studio delle emozioni assume maggiore importanza se si presta attenzione al fatto che esse sono parte della vita quotidiana di tutti gli individui e che sono presenti in tutti gli ambiti, anche quando si procede nel tentativo di ignorarle, in realtà, esse non cessano la loro influenza sull’uomo (Hochschild, in Cerulo, 2013, pp.14-15).24 Prima di introdurre nello specifico i concetti di emozione, di lavoro emotivo e quello di sentimento, intendo concludere riprendendo letteralmente quanto scritto da Cerulo ne Il sentire controverso (2009):

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Arlie Russell Hochschild è una sociologa americana di grande rilievo per gli studi contemporanei. È docente emerito presso l’Università di Berkeley in California. È grazie ai suoi studi sulle emozioni e sui sentimenti, che ella vede come strumenti di potere e di affermazione sociale, oltre ad essere mezzi per comprendere i legami all’interno dei contesti sociali, che si deve l’avvio della sociologia delle emozioni.

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È chiaro che, essendo queste categorie idealtipiche, spesso tali approcci risultano intrecciati nell’analisi della realtà sociale. A mio parere, concordando con l’interpretazione sociale delle emozioni, processi emozionali e processi sociali non costituiscono differenti sfere di realtà: il sociale, infatti, è intessuto di emozioni e noi tutti siamo attori emozionali, ossia soggetti che mediano continuamente, nella gestione delle loro pratiche quotidiane, tra emozione e ragione […] (ivi, p. 29). 2.7.2. DEFINIRE IL CONCETTO DI EMOZIONE Arrivati a questo punto della trattazione, appare appropriato dare una definizione di emozione, risulterebbe incompleto un lavoro sulla narrazione di sé in una condizione di sofferenza, se non si desse un degno spazio alle emozioni, che abbiamo detto essere parte della vita dell’individuo. L’emozione è, dunque, uno stato di breve durata che agisce nella mente e nel corpo dell’essere umano, essa, inoltre, giunge in risposta ad uno stimolo dell’ambiente circostante o da un altro essere umano, ovvero ad un impulso che proviene dall’esterno (Cerulo, 2009, p. 22). Altra caratteristica delle emozioni, è la loro capacità di palesarsi anche quando colui/colei che le prova si impegna in ogni modo nel tentativo di sopprimerle: una persona può sforzarsi di non rendere noto quello che è il suo vero sentire interiore in un momento di difficoltà o quando questo non è concesso, ma le sensazioni corporee che egli si troverà a provare non potranno essere né controllate né bloccate (sudorazione delle mani per situazioni di imbarazzo o disagio, palpitazioni cardiache per momenti di forte gioia o di ansia) (ivi, p. 23). 81


Le emozioni sono caratterizzate dalla socialità, sono inserite all’interno del contesto nel quale una persona vive e sono profondamente influenzate da esso, per questo motivo, si è soliti definire le emozioni come prodotti "culturalmente condizionati". Infatti: In base al contesto in cui sono cresciuto e vivo avrò imparato specifici modi e forme di manifestazione emozionale, nonché capacità di comprendere i linguaggi emotivi che prendono forma nelle interazioni sociali. Ad esempio, se sono nato e cresciuto in Italia, saprò bene che nel corso di un rito funebre dovrò mostrarmi alquanto triste […] al fine di trasmettere ai parenti del defunto la mia condivisione emotiva con il loro stato d’animo; […]. È la cultura del luogo a imporre tali «prescrizioni emotive», pena l’essere etichettati come strani, diversi, devianti, quando non pazzi, il che significherebbe, probabilmente, una lenta emarginazione dalle cerchie sociali di appartenenza e una perdita del prestigio sociale eventualmente costruito (Cerulo, 2015, p. 15). Vivere all’interno di una data società significa, tra le altre cose, imparare anche a controllare le emozioni, prestando attenzione affinché la loro manifestazione avvenga nei modi culturalmente accettati. Non è solo il contesto culturale di riferimento a normare in un certo senso le emozioni, bensì anche le relazioni con gli altri le influenzano. L’espressione delle emozioni cambia nel corso della storia dal momento che anche le pratiche relazionali nelle diverse società si modificano. In ultimo, è opportuno ricordare due funzioni che le emozioni svolgono: cognitiva e sociale. La prima consente di ripensare le azioni dell’individuo nella società e quelle compiute in 82


relazione agli altri, le funzioni sociali, invece, fanno in modo che le emozioni creino valori e aumentino il sentimento di appartenenza al gruppo (ivi, p. 16). Ciò che ho tentato di fare fino ad ora, è tracciare le caratteristiche principali delle emozioni da un punto di vista sociologico, ma quello che manca è dare loro un nome, capire, cioè, quando se ne parla, a che cosa si fa riferimento concretamente. Gli esperti del settore riconoscono l’esistenza di quattro emozioni principali, dall’incrocio delle quali derivano tutte le altre e sono: felicità, rabbia, tristezza, paura. Esistono, dunque, le emozioni positive che sono fonti di serenità e armonia con il mondo per chi le prova, consentono la creazione di legami positivi con gli altri; quelle negative, invece, risultano distruttive, sia da un punto di vista relazionale con l’esterno, sia verso se stessi e possono culminare con forme di violenza. La classificazione in positive e negative è sempre parziale, essa risulta condizionata culturalmente; ciò che viene definito positivo o negativo, non è detto che sia inteso allo stesso modo in contesti differenti (Cerulo, 2015, p. 25). Un altro aspetto che reputo interessante della teoria sociale delle emozioni sono le regole di espressione e il lavoro emotivo. Quando si parla di lavoro emotivo, emotion work, si fa riferimento ad un’azione compiuta intenzionalmente dall’individuo al fine di manifestare e sentire le emozioni che un dato contesto sociale richiede. Il lavoro emotivo corrisponde, quindi, «all’atto del provare e non al risultato», esso si distingue in due azioni: l’evocazione e la soppressione. La prima si concretizza nel mettere in atto un comportamento, per far sì che all’interno del soggetto si manifestino le emozioni che il contesto 83


richiede in un dato momento; la soppressione, invece, tende ad eliminare le emozioni che distolgono l’attenzione del soggetto dalla situazione nella quale si trova in un dato momento (ivi, p. 20). Il lavoro emotivo può essere di due tipi, vale a dire, deep acting (lavoro emotivo in profondità), quando per modificare il sentire si ricorre a cambiamenti importanti che portano alla modificazione fisica o mentale, affinché determinate emozioni affiorino per essere in linea con il contesto sociale. Esiste, inoltre, il surface acting (lavoro emotivo superficiale) che consiste in un cambiamento delle emozioni provate che procede dall’esterno verso l’interno; il soggetto compie lo sforzo di assumere l’atteggiamento tipico che si tiene quando si prova una determinata emozione richiesta in un dato istante (ibidem). Va precisato, infine, che fare lavoro emotivo o emozionale, non è sinonimo di repressione delle proprie emozioni, reprimerle significa trattenerle o evitarle; lavorare su di esse, invece, si riferisce «[…] all’atto di evocare o dare forma […] (ad) un sentimento» (Hochschild, in Cerulo, 2013, p. 57). Quanto detto, conduce ad introdurre il concetto di individuo come "soggetto senziente" (Cerulo, 2015, p. 20). Egli è consapevolmente in grado di provare emozioni differenti a seconda del contesto o della situazione nei quali è inserito, quindi è un atto volontario. Il soggetto senziente è colui che sa mediare tra le emozioni che una data situazione richiede di manifestare, ma al tempo stesso è consapevole su quello che è il sentire interiore. Egli è, quindi, edotto che le emozioni che prendono forma dentro di sé, devono uniformarsi alle regole del sentire che impone il contesto culturale nel quale egli vive e si relaziona (ivi, p. 21). 84


Assumere un atteggiamento che non presta attenzione alle regole del sentire, non uniformandosi a ciò che la società impone di manifestare, conduce ad un rischio di non poco conto per il soggetto, cioè l’etichetta di «deviante emozionale», colui che non si conforma, che non è in linea con le emozioni accettate (ivi, p. 22). È importante, allora, specificare che queste regole indicano cosa è appropriato provare in una determinata situazione sociale, mentre quelle definite display rules (regole di espressione) mostrano come esprimere queste emozioni quando si è di fronte ad un’interazione con l’altro. Attraverso il lavoro emotivo, un individuo si impegna a manifestare le emozioni che sono ritenute consone alla situazione (ibidem). Quanto detto apre ad una riflessione che i sociologi delle emozioni, ma anche molti altri prima di loro, fanno sui rischi ai quali si va incontro qualora si decida di manifestare le proprie emozioni, non curandosi delle norme di contesto o situazionali. In realtà, secondo intellettuali come Simmel e Bauman, l’individuo della società contemporanea non riesce in questa impresa, ma oltre a non essere in grado di manifestare le proprie emozioni, risulta immerso nello scorrere frenetico e inesorabile della modernità, al punto di non riuscire a riflettere neanche su di esse. Il risultato è quello che Simmel definisce «individuo blasé», sottoposto a numerosissimi stimoli nella società, da aver perso la capacità di ragionare sulla propria interiorità. Questo individuo frutto della modernità, è indifferente agli stimoli, ha una sensibilità attenuata, ovattata, è immerso nelle relazioni, senza curarsi del loro valore (Simmel, 1995, in Santambrogio, 2011, p. 111). Il controllo delle emozioni e la scarsa capacità di fermarsi a riflettere su di esse, trovano spazio in questo lavoro, sia 85


per quanto riguarda l’importanza di esprimere le emozioni degli utenti che accedono ai servizi di salute mentale, sia per i professionisti che vi operano. 2.7.3. SENTIMENTI Dopo aver descritto in maniera sommaria le caratteristiche principali delle emozioni (molto altro si potrebbe dire per approfondire il tema, ma si rischierebbe di togliere spazio alla ricerca che è il focus di questo lavoro), è opportuno specificare il concetto di sentimento. I sentimenti si distinguono dalle emozioni perché, a differenza di queste ultime che sono rapide e il soggetto le vive all’improvviso spesso con una consapevolezza limitata, essi durano di più e consentono di prendere coscienza di ciò che si prova (Cerulo, 2009, pp. 30-31). Quando si vive un’emozione, si è soliti fare fatica nel raccontarla, il sentimento vede il soggetto meno in preda allo sconvolgimento emotivo e permette di "mentalizzare" quanto evocato da un certo stato emotivo. A tal proposito Cerulo scrive: A mio parere entrambi, emozioni e sentimenti, sono forme di organizzazione dell’esperienza, ma penso che collegarli attraverso l’esempio della narrazione o della "raccontabilità", così come suggerisce Pakman, sia un intelligente modo per comprenderli meglio. È come se attraverso l’emozione dessimo uno sguardo fugace al mondo che ci circonda; attraverso il sentimento, invece, iniziamo a venirci a patti e a riflettere sulle sue peculiarità (ibidem). Detto questo, quindi, si è di fronte ad un sentimento quando esso ha una rilevanza da un punto di vista sociale, 86


ha una considerevole durata nel tempo ed è possibile darne una descrizione. Quando in una persona ricorre più e più volte un’emozione, il sentimento corre in soccorso e fa in modo che quella data emozione venga socializzata, scendendo a compromessi con essa, imparando a conviverci (ivi, p. 32). Quello che differenzia le emozioni da i sentimenti è la capacità di instaurare dei legami più duraturi, capacità che è propria dei secondi; entrambi restano dei mezzi di comunicazione all’interno della società e nelle relazioni. Per questo non dovrebbero essere ignorati in nessuna fase della vita di una persona (ivi, p. 33). Quello che si è cercato di fare fino ad ora, è una panoramica introduttiva dei concetti che saranno ripresi in seguito e che hanno suscitato il mio interesse. Di seguito, presento la ricerca svolta da un punto di vita metodologico e dei contenuti.

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CAPITOLO III Strumenti e metodi di una ricerca che emoziona

Premessa Gli studi sul campo delle illness narratives, vengono fatti risalire alla scuola antropologica e psichiatrica di Harvard negli anni Ottanta con le opere di Arthur Kleinman e Byron Good. Negli anni a seguire, sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti, anche le scuole di sociologia avviano le ricerche e gli studi in quest’area (Nigris, in Lanzetti C., Lombi L., Marzulli M., 2008, pp. 131132).25 Nelle metodologie adottate vi sono dei tratti in comune, tra i quali la centralità della persona che vive l’esperienza di malattia, una sorta di testimone privilegiato e l’attenzione al contesto all’interno del quale si svolge l’esperienza. Oltre a questi, vi sono le ragioni che il soggetto attribuisce alla propria condizione ed il significato che alla stessa danno i familiari. Inoltre, sulle modalità di conduzione delle indagini, la metodologia prevede delle interviste che siano dei canovacci sui quali consentire lo sviluppo di una narrazione, una sorta di racconto del racconto (ibidem). La narrazione è, dunque, la guida delle interviste, essa consente libertà di esprimersi e di spiegare il proprio vissuto, senza dover rimanere all’interno di margini stabiliti dal ricercatore. 25

Daniele Nigris è docente di Epistemologia Sociale, Metodologia di Analisi Sociale e Principi e Fondamenti del Servizio Sociale presso l’Università degli Studi di Padova. Si occupa di ricerca nell’ambito delle esperienze di malattia.

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Una metodologia simile è stata utilizzata per svolgere la mia breve ricerca. In questo capitolo chiarisco gli strumenti utilizzati per l’indagine, i luoghi presso i quali ho svolto l’osservazione partecipante e i tempi necessari per il reperimento delle informazioni e per la somministrazione delle interviste. Analizzerò, inoltre, le difficoltà incontrare sia per riuscire a svolgere i colloqui con i professionisti, sia nel mettere assieme gli spunti di riflessione data la presenza, quasi costante, di elementi di disturbo nel setting. 3.1. L’IDEA DI PARTENZA E LA METODOLOGIA UTILIZZATA PER LA RICERCA

La ricerca che ho condotto e della quale riporto le principali riflessioni emerse, rientra nella categoria delle indagini qualitative, nelle quali, a differenza di quelle quantitative, non si lavora su campioni statistici. La mia curiosità era quella di capire se, nell’area dei servizi socio-sanitari, impegnati nella cura e nella riabilitazione, vi fossero professionisti consapevoli di operare un mascheramento emotivo, ma se, al tempo stesso, fossero soggetti "senzienti", dotati, cioè, di quella capacità di riflessione su se stessi che Martha Nussbaum definisce "intelligenza emotiva" (2004). A seguito di un appassionante periodo di tirocinio presso l’Ufficio di Coordinamento dei Servizi Sociali della U.S.L. Umbria 1, tra le numerose attività svolte, sono entrata in contatto anche con il Dipartimento di Salute Mentale. Questo mi ha permesso di scoprire un ambito per me nuovo, dove il ruolo dell’assistente sociale si trova a stretto contatto con quello delle professioni 89


sanitarie, in maniera maggiore di quanto non avvenga per altre aree di intervento. Questo percorso ha fatto sì che restringessi il campo di interesse alla salute mentale, e che applicassi il tema del lavoro sulle emozioni ai professionisti di questa area e agli utenti, con un’attenzione particolare al ruolo del Servizio Sociale Professionale. Sono stata quindi io, attraverso le riflessioni e i miei interessi, a creare i dati sui quali redigere la tesi. Per conoscere le iniziative che, nell’ambito della salute mentale, aiutano ad esprimere il vissuto emotivo degli utenti, mi sono informata sulle varie attività presenti sul territorio umbro che avessero a che fare con l’arte, la creatività, la scrittura. Dati i numerosi progetti presenti in strutture residenziali e semi-residenziali, ho scelto di concentrare la mia attenzione su tre di essi: scrittura, pittura e teatro. Per il laboratorio di scrittura sono stata indirizzata dal responsabile della Cooperativa Sociale A.S.A.D. di Perugia, Emanuele Olmetti, e dalla responsabile della stessa per l’ambito del Perugino, Lorella Florenzano, verso una delle strutture da essi accreditata, la Comunità Terapeutica "Torre Certalda" di Umbertide (PG). Per quanto concerne le altre due attività che ho potuto conoscere da vicino, mi è stato suggerito di svolgere l’osservazione partecipante presso il Circolo Ricreativo "Noi Insieme", afferente al Centro di Salute Mentale di Magione (Dipartimento di Salute Mentale-Asl 1 Umbria) che lo gestisce in appalto con la Cooperativa Sociale POLIS, della quale fa parte anche l’Unità di Convivenza di Castel del Piano (PG). I testimoni privilegiati sono rappresentati da tre medici psichiatri, da quattro assistenti sociali e da tre educatori che lavorano nell’ambito della salute mentale. 90


Le psichiatre coinvolte sono, Nicoletta Marinelli e Dalila Battistini, le due Responsabili dei Servizi presso i quali ho seguito i laboratori di espressione artistica, rispettivamente il Circolo Ricreativo di Magione e la Comunità Terapeutica di Umbertide, ed Elisabetta Rossi, conosciuta durante il tirocinio, che è la Responsabile della Struttura Complessa per la Salute Mentale dell’Area del Perugino della U.S.L. Umbria 1. Le assistenti sociali, invece, sono sia quelle delle due Strutture presso le quali ho l’osservazione partecipante, più altre due che lavorano presso il C.S.M. di Perugia Centro e quello di Ponte San Giovanni, anch’esse incontrate durante il tirocinio al Coordinamento della U.S.L. L’idea iniziale, era quella di coinvolgere il maggior numero di assistenti sociali attive nella salute mentale in Umbria, per questo sono andata oltre quelle della Comunità Terapeutica e del Circolo, ma non tutte hanno dato la disponibilità ad essere intervistate. Nel campione, a parte gli educatori, vi sono solo donne perché, gli psichiatri interpellati, a causa dei numerosi impegni clinici, non hanno potuto o voluto dare la disponibilità. Oltre questo, in un caso, uno di loro, ha preferito non rispondere al mio questionario giudicando alcuni quesiti troppo delicati per poter essere discussi con un esterno al lavoro clinico. Le assistenti sociali, invece, sono tutte donne perché nei servizi interpellati, non vi lavorano uomini assistenti sociali.26 26

Avrei voluto conoscere anche il punto di vista delle psicologhe e degli psicologi su questo tema, ma non sono riuscita ad inserirli nella ricerca. Presso la Comunità Terapeutica di Umbertide non era stato ancora assegnato l’incarico ad uno psicologo nel periodo in cui stavo svolgendo l’indagine, presso il Circolo Ricreativo di Magione, invece, la psicologa è presente, ma si occupa principalmente di

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Gli educatori che organizzano e conducono i laboratori sono, invece, tre uomini. Nel complesso, sono dieci i professionisti che hanno partecipato; a loro vanno aggiunti gli utenti (adulti e giovani adulti dai 25 ai 65 anni) che prendono parte a queste attività. Con questi ultimi, ho svolto dei colloqui informali durante i laboratori, che sono stati inseriti nei diari di campo. Non sono riuscita a relazionarmi in egual misura con ognuno di loro perché, al di là delle problematiche individuali, non sempre una persona esterna, in un gruppo ben strutturato da tempo, riesce ad entrare in contatto con tutti. Da un punto di vista tecnico, il campione scelto è quello degli informatori privilegiati, nel quale il ricercatore non ha un numero di soggetti da coinvolgere stabilito, ma individua quelli utili alla sua indagine in base a quanto essi riescano a rispondere agli obiettivi di partenza. Il metodo che ho scelto di utilizzare e che era anche quello più congruo agli obiettivi della mia ricerca, è stato quello dell’osservazione partecipante per i laboratori di pittura, scrittura e teatro, e del colloquio semi-strutturato, per quanto riguarda l’indagine sul rapporto con le emozioni. Per ciò che concerne i laboratori, in un primo momento, vi ho preso parte come osservatrice e questo mi ha permesso di conoscere il gruppo e il metodo di lavoro. In seguito, ho partecipato alle attività in prima persona, seguendo le istruzioni degli operatori che li conducevano e degli utenti che mi guidavano in questa esperienza del tutto nuova. riabilitazione nell’età evolutiva. I gruppi di psicoterapia per gli utenti del C.S.M. che prendono parte alle attività del Circolo, sono tenuti dalla psichiatra Nicoletta Marinelli.

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Il mio ruolo e le ragioni di studio che mi avevano indotto ad inserirmi in quei gruppi, sono state palesate fin dall’inizio a tutti i partecipanti ai laboratori, per chiarezza nei confronti dei gruppi. La mia presenza è stata accolta positivamente in tutti e tre i laboratori, anche se, quello di pittura, ha rappresentato l’occasione migliore per poter instaurare delle conversazioni con gli ospiti del Circolo, conoscerli e discutere insieme di emozioni, delle relazioni con i medici e con i farmaci. La ragione va ricercata innanzitutto nelle dimensioni ridotte del gruppo, sei persone al massimo (otto se contiamo l’operatore e me), e nella capacità dell’operatore Francesco Ticchioni di stimolare gli ospiti a parlare di sé, della loro giornata, delle novità nelle loro vite, rendendomi facile l’inserimento nelle conversazioni. Anche gli utenti, in alcuni casi, sono stati intervistati, ma in maniera del tutto non strutturata e utilizzando lo schema dell’intervista libera, durante la quale mi limitavo ad allacciarmi ad un discorso aperto da Francesco, Pietro o Amedeo (educatori di pittura, teatro e scrittura) per introdurre una domanda sul tema della ricerca e ascoltare ciò che emergeva. 27 Durante la ricerca, un ruolo chiave lo hanno avuto i professionisti che mi hanno introdotto all’interno dei laboratori: essi sono stati per me dei "mediatori" hanno, cioè, facilitato il mio contatto con gli utenti e con gli educatori dal momento che erano, in tutti i casi, i responsabili e coordinatori della struttura/ente nella/nel quale ero inserita (Cardano, 2011, p. 176),

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L’analisi delle conversazioni emerse durante i laboratori e le conclusioni che ne ho tratto sono riportate nei Capitoli 4 e 5.

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Prima di passare alla descrizione dei luoghi nei quali è avvenuta la ricerca, non posso non menzionare due strumenti che sono stati fondamentali in questo lavoro: le notazioni rapide e le note etnografiche. Nella prima tipologia rientrano quelle frasi brevi, appunti, annotazioni che il ricercatore prende durante il lavoro sul campo, di norma egli porta con sé un piccolo quaderno e procede alle notazioni man mano che incappa in elementi che devono essere ricordati (ivi, p. 132). Questo tipo di registrazione dei dati, nel mio caso, necessitava di un luogo appartato per poter essere messa in atto, dal momento che osservare e scrivere quando si è in una stanza durante un laboratorio di teatro o di pittura, rischia di dare a chi è con noi l’impressione di essere tenuti sotto controllo o di essere spiati. Questo può rendere la relazione difficoltosa e schiva. Annotare ciò che ritenevo utile alla riflessione, è stato più facile, invece, durante i laboratori di scrittura: qui tutti i partecipanti erano invitati a scrivere individualmente e poi, se volevano, potevano condividere quanto prodotto. In quelle occasioni, mentre mi impegnavo nell’attività come tutti gli altri, appuntavo ciò che ritenevo sarebbe stato di aiuto al mio lavoro. L’altro strumento che mi ha accompagnato è stato il "diario di campo", ovvero, quelle che, in termini tecnici, sono le note etnografiche. Queste, a differenza delle notazioni, vengono redatte quando il ricercatore non è sul campo, ma in fasi successive, nel mio caso, quando tornavo a casa (ivi, p. 137). Come quando si procede nella stesura di un articolo di giornale, anche le note etnografiche devono seguire la regola delle "wh question" (Quando? Dove? Chi, Che cosa? Perché? Come?) ed è buona prassi arricchire il diario con il più alto numero di dettagli e informazioni 94


possibili, come se si stesse scrivendo la sceneggiatura di un film (ivi, p. 138). Nelle mie note, mi accorgevo di fare una seconda osservazione oltre a quella appena terminata sul campo, avevo modo di meditare su quanto emerso e su quello che avrei voluto approfondire maggiormente. Inoltre, scrivere mi dava prova della qualità delle relazioni che riuscivo ad instaurare con le persone che incontravo, cosa funzionava nel mio modo di pormi e cosa avrei dovuto rivedere. Quello che mi preme dire è che, come in tutte le osservazioni, la mia è soggettiva, è il mio sguardo verso questa tematica. Se dello stesso tema avesse trattato un altro osservatore, con molta probabilità, sarebbero emersi spunti di riflessione differenti.28

3.2. I LUOGHI E I TEMPI DELLA RICERCA La Comunità Terapeutica "Torre Certalda"29 La Comunità di Umbertide (C.T. sta per Comunità Terapeutica) è una struttura sanitaria residenziale, istituita nel 1997 con l’obiettivo di accogliere persone affette da patologia psichiatrica ed offrire loro assistenza 24 ore su 24, quindi con operatori presenti giorno e notte. La Comunità è in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, è accreditata dalla Regione Umbria (D.D. n. 5854 del 22/06/2007) ed è una delle strutture della Cooperativa Sociale ASAD di Perugia. 28

Tutti i diari di campo che ho redatto durante la ricerca sono inseriti negli Allegati di questa tesi. 29 Torre Certalda: http://www.torrecertalda.it.

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L’obiettivo principale è quello di promuovere l’integrazione sociale delle persone, attraverso una presa in carico che favorisca lo sviluppo o la ri-acquisizione delle autonomie e delle capacità perdute. Riattivare i nodi della rete e le risorse che l’utente già possiede, serve a creare collegamenti nuovi, allargando la dimensione sociale e incoraggiando la creazione di nuove relazioni. La costruzione dell’identità personale, la conquista delle capacità di scegliere, di comunicare con il mondo esterno, l’allontanamento graduale dalle istituzioni, dalla famiglia, per perseguire un’autonomia è quello che gran parte dei progetti degli utenti in carico prevede. Al tempo stesso, i professionisti che ho incontrato durante le mie visite, ci tengono a precisare, che essi intendono offrire la possibilità di scegliere se continuare la permanenza in Struttura oppure, una volta raggiunta la giusta condizione, uscire e cercare di costruire la propria vita autonomamente. Non sempre, chi è affetto da una patologia psichiatrica importante vive il cambiamento, l’uscita dal contesto residenziale, come fattore del tutto positivo, poiché, a volte, può contribuire al riacutizzarsi del problema. Per questo non si esclude la possibilità per l’utente di scegliere. L’ingresso in C.T. avviene per mezzo di enti istituzionali quali, il Dipartimento di Salute Mentale (D.S.M.), il Centro di Salute Mentale (C.S.M.), i Comuni, il Tribunale e i servizi per chi ha una dipendenza da sostanze stupefacenti o da alcol, rispettivamente SERT e GOAT, o direttamente dai cittadini. La domanda di inserimento è accompagnata da una relazione scritta di presentazione della situazione da parte del Servizio inviante. A questo punto, l’équipe della Comunità si occupa di esaminare il caso, comprendere se la struttura risulta adeguata al tipo di intervento di cui 96


necessita la persona e se questa presenta le caratteristiche adeguate per vivere la propria quotidianità con chi è già residente. L’inserimento, ove possibile, avviene in maniera graduale, contrattando con l’utente le modalità di accesso, fino ad arrivare al completo soggiorno. La retta è variabile in base al progetto di ciascun residente e al tipo di intervento terapeutico di cui usufruisce. Per la tipologia di utenti che accoglie, la struttura è considerata di tipo 2, vale a dire, destinata a persone con patologia psichiatrica grave, con storia di malattia relativamente recente e anagraficamente giovani. Questo quadro comporta un periodo di trattamento intenso che non può esplicarsi all’interno dell’ambiente domestico quotidiano, ma necessita di un periodo in Struttura, che generalmente va da un minimo di 12 mesi e può estendersi fino a 24, o prolungarsi ulteriormente a seconda dei casi. Gli utenti che arrivano nella Comunità vengono presi in carico da tutta l’équipe che, insieme a loro, progetta un intervento personalizzato, tenendo conto delle competenze individuali e dei livelli di autonomia. L’équipe conta su numerosi professionisti, alcuni dei quali hanno accettato di essere intervistati da me, e sono: il responsabile della struttura, medici psichiatri, assistente sociale, psicologo, infermieri professionali, educatori professionali, operatori di comunità, personale ausiliario. Le attività ricreative che vengono organizzate, sono finalizzate alla creazione di un ambiente che faciliti la relazione tra chi si trova a dover abitare insieme per un periodo di tempo, favorendo l’instaurazione di un buon rapporto anche con il personale socio-sanitario. La settimana è scandita da numerose iniziative, quali: cinema, teatro, cura dell’orto e delle piante che 97


circondano lo stabile, musica, attività fisica, scrittura e giornalino. Questi laboratori contribuiscono a creare momenti di conoscenza e integrazione tra gli ospiti, favoriscono le relazioni sia tra loro che con il personale e fungono da momenti di svago per chi vive situazioni di sofferenza. Vengono, inoltre, organizzate attività esterne con le risorse presenti nel territorio, programmi di formazione per inserimento lavorativo degli utenti, soggiorni estivi e invernali ed eventi che si estendono a tutta la cittadinanza. Vi sono anche spazi di condivisione tra utenti e professionisti, ad esempio il gruppo di ascolto mensile, durante il quale la psichiatra e l’assistente sociale, discutono con le persone in carico dei progetti terapeutico-riabilitativi e della vita all’interno della C. T. I prodotti, frutto dell’impegno di residenti e operatori, vengono messi in mostra in occasioni pubbliche, mediante l’organizzazione di eventi che promuovono l’inclusione sociale e la conoscenza della realtà che vivono gli utenti della Comunità. Tra tanti, cito la mostra espositiva dei prodotti in ceramica organizzata nel giugno 2010 e la pubblicazione di un libro di racconti autobiografici redatti nell’ambito del laboratorio di scrittura dal titolo Permettete che mi presenti. Racconti di una comunità. Negli ultimi anni, non sono mancate occasioni di condivisione con la comunità locale delle attività che si svolgono nella quotidianità degli utenti. L’obiettivo del personale, è che per la maggior parte degli ospiti, la permanenza in Comunità possa restituire un’autonomia che consenta loro di poter progettare gradualmente una vita semi-indipendente. Per accompagnare in questo percorso i residenti, uno dei progetti che Torre Certalda segue, è quello dell’Unità di Convivenza di Via Gagarin, sempre ad Umbertide. 98


Questa Struttura è a bassa intensità terapeuticoriabilitativa e prevede la presenza di operatori professionali per 8 ore, nei momenti più significativi della giornata. L’Unità di Convivenza, fa parte del progetto di uscita dalla C.T. e di messa in pratica delle abilità e delle autonomie che l’ospite ha potuto acquisire grazie al suo impegno e a quello dei professionisti che lo hanno accompagnato, cercando di costruire insieme il progetto individualizzato e di cura. Il Circolo Ricreativo "Noi Insieme" L’altro luogo della ricerca è il Circolo "Noi Insieme" che si trova a Magione, in un edificio attiguo al Centro di Salute Mentale. Il Circolo è uno spazio che esiste dal 2010 ed è un Servizio afferente al Centro di Salute Mentale di Magione che lo gestisce in appalto con la Cooperativa Sociale POLIS di Perugia. Gli utenti che hanno accesso alle attività sono in carico al C.S.M. e vivono sul territorio del Trasimeno, o a Castel del Piano (PG) presso l’Unità di Convivenza (U.D.C.) "Il Lago" che è sempre una Struttura della POLIS. L’età dell’utenza che prende parte alle attività va dai 25 ai 65 anni, sia uomini che donne. Nel corso della settimana, i laboratori terapeuticoriabilitativi sono numerosi: lunedì pittura, martedì mattina attività manuali e creazioni in carta con la tecnica del quilling,30 martedì pomeriggio c’è il laboratorio di 30

Il quilling è una forma d’arte che consiste nel creare dei piccoli rotolini di carta colorata, modellarli e incollarli per realizzare delle decorazioni floreali o con i motivi più vari. Chi prende parte a questa attività del Circolo, si esercita nel realizzare biglietti di auguri, calamite, partecipazioni per matrimoni e bomboniere. Nel Capitolo IV ho inserito alcune immagini di questi lavori.

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cucina, mercoledì mattina sempre attività manuali e lo stesso anche il giovedì mattina. Il giovedì pomeriggio c’è il teatro, venerdì cinema e attività manuali per la realizzazione di bigiotteria. Il fine settimana, circa una o due volte al mese, vengono organizzate delle uscite che possono essere gite di intere giornate, oppure pomeriggi al cinema. Inoltre, una volta a settimana, due infermiere del C.S.M., portano gli utenti in giro per il paese per l’attività di walking. Durante il laboratorio di cucito vengono utilizzati dei materiali di recupero che l’Azienda Brunello Cucinelli fornisce al Circolo. Due volte l’anno i prodotti tessili, quelli in carta e i quadri della pittura, vengono esposti e messi in vendita. Il risultato finale del laboratorio di teatro è, di solito, un film che viene proiettato al cinema, in questa occasione vengono invitati familiari, amici e chiunque voglia partecipare.31 I partecipanti alle attività sono abbastanza numerosi, ma ben distribuiti. Senza esserne completamente certa, il laboratorio di teatro mi sembra essere quello con l’affluenza maggiore. L’intento di tutte le iniziative è quello di impegnare le persone in attività manuali, ma di unire a questo la creazione di gruppi di condivisione attraverso i quali instaurare dei legami tra i partecipanti che incoraggino la relazione e la condivisione, sia dei momenti di difficoltà che di quelli più felici. Osservando e prendendo parte ai laboratori del Circolo per un periodo più lungo rispetto a quello presso la Comunità di Umbertide, ho potuto "toccare con mano" la 31

Le locandine degli eventi organizzati dal Circolo sono presenti nel Capitolo IV.

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positività del clima che le persone vivono in questo spazio e la forza dei legami che, non di rado, si volgono in veri gruppi di auto aiuto. Questo è stato possibile mediante lunghe conversazioni che ho avuto con i partecipanti, essi si sono più volte aperti nel descrivere l’importanza che riveste per loro questo luogo. Agli aspetti positivi dei laboratori da un punto di vista relazionale ho dedicato il Capitolo IV.

3.3. I TEMPI DELLA RICERCA Il reperimento dei materiali per condurre questa tesi è iniziato a giugno 2017, durante il periodo di tirocinio. Qui ho conosciuto molte delle persone che ho intervistato ed ho potuto avere una prima panoramica del lavoro degli assistenti sociali all’interno del Dipartimento di Salute Mentale. A settembre 2017, ho iniziato a prendere accordi con la Comunità di Umbertide per i laboratori di scrittura. Ho conosciuto il personale e gli utenti a novembre ed ho preso parte ai laboratori di scrittura nel periodo dicembre 2017 - gennaio 2018. Quest’attività viene organizzata ogni quindici giorni, per cui, tra vacanze natalizie e impegni dello staff, la partecipazione si è ridotta a pochi incontri. Ho incontrato la Responsabile del Circolo di Magione a dicembre e ho iniziato a partecipare alle attività tra la fine di gennaio e il mese di febbraio 2018.32 32

I tempi per la partecipazione ai laboratori del Circolo sono stati dilatati per l’attesa dell’autorizzazione da parte della U.S.L. Umbria 1 dal momento che non è possibile, per un esterno, accedere all’interno di un servizio pubblico senza una copertura assicurativa. Con la mediazione di Patrizia Cecchetti tra l’Azienda Sanitaria e il

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I colloqui con i professionisti si sono svolti tra gennaio e febbraio 2018. 3.4. LE INTERVISTE E I TEMI PRINCIPALI 33 Come spiegato nella parte che riguarda la metodologia, le interviste che ho condotto sono state svolte seguendo un temario che faceva da guida. Per questa ragione l’intervista può essere considerata un colloquio semistrutturato, oltre alle domande pensate, infatti, man mano che la conversazione prendeva corpo, sono venute spontanee ulteriori questioni che, al momento della stesura, non avevo preso in considerazione. Prima di procedere ad ogni incontro, l’interlocutore è stato informato sul tema oggetto della ricerca, sulla suddivisione del temario in tre parti e sull’utilizzazione delle informazioni per soli fini di studio. In alcuni casi, i professionisti hanno chiesto che fosse loro inviato anticipatamente il materiale, per poterlo visionare e capire se accettare o meno di partecipare. Ho chiesto ad ogni testimone il consenso a poter inserire il nome e cognome all’interno dell’elaborato e di utilizzare il registratore durante l’intervista. La maggior parte ha acconsentito ad entrambe le richieste, altri, invece, hanno preferito non comparire con nome e cognome e/o non essere registrati. Dipartimento di Scienze Politiche, sono riuscita ad attivare un secondo tirocinio formativo di un mese presso questo Ente. 33 Tra gli Allegati riporto il temario utilizzato nelle interviste con le psichiatre, le assistenti sociali e gli educatori che conducono i laboratori. Quella riportata è la versione standard, i quesiti che sono emersi al momento dei confronti con i professionisti sono riportati nei singoli colloqui.

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Alla fine di ogni colloquio, ho provveduto alla trascrizione delle interviste utilizzando appunti personali o il registratore. I temari che ho somministrato a psichiatre, educatori e assistenti sociali, erano suddivisi in tre parti. Di seguito ne elenco i punti principali: 1. Informazioni generali: nella prima parte, ho inserito dei quesiti attraverso i quali intendevo avere un quadro complessivo sulla Struttura/Ente nel quale il/la mio/a interlocutore/interlocutrice operava al momento dell’intervista e sulle patologie psichiatriche di cui erano affetti i pazienti. Queste informazioni sono state richieste non per avere un elenco preciso e completo dell’utenza in carico, ma giusto per chiarire l’area di intervento dell’intervistato. 2. Il rapporto del professionista con l’utente: l’importanza del racconto della storia di malattia ed il ruolo attivo della persona nel percorso di cura, sono i temi sui quali ho maggiormente focalizzato la mia attenzione. L’ascolto attivo e partecipe, le difficoltà nell’espressione delle emozioni, l’empowerment degli utenti, sono tutti argomenti oggetto di confronto con gli/le intervistati/e. Le informazioni che riguardano il modo di ascoltare la storia di malattia degli utenti, sono utili per capire se, nei Servizi in oggetto, si tiene conto realmente della storia di quelli che Tibaldi chiama "esperti per esperienza", secondo i principi dell’approccio narrativo. 3. Guarigione o la remissione in salute mentale: l’obiettivo era quello di comprendere se, nei professionisti intervistati, vi erano casi analoghi alla storia di Lia Govers o Ken Steele (ex uditori di voci, citati sovente da Tibaldi come esempi di storie di guarigione). Mi aspetto una definizione di guarigione 103


differente da quella generalmente intesa per altre problematiche, magari più vicina ad una condizione in cui la patologia è stabile e sotto controllo, piuttosto che una totale scomparsa del problema. 4. L’uso degli psicofarmaci: ai medici ho chiesto delle informazioni riguardo la sospensione della terapia farmacologica. Se è possibile, se non lo è, se a loro era mai accaduto di ritenere che un paziente potesse fare a meno dell’uso dei famaci giunto ad un certo punto del percorso di cura. 5. Rapporto tra "esperti per esperienza" ed "esperti per professione": sempre con i medici, mi sono voluta soffermare sulla difficoltà di stabilire un reale dialogo con il paziente, quindi, se è davvero così naturale scendere a compromesso con il sapere di chi vive la patologia psichiatrica, oppure no. In molti casi, l’utente psichiatrico, specie nei momenti di sofferenza più acuti, narra delle storie che non corrispondono alla realtà e neanche lontanamente ad una parte della sua vita. Volevo cercare di capire come si pongono i professionisti nei confronti di queste narrazioni e se, certe volte, l’affermazione dell’autorità dell’"esperto per professione", non sia necessaria per mantenere chiari e distinti i ruoli che, al di là del dialogo con i pazienti, devono comunque essere rispettati. 6. I laboratori: le informazioni sui laboratori presenti all’interno della Struttura/Ente presso la/il quale l’intervistato/a presta servizio, sono utili per inquadrare queste attività dal punto di vista degli obiettivi, delle tecniche utilizzate e degli aspetti positivi in termini di risultati. Agli educatori che mi hanno accolto all’interno delle loro attività, ho cercato di porre domande più tecniche sull’organizzazione, su come è nato l’incontro 104


tra la loro arte e la salute mentale e cosa avrebbero voluto migliorare del loro laboratorio. 7. Le assistenti sociali: alle assistenti sociali ho riservato dei quesiti volti ad analizzare le difficoltà, se presenti, nello svolgere il proprio lavoro in un ambiente con un importante presenza delle professioni sanitarie che, oltretutto, spesso rivestono anche i ruoli dirigenziali. Inoltre, ho discusso con le professioniste sul perché della loro scarsa partecipazione alle attività ricreative degli utenti in carico. Ero interessata a comprendere la ragione che induce le assistenti sociali ad un distacco per ragioni legate alla mole di lavoro, quindi la scarsità di tempo da dedicare ai laboratori, o se vi erano motivazioni differenti alla base. Un’altra domanda che ho voluto inserire, è legata al ruolo femminile della donna nelle professioni di aiuto. Nella seconda parte del colloquio l’oggetto di interesse non sono più gli utenti e il rapporto che hanno con chi li ha in carico, ma le emozioni dei professionisti dell’aiuto. Tre interrogativi vogliono indagare quanto l’intervistato/a si sente a rischio burnout, indipendentemente dalla risposta, ho chiesto di illustrare delle strategie per proteggersi dalla sindrome dell’operatore bruciato. Inoltre, ho inserito una domanda per verificare se all’interno dell’ambiente di lavoro fossero attivi gruppi di condivisione del vissuto emotivo per i professionisti (supervisione), infine, un quesito sull’ascolto attivo. Nella terza ed ultima sezione, chiedo di definire brevemente alcune emozioni e stati d’animo che vengono elencati, facendo riferimento alla professione e non alla sfera di vita privata della persona. Nel farlo, l’intervistato/a può citare uno o più casi concreti, oppure collegarsi alla professionale in generale. 105


Le parole da definire sono: gioia, senso di colpa, paura, solitudine, inadeguatezza, tristezza, frustrazione, rabbia e sono state riprese da un elenco presente nel testo di Christian Boukaram, precedentemente citato (Boukaram, 2012, pp. 30-31). La maggioranza schiacciante di emozioni negative non è casuale. Secondo il mio punto di vista, nelle professioni di aiuto, la tendenza a non riflettere sulle emozioni e impegnarsi nel pensare ad altro, è maggiormente frequente se si fa riferimento alle emozioni considerate "negative". Esse, per chi lavora a contatto con la sofferenza altrui, vengono ascoltate e vissute quotidianamente, ma non si è soliti riflettere su ciò che producono in chi le accoglie, si tende piuttosto a preferire momenti per sdrammatizzare. Per questo, ho voluto analizzare ciò che produce malcontento nei professionisti, ma anche incoraggiarli a dare un nome alle emozioni cosiddette "positive". 3.4.1. SETTING DISTURBATO E DATI CONDIZIONATI Le informazioni raccolte, sia durante le osservazioni partecipanti ai laboratori, sia attraverso i colloqui con i professionisti, risultano estremamente condizionate. Le psichiatre e le assistenti sociali, in particolare, nonostante i numerosi impegni, mi hanno ricevuta sul luogo di lavoro e questo ha comportato dei colloqui con molte interferenze e interruzioni. Le difficoltà erano aumentate quando alcune di loro non hanno autorizzato l’uso del registratore: il mio livello di attenzione doveva essere al massimo, affinché riuscissi a porre le domande, prendere appunti, ascoltare e riuscire a soffermarmi su temi che emergevano e che meritavano maggiore approfondimento. Inoltre, l’ingresso in stanza 106


di colleghi o utenti, i telefoni che squillavano frequentemente, rendevano il setting particolarmente inquinato da elementi di disturbo. Sono stata ricevuta in un periodo nel quale i Servizi erano impegnati con numerosi casi complessi e con emergenze con il reparto psichiatrico dell’ospedale di Perugia. Non è stato facile, né per i medici né per le assistenti sociali e, neppure per me, rimanere concentrate sull’intervista. Il clima e lo spazio più idoneo ad un colloquio sul proprio lavoro e sulle emozioni, è stato quello trovato con gli educatori che organizzano e conducono i laboratori: il Circolo prima che iniziassero le attività, un bar semi vuoto affinché si potesse conversare liberamente, o un’aula universitaria semi vuota durante la sessione invernale. Quando avevo la possibilità di utilizzare il registratore, riuscivo a prestare maggiore attenzione al linguaggio non verbale del mio interlocutore. Nella parte riguardante le emozioni, è stato interessante osservare la mimica, gli sguardi, il tono della voce cambiare in base all’argomento in esame. Tutta questa parte osservativa era indubbiamente più complessa quando l’intervistato non gradiva il registratore: lo sforzo maggiore è stato riuscire a mantenere la concentrazione sulle risposte, ma la parte osservativa di questa comunicazione ne ha, senza dubbio, risentito. Il poco tempo da dedicare al colloquio è stato un altro elemento che ha contribuito al condizionamento dei dati. Mi è capitato, specie con le psichiatre e le assistenti sociali, di concordare un appuntamento nella pausa pranzo, prima di riunioni di équipe, o alla fine della giornata lavorativa, oppure nell’orario di ambulatorio con 107


gli utenti. A questo proposito, ho dovuto inserire all’interno del temario, una stima approssimativa del tempo di risposta in ognuna delle sezioni. Questo elemento, se da un lato consentiva una durata accettabile dell’incontro, dall’altro, richiedeva da parte mia, un ulteriore sforzo nel cercare di focalizzare il fulcro della domanda, affinché l’intervistata si dilungasse meno possibile. Questo ha impedito l’approfondimento di temi che, invece, avrebbero meritato maggiore attenzione.

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CAPITOLO IV Esprimere le emozioni attraverso l’arte: i laboratori di pittura, scrittura e teatro

Premessa Dopo aver descritto gli strumenti metodologici utilizzati per questa ricerca, in questo capitolo presento i laboratori di espressione artistica ai quali ho preso parte come osservatrice partecipante Del resto, osservando, partecipando e cercando di interagire con gli utenti della salute mentale che ho incontrato, mi sono resa conto di quanto poco comunicativo possa essere un laboratorio, anche il meglio strutturato, se l’operatore, che di norma è sempre un educatore o un esperto esterno, non infonde la passione per l’attività al gruppo. Da, mi auguro, futura assistente sociale, mi rattrista il fatto che questa professione sia spesso relegata a svolgere colloqui conoscitivi, di aggiornamento e visite domiciliari, ma non prende quasi mai parte alle attività ricreative che, spesso, contribuisce ad organizzare. Per cercare di apprendere e conoscere alcune tecniche laboratoriali, agli inizi di dicembre 2017, mi sono recata a Torino nel complesso del Cottolengo, in occasione de La Festa delle Emozioni, organizzata da tutte le associazioni che lavorano in questa Struttura con gli utenti che afferiscono alla salute mentale, ma anche all’area della disabilità. 34

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Alla fine della premessa ho inserito le immagini del laboratorio sensoriale che ho raccolto durante il soggiorno a Torino.

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Le attività alle quali poter partecipare erano numerose: era possibile assistere a degli interventi del personale che opera nella struttura, c’erano dei laboratori pensati per i bambini e vari mercatini con gli oggetti realizzati durante l’anno dagli ospiti. Il laboratorio al quale ho preso parte era organizzato dall’Associazione "Outsider" Onlus di Torino ed era pensato per riflettere sulle emozioni: ascoltarle e meditare su di esse, partendo da un esercizio apparentemente banale, ma che può essere esteso alla pratica clinica e sociale.35 Prima di entrare nell’aula, sono stata invitata ad indossare una benda sugl’occhi, poi sono stata accompagnata all’interno della stanza, senza sapere chi avrei avuto accanto a me seduto, dove mi trovassi precisamente e chi altro era presente in quella sala. Già solo questo momento preparatorio, ha fatto sì che iniziassi a riflettere sulle mie emozioni. Per prima cosa, mi sentivo in ansia perché non avevo un senso che mi rassicurava, la vista: non sapevo cosa ci fosse attorno a me e chi. Gli odori della stanza non erano piacevoli, sapevano di luogo chiuso, non areato, cupo, questo mi inquietava non poco perché, non potendo vedere, non riuscivo a comprendere se era la stanza ad emanare quello sgradevole profumo oppure qualcos’altro. Il desiderio di togliermi quella benda dagli occhi era irrefrenabile, ma ho cercato di non farlo. Una volta seduti, una voce pacata e rassicurante, quella del conduttore, ci ha invitato a rilassarci ed ascoltare la storia che andava narrando. Era un racconto semplice, senza un filo logico, ma che portava ad immaginare vari 35

Associazione Outsider Onlus: http://www.associazioneoutsider.it/chi-siamo-2/i-nostri-cuori/#arte-2

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luoghi: una spiaggia (veniva riprodotto il rumore delle onde e spruzzato tra noi dello spray solare), un torrente di montagna (suono dell’acqua che scorre veloce), un vicolo con il bucato steso fuori alle finestre (diffusione, tra noi partecipanti, del profumo dell’ammorbidente per indumenti). Per una strana coincidenza, il tema di questo laboratorio, era lo stesso di quello descritto nel secondo capitolo sulla scrittura autobiografica della Libera Università di Anghiari. Alla fine del racconto, siamo stati invitati a togliere le bende e ad osservare quello che vedevamo di fronte a noi: dei quadri, ognuno che rievocava uno dei luoghi ascoltati nella storia poco prima, colorati con i colori dell’immaginazione, anziché con quelli della natura. Quindi una spiaggia viola, una montagna blu, un fiume giallo, un vicolo con del bucato in rosso. Erano i quadri realizzati dagli utenti della Casa della Divina Provvidenza del Cottolengo, dopo aver ascoltato, bendati, la stessa storia nostra. Erano stati invitati ad ascoltare le emozioni che suscitava in loro il racconto che potevano solo udire e riprodurle su una tela, scegliendo il luogo che li aveva colpiti maggiormente. L’atto di bendare il partecipante, mi spiegava un’educatrice con la quale ho discusso sulla metodologia utilizzata, è "semplicemente" un invito a guardare ciò che in quel momento ci accade attraverso un "occhio interiore", ovvero le nostre emozioni, per cercare di non nasconderle. Se il mare in tempesta, il rumore che lo accompagna ci agitano, è bene manifestare questo stato emotivo e cercare di capire cosa, dentro di noi, associamo a quel luogo che ci provoca inquietudine. Per gli utenti, l’atto di riflessione sulle proprie emozioni era, contrariamente al laboratorio di scrittura che richiedeva una descrizione dei luoghi servendosi unicamente del 111


foglio e la penna, scegliere un colore ed un paesaggio e fonderli, cercando di mettere su un foglio l’emozione o le emozioni vissute. L’operatrice era d’accordo sull’importanza di sottoporre questa esperienza anche agli "addetti ai lavori", lei stessa ed i suoi colleghi avevano sperimentato in prima persona questo laboratorio. Sia con gli utenti che con i professionisti, non è tanto la riproduzione di un disegno, di un quadro con il paesaggio ciò che più interessa, ma lo sforzo di riflettere sull’importanza dell’ascolto di certe emozioni, interrogarsi sul perché, a seconda di un luogo piuttosto che di un altro, siamo spaventati o sorridiamo di gioia. I luoghi possono evocare delle emozioni, lo stesso sono in grado di fare gli incontri con persone che portano dei bisogni; nel caso dei professionisti, questa riflessione andrebbe sempre fatta, sia individualmente che con l’équipe. Detto questo, di seguito riporto, sia da un punto di vista teorico che pratico, l’esperienza di osservazione partecipante presso i laboratori di pittura, teatro e scrittura nelle Strutture di Magione e Umbertide. Per quanto concerne l’analisi delle interviste somministrate ai professionisti, il Capitolo V, è unicamente dedicato ai contenuti e ai temi di discussione emersi. Oltre ad esaminare gli estratti più significativi dei colloqui svolti, ho cercato di presentare alcuni concetti teorici, quali l’ascolto attivo e il burnout, affinché la teoria e la prassi, possano essere messi a confronto nel lavoro socio-clinico.

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Alcuni momenti del laboratorio sensoriale al quale ho partecipato (immagini dell’Associazione Outsider Onlus).

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4.1. L’ARTE CHE EMOZIONA Dove va la mano là seguono gli occhi Dove guardano gli occhi là si dirige la mente Dove posa la mente là nasce l'emozione Dove palpita l'emozione là si realizza l'essenza dell'arte. (Abhy Naya Darpana, Trattato Indiano) La pratica artistica all’interno della salute mentale, la cosiddetta "arte-terapia", ha origini molto, antiche che risalgono ai secoli Diciottesimo e Diciannovesimo. Nel Ventesimo secolo, poi, con lo sviluppo della psicanalisi, l’uso dell’arte come strumento terapeutico è stato sempre più impiegato. All’inizio era ritenuto adatto solo per patologie che necessitavano di una regressione con l’aiuto della pittura, quindi, psicosi, soggetti borderline e autistici. In seguito, l’arte pittorica venne affiancata alla talk therapy nella rielaborazione dei vissuti traumatici, in chi aveva vissuto le guerre mondiali (Grignoli, 2008, p. 48). L’arte-terapia nasce negli Stati Uniti con Margareth Naumburg, che crede nella possibilità di un transfert tra il terapeuta e il paziente nell’atto di dipingere. L’arte, dunque, contribuisce a liberare delle emozioni e consente una relazione tra medico e paziente che non vede più il primo in posizione di passività. A questa linea di pensiero si affianca quella di Edith Kramer, che considera l’espressione artistica il mezzo attraverso il quale esprimere e risolvere dei conflitti interni all’io. 36 36

A queste due donne è legata la nascita, negli anni Cinquanta negli Stati Uniti, dell’arte come strumento inserito all’interno di percorsi

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Kramer, inoltre, guarda all’arte come un contenitore di emozioni e la utilizza per instaurare relazioni significative con i propri pazienti (ivi, p. 50): Crede nel ruolo di sublimazione insito nel fare arte, crede che la trasformazione di istinti distruttivi in prodotti artistici possa prevenire, incanalandolo, l’agito. La Kramer sposa anche il pensiero winnicottiano sulla teoria degli oggetti e dei fenomeni transazionali, vedendo l’arte come "zona franca" che consente l’espressione di nuovi atteggiamenti e risposte emotive, permettendo all’uomo di trascendere il conflitto e di mettere ordine nel caos (Grignoli, 2008, p. 49). In Italia, il rinnovo della psichiatria che si è avviato con la Legge Basaglia, ha dato inizio a numerose esperienze di arte-terapia combinate con le esperienze dei medici e degli psicologi. Negli anni Ottanta, a Torino, la Scuola "Il Porto Adeg", forte della collaborazione con i pionieri statunitensi, consente la formazione dei primi arte-terapeuti.37

riabilitativi. Secondo loro, le capacità curative dell’arte si esplicano nell’attivazione di un processo creativo che è ritenuto terapeutico. Margareth Naumburg (1880-1983), psichiatra e psicanalista, sosteneva l’importanza delle immagini per la comunicazione attraverso i simboli. Questo contribuiva a qualificare la relazione tra medico e paziente; durante l’arte-terapia si proiettano emozioni e vissuti personali che rendono il rapporto significativo. Edith Kramer (1916-2014), è stata una pittrice e fautrice, insieme alla Naumburg, dell’importanza dell’arte nei contesti riabilitativi, Arte come Arteterapia: https://artecometerapia.wordpress.com/lanostra-storia/. 37 Arte come Arteterapia: https://artecometerapia.wordpress.com/lanostra-storia/.

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L’arte riesce ad essere terapia perché consente all’immaginazione di prendere forma. Dare forma a qualcosa, che sia un pensiero, un sentimento, un’emozione, fa in modo che un discorso presente solo nella propria mente risulti comprensibile all’esterno. La forma, il dare una forma, è l’atto di delimitare, di contenere qualcosa che è interno, ma che attraverso l’arte può essere comunicato (ivi, pp. 33-34). I laboratori di arte-terapia vengono pensati e implementati in ambienti protetti e contenitivi, affinché mediante i colori e il pennello, si possa dare forma all’universo interiore, alle emozioni, positive e negative, che attraverso una raffigurazione concreta, vengono allontanate dalla persona-artista. Adesso sono poco più distanti, sono sulla tela, e questo fa in modo che chi li ha raffigurati possa osservarli e rielaborarli con il distacco che si è soliti usare con qualcosa che non ci appartiene: Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra: i rumori ne vengono attutiti, i movimenti diventano fantomatici e la strada stessa appare, attraverso il vetro trasparente, ma saldo e duro, come un’entità separata, che pulsi in un "aldilà." Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento, ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi. […] L’opera d’arte si rispecchia sulla superficie della coscienza. Essa sta aldilà e si dilegua dalla superficie, senza lasciare traccia, appena scomparso lo stimolo. Anche in questo caso c’è una specie di vetro trasparente, ma saldo e duro, che rende impossibile il diretto rapporto interno. Anche qui abbiamo la possibilità di entrare nell’opera, di divenirne parte attiva e di vivere con tutti i sensi la sua pulsazione – Kandinskji, 1968, Punto, linea e superficie, (ivi, p. 57). 116


4.1.1. OSSERVAZIONE PARTECIPANTE IN UN LABORATORIO DI PITTURA

Il laboratorio di pittura al quale ho preso parte come osservatrice partecipante, è quello organizzato all’interno del Circolo "Noi Insieme", afferente al Centro di Salute Mentale di Magione che lo gestisce in appalto con la Cooperativa Polis. 38 L’operatore che mi ha accolta all’interno del gruppo è Francesco Ticchioni e, come spiega in questo estratto della sua intervista, il laboratorio è attivo presso il Circolo dal 2011: Allora, all’inizio, il laboratorio di pittura veniva organizzato presso l’Unità di Convivenza, era aperto a tutti e partecipavano anche alcuni infermieri del Centro di Salute Mentale, a volte anche la dottoressa responsabile della struttura e anche esterni. Con il tempo abbiamo osservato che organizzare i laboratori nello stesso luogo nel quale gli ospiti vivono, non riusciva a dare alla pittura, o al teatro o alle altre attività, il giusto ruolo terapeutico-riabilitativo. Era necessario, dunque, trovare uno spazio dove poter distinguere l’attività terapeutico-riabilitativa, in questo caso la pittura, e il luogo nel quale si vive, si mangia, si guarda la tv. Questo perché ciò che abbiamo sempre voluto, è che l’Unità di Convivenza, fosse più possibile simile a casa propria, meno struttura e più casa. Per questa ragione, infatti, non ci sono affissi da nessuna parte fogli che 38

È possibile osservare alcuni dei dipinti realizzati durante il laboratorio di pittura del Circolo alla fine di questi paragrafi.

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riguardano, non so, il tipo di struttura, nulla di tutto questo. Chi viene in U.D.C. trova un ambiente molto caldo, una vera casa, con molti quadri appesi. In questi anni siamo stati molto attenti a ricreare un ambiente familiare. Per queste ragioni è stato trovato il Circolo, uno spazio esterno alla casa di questi ospiti (Francesco Ticchioni). Quello che mi preme dire sin da questo momento, e che ho anche riportato nel diario di campo, è il clima estremamente sereno che caratterizza l’attività di Francesco. Il gruppo di lavoro è molto piccolo, questo è già un elemento che aiuta i partecipanti, i quali sono frequentatori del Circolo da molti anni, quindi si conoscono bene e sono abituati a trascorrere del tempo insieme. Durante il laboratorio non manca mai un po’ di buona musica di sottofondo, questo aiuta ad avere l’spirazione, la concentrazione per dedicarsi alla propria opera e, al tempo stesso, consente anche la conversazione per chi vuole comunicare con il gruppo. Francesco ha, secondo quanto mi è apparso di capire, un buon rapporto con le persone che partecipano al suo laboratorio, parla con loro con un tono di voce pacato e li incoraggia a fare sempre meglio nei loro quadri, affinché si cimentino in disegni e tecniche, ogni volta nuove. La prima volta che ho preso parte a questa attività, mi è stato raccontato dai presenti che ogni anno, poco prima di Natale, tutti i quadri realizzati durante il laboratorio vengono esposti in una mostra pittorica e possono anche essere acquistati dai visitatori.

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A tal proposito, nel corso dell’intervista, Francesco risponde alla domanda sulla difficoltà di separare la persona dalla patologia, portandomi questo esempio: Per anni, quando facevamo le mostre, io ho dato al nostro laboratorio un nome che non aveva nulla a che fare con il C.S.M., si chiamava "Gli itineranti". Niente che potesse fare riferimento alla psichiatria, non volevo che la gente apprezzasse i lavori solo perché frutto del laboratorio di utenti della salute mentale. Se i quadri piacevano bene, ma se qualcuno doveva dire che erano brutti doveva farlo senza problemi (Francesco Ticchioni). L’intento era quello di concentrare l’attenzione degli estimatori dei dipinti o dei visitatori, sul prodotto del lavoro, piuttosto che sulla storia di vita dell’artista che era dietro ad una certa opera. Un quadro doveva poter essere giudicato più o meno bello senza la preoccupazione di ferire un utente di un C.S.M., essi erano artisti in quel momento, non erano pazienti o utenti di un servizio. L’aneddoto la dice lunga sul tipo di rapporto che Francesco ha con i membri del suo gruppo di pittura e sulla considerazione che ha di loro. Questo credo che possa far capire un presupposto fondamentale per la riuscita del laboratorio: l’eliminazione dello stigma che, risulta essere ancora molto presente per chi si trova ad affrontare la patologia psichiatrica, e la distinzione tra persona e patologia. Attenzione, si parla di distinzione, non negazione: nel caso specifico, al Circolo di Magione tutti conoscono la ragione che li porta ad essere lì, ma tutti riconoscono anche di possedere una propria vita, delle qualità, delle passioni che vanno al di là della patologia. 119


Sul tema stigma e salute mentale, Francesco Ticchioni porta una riflessione importante che va a contrastare con l’opinione che, su questo tema, hanno le psichiatre e le assistenti sociali. Da quanto sostenuto dall’operatore, vi sarebbe una rinnovata tendenza da parte dell’area sanitaria, ma, più in generale delle politiche socio-sanitarie sulla salute mentale, ad un ritorno alla istituzionalizzazione. Questo fenomeno si concretizzerebbe attraverso l’aumento della presenza del personale nelle unità di convivenza e la tendenza a spostare da una struttura all’altra gli utenti, piuttosto che favorire un reinserimento in un contesto di vita autonoma. Questo aspetto meriterebbe una discussione ed un confronto approfonditi anche con la parte socio-sanitaria, infatti, se la situazione fosse così, il concetto di recovery tanto auspicato dagli enti, sarebbe ancora una meta lontana da raggiungere: Credo che molta psichiatria debba ancora fare un grosso lavoro in questo senso. […] Secondo me, stiamo, sotto certi aspetti, tornando ad un contesto del prima di Basaglia. È vero che la legge Basaglia ha tolto le mura, ma c’è chi sta creando altre mura psicologiche. Ho notato, ma non solo io, anche altri miei colleghi, che c’è un ritorno alla mentalità del rinchiudere, di stigmatizzare… Ad esempio: le nuove strutture che stanno aprendo non sono come era all’inizio l’Unità di Convivenza. Inizialmente noi alle 20 andavamo via, adesso, guarda caso, sono le 23, in futuro non so se aumenterà. Questo per dire che, anziché creare strutture con meno copertura e maggiore libertà degli utenti, si aumenta 120


l’istituzionalizzazione. Se è una Unità di Convivenza, lo dice la parola stessa, dovrebbe essere un contesto più simile ad una casa che ad una vera struttura terapeutica. I pazienti dovrebbero avere maggiore responsabilità e autonomia, invece, tendiamo a creare ambienti con libertà sempre ristrette, con una forte presenza degli operatori e per fasce orarie sempre più lunghe. La presenza istituzionale è forte. Stanno cercando di ricreare un clima "pre-basagliano" molto pericoloso, l’istituzione prima delle persone. Questa è un’impostazione che viene dalla politica e poi via via fino a noi (Francesco Ticchioni). 4.1.2. COME NASCE UN LABORATORIO DI PITTURA Per quanto riguarda il lavoro di progettazione che precede la messa a punto di un laboratorio di pittura, ogni operatore che si trova ad essere alla guida di questa attività, è tenuto a presentare una scheda di progetto all’interno della quale inserire gli obiettivi, la metodologia di lavoro, le fasi di attuazione del progetto, i materiali occorrenti, la valutazione degli obiettivi e l’eventuale revisione degli stessi. Nel caso del laboratorio al quale ho partecipato, l’obiettivo è quello di promuovere l’attivazione di diverse forme di comunicazione, che abbiano come fine l’aumento dell’autostima degli utenti e la possibilità di percepire se stessi attraverso l’arte. Inoltre, il fatto di costituire un gruppo, favorisce le relazioni, incoraggia i legami, anche e soprattutto nelle persone con maggior difficoltà di apertura verso l’altro: […] è l’utente che deve essere libero di scegliere quale disegno realizzare, quali dimensione deve avere la tela, 121


quali colori intende utilizzare. Non impongo per nessun motivo né un soggetto, né una tecnica. La seconda regola, è dare massima libertà di espressione della propria creatività: con i materiali e i colori scelti, l’utente deve potersi sentire libero di agire sulla tela utilizzando al massimo la propria creatività. Terza, che è la più importante per me, più che fare caso al prodotto in sé, all’opera pittorica che può venire fuori, per me è fondamentale riuscire a creare un gruppo. Laboratorio di pittura sì, ma con un bel gruppo affiatato, che permetta di relazionarsi e che abbia un clima allegro (Francesco Ticchioni). La tendenza all’isolamento è un comportamento non raro in psichiatria, le attività di gruppo vengono istituite anche per cercare di far venire meno questo atteggiamento e incoraggiare al dialogo e alla relazione. Nel caso del Circolo di Magione, questo aspetto si osserva anche nel laboratorio di teatro, in alcuni momenti, l’attività che generalmente è quella cardine del laboratorio, passa in secondo piano e si presta maggiore attenzione alla parte relazionale. L’idea di partenza per istituire un progetto come questo, è, chiaramente, l’individuazione di uno spazio fisico giusto, dove poter svolgere l’attività pittorica: un tavolo abbastanza grande dove poter lavorare, tele, colori, pennelli, matite e, aspetto fondamentale, la volontà dei destinatari a voler partecipare, nonché l’interesse per l’attività. Quindi, è auspicabile la frequenza costante agli incontri. Al di là della parte tecnica e organizzativa, ciò che conta è la creazione di un ambiente idoneo al laboratorio, ma che al tempo stesso, sia anche adatto per poter svolgere un’attività che agli utenti piaccia, al di là delle abilità 122


tecniche del sapere o meno dipingere. Non sono, inoltre, previsti compiti e non vi sono lavori buoni o meno buoni, dal momento che l’intento è quello di incoraggiare a svolgere un’attività piacevole, liberi da influenze e aspettative potenziali che provengono dall’esterno. L’obiettivo finale, quindi, è realizzare un oggetto che rappresenti ciò che piace alla persona che lo ha creato, la sua idea di bello, o comunque che rappresenti qualcosa che ha un beneficio principalmente per chi lo ha realizzato. Ho più volte detto che la patologia psichiatrica comporta una frattura all’interno della persona che ne è affetta. Ciò che accade è paragonabile ad un naufragio, un momento della vita durante il quale si abbatte una dolorosa e distruttiva tempesta che lascia stremati dal caos sollevato all’interno della persona. La fase (mi si passi il termine, anche se non ritengo sia del tutto corretto avere questa cognizione delle tappe della cura) della "ricostruzione" necessita di una ricerca, prima di tutto di quella parte di se stessi che la tempesta ha destabilizzato, se non del tutto distrutto. Ecco che l’arte entra in questo scenario. La pittura, come le altre innumerevoli forme di espressione artistica, è un mezzo terapeutico che favorisce il recupero e la crescita della persona dal punto di vista emotivo, affettivo e relazionale. Attraverso la pittura, ma con l’arte in generale, è possibile apprendere una modalità di osservazione ed espressione che spesso non emergono attraverso la parola. La pittura è una comunicazione ricca di significato intrinseco, che sollecita l’espressione e la consapevolezza delle proprie emozioni, sia di chi si cimenta per realizzare un’opera, sia per chi ne fruisce osservandola:

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Quando, ogni lunedì, metto sul tavolo le tele, i disegni da riprodurre e i colori, si vede subito… a seconda del tipo di disegno che gli artisti scelgono, i colori che utilizzano e quanto desiderio hanno di dipingere o meno, si capisce che tipo di emozioni provano in quel momento o in quella giornata. Se qualcuno arriva e mi dice che non ha voglia di dipingere, io non obbligo nessuno, magari, quando accade una cosa del genere, chiedo se la persona ha bisogno di qualcuno che la ascolti, se ha voglia di parlare, ed io ci sono. Forse è banale da dire, però, quando vedi che l’artista utilizza colori brillanti e vivaci per dipingere, con una buona probabilità, il suo stato d’animo quel giorno è positivo, oppure sono positive le emozioni che ha voglia di esprimere in quel momento. Viceversa, chi sta a testa bassa, è pensieroso e vede nel pennello quasi un nemico, lì capisci che quella persona quel giorno non ha molto desiderio né di dipingere e né di parlare di sé. Anche il silenzio va rispettato (Francesco Ticchioni). Dipingere consente di meditare prima, e riportare su tela poi, idee, sentimenti, sogni, aspirazioni: durante la pittura si narrano e si veicolano molteplici emozioni. Da osservatrice partecipante, posso confermare quanto un laboratorio di questo tipo sia in grado di attivare risorse che tutti gli esseri umani possiedono: l’osservazione, la capacità di accostare di colori, la riproduzione di un’immagine vista con gli occhi dell’artista e che, per questo, non deve e non sarà in nessun caso mai uguale all’originale. Con una tela dipinta si esprime ogni volta qualcosa di sé, l’idea, i colori, il modo di osservare, costituiscono ciò che alla fine sarà il quadro e quel quadro è frutto dell’io interiore dell’artista. 124


Condividere l’esperienza di un laboratorio di pittura offre agli ospiti l’opportunità di godere del piacere di creare utilizzando i colori, le tele e per mezzo del colore esprimere delle emozioni attraverso il linguaggio non verbale. Un modo di comunicare differente dalla parola che si utilizza ogni giorno per relazionarsi con il mondo esterno, un modo di esprimere l’interiorità più intimo, che non richiede tempi o mascheramenti, sulla tela bianca ogni artista è libero di usare i colori che ritiene più adatti. Questo è uno dei tanti aspetti positivi della pittura, come si evince dalle parole di Ticchioni: Aspetti positivi: per me, la grande libertà che hanno tutti di esprimersi, non ci sono regole che impongono cosa fare e cosa non fare. Cerco di non essere troppo presente quando gli artisti dipingono: cammino dietro di loro, butto l’occhio su quello che stanno facendo, ma non voglio essere opprimente. L’aspetto positivo è, dunque, la presenza di molta libertà e di un clima sereno (Francesco Ticchioni). Per chi inizia un laboratorio di pittura, la "suggestione del foglio bianco" e la successiva ansia da prestazione, sono particolarmente elevate. Per sperimentare questa condizione non è necessario fare riferimento agli utenti del Circolo. Io stessa posso testimoniare quanto il momento in cui si ha di fronte la tela bianchissima e vuota sia fonte di ansia e spaesamento. Il vuoto della tela porta a dire che non si è in grado, che il disegno è un’attività alla quale non ci si avvicina più dai tempi della scuola. Il vuoto di un foglio bianco o di una tela, spingono ad osservare ciò che si ha dentro in quel momento e questo crea preoccupazione in chiunque. 125


Le rassicurazioni di Francesco e degli altri partecipanti, mi hanno incoraggiata ad iniziare, sono stata tranquillizzata e guidata passo passo affinché mi sentissi libera di riprodurre sulla tela le mie emozioni. Il comportamento tenuto nell’accogliere me, è la prassi che viene utilizzata in questo laboratorio, con chiunque vi prenda parte: l’inclusione, la rassicurazione sul fatto che non sia il bel prodotto il fine ultimo, ma ciò che l’artista ritiene bello, quello è il vero risultato del laboratorio, la riflessione sulle giornate di scarsa ispirazione o desiderio di utilizzare colori, ad esempio scuri, piuttosto che altri. Ragionando sul perché di certi stati d’animo, possono emergere emozioni alle quali non si è soliti dare la giusta attenzione: In questo spazio viene fuori la gioia, la felicità. Vengono fuori anche la tristezza, la preoccupazione, però almeno in queste tre ore di laboratorio, si cerca di volgerle in qualcosa di positivo, di leggero. Riuscire a prendere le distanze dal negativo è uno degli aspetti positivi più che della pittura, del gruppo che si crea durante la pittura (Francesco Ticchioni). Quando ho chiesto ai miei compagni e compagne di laboratorio se le emozioni fossero delle protagoniste in questa attività, una delle risposte è stata: Senza emozionarsi questo (cioè il dipinto che stava completando) non me sarebbe uscito. Non ci si può non emozionare nella vita, ma quando sei preso da mille pensieri brutti non pensi, sei arrabbiato e basta, invece quando sei qui vedi i colori, il disegno e ti concentri, ti

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rilassi, ecco io mi rilasso e le mie emozioni migliori le metto qui (indicando il disegno) (S.).39 Nel dipinto non si è tenuti ad argomentare il sentire, come può succedere nelle interazioni faccia a faccia, è al contrario possibile esprimere ciò che si sente dentro senza doverne dare una spiegazione, la cosa importante, è fare in modo che quello che abbiamo dentro venga fuori. Ciò che è importante precisare, però, è che la pittura non va intesa come strumento che ha l’operatore per carpire delle informazioni sulla vita dell’utente, esso è un supporto affinché essi riflettano sulle proprie emozioni e comprendano aspetti del proprio io che potranno utilizzare, come elementi positivi, nel percorso terapeutico-riabilitativo (Grignoli, 2008, p. 14). Di seguito alcune immagini dei quadri realizzati durante il laboratorio di pittura.

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I nomi degli utenti non vengono inseriti per esteso per garantirne la privacy.

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Prototipi di biglietti di auguri e bomboniere con la tecnica del quilling. 132


4.2. QUANDO

LA MASCHERA LIBERA LE EMOZIONI: IL LABORATORIO DI TEATRO

Ciò che è stato trattato nei primi due capitoli, vale a dire la frattura che avviene all’interno della persona affetta dalla patologia psichiatrica, l’automatica distanza che questa avverte con il mondo esterno e l’importanza di prendere coscienza della propria condizione per tornare ad avere la speranza che conduce al superamento della sofferenza, sono tutti temi che tornano sia nelle arti espressive in generale, sia nel teatro in modo più specifico. Celebre è l’analisi che fa Erving Goffman (1969) sulla molteplicità dei ruoli che un individuo è chiamato ad interpretare sul palcoscenico della vita. Quando si parla di "drammaturgia del sé" si fa, infatti, riferimento all’interazione sociale quotidiana, che viene paragonata ad una rappresentazione teatrale all’interno della quale l’attore sociale interpreta il proprio ruolo sul palcoscenico della vita di tutti i giorni, insieme ad altri attori con i quali si relaziona (Psaroudakis, 2015, pp. 2631). Goffman parla anche di distanza dal ruolo, quel tentativo dell’individuo di distinguersi dal ruolo che interpreta, di dare un segnale che quello non rappresenta il suo io reale. Dalle maschere, però, l’individuo non è in nessun caso distante, dal momento che egli può essere al tempo stesso più "personaggi", ma sempre di ruoli socialmente determinati si tratta (Santambrogio, 2008, p. 199). Cercare di mettere in scena una rappresentazione del proprio sé, trovare un’armonia tra il proprio corpo e lo spazio che ci circonda, utilizzare la voce e la creatività per costruire situazioni ideali, ma non distanti dalla realtà 133


e insieme agli altri, sono quello che viene definito tecnicamente "teatro-terapia".40 Lo psicologo e teatroterapeuta Walter Orioli, in uno dei testi che ho utilizzato per approfondire questo tema, cita lo psicologo americano George Kelly (1963). Egli chiese ai suoi pazienti di recitare per un periodo di tempo la parte di un personaggio totalmente diverso da quello che di solito erano: un pessimista, ad esempio, doveva impegnarsi nel mettere in scena la quotidianità di una persona ottimista. L’aver proposto una condizione del tutto opposta a quella ordinaria, consente alla persona di guardare con una certa distanza il modo in cui vive quotidianamente e confrontarlo con chi impronta la propria esistenza in modo nettamente differente. La distanza consente di sperimentare una possibilità nuova di sé. In questo il teatro è terapeutico (Orioli, 2011, pp. 15-17).41 Il teatro interviene su quattro aree che influiscono sulla salute psicofisica dell’utente psichiatrico, ma anche di chiunque vi faccia esperienza: 1. L’attività teatrale consente di superare dei blocchi della creatività, è un supporto che incoraggia a dismettere il ruolo che il soggetto interpreta abitualmente e lo invita ad accostarsi a quello che vorrebbe essere, o a quello che ha paura di essere, affinché incuta meno timore (Orioli, 2007, pp. 1314). Analizzare se stessi ed essere consapevoli che si possono recitare diversi ruoli, aiuta a combattere lo stigma che, abbiamo detto essere ancora 40

Federazione Italiana Teatroterapia: http://www.fedteatroterapia.it/index.html. 41 Walter Orioli http://www.walterorioli.it/.

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fortemente presente nella salute mentale. Questo è un supporto molto importante, affinché sia noto alla persona e al pubblico, che la diagnosi di patologia psichiatrica è solo una parte della persona, essa è molto altro, uomo, donna, madre, figlio, impiegato e può essere molti personaggi ancora attraverso il teatro. 2. L’interpretazione di una parte durante un laboratorio teatrale, consente di fare i conti e gestire i propri conflitti interiori. Questo avviene grazie alla libertà con la quale gli attori vengono incoraggiati ad interpretare il proprio io autentico, rappresentando il dolore, osservarlo con distacco e cerare di elaborarlo. 3. Nella riabilitazione, il teatro consente di acquisire e ri-acquisire consapevolezza delle proprie capacità creative, di improvvisazione, di uso dello spazio e del proprio corpo. I personaggi possono essere utilizzati per interpretare i propri traumi, o la propria sofferenza per dare il messaggio all’esterno che certe difficoltà sono in via di risoluzione, o sono del tutto scomparse. È, dunque, un’occasione di riscatto della propria immagine agli occhi degli altri: familiari, terapeuti, l’intera comunità (ivi, pp. 14-15). 4. Il contatto con gli altri partecipanti è un’occasione per instaurare delle relazioni, aspetto non scontato per chi ha una storia di patologia psichiatrica. Gli altri, che hanno vissuto o vivono una sofferenza simile, incoraggiano la condivisione, il confronto,

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il tutto in un contesto leggero quale è il setting del teatro.42 4.2.1. ASPETTI FONDAMENTALI DEL TEATRO IN AMBITO TERAPEUTICO Quando il teatro viene utilizzato come forma di comunicazione in un contesto di cura, esso consente di lavorare sulle cosiddette "forme pre-espressive". La messa in scena di esercizi che invitano ad utilizzare il proprio corpo in armonia con la musica, l’aumento o la diminuzione del ritmo della gestualità, il movimento disordinato nello spazio, ma senza ignorare gli altri partecipanti, consente l’acquisizione di consapevolezza del proprio corpo e del proprio equilibrio, in armonia con altre persone. La conoscenza della propria fisicità in relazione allo spazio, agli altri, sviluppa le capacità comunicative sia verbali che non verbali (Orioli, 2007, p. 18). Imparare questo attraverso il teatro, significa acquisire un elevato grado di libertà verso la propria sofferenza e, soprattutto, verso le maschere che quotidianamente la società impone: […] l’attore è il prototipo dell’uomo libero verso se stesso e desideroso di donare agli altri questa libertà. Mostrando agli altri questa libertà di interpretazione, egli mostra soprattutto la sua conoscenza verso se stesso, come se dicesse: «Non ho paura di diventare Amleto [un altro da me], in quanto so bene che ritroverò la mia identità quando il sipario si chiuderà». […] La libertà 42

Più avanti, in questo paragrafo, tratto dei gruppi di auto-aiuto che, spesso, si vengono a creare all’interno e grazie ai laboratori.

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risiede nella ricerca quotidiana di un rapporto con il suo corpo fisico, mentale e trascendente (Orioli, 2011, p. 27). Il teatro va a lavorare, oltre all’uso del corpo e dello spazio, sulla capacità di espressione. L’improvvisazione è, infatti, una delle attività maggiormente implementate, anch’essa è sinonimo di libertà in questo contesto. Improvvisare è sinonimo di un’attività che richiede la messa in scena di una rappresentazione senza la guida di un copione, a volte, ma non sempre, vi è soltanto un canovaccio che indica sommariamente il tema generale nel quale inserirsi. Se si improvvisa attingendo da opere celebri o da conoscenze culturali dell’attore, si avrà un processo detto teatrale. Se, al contrario, si attinge esclusivamente dal proprio sé profondo, ci si allontana dalla dimensione quotidiana, si entra all’interno di se stessi e si propongono sul palcoscenico drammi, dolori, gioie molto intime. In questo caso, si avrà un processo che porta ad un contatto profondo dell’attore con la propria interiorità (Orioli, 2007, p. 28). Pietro Zanchi, educatore e conduttore del laboratorio di teatro presso il Circolo di Magione, durante l’intervista, sostiene quanto segue a proposito dell’improvvisazione: Scegliere un tema e svilupparlo puntando all’improvvisazione, ti permette di capire il grado di capacità e la voglia che il gruppo ha in questo tipo di attività. Che abilità di narrazione e di interpretazione ci sono. L’obiettivo è quello di fare emergere, nel corso dell’improvvisazione, una ragnatela di argomenti che, nel corso del tempo, possono rappresentare una buona base per costruire uno spettacolo che rappresenti il prodotto finale del laboratorio. 137


L’improvvisazione, quindi, è il luogo dove vengono raccolti dei materiali, che poi vengono fermati e riproposti per una rappresentazione finale. Improvvisare, secondo me, è soprattutto uscire da delle difficoltà legate alla relazione e allo scambio umano. Questo spazio ti permette di lasciarti andare e, nel farlo, sei in grado di scrivere qualcosa che apparentemente è lontano, ma che ti può rappresentare, può rappresentare la tua anima o la tua essenza. Il ruolo chiave che ha il regista in questa attività, è quello di guidare gli attori nel non lasciarsi coinvolgere eccessivamente dalle tematiche dell’improvvisazione, mantenendo un atteggiamento critico e di riflessione. Questa capacità, con il tempo e un lavoro costante con le persone, riesce ad essere adattata anche ai momenti di sofferenza legati alla patologia: la distanza dal dolore favorisce la riflessione e la lucidità nel fronteggiarlo. Il momento di messa in scena della rappresentazione è detto "post-espressivo" (Orioli, 2007, p. 18). Il prodotto finale di un laboratorio di teatro è sempre motivo di soddisfazione sia per gli attori, che per il regista, ma anche per i terapeuti. L’unione delle capacità espressive e relazionali del gruppo, è motivo di crescita per chi vi prende parte e di valutazione dei miglioramenti ottenuti per chi è alla regia. Nell’opera che si porta sul palcoscenico, gli attori creano un rapporto anche con gli spettatori, condividono con loro il prodotto di un percorso di conoscenza di se stessi, con l’intento di fornire una rinnovata immagine di sé. 4.2.2. IL LABORATORIO DI TEATRO RICREATIVO "NOI INSIEME" DI MAGIONE 138

AL

CIRCOLO


La mia esperienza di osservatrice partecipante al laboratorio teatrale del Circolo Ricreativo "Noi Insieme" di Magione, mi ha permesso di ritrovare nella pratica tutto ciò di cui ho trattato nel paragrafo precedente: il training fisico, vocale, l’improvvisazione, la riflessione sulle emozioni e la difficoltà di saperle riconoscere e nominare, sono tutti aspetti che ho rilevato personalmente. L’attività teatrale si svolge tutte le settimane, il giovedì pomeriggio, per tre ore. Il conduttore e organizzatore, è Pietro Zanchi, il regista, un educatore teatrale con un’esperienza ventennale nella realizzazione di questo tipo di attività, sia con utenti psichiatrici sia con disabili. Di seguito, attraverso le sue parole, cercherò illustrare le caratteristiche del laboratorio teatrale al quale ho preso parte. Pietro Zanchi, come anticipato, ha un’esperienza ventennale nella conduzione di laboratori teatrali. Attualmente, oltre che presso il Circolo di Magione, lavora anche in altre realtà, non solo sulla salute mentale, ma anche sulla disabilità negli adulti. L’esperienza del teatro in salute mentale risale ai primi anni Novanta, quando a Perugia vi era ancora un reparto dell’Ospedale Psichiatrico con persone etichettate come gli "irrecuperabili". Zanchi, affiancando Gianpiero Frondini,43 celebre attore e regista perugino che vanta collaborazioni con nomi importanti del teatro e del cinema italiano, apprende le tecniche teatrali in ambito psichiatrico e scopre la potenza di questa forma d’arte, 43

Pantomima su una porta aperta è il titolo del lavoro teatrale di Gianpiero Frondini con i pazienti dell’ex manicomio di Perugia. Umbria24: http://www.umbria24.it/noise24/giampiero-frondini-siracconta-teatro-sacco.

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nell’inserimento di soggetti che hanno vissuto la realtà manicomiale all’interno di contesti semi-residenziali. I laboratori di Pietro Zanchi partono sempre con un’attività motoria che invita i partecipanti a muoversi nello spazio seguendo il ritmo della musica in sottofondo. Si inizia con movimenti lenti, controllati, per poi aumentare la velocità e la difficoltà nel riuscire a gestire le distanze con altre persone. Terminata questa parte, c’è un momento in cui il conduttore introduce una tematica sulla quale discutere: un viaggio da organizzare, la preparazione di un banchetto, la rievocazione di un momento passato. Il tema consente di partire con un esercizio di improvvisazione che permette di comprendere quali argomenti interessano maggiormente gli attori del gruppo e, quindi, su quali di questi poter pensare alla rappresentazione di fine anno. Il teatro, attraverso l’improvvisazione e la scrittura lavora sulle emozioni, infatti: Io credo che le emozioni passino attraverso delle forme che sono, per esempio, l’improvvisazione. L’improvvisazione attinge molto a qualcosa di profondo, oltre che a qualcosa dove non sono messi dei limiti, per cui si va oltre le difficoltà espressive. In questo contesto è possibile creare delle manifestazioni che sono portatrici di quello che più intimamente noi teniamo dentro. Altri modi, per esempio, c’è la scrittura, che è un altro mezzo privo di censure per esprimere se stessi, e che molte volte, è proprio un tappeto dove poter costruire anche delle occasioni teatrali. Scrittura e improvvisazione, quindi, sono dei "luoghi" che consentono di far emergere dal profondo degli aspetti dell’interiorità. Il fatto che non vi siano limiti imposti, in 140


questi due modi di esprimersi porta ad essere liberi, in più, non c’è l’autocensura. Chi sta attorno non ha un atteggiamento di giudizio, questo potrebbe limitare la capacità di espressione. Dal momento che il rapporto tra i partecipanti e tra me e loro è di fiducia, con il tempo, questo autocensurarsi viene piano paino superato. Il non giudicarsi fa sì che delle energie profonde possano venir fuori e svilupparsi, è il terreno e l’ostacolo che è in gioco in questi appuntamenti.44 Le improvvisazioni alle quali ho assistito, in particolare quella che aveva come canovaccio l’organizzazione di un viaggio in un luogo che si vorrebbe visitare o sul quale si desidera tornare, ha messo in azione una serie di stati emotivi che consentivano sia di fare i conti con un passato di ricordi felici, sia di conoscere i membri del gruppo più a fondo, e di comprendere i loro desideri, le paure e le speranze per il futuro. In quella occasione c’era chi, come R., ha voluto rievocare il viaggio nel Conero e, con la voce rotta dall’emozione, ricordare quanto quel luogo le faccia venire in mente la sua famiglia, dove si sono sposati i genitori e dove lei portava sempre suo figlio da piccolo. Altri, come O. e C., hanno preferito immaginare un viaggio in Sicilia, terra che hanno sempre amato, ma che non conoscono e che suscita in loro l’idea di calore, riposo, tranquillità. 44

Capita che, durante il laboratorio di teatro, gli utenti del Circolo siano invitati a produrre dei brevi racconti di fantasia o sulla propria vita. Questa è l’unica occasione per loro di misurarsi con la scrittura, dato che non è previsto un laboratorio specifico su questa arte espressiva come, invece, avviene a "Torre Certalda".

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L’improvvisazione aiuta a rievocare, attraverso temi o luoghi che fanno parte della storia di vita dell’attore, delle emozioni sulle quali si cerca di lavorare costruendo una storia che viene rappresentata entrando in relazione con i membri del gruppo. Anche la scrittura ha queste caratteristiche. Quando, durante il laboratorio di teatro, i partecipanti sono stati invitati a scrivere e a leggere una lettera indirizzata ad una persona cara, la liberazione delle emozioni è stata importante. Di seguito, riporto una parte di un diario di campo dove descrivo un momento di condivisione di queste lettere: Il titolo della lettera era "Lettera ad una persona cara". Non è difficile immaginare quante emozioni siano emerse durante le letture di questi racconti: ogni persona con quanto scritto portava all’interno del gruppo un pezzo di sé. R. scriveva alla madre morta da non molto tempo, scusandosi con lei per non riuscire ad andare a trovarla al cimitero. Ci tiene a precisare che non lo fa perché non le vuole bene o perché si è dimenticata della sua mamma, ma perché non riesce a pensare che non c’è più. A. scrive ad un amico, chiedendogli come mai non la chiama più da un po’ di tempo a questa parte, mentre M., ovviamente, scrive al suo amato Ms., ringraziandolo per amarla così com’è. Lei si descrive come una donna non bella, ma di animo buono. Non è stato possibile far leggere tutti perché il tempo stava terminando. Ultimissima è stata Rt., la più grande del gruppo che vive in U.D.C. Nella sua lettera scrive al figlio, chiedendogli quando sarebbe andato a prenderla per portarla a pranzo a casa. Spera in un bel pranzo domenicale, con primo, pollo con 142


patate e tiramisù e, soprattutto, chiede in quasi tutto il racconto delle nipoti, alcune ormai grandi e altre ancora piccole. Vorrebbe stare più tempo con loro, perché sente gli anni che passano e le piacerebbe giocare distesa sul tappeto del soggiorno, «Perché lo sai, caro figlio mio» dice «da vecchi si torna un po’ bambini». Si commuove mentre legge e, sono onesta, mi commuovo anche io (dal mio diario di campo). Parlando di emozioni con Pietro Zanchi, sono rimasta colpita dal modo in cui egli descrive il ruolo della narrazione nella malattia degli utenti. Il racconto, come forma di comunicazione della propria interiorità, assume un’importanza centrale nell’attività teatrale, ciò che emerge però, è l’impegno del regista nell’utilizzare il teatro per riprodurre le paure, le difficoltà, i dolori che in generale affliggono gli attori, e rappresentarli sulla scena, affinché sia possibile osservarli con distacco e maggiore lucidità: Allora, questa cosa è importante e con me capita che le persone si raccontino. Non accade con continuità, ma ci sono persone che, durante le improvvisazioni o durante la scrittura, capita che facciano riferimento a questo tipo di argomento. Queste storie vengono raccolte e accolte quando emergono, però io tendo a non fare molto i conti con questi aspetti. Cerco di evitare che la persona si invischi con il suo malessere, ma cerco di fare in modo di ricondurre quell’inquietudine all’interno di una normalità. Tendo a fare in modo che la vita diventi teatro, perché credo che questo luogo, che è il teatro, riesca a rappresentare la vita, dove tanti aspetti di noi possono 143


essere presenti. Credo, inoltre, che una delle cose che si possono fare nelle tre ore di laboratorio, è prendere le distanze dalla sofferenza. Quindi, di solito, più che il malessere, emerge un percorso che parte dalla sofferenza dalla quale, poi, si prendono le distanze attraverso il teatro e la si rielabora, riportandola in una condizione di normalità.

Locandina dell’ultimo film realizzato nell’ambito del laboratorio di teatro. 144


4.3. IL LABORATORIO DI SCRITTURA PRESSO LA COMUNITÀ TERAPEUTICA "TORRE CERTALDA" La vita all’interno di una comunità terapeutica è un momento delicato per un ospite. Spesso, specie nelle situazioni più gravi, il ricovero avviene in modo coatto e di conseguenza non è una scelta vivere lontano dalla propria famiglia, o dagli affetti, ma ritrovarsi con altri sconosciuti, sottostare a regole rigide, partecipare ad attività ricreative, che inizialmente, potrebbero non essere viste di buon occhio. In riferimento alla C.T. di Umbertide, devo essere onesta, la prima impressione che ho avuto non è stata molto positiva: non tanto per l’edificio, anzi su quel versante è molto ben tenuta, sia per quanto riguarda gli spazi interni che quelli esterni. Il problema è la posizione geografica: la strada per arrivare è un piccolo sentiero di campagna, stretto, un po’ fuori città e tutt’intorno vi sono campi e montagne. Paesaggisticamente stupendo, anche perché la C.T. è collocata in una posizione panoramica che affaccia sulla montagna, un vero spettacolo, ma è una struttura isolata. La complessità delle problematiche degli utenti rende la Comunità un ambiente apparentemente chiuso e che trasmette sofferenza; in realtà, anche in questo caso, conoscere le persone che ci vivono e quelle che vi lavorano, mi ha permesso di cambiare del tutto opinione. Le situazioni multiproblematiche restano, ma le numerose attività che vengono organizzate, i laboratori, le feste aperte alla comunità, ai familiari, riescono ad alleggerire il dolore che certi residenti avvertono per la loro condizione.

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Qui ho osservato il lavoro di Amedeo Pompili e del suo laboratorio di scrittura, prendendone parte in prima persona. 4.3.1. SCRIVERE PER ALLONTANARE LE PAURE Come descritto nel Capitolo II, la scrittura, autobiografica e non, in salute mentale, ha la capacità di andare oltre lo scopo terapeutico, perché consente di apprendere o riscoprire dei poteri cognitivi di esplorazione, di gestione e analisi delle emozioni, attraverso la riflessione su eventi realmente accaduti o immaginari. Duccio Demetrio, a proposito della scrittura, in particolare quella autobiografica (ma ritengo sia un discorso che si possa estendere alla scrittura in generale), individua cinque potenzialità di questa forma di comunicazione, che consentono all’autore o all’autrice di riuscire a stare bene con la propria storia. In primo luogo, il potere della dissolvenza. Anche in questo caso, come per l’arte-terapia, quando scrivendo ci si accinge a rievocare un ricordo, una situazione passata, le immagini e i suoni ci appaiono sfumati e poco nitidi. Non capita, infatti, che la situazione in oggetto si ripresenti con suoni e odori chiari, immagini perfette, tutto è avvolto in una sorta di foschia: Il potere curativo della dissolvenza alimenta così un sentimento di distacco, mentale ed emozionale, che è il primo requisito di un benessere, un po’ strano certamente, che proviene da noi stessi e soltanto da noi (Demetrio, 1995, p. 48).

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Secondo aspetto peculiare, sono le convivenze, cioè la condivisione della nostra storia con altri: raccontare il passato è una sorta di esame della propria vita, dei propri dolori e delle proprie gioie con un ascoltatore attento. Demetrio nel testo sostiene che, l’atto di ripercorrere non in solitudine ciò che si è appreso dalla vita, sia una sorta di "rituale infantile che conferma la nostra identità adulta" (ivi, p. 49). Raccontare ciò in cui si crede, anche se si sta facendo riferimento ad aspetti apparentemente lontani dalla vita personale, è condividere parte di sé con l’altra persona (Demetrio, 1995, p. 50). In questo risiede l’importanza della condivisione che viene incoraggiata nei laboratori di scrittura. Dopo la condivisione, vi è la ricomposizione, ovvero la necessità, dopo aver ricordato degli eventi, di metterli in relazione tra loro, affinché la rievocazione non sia senza obiettivi, ma metta in connessione dei momenti della vita, per ricostruire la storia personale del narratore (ibidem). Invenzione e spersonalizzazione sono gli ultimi due poteri che Demetrio individua nella pratica autobiografica. La prima, fa riferimento ad una delle già citate caratteristiche che sono proprie della narrazione: la creatività, l’immaginazione. L’immaginario autobiografico, infatti, consente all’autore, o autrice, di scrivere se stesso/a e di se stesso/a all’interno di un immaginario personale, che è influenzato dall’epoca in cui si scrive, dal momento, dalle emozioni. La medesima situazione, del resto, si verifica con la pittura, per quanto si possa voler riprodurre fedelmente un quadro, ogni artista, non potrà fare altro se non darne una personale interpretazione. Lo scrivere di sé, ma 147


prendendo le distanze dal soggetto protagonista del racconto, potrebbe essere considerato un rischio verso la spersonalizzazione. Secondo Demetrio, invece, qui risiede proprio il quinto potere della scrittura: consentire, attraverso la distanza da se stessi, di narrare attraverso il foglio e la penna, parti della propria vita che si ha difficoltà a far conoscere (ivi, pp. 54-55). La scrittura come laboratorio nella salute mentale fa in modo che i partecipanti, per prima cosa, siano riconosciuti come soggetti, eliminando quindi l’etichetta associata alla patologia; essi sono, dunque, portatori di storie, di interessi che il conduttore deve riuscire ad ascoltare e accogliere astenendosi da giudizi di valore. Spesso la patologia psichiatrica alimenta la costruzione dello stigma che, specie per i più giovani, risulta una delle fonti di emozioni negative sul futuro. La scrittura, allora, diventa "clinica" nel momento in cui consente di apprendere una nuova abilità: quella di produrre un racconto che faccia conoscere al gruppo aspetti della persona sconosciuti, quelli che la paura non fa emergere (Demetrio, 2008, pp. 58-59). L’intervista al conduttore del laboratorio di scrittura, Amedeo Pompili, riporta numerosi temi presenti nei testi di Duccio Demetrio. Del resto, questo operatore, mi racconta di essersi formato presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, e, in seguito, di aver deciso di unire la scrittura all’area della salute mentale. Quando chiedo come si struttura un laboratorio di questo genere, infatti, egli risponde riprendendo molti concetti del fondatore della Libera: Allora, direi che per spiegare come organizzo il mio laboratorio di scrittura, posso schematizzare i seguenti punti: 148


1. Per prima cosa si sceglie un setting idoneo e tranquillo, affinché la scrittura avvenga senza fonti di distrazione o di disturbo. A Umbertide, sin dalle prime volte, ho scelto io di fare il laboratorio in quell’annesso alla Comunità che non è proprio all’interno della residenza degli utenti. Questo per due ragioni: prima di tutto è uno spazio tranquillo, con una bella vista sulle montagne, accogliente, poi perché riesce a distinguere il momento del laboratorio da uno di routine quotidiana. 2. Si parte con la lettura di uno o più brani di scrittori celebri e non, normalmente si tratta di racconti brevi. La lettura avviene ad alta voce ed è affidata o ad una persona o a più di una, a rotazione. 3. Una volta terminata la lettura, chiedo ai partecipanti di riflettere sul racconto cercando di fare emergere delle riflessioni sulla storia, delle impressioni. 4. Chiedo ai presenti di scrivere, senza porre limiti sulla quantità, ognuno scrive quanto vuole, su un tema affrontato nel brano letto. La produzione è totalmente senza vincoli: ci si può riferire a eventi della propria vita, oppure, inventare di sana pianta. Si può anche decidere di non scrivere nulla se, magari, l’argomento è particolarmente toccante. 5. Infine, si restituisce al gruppo quanto scritto. Anche in questo caso, la lettura ad alta voce è facoltativa, nessuno viene obbligato né a scrivere né a condividere.

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I partecipanti ai laboratori ricorrono alla penna per tre ragioni: per il desiderio di scrivere perseguendo il programma con determinazione e regolarità; perché in loro vi è la volontà di ricordare; infine, perché vogliono condividere quanto scritto con qualcuno. Esistono, infatti, varie tipologie di scrittura in ambito clinico-riabilitativo, ma non solo. La scrittura testimonianza, ad esempio, si fa in gruppi piccoli, in genere per rielaborare vissuti dolorosi. Dato il forte impatto emotivo dei contenuti, di solito, si ricorre a un terzo per la lettura. Vi è, poi, la scrittura di finzione. In essa, il protagonistascrittore conferisce ad altri le esperienze vissute, attribuendo loro colpe e palesando il non detto. Come per le altre attività alle quali ho partecipato, è chiaro come l’organizzazione sia ben strutturata e si basi su principi metodologici che favoriscano la libertà di espressione dei partecipanti, un ambiente accogliente e l’intenzione, da parte di chi conduce, di creare un luogo di relazione e conoscenza tra individui aldilà della patologia. Come accade per la pittura e il teatro, anche nella scrittura, la condivisone consente di guardare alle proprie emozioni, alle parti della vita che, di solito, si preferisce ignorare perché fonti di sofferenza. Anche di questo ho discusso con Amedeo Pompili, chiedendo di spiegare quali emozioni emergono maggiormente durate il laboratorio: Un po’ di tutto. Rabbia, tristezza…molta, rare volte emozioni positive quali la speranza in un futuro migliore. La speranza a volte c’è e a volte no, al suo posto, c’è la 150


paura che la propria condizione non cambi, questo soprattutto nei giovani. Le emozioni, attraverso la scrittura, vengono liberate sul foglio. Essa è una forma di comunicazione molto potente e fortemente terapeutica perché, attraverso il foglio e la penna, consente di fare mente locale su aspetti importanti della propria interiorità che, spesso, si tende ad ignorare per paura. Questo succede a chiunque intenda avvicinarsi alla scrittura, non è solo per gli utenti della psichiatria. A proposito di narrazione ed esposizione delle emozioni, ritengo utile citare parte di alcune osservazioni che ho rielaborato a seguito della partecipazione ad uno dei laboratori alla Comunità di Umbertide. In quella occasione, Amedeo ha iniziato l’attività leggendo un breve racconto tratto dal libro La filosofia in sessantadue favole (2014), di Ermanno Bencivenga, filosofo e saggista italiano, docente di filosofia in California. Il tema centrale erano le "impalcature" che gli uomini creano dentro di loro e che finiscono per ostacolare l’azione umana, gli affetti. La costruzione di queste corazze, è un segno di quanto gli esseri umani siano fragili, il rischio è quello di disimparare ad aprirsi agli altri, restando chiusi in se stessi. Il brano offre una riflessione all’interno del gruppo durante la quale tutti ammettono l’esistenza di queste corazze: chi le ha per proteggere dei sentimenti che non vuole condividere all’esterno, chi, invece, perché ha paura di non essere compreso, chi, al contrario, vorrebbe avere più impalcature per potervisi rifugiare e stare per conto proprio, lontano da tutti. 151


Dalla riflessione, segue la consegna, da parte di Amedeo, di scrivere un breve testo dal titolo: Quella volta che mi sono creato dei muri e perché. Come ho già riportato nel diario di campo, inserisco anche qui le parti dei racconti che ho ritenuto maggiormente significative: Per rompere gli argini dell’ansia ho costruito tanti muri. La mia personalità è un cumulo di muri, li ho costruiti per proteggermi. La rottura minaccia la stabilità di questa struttura strutturata dentro di me, G. Avevo un’impalcatura per coprire tutto quello che avevo fatto e tutto quello che mi era successo. Poi, da un po’ di tempo, ho deciso di essere positivo, non ci penso più a questo muro. Dico le cose che penso, devi prendere le cose così come sono, prendi il buono che c’è, così io sto meglio, D. Io avrei bisogno di un’impalcatura, per me sarebbe positivo. Dopo trent’anni di vita in Comunità e ultimamente in U.D.C., prima da una parte e poi dall’altra, sempre buttata qua e là velocemente. Sono un po’ stanca. Vorrei un’impalcatura per stare lontano da tutti, un po’ per conto mio a pensare alle mie cose, P. 4.3.2. LIBERO PENSIERO, CERTALDA"

IL

GIORNALINO

DI

"TORRE

A "Torre Certalda", oltre al laboratorio di scrittura che ho seguito, viene realizzato periodicamente il Giornalino della Comunità dal titolo Libero Pensiero. È un progetto nuovo, nato a settembre 2017, che vuole essere uno spazio per tutte le persone che vivono e che lavorano 152


all’interno della Struttura, per esprimere liberamente le proprie emozioni, il proprio vissuto o condividere episodi di vita. 45 Nel Giornalino, come si evince dal titolo, si parla di tutto: c’è chi scrive pensieri in libertà, chi racconta la passione per la squadra del cuore, chi presenta in breve la propria storia di vita. Si parla degli operatori, degli psichiatri, della vita quotidiana all’interno della C.T., che finisce per essere una famiglia per buona parte dei suoi ospiti. Ad oggi, sono stati pubblicati sul sito internet di "Torre Certalda" i primi due numeri del Giornalino, quello di settembre e quello di ottobre 2017. Prima del periodio, sempre con Amedeo Pompili, uno dei laboratori di scrittura aveva raccolto tutte le produzioni degli ospiti in un testo autobiografico dal titolo: Permettete che mi presenti. Racconti di una comunità. Il Giornalino e tutti i pensieri che vi sono raccolti, sono il frutto di anni di lavoro attraverso la scrittura; il desiderio e, a volte, il bisogno di prendere carta e penna per fermare le parole che circolano nella propria mente, è uno degli obiettivi che la scrittura clinica persegue, in questo senso essa è riabilitativa. Di seguito riporto qualche articolo, o frammento di articolo, che ho ritenuto degno di nota, dato che ricorrono temi che abbiamo incontrato nei capitoli precedenti, quali: il dolore, la sofferenza, il rapporto con i farmaci, la vita in comunità, il rapporto con i professionisti, la narrazione del sé:

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Torre Certalda: http://www.torrecertalda.it/giornalino.htm.

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Senza titolo Autore: G.M. 06/09/2017 Quando la sofferenza va oltre il dolore, allora ti accorgi che tutto diventa bello. Rimanere coerenti, restare uguali, "liberi", allora puoi dire che 2+2 = 4. Quanti possono liberamente dire che 2+2=4? Oggi come non mai l'uomo per il denaro è capace di fare di tutto. La cosa che mi ha fatto riflettere (in tutti questi anni di detenzione) è pensare come è facile per la gente giurare il falso pur di drogarsi e mangiare. Titolo: La vita in comunità Autore M.S. 06/09/2017 La vita di comunità è una cosa utile, un tempo utile per quanto concerne l'attività di gruppo, ci sono delle regole rigide e dei limiti nostri da non prevaricare e per il resto ci si può intendere la voglia e il bisogno ed i desideri non sono troppo esauditi. Per me forse sarebbe meglio andare da mia sorella che è sposata e vive a Roma con il marito, ma non è ancora madre. Un altro fratello mi cambia le carte in tavola e dice che devo lavorare, però sto male e la mia Dottoressa è per mantenermi in comunità. Titolo: La psichiatra Autore: M.S. 28/09/2017 La psichiatria coinvolge numeri, fatti, ipotesi raggiunti, ora ci vorrebbe un ragguaglio. Nel nostro emisfero Europa è da molto che la psichiatria riporta ancora una tendenzialità siffatta e di riporto per quanto riguarda la scelta medica per i pazienti disabili e le loro angherie andrebbero pubblicate a stralcio dei volumi pratici per 154


rifare il resto. Il ricovero psichiatrico a me non è mai servito a tanto, ma forse un po' mi è servito. Io vorrei tornare a casa, ma i dottori chiudono le orecchie se parlo di proscioglimento dal ricovero. Speriamo di averla vinta! Titolo: Vorrei Autore: C.C. 26/09/2017 Da me vorrei avere una vita come quella di mia madre, però senza un ragazzo come figlio che si droga. Una vita piena di gioia. Io non dovrei essere nato, secondo me, così mia madre finalmente si poteva godere una famiglia, che io gli ho sfasciato con le mie esuberanze. Io comunque vorrei fare qualcosa che mi distinguesse dalla gente, che fino ad ora ho incontrato perché a Foligno c'è brava gente, ma non vogliono che mi ci riappacifico, specialmente mia madre, perché dice che ormai loro hanno una vita però, essendo un gruppo di amici, mi piacerebbe passare il tempo con ciascuno di loro anche per trovare una brava ragazza. Sennò come faccio a conoscerne una (c'è anche mia cugina che mi può aiutare a trovarne una, visto che ha tante amiche). Per il discorso di avere una casa, io ancora devo capire come fare partendo da zero, se non mi danno un aiuto gli psichiatri o mia madre pagandomi un affitto, non so proprio dove andare. Mi piacerebbe unirmi anche ad una squadra di calcetto, fare cose che mi piacciono come disegnare, fare dei corsi, ma soprattutto tornare ad essere quel ragazzo che amava le ragazze, perché io prima che mi drogassi ne avevo tante e questo mi rendeva felice. Poi mi sono invecchiato e questo non è più possibile, però voglio provarci a fare una vita regolare. Mamma dice che devo trovare un lavoro ed avere la macchina, ma con questa 155


storia dell'interdizione non so nemmeno se la posso guidare. Titolo: Libero pensiero Autore: E.A.T. 28/9/2017 Mi chiamo Enzo e sono in comunità da cinque mesi. Il tempo passa molto lentamente. Il tempo passa molto lentamente anche se già da prima che entrassi qui dentro ero seguito dal CSM di Città di Castello e mi davano farmaci che mi facevano male e venivano tutti i giorni a darmi farmaci e dicevano sempre le stesse cose e mi chiedevano come va ma poi parlavano con mia madre e mia sorella quindi lo stare qui o fuori è quasi uguale. T.S.O. non legali dove mi davano veleno e io stavo male. Tutta la comunità di quel tipo di persone radunata intorno a me per farmi del male. Mi temono, sanno che sono molto potente ma adesso hanno il controllo sulla mia persona.

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La copertina del libro Permettete che mi presenti. Racconti di una comunitĂ .

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4.4. I LABORATORI E L’AUTO-AIUTO Prima di concludere questo capitolo, ritengo opportuno soffermarmi su un aspetto dei laboratori che definirei un valore aggiunto, cioè la loro capacità di partire come attività di espressione di una forma d’arte e, col tempo, diventare dei gruppi di relazione e di auto-aiuto. 46 L’appuntamento con cadenza regolare in un luogo esterno rispetto alla propria abitazione, che sia essa casa propria o una struttura residenziale, consente la creazione di relazioni tra persone che, con storie diverse, hanno vissuto un dolore e che, grazie al laboratorio, possono incontrarsi, raccontarsi, o anche soltanto considerarlo un momento di "libera uscita", un pomeriggio tra amici. L’aspetto relazionale emerge fortemente nei miei diari tratti dalla partecipazione ai laboratori presso il Circolo Ricreativo di Magione. La sensazione che ho avuto sin dal primo momento, è stata quella di trovarmi all’interno di un gruppo di amici e che l’attività artistica fosse una buona occasione per stare assieme. 46

Si è fatto più volte riferimento all’empowerment e al coinvolgimento del paziente nel suo percorso di cura come "esperto per esperienza". L’auto-aiuto (self-help) indica una condizione nella quale l’utente, nel percorso riabilitativo, diventa protagonista ed ha voce in capitolo sul progetto; attraverso l’incontro con altri che hanno vissuto una simile condizione, egli rafforza le capacità di relazione, di leadership. L’auto-aiuto è una rete di sostegno informale composta da soggetti che condividono un vissuto e cercano insieme di supportarsi per superarlo. In un sistema di crisi delle risorse dei servizi pubblici, questo strumento si è rivelato essere un utile supporto alle prestazioni che essi erogano (Cecchi, in Campanini, 2013, pp. 78-79). L’auto-aiuto coinvolge la persona, la sua rete familiare e amicale fino all’intera comunità. Nella salute mentale, in particolare, questo concetto va di pari passo con quello di autodeterminazione e recovery.

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Questa mia impressione è stata confermata sia dai partecipanti, con i quali ho avuto modo di scambiare due parole durante le attività e durante le pause, sia degli operatori che considerano la relazione l’obiettivo principale, ma anche dalle psichiatre, infatti: Credo che il nostro rapporto sia abbastanza dinamico. In particolare, credo che sia un rapporto fatto di scambi umani prima di tutto, quindi molto dialettico, basato su piccole regole che consentono di creare una dimensione che faciliti la relazione, l’espressione della propria interiorità e che la faccia emergere. Sul lato umano, credo che si creino delle belle amicizie, degli affetti anche espressi nel corso degli anni. Ci sono persone, qui a Magione, che frequentano il laboratorio da anni, quindi il rapporto è andato crescendo. Il condividere gli obiettivi che ci diamo, raggiungerli insieme, fanno in modo che il legame con me si rafforzi sempre di più (Pietro Zanchi, conduttore del laboratorio di teatro). Il gruppo è un altro aspetto positivo. Esso favorisce il confronto, la condivisione, il rispetto e l’affiatamento. In tal senso, si può affermare che il gruppo migliora la capacità di ciascun componente di occuparsi di sé (Amedeo Pompili, conduttore del laboratorio di scrittura). […] i risultati sono visibili anche dal tipo di ambiente che si crea, le relazioni che si instaurano tra i partecipanti, questi sono indicatori che mostrano la riuscita o meno delle attività. Ad oggi, l’aria che si respira ai laboratori, poi lei se ne sarà accorta, ritengo sia del tutto positiva, sia dal punto di vista dei risultati in termini di prodotti che, e 159


soprattutto, di relazioni (Nicoletta Marinelli, psichiatra – Centro di Salute Mentale di Magione). Quando noi pensiamo ai laboratori, pensiamo a qualcosa che va ad aumentare le capacità comunicative ed espressive nel rapporto con altri soggetti. Aumentano le possibilità di espressione di una persona e deve piacere a quella persona fare quel laboratorio […] (Elisabetta Rossi, psichiatra – Centri di Salute Mentale Perugia Centro, Perugia-Bellocchio e Perugia - Ponte San Giovanni). Il Circolo di Magione, in questo senso, è davvero l’esempio di un luogo dove si pratica l’arte, e lo si fa davvero perché i prodotti che vengono venduti sono dei veri prodotti artistici, ma si respira anche un’aria di serenità, è un luogo dove le persone si incontrano, si aggiornano sulle loro giornate, a volte entrano nel merito della patologia che hanno, a volte no. Il giovedì, ad esempio, durante il teatro, O. è solita aggiornare le altre donne sulla nuova lista di prodotti di bellezza di cui è rappresentante, Rt. porta sempre una torta da condividere durante la pausa. Al momento del caffè, infatti, è consuetudine riunirsi sul divano a parlare di argomenti vari, c’è chi espone dei dubbi sui farmaci, chi chiede aiuto su come prenotare delle visite o su dove andare a comprare dei vestiti. Un tema che nel periodo della mia partecipazione andava per la maggiore era Facebook e i social network: chi come O. è più esperto, provvede a istruire i principianti sui segreti di quello che loro chiamano "farsi di nascosto gli affari di chi ti sta antipatico". Nascono delle belle amicizie, specie tra chi ha vissuto per un periodo insieme in U.D.C. e vede nel Circolo un punto fermo nel quale poter ritrovare un 160


amico, ma anche degli amori, come è successo a M. e Ms. di cui parlo nei diari. L’atmosfera è realmente familiare, tutto il personale di questo Servizio è riuscito a fare un grande lavoro, al punto che è facile perdere di vista il reale contesto in cui ci si trova, tanto le persone sono inserite in un ambiente che le porta ad essere serene e spensierate. Alla Comunità Terapeutica di Umbertide ho percepito meno questo clima, ma solo perché ho avuto meno occasione di vivere la quotidianità, dato che il laboratorio di scrittura è ogni due settimane. Ad ogni modo, anche in questa realtà, il fatto che oltre ai residenti prendano parte al laboratorio gli ospiti che vivono presso l’U.D.C. poco lontano, consente di incontrare gente nuova, vecchie conoscenze che incrementano la capacità di relazione. 47

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La Comunità di Umbertide è una struttura di tipo 2 che ospita persone che, oltre alla diagnosi di patologia psichiatrica, hanno anche dei provvedimenti da un punto di vista penale. Per questa ragione, tutti i laboratori, si tengono in un annesso della casa attiguo ad essa, ma non possono essere organizzati in ambienti esterni. Chi vive presso l’U.D.C. di Via Gagarin raggiunge la Comunità Terapeutica con gli operatori solo nei giorni delle attività.

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CAPITOLO V Gli "esperti per esperienza": il rapporto con gli utenti e il lavoro emotivo. Analisi dei colloqui

Dopo aver riportato la metodologia impiegata per la ricerca e l’organizzazione dei laboratori servendomi sia dei colloqui svolti con gli educatori sia dei miei diari di campo, in questo capitolo intendo analizzare gli argomenti di discussione emersi durante le interviste con i professionisti dell’aiuto. Il temario descritto nel Capitolo III, viene ripreso e completato con le parole delle psichiatre, degli educatori e delle assistenti sociali, integrando l’esperienza pratica dei professionisti con concetti teorici quali l’ascolto attivo, il superamento del pregiudizio verso chi è affetto da una patologia psichiatrica, il burnout e l’importanza del lavoro di équipe e di supervisione. L’ultima parte è dedicata all’assistente sociale nei servizi di salute mentale. L’intento è quello di comprendere, con l’aiuto delle professioniste interpellate, quali sono le difficoltà di affermazione del proprio ruolo in un ambiente ad elevata componente sanitaria e se, l’essere da sempre una figura con una netta prevalenza delle donne sugli uomini rappresenti, ora come in passato, un ostacolo per lo svolgimento del mandato.

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5.1. LA MEDICINA NARRATIVA SECONDO LE PSICHIATRE […] non è detto che i narratori siano sempre pazienti o ex-pazienti: tutti raccontano storie sulla malattia di qualcuno con cui sono in contatto, compresi i medici, che quando lo fanno abbandonano le categorie nosografiche, e parlano come chiunque altro in un linguaggio di senso comune, fatto di piccole cose quotidiane, e di grandi paure e dolori. (Nigris, in Lanzetti C., Lombi L., Marzulli M., 2008, p. 139) L’approccio narrativo che ho a lungo descritto all’inizio di questa tesi, è ciò che caratterizza il lavoro delle psichiatre con le quali mi sono confrontata. Le intervistate ritengono di non poter impostare alcun progetto, senza che l’interlocutore abbia il giusto spazio per poter condividere la propria visione della malattia, la propria storia e le emozioni che essa provoca. La evidence based medicine sembra essere compensata nelle sue lacune da un approccio soggettivo alle vite e alle storie di malattia dei pazienti. Quello che Tibaldi definiva il compromesso tra "esperti per esperienza" ed "esperti per professione" esiste, o almeno, è quanto emerge dalla mia indagine. I medici cercano, non senza difficoltà, di scendere dal piedistallo che tradizionalmente li pone al di sopra degli utenti, e fare un percorso insieme a loro, senza perdere quell’autorità che ne distingue i ruoli, ma contrattando quotidianamente gli interventi. A questo proposito, riporto le parole di due psichiatre intervistate:

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Il racconto della malattia è molto importante, molto. Perché il filo della propria storia ce l’ha il paziente stesso, che non è la storia che viene vista dall’esterno, ma è quella che lui percepisce come la sua storia. A volte la storia narrata dal paziente e quella che conosciamo noi come équipe non coincide, però nel momento in cui ascolto la storia di chi vive la patologia, questa dissonanza non importa, ciò che importa è il modo del paziente di ricostruire la propria storia, perché è un modo per ricostruire anche il proprio sé, anche in modo frammentario. Anche nel progetto terapeutico questo racconto è importante perché guida l’azione e i passi da fare piano piano insieme. Dobbiamo tenerlo in considerazione il più possibile, senza dimenticare che il suo interesse deve essere sempre considerato, infatti è una costruzione insieme del piano terapeuticoriabilitativo, con i colleghi e con il paziente (Dalila Battistini, psichiatra - Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). Questo è fondamentale. Se tu pensi a quelle che sono le metodologie, le tecniche del colloquio psichiatrico che ci sono in letteratura, noi siamo stati tutti formati ad una grossa attenzione al racconto del paziente. Quindi al modo in cui lui racconta la sua esperienza di malattia, il motivo per cui ha chiesto di vederti, da come racconta la storia familiare. Appartengo ad una cultura psichiatrica in cui il racconto e la forma che prende il racconto della persona sono fondamentali, perché è dalla forma di quel racconto che poi si costruisce un’ipotesi, un’ipotesi esplicativa, la restituzione al paziente stesso di quello che hai compreso. L’osservazione clinica non è soltanto il colloquio e le parole, ma anche tutto il resto (Elisabetta Rossi, psichiatra – Centri di Salute Mentale Perugia 164


Centro, Perugia-Bellocchio e Perugia - Ponte San Giovanni). Il punto di vista delle assistenti sociali, analogamente a quanto affermato sopra, unisce la necessità dell’ascolto della storia dell’utente alle difficoltà di trattamento e di dialogo per chi vive il dolore della patologia psichiatrica. In questo percorso riabilitativo, per il Servizio Sociale Professionale, non è possibile esimersi da un lavoro con la rete della persona, quindi coinvolgere anche la famiglia: L’utente viene sempre sentito, questo è fondamentale. Se avvenisse diversamente, tutti i nostri interventi non darebbero alcun risultato, quindi si cerca di lavorare con il consenso e la partecipazione della persona. È ovvio che, in alcune situazioni, questo consenso sia difficile da accordare, però si lavora anche su questo: si cerca di incoraggiare l’utente ad essere coinvolto e ad avere consapevolezza della propria condizione. Non è facile, ci sono delle situazioni molto particolari nelle quali ti trovi ad operare in contesti molto complessi. La relazione e l’attivazione della persona con patologia psichiatrica comprende anche la famiglia, quindi, il nostro intervento si estende anche a questa. La famiglia di questi pazienti risente molto della patologia, a volte, vi sono altri membri con la stessa problematica o con una simile. Essa va sostenuta perché coinvolta nella sofferenza e perché fa parte del progetto; fare rete significa estendere la collaborazione anche ai familiari (Assistente Sociale – Centro di Salute Mentale Perugia Centro).

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Dalle risposte di queste professioniste, risulta chiaro quanto detto all’inizio sulla forte presenza dell’approccio narrativo nella pratica psichiatrica e nel lavoro sociale. Elisabetta Rossi, dichiara che questo ritorno all’approccio narrativo nel quale Tibaldi si impegna con forza è, in realtà, già presente in salute mentale da molto tempo. La psichiatra intende chiarire che l’attenzione basata sul paziente fa parte sia della sua formazione di professionista, ma anche della maggior parte dei colleghi che hanno basato i loro studi sulla letteratura post manicomiale. Dal momento che tanti psichiatri come Tibaldi ribadiscono l’importanza di questa modalità di lavoro nella salute mentale, è forse necessario un ritorno all’approccio soggettivo, probabilmente le buone pratiche apprese negli anni della formazione, in alcuni casi, rischiano di venire meno nella pratica clinica. Riporto l’estratto dell’intervista della Rossi dove spiega questo: Si fa molta attenzione alla soggettività del terapeuta dal punto di vista contro transferale e all’immagine che la persona dà della propria condizione. Ritengo che in questo momento, questa sia la pratica corrente, e credo anche che ognuno di noi cerchi di preservare questo aspetto. Probabilmente, in una dimensione in cui il tempo da dedicare al paziente è minore, di certo, possono prevalere aspetti più direttivi nella pratica routinaria. Questo è anche quello che Tibaldi portava al Convegno, ovvero, la narrazione delle storie di guarigione come raccolta di un vissuto dal quale tu puoi capire più cose, su come uscire da un percorso di cura modificato, riportato alla causa oppure, cresciuto. In realtà, poi, dal punto di vista delle metodologie di lavoro e della formazione, l’elemento della soggettività è 166


assolutamente centrale, quindi, anche nella mia pratica clinica attuale non è qualcosa di nuovo. È su questo che io mi sono formata, sia quando venivo qui a imparare dal dottor Manuali come si lavorava, sia nella formazione psicoanalitica. Le storie di malattia non vengono "soltanto" raccontate dagli utenti, ma insieme agli operatori che le ascoltano, avviene una "co-costruzione" delle storie di malattia (Zannini, 2007, pp. 61-62). Questo concetto sottolinea l’importanza dell’atteggiamento di non passività dell’ascoltatore quando l’interlocutore racconta di sé e della propria condizione. Affinché vi sia comprensione, è opportuno saper interpretare la trama del racconto, compito non solo dell’ascoltatore, ma anche del protagonista della storia (qui risiede l’importanza dei laboratori, essi fungono da strumento per imparare a leggere i momenti complessi dell’esistenza ed elaborarli con l’aiuto dell’équipe). In questo momento di pura condivisione e di cocostruzione, il linguaggio verbale e quello non verbale rivestono un’importanza centrale, dal momento che tutta la storia è in grado di prendere un’inclinazione diversa a seconda del tono della voce o dell’atteggiamento delle parti coinvolte. È bene non dimenticare quanto detto nei capitoli precedenti riguardo il carattere puramente soggettivo delle storie che si raccontano, di tutte, incluse quelle di malattia. Quindi, basta davvero poco perché la trama cambi e vengano omessi dettagli magari importanti a causa di una difficoltà di comunicazione tra le parti. Altro elemento chiave nella co-costruzione, è il tentativo di immaginare la condizione dell’altro. Riconoscere l’altro significa attribuire ad esso una capacità di gestione delle emozioni e delle esperienze 167


differenti da quelle del suo ascoltatore, quindi è molto importante nella relazione d’aiuto tenere ben distinte le due sfere, quella del professionista e quella dell’utente. La storia di malattia viene co-costruita nel momento in cui due soggetti, con esperienze differenti, si incontrano e condividono delle soluzioni possibili ad una condizione di bisogno. Il professionista non deve procedere nel tentativo di provare le stesse emozioni dell’altro mentre ascolta la sua storia, ma impegnarsi in un riconoscimento dell’altro senza perdere mai di vista un punto importante: l’immedesimazione nei panni dell’altro non può avvenire, né si deve auspicare di immaginare la sofferenza di chi vive, ad esempio, le allucinazioni uditive se non si è mai vissuta questa esperienza. Anche se l’avessimo vissuta, comunque nessuno potrebbe arrogarsi il diritto di pretendere di capire come la vive l’altra persona. Credo che in questo risieda un vero riconoscimento dell’altro, al di là di tutti i termini, a mio avviso, meno adeguati con cui si è soliti definire questa capacità. Quanto detto, fa parte di ciò che in alcuni saggi sulla psichiatria di comunità definiscono il "fare con", un concetto che va di pari passo con quello di empowerment della persona e delle reti delle quali dispone, e di quello di recovery, a cui si è fatto cenno nel Capitolo I.48 Il "fare con" include al suo interno la capacità di coprogettare insieme agli utenti, riconoscendo le loro abilità e quelle più carenti che andranno rafforzate; non significa svolgere un lavoro di delega verso le persone affinché 48

Empoverment sociale: letteralmente "rendere potenti", "favorire l’acquisizione di potere". Quando è riferito ad un individuo o ad un gruppo di persone, indica il raggiungimento di una serie di condizioni che rendono empowered. Sartori, in Campanini, 2013, pp. 240-242.

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abbiano tutto il potere decisionale, spesse volte non sono nelle condizioni di disporre di certe scelte, bensì tenere bene a mente il contesto all’interno del quale ci si sta muovendo e proporre soluzioni adeguate. Riporto di seguito un estratto dal testo di Mancini che riassume in generale le caratteristiche del "fare con": Il fare con non è una ingenuità di ritorno che non tiene conto dei limiti e delle criticità degli attori in gioco. È il frutto di una negoziazione che si presenta come individuazione "possibile" dei gradi di libertà e quindi di possibilità di scelta che quel determinato contesto può offrire. In questo la competenza degli addetti ai lavori […] (si manifesta) nel condurre un’attenta lettura delle "offerte in gioco", iscrivendole in un piano di ricerca condivisa di ciò che è ragionevolmente possibile fare in quel momento. […] il fare con vuole sottolineare l’inevitabilità di un essere sempre nel contesto ed in relazione […]. Fare qualcosa con gli immigrati, piuttosto che per gli immigrati, con i minori a rischio, con i quartieri degradati o con l’economia locale apre lo sguardo a sviluppi e non a soluzioni! Questo cambio, non solo di locuzione, ma di metodologia, permette di delineare la criticità di turno come opportunità di accesso a nuovi equilibri […]. Il con implica che i processi trasformativi coinvolgono comunque tutti, che non si può prevedere a priori un esito, ma si può solo "accompagnarsi" in un permanente work in progress; implica soprattutto che l’elemento, inizialmente letto come critico, possa essere assunto come risorsa per rivolgere il fare verso nuovi futuri possibili (Mancini, 2016, p. 65). Tutto questo è adottare un approccio narrativo, centrato sulla persona, dove la condivisione del vissuto viene 169


incoraggiata e anche quella dell’operatore dovrebbe essere abituale, affinché egli sia di aiuto senza incorrere nel rischio di essere trascinato dalla storia che ascolta e co-costruisce.

5.2. STORIE DI MALATTIA, STORIE DI PERSONE E mi sento più forte e battagliera di prima: ho riguadagnato energie psichiche prima bloccate all’interno di questo mio problema "di fondo". Ho energia da vendere ora! È un percorso possibile, altroché! Io ho, in ogni caso, avuto la fortuna di capitare all’interno di tutta una rete di psichiatria dal volto umano, cosa che purtroppo, non tocca a tanta – troppa! altra gente. (Govers, L., 2009, Lo psichiatra mi inseguiva a piedi per le strade di Torino, p. 3)

Dopo alcune informazioni generali sulle patologie e la fascia di età degli utenti in carico, il colloquio che ho svolto con psichiatre e assistenti sociali, intendeva focalizzare l’attenzione sulle storie di malattia degli utenti. L’obiettivo era quello di indagare se, in entrambe le professioni, la soggettività, il modo di raccontare il vissuto di malattia delle persone e le emozioni che questo porta con sé, sono davvero al centro della pratica clinica quotidiana. Quanto detto precedentemente a proposito della illness, si è rivelato l’aspetto fondamentale della relazione tra medici e pazienti e tra assistenti sociali e utenti. Le psichiatre intervistate motivano la tendenza ad un approccio più vicino alla evidence-based medicine a 170


causa dei tempi ristretti che si hanno sia all’interno dei servizi pubblici, come i Centri di Salute Mentale, sia all’interno delle strutture private che accolgono un numero di utenza sempre maggiore e con patologie complesse da gestire. In questo quadro, il personale medico è ridotto al minimo, quindi ogni psichiatra ha un’utenza in continua crescita e l’attenzione approfondita al singolo paziente, rischia di venire meno per mancanza di tempo e di personale. Questi fattori, nel caso dei professionisti sono anche causa di emozioni negative quali senso di colpa, la tristezza e la frustrazione che a lungo andare, se lasciate lì dove sono e non riprese e rielaborate, rischiano di provocare una perdita di soddisfazione nel proprio operato, fino ad arrivare al burnout. A questo proposito riporto alcune riflessioni sul tema: Certe volte se si avesse più tempo a disposizione e si avessero meno pazienti, la qualità degli interventi e delle prestazioni sarebbero sicuramente migliori, ad esempio sarebbe bello dedicare più tempo ai gruppi di psicoterapia (Nicoletta Marinelli, psichiatra - Centro di Salute Mentale di Magione). Io lotto sempre con il dovere, non me lo sento molto (il senso di colpa), però a volte sì capita di averlo, quando magari non riesci ad ascoltare come vorresti. L’opposto della gioia, io dico sempre che potrei fare molto meglio alcune cose (Liana Chieli. Assistente sociale del Centro di Salute Mentale di Magione). L’attenzione alle narrazioni dei propri pazienti è, dunque, un aspetto centrale nella metodologia di approccio e di lavoro degli operatori. Questo discorso si collega anche a 171


quello che Giuseppe Tibaldi sostiene sul ruolo del medico nella relazione con il paziente, cioè l’importanza per il primo, di essere consapevole della necessità di un compromesso tra il proprio sapere e quello di chi è "esperto per esperienza": È una simmetria che certo ci deve essere. In questa storia portata all’attenzione da Tibaldi, se tu vai a leggere, nella letteratura psicoanalitica, psicoterapica, queste cose già ci sono. È evidente che si tratti di una simmetria, perché tu sei in possesso di alcune conoscenze e il paziente fa l’esperienza, ma tu non lo puoi aiutare se non stabilisci un rapporto di collaborazione paritario, puoi imporgli delle cose, ad esempio di prendere un farmaco, ma in casi estremi, per tutelarlo. Tutta la psichiatria che viene dalla chiusura dei manicomi in poi, quindi tutta la psichiatria "rinnovata", lo è sulla base del riconoscere potere all’altro soggetto e al mentale, come contesto nel quale tu lavori. Al mentale da un lato e alle condizioni sociali e relazionali dall’altro. Questa condizione a cui risponde Tibaldi, o le storie di guarigione, oppure il discorso della recovery, è un po’ un ricordare, evidentemente necessario, a modalità mediche più classiche e direttive applicate anche alla cura della mente, che in realtà non funziona così. Diciamo che è il risultato di un, chiamiamolo "riflusso" in modalità più oggettivanti, più biologiche, farmacologiche, ambulatoriali, però è come un ritrovare anche le radici che sono alla base della psichiatria rinnovata. In caso contrario, non sarebbe stato possibile chiudere i manicomi: dei luoghi schifosi dove si faceva violenza e, anche se non vi era violenza, si era comunque obbligati a stare, si era obbligati ad assumere dei farmaci, dove nessuno ti chiedeva perché stai male, che cosa ti senti, raccontami della tua vita. La chiusura 172


non sarebbe stata possibile se non ci fossero state delle teorie, o degli apporti culturali, che provenivano dalla filosofia, dalla fenomenologia, dalla psicanalisi e da tutto questo. Quello che si è fatto dopo è stato sull’onda di questo, quindi tutta la letteratura americana di chi operava con gli psicotici nelle cliniche, lavorava in psicoterapia, gli psicoanalisti che si occupavano di casi gravi e così via. Adesso, parlare di quelle cose per reistituire il soggetto e la soggettività evidentemente è indispensabile, perché è accaduto nel frattempo qualcosa che ha riportato indietro la questione. […] da una dimensione che fino ad un certo punto ha funzionato, dagli anni Settanta fino ad una certa data che non so neanche dire, si è giunti ad un bisogno di propagandare questa verità che dal punto di vista scientifico è già presente nei saperi (Elisabetta Rossi, psichiatra – Centri di Salute Mentale Perugia Centro, Perugia-Bellocchio e Perugia - Ponte San Giovanni). Senza fare riferimento a ciò che sostiene Tibaldi, anche un’altra psichiatra ritiene centrale l’analisi della illness dei pazienti: La narrazione è fondamentale per conoscere il paziente, essa consente di avere un quadro più completo della situazione. Consideri che oltre la storia di malattia, per me è importante anche la storia di vita della persona che ho di fronte. A volte uno scompenso può anche non derivare da un disturbo psichiatrico primario. Un abbassamento del tono dell’umore, ad esempio, può anche essere causato da una disfunzione endocrina e non per forza da cause di origine psichiatrica. Tenga presente che, specialmente nel primo colloquio, il tempo che mi ritaglio per il paziente è di un’ora, per cui cerco di 173


dedicarmi a lui il più possibile e ovviamente chiedo della famiglia, quando parlo di storia di vita mi riferisco a tutto ciò che lo riguarda e non solo alla patologia (Nicoletta Marinelli, psichiatra - Centro di Salute Mentale di Magione). La vita del paziente e la narrazione che egli fa al medico del proprio vissuto di malattia, sono il percorso da seguire sul quale poter costruire il progetto di riabilitazione e cura. Nell’intervista citata, emerge che la tendenza a procedere secondo un approccio meno narrativo alla cura, è ancora presente in riferimento ai servizi pubblici: […] non è vero che tutti fanno come me eh, assolutamente. Ci sono medici che visitano tanti pazienti, ma dedicano loro poco tempo. Tenga presente che nelle registrazioni che noi, come A.S.L., dobbiamo fare riguardo alle visite, se si andasse a fare un’indagine, non credo che chi risulta aver visitato dieci pazienti in una mattinata, quindi dalle 9:00 alle 14:00, possa essere considerato migliore di chi magari ha fatto meno colloqui. Ciò che è importante sono i risultati in termini di riabilitazione e soprattutto quelli duraturi sul lungo periodo (Nicoletta Marinelli, psichiatra - Centro di Salute Mentale di Magione). Da questo si può dedurre che sono ancora una volta i limiti e le regole imposte dall’organizzazione entro la quale si opera che, per rispettare i tempi e le sempre più limitate risorse, richiedono delle prestazioni maggiormente standardizzate a scapito dell’approccio soggettivo e improntato all’ascolto del paziente. 174


Scegliendo l’ascolto attivo, il coinvolgimento dell’altro, la relazione medico-paziente risulta qualificabile come relazione "significativa": ovvero uno scambio all’interno del quale gli interlocutori si riconoscono reciprocamente come soggetti distinti e autonomi, con dei limiti, ma anche con delle risorse che, attraverso strategie e schemi valutativi propri, possono essere attivati e impiegati per un obiettivo comune. La relazione, affinché sia davvero "significativa", dovrebbe avere una chiara definizione di quali sono i ruoli dei soggetti coinvolti, tenere presente la storia personale, sia del professionista che del paziente, avere chiaro il contesto istituzionale e culturale all’interno del quale è posta in essere. Il dialogo tra le parti, lo vedremo per l’ascolto attivo, dev’essere di tipo comunicativo, qui ritorna l’importanza di una comunicazione efficace tra chi è esperto perché ha esperienza e chi lo è per professione. Se tutto l’impianto della relazione significativa funziona bene, il progetto di aiuto e di cura, contrattati e rivisti con l’interessato, produrranno effetti positivi sia per la patologia che potrà essere gestita, sia per la persona stessa che si renderà sempre più autonoma e capace di superare le difficoltà. Con la relazione significativa, è possibile affrontare assieme al paziente quelle fasi della malattia citate da Tibaldi: accettare che qualcosa non va, evitare la passività, superare la percezione del sé come soggetto malato, quindi, ritrovare la speranza perduta. Questi momenti del vissuto di malattia portano con sé delle emozioni che, durante gli incontri con i professionisti, devono essere affrontate e nominate. Difficilmente chi vive un delirio conseguente alla patologia psichiatrica, riesce ad uniformarsi alle "regole del sentire" (Cerulo, 2015, p. 21). Facile, quindi, per un 175


utente della salute mentale, essere etichettato e stigmatizzato, in quanto non conforme alle norme di comportamento e di espressione delle emozioni che il contesto impone. I professionisti cercano di lavorare con le persone prestando attenzione al momento che esse vivono: non sempre è il caso di riflettere sulle emozioni, certe volte provocano sofferenza e non sempre è immediato il ricordo di un dolore o di una paura: Non sempre i pazienti psichiatrici hanno la voglia di ripercorrere certi momenti dolorosi o certe situazioni. Spesso iniziano dicendo: «Ti ricordi quando stavo male» punto. Per cui la predisposizione ad ascoltarli c’è, però dipende dal momento, non sempre ne hanno voglia o desiderano farlo. A volte capita che vengano qui per fare una richiesta precisa e poi iniziano a raccontare ciò che è successo la sera prima, quello che ha suscitato in loro un certo fatto accaduto, in questi casi è ovvio che non li ferma nessuno (Liana Chieli, assistente sociale – Centro di Salute Mentale di Magione). Possono esserci dei blocchi dovuti ad un disturbo psicotico o per chiusura del paziente, questo dipende molto anche dalla patologia che hanno. Qualcuno tende a trattenere le emozioni e anche le informazioni per paura che si sappia in giro (Nicoletta Marinelli, psichiatra – Centro di Salute Mentale di Magione). Diciamo che le emozioni a volte vengono fuori e a volte no, nel senso che non vengono fuori in maniera esplicita, ma tra le righe bisogna saperle leggere. Beh, spesso le agiscono, non sempre le esprimono a parole. Per esempio la rabbia non necessariamente il paziente riesce a 176


riconoscerla, a dirla, prima di aver spaccato qualcosa (Dalila Battistini, psichiatra- Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). Con le emozioni dei pazienti ci si comporta, innanzitutto, accogliendole, cercando di nominarle, cercando di comprenderne l’origine, capire perché la si esprime in un determinato modo, perché quella emozione, a cosa è collegata, a che tipo di associazione mentale il paziente la riconduce. L’emozione è una sorta di tracciato e nella relazione tu puoi interpretarla o puoi semplicemente accoglierla, a seconda del momento. […] puoi anche cercare di approfondire e commentarla, ma questo dipende un po’ dalla condizione e dal problema della persona che hai davanti, dalla sua possibilità in quel momento di elaborare qualcosa di più approfondito. In altre situazioni non è importante scavare, ma è importante in qualche modo accogliere e contenere un’emozione troppo forte, mostrando che si ha la possibilità insieme di sviluppare quella cosa, in attesa di renderla più comprensibile, più utile alla persona, affinché capisca cosa è meglio per se stessa, ciò che la fa stare male e ciò che la fa stare bene (Elisabetta Rossi, psichiatra – Centri di Salute Mentale Perugia Centro, Perugia-Bellocchio e Perugia - Ponte San Giovanni). Dato il crescente numero di giovani adulti che vengono presi in carico nei servizi della salute mentale, una delle emozioni che viene fatta presente nei colloqui con i professionisti, ma anche durante i laboratori o con gli operatori, è la paura. Paura di non superare la condizione di malattia, paura dei momenti di crisi, che possano ripresentarsi, paura che l’etichetta di malato psichiatrico 177


possa diventare uno stigma impossibile da eliminare dalla propria vita: […] la paura di non avere un futuro. I giovani, soprattutto, manifestano la paura che questa esperienza, che tutto quello che hanno fatto li segni a vita. La difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro che notano anche loro (gli utenti), sia di inserirsi nel mondo del lavoro, sia reggere un lavoro che ha condotto molti a non avere esperienze occupazionali importanti fino ad ora. Qualcuno ha lavorato un po’, è stato nel mondo del lavoro, altri hanno già visto che ancora prima del ricovero non erano riusciti a prendere il via; o l’università non terminata, o un lavoro che dopo due giorni non hanno retto (Silvana Molinari, assistente sociale – Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). Il desiderio di una vita nuova dopo la malattia, viene manifestato non solo con i medici o gli assistenti sociali durante i colloqui, ma anche durante i laboratori, nei momenti di dialogo tra utenti o anche negli scambi di opinione con me. La volontà di mettere impegno nelle attività proposte dai progetti di aiuto, viene espressa da molte persone che ho conosciuto. In particolare: Mentre parlo con M. si avvicina a noi J. che ci tiene a raccontarmi quella che definisce "la mia caduta libera": «Cristina, senti, io volevo dirti che la mia "caduta libera" è iniziata quando stavo male una sera. Mi sentivo come se qualcosa fuori di me, ma che vedevo solo io, mi teneva forte forte le mani, tipo con le manette ed io non potevo muovermi. Mi sentivo male con me stesso, era come se c’era un altro J. che diceva cose strane ed io che lo sentivo stavo male. Allora mio padre è andato alla U.S.L. 178


per chiedere aiuto e ha trovato tanti dottori che sono stati buoni e ci siamo conosciuti. Da quando sono qui io sto bene, perché anche cucire e recitare mi fa stare bene, io adesso mi sento bene con me stesso. E quelle cose brutte che sentivo adesso non ci sono…ogni tanto capita che non sto bene però non come prima…prima era brutto! Io ho imparato che dalle cose si può uscire, non voglio essere negativo nella mia vita perché mi sto impegnando tanto e ce la voglio fare a stare bene» (tratto dal mio diario di campo durante un laboratorio di teatro).49

5.3. GUARIGIONE

O REMISSIONE CLINICA IN SALUTE

MENTALE

Prima eravamo matti, ora siamo malati. Quando saremo considerati uomini? (Giuseppe Tibaldi) La riflessione sulla guarigione in salute mentale è frutto della lettura di numerosi articoli di quelle che Giuseppe Tibaldi chiama "Storie di guarigione", quindi delle storie di persone che fanno esperienza di malattia mentale grave e riescono poi a superarla, passando "dalla catastrofe alla guarigione". È opportuno, secondo Tibaldi, che la psichiatria moderna sappia dotarsi di équipe di professionisti motivati, affinché la speranza della guarigione non sia collocata tra le utopie di questa branca della medicina, ma che diventi qualcosa di reale, nel quale investire, così che la malattia 49

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mentale non diventi un tratto distintivo perenne di una persona. Il contatto con il contesto di vita, il lavoro sulle risorse attivabili, la qualità delle relazioni tra chi ha vissuto la stessa esperienza e con i professionisti, consentono il raggiungimento di livelli di benessere che permettono di prendere le distanze dall’esperienza psicotica. Un ulteriore aspetto rilevante in questo senso, è la capacità di saper aspettare, come afferma il medico piemontese in un’intervista per La Repubblica: Racconta il lavoro con uno dei pazienti più gravi. Lo segue dal 1990: «Ha avuto il crollo intorno ai 17 anni. Quella vissuta fino ad allora la chiama la sua prima vita. L'esperienza psicotica, ormai ventennale, con voci e fantasie, la chiama la sua "vita spirituale". Ma è convinto che avrà una seconda vita. Un giorno gli ho chiesto quanto tempo si dava per arrivare alla seconda vita. È stato un errore, era meglio se non l'avessi chiesto, ho rivelato la mia impazienza. Ci ha pensato un po' e ha risposto: mille anni». Giuseppe Tibaldi non ha fatto una piega: «Va bene, mi attrezzo» (Favetto, 2012, p. 1). Per cercare di comprendere se una distanza dalla patologia psichiatrica possa essere realmente possibile, ho chiesto alle professioniste di definire la guarigione e la remissione clinica. Quanto emerso, induce a non considerare i due concetti come ossimori se riferiti alle patologie psichiatriche, sebbene siano necessarie delle precisazioni. Se la salute può essere definita come una condizione di benessere fisico, psichico e sociale, dove si è consapevoli e padroni delle proprie risorse, allora, secondo le professioniste intervistate, la remissione clinica in salute 180


mentale è possibile quando si verificano determinate circostanze, tra cui: La possibilità di raggiungere un’autonomia maggiore, di avere una consapevolezza di sé maggiore, una minore necessità di confini e guide che vengano dall’esterno, a quel punto il paziente è in grado di averli internamente questi aspetti. Quindi il lavoro svolto in comunità, che è un contenitore ed è fatto di relazioni terapeutiche, è stato interiorizzato, per cui se lo porta con sé e non ha bisogno dello spazio fisico così fortemente delimitato (Dalila Battistini, psichiatra- Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). La guarigione io, pensando ad alcuni pazienti, la vedo nel momento c’è una consapevolezza della propria malattia. Per cui nel momento in cui un paziente, dopo tanto rifiuto, si rende conto che deve fare un progetto insieme, quindi, non è solo un togliere i sintomi, ma c’è un’adesione ad un progetto (Assistente Sociale – Centro di Salute Mentale di Magione). Quando l’esperienza della malattia, attraverso il percorso di aiuto con i professionisti, viene vissuta con consapevolezza da parte dell’utente, in quel caso, si può parlare di guarigione. Le patologie psichiatriche minori, quali la depressione, il disturbo d’ansia, possono giungere alla guarigione nel senso comunemente attribuito al termine. Per le patologie psichiatriche più gravi, quali la schizofrenia, guarire significa iniziare ad accettare la propria condizione, sposare il patto terapeutico con gli operatori dei servizi e riuscire, piano piano, ad essere sempre più autonomi nelle attività della vita quotidiana. 181


Di seguito le opinioni di due professioniste che chiariscono quanto spiegato: Essere in remissione significa assumere la terapia farmacologica con regolarità ed essere consapevoli della propria condizione, senza che questa rappresenti un limite in tutti gli ambiti della vita. La guarigione dipende dalla patologia, purtroppo, anche la psicoterapia non è adatta a tutti i percorsi (Nicoletta Marinelli, psichiatra – Centro di Salute Mentale di Magione). Remissione è quando i segnali più eclatanti ti capitano meno spesso, le crisi, quindi riesci ad avere una stabilità più costante (Silvana Molinari, assistente sociale – Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). I professionisti che rappresentano il campione di questa ricerca, sono orientati a relazioni significative con gli utenti, dove questi ultimi non sono concepiti come soggetti dipendenti dalle prestazioni che i servizi erogano, ma come individui che attraversano un momento di crisi, con i quali si cerca di fare un lavoro che li renda più autonomi possibile. A questo proposito, Tibaldi insiste sulla necessità, da parte dei professionisti, di porre attenzione agli sforzi che gli individui fanno per cercare di andare oltre la "catastrofe": Le esperienze di più intensa sofferenza mentale, che sono dominate da una rottura drammatica del nucleo centrale della nostra identità, sono delle vere catastrofi, che travolgono l’individuo e tutto il suo contesto. Troppe volte, i professionisti della salute mentale si fermano – frettolosamente - a contemplare la catastrofe ed a darne 182


una inutile definizione. Troppe volte, prima di volgere altrove il proprio sguardo distratto, esprimono la convinzione che non vi siano sopravvissuti e – se mai ve ne fossero – essi non abbiano una qualche possibilità di ricostruzione. Non mostrano alcun interesse per i tentativi compiuti dai personaggi per risolvere il problema della sopravvivenza postbellica (Tibaldi, 2018, p. 3). Ritengo che le persone intervistate non appartengano alla categoria di professionisti alla quale allude Tibaldi, infatti, la possibilità di "ricostruzione" e i tentativi che essi mettono in pratica con gli utenti per fare in modo che essa sia duratura nel tempo e non porti con sé lo stigma di "malato mentale", sono fortemente incoraggiati. Quanto all’uso dei farmaci, le psichiatre incontrate, concordano su una somministrazione temporanea degli antidepressivi e degli ansiolitici per i disturbi definiti meno gravi: Dipende dai farmaci e dalla diagnosi perché in una depressione, per esempio, quindi si parla di farmaci antidepressivi, è possibile interromperli perché la depressione si cura, uno stato ansioso si cura nel tempo. Per cui non è che una persona prende le benzodiazepine tutta la vita (Dalila Battistini, psichiatra- Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). Nel caso della depressione, del disturbo d’ansia si riesce a stare senza farmaci, ma nelle situazioni gravi, un dosaggio anche minimo andrebbe mantenuto (Nicoletta Marinelli, psichiatra – Centro di Salute Mentale di Magione). 183


Diversa è la questione, invece, se si parla di disturbi depressivi gravi, quali la schizofrenia, le psicosi, i disturbi schizo-affettivi, quelli bipolari: Una schizofrenia non si cura, per cui può migliorare, però addirittura sospendere un antipsicotico…io non l’ho mai visto (Dalila Battistini, psichiatra - Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). Bisogna vedere a che livello sta la persona. Come le ho detto prima, il rischio è la riacutizzazione del paziente, ho qualche remora sulla sospensione degli antipsicotici, credo siano pochissimi i casi in cui questo si verifica. Consideri che quando un paziente arriva da noi un esordio già c’è stato, quindi, con molta probabilità diversi momenti acuti li ha già avuti, quindi la riabilitazione comprende anche i farmaci […] (Nicoletta Marinelli, psichiatra – Centro di Salute Mentale di Magione). Il rischio della sospensione dei farmaci nei disturbi gravi è la riacutizzazione del problema. Spesso, sostengono le psichiatre, l’utente arriva al Servizio in una fase acuta, quindi, il farmaco è necessario affinché la crisi sia controllata. Dopodiché, un’interruzione drastica, non solo produrrebbe nuove crisi più acute delle precedenti, ma anche una più faticosa ripresa. Dopo ogni nuova crisi, la ripresa ha inizio da un gradino più in basso, quindi la remissione tarda ulteriormente ad arrivare. Su questo argomento, la discussione che più mi ha fatto riflettere, è stata quella con Elisabetta Rossi che sostiene: Il discorso farmaci è un discorso molto interessante e delicato. Il farmaco non va demonizzato, se 184


somministrato secondo alcune regole e con attenzione agli effetti indesiderati, è un grosso aiuto alla persona a riprendere il contatto e a gestire l’esperienza di malattia, addirittura, in alcuni casi, è fondamentale. Penso, ad esempio, alle situazioni di intervento precoce, l’uso dei farmaci è fondamentale, affinché non si strutturino dei vissuti fortemente segnati dall’esperienza psicotica. La somministrazione di farmaci nelle patologie psichiatriche non va, dunque, demonizzata, dal momento che una terapia farmacologica può intervenire e bloccare la strutturazione di disturbi che possono diventare anche molto gravi. In tutte le condizioni di alterato equilibrio fisico e psico-sociale, è opportuno prendere in considerazione la prescrizione di una terapia che vada ad alleviare i sintomi e ad evitare gli scompensi. Fatta questa premessa, poi, il discorso di Tibaldi sulla possibilità di sospendere i farmaci in alcuni pazienti per ridurre al minimo gli effetti collaterali, è un dato importante. La Rossi, concorda con il collega piemontese nel ritenere i farmaci delle "gru" utili per la ricostruzione, ma che debbono stazionare meno possibile accanto all’edificio distrutto: Nello scenario di una ricostruzione, dopo i bombardamenti o dopo un terremoto, i farmaci possono avere qualche analogia con le gru, che consentono di smaltire le macerie e di costruire nuovi, più solidi edifici. Quando ci si avvicina alla fase finale della ricostruzione, le gru gradualmente scompaiono e solo in quel momento si percepisce chiaramente il nuovo profilo della città che era stata bombardata. La solidità dei nuovi edifici dipenderà esclusivamente dalle nuove fondamenta e non 185


certo dalla permanenza – senza fine – delle gru (Tibaldi, 2018, p. 6). Tibaldi insiste sulla necessità di porsi nei confronti della terapia farmacologica seguendo lo slogan "lessi s more", quindi utilizzarla meno spesso nell’approccio alla cura, prestando attenzione al dosaggio che dovrebbe essere il più basso possibile, al fine di garantire un dialogo con il paziente sulle probabili cause che provocano le fasi acute. Infine, è importante che il medico chiarisca i limiti della terapia farmacologica sul lungo periodo e che, quindi, non la concepisca, né la presenti all’interlocutore come la strategia risolutiva per eccellenza.50 Elisabetta Rossi, analogamente a Tibaldi, fa un discorso sui farmaci che non è presente nelle interviste delle altre colleghe interpellate. Ella, ritiene fondamentale la presa in considerazione della volontà del paziente anche su questo aspetto, anche quando è evidente che egli non abbia coscienza dei rischi ai quali potrebbe andare incontro senza la terapia farmacologica. Nel rispetto della relazione e del progetto di auto che è sempre un contratto tra i due, il medico deve assumersi dei rischi: Poi c’è tutto il dibattito sul quanto, sulla durata dell’assunzione del farmaco e anche in questo bisogna molto basarsi sull’opinione del paziente. Questa va tenuta molto in considerazione, sia perché ti può dare delle informazioni, sia perché può essere un’opzione che lui può darti. È molto complicato, ad esempio, quando tu vedi che una persona senza farmaci veramente rischia 50

Tibaldi, 2017, Uso appropriato degli psicofarmaci, Relazione al Convegno "Dalle parole ai fatti. Indicatori e programmi per i servizi di salute mentale", pp. 6-7.

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delle cose e questa, magari insistentemente, rimane ancorata nella convinzione di non volerne prendere. Lì c’è un’assunzione del rischio da parte del medico, di lasciare questa libertà preoccupandosi, ma consentendo al paziente un minimo di rischio. Il problema è riuscire a stabilire un rapporto collaborativo tale che il cosiddetto "paziente" comprenda che tu in quel momento stai cercando di fare qualcosa che non modifica il suo essere, il suo esistere, ma che va ad intervenire su qualcosa che lui stesso poi deve riuscire a controllare e gestire con più autonomia. Questa dimensione del contratto, dell’adesione è importante anche per l’aspetto della terapia farmacologica. […] Poi dipende, puoi avere delle persone che possono avere una strutturazione più elementare e magari ti chiedono il farmaco che tacita un po’ il sintomo e a loro basta, però, normalmente, quando hai situazioni più complesse, più ricche di potenzialità e di rischi, è evidente che il farmaco da solo non può assolutamente funzionare. È la relazione d’aiuto, la relazione di cura ad aprire tante finestre sulla comprensione di sé, sulla relazione con gli altri, di cosa di fa "scapocciare" e perché, quanto è legato alla storia di vita. Questo è una terapia, poi il farmaco può aiutare affinché uno non stia agitatissimo, non dorma la notte oppure vada proprio fuori di testa perché eccitato oppure iper-depresso, ma è qualcosa che deve essere integrato dentro una terapia diciamo, psicologica. La relazione di aiuto torna ad essere, di nuovo, il filo rosso di tutta la terapia, farmacologica e non. Il farmaco dovrebbe essere somministrato per il minor tempo possibile, oltre questo, deve essere affiancato da interventi che prestino attenzione alla dimensione relazionale, emotiva, sociale della persona. Da qui 187


nascono i laboratori di espressione artistica, teatro, pittura, scrittura, le attività che possono preparare all’ingresso o al ritorno nel mondo del lavoro, orto terapia, laboratori di cucito e cucina. Oltre questo, c’è anche la psicoterapia, individuale e/o di gruppo, e i gruppi di auto-aiuto. Concludo il paragrafo di nuovo con le parole di Elisabetta Rossi: Il farmaco da solo non fa assolutamente nulla o fa molto poco. […] è molto importante poterlo ridire, come problematizzare il discorso dei farmaci, perché non c’è scritto da nessuna parte che devi prolungare un neurolettico all’infinito e che il mantenimento ti protegge, perché magari ti può dare altri danni. Quindi, tutto quello che proviene dalla ricerca scientifica va tenuto in considerazione perché oltretutto, sui farmaci, tu non hai l’investimento delle case farmaceutiche all’innovazione, non è remunerativo, questo campo è iper complesso. Tu hai degli snodi di scoperte su farmaci abbastanza decisivi, come i neurolettici o certi tipi di antidepressivi, che hanno modificato l’andamento sintomatologico, ma non hai poi, assolutamente, trovato il farmaco per la psicosi che ti consente di star bene, di non avere il delirio e di non avere un quadro metabolico alterato o di rimanere vivo e vivace, rimanere operativo senza avere crisi, questo non c’è. Quindi, hai uno strumento utile, ma non è totalmente utile, quindi devi problematizzarlo perché non hai novità tali negli ultimi 30 anni da poter dire "guarda ho trovato il farmaco", come ho trovato, da punto di vista biologico, dov’è l’eziologia, le cause sono multifattoriali, non hai la causa. Se tu punti tutto sul farmaco, quando questo ti copre sotto certe cose e non ti 188


modifica sostanzialmente l’assetto del disturbo, beh è chiaro che vai poco lontano.

5.4. PSICHIATRE

E ASSISTENTI SOCIALI: LE EMOZIONI DELLE PROFESSIONISTE

La terza parte dell’intervista semi-strutturata presenta un elenco di termini che evocano delle emozioni, ai professionisti è stato chiesto di definire ciascuno di essi, facendo riferimento al proprio lavoro. Non descrivo adesso quanto emerso dalla discussione sulle emozioni degli educatori e di alcuni utenti, a loro ho dedicato un paragrafo più avanti in questo capitolo. Ciò che ho chiesto di illustrare, sono le seguenti parole: gioia, senso di colpa, paura, solitudine, inadeguatezza, tristezza, frustrazione e rabbia.51 Vi sono le quattro emozioni principali, felicità-tristezzapaura-rabbia, e altre che ritenevo poter essere indicative di momenti emotivamente difficili da affrontare nel lavoro socio-clinico e capire come vengono elaborate. Premetto di non aver riscontrato grandi difficoltà nel parlare di emozioni con le professioniste che ho incontrato. In tutte è emersa la necessità di trovare maggiore tempo per riflettere su questo aspetto cruciale del loro lavoro. In generale, è più frequente che delle proprie emozioni si parli in ambienti che non siano il luogo dove si svolge la professione, oppure con un collega con il quale si è particolarmente in confidenza, piuttosto che nei momenti

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L’elenco è stato ripreso, ma anche integrato, da un’esercitazione proposta nel testo di Boukaram, 2014, pp. 30-31.

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istituzionali di rielaborazione del vissuto emotivo che i casi in carico, inevitabilmente, evocano. Iniziamo dalla definizione della gioia secondo le psichiatre: Beh tante volte, forse…la provo quando vedo che i pazienti stanno meglio, quando raggiungono dei piccoli obiettivi che per loro sono grandi…quando li vedo soddisfatti (Dalila Battistini, psichiatra- Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). La provo quando vedo che le cose vanno bene, cioè quando un paziente arriva qui e sta bene, lo vedo stare bene e questo è bello! (Nicoletta Marinelli, psichiatra – Centro di Salute Mentale di Magione). Mi viene in mente quando un paziente che è stato molto male, sta meglio, e tu lo vedi stare meglio (Elisabetta Rossi, psichiatra – Centri di Salute Mentale Perugia Centro, Perugia-Bellocchio e Perugia - Ponte San Giovanni). La gioia è, dunque, connessa a qualche evento positivo che si riferisce ai pazienti: un obiettivo raggiunto, una patologia sempre più tenuta sotto controllo e, soprattutto, la consapevolezza, da parte dell’utente, della propria condizione. Le assistenti sociali fanno un’associazione molto simile in proposito: È difficile provarla. La provi quando vedi che qualcuno esce ed esce con il percorso migliore. Quando anche loro fanno delle conquiste, un’udienza finita bene, magari tolta una libertà vigilata. Allora dici: «Oh, ho lavorato 190


bene, ci siamo mossi bene!». Certe volte questa emozione la proviamo noi per loro (Silvana Molinari, assistente sociale - Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). In un solo caso, ho riscontrato l’accostamento tra la gioia e, non una conquista che fa l’utente, ma un’emozione positiva associata al proprio operato: Mah, gioia di solito ce l’hai nel momento in cui ti rendi conto che qualcosa è andato bene. Più che l’esito, non so ad esempio un utente ha trovato un lavoro o comunque ha fatto una conquista propria, più che in questi casi, io ho provato gioia quando ho avuto un’intuizione, quando il tuo ascolto produce qualcosa di buono, ecco questo mi dà gioia (Assistente Sociale - Centro di Salute Mentale di Magione). Per quanto riguarda il senso di colpa, le psichiatre ammettono di provarlo, ma per diverse ragioni: chi lo attribuisce al modo di lavorare, che può non essere messo in pratica al massimo se vi sono preoccupazioni personali, altre, invece, lo associano all’impossibilità di dedicare tempo sufficiente ai propri pazienti. Tra le assistenti sociali, invece, c’è chi ritiene di non provare il senso di colpa sul lavoro perché consapevole di operare al massimo delle proprie capacità e chi, al contrario, ne sente il peso quando non riesce ad accogliere l’altro come vorrebbe a causa di altre preoccupazioni: Senso di colpa, quando ad un certo punto magari ho gli affari miei e non riesco a dare quello che vorrei sul 191


lavoro (Dalila Battistini, Terapeutica "Torre Certalda").

psichiatra-

Comunità

Quando non si riesce a fare tutto ciò che si vorrebbe (Nicoletta Marinelli, psichiatra - Centro di Salute Mentale di Magione). Non so se è cattiveria, però non lo sento perché io cerco di metterci tutto, tutto. Se non riusciamo in una cosa o non la raggiungiamo, io non provo un senso di colpa. Io so che moralmente faccio il possibile sia per loro, che verso i familiari con i quali a volte il rapporto è molto difficile, mi impegno nel cercare di fare da tramite per tentare di ristabilire dei buoni rapporti (Silvana Molinari, assistente sociale - Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). Io lo sento quando non hai le risorse per attivare un percorso, nonostante io cerchi di impegnarmi con tutti i mezzi possibili, andando anche oltre le mie forze (Assistente Sociale – Centro di Salute Mentale di Perugia Centro). Un’altra emozione da definire è la paura: essa può essere associata al timore che l’utente, in preda ad un momento di crisi acuta, agisca atti violenti verso l’operatore, come nel caso dei racconti di due psichiatre: Quando sono stata aggredita, è successo una mattina di dicembre, un paziente ha tentato di buttarmi giù dalla terrazza che sta qui (indica quella presente nella stanza dove ci troviamo al momento dell’intervista). Quella è stata la volta in cui ho avuto veramente paura (Dalila 192


Battistini, psichiatra- Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). Ho avuto paura davvero una sola volta. Ero da poco arrivata in un Servizio ed ero andata a trovare un paziente, che poi è F. che ha incontrato a pittura, per conoscerlo. Era in fase catatonica ed aveva un atteggiamento di sfida verso di me e le altre due operatrici che mi accompagnavano, per giunta, eravamo tutte donne…Ecco in quel momento ho avuto paura che potesse fare davvero qualche gesto violento verso di noi. Chiaramente, mai farsi vedere che si è intimoriti, io ero quasi certa che non sarebbe successo nulla, così infatti è stato, però c’è stato un attimo in cui sì, ho avuto paura. La paura si combatte cercando di essere presente e agire con coscienza (Nicoletta Marinelli, psichiatra - Centro di Salute Mentale di Magione). La paura può anche derivare dal senso di responsabilità che il professionista sente verso la persona in carico, un po’ come per il senso di colpa: credere di non aver fatto abbastanza, o di non essere stati in grado di gestire una situazione con tutte le conseguenze che questa potrebbe avere avuto per l’utente. In un caso, mi è stato riferito, che la paura si associa ad una mancata comunicazione tra i servizi, specialmente nelle urgenze: Paura a volte capita. C’era chi spaccava vetri…Tutto. Quando sai che comunque loro (gli utenti), nelle situazioni di crisi, agiscono in modo forte e il Servizio ci mette tanto a risponderti. Quando un’ambulanza per venire su per fare un T.S.O. ci mette…C’è una burocrazia dietro impressionante! Se li vedi così, nelle 193


situazioni come oggi, ci passeresti veramente anche una cena, il problema è che non è sempre così. Ci sono situazioni in cui, ad esempio, se chiamo il Servizio e gli chiedo di dare un’occhiata ad un utente perché non sta bene e lui mi risponde che quel giorno non può, quell’utente l’indomani mi butta all’aria tutto…Non ti ascoltano e sottovalutano, ti ho detto che non sta bene! (Silvana Molinari, assistente sociale - Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). La paura è un’emozione che, a detta delle persone intervistate, deve essere mascherata per evitare che il ruolo del professionista venga meno. Essa è, dunque, uno dei motivi per i quali la machera emotiva non può essere dismessa sul luogo di lavoro, ma è al contempo un’emozione ritenuta necessaria affinché si agisca in modo prudente, sia verso se stessi che nei confronti dell’utente. Questo aspetto è presente nel colloquio con un’assistente sociale che riporto di seguito: La paura c’è, e c’è per tante situazioni. Ci sono delle situazioni molto forti, specie quando le persone arrivano qui che stanno molto male, hai paura per la persona, per quello che può succedere. La paura è molto presente e, secondo me, deve esserci perché ti fa capire cosa è opportuno fare e quali accortezze devi avere. La paura ti aiuta a proteggere te stesso e l’altro che magari rischia qualcosa e, a causa della patologia, nemmeno se ne accorge. Se non hai paura, non sai comprendere i meccanismi giusti per difendere la tua persona, perché capita che vi siano anche situazioni pericolose (Assistente Sociale – Centro di Salute Mentale di Perugia Centro). . 194


Vi è, poi, la solitudine, avvertita sia verso l’équipe, quando manca la collaborazione o quando si hanno idee molto diverse sulle modalità di intervento, sia verso gli utenti, quando a causa delle patologie, non riescono a raggiungere i risultati sperati: Tanta, perché ci sono dei momenti in cui ti senti solo. Solitudine anche come difficoltà a mettersi in relazione con le persone, non con tutti riesci a relazionarti tanto quanto tu senti che sia necessario e, a volte, senti il peso di tante decisioni che ricadono su di te e ti senti sola, quando poi del tutto non lo sei (Assistente Sociale Centro di Salute Mentale di Magione). C’è quando si vorrebbero fare tante cose e ci si rende conto che questo non è possibile, ad esempio, quando si ha un’idea e un direttore o i colleghi non sono d’accordo (Nicoletta Marinelli, psichiatra - Centro di Salute Mentale di Magione). Quando vedo che i pazienti non migliorano e non condivido col gruppo questo malessere, per non frustrare a mia volta gli altri (Dalila Battistini, psichiatra Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). In un caso, un’assistente sociale mi ha fatto notare come la solitudine sia avvertita in misura minore se il gruppo di lavoro è collaborativo e ben disposto al dialogo. La persona in questione, racconta di aver esercitato la professione anche all’interno di un Comune. In quella circostanza, il senso di abbandono viene descritto come maggiormente presente, infatti era l’unica professionista di aiuto in un ambiente dove i rapporti con gli utenti non si basano sulle relazioni significative. 195


Nel Centro di Salute Mentale nel quale lavora attualmente, questa assistete sociale, si sente meno sola perché inserita in un contesto e in un’équipe che fa della relazione significativa, tra colleghi e utenti, lo strumento centrale. Più che negli operatori, ella, riscontra un forte senso di solitudine negli utenti: Io qui la sento meno, quando lavoravo sul territorio, invece, la avvertivo tantissimo, ma non qui. La percepisco molto di più negli utenti, nelle storie che raccontano, la solitudine è fortissima. La sofferenza per la patologia è molto presente. Oltre a questo, un’emozione che emerge spessissimo è la solitudine che porta con sé angoscia, ansia. Questo aspetto dà tanto, nel senso che accresce molto la possibilità di comprendere l’altro e, quindi riflettere sulla metodologia migliore di lavoro con esso. Al tempo stesso però, è molto forte da sostenere per me, non sempre è facile e, il fatto di sapere che posso contare sugli psichiatri e sugli infermieri perché lavoriamo insieme, mi dà molta forza. Per quanto mi riguarda, noto che rispetto al lavoro sul territorio sono molto meno sola. Prima ero molto spesso da sola, ma avevo anche a che fare con persone che avevano bisogni diversi, ad esempio il contributo economico, certo, anche lì ci sono situazioni di indigenza estrema, ma l’utenza di un Servizio specialistico è differente. Qui la malattia viene fuori, la sofferenza e la solitudine emergono praticamente sempre e l’essere in équipe mi sostiene molto come professionista (Assistente Sociale – Centro di Salute Mentale di Perugia Centro). Il senso di inadeguatezza, invece, è avvertito maggiormente in relazione al rapporto con i colleghi. 196


Una delle assistenti sociali interpellate, ad esempio, ravvisa inadeguatezza nel momento in cui altri professionisti, gli psichiatri in modo particolare, sembrano non considerare il ruolo di snodo dell’assistente sociale nei progetti di aiuto: Più che altro è la conseguenza delle risposte che ti danno all’interno del gruppo nostro di lavoro, possono far sentire quello che fai poco considerato…Perché c’è questa difficoltà. Gli operatori, la psichiatra e lo psicologo si differenziano rispetto al ruolo mio che ha tanto di burocratico, tanto, per loro è difficile da capire. Se, ad esempio, dicono: «L’utente sta bene, domani è dimesso», oppure: «L’utente sta bene, domani fa questo». No, non è così immediato, ci devo pensare io e noi abbiamo un mondo di burocrazia. Forse anche loro ce l’hanno sulla terapia, ma io su questo non metto bocca, non me ne intendo. Il nostro lavoro segue tutti quelli che sono i passaggi della vita degli utenti, ad esempio attivi un lavoro, inizi un’attività, c’è una marea di burocrazia dietro che per loro (gli altri colleghi) è difficile da capire. Dopo sta alla delicatezza delle persone con le quali lavori comprendere bene questa cosa (Silvana Molinari, assistente sociale - Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). L’inadeguatezza viene, inoltre, percepita anche nel momento in cui la vita privata invade la sfera lavorativa e risulta complicato scindere i due ambiti. Anche questa volta, è un’assistente sociale a mettere in evidenza questo aspetto: Non ci sono chissà quante risorse, senti che il tuo intervento è inadeguato per far fronte a certe situazioni, 197


per cui sì, l’inadeguatezza c’è. Poi c’è anche un’inadeguatezza mia personale, questa è una professione che devi sempre rivedere, ti devi sempre reinventare, per questo a volte ti senti inadeguata. È capitato che in fasi della mia vita in cui avevo cose mie, mi sentissi inadeguata sul lavoro, per cui quando sei assorbita da altre situazioni, fai una grossa difficoltà a tirare fuori il meglio in te stessa e negli altri oltre al lavoro (Assistente Sociale - Centro di Salute Mentale di Magione). Il senso di inadeguatezza, in senso opposto, può anche rappresentare una spinta alla continua messa in discussione del proprio operato, evitando di darsi per scontati anche dopo molti anni di lavoro con le persone: […] io mi sento sempre inadeguata! Uno vorrebbe fare di più, vorrebbe fare tante cose, ma non sempre puoi arrivare ovunque. Non siamo tuttologi, non siamo in grado di raggiungere tutto, quindi io…Mi sento sempre inadeguata rispetto alle cose! Ti spiego, non è un’inadeguatezza in senso negativo, so che ho un ruolo che ho costruito negli anni, so quali cose sono in grado di fare, non è che mi sento un’inadeguata persa, però le situazioni più difficili ti fanno sentire inadeguata perché le risposte non sono così immediate e quelle che proponi non sempre funzionano (Assistente Sociale – Centro di Salute Mentale di Perugia Centro). A fronte di un ambiente di lavoro con risorse sempre più esigue per rispondere ai bisogni dei cittadini e a problematiche ogni giorno più complesse che non si limitano ai sintomi organici della patologia, ma coinvolgono anche il contesto sociale di vita della 198


persona, con l’inadeguatezza si può sperimentare anche un forte senso di impotenza verso la sofferenza: Ci sono delle situazioni, ad esempio con i pazienti affetti da disturbi della personalità gravi, dove tu hai tanti strumenti, ma il paziente te li fa fallire tutti. E allora puoi sentire l’inadeguatezza che è quella che ti induce il paziente. Come distrugge dentro di sé le cose, distrugge le relazioni, distrugge anche le strategie che gli offri per aiutarlo. Le decisioni che tu puoi prendere, non sono in nessun modo né facili né risolutive, quindi sei come immobilizzato e ti trovi a dover tollerare questa impotenza, a decidere, a mettere al sicuro una persona. Forse è un po’ diverso dall’inadeguatezza, forse sento più l’impotenza che l’inadeguatezza. Certamente, essere messi in crisi da pazienti sempre più complessi quello sì, perché poi le complessità sono varie e sei di fronte a situazioni in cui a volte ti chiedi se sei adeguato, e come puoi esserlo nella maniera migliore (Elisabetta Rossi, psichiatra - Centri di Salute Mentale Perugia Centro, Perugia-Bellocchio e Perugia - Ponte San Giovanni). Un’altra emozione che ho chiesto di descrivere è la tristezza. Il riferimento ad essa, è principalmente per le situazioni di sofferenza che vivono gli utenti in carico e per la consapevolezza di non riuscire a fare abbastanza, le stesse ragioni riferite per l’inadeguatezza. L’assistente sociale del C.S.M. di Pone San Giovanni, infatti, definisce questa emozione come segue: È legata al fatto di assistere ad eventi che fanno sì che la sofferenza entri nella vita delle persone, la narrazione della sofferenza altrui provoca tristezza in chi ascolta (Francesca Grossi). 199


La tristezza, inoltre, si collega alla frustrazione, la convinzione di dare molto sul lavoro e al contempo di rendersi conto di quanto, in certi casi, molti interventi falliscano a causa di una carenza di ascolto da parte dei colleghi, la non accoglienza da parte dei membri del gruppo di lavoro provoca frustrazione. Non è solo l’ambiente interno al Servizio o la gravità delle patologie degli utenti a provocare frustrazione, infatti, se il professionista ha un ruolo dirigenziale, essa arriva anche dall’esterno, primo tra tutti, dall’ambito politico: In questo momento è totalmente frustrante il rapporto con la politica sanitaria, con quella di programmazione, anche con l’interlocuzione aziendale. Noi abbiamo il beneficio di una conferma di alcuni aspetti di budget, ma non hai la certezza che si capisca esattamente quello che fai, e soprattutto cosa sei costretto a fare per continuare a lavorare in una certa maniera, da parte delle generazioni successive di dirigenti, direttori e di manager. Al di là delle persone singole, che alla fine mostrano disponibilità, nel complesso c’è una situazione di mancato ascolto, ci sono distorsioni a livello di politiche regionali, distorsioni, ritardi, manipolazioni. Questo si traduce un po’ meno nelle aziende perché comunque alcune caratteristiche base della spesa sono conservate, ma si capisce che non c’è una conoscenza minimamente approfondita del tuo specifico professionale. E questo è molto frustrante (Elisabetta Rossi, psichiatra – Centri di Salute Mentale Perugia Centro, Perugia-Bellocchio e Perugia - Ponte San Giovanni).

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La rabbia, infine, è un’emozione che viene vissuta per diverse ragioni: dal non essere presi sul serio dai colleghi sulle valutazioni dei casi in carico, alla mole di lavoro alla quale far fronte che costringe, a volte, a prestazioni eccessivamente standardizzate. Questa emozione viene fuori anche verso gli utenti, le patologie di cui soffrono generano molta instabilità e risultati altalenanti che, in un continuo oscillare tra il progresso e la ricaduta, provocano rabbia negli operatori. In generale, questa emozione viene riferita rispetto all’organizzazione del servizio e all’ingente quantità di lavoro, piuttosto che verso le persone. Ciò che spicca è, per prima cosa, la maggiore abitudine delle psichiatre a soffermarsi sulle emozioni. La ragione credo sia rintracciabile nella formazione che queste professioniste ricevono, la psicoterapia e la riflessione sul sé sono parte del percorso di avviamento alla carriera di clinico. Coloro che invece sembrano avere maggiori difficoltà in questo esercizio, sono le assistenti sociali. Presso la Comunità Terapeutica di Umbertide c’è un gruppo di supporto per il personale che pare funzioni. Nei Centri di Salute Mentale, invece, questo tipo di attenzione alla supervisione non è presente e le intervistate ne auspicano l’istituzione, al fine di imparare a riflettere sulle emozioni e trovare riposte nel confronto con gli altri. La condivisione informale del vissuto emotivo con dei colleghi funziona nella maggior parte dei casi, ma ritengo, anche alla luce del crescente numero di utenti che sta accogliendo il Dipartimento di Salute Mentale, che un discorso più attento alle emozioni dei professionisti, dovrebbe essere una delle priorità di questo Ente. 201


Parlare di recovery e di psichiatria di comunità, dovrebbe poter significare anche maggiore attenzione ai professionisti dell’aiuto, ai loro vissuti e alle difficoltà emotive e relazionali che possono incontrare con utenti portatori di problematiche sempre più complesse. 5.5. L’ASCOLTO ATTIVO NELLE STORIE DI MALATTIA L’ascolto merita un approfondimento particolare in questa trattazione. Già nel primo capitolo, parlando di narrazione delle storie di malattia, avevo fatto cenno alla capacità di ascoltare, quella che caratterizza tutte le professioni che hanno come obiettivo la relazione significativa con l’altro e che lo supportano in un progetto per superare la sofferenza. Nelle prossime righe, cercherò di dare un quadro generale di questo concetto, quindi, illustrarne le caratteristiche principali, fornendo delle strategie presenti in letteratura per metterne in atto uno quanto più partecipe possibile. Infine, riporterò quanto emerso dalle interviste con i professionisti della salute mentale, prestando particolare attenzione alle emozioni che le storie degli utenti suscitano e alle difficoltà da affrontare nel mettere in atto un vero ascolto attivo e partecipe. Inizio inserendo questa immagine che Marianella Sclavi,52 l’autrice del testo dal quale è tratta, propone e 52

Marianella Scalvi è un’antropologa italiana che ha insegnato Etnografia Urbana e Antropologia Culturale alla I Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano (dal 1993 al 2008). Esperta di arte di ascoltare, dopo l’incarico come docente, fonda Ascolto attivo sas, un’iniziativa che contribuisce alla elaborazione e allo sviluppo di progetti di partecipazione, gestione creativa dei conflitti, facilitazione dei processi decisionali e mediazione. Marianella Scalvi

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denomina "il triangolo magico dell’arte di ascoltare" (Sclavi, 2003, pp. 14-15): Ascolto attivo attihttps://ww w.ascoltoattiv o.netvo

Gestione creativa dei conflitti

Autoconsapevolezza emozionale

La figura mostra la continua connessione tra i vertici del triangolo ideale. Questo per indicare come praticare un ascolto che sia attivo e partecipe, non possa prescindere dal tenere in considerazione altre due componenti, quali l’autoconsapevolezza emozionale e la capacità di gestire in modo creativo il conflitto. L’autrice scrive in proposito: In un senso molto preciso, un abile osservatore è anche etnografo in quanto, come l’antropologo che pratica bene l’osservazione partecipante, deve rapportarsi a ciò che osserva e a se stesso mettendo al centro le dinamiche dell’interculturalità. […] L’abilità del buon osservatore non riguarda prevalentemente l’annotare le differenze nei comportamenti; ciò che lo appassiona sono i processi circolari e le dinamiche dell’interdipendenza e mutua coordinazione nella costruzione e nel cambiamento dei è anche attiva in progetti di partecipazione e gestione dei conflitti in varie città italiane e anche nelle scuole di ogni ordine e grado, Ascolto Attivo: https://www.ascoltoattivo.net.

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contesti, dei mondi possibili. Si muove in un ambito relazionale e riflessivo, in cui l’osservatore è parte del sistema osservato. Stante questo taglio olistico, circolare e autoreferenziale, i complessi legami del triangolo magico rappresentano il mare procelloso in cui volenti o nolenti bisogna imparare a nuotare (ivi, p. 15). Affinché un ascolto venga definito "attivo", è importante che esso sia praticato assumendo un atteggiamento non giudicante, e che non si lasci influenzare dai pregiudizi che si hanno nei confronti della persona o della storia che essa riporta. In generale, vi è la tendenza a non giudicare il proprio ascolto come pregiudizievole dal momento che si adotta un atteggiamento benevolo e generoso. Questa propensione, va però distinta da quel comportamento apparentemente accogliente, ma che in realtà mira a ridurre le differenze di pensiero che si hanno tra chi si racconta e chi ascolta, in favore di quest’ultimo. La tendenza ad omologare l’altro al proprio modo di pensare e considerarlo in posizione subalterna, rischia di riprodurre, anche senza intenzione e senza consapevolezza, le logiche del pregiudizio, quelle dell’assimilazione e della posizione di supremazia del professionista sull’utente. Un ascolto attivo è quello durante il quale l’utente viene messo nella condizione di narrare di sé e della sua storia liberamente, rassicurandolo che non vi sono argomenti importanti e altri meno, che le informazioni che porta all’attenzione del professionista sono quelle che per lui hanno una rilevanza, quindi sono importanti di per sé. L’ascolto permette, inoltre, la conoscenza dell’interlocutore nel suo complesso: aspirazioni, desideri, storia familiare, tutte informazioni che 204


qualificano una relazione come significativa, che consente all’utente di essere ritenuto degno di considerazione e fornisce all’operatore delle informazioni utili al progetto di aiuto (Grigoletti, in Campanini, 2014, pp. 62-63). Durante questa condivisione, anche il professionista è portato a riflettere su se stesso, le informazioni e le emozioni che l’utente porta in evidenza, infatti, hanno una risonanza su chi sta ascoltando. Per questo, tradizionalmente, l’ascolto avviene su due livelli: uno interno ed uno esterno. Il professionista deve saper mediare tra le notizie che arrivano dall’utente durante tutto il processo di comunicazione verbale, ma è d’obbligo porre l’attenzione anche a tutto il fitto sistema di comunicazione non verbale che durante un colloquio viene messo in atto (ivi, p. 64). L’ascolto è, inoltre, vigile ed orientato quando un medico, un assistente sociale, uno psicologo o un altro operatore, riconosce importanza e presta attenzione alle parole dell’utente e al modo attraverso il quale si pone in questa conversazione. Esso è orientato, quando si è in grado di restituire quanto appreso, per dare importanza alla narrazione e per assicurarsi di acquisire informazioni corrette senza distorsioni, pregiudizi e senza cercare di modificare l’opinione dell’interlocutore adattandola al proprio ordine di idee (ivi, p. 64). Ascoltare quindi, è un’attività che si svolge assieme all’utente in carico, ma è anche un modo per il professionista di mettersi sempre in discussione, infatti: L’ascolto di sé può essere considerato come una costante stimolazione all’autoconoscenza, alla comprensione del modo che ognuno di noi adotta per porsi in relazione agli altri. Diventiamo osservatori di noi stessi, analizzando 205


come e che cosa stiamo comunicando e che cosa siamo in realtà, quale tipo di autorappresentazione abbiamo di quella realtà (ibidem). Prima di passare agli altri due vertici del triangolo dell’arte di ascoltare della Sclavi, è opportuno anche indicare i rischi nei quali si incorre se la pratica comunicativa con l’utente non è di buona qualità, e cosa propone la letteratura per ovviare a questi errori. Questi ostacoli possono derivare da elementi oggettivi presenti nell’ambiente: ad esempio dei rumori, una telefonata, un’interruzione di vario genere o l’insufficienza delle informazioni che si riescono a reperire (Zilianti- Rovai, 2007, pp. 84-88). Altri tipi di fattori disturbanti del processo comunicativo possono essere schematizzati come segue: 

La ricezione del messaggio è soggettiva: come si è detto poco fa a proposito dei pregiudizi, quando si ascolta una storia da un utente, ma anche nella conversazione al di fuori dell’ambiente lavorativo, si tende a selezionare le informazioni e rielaborarle prestando maggiore attenzione a ciò che si ritiene degno di nota. Questa pratica, la percezione, è comune in tutte le persone, professionisti della cura inclusi. Ciò che questi ultimi dovrebbero riuscire a fare è, invece, limitare più possibile l’atto di plasmare la storia che ascoltano secondo la propria cultura, il proprio modo di pensare, i propri stereotipi e pregiudizi. Selezionare le informazioni secondo i propri modelli di riferimento: come più volte mi hanno ripetuto i professionisti che ho intervistato, durante i colloqui, il pensiero che non dovrebbe mai abbandonare un operatore è che è della vita dell’utente che si sta trattando, al centro 206


 

di tutta la questione deve necessariamente esserci questo. Non sempre è possibile, ma la sospensione dei propri schemi deve inevitabilmente avvenire. Se questo non risulta possibile per difficoltà personali degli operatori, sarebbe buona prassi essere onesti con l’interlocutore e magari farsi supportare da un collega. Anche il grado di competenza che si riconosce a chi sta comunicando può ostacolare la relazione, nel caso in cui non si riesca a mettere allo stesso livello utente e operatore. Per questa ragione, nel colloquio che ho somministrato alle psichiatre e alle assistenti sociali, una delle domande era spiegare quanta difficoltà esiste nel considerare l’utente al proprio livello nel percorso di cura. Tra loro c’è chi ritiene che questo tipo di divisione non viene avvertita dal momento che, se così fosse, non potrebbe esservi un ascolto realmente attivo e produttivo di soluzioni per la persona in carico. Al tempo stesso, vi è chi ammette la difficoltà; non perché vuole rimarcare una superiorità verso l’utente, quanto perché, specie in salute mentale, spesso le persone che arrivano presso i servizi non hanno la percezione della gravità della loro condizione. Capita che durante i colloqui l’ascolto risulti condizionato da questo fattore e, anche le decisioni prese di conseguenza, non sempre possono tenere presente totalmente il punto di vista della persona. Questo condiziona la comunicazione e la relazione, ma spesse volte non vi è soluzione. La scarsa attenzione al linguaggio non verbale che rivela molte informazioni che consentono di rafforzare o smentire ciò che si sta affermando. La saturazione dell’ascoltatore: quando il professionista per stanchezza, distrazione, emozioni forti suscitate dalla storia che ascolta, non riesce più a mantenere l’attenzione alle parole del suo interlocutore. A questo proposito, 207


inserisco una rappresentazione grafica elaborata da Warren G. Bennis che rappresenta la distorsione nella comunicazione e che si può applicare anche alla relazione di aiuto (Zilianti, Rovai, 2007, p. 87): ciò che A comunica, ma non è nelle sue intenzioni

B1 Arco di distorsione, ciò che B capisce

A

B ciò che A ha intenzione di comunicare

Quanto illustrato sullo schema, è un elemento da considerare sempre nella comunicazione, specie se questa avviene in ambiti nei quali, oltre alle classiche barriere, vi sono anche le difficoltà di espressione causate da alcune patologie. Quanto detto, conduce a quelle che Marianella Sclavi denomina le "sette regole dell’arte di ascoltare" che riporto integralmente: 1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca. 2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista. 3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi nella sua prospettiva. 208


4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico. 5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze. 6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti. 7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé (Sclavi, 2003, p. 63). In questo elenco sono riassunte perfettamente le peculiarità dell’ascolto attivo e vi sono anche dei suggerimenti per imparare a metterlo in atto. Alla domanda del colloquio che chiedeva di descrivere una buona strategia per implementare questa pratica, le professioniste rispondono come segue: L’ascolto attivo di solito lo fai cercando di riformulare le varie domande, anche per cercare di vedere se hai capito davvero o se hai interpretato soggettivamente dei fatti che l’utente ti riporta. Effettivamente, non è semplice con gli utenti psichiatrici, perché spesso le emozioni che loro tirano fuori sono altamente invasive nella loro percezione del problema. La riformulazione della domanda, usare espressioni come: «Ho capito bene?», oppure: «Mi vuoi dire questo?», sono modi per portare avanti l’ascolto e far capire all’altro che si è attenti e partecipi alla sua storia. 209


Questo serve sia a me che a loro: a me perché con le domande riformulate io mi assicuro di aver capito bene i fatti e a lui perché si sente accolto nel suo vissuto (Assistente Sociale – Centro di Salute Mentale di Magione). Un'altra caratteristica dell’ascolto attivo, è quella di facilitare l’instaurazione di relazioni tra il professionista e l’utente basate sulla fiducia e sul riconoscimento reciproco, sulla chiarezza rispetto ai risultati che possono essere raggiunti e sulle difficoltà alle quali far fronte. Se si è chiari con gli utenti, la loro fiducia nei professionisti e nel progetto, risulterà particolarmente elevata: Io tendo ad ascoltare molto, ma parlo in generale della mia persona, sono molto sull’ascolto. Io tengo conto delle informazioni che mi danno i Servizi inviati sull’utente, anche lì emerge la storia, anche perché il Servizio può avere un rapporto lungo con l’utente, però dopo cambiano tante cose. Cambiano tante cose perché una volta qui, c’è un rapporto quotidiano, si instaura un rapporto, vengono fuori anche mille altre cose. A volte, attraverso un ascolto diretto, mi rendo conto che ci sono molte più cose degli utenti che emergono e fanno sì che ti chiedi cosa c’entrasse con la persona quella relazione del Servizio inviante. Io, anche alle riunioni con lo staff, tendo molto ad ascoltare, poi elaboro, penso. Anche la risposta all’utente la fornisco quando ho ascoltato, ho fatto bagaglio di tutto, la fornisco quando so esattamente che risposta dare. Se dessi una risposta immediata dimostrerei un non ascolto, perché potrei creare speranze o aspettative che poi non posso mantenere. Questo perché nel mio lavoro ti sbatti molto col burocratico e quindi l’ascolto delle aspettative è importante, però preferisco 210


chiarire che è opportuno aspettare (Silvana Molinari, assistente sociale - Comunità Terapeutica di Umbertide). Dopo l’ascolto attivo, è arrivato il momento di spostare l’attenzione ad un altro dei vertici del "il triangolo magico dell’arte di ascoltare", l’autoconsapevolezza emozionale. Anche in questo caso, mi rifaccio a quanto sostenuto da Marianella Sclavi nel testo sull’arte di ascoltare. In accordo con l’autrice, ritengo rilevante la distinzione tra la cosiddetta "retorica del controllo" e l’"autoconsapevolezza emozionale", termine proposto dalla stessa Sclavi. Il primo atteggiamento è quello tipicamente in auge nella cultura occidentale, dove si è soliti considerare elementare, quasi scontato, il rapporto tra emozioni e conoscenza. Siamo soliti, secondo questa corrente di pensiero, dare le emozioni per scontate perché possiamo verificare ogni giorno le basi sulle quali si fondano, attraverso l’esperienza quotidiana. Ciò che propone la Sclavi è, invece, un punto di vista nuovo: considerare le emozioni come mezzi privilegiati per poter avere una maggiore consapevolezza del mondo nel quale viviamo e della società di cui facciamo parte (Sclavi, 2003, pp. 121130). La retorica del controllo vede nelle emozioni elementi che fanno venir meno l’obiettività e la freddezza che certe situazioni richiedono. Qui ritengo che l’esempio sulla salute mentale, sia calzante: un comportamento distaccato e che non lascia che il proprio lato emotivo si apra alle storie di malattia degli utenti, potrebbe essere ritenuto quello consigliabile da un medico o da un assistente sociale. Ciò che questa corrente fa emergere, è la contrapposizione, apparentemente senza possibilità di 211


incontro, tra razionalità ed emotività: un agire razionale, quindi, non può dirsi tale se lascia che le emozioni entrino in gioco. Sono le situazioni e il modo di essere di ognuno a stabilire quale delle due mettere in atto (Sclavi, 2003, pp. 121-122). Questo discorso si applica non solo al modo di esercitare la professione di aiuto, ma a tutti gli individui in generale; i rischi del ritenere questo orientamento come corretto e rappresentativo della realtà, sono quelli che conducono ad essere definiti con il termine simmeliano "individui blasé" di cui al Capitolo II. Ciò che mi ha maggiormente colpito del testo della Sclavi, ovvero alcuni di quelli che lei chiama gli "antidoti" contro la retorica del controllo. Per il primo "antidoto", l’autrice porta l’esempio della voce che trema e il balbettare quando ci si appresta a dover parlare in pubblico. Questa, dal punto di vista della retorica del controllo, è vista come causata dalla paura: sarebbe, dunque, un’emozione negativa che provoca questa reazione durante l’eloquio davanti ad una platea gremita. L’autoconsapevolezza emozionale, invece, sostiene che anziché focalizzarsi sulla paura come causa della voce tremolante, sia opportuno riconoscere che in quel momento la persona si sente sotto pressione e reagisce balbettando (ivi, pp. 127-128). In questi casi, sarebbe utile ammettere una propria debolezza, senza negarla, perché si rischia soltanto di accentuarla. Per spiegare meglio questa parte riporto le parole dell’autrice: Ci vuole pazienza e un atteggiamento di osservazione sperimentale. Questo significa, fra l’altro, che si deve imparare a dare molta importanza a dei particolari che si presentano alla nostra percezione come marginali e 212


fastidiosi perché accoglierli comporterebbe la messa in discussione del modo di inquadrare gli eventi che diamo per scontato. Dobbiamo sapere che molti dei comportamenti che dovremo adottare per acquisire un nuovo punto di vista, non possono inizialmente che apparirci "irrazionali", "privi di senso", l’opposto di quello che ci verrebbe spontaneo e /o ci sembra giusto. Quando le emozioni sono nostre alleate il nemico non è l’irrazionalità, ma la rigidità. […] Bisogna imparare a osservare la circolarità delle reazioni alle reazioni e renderci conto che non esistono degli interlocutori come entità separate e autonome dalle relazioni reciproche. Il vantaggio è che così facendo non stiamo solo "superando la paura", stiamo approfittando della situazione per diventare delle brave osservatrici (ivi, pp. 128-129). Questo aspetto dell’autoconsapevolezza emozionale è qualcosa che ho sperimentato in prima persona durante la partecipazione ai laboratori di pittura, teatro e scrittura. Nel percepire il mio senso di inadeguatezza o imbarazzo in certi momenti, all’inizio tendevo a sviare la situazione che mi provocava disagio. Man mano che procedevo con la partecipazione e con l’osservazione, mi accorgevo che prestando attenzione alla fonte del mio malessere e, magari cercando di sdrammatizzare i momenti in cui avrei preferito scappare piuttosto che trovarmi a disagio, stavo imparando a riconoscere quelle emozioni, quali paura e ansia, che avrei voluto reprimere piuttosto che osservare. Altro antidoto, è quello che invita ad essere meno spontanei e ad usare di più l’immaginazione. Quest’ultima si basa sullo spiazzamento, sulla gestione del conflitto in modo creativo, infatti: 213


Una mossa fondamentale dell’immaginazione è il gioco dello spiazzamento, sia nel dialogo con noi stessi che con l’interlocutore. L’immaginazione si nutre del gioco dello spiazzamento: a partire dal gioco di parole e dalla battuta di spirito […]. La gestione creativa dei conflitti e la nonviolenza ci insegnano che in situazioni di tensione bisogna né cedere né attaccare, ma disarmare l’altro e noi stessi con delle mosse spiazzanti (ivi, p. 130). Quando ho approfondito questa parte, mi è subito venuta in mente un’intervista somministrata ad un’assistente sociale. Parlando della capacità di ascolto e delle difficoltà che più o meno si hanno nel prendere le opportune distanze dalle storie, questa persona ha fatto cenno all’uso dell’ironia. È una caratteristica che è parte della personalità di questa assistente sociale, ma che calata anche nel lavoro, si rivela di aiuto anche per gestire le emozioni e per cercare di prevenire, per quanto possibile, il rischio burnout. Riporto la parte del colloquio in cui questo aspetto viene alla luce: Come ti salvi da tutto questo…Perché in qualche modo ti devi necessariamente salvare anche da tutte le negatività che vengono fuori…Credo che ci si salvi attraverso il confronto. Poi ognuno per farlo ha le proprie modalità. Io, ad esempio, cerco sempre il confronto, ma per una mia caratteristica personale non riesco mai a perdere di vista l’ironia delle cose, di conseguenza spesso vado di là (indicando la stanza di fronte), faccio la mia "attività teatrale" e cerco di alleggerire guardando gli aspetti più comici delle situazioni (Assistente Sociale - Centro di Salute Mentale di Magione). 214


Per concludere il discorso sull’ascolto, è opportuno trattare del terzo vertice del triangolo ideale, la gestione creativa dei conflitti. Per farlo, Marianella Sclavi, riprende gli argomenti sulla conversazione che in parte sono già stati inseriti: i turni da rispettare, i temi affrontati, l’atteggiamento di reciprocità verso l’altro, l’attenzione anche alla comunicazione non verbale. Affinché i momenti di tensione vengano affrontati in modo originale e siano produttivi di soluzioni, i tre vertici del triangolo devo essere tenuti in considerazione tutti allo stesso momento (Sclavi, 2003, p. 259).

5.6. LA PATOLOGIA PSICHIATRICA E IL PREGIUDIZIO Parlando di ascolto attivo è necessario, alla luce di quanto rilevato nelle interviste, trattare uno degli argomenti che più spesso viene associato alle storie di malattia, il pregiudizio.53 53

Il concetto di pregiudizio, nella sua definizione più conosciuta, quella di Gordon Allport del 1954, si fonda su un giudizio formulato prima che si conosca direttamente qualcuno o qualcosa. Esso può essere sia positivo che negativo, ma in psicologia sociale con questo termine si è soliti indicare un giudizio negativo. Esprimere un pregiudizio vuol dire generalizzare in modo inesatto, valutare negativamente qualcuno ed estendere a tutta la sua categoria di appartenenza, tale valutazione. Ne consegue un giudizio falso, perché è altamente improbabile che tutti i membri di una categoria abbiano le stesse caratteristiche, e inflessibile, perché ignora le peculiarità dei singoli e rende difficile il superamento del pregiudizio che, per queste ragioni, tende a resistere al cambiamento. Il pregiudizio, inoltre, può essere espresso all’esterno, oppure sentito internamente, in entrambi i casi però, è in grado di plasmare l’azione e l’atteggiamento verso l’altro. Avere un pregiudizio verso una categoria, generalmente, comporta che esso si estenda anche al

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Tutti i professionisti, dai medici agli educatori, evidenziano la difficoltà enorme per le persone con diagnosi psichiatrica di essere accettate all’esterno, lo stigma è ancora molto forte. Per quanto riguarda le assistenti sociali, quelle intervistate si trovano spesso a fare fronte all’etichettamento di cui sono vittime gli utenti. Esiste la paura che essi siano pericolosi, che non abbiano alcuna capacità di svolgere delle attività, né lavorative né di adempiere ai doveri verso i figli. Il giudizio negativo verso la patologia psichiatrica deriva anche dai servizi territoriali che non conoscono a fondo questo ambito, i professionisti, infatti, faticano a trovare un supporto al di fuori dell’équipe. Riporto di seguito alcune parti delle interviste alle assistenti sociali che esprimono le difficoltà di andare oltre il pregiudizio e lo stereotipo: È impossibile a volte (si riferisce all’eliminazione dello stigma). Già quando tu devi predisporre un curriculum per loro, devi mettere la residenza e metti la C.T., devi inserire un telefono, loro non hanno il cellulare e allora metti quello della C.T. Poi se chiamano rispondono gli operatori: «Pronto, Comunità Terapeutica», lo capisci, ti dico tutto. Noi lo diamo per scontato, ma per loro non lo singolo membro della stessa, il quale viene etichettato negativamente solo perché parte di un gruppo valutato in senso sfavorevole. Nel tempo, la definizione di pregiudizio di Allport è stata descritta come limitata e in molti l’hanno ampliata. Voci, Pagotto, 2010, pp. 3-4. In generale, il pregiudizio è: […] l’esito di un processo che porta a giudicare un individuo in modo negativo semplicemente sulla base della sua appartenenza ad un gruppo sociale. […] utilizzeremo il termine stereotipo per riferirci alle caratteristiche e ai tratti generalmente ritenuti tipici di una data categoria sociale […] (ivi, p. 5).

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è (Silvana Molinari, assistente sociale – Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). Eh…è difficile…è tanto difficile. All’esterno la patologia psichiatrica fa ancora paura, ci sono persone che, riferendosi a pazienti psichiatrici dicono: «Ma…ma come? Quello guida?» come se queste persone siano degli extraterrestri. Invece, la patologia psichiatrica non sempre incide sul ruolo sociale che uno può avere, anzi. Ci sono persone con un elevato livello culturale, laureate, altre, provenienti da famiglie senza particolari problemi, di cultura. In questi casi è ancora più difficile accettare la patologia, sia per le persone esterne, ma anche per il diretto interessato. Questo, però è necessario. L’accettazione della patologia è fondamentale, in quanto l’essere una persona con un disturbo psichico non ti impedisce di fare altre cose, la patologia non va di pari passo con la persona. In ogni caso, è molto difficile far comprendere questo aspetto all’esterno, anche ai Servizi. Io collaboro molto con il Comune, con il Distretto però, io dico sempre una frase, che è una battuta, ma che rende l’idea: basta che uno prende due "goccine" la sera, ed è già psichiatrico. Il problema è questo. Dall’esterno questi utenti vengono stigmatizzati tantissimo, oltretutto senza fondamenta perché, come ti ho detto, per alcuni non è così totalizzante la patologia. Io sono coinvolta anche nella valutazione delle capacità genitoriali. Ecco, questo è un aspetto drammatico parlando di stigma: non sempre la diagnosi di patologia psichiatrica ti toglie la capacità di essere madre, o comunque una capacità genitoriale adeguata. Se tu hai il supporto, ti impegni nel percorso di cura, puoi essere un buon genitore nonostante la patologia. Non è facile far 217


capire all’esterno…è una battaglia! (Assistente Sociale – Centro di Salute Mentale di Perugia Centro). Lo stigma porta ad emozioni negative, la paura, il senso di abbandono e di solitudine nelle persone con patologia psichiatrica. Questo dato, a detta degli intervistati, emerge maggiormente negli ultimi anni, dal momento che nei Servizi l’età media dell’utenza si è enormemente abbassata. I giovani sono maggiormente spaventati all’idea che l’etichetta di "malato di mente" diventi un tratto distintivo e ineliminabile della propria persona. Durante l’osservazione partecipante ai laboratori di pittura, teatro e scrittura, tutte le persone con le quali mi trovavo a parlare, e la maggior parte erano trentenni, come prima frase utilizzavano il: «Mi raccomando, se ci incontriamo fuori di qua, non dire che vengo in questo posto, della dottoressa e il resto». Questa rassicurazione, specialmente per i partecipanti alle attività del Circolo, era un bisogno frequente. Uno degli utenti di Magione che ho conosciuto e al quale ho già fatto riferimento precedentemente in questo capitolo, è J., un trentacinquenne pieno di energia con un passato di malattia molto importante, ma che attualmente sembra essere sulla buona strada per una stabilizzazione. J., ogni giorno al laboratorio di teatro, ci teneva a farmi sapere quanto si stesse impegnando per evitare di andare incontro a quella che lui chiama "la caduta libera". Ha riscoperto la passione per la sartoria, infatti cuce molto bene, si impegna nelle attività teatrali ed è un abile ideatore di lavori in carta con la tecnica del quilling. Il bisogno di valorizzare le proprie capacità e di essere conosciuto e riconosciuto come abile sarto, attore o artigiano, indicano il desiderio di non fare della 218


sofferenza che proviene, ad esempio, dalla psicosi, il tratto distintivo della propria persona. Anche con gli educatori è emerso il tema della stigmatizzazione che si trovano a vivere gli utenti. Dal canto loro, come si è visto nel Capitolo IV, questi professionisti cercano di creare un ambiente che sia più possibile familiare e non legato alla patologia. A questo proposito, ricordo il gruppo di artisti conosciuto come "Gli itineranti" che Francesco Ticchioni del laboratorio di pittura ha creato per poter esporre i dipinti, senza alcun riferimento al Centro di Salute Menatale. L’intento di Ticchioni durante le mostre, lo abbiamo visto, è quello di evitare di indurre nell’osservatore il meccanismo di compassione che può spingere ad acquistare, o apprezzare dei lavori, solo perché realizzati da utenti di un servizio psichiatrico. Il pregiudizio si combatte e si riduce con la conoscenza, con il contatto con il gruppo giudicato negativamente. Di questo sono testimoni gli stessi professionisti che, come tutti, non sono esenti dall’esprime giudizi anche senza conoscere, ma il lavoro fianco a fianco con categorie soggette ad etichette inadatte e non vere, porta a rivedere le opinioni che si avevano in precedenza. Infatti, sempre l’assistente sociale del C.S.M. di Perugia Centro, afferma quanto segue: Noi del Servizio ci troviamo a dover combattere con questi pregiudizi e, quando riguardano le capacità genitoriali, è tutto molto complicato. Io, avendo lavorato sul territorio, ho vissuto questo anche da un altro punto di vista. Lavoravo in un territorio che non era questo del perugino, quindi avevo dei rapporti con un altro C.S.M. e c’era, anche da parte mia che non conoscevo quest’area nello specifico, questa paura, cioè 219


che le persone con malattie psichiatriche fossero incapaci in tutto. Devo dire la verità, lavorando in questo Servizio ho capito che non è così, quindi che persona e malattia non sono la stessa cosa. Il diritto ad una seconda possibilità è centrale negli utenti che ho conosciuto, i giovani ne sentono maggiormente il bisogno, ma è un desiderio che ho riscontrato in tutti, uomini e donne di ogni età. La paura di non tornare più alla vita "normale" è centrale in queste persone, e come sottolinea Elisabetta Rossi, anche il concetto di "normalità" non è di immediata definizione: Essere malati, essere sani, cosa vuol dire essere malati, cosa vuol dire essere sani, c’è una norma, c’è qualcosa che esce dalla norma? In realtà, soprattutto nelle persone giovani, per superare l’esperienza di malattia, è opportuno rivisitare tutte le idee preconcette che la persona in generale possiede, oltre a questo, vi è la necessità di affrontare il problema dello stigma verso se stessi e il timore di essere stigmatizzati. In realtà, il discorso della recovery è un discorso di come l’esperienza di malattia possa essere rielaborata, riassorbita, superata, impedendo al pregiudizio di condizionare in toto la vita della persona.

5.7. MASCHERE

EMOTIVE E LE PROFESSIONI DI AIUTO: IL RISCHIO BURNOUT

Una delle tematiche delle interviste è stata quella relativa al rischio burnout nei professionisti della salute mentale. Prima di mostrare cosa è emerso dai colloqui con 220


psichiatre, assistenti sociali ed educatori, mi preme fare il punto su alcuni concetti fondamentali al fine di comprendere i dati. Il termine burnout deriva dall’inglese to burn out che significa letteralmente "bruciarsi, esaurirsi, fondersi", quindi, consumarsi in termini fisici e psicologici, nel caso in esame, a causa di qualcosa che ha a che fare la professione che si svolge (Zilianti, Rovai, 2007, pp. 235240). Il burnout viene considerato una vera e propria sindrome, "sindrome dell’operatore bruciato" appunto, che è propria delle attività che hanno a che vedere con l’aiuto degli altri, che devono supportarli nel provvedere ai propri bisogni e che si trovano ad accompagnarli in percorsi di aiuto con numerose difficoltà. I medici, gli operatori socio-sanitari, gli infermieri, gli assistenti sociali, gli psicologi, gli educatori, sono i professionisti maggiormente colpiti da questa sindrome qualsiasi sia l’area nella quale prestano servizio. Nel nostro caso, ovviamente, anche la salute mentale è un settore ad elevato rischio burnout. Lo psicologo statunitense Herbert J. Freudenberger, nel 1974 fu tra i primi a studiare questo fenomeno attraverso numerose indagini empiriche. Egli sosteneva che il burnout fosse un sentirsi consumati, esausti, dall’eccessivo impiego di energie per svolgere il proprio compito; a questo si aggiunge lo sperimentare spesso il fallimento che non fa che aumentare la frustrazione. Altro aspetto che aumenta lo stato di insoddisfazione, notava Freudenberger, è la non ammissione da parte dell’operatore che qualcosa non funziona nello svolgimento delle proprie mansioni, questo non fa che esasperare il malessere all’interno dell’ambiente 221


lavorativo e in termini di risultati (Freudenberger, in Baiocco, Crea, Laghi, Provenzano, 2004, p. 37). In seguito, il significato del concetto fu ampliato, in particolare, furono Pines e Aronson, nel 1988, ad aggiungere tra i sintomi del burnout la sensazione di impotenza e di vuoto emotivo che contribuiscono ad avere una visione negativa di sé e della propria occupazione (Pines, Aronson, in Baiocco, Crea, Laghi, Provenzano, 2004, pp. 37-38). Un’ ulteriore conseguenza sul professionista della sindrome dell’operatore bruciato, è descritta dalla psicologa e sociologa statunitense Christina Maslach (a lei si deve anche una scala di misurazione del livello di burnout in un individuo che prende il suo nome). La Maslach ha il merito di aver sottolineato quanto le emozioni abbiano a che fare con questo argomento e quanto possano, se non adeguatamente riconosciute e gestite, essere deleterie per la persona e per il suo operato. Ella descrive il burnout come «una sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e di riduzione delle capacità personali che può presentarsi in soggetti i quali, per professione, "si occupano della gente"» (Maslach, in Baiocco, Crea, Laghi, Provenzano, 2004, p. 36). Se dovessimo elencare la sintomatologia di questa sindrome, si potrebbe affermare, come riteneva Freudenberger, che sentirsi affaticati e non riuscire più ad operare il giusto distacco dalla condizione di indigenza dell’utente in carico, comportano malessere fisico, disturbi quali, gastrite, ansia, insonnia, emicrania, e psicologico, pensieri negativi, scarsa fiducia nelle proprie capacità e nell’organizzazione per conto della quale si presta servizio. 222


La Maslach riferisce anche il problema dell’uso di ansiolitici negli operatori per ovviare al malessere del burnout, spesso la depressione, il senso in colpa, se non compresi e gestiti, conducono a ricorrere all’uso di farmaci. Il sentirsi consumati dalla propria professione porta anche ad un calo della qualità dell’operato; poiché, colui/colei che vive questa condizione di disagio non è propositivo/a, non è di aiuto (ivi, p. 58-59). Ho fatto cenno all’organizzazione presso la quale si svolge il lavoro, potrebbe essere, nel caso delle professioni di aiuto, una struttura privata o un ente pubblico. Ebbene, in questi luoghi lo spazio per le emozioni o per la rielaborazione dei fallimenti, dei dubbi e delle difficoltà, non c’è. Vi sono le riunioni di équipe, ma hanno per oggetto l’aggiornamento dei casi e non, almeno per la mia esperienza, la condivisione della frustrazione degli operatori. Spesso questa trova spazio in confronti a due tra colleghi con maggiore intesa, ma per un osservatore esterno, il fatto che non se ne parli tutti insieme finisce per sembrare un aspetto non importante, quando invece lo è. Lo stesso problema credo sia presente nella formazione: ho ricordato più volte quanto poco, da studentessa, abbia sentito parlare di condivisione emotiva. Già l’ambiente universitario non è per definizione un luogo di autenticità emotiva, anzi, il mascheramento è quasi d’obbligo, per di più, non esiste, ad oggi, una spiccata attenzione su questo tema neanche all’interno dei corsi che preparano gli studenti e le studentesse a diventare i professionisti dell’aiuto di domani. Un altro aspetto che può contribuire ad uno stato di sconforto generale sul lavoro, è il modo attraverso il quale è organizzato l’ente presso il quale si opera. I rapporti gerarchici, le dinamiche di potere, sono elementi 223


che rivestono un’importanza fondamentale sul benessere del professionista. Su questo, gli assistenti sociali rappresentano una figura particolarmente imbrigliata nelle regole dell’organizzazione di riferimento. Spesso, le gerarchie, le scarse risorse economiche e disposizione per l’area sociale ed i bisogni sempre più complessi, fanno precipitare l’assistente sociale in una condizione di profonda insoddisfazione e frustrazione. Non sono solo gli assistenti sociali a risentirne, ma anche tutte le professioni, anche quelle che ricoprono ruoli dirigenziali. Durante il tirocinio, ho discusso di questo con il mio supervisore, l’assistente sociale Patrizia Cecchetti dell’Ufficio di Coordinamento dei Servizi Sociali della U.S.L. Umbria 1 di Perugia. Il coordinamento dei servizi sociali territoriali è una posizione dirigenziale che un assistente sociale specialista può ricoprire. Le dinamiche di potere all’interno delle quali deve inserirsi sono molte, specialmente in un distretto sanitario dove la classe dirigenziale è prevalentemente composta da medici.

5.7.1. IL BURNOUT NELLE PSICHIATRE E NELLE ASSISTENTI SOCIALI

Dalle interviste somministrate alle psichiatre, alle assistenti sociali e agli educatori dei laboratori, emerge come dato generale che, come prevedevo, il rischio burnout risulta particolarmente elevato in ognuna delle categorie. Tutti sono concordi anche nel ritenere che qualsiasi professione che si dedica all’aiuto dell’altro in situazioni di indigenza, sia a rischio per questa sindrome, dal momento che è impossibile che le storie degli utenti non abbiano una risonanza in chi ascolta. 224


La capacità di prendere le distanze dalle storie degli utenti, risulta essere una priorità. C’è chi lo vede come un atto volto alla sopravvivenza del professionista, chi ritiene che il lavoro sia una parte della propria vita e che, oltre a questa, ve ne siano altre altrettanto impegnative. Per questo, è indispensabile tenere sempre a mente che le storie che si ascoltano devono occupare una parte della mente, ma non prendere il sopravvento su tutto il resto. Tra gli intervistati, come ho detto, tutti riconoscono il rischio burnout, però nessuno si è dichiarato in preda a questa sindrome. C’è chi per fronteggiare questo rischio mi ha detto di aver lavorato a fondo su se stesso e sulle proprie emozioni al di fuori dell’ambiente di lavoro, magari parlando con dei colleghi che operano in contesti diversi. Chi, invece, mi ha confidato di preferire sedersi in auto a fine giornata con la radio a tutto volume e non pensare a tutte le emozioni vissute, staccare. Da quanto rilevato, non credo si possa fornire un "decalogo anti burnout" per l’operatore dell’aiuto, ma di certo, la conoscenza di se stessi, dei propri limiti come persona e come professionista, le emozioni che certe situazioni provocano, costituiscono dei fattori protettivi e consentono di esercitare il proprio ruolo per lungo tempo, senza perdere il piacere di mettersi in relazione con gli utenti e di lavorare in équipe con altre figure. Ecco due delle risposte sul burnout che riassumono anche ciò che hanno detto in proposito le altre colleghe: Allora, sì, a questo rischio mi sento esposta… come tutti, perché lo siamo, perché lavoriamo con un aspetto delicato dell’animo umano, le emozioni, il dolore. Le emozioni, il dolore, ce l’hanno loro e ce li abbiamo noi. Quindi come faccio ad evitarlo… sicuramente questo è un lavoro che richiede una certa struttura interiore 225


altrimenti il burnout è dietro l’angolo per la prima cosa. Diciamo che c’è una certa conoscenza delle mie emozioni e dei miei limiti. Per cui io so quando qualcosa è alla mia portata, quando è ancora gestibile e quando questo potrebbe sfuggirmi di mano (Dalila Battistini, psichiatra e direttore sanitario della Comunità Terapeutica "Torre Certalda" di Umbertide). Io sono a rischio burnout! Io penso che questi lavori siano estremamente pesanti perché, come si diceva prima, giocano sulle tue emozioni e su quelle degli altri. Tutto quello che succede ad un paziente, o come tu lo leggi, devi considerare che lo leggi tu e in un momento particolare della tua vita; devi sempre tener presente quanto tu ci metti del tuo nell’influenzare una certa situazione. Come ti salvi da tutto questo… perché in qualche modo ti devi necessariamente salvare anche da tutte le negatività che vengono fuori… credo che ci si salvi attraverso il confronto (Assistente Sociale - Centro di Salute Mentale di Magione). Tutte sembrano essere concordi sul fatto che ciò che accade all’utente preso in carico non può non andare a suscitare delle emozioni nel professionista. La prima cosa per affrontare al meglio queste situazioni è impegnarsi in una buona conoscenza di se stessi, delle proprie emozioni e, soprattutto, dei propri limiti. I professionisti che ho incontrato, sia per gli anni di esperienza, sia per la formazione personale e per l’onestà verso il proprio operato e verso gli utenti, sono persone che cercano di rivedere costantemente ciò che i colloqui suscitano in loro. Altro aspetto che è emerso dai colloqui e che è una sorta di scudo per far fronte al burnout, è il confronto, la 226


condivisione con il gruppo di colleghi. Essa può essere una pratica più o meno istituzionalizzata all’interno di un servizio, in ogni caso, anche su questo tutti concordano sulla forza dell’équipe non solo come "luogo" di confronto sugli interventi tecnici, ma di gestione e contenimento di tutto il carico emotivo che le relazioni con gli utenti portano con sé. A questo proposito ritengo importante aprire una parentesi sull’équipe, sulla forza e le criticità del lavoro in gruppo, anche questa è una delle caratteristiche distintive delle professioni di aiuto. Tratto di questo più avanti nel capitolo, dopo aver analizzato le opinioni degli educatori sul burnout e sul lavoro emotivo. 5.7.2. GLI

EDUCATORI, TRA RISCHIO BURNOUT E LAVORO SULLE EMOZIONI

L’operatore che organizza e conduce i laboratori di espressione artistica è una figura centrale nel percorso terapeutico-riabilitativo delle persone con diagnosi di patologia psichiatrica. Il rapporto che egli instaura con gli utenti riesce ad essere più intimo e informale rispetto a quello che hanno i sanitari o gli assistenti sociali, ed è grazie a questo maggiore livello di autenticità che la loro funzione di mediazione tra il socio-sanitario e la famiglia, si fa fondamentale: L’operatore, per definizione, è un mediatore. Lo è tra gli utenti e i medici, tra gli utenti e le famiglie e all’interno dei gruppi che gli utenti formano ai laboratori. Se c’è qualche scaramuccia, è l’operatore che va lì e cerca di risolvere la questione. Quindi l’operatore è un mediatore sempre, in ogni occasione (Francesco Ticchioni, conduttore del laboratorio di pittura). 227


Quanto al rapporto con gli utenti, dalle interviste è, spesso, emerso il termine "empatia" e l’ho ritrovato anche tra le psichiatre e le assistenti sociali. Non intendo soffermarmi troppo su questo argomento che, a mio avviso, richiederebbe un lungo lavoro di riflessione. Ritengo che il termine empatia come inteso generalmente nel Servizio Sociale Professionale, cioè, la capacità di "mettersi nei panni dell’altro" per essere in grado di assumere il suo punto di vista e comprendere la sua situazione, sia pericolosamente inesatto. Assumere la prospettiva della persona che soffre, in questo caso che prova dolore a causa di una patologia psichiatrica, risulta, a mio avviso, poco probabile, non solo se non si è fatta un’esperienza personale simile, ma, anche in quel caso, ogni vissuto è a sé, ogni modo di raccontare e di vivere una malattia è soggettivo. In questa cornice, potrebbe sembrare che io voglia mettere in dubbio dei principi fondamentali delle scienze sociali e di molte altre discipline, non è così. Riterrei utile, piuttosto, un uso del concetto di empatia non come una capacità specifica del professionista dell’aiuto di farsi carico del dolore altrui per farlo proprio, ma, in linea con il concetto di simpatia di Husserl, una condizione che porta a riconoscere l’altro come soggetto, con emozioni e sentimenti come lo siamo noi. La necessità di comprendere le sue esperienze è alla base della convivenza tra gli esseri umani (Cerulo, 2009, pp. 2-3). Marianella Sclavi chiarisce il concetto di empatia, distinguendolo da quello di "exotopia" (o "extralocalità") come segue: 228


L’idea che la comprensione dell’altro/a proceda con il metodo dell’empatia, "dell’entrare dentro di lei", "mettersi nei suoi panni" è estremamente diffusa, la ritroviamo nelle conversazioni da salotto come nei libri di sociologi ed etnologi e nella visione romantica dell’amore e dell’amicizia come unione-fusione delle anime, come affinità elettive. […] Per "exotopia" (o "extralocalità") si intende una tensione dialogica in cui l’empatia gioca un ruolo transitorio e minore, dominata invece dal continuo ricostruire l’altro come portatore di una prospettiva autonoma, altrettanto sensata della nostra e non riducibile alla nostra (Sclavi, 2003, p. 172). Dunque, al termine empatia, sostituirei piuttosto quello di "exotopia", che attribuisce maggiore rilevanza alla storia della persona che vive un dolore e non incorre nella pretesa, da parte degli "esperti per professione", di assumere la prospettiva di colui/lei che soffre rischiando, come si è detto, di mettere in atto qualcosa di impossibile da realizzare nella pratica. Come per le psichiatre e le assistenti sociali, anche agli operatori dei tre laboratori, sono state rivolte delle domande sulle modalità di rielaborazione delle emozioni che, inevitabilmente, entrano in gioco durante le attività che conducono. Alla stregua di quanto fatto per le altre professioniste, anche in questo caso l’obiettivo era capire che tipo di lavoro emotivo fosse chiamato a mettere in pratica l’educatore-artista e, soprattutto, quanto la riflessione su questo lato più "nascosto" del proprio operato, fosse complessa o meno. Per quanto concerne il rischio di incorrere nella sindrome dell’"operatore bruciato", i tre operatori concordano nel ritenersi una categoria professionale molto esposta a questo pericolo. Questa consapevolezza, come è accaduto 229


parlando con le psichiatre e le assistenti sociali, si rivela d’aiuto e contribuisce a non ignorare dei campanelli d’allarme, quali, la stanchezza eccessiva, la scarsa pazienza, per riflettere sulla necessità di concedersi un periodo di riposo. Francesco Ticchioni, ad esempio, afferma che, dopo molti anni di esperienza in questo ambito ed il suo ruolo di responsabile degli educatori, ha imparato a riconoscere i momenti dell’anno durante i quali sa che avvertirà maggiormente il peso del lavoro. Per lui, Natale e i mesi estivi, sono i periodi di maggiore stress lavoro correlato: ci sono le mostre da organizzare, le uscite, le vacanze, le ferie da coordinare, c’è maggiore tristezza negli utenti con meno rete familiare perché accusano la solitudine. A tutto questo Ticchioni fa fronte cercando di pianificare delle attività che siano il più possibile di supporto agli utenti, ma al tempo stesso, cerca di trovare il modo di ricavare dei giorni di ferie per sé e per tutti gli altri educatori. Oltre a questo vi sono gli svaghi, gli hobby, diversivi di fondamentale importanza per scaricare la tensione accumulata sul lavoro, ma non fanno passare in secondo piano la riflessione sugli stati d’animo: Io sono solito riflettere sulle mie emozioni, certo. Però ci rifletto in modo tranquillo, cioè non è una cosa stancante o che mi appesantisce. La riflessione arriva, magari, a fine giornata: sei in macchina e quella è l’ultima concessione che mi faccio per pensare al lavoro, dopodiché basta. Ecco, in quei trenta minuti di macchina, penso ad alcuni avvenimenti accaduti, se avessi potuto fare di più, di meglio. Diciamo che in quei minuti mi metto in discussione e rifletto anche sulle emozioni che una certa situazione mi ha suscitato, mi domando perché, cerco di fare mente locale sulle emozioni che ho vissuto. 230


Sono da solo, in macchina, con la radio spenta, in un momento tutto mio in cui mi metto in discussione. Con la psicologa e i miei colleghi, durante la supervisione, parlo di aspetti riguardanti le emozioni al lavoro sui quali ho bisogno di supporto, di sentire un altro punto di vista rispetto al mio. Dello stesso parere è Pietro Zanchi del laboratorio di teatro, anche lui riflette sulle emozioni che la sua attività fa affiorare, ma non è solito farlo in solitudine: Riflettere sulle emozioni è qualcosa che faccio in prima persona, ma è facilitato quando ho dei momenti di scambio con altre persone, o amiche o anche all’interno del Servizio. Chi, invece, giudica l’atto di soffermarsi sulle emozioni un’attività non abituale, a meno che non vi siano eventi particolarmente scioccanti, è Amedeo Pompili del laboratorio di scrittura: Raramente rifletto sulle mie emozioni, non è mia abitudine soffermarmi e pensarci. Lo faccio solo quando succede qualcosa che mi colpisce particolarmente e che apprendo da ciò che viene condiviso nelle letture durante il laboratorio. Devo dire che una risposta negativa era ciò che dall’inizio di questa ricerca mi aspettavo e che, invece, ha tardato ad arrivare. Dalle interviste somministrate appare un campione, seppur piccolo, ma di professionisti apparentemente molto coscienti e critici sul proprio operato e sul proprio sentire emotivo. 231


In realtà, anche chi si è mostrato sicuro e deciso nel rispondere, ha palesato delle difficoltà e dell’imbarazzo che non sono emersi tanto a parole, come è accaduto con Pompili, ma espressi attraverso il linguaggio non verbale: voce tremolante, sguardo basso, risposta rapida e schiva. Tutti elementi che ho notato e rilevato durante le interviste, uno dei tanti lati positivi degli incontri faccia a faccia. Tornando al burnout, quindi, le risposte degli operatori mi consentono di delineare un profilo di professionisti, come detto, perfettamente consapevoli del rischio, ma, grazie a momenti di svago fuori dall’orario di servizio e alla presenza di momenti di condivisione informale sul luogo di lavoro, essi riescono a far fronte a questo pericolo abbastanza bene. Anche lo svolgere lo stesso tipo di attività in ambienti diversi, ad esempio, Pietro Zanchi lavora, oltre al Circolo di Magione, presso altre strutture a Foligno, Amedeo Pompili a "Torre Certalda", ma anche presso il Centro KAOS, risulta essere un fattore protettivo dal burnout. Ciò che risulta carente, come già notato per psichiatre e assistenti sociali, è la presenza di gruppi di supervisione per gli educatori. Solo Francesco Ticchioni dice di prendervi parte. Presso l’Unità di Convivenza di Castel del Piano, infatti, gli operatori, ogni quindici giorni, incontrano una psicologa esterna e con lei discutono dei casi in carico, delle difficoltà, delle strategie di intervento da rivedere o da proporre. Gli altri due non sono coinvolti in questa attività, la motivazione che entrambi danno è che, già la supervisione è cosa rara, per chi non è parte di un unico gruppo perché opera in più contesti, lo è ancora di più. Questo aumenta il senso di solitudine e di inadeguatezza. 232


I momenti non istituzionali di dialogo tra colleghi si possono trovare, la presenza di condivisioni durante gli spazi informali o fuori dall’orario di lavoro è un elemento che si riscontra in ogni una realtà, ma le istituzioni, come abbiamo già detto, non dovrebbero ignorare questo bisogno dei professionisti, sarebbero infatti necessari dei gruppi di supervisione che si svolgano con cadenza regolare al pari delle riunioni di équipe. Nella parte del colloquio che chiede di descrivere brevemente emozioni e stati d’animo elencati, ho riscontrato una maggiore predisposizione a svolgere questo compito nell’operatore che ha detto di essere inserito in un gruppo di supervisione. Sarà, forse, un caso? Non credo. Tutti e tre gli operatori hanno dato delle definizioni, ad esempio, di paura, gioia, tristezza, che dimostrano un elevato livello di attenzione al vissuto emotivo che le relazioni con utenti psichiatrici suscitano, ma sono state riflessioni molto più brevi, frettolose, segno che, forse, non si è soliti parlarne e guardarle realmente "in faccia". Sia per chi è più allenato nel "mentalizzare" le proprie emozioni, sia in chi lo è di meno, alla domanda sull’importanza di questo genere di analisi di se stessi, tutti sono concordi nel ritenere che: Riflettere sulle emozioni significa toccare dei punti molto intimi della propria anima che si cerca sempre di non andare ad esplorare, o se lo fai, tendi sempre a dare una giustificazione sul perché senti quello o quell’altro, ma non vai mai a fondo perché è una cosa scomoda da sperimentare (Francesco Ticchioni, conduttore del laboratorio di pittura).

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Riflettere sulle emozioni è lasciarsi trasportare nel viaggio di una nave, avere la capacità di tuffarsi, sperimentare, bagnarsi, sentire il calore dell’acqua o il freddo. Il limite con il quale uno ha sempre a che fare è capire quanto riesci ad arricchire l’altro dal punto di vista emotivo. Questo è qualcosa che ritorna anche a me, che avverto. Riuscire a stupirsi di se stessi è la cosa bella della riflessione sulle proprie emozioni e che va di pari passo con l’attività di laboratorio che svolgo (Pietro Zanchi, conduttore del laboratorio di teatro). Avere coscienza delle proprie emozioni è importante, quindi, è importante anche riflettere su di esse. Come ti ho detto, non sono solito farlo molto spesso, cerco piuttosto di non pensarci. In realtà… puoi non pensarci, ma non puoi non sentirle o non viverle, sempre di relazioni si tratta e non possono essere separate dal vissuto emotivo (Amedeo Pompili, conduttore del laboratorio di scrittura). 5.8. LA FORZA DELL’ÉQUIPE L’équipe, all’interno di un servizio che offre cura, riabilitazione, presa in carico di persone in situazioni di particolare bisogno, è un elemento imprescindibile sia per gli utenti, sia per gli stessi professionisti. Grazie al gruppo, i progetti strutturati per ogni persona vengono continuamenti sottoposti a revisioni e aggiornamenti e questo grazie all’apporto dei diversi saperi che ogni professionista contribuisce ad apportare. Infatti:

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Il gruppo in tal senso è lo strumento fondamentale per un passaggio verso processi di integrazione e di crescita, e dovrebbe essere ben presente come tale nella mente di ciascun operatore, indipendentemente dalle sue specifiche competenze professionali, configurandosi come modo di pensare, di leggere, di interpretare e di agire in ciascun contesto. Dare quindi maggiori spazi di lavoro al gruppo i curanti, sia in termini di quantità di tempo da dedicare effettivamente alla riflessione comune e condivisa, che di qualità, così da differenziare adeguatamente le varie tipologie di assetti di lavoro di gruppo, appare un elemento strategico e centrale per farsi carico delle complessità in gioco (Mancini, 2016, p. 194).54 Affinché le riunioni d’équipe passino da essere un gruppo di lavoro e si trasformino in lavori di gruppo è opportuno e consigliabile, secondo Enrico Mancini, seguire alcuni accorgimenti organizzativi. L’équipe dovrebbe riunirsi almeno una volta a settimana, con un orario stabilito e che può variare, gli obiettivi, infine, dovrebbero essere ben definiti, ma al tempo stesso si dovrebbe evitare la tendenza a stabilire dei punti da toccare, una sorta di rigido ordine del giorno, per consentire che i nodi da trattare siano quelli che tutto il gruppo assieme stabilisce, senza vincoli di argomentazioni. Dovrebbe esserci, quindi, un buon livello di flessibilità, in questo senso giocano un ruolo

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Enrico Mancini è uno psicologo, psicoterapeuta e analista d’équipe. È il presidente della Comunità La Tenda di Foligno (PG), opera nell’ambito della dipendenza e si occupa di formazione e supervisione di gruppi di professionisti dei servizi pubblici e del terzo settore.

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importante le capacità di mediazione di chi coordina queste riunioni (ivi, p. 195). L’équipe è un gruppo che, non solo si trova a dover eseguire dei compiti ed erogare delle prestazioni, ma deve anche proporre soluzioni che tengano conto delle risorse degli utenti, esistenti e potenziali, delle reti e del territorio, della comunità all’interno della quale essi sono inseriti. Grazie a questo, è possibile comprendere l’importanza della presenza di più figure professionali coinvolte nella cura e riabilitazione degli utenti, affinché ognuna apporti il proprio contributo: È evidente che la riunione d’équipe rappresenta il cuore operativo della vita del servizio, e pertanto deve coinvolgere ogni aspetto della vita di questo (ivi, p. 196). Oltre che interpretare le situazioni in carico e fare un’attenta lettura del territorio di competenza, gli operatori dovrebbero soffermarsi sul vissuto dei propri componenti, sulle emozioni che il lavoro con l’utenza suscita, così da poter trovare un momento di condivisione e riflessione sul sé del porofessionista, come buona pratica per superare le difficoltà. In questo caso, anziché di riunioni d’équipe, si parla di gruppi di supervisione: La supervisione è lo spazio privilegiato ove l’équipe può prendersi cura di sé, analogamente a ciò che avviene per le persone ed i gruppi che usufruiscono di un percorso di sviluppo. […] In questo spazio, le narrazioni ed i vissuti portati dai partecipanti, riguardanti aspetti della propria esperienza lavorativa, non vengono utilizzati per prendere decisioni in merito allo sviluppo dei diversi programmi, ma diventano "pre-testo" nel qui ed ora per la 236


narrazione stessa, in termini professionali, di sé e del gruppo nel suo insieme. […] La supervisione è quindi occasione di conoscenza reciproca e del modo di essere gruppo (Mancini, 2016, p. 198).

Per schematizzare alcuni elementi fondamentali che qualificano la supervisione come strumento del tutto positivo per le professioni di aiuto, si fissano i tre punti seguenti: Conoscenza dei membri del gruppo: come si è detto sopra e da quanto emerso dalle interviste ai professionisti dell’aiuto, la supervisione del gruppo offre l’opportunità di conoscere i propri colleghi e il loro modo di relazionarsi con gli utenti e con i loro bisogni. Al tempo stesso, è un momento di scambio sulle emozioni che certe situazioni suscitano: l’ammissione di una difficoltà se una data situazione riporta alla mente delle emozioni forti, è sinonimo di professionalità, di onestà verso il proprio operato, verso i colleghi e anche verso l’utente. Queste le parole di un’assistente sociale che spiegano quanto appena illustrato: Quando ci sono situazioni che mi coinvolgono particolarmente dal punto di vista emotivo, io cerco di farlo presente ai colleghi, cioè quando rischio di non essere imparziale. Ad esempio: sono coinvolta anche nella valutazione delle capacità genitoriali ed io, per mia inclinazione personale, tendo ad essere più spesso dalla parte delle donne, delle madri. Quando mi trovo in queste condizioni, ne parlo alla collega psicologa e le dico: «Guarda, io ho questa difficoltà, per cui se vedi che tendo ad essere meno obiettiva magari, ecco, supportiamoci» (Francesca Grossi, assistente sociale - Centro di Salute Mentale di Ponte San Giovanni). 237


Momento di formazione permanente: il confronto offre la possibilità di misurarsi con altre persone, rivedere dunque il proprio approccio al lavoro, sia con l’utente che con i colleghi, quindi è un’occasione per apprendere sempre qualcosa in più: In questa ottica, essa non è solo uno strumento di cambiamento, ma l’occasione che ci si può offrire di rimanere in cambiamento, configurandosi anche come spazio di attraversamento della propria cultura e della propria storia, dai confini e dalle frontiere permeabili. […] l’Altro non deve essere né assimilato né retoricamente accolto, bensì riconosciuto proprio come altro diverso da sé, nel quale si possono ritrovare parti proprie (ivi, p. 199).

Narrazione di gruppo: in tutti i gruppi di supervisione vige la regola del non giudicare ciò che emerge dalla storia dell’altro. In questa occasione, la relazione tra i partecipanti diventa un momento di analisi su se stessi, facendo tesoro dei vissuti altrui affinché rappresentino un mezzo per conoscere i propri colleghi e per meditare sul proprio modo di operare in relazione con essi. La narrazione è l’occasione per rendere reali le proprie esperienze professionali e le emozioni che ne conseguono; la verbalizzazione di questi episodi, con le difficoltà, le frustrazioni, la rabbia, fanno in modo che si presti attenzione a quanto dentro di noi accade con queste emozioni e, al tempo stesso, offrono un’occasione di riflessione collettiva. La Comunità Terapeutica di Umbertide organizza, con il supporto di un esperto esterno, il gruppo di supervisione 238


per l’équipe. Questo momento di condivisione era presente i primi anni di apertura della Struttura, poi, dopo qualche tempo, era stato abbandonato vista l’impossibilità di gran parte del personale di prendervi parte. In seguito, ne era stato organizzato uno solo per gli educatori e, da circa un anno, di nuovo ce n’è uno per tutta l’équipe. Ho ricevuto alcune informazioni in proposito dall’assistente sociale della C.T., Silvana Molinari, che descrive l’attività come segue: Una volta c’era anche il gruppo di supporto con un esterno, poi è stato sospeso… ora lo hanno riattivato, è proprio per i professionisti ed è ottimo. In questo gruppo puoi parlare del vissuto emotivo, ed è tra noi professionisti. Allora questa (la partecipazione) è stata molto altalenante. All’inizio lo facevano solo gli operatori perché sono quelli che vivono il quotidiano quindi possono averne più bisogno. Per un periodo, invece, eravamo sempre io e la psicologa dato che gli operatori dovevano seguire la turnazione. Adesso è ripartito da poco, ancora ci vengono tutti, io cerco di farlo più possibile e credo sia buono. È una cosa che di solito funziona se il gruppo la sa usare e sarebbe bene che una volta concluso, la conversazione sui temi emersi finisse lì, non c’è bisogno che si facciano commenti al di fuori. Ci deve essere una grande professionalità per riuscire a mandare avanti un gruppo di supporto. In questa attività c’è un esterno, uno psichiatra o uno psicoterapeuta che ci segue, non abbiamo mai fatto un gruppo solo tra di noi, sempre con un esterno.

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Durante l’intervista, ho avuto modo di capire che, in base al conduttore esterno e al tipo di gruppo, le modalità di organizzazione della supervisione sono varie; possono essere più o meno strutturate e stimolare la narrazione attraverso input che provengono dall’esperienza di lavoro, quindi, un caso concreto particolarmente complesso, oppure, c’è libertà di iniziare la condivisione con un argomento che ogni componente sceglie o che viene concordato insieme. I due frammenti di intervista che seguono, sono uno della Molinari e l’altro di Francesco Ticchioni, essi hanno maggiore esperienza in termini di partecipazione a queste riunioni rispetto agli altri colleghi: C’è chi fa domande precise, chi magari parte dall’ultima settimana di lavoro, quindi magari da qualche evento in particolare che è successo, e chi invece se ne sta zitto e ascolta e chiede solo di cosa vogliamo parlare. Nei gruppi ai quali partecipiamo attualmente, la dottoressa (si riferisce al Direttore Sanitario della Struttura) ha consigliato di parlare di un caso specifico, invece nell’ultimo che abbiamo fatto siamo tornati a parlare liberamente di ciò che volevamo, dipende (Silvana Molinari, assistente sociale – Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). Andiamo là e lei (la psicologa) chiede se c’è qualcosa di cui volgiamo parlare in particolare, oppure, è lei che porta un argomento sul quale discutere. I temi sono sempre basati sulle emozioni, su come le viviamo, sul lavoro che a volte dobbiamo fare per mascherarle, ma senza ignorarle. Questo lavoro è sulle emozioni, qui tu non avverti la fatica fisica, ma quella mentale, per cui queste riflessioni 240


sono fondamentali (Francesco Ticchioni, conduttore del laboratorio di pittura del Circolo Ricreativo "Noi Insieme"). Anche se non possono essere definiti gruppi di supervisione, vi sono, specie all’interno dei servizi pubblici, dei momenti di condivisione che abbiamo definito "meno istituzionali": ad esempio, davanti ad un caffè ci si confronta con uno o più colleghi con i quali si ha una confidenza maggiore. È una modalità che può condurre a non aprirsi del tutto con il gruppo di lavoro, ma è comunque un modo per riflettere sul proprio operato cercando sostegno nell’altro. Anche questo può ritenersi una buona condotta per riflettere sulle emozioni. Riporto le parole dell’assistente sociale del Centro di Salute Mentale di Magione con la quale è emerso quanto appena descritto: No, non ci sono (ai gruppi di supervisione). Abbiamo le riunioni di servizio che a volte, con la mole di lavoro da fare che è tanta, non ti dico che siano quasi un passaggio di consegne, ma ecco… solo in casi particolari c’è un confronto più approfondito. Abbiamo, però, dei momenti che definirei non istituzionali, che sono anche quelli che pare funzionino di più anche in riabilitazione. C’è la sala degli infermieri dove c’è sempre pronto il caffè caldo, per cui da lì passiamo ed è un luogo dove ti incontri, fai il punto della situazione ed è un momento in cui veramente tiri fuori le emozioni perché non è così istituzionalizzato, non ci è richiesto e per questo emergono di più gli stati d’animo e vengono maggiormente recepiti. Uno spazio istituzionale, ad esempio un gruppo terapeutico per noi professionisti, non c’è, noi quindi lo 241


professiamo e lo pretendiamo dalle cooperative che gestiscono le strutture, ma non siamo poi in grado di crearne uno per noi. Lo stesso conforto cercato, anche non volontariamente, in un collega o, come nel caso appena riportato, in momenti non istituzionali quali la pausa caffè, è una pratica che ho ritrovato anche presso la Comunità Terapeutica di Umbertide. L’assistente sociale, durante l’intervista mi ha raccontato che in passato aveva una collega psicologa con la quale era solita condividere momenti lavorativi complessi, riportarle le difficoltà di intervento con qualche utente, oltre a confidarsi su questioni personali. La condivisione è un bisogno. La necessità di farsi conoscere, anche al di là della professione che si svolge, consente ai colleghi di percepire i momenti durante i quali è più difficile mantenere separata la vita privata dal lavoro e, senza dover dare troppe spiegazioni, il gruppo arriva a supporto del compagno che vive una situazione di maggiore stress: Prima c’era una psicologa e con lei ci prendevamo dei momenti di sfogo reciproco, anche parlando proprio del tuo ruolo, non per parlare degli altri. Adesso, forse, no, ma lì era proprio un rapporto tra me e lei, avevamo quasi la stessa età, entrate quasi insieme, abbiamo vissuto i cambi di medici insieme. Non era per parlare degli altri, era anche uno sfogo nostro sulle nostre vite. Questo vuol dire molto… quando tu sai che l’altro vicino a te conosce la tua difficoltà, un giorno che arrivi più carico hai qualcuno che ti capisce, ma non è perché devi venire meno al tuo dovere. Qui le emozioni le proviamo tutti, però tu devi essere quello "sano", loro ti "succhiano" le energie e tu devi dare loro la possibilità di 242


farlo, però non devi "svalvolare". Quindi il tuo vicino diventa un appoggio, io faccio l’assistente sociale, tu fai il tuo lavoro, però insieme ci appoggiamo. Se io ho un figlio a casa che sta male che non so cos’ha, non è che me ne sto in malattia, però arrivo al lavoro con un carico emotivo importante (Silvana Molinari, assistente sociale – Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). 5.9. L’ASSISTENTE SOCIALE NELLA SALUTE MENTALE In questa parte del capitolo intendo esaminare brevemente il ruolo dell’assistente sociale all’interno dei servizi di salute mentale. Questi ambienti sono caratterizzati da un’elevata presenza di personale sanitario, infatti, nei centri di salute mentale del territorio vi sono principalmente psichiatri e infermieri, non sempre gli psicologi e, di norma, un assistente sociale. Dalle interviste somministrate alle quattro assistenti sociali, emergono opinioni ambivalenti riguardo l’importanza del proprio ruolo professionale nei servizi specialistici. C’è chi ha trovato un ambiente nel quale si sente di essere molto influente e ben accettata dal personale sanitario e chi, invece, riscontra uno scetticismo, specie negli psichiatri, verso il proprio operato che impedisce, in alcune circostanze, la serenità sul luogo di lavoro. In un caso, mi è stato riferito che in passato gli psichiatri non comprendevano il ruolo dell’assistente sociale in un C.S.M., poi, grazie al lavoro d’équipe, ai confronti e alla condivisione dei progetti, l’assistente sociale ha assunto un ruolo di raccordo tra le varie professionalità e un ponte necessario tra l’istituzione e gli utenti. 243


Il Servizio Sociale Professionale è presente nell’area della salute mentale a partire dagli anni Cinquanta, molto in ritardo rispetto agli Stati Uniti e all’Inghilterra che, invece, lo vedono coinvolto già dall’inizio del Novecento in tutti i servizi specialistici.55 Dopo la costituzione del Dipartimento di Salute Mentale con vari decreti legge dei primi anni Novanta, la Legge Quadro per la Realizzazione del Sistema Integrato di Interventi e Servizi Sociali, la n. 328 del 2000, supera l’assistenzialismo garantendo interventi che migliorino la qualità della vita delle persone. Questo sistema integrato, prevede la promozione delle iniziative delle persone, la partecipazione attiva alla vita sociale di queste e delle loro famiglie, nonché delle forme di reciprocità e di autoaiuto.56 55

La legge n. 431 del 1968 menziona per la prima volta la figura dell’assistente sociale sia negli ospedali psichiatrici che all’interno dei cosiddetti C.I.M. Questo segnò l’avvio di un rinnovamento all’interno della cura dell’utenza della salute mentale che prevedeva un reinserimento dell’individuo nella società, dopo l’esperienza del manicomio. Dopo numerose difficoltà per la conquista di un ruolo specifico all’interno dei servizi di salute mentale, con la Legge Basaglia e con quella che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale (n. 833/1978), il lavoro dell’assistente sociale si sposta sul territorio, affinché l’utente venga in contatto con il proprio ambiente di vita e con le risorse riabilitative che esso offre (Piscitelli, in Sanicola, 1997, pp. 49-51). 56 La legge n. 328 del 2000, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali si inserisce in un vuoto legislativo di oltre 110 anni in cui è mancata una regolamentazione organica dei servizi socio-assistenziali. Prima di questa norma, solo la Legge Crispi del 1890, dettava disposizioni in materia di assistenza sociale. La 328/2000 concepisce la persona come soggetto portatore di un bisogno, ma al tempo stesso, inserito all’interno di un ambiente di vita da considerare e attivare nel raggiungimento del benessere. Le reti sociali acquistano, dunque, un ruolo di snodo nei percorsi di

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In Umbria, fin dagli anni Settanta, come la psichiatria, anche la Scuola di Servizio Sociale ha recepito il rinnovamento nell’ambito del trattamento degli utenti della salute mentale. I suoi docenti e studenti di quel periodo, infatti, erano coinvolti nel processo rinnovamento dell’assistenza a coloro che avevano vissuto la violenza, l’esclusione e l’abbandono del manicomio (Scotti, in Santambrogio, 2012, pp. 221-222). Le professioni coinvolte in questo cambiamento si trovano a dover rivedere il proprio approccio alla riabilitazione delle persone, le conoscenze teoriche necessitavano, dunque, di un’integrazione attraverso le esperienze sul campo. In questo senso: […] nella Scuola di Servizio Sociale, in quanto associata alla pratica di una psichiatria in trasformazione, venivano offerte occasioni di formazione sul campo per gli studenti, i quali venivano inseriti in gruppi di lavoro che erano impegnati ad operare e a riflettere sull’esperienza e a programmare i futuri cambiamenti. […] La risposta della Scuola agli stimoli che venivano dai processi di trasformazione dell’assistenza psichiatrica, dalla lotta antimanicomiale e dall’estendersi di una nuova politica di salute mentale sul territorio, ha prodotto il cambiamento di contenuti e metodi negli insegnamenti […] (ivi, p. 225). aiuto; l’inserimento o il re-inserimento della persona nell’ambiente di vita sono, in questo senso, delle priorità. Questo apre la strada a tutta una serie di lavori sul territorio e con la comunità, dove le persone sono protagoniste attive del processo di aiuto e collaborano con i servizi in un’ottica di sussidiarietà. Il Terzo Settore diventa un interlocutore centrale, sia per i servizi territoriali sia per i cittadini, Assistentisociali.org: http://www.assistentisociali.org/servizio_sociale/legge-quadro-3282000-sistema-integrato-servizi-sociali.htm.

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La professione di assistente sociale aveva, tra le sue priorità, quella di superare il carattere assistenziale che la poneva sempre ad un gradino inferiore rispetto ai medici e agli infermieri. È in questi anni che, attraverso la collaborazione con altri operatori, la condivisione delle strategie di intervento e delle responsabilità, che questa figura acquista delle specificità proprie. Attualmente, il Centro di Salute Mentale è situato all’interno del Dipartimento di Salute Mentale e, con il lavoro integrato di psichiatri, psicologi, infermieri e assistenti sociali, eroga servizi di accoglienza, valutazione e presa in carico degli utenti con patologie psichiatriche. La metodologia di intervento segue un modello multifocale, nel quale le diverse competenze professionali si uniscono e si integrano per un lavoro a più voci sui bisogni della persona. Attraverso l’accoglienza, i colloqui, l’ascolto attivo e partecipe, le visite domiciliari e l’elaborazione di progetti individualizzati e integrati, l’assistente sociale e tutta l’équipe supportano l’utente nel suo percorso di cura. La presenza del Servizio Sociale Professionale all’interno di un servizio specialistico consente di inquadrare la patologia psichiatrica all’interno del contesto di vita delle persone, i farmaci, in questo senso, sono considerati solo uno degli elementi del percorso di cura, le dinamiche familiari e le relazioni sociali, sono anch’esse elementi chiave per una visione olistica della patologia. L’assistente sociale, in questo contesto, è il professionista che integra l’area sanitaria, media tra i servizi e contribuisce a qualificare in senso significativo le relazioni:

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Riqualificare il servizio sociale. Con ciò si realizzerebbe una depsichiatrizzazione della salute mentale che non sia un depotenziamento della stessa, avendo la garanzia di risorse dedicate che permettano di coprire quello spazio tra sociale e sanitario che viene alternativamente occupato dal sociale o dal sanitario, a seconda delle risorse disponibili o, in tempi di carenza, completamente abbandonato. Il supporto tecnico di questa politica di salute mentale dovrebbe essere un nuovo servizio sociale in cui si esercitino competenze psicosociologiche per affrontare la micro conflittualità, le situazioni complesse multi-problema la cui psichiatrizzazione sarebbe una fonte di danno (Scotti, 2009, pp. 33-34). 5.9.1. L’ASSISTENTE

SOCIALE E LA RELAZIONE CON GLI

UTENTI

Uno degli argomenti di discussione che ho posto alle assistenti sociali intervistate chiedeva di definire il rapporto con i propri utenti. Il quesito nasce dalla curiosità di capire se queste professioniste percepiscono la forte presenza dell’ambito sanitario come un ostacolo all’esercizio del mandato professionale o se, al contrario, questa diversità di competenze può rappresentare uno stimolo che porta ad approfondire aspetti nuovi anche del proprio modo di operare. Il rapporto con gli utenti, in generale, appare buono: ho trovato delle operatrici molto sicure nell’affermare l’importanza di una buona relazione. È capitato in un caso, che il rapporto assistente socialeutente fosse descritto come più legato alle prestazioni burocratiche, piuttosto che incentrato sulla creazione di una vera relazione significativa. Il fatto di guidare le 247


persone nelle procedure per ricevere la pensione di invalidità, usufruire dei benefici della legge n.104 del 1992 o prendere contatti con il S.A.L. (Servizio di Accompagnamento al Lavoro), viene visto come un rapporto prettamente concreto e volto all’erogazione di prestazioni "pratiche". La parte relazionale resta, quindi, una dimensione che viene esplorata e approfondita con gli psichiatri. Tre assistenti sociali su quattro, invece, ritengono che la parte burocratica si integri in maniera del tutto positiva con quella relazionale. Ho percepito una forte predisposizione al dialogo con gli utenti, questo aspetto tende a rafforzare enormemente la fiducia che questi ultimi hanno nella figura dell’assistente sociale. Come la relazione, anche il racconto del vissuto di malattia e delle emozioni, sono strumenti che le assistenti sociali considerano centrali. Anche chi si descrive come una figura più legata alla burocrazia, vede nella narrazione, un elemento centrale di cui tenere conto per conoscere la persona, essere al corrente del suo contesto di vita e adottare le soluzioni più idonee insieme: È fondamentale perché comunque io credo che sia necessario l’ascolto completo della storia della persona, sia di malattia che la storia familiare e di vita. A me non arrivano le persone proprio nel momento dello scompenso, per cui io lavoro, o almeno spero, quando non sono nella fase acuta, però devi comunque partire dal racconto, dall’ascolto. Nella narrazione loro ti raccontano e si raccontano e parlano di capacità, difficoltà (Assistente Sociale - C.S.M. di Magione). La narrazione appare, ancora una volta, come una parte centrale della relazione di aiuto affinché questa diventi 248


davvero uno scambio utile all’utente nel suo vissuto doloroso. L’esperienza di malattia e la storia di vita della persona in carico, consentono all’assistente sociale di avere una panoramica sui bisogni, sulle strategie di intervento da utilizzare, quindi, su come impostare il proprio lavoro, condividendolo con l’utente e con i colleghi. Quando una persona giunge all’attenzione dell’assistente sociale questa deve avere ben chiara la domanda di intervento. Capire se è una domanda diretta, quindi se la persona è giunta al servizio spontaneamente, a seguito di una segnalazione o di una sollecitazione da parte dei familiari, è il punto di partenza. Questa viene, di norma, descritta come la fase conoscitiva del processo di aiuto ed è quella della definizione del problema e della presa in carico. In questo primo momento, confermano le professioniste interessate, ciò che è importante sapere dall’utente sono gli elementi significativi, quelli che possono contribuire all’individuazione della problematica sulla quale intervenire. Non conta sapere tutto. La storia di malattia con l’assistente sociale emerge man mano che la relazione diventa più solida e la persona acquista fiducia in un professionista che ha più un ruolo di mediatore tra il soggetto e le risorse, piuttosto che un approccio centrato sulla terapia della malattia in senso stretto. Giorno dopo giorno, emergono le emozioni, spesso la loro espressione è difficile, ma quando se ne parla, le professioniste concordano nel ritenerle un utile elemento di cui tener conto per il percorso di aiuto: Spesso i pazienti nostri hanno delle difficoltà a tirare fuori le loro emozioni, chiaramente mi riferisco a quando non sono in piena crisi, perché in quei casi tirano fuori 249


emozioni anche molto forti in senso negativo come l’aggressività, la rabbia. In generale è piacevole quando esprimono le loro emozioni con noi, e spesso te le regalano, ti regalano le loro emozioni perché ti parlano di ciò che è dentro di loro, però ti suscitano delle emozioni anche a te che li ascolti. Questo è molto bello! (Assistente Sociale -C.S.M. di Magione). Questi utenti, secondo me, non hanno difficoltà emotiva, forse hanno tanta emotività che è tanto diverso. Te ne portano tanta di emotività ed è per questo che si lavora affinché ne prendano coscienza, ma che sia in qualche modo contenuta, dosata. Ecco che entrano in campo i progetti (Silvana Molinari, assistente sociale – Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). La difficoltà è legata ad una chiusura rispetto alle emozioni. Anche se, come ho detto prima, il mio è un rapporto dove i racconti sono meno frequenti se non in riferimento al problema che spinge l’utente a interpellarmi, è ovvio che una relazione c’è, si crea un rapporto che può condurre la persona ad aprirsi, pur nella difficoltà. Mi capita che qualche utente mi parli delle voci che sente, lui lo chiama il "potere forte" e lo descrive come qualcosa che controlla tutte le sue azioni e che lo incita a compiere gesti di ogni tipo. Utenti come questo, parlano delle voci con naturalezza, come se stessero raccontando un fatto qualsiasi, altri, invece hanno pudore, paura, sono diffidenti nel raccontare. Con il passare del tempo, quando la persona si stabilizza, è facile che si parli di emozioni, ma prima deve esserci una relazione con il terapista, lui è un po’ il filtro, se questa non c’è, beh… è difficile che emergano (Assistente Sociale – C.S.M. di Ponte San Giovanni). 250


5.9.2. IL RUOLO DELL’ASSISTENTE SOCIALE IN AMBITO SANITARIO Dalle interviste somministrate alle assistenti sociali, in particolare su quella che chiede loro quanto ritengono influente il proprio ruolo professionale all’interno del Dipartimento di Salute Mentale, le opinioni sono ognuna differente per determinate specificità che, credo, meritino un’analisi separata. L’aver conosciuto anche una professionista che lavora in una comunità terapeutica è stato utile sia per capire come cambia il ruolo dell’assistente sociale in un servizio che non è un centro di salute, poi, anche perché è stato interessante vedere come e se questa figura modifichi il proprio modo di lavorare nel momento in cui si passa da un settore pubblico ad uno privato. Dal colloquio con Silvana Molinari di "Torre Certalda", emerge l’importanza della presenza di questa figura anche in una struttura privata. Qui l’assistente sociale è una sorta di ponte tra il servizio inviante e l’utente, essa apprende le informazioni e resta in contatto con i Servizi territoriali. Da quello che si evince dall’intervista, questo collegamento tra i servizi inviati e quelli che accolgono l’utente in struttura, non è, talvolta, molto semplice. Mi è sembrato di capire che le difficoltà di comunicazione tra enti, certe volte, causino dei blocchi operativi nello svolgimento dell’attività quotidiana dell’assistente sociale: I Servizi quando li hanno messi dentro la struttura è fatto, cioè il problema è risolto, non è che l’assistente sociale del Servizio si ricorda dell’utente che è qua, quindi 251


l’assistente sociale che è qua è quella che sistema queste cosette all’utente, lo fa in silenzio, ma lo fa, così poi lui ce l’ha a posto. Qualche volta fa da ponte col Servizio… quando ti rispondono. È un ruolo che conta molto per gli utenti. Poi ecco, te l’ho detto, l’utenza sta cambiando, quindi a volte qui bisognerebbe essere più grintosi verso i Servizi, poi però ti scontri con tanta burocrazia che blocca. Tanti utenti sono arrivati in C.T. che non avevano neanche la pensione, anche riuscire a trovare forme alternative di inserimento, per esempio con qualche associazione del territorio, vuol dire tanto per loro (Silvana Molinari, assistente sociale – Comunità Terapeutica "Torre Certalda"). In questo caso, ad esempio, ho riscontrato maggiori difficoltà nella comunicazione con i Servizi esterni alla Struttura, piuttosto che un venir meno del ruolo sociale a causa della forte presenza del personale sanitario, nonostante tra infermieri e psichiatri, quest’area sia in netto vantaggio numerico. Le altre tre assistenti sociali che ho interpellato prestano servizio all’interno dei Centri di Salute Mentale. Al medesimo quesito, tutte reputano il proprio ruolo non solo di snodo nel progetto di aiuto della persona, ma anche sufficientemente considerato e rispettato dagli altri professionisti. L’assistente sociale del C.S.M. di Magione, afferma di essere riuscita a farsi accettare come professionista dotata di competenze proprie anche quando il direttore sanitario del Servizio non vedeva di buon occhio il suo ruolo: Lo psichiatra responsabile del Servizio prima del dottor Salierno, era uno di quelli che non aveva mai voluto 252


l’assistente sociale nel C.S.M., l’aveva accettata a seguito della riorganizzazione di cui parlavamo all’inizio. Dopo qualche mese che io lavoravo disse: «Bene, se dovessi descrivere la tua funzione, devo dire che hai messo ordine» e, in effetti, credo che a volte qui dentro metto un po’ d’ordine, nel senso che penso che l’assistente sociale sia quella che mette in rete il servizio con altre risorse, come le associazioni presenti sul territorio (Assistente Sociale -C.S.M. di Magione). Probabilmente, in questo senso, le capacità di ascolto, mediazione e raccordo che caratterizzano questa professione si rivelano utili anche con i colleghi. Riuscire a mettere in atto la stessa conciliazione anche all’interno del gruppo multidisciplinare, è una delle peculiarità del Servizio Sociale Professionale, qui risiede il "mettere ordine": È vero che tutte le figure professionali operanti nei servizi psichiatrici interagiscono, e talora in modo anche molto attivo, con il sociale, ma crediamo sia corretto affermare che l’assistente sociale ne sia l’esperto, ovvero l’operatore che più degli altri possiede gli strumenti per conoscerne le articolazioni, le risorse e le potenzialità, l’operatore, cioè per il quale il rapporto con l’esterno non sia estemporaneo e contingente, ma fondamentale della propria professionalità. E per rapporto esterno non intendiamo un affannato va e vieni tra strutture e agenzie, bensì la capacità di porsi come interfaccia tra una realtà forzatamente intrisa di artificialità […] e un’altra, quella di vita del paziente e della sua famiglia […] (Civenti, Cocchi, in Sanicola, 1997, p. 148).

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La funzione di mediazione, a volte, può essere difficoltosa se vi sono professionisti, soprattutto medici, che ostacolano in qualche modo l’operato degli assistenti sociali. Ciò che viene riportata, è una mancanza di fiducia da parte di alcuni psichiatri sulle valutazioni degli assistenti sociali. Nonostante l’approccio integrato e multidimensionale, in alcuni contesti, permangono delle difficoltà nel far valere la componente sociale al pari di quella sanitaria. Il C.S.M. di Perugia Centro, in questo senso, è un modello da seguire per gli altri dei territori limitrofi. L’assistente sociale che vi opera, infatti, si è detta molto soddisfatta dello spazio che il proprio ruolo riveste nel Servizio, la descrive come una peculiarità di questo Ente: Quando sono arrivata in questo Servizio, sono rimasta piacevolmente colpita dalla centralità del ruolo sociale in un’area specifica come questa. In generale, in tutto il Distretto del Perugino, l’assistente sociale rappresenta una professione importante nella salute mentale anche perché ognuno, operando nel proprio specifico, apporta un contributo. Detta così sembra una descrizione da manuale, in realtà, nessun settore è esente da aspetti critici e difficoltà, però il ruolo dell’assistente sociale è molto considerato. Come dicevo prima, la capacità di diversificare il lavoro, chi opera con l’individuo, chi con la famiglia, contribuisce a raggiungere degli obiettivi comuni (Assistente Sociale – Centro di Salute Mentale di Perugia Centro). Al di là di quest’ultimo esempio particolarmente virtuoso, parlando con gli educatori dei laboratori, noto che l’assistente sociale continua a mantenersi distaccata 254


dalle attività ricreative che, invece, contano sulla presenza degli psichiatri, degli infermieri e degli psicologi. La ragione, secondo le intervistate, è da rintracciare nell’elevata mole di lavoro e di pratiche burocratiche da sbrigare. Le assistenti sociali riconoscono questo problema, sanno di perdersi dei momenti importanti di comprensione degli utenti, chiariscono che la loro non è mancanza di volontà, tutt’altro, ma vi sono delle priorità in termini di prestazioni cha vanno necessariamente rispettate. Nella mia esperienza di osservatrice ai laboratori del Circolo di Magione, ho riscontrato un grande impegno della psichiatra Nicoletta Marinelli, nell’organizzazione e nella realizzazione delle attività: dai laboratori, alle feste, dagli spettacoli, ai mercatini, fino ad arrivare alle uscite. Questa dedizione mi ha molto sorpreso e, ho notato, essere un ottimo atteggiamento per favorire un clima di serenità e fiducia negli utenti. Per quanto concerne la riflessione sul vissuto emotivo, le assistenti sociali si sono mostrate molto attente questa pratica. Non hanno esitato nel rispondere e, soprattutto, ho percepito molta consapevolezza e attenzione ai propri limiti e alle emozioni negative che le storie degli utenti possono suscitare. A differenza delle psichiatre, le assistenti sociali hanno palesato maggiore entusiasmo nel riflettere insieme a me sulle emozioni. Le psichiatre hanno dichiarato di possedere già questa abitudine e di utilizzarla dai tempi della formazione, come salvataggio personale per evitare di farsi sommergere dai problemi altrui. Le assistenti sociali, invece, hanno non solo sottolineato l’importanza di un tale esercizio, ma anche la scarsa abitudine, rispetto alle prime, a fare un lavoro di 255


"mentalizzazione" del vissuto emotivo che le relazioni con le persone fanno emergere. In questo, ritengo che la formazione giochi un ruolo importante. Tutte le psichiatre intervistate vengono da percorsi di psicoterapia, individuale o di gruppo, ma comunque sono state abituate ad una riflessione sulle proprie emozioni. Se non prevista dal piano di studi universitario, la psicoterapia per i futuri psichiatri, è una tappa fortemente consigliata, affinché si possegga il maggior numero di strumenti possibili per conoscere se stessi e saper gestire l’emotività e i vissuti dolorosi. Lo sforzo che, invece, chi vorrebbe diventare un assistente sociale deve fare, sia per conoscere se stesso che imparare a fare i conti con le proprie emozioni, è più complesso. Nelle scuole di servizio sociale prima e nei corsi universitari oggi, di emozioni, di "intelligenza emotiva", si parla molto poco. Inoltre, non è previsto alcun percorso di psicoterapia e questa mancanza viene avvertita dalle operatrici. Un’assistente sociale intervistata, infatti, sostiene: Purtroppo non si è soliti riflettere sulle emozioni che suscita questa professione, non si fa perché non c’è tempo, invece, già una cosa come abbiamo fatto adesso aiuta tanto. Meditare su questo sarebbe importante, fare dei corsi dedicati e, soprattutto, inserirlo nei percorsi di formazione. Le emozioni sono troppo spesso tagliate fuori da percorsi di riflessione che, invece, dovrebbero considerarle elementi centrali per chi già esercita la professione e, a maggior ragione, per chi la praticherà. Come vedi, qui il tempo per la riflessione non c’è, già questa mattina per fare l’intervista abbiamo dovuto interrompere cento volte, invece, fermarsi su ciò che 256


sentiamo è tutt’altro che una perdita di tempo (Assistente Sociale – Centro di Salute Mentale di Perugia Centro). Nonostante questo, ho trovato professioniste consapevoli del grado di emotività che la relazione con l’utente psichiatrico e la sua storia suscita, ma è una capacità riflessiva che si acquisisce con l’esperienza, tant’è che un’assistente sociale mi ha confidato che per una/un collega giovane, alle prime armi, un lavoro in un Servizio simile dove non è prevista una supervisione sarebbe, secondo lei, molto impegnativo a livello emotivo e molto esposto al burnout. L’ASSISTENTE SOCIALE: UNA PROFESSIONE AL FEMMINILE

5.9.3.

La rappresentazione dell’assistente sociale donna, incline all’eccessivo coinvolgimento emotivo opposto all’apparente rigidità di altre professioni come il medico, ha sempre giocato a sfavore di questa figura. C’è stato un momento nella storia del servizio sociale durante il quale, all’elevata presenza femminile era attribuita la responsabilità della scarsa considerazione della professione. L’essere donna era associato all’essere madre, quindi, soggetta "per natura" ad occuparsi della cura dell’altro, questo, era il risultato di retaggi culturali ai quali la donna era legata e, in alcuni casi, lo è tutt’ora (Spinelli, in Santambrogio, 2012, pp. 112-114). Il Congresso di Tremezzo del giugno 1946, a pochi giorni dal voto che, per la prima volta in Italia, aveva potuto contare sul parere delle donne, è importante perché, con un’attenzione mai avuta fino a quel momento, ha tra i temi in discussione, il superamento della logica caritatevole e meramente assistenziale del 257


lavoro sociale, in favore di politiche sociali in collaborazione con gli enti istituzionali. Anche la figura dell’assistente sociale inizia, dunque, a liberarsi dei retaggi dell’assistenzialismo, ma continua ad essere centrale l’idea di una professione pensata per le donne che hanno particolari doti di sensibilità e solidarietà (ivi, p. 115). La differenza di genere come elemento significativo nel lavoro sociale, è stata affrontata poche volte, una di queste è durante il IV Simposio Europeo di Servizio Sociale tenutosi a Perugia nel 1997 e organizzato dal Diploma Universitario di Servizio Sociale (ivi, p. 117).57 L’esigenza di distinguere il ruolo professionale da quello di madre si è fatta forte in quegli anni affinché fosse data una chiara specificità professionale. L’accostamento donna-assistente sociale non dovrebbe essere demonizzato: la cura, la capacità di ascolto, di accoglienza è rilevata dalle dirette interessate in molte ricerche, come peculiarità dell’essere donna in una professione di aiuto. In un testo pubblicato (dopo il Simposio) che affronta il rapporto tra l’identità sessuale, la professione ed il lavoro in ambito sociale, tra i vari temi vi è anche quello del maternage. Le assistenti sociali italiane intervistate affrontano con fastidio questo argomento, proprio perché troppo spesso, il paragonare il loro lavoro al ruolo materno, tende a sminuire la formazione che c’è dietro la 57

L’incontro riuniva gli studi svolti contemporaneamente da docenti e studiose di tre corsi di servizio sociale europei: Italia (Perugia), Inghilterra (Bournemouth) e Germania (Munchengladbach), tutti sul tema della specificità di genere. Da questa ricerca è stato redatto il testo di Benvenuti, Gristina, 1998, La donna e il servizio sociale, Franco Angeli, Milano.

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professione e a questo si associa anche una svalutazione del lavoro domestico. Quando si parla degli uomini, invece, la riproduzione delle logiche paterne nel lavoro sociale non è, poi, così negativa, anzi, sembra aumentare la capacità di relazione con gli utenti (Benvenuti, Segatori, 2000, p. 38). Ammettere le differenze non dovrebbe, dunque, essere sinonimo di disuguaglianza, ma una risorsa per implementare degli interventi, tenendo conto delle capacità di ogni operatore: Emergono, quindi, se applicate all’utenza, capacità di analisi delle differenze di genere che vengono costantemente utilizzate nella relazione di aiuto. L’universo dell’utenza sembra essere composto da individui concreti e reali ognuno con le proprie caratteristiche e, in primis, con quelle sessuali; l’universo degli operatori sembra invece composto da unità indifferenziate, in primis dal punto di vista sessuale (ivi, p. 40). Ho discusso di questo con le assistenti sociali che ho intervistato, volevo capire se il loro distacco, ad esempio dalle attività ricreative e dai momenti più informali, fosse utilizzato per proteggersi dal maternage che, data anche l’alta presenza femminile, potrebbe ricrearsi con gli utenti. Su questo punto, tutte concordano nel ritenere che è da rintracciare solo negli impegni istituzionali, la ragione che le porta a non prendere parte ai laboratori o ad altre occasioni di condivisione. Quanto all’ambiente ad elevata presenza femminile nel Servizio Sociale, ma, in generale, in tutte le professioni di aiuto, c’è chi motiva questo dato con la convinzione che nelle donne vi sia uno spiccato spirito della 259


"crocerossina" che induce, quindi, ad avvicinarsi a lavori che abbiano come mission l’aiuto dell’altro. Di diversa opinione è chi, invece, ritiene che questa professione si scelga, indipendentemente dal genere, perché si ha bisogno di riempire dei vuoi dentro di sé e, si spera di farlo, aiutando gli altri: Quello che penso in generale è che il ruolo femminile è presente nei lavori di cura in misura maggiore di quanto non lo sia quello maschile e credo anche che i lavori di cura vengano scelti per curarsi, chi sta veramente bene va a fare un altro lavoro e pensa per sé. L’importante è averne consapevolezza di questa cosa. Questo si collega al discorso delle emozioni: noi operatori, tutti, dobbiamo stare molto attenti alle emozioni, prima di tutto alle nostre e alla risonanza o alla similitudine che su di noi hanno le emozioni degli altri, e poi a quelle che gli altri ci portano quando raccontano nei nostri colloqui le loro storie. Quando insegno ai corsi O.S.S. io dico sempre agli studenti di darsi ognuno una propria risposta sul perché hanno scelto questo lavoro. E allora si inizia con chi ti dice che ha la passione per l’accudimento degli anziani o per i bambini, ma mai nessuno che ti risponda di aver scelto questo lavoro perché ha degli enormi vuoti dentro il suo io e se li deve riempire pensando di far del bene agli altri. Credo che sia importante che si abbia questa consapevolezza. Credo che si faccia del bene per cercare di far stare bene noi stessi con il nostro io interiore, chi non sente questo, ti ripeto ed è una mia opinione, fa altro nella vita (Assistente Sociale - C.S.M. di Magione). Un’altra spiegazione ancora, è quella che ritiene la donna culturalmente più incline a confrontarsi e farsi carico 260


delle sofferenze altrui, perché più capace di fare i conti con questo lato della personalità rispetto agli uomini: Sono d’accordo nel ritenere che, forse, le donne riescono ad accogliere l’altro meglio di quanto non possano fare gli uomini; essi affrontano queste cose in maniera diversa e tendono a farsi meno carico del vissuto altrui. La donna è più incline all’accoglienza e alla relazione e, per questo, è maggiormente presente nelle professioni di aiuto. Essa è, da sempre nella nostra società, considerata più portata alla cura. La donna è considerata più fragile, però poi tutto quello che è il lavoro di cura le viene relegato, allora non la definirei tanto fragile, forse sono più fragili gli uomini che tendono a non misurarsi con questa parte di se stessi e, se esercitano una professione di aiuto, sono meno disposti ad analizzare le proprie emozioni (Assistente Sociale - Centro di Salute Mentale di Perugia Centro). Nelle professioni di aiuto in generale, la presenza femminile resta importante, e questo lo conferma anche il campione di professioniste della mia ricerca. Le differenze di genere nell’esercizio della professione permangono e, in accordo con gli studi degli anni Novanta che ho citato, ritengo che la loro accettazione sia fondamentale in un’ottica di approccio olistico alla cura. Forse andrebbe rivalutato il lavoro di cura come positivo per il benessere sociale e il maternage come dimensione sociale e non solo affettiva. Sarebbe stato interessante avere più uomini all’interno del campione anche per discutere su questo e ascoltare le opinioni in merito.

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RIFLESSIONI CONCLUSIVE La riflessione sulle emozioni delle persone con diagnosi di patologia psichiatrica risulta fondamentale per riuscire a ricomporre i pezzi dell’identità personale che, a causa della sofferenza, può risultare compromessa. Per farlo, l’ascolto delle storie di malattia da parte dei professionisti è centrale: la co-costruzione di un progetto condiviso sul quale poter lavorare per raggiungere il benessere della persona, è la metodologia di lavoro privilegiata dal campione della mia ricerca. Tutti i professionisti intervistati sono concordi nel ritenere l’approccio soggettivo, centrato sulla persona, come il primo strumento di lavoro. Senza la condivisione, il dialogo con gli utenti, la riflessione, sia da parte dei tecnici, sia da parte dei diretti interessati sul proprio vissuto emotivo, non sarebbe pensabile in un intervento terapeutico-riabilitativo in salute mentale. L’antropologia medica risulta utile in questa trattazione, dal momento che chiarisce come un approccio biomedico alla cura, non possa esimersi dal considerare il sintomo inquadrabile in termini culturali. Nella diagnosi delle patologie, nel nostro caso psichiche, non può mancare l’attribuzione di senso che il malato fa della propria condizione e che risente fortemente del contesto culturale (illness). Abbiamo visto, utilizzando i preziosi contributi di Giuseppe Tibaldi, come nelle storie di guarigione ricorrano delle tematiche che devono essere le basi del lavoro degli "esperti per professione" tra cui: supportare le persone nel ritrovare la speranza, uscire dalla passività della propria condizione, condividere il vissuto con altri "esperti per esperienza". 262


A questo proposito, ho preso parte ai laboratori di espressione artistica presso la Comunità Terapeutica "Torre Certalda" e presso il Circolo Ricreativo "Noi Insieme". Attraverso la pittura, la scrittura e il teatro è possibile esprimere le emozioni e i vissuti più facilmente di quanto non si riesca nei colloqui con i clinici. L’arte, è anche e soprattutto, un mezzo per riacquistare la capacità di relazionarsi con gli altri, fare gruppo e cercare di impegnarsi in attività che permettano di essere riconosciuti come bravi artisti, artigiani o attori, piuttosto che come utenti di un centro di salute mentale. Gli utenti che ho avuto modo di conoscere, sono per la maggior parte giovani-adulti con un forte desiderio di essere riconosciuti come soggetti che non abbiano a che vedere con la patologia e con lo stigma che è molto difficile da eliminare e da accettare. In questo risiede il pregio più grande dei laboratori. Le interviste semi-strutturate con i professionisti mostrano come l’ascolto della storia di malattia sia centrale, affinché gli utenti siano protagonisti di un percorso di cura all’insegna dell’empowerment. Le psichiatre, in particolare, ci tengono a sottolineare come l’approccio che prevede la presa in considerazione del paziente solo durante l’anamnesi, sia qualcosa che non appartiene alla loro formazione che, invece, è centrata sulla soggettività della persona in carico. Secondo una di loro, se vi è la necessità di un ritorno a questi temi è perché, probabilmente, quanto fatto di buono durante gli anni del rinnovamento in campo psichiatrico, si sta un po’ perdendo a causa del sovraccarico di lavoro nei servizi. Un altro tema trattato è la guarigione o la remissione clinica. L’intenzione era quella di capire se anche per i 263


miei testimoni privilegiati si possa parlare, come fa Tibaldi, di guarigione anche per gli utenti della salute mentale. Ebbene, tutti sembrano concordare con la necessità di rivedere questo concetto se si fa riferimento ai disturbi psichici. La totale scomparsa dei disturbi sembra essere un’utopia per i rispondenti, ma vi è, secondo loro, guarigione nel momento in cui la persona riesce a non essere dipendente in toto dai servizi, riesce ad acquisire consapevolezza della propria condizione ed elaborata la sofferenza, riprendere in mano la propria vita. Questo non vuol dire dimenticarsi della patologia, anzi accettarla, ma non lasciare che essa influenzi tutti gli ambiti dell’esistenza. Con le psichiatre ho, inoltre, discusso del tema "farmaci". Ciò che in questo discorso ritengo degno di attenzione, è quanto emerso dalla risposta di Elisabetta Rossi. Secondo la psichiatra, in accordo con le altre colleghe interpellate, i farmaci non vanno demonizzati perché rappresentano un aiuto in condizioni gravi ed evitano il riacutizzarsi delle patologie. La Rossi, però, è molto esplicita, a differenza delle altre due colleghe, sull’assoluta inutilità del farmaco se non inserito in un progetto terapeutico più ampio e condiviso con l’utente. Il farmaco non è risolutivo in nessuna patologia se non integrato con altri interventi, non agisce sulla causa del problema, per questo i medici ne raccomandano una somministrazione controllata accettando anche il rischio di non forzare la mano qualora il paziente, in situazioni non troppo gravi, ne rifiuti l’assunzione. Tutti i professionisti del campione sono, inoltre, consapevoli che l’esposizione al burnout è particolarmente elevata nel loro lavoro. A questo essi cercano di far fronte condividendo i momenti belli e meno belli della giornata con i colleghi con i quali hanno 264


un rapporto più stretto. Solo raramente vi sono gruppi di supervisione che gli enti prevedono come parte delle attività in programma. È il caso della Comunità Terapeutica di Umbertide e dell’U.D.C. di Castel del Piano per quanto riguarda alcuni degli operatori del Circolo di Magione. La supervisione è un momento di condivisione e di conoscenza tra colleghi, durante il quale il gruppo si forma e acquista forza. Il fatto che manchi nei servizi pubblici, e che venga spesso assimilato alle riunioni d’équipe, fa riflettere su quanto poco spazio venga assegnato al vissuto degli operatori e quanto poco le istituzioni li proteggano dal burnout, nonostante l’incremento del carico di lavoro degli ultimi anni che tutti ravvisano. Le assistenti sociali interpellate, un po’ per la mancanza di un percorso di psicoterapia durante la formazione, un po’ per l’assenza dei gruppi di supervisione, sono le professioniste che si sono mostrate più disponibili a riflettere con me sulle emozioni. Gli altri membri del campione svolgono questa attività con maggiore frequenza e per loro non è strano doversi cimentare in un’attività che chiede di nominare le emozioni che vengono evocate sul luogo di lavoro. Sempre con le assistenti sociali ho discusso sul ruolo del Servizio Sociale Professionale all’interno di un servizio specialistico e ad elevata presenza di professioni sanitarie. In alcuni casi questo squilibrio porta diffidenza da parte dei medici verso le loro competenze, questo avviene maggiormente negli ambienti dove è minore il dialogo tra colleghi. Dove questo avviene, invece, e c’è un buon clima tra i membri dell’équipe, l’assistente sociale svolge un importante ruolo di mediazione tra i servizi e i cittadini e questa peculiarità le è riconosciuta. 265


Abbiamo visto come queste professioniste, più di altre, percepiscono le emozioni negative degli utenti legate allo stigma che viene associato alla patologia psichiatrica. Esse, nel fare richiesta di inserimento lavorativo o di valutazione delle capacità genitoriali, incontrano molti ostacoli sia nelle istituzioni che all’esterno per svincolare la persona dalla patologia. Per quanto riguarda i laboratori, ciò che emerge dai colloqui è la scarsa partecipazione a queste attività da parte delle assistenti sociali a causa delle numerose pratiche burocratiche delle quali sono sole a doversi occupare. Questo, a mio avviso, è un vero punto a sfavore per la visione che anche gli utenti hanno di questa professione. Al Circolo di Magione, ad esempio, la psichiatra Nicoletta Marinelli, è molto presente durante le attività, conosce i progetti e i lavori che si svolgono, sa quali utenti sono più partecipi e quali meno. La relazione che ha con i pazienti passa attraverso la capacità di esserci nella loro vita anche in un momento che non è il colloquio clinico. Lei stessa, nella sua intervista, ravvisa una maggiore comprensione delle situazioni in carico grazie alla partecipazione ad alcuni momenti dei laboratori. Ho provato a chiedere alle assistenti sociali se questa distanza fosse un modo per mantenere un certo distacco e non confondere la relazione significativa con un maternage. Questo argomento fa parte delle note dolenti del Servizio Sociale sin dalle origini, l’alta presenza di assistenti sociali donne era, spesso, accostata alla tendenza per le stesse a replicare il ruolo di cura che si ha in famiglia. A differenza di quanto emergeva dalle ricerche condotte su questo tema alla fine degli anni Novanta, le 266


professioniste che ho intervistato, non si sono mostrate infastidite o stupite da questa domanda, ma non credono che nel loro lavoro ci sia il rischio di riprodurre il rapporto madre-bambino. Esse ne fanno piuttosto una questione di sensibilità maggiore che hanno le professioniste donne in generale, più attente al linguaggio non verbale, più orientate all’ascolto. Una addirittura è convinta che questo lavoro si scelga per aiutare in primis se stessi nel colmare delle fragilità, nulla a che vedere quindi con il ruolo di madre o di moglie. Altra componente importante del mio campione sono gli operatori che conducono i laboratori: da quanto emerge dalle interviste e dalle mie osservazioni, sembrano essere degli ottimi mediatori tra gli utenti e l’équipe professionale. Le loro abilità di comunicare attraverso l’arte, la capacità di cogliere delle difficoltà ed utilizzare il laboratorio per cercare di approfondire una situazione difficile, sono degli aspetti chiave del percorso terapeutico. Oltre a questo, c’è il clima che sanno instaurare all’interno dei gruppi di lavoro: l‘inclusione, l’accoglienza sono qualità che contraddistinguono tutti e tre i laboratori ai quali ho preso parte, e sono questi che favoriscono le relazioni tra i partecipanti. L’assenza dei gruppi di supervisione si avverte anche tra questi professionisti, il rischio di sentirsi soli è, infatti, maggiormente elevato in chi non è ben integrato all’interno del gruppo di lavoro (mi riferisco agli operatori esterni che arrivano in struttura solo per i laboratori). Tutto questo lavoro fa emergere riflessioni che meriterebbero ciascuna un approfondimento a sé stante. In generale posso affermare di aver incontrato dei professionisti ben disposti alla riflessione sulle emozioni, 267


c’è chi è più abituato a farlo e chi meno, ma comunque questa resta un aspetto imprescindibile delle professioni di aiuto. La narrazione delle storie di malattia, affinché si volgano in storie di guarigione, non può prescindere dall’incontro e dalla relazione di cui i gruppi dei laboratori sono un esempio. Un valore aggiunto alla ricerca è rappresentato, senz’altro, dall’osservazione partecipante. Ho sperimentato in prima persona il potere che ha l’arte sul vissuto individuale, cosa riesce a evocare e le negatività che riesce a lasciare momentaneamente da parte. Ho vissuto le relazioni, ho toccato con mano la condivisione di vissuti comuni e ne ho colto le peculiarità. Ho compreso l’importanza della presenza di educatori e psichiatri all’interno dei laboratori, è per questa ragione che sarebbe importante anche per gli assistenti sociali riuscire a dedicarsi a questo aspetto del progetto riabilitativo che tanto supporta la relazione. Ken Steele, nella parte conclusiva suo libro E venne il giorno che le voci tacquero. Un viaggio nella follia e nella speranza (2010), racconta della guarigione dalle allucinazioni uditive come una seconda occasione dalla quale partire per non restare più da solo nel suo dolore, ma lavorare con i professionisti che lo avevano aiutato per dare conforto a chi stava soffrendo come lui. Le persone che ho incontrato ai laboratori sanno farsi sentire e ascoltare mentre dipingono, scrivono o recitano. In questi luoghi, le "cadute libere" verso la sofferenza, come uno di loro chiama le crisi, tendono ad essere gestite. È in questi contesti e con questo tipo di interventi che una storia di malattia si può trasformare in una di guarigione. Il diritto alla seconda possibilità, come lo chiama Tibaldi, è questo, l’occasione di non fare della patologia l’unica peculiarità della propria esistenza. 268


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Ringraziamenti Desidero ringraziare con tutto il cuore la mia relatrice, Fiorella Giacalone, per la pazienza e la disponibilità con le quali mi ha ascoltata e supportata in questi mesi di intenso lavoro. La ringrazio per la professionalità con la quale mi ha guidata, per i consigli e per avermi incoraggiata quando lo sconforto sembrava aver avuto la meglio. Ringrazio la mia tutor del tirocinio, Patrizia Cecchetti, per aver creduto in me e per la passione e l’entusiasmo con le quali mi ha accompagnata nel lavoro dell’assistente sociale. Inoltre, mi preme ringraziarla anche per aver fatto da intermediario tra il Centro di Salute Mentale di Magione e il Dipartimento di Scienze Politiche, affinché potessi prendere parte ai laboratori del Circolo Ricreativo "Noi Insieme". Un grazie sincero va a Giuseppe Tibaldi e a Mario Cardano che, pur non conoscendomi, mi hanno fornito numerosi suggerimenti bibliografici sui quali ho potuto lavorare. Vorrei esprimere la mia gratitudine anche a Massimo Cerulo. Grazie al suo Corso di Sociologia del Mutamento Sociale, mi sono appassionata allo studio delle emozioni che, infatti, sono uno dei temi centrali della ricerca. Grazie alle psichiatre Nicoletta Marinelli e Dalila Battistini che mi hanno accolta all’interno delle due Strutture presso le quali ho potuto osservare e partecipare ai laboratori. Sono state entrambe disponibili a farmi conoscere la loro realtà e ad essere intervistate impegnandosi nel trovare del tempo da dedicarmi, nonostante i numerosi impegni lavorativi.


Ringrazio anche tutti/e gli/le altri/e professionisti/e che hanno accettato di rispondere alle domande del colloquio: la psichiatra Elisabetta Rossi, le assistenti sociali Antonella Bizzarri, Liana Chieli, Francesca Grossi, Silvana Molinari. Gli educatori Amedeo Pompili, Francesco Ticchioni e Pietro Zanchi sono stati dei punti di riferimento durante l’osservazione partecipante. Grazie a loro scoperto la passione per l’arte, ne ho compreso personalmente i benefici e sono rimasta affascinata dalla premura con la quale seguono gli utenti nei loro progetti. Tutti/e, tra appuntamenti, urgenze, riunioni, hanno dedicato alla mia tesi un’ora preziosa delle loro giornate. Senza questa enorme disponibilità il mio lavoro non avrebbe visto la luce. Un grazie particolare va a tutte le persone che frequentano i laboratori. Ognuno/a di loro occuperà per sempre un posto speciale nel mio cuore. Ci tengo a ricordarli/le come mi hanno chiesto di fare, ovvero "compagni/e di pomeriggi felici". Grazie a Caterina, Eden e Martina per tutto quello che abbiamo condiviso e per essere un punto fermo in mezzo a tanta incertezza. Ringrazio la mia famiglia e la mia cara M. Ogni frase risulterebbe superflua, semplicemente grazie per essere qui accanto a me, oggi e per sempre. In ogni singola pagina di questa tesi c’è la passione e l’amore che nutro per lo studio, per le giornate trascorse ad approfondire, a non accontentarmi, a non essere mai sazia di conoscenza. Questo Corso mi ha dato tanto, ogni docente ha contribuito ad accrescere la curiosità per le tematiche trattate ed il mio spirito critico. Per queste ragioni, a tutte le professoresse e i professori che ho incontrato, vanno la mia stima e la mia immensa gratitudine.



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