T ltre c O a N e e IS rett O cor C I es t
di Nicola Castellini
No
N
RIME denze C A on
sociale Centro Servizi per il Volontariato Perugia Terni
CESVOL UMBRIA EDITORE
Quaderni del volontariato 2021
14
Quaderni del volontariato 14
Edizione 2021
Cesvol Centro Servizi Volontariato Umbria Sede legale Via Campo di Marte n.9 06124 Perugia tel 075 5271976 www.cesvolumbria.org editoriasocialepg@cesvolumbria.org
Edizione settembre 2021 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Stampa Digital Editor - Umbertide
Per le riproduzioni fotografiche, grafiche e citazioni giornalistiche appartenenti alla proprietà di terzi, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire. È vietata la riproduzione, anche parziale e ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzato.
ISBN 9788831491198 2
I QUADERNI DEL VOLONTARIATO UN VIAGGIO NEL MONDO DEL SOCIALE PER COMUNICARE IL BENE I valori positivi, le buone notizie, il bene che opera nel mondo ha bisogno di chi abbia il coraggio di aprire gli occhi per vederlo, le orecchie e il cuore per imparare a sentirlo e aiutare gli altri a riconoscerlo. Il bene va diffuso ed è necessario che i comportamenti ispirati a quei valori siano raccontati. Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, dove il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso del quotidiano, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore. Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente o più antico, 3
per consegnarci insegnamenti e visioni. Quelle visioni che i cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Gli autori di questi testi, e di tutti quelli che dal 2006 hanno contribuito ad arricchire la Biblioteca del Cesvol, hanno fatto una scelta coraggiosa perché hanno pensato di testimoniare la propria esperienza, al di là di qualsiasi tipo di conformismo e disillusione Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo. Salvatore Fabrizio Cesvol Umbria
4
NICO IS NOT A CRIME Note scorrette e altre confidenze di Nicola Castellini
5
Prefazione a Nico is not a crime di Francesca Giommi Scrivere non è niente più di un sogno che porta consiglio Jorge Louis Borges Inseguendo sogni, o forse in cerca di buoni consigli, Nicola Castellini si aggira sulla pagina e nella vita fissando un orizzonte di lago apparentemente troppo ristretto (un po’ come Stephen Dedalus faceva nella sua Dublino), in una città umbra e in una vita di provincia dominati dalla calma piatta in superficie, dal “piattume” come lo definisce lui, mentre dentro è subbuglio, rabbia e caos. Con questa inquietudine di fondo, e un senso di inadeguatezza proprio dell’animo umano ma qui acuito ed estenuato da un “eccesso di sensibilità”, di chi cerca e scava ma spesso non trova, altalenando fra intimismo e denuncia sociale, Nico is not a crime ripercorre con capacità di introspezione, non priva di guizzi di ironia e lucida autoanalisi, le vicende personali dell’autore in un microcosmo così localistico da assurgere a tratti all’universale, se lo si guarda dall’alto e vi si legge tra le righe. In una narrazione fluida che si fa da sé, affiorano dunque legami amicali e familiari, la ricerca di lavoro e di senso, la rincorsa costante di desideri e obiettivi che paiono sempre un passo più in là, la distanza sofferta che è al tempo stesso presenza rassicurante dell’amorosa, la scrittura e il teatro, il viaggio e l’immobilità, l’appartenenza e l’estraneità, la politica, il karma, l’omeopatia, la tecnologia e la malinconia. Se Londra e l’esperienza degli appartamenti occupati di Clapham Common, dove si trovavano rifugio e conforto umano nonostante l’alienazione, hanno segnato l’inizio dell’avventura letteraria di Castellini, è Perugia con i suoi limiti 7
e le sue chiusure, ma anche le sue vie note e opportunità–tra poetry slam e circoli letterari, associazioni culturali e kermesse artistiche–che la alimenta da decenni. Tra riflessioni solitarie e silenzi, scritti sospesi e lettere a senso unico che sono esercizi di stile e desiderio di comunicare e lasciare traccia, par quasi di sentir echeggiare in qualche notturna peregrinazione la voce di Des Esseintes, che vagando per Parigi “a rebours” invocava: “Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che s’imbarca solo, nella notte, sotto un firmamento che non è più rischiarato dai consolanti fari dell’antica speranza”. Buona lettura e buona ricerca allora, perché, come ebbe a dire Italo Calvino, “Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che poi venga scoperto”.
________________ Francesca Giommi, scrittrice e viaggiatrice, ama girare il mondo, scoprirne volti, genti e tradizioni, ascoltare storie e perdersi negli occhi di chi gliele narra, a qualunque latitudine. È autrice di saggi, racconti e fiabe, e dei due romanzi di viaggio “Il Tesoro degli Ashanti. Viaggio in Ghana” (2017) e “La figlia del Maharaja. Viaggio in India” (2021), entrambi per Aras Edizioni.
8
Capitolo 1 Scrivo perché il mio corpo me lo chiede. A letto sussultano le spalle, la testa, il piede sinistro e le spalle ancora. A volte il ventre e la schiena. So che ho delle resistenze a partecipare, so anche che il blocco gigantesco che mi porto dentro, che mi frena da anni, si sta frantumando. Nella cabina dei comandi (il cervello) modulazioni di pensiero curioso affamato di conoscenza e circuiti neurali da ottimizzare. La confusione regna sovrana e la stanchezza mentale è diffusa, tiro un sospiro perché non mi conosco e non ho titoli da esporre. Una vita, la mia, in sordina sempre in attesa di una svolta, con la consapevolezza, con l’età, che va costruita di continuo. A volte mi trovo a vivere di giorno pensando ai sogni di quando dormo e si mescola tutto, dura molto poco, sono sensazioni profonde. Parlo di me per cercare di capirmi e trovare una fonte di vita da canalizzare con le lettere. Faccio molta fatica, non so bene da dove cominciare, ho letto il bando ma non me lo ricordo, dovrei rileggerlo, le mie patologie mentali si fanno sentire, mi procurano scarsa concentrazione per cui di sicuro a un certo punto devierò e divagherò. Non mi è chiaro nulla di dove andrò a parare, non faccio schemi piuttosto lascio fluire la corrente, che sarà calma o irruenta, una marea o piattume. Cominciamo dal piattume. Si verifica quando non ho nulla da dire, non ho argomenti, la testa è vuota, quasi catatonica, è come viaggiare su una zattera alla deriva in una spiaggia di sabbia beige, non si muove e se scendi ti scotti. La calma piatta è in superficie, di facciata. Dentro è subbuglio, dentro è freddo, occorre cercare una fiammella. Con una mano reggi la candela mentre vieni cercato e scappi. Sono seguito dai servizi sociali dal 2000, frequento il centro di salute mentale in un paese vicino alla mia città. Ricordo la struttura fatiscente, senza giudicarla. Ero tornato da Londra dopo un’esperienza di un anno e mezzo lontano da casa. 9
Mia madre mi vide cambiato, un po’ segnato, e mi invitò a prendermi cura di me. Ebbi un colloquio di orientamento al Csm, da una dottoressa decisa che conosceva, appunto, mia madre. Fui affidato a uno psicologo, che mi diagnosticò una sindrome da evitamento e un disturbo narcisistico di personalità. Ero molto silenzioso ai colloqui, chiuso e diffidente. Molto imbarazzo tra paziente e terapeuta. Lo psicologo però non bastava, e cominciai ad andare a Roma, ai Parioli, presso lo studio privato di una psik. Ci andavo in treno e, durante il viaggio, annotavo i miei pensieri. Ci costruii una storia e fu la mia prima pubblicazione, edita dalla collana del volontariato del Cesvol di Perugia. Sì, perché nel frattempo nel 2001 avevo costituito un’associazione culturale. La psik mi convinse a prendere uno psicofarmaco di cui non ricordo il nome, ma era uno stabilizzante dell’umore. Io che ho mangiato una vita pasticche in discoteca avevo la paranoia degli effetti collaterali del farmaco. Poi non ricordo bene ma credo mi stufai di entrambi e per un periodo mollai. Non stavo bene a vari livelli, e tornai al Csm locale, feci un colloquio con la direttrice e delle sedute con una psicologa che faceva analisi transazionale: genitore, bambino, adulto. Mi aiutò molto ma quando iniziammo a parlare di droghe alzò le mani e disse che dovevo assumere psicofarmaci e quindi rivolgermi a una psichiatra. Io lasciai di nuovo. Poi ebbi molti problemi e varie crisi e tornai al Csm, dal nuovo direttore che, all’ennesima crisi, mi prescrisse psicofarmaci che rifiutavo con tutte le mie forze di prendere. Intanto ero risultato bipolare e mi fu riconosciuta un’invalidità psichiatrica importante. Poi mi diagnosticarono una sindrome schizotipica di tipo misto. Prendo tre medicine, ora, da tre anni. Sono aumentato di peso perché ho tendenza a ingozzarmi di cibo, faccio sport, pochissimo, e teatro. Mi aiutano a non diventare una balena. Dal primo di novembre di quest’anno ho deciso di diminuire gli psicofarmaci da solo, o meglio, su consiglio di un medico che mi segue da prima dei 10
servizi sociali. Ma questo non deve essere un bollettino medico; la guerra è con me stesso, di continuo, ogni attimo. Un senso di vuoto da sempre, tranne quando sto con la mia compagna, anche se non siamo ancora sposati, anche se viviamo a 1200 km di distanza. Quest’anno è la seconda volta che ci vediamo, tra pochi giorni, e io sto male, sono stato male, con la tosse che non mi passa, bronchite cronica, con il mal di pancia da tre giorni; con la sensazione costante di non rispecchiare gli standard sociali di uomo di mezza età ormai adulto, con alle spalle anni di lavoro vero e non solo interiore, con una proiezione di casa. Su questo se ne può discutere. Ho sempre vissuto casa dei miei come la base totale, il centro del mondo, su cui pianificare strategie. Ora vivo con mio padre e ci sto bene, i miei sono separati da 25 anni, e questo dopo un’esperienza recente durata un anno in cui ho sperimentato il progetto “Vado a vivere da solo”, insieme ad altri due ragazzi affetti da problemi di salute mentale. Eravamo in Val Tidone, ascoltavamo musica e guardavamo la tv, tanti caffè, io avevo pure il letto da una piazza e mezza, lenzuola nuove e un balconcino dove avevo piazzato un tavolino rotondo che reggeva il posacenere. Eravamo al primo piano, di sotto abitava una signora che aveva la passione del giardinaggio. Ricordo piacevoli mangiate di piccione cucinato dai familiari di uno dei due ragazzi miei coinquilini; in verità si mangiava in silenzio sul tavolo di mogano, con la tele accesa a caso, in un disagio via via crescente. Personalmente sentivo la mancanza di mio padre, la sua semplicità acuta e la tranquillità che emana. Per me lui è simile al compagno della parte finale del libro di Siddharta. Papà comprende e, se non comprende, significa che non c’è nulla da comprendere. Questo a livello umano, perché politicamente siamo un po’ lontani, lui crede nelle istituzioni, io in parte. Nella mia superficialità mi dichiaro anarcoide, ma ho quasi sempre votato. La mia formazione politica è la vita, 11
la frequentazione di amici e il nostro scambio di esperienze. Ora mi rilasso, ho messo un unguento di latte di cocco regalatomi da un’amica e riportatomi da un’isola dei caraibi, Santo Domingo. Un mio amico, col quale faccio una rivista, ne sarebbe contento. Oggi abbiamo studiato, o meglio visionato, alcune informazioni relative a quella terra. Un alfabeto interessante non lontano dal nostro, tutto sommato. Abbiamo esaminato un potente veleno di quelle parti, che si estrae dal pesce palla. Ha proprietà paralizzanti, usate per far credere alle persone di essere diventate degli zombie. Santo Domingo è la parte est, Haiti quella ovest. Un’isola divisa in due, non è certo l’unica. Mentre oziavo sul divano dell’amico, il suo gatto nero mi ha fatto le fusa ed era molto affettuoso. Ecco, ricomincia l’ansia notturna, quella di dopo la mezzanotte. Sembra che la terapia serale non faccia effetto, basta un nulla per cadere nel caos. Allora giro la testa dallo schermo del pc, osservo gli imballaggi dei regali, hanno un senso e una logica nel loro essere buttati ai piedi del letto su buste, confezioni e cartoni, e sotto c’è il parquet che ospita i metri cubi della mia stanza. Mi sembra scontato che la camera abbia le mura, il soffitto, una porta e una finestra. È quello che basta. La mobilia è abbastanza armoniosa e rassicurante. A me piace la pace, per questo ho pitturato in giovane età l’interno della porta che si affaccia nel corridoio. L’ho colorata di rosso perché fuori c’è l’inferno, ovvero il mondo esterno. Il mio mondo fisico, il mio rifugio, sta in queste quattro mura. Mi ha visto in condizioni pietose, sconvolto dalle paure e dai blocchi, incapace di gestirmi psichicamente, alla ricerca più profonda della mia anima, della sua compiutezza e manifestazione, capace di voli ultraterreni; da questa camera. Penso 12
che abbia un suo sentire, una sua energia, il posto in cui posso leggere, scrivere, riposare, usare le App del telefono; in cui ho fatto training, in cui ho pianto e consumato amplessi, da solo e non. “War is over, if you want it” e basta. Scrocchio le dita mentre passa una nave che vedo dal mio sommergibile. Ho sempre amato i film ambientati sott’acqua, una sensazione riposante e riparata. Dall’oblò nella cabina dei comandi scorgi la cresta dell’acqua ma sei all’asciutto. Tutto è silenzio, forse troppo, alla fine è uno strazio se ci pensi bene, non se ne esce finché non termina il viaggio, se termina. Poi si spegne, come logico. Ma per me tutto è illogico. Gli automobilisti non li capisco, ti si attaccano dietro con quei fari puntati e ti braccano sulle stradine sconosciute, poi ti sorpassano sgassando che sembra la loro strada. Credo di non sentirmi molto bene oggi, adesso, da qualche ora. È cominciato a pranzo. Ho mal di testa, forse tanta rabbia dentro. Non so perché, non lo so proprio. Sono giù, questo lo comprendo e lo sento e so anche il motivo, ma non mi va di rivelarlo. Sono solo sensazioni molto forti e potenti, una voglia di rifugio personale e interiore, dove trovare la pace. Dove tutto si aggiusta e si allunga, invece di questa ansia alla bocca dello stomaco. Se mi concentro sul respiro, ascolto il silenzio. È un silenzio di attesa, come per certi versi a trovare una via, a intuire un segnale, di fatto la via non c’è, la salvezza neanche, nessuna soluzione, bisogna attendere che passi, ci vuole tempo e saggezza.
13
Adesso Ad esso so che non lo so cosa voglio dire, ma qualcosa cambia in modo naturale natura tu e me e poi noi per un pochin Un pochino di angoscia, solo un po’. Dentro di me tanto dolore e voglia di buttarlo fuori e di esorcizzarlo. Io so il perché ma non lo voglio scrivere. Non me lo fa scrivere, vuole rispetto e pretende di tenersi rintanato dentro me. Mi prende allo stomaco e alla testa, e fa sì che i pensieri non siano limpidi. Questo dolore mi dà tanta forza che prenderei un’ascia e mi metterei a spaccare la legna, oppure una camminata chilometrica come quando stavo male e camminavo tutta la notte per distendere la mia mente. Abbiamo acceso un grande fuoco, brucia la legna e il male tutto quanto insieme una volta per tutte. Le fiamme sono alte, la legna scricchiola e scoppietta come fosse un cervello. Ci vorrebbe un pianto sonoro ed efficace che plachi la fame. È buffo come io scriva l’ultimo dell’anno, quando tutte e tutti sono impegnati a divertirsi. Li vedo indaffarati a cercare una fonte di allegria che però non esiste. Una volta mi sarei pure alzato da questa sedia di chiodi per far valere un mio diritto, quello di ascoltare “Ridammi il sole” di Zucchero. Questo 14
potrebbe accadere dopo pranzo, dopo un bicchiere, mi sentirei euforico a sufficienza. Gli sbalzi di umore, questo dilemma che mi perseguita e mi consuma. E pure la tosse, che mi fa girare la testa. Ho ricevuto alcuni inviti per stasera, ultimo giorno degli anni ’10. Solo a pensarci mi viene l’angoscia, lo scazzo. Invece devo essere positivo. La fede di platino si è scurita… e il mio cuore si sta un pochino aprendo, con molta calma, con molta, molta calma. Tesoro mio, dolce e infinito, finito e tenero, ti penso con intensità. E mi richiudo autistico nella scrittura, spero autoriale, a cercare di scrivere qualcosa che non esiste perché intangibile. Come sono giù, niente mi scuote, non provo desideri; è un arrabattarsi a far passare il tempo in avanti, a lasciarlo libero. Mi sento senza tempo e un po’ senza forma. Piccolo, piccolino davanti alle meraviglie del mondo, solo con la penna e il foglio. È già qualcosa rispetto al pc e i suoi tocchettini. Ho voglia di battere i tasti sulla Hermes, la rispolvererò. E di ascoltare rock. Sano rock arrabbiato o triste, muscolare o riflessivo, intimo. Niente degli anni novanta, il nirvana non esiste. A volte mi sento osservato, occhi che mi guardano pensando “Ma chissà che sta scrivendo”. Un gran mal di testa, un gran casino. Mi è stato consigliato di urlare. Sbatto i denti. Nessuno stimolo sessuale, nulla. Faccio fatica anche a ricordare i giorni del Paradiso. Non ho voglia, sai? Senza di te mi sento incompleto, mi manca la vita. Mi si chiudono gli occhi. Un senso di morte, di depressione, di assenza. Manca pure l’ironia, il sarcasmo, il saltare tra le lettere per creare nuovi periodi. Non me ne frega niente dell’anno nuovo. Io stasera starò con Mohamed e basta. Vorrei avere un po’ di pace, quel senso profondo di benessere e riposo che ho toccato la sera di Natale. Non c’è soluzione, per forza di cose. Mi gratto. Ti voglio bene, Dio solo sa 15
quanto. Con tutti i miei difetti caratteriali e le mie patologie, con tutto me stesso. Spesso, spesso mi si fa la testa pesante e me la sorreggo tra le mani, strofinandomi le tempie fino al punto di esplodere e mi viene da dire “Oddio, Signore, oddio, oddio.”. Non è tempo di resoconti, sto col cappotto senza un bottone, non darò questo scritto a nessuno, questo “signore” senza nome, senza successo. Non ricordo l’ultima volta che ho fatto l’amore. Boh. Mi sa che, ma no, lasciamo perdere. Per carità. Meglio il mio oro. Stasera lo metto, sì, lo metto, sarà il mio segreto. Comunque i segreti sono il sale della vita, voglio dire, bisogna saperli custodire. A volte è necessario. Rimando alla fedina d’oro con il nome dell’amata all’interno. La sua voce al telefono, sognante, mentre lavorava; pochi minuti ma essenziali. Non mi piace leggere su richiesta, non lo farò. È come quando sei in un locale e fai una richiesta al dj. Ma io non sono un dj, piuttosto un uomo che ozia e si incensa. Che ha bisogno di un nuovo materasso per riposare in modo congruo. Che ha visto un paio di modelli di materasso con possibilità di rate. Che anni fa non avrebbe accettato le rateizzazioni, aspettando di pagare in contanti. Che distribuisce il suo ultimo libro di persona perché non ha un codice Isbn. Che si estasia a guardare le persone, come si comportano e come risolvono i drammi della vita. Che l’ultimo dell’anno era in piena crisi ed è riuscito a vincere la voglia di solitudine andando all’invito a casa di buoni amici. Che ama un bambino che si chiama Liberty ed è ricambiato. Liberty ha la pelle liscia liscia, uno sguardo furbo e comincia a fare dei discorsi che, se ti metti in sintonia, riesci in parte a comprendere. Cresce sano e forte ed è amato dai suoi genitori. Lui è il futuro. Vuole venire in braccio a me, poi quando vado via che saluto non è mai sazio e contento e si mette a piangere coi lacrimoni. Le sue gambe sono da cavallerizzo, i suoi passettini rapidi, 16
l’agilità del suo corpo, notevole nel salire e scendere divani e sedie. A volte prende il telecomando e mette un canale che gli piace. Gli piace sempre la pubblicità perché in genere c’è la musica e la approva muovendo la testa e, a volte, ballando. Io l’ho tenuto in braccio appena nato, gli avevano messo una cuffietta di lana, lui piangeva un pochino, con la sua voce. È curioso, si fa abbracciare e sbaciucchiare da tutti e da tutte, ha un buon cuore. Lo imbocco qualche volta e lui mi dà retta (più a me che a sua madre) e per questo lei mi dà istruzioni che altrimenti lui non seguirebbe, io eseguo e gli dico di fare o non fare qualcosa, lui mi ascolta e siamo tutti in armonia. Ieri per esempio sua madre mi ha offerto uno spumante dolce. Nella sua semplicità, era come un nettare. È bello il fatto che ogni volta che vada a casa loro mi rilassi. L’anno scorso, come accennavo, ho abitato in via Val Tidone. Era un progetto di coabitazione in tre, tutti utenti del Csm. Il progetto si chiamava “Vado a vivere da solo” e scattava da ottobre, ma noi abbiamo deciso di andarci da metà gennaio. Era una casa a due piani, col parquet, tre stanze e un ampio soggiorno-cucina che abbiamo arredato con soldi non nostri. Avevamo una tv di ultima generazione, un tavolo di mogano, un divano usato e una pianta di ficus. Io avevo portato tre grandi maschere africane, poi mi è stato regalato un quadro direttamente dal suo autore che avevo recensito in modo adeguato e profondo. La convivenza ha portato momenti di intimità; avevo arredato la mia camera con mobili di mio fratello e il letto del mio amico, regista e pedagogo Danilo. Un letto da una piazza e mezzo allestito con lenzuola, federe e coperta, frutto del regalo di compleanno di mia madre. Il terrazzino dava verso ovest e di pomeriggio entrava il sole e mi mettevo a scrivere lettere a mano a una persona cui faceva piacere riceverle, ma non piaceva rispondere, quindi era a senso unico. L’ho preso come un esercizio di stile in cui comunicarle i miei sentimenti e le mie sensazioni. Una persona cara che ho 17
frequentato tanti anni fa a Londra e con la quale ho condiviso esperienze, anche di cuore. Ma il cuore fa male, oggi. La mia lei non risponde e non la sento da qualche giorno. Inoltre ho ricevuto uno stipendio misero, che non corrisponde ai turni che faccio. In più gente che non si degna di rispondermi ai messaggi. Infine il rapporto strano con mia madre, che si dispiace se non la aiuto perché ho altri impegni e non metto lei in cima a tutto. Stamani è fosco, dopo giorni di sole. Il babbo stira ascoltando l’ultimo cd di Dalla. Dovrei andare alla posta a spedire due libri ma non ne ho la minima voglia. Non ho voglia di nulla, ero sul letto, un po’ giù e ho chiesto aiuto; dopo mi sono messo a pulire il bagno e farmi una doccia, ora siedo davanti al mostro di pc nuovo a tentare di dare un senso alle parole, alla giornata, a questa tediosa attesa di qualcosa che possa liberarmi da qualche catena. Tra poco sarà il mio compleanno e lo festeggerò in famiglia, senza sfarzi. Qualche buon amico e una mini lista di regali per i familiari, in modo da agevolarli; loro che non sanno mai cosa acquistare per farmi un poco felice. Sono anche iniziati i saldi, potrei farmi un giretto a vedere un giaccone, ma non so. Non ha molto senso, soprattutto quando intorno a te non ricevi stimoli adeguati. Sono solo, dopo cinque giorni di feste natalizie passati con l’amorosa, mi trovo ripiegato su me stesso a riflettere sui miei errori, sulle mie mancanze, un po’ malinconico e un po’ arrabbiato con questo strano mondo che non riuscirò mai a comprendere. L’attualità è sempre peggio, ogni giorno notizie brutte di nuove guerre e malumori. Credo debba prendermi una pausa e andare in ferie in qualche città a trovare un amico o un’amica che non vedo da tempo. Ma chi? Ho veramente voglia di fare questo? Dovrei forse rimboccarmi le maniche e cercare un lavoro più redditizio, ma è dura. La crisi imbruttisce le persone, persino l’immobiliare non va, sarebbe il momento di comprare perché i prezzi sono 18
molto bassi, con la speranza che poi l’economia riprenda a girare. Per me è un rischio. Tanto i soldi non li ho, non ne ho, non ho mai una “lira” se non il giusto per arrivare a fine mese e qualche volta neanche quello. Ieri mi sono comprato un etto di prosciutto crudo, era così rosso, appena tagliato a mano. È l’unico affettato di maiale, insieme alla bresaola, che non porti colesterolo alto. Certo, puoi mangiare topinambur o bere bissap per abbassarlo, ma è sempre meglio prevenire. Non ricordo bene l’immediato passato, tuttavia la forza che mi dà la scrittura è sufficiente. Di conseguenza, ogni momento è buono per farlo. Non ho un vero e proprio metodo, non lo ho mai sviluppato nel corso di più di vent’anni. Seguo il momento, lascio andare e spalmo il bianco col nero. Utilizzo anche lo smartphone, attraverso il promemoria. È così facile. Ovvio che dopo va riguardato e corretto; questo continuo essere scorretti e sgrammaticati. A me piacciono i neologismi, con o senza la birra e le luci delle feste. Ne ho creati diversi e li ho pubblicati nel 2009 dentro un libro suddiviso in paragrafi in cui mi piaceva decostruire la parola. Ne è venuto fuori del cemento armato. D’altronde il titolo che avevo scelto era “Il bunker”. Questa pubblicazione non ha attecchito e non aveva una storia, o meglio l’aveva nelle prime pagine. Cena immaginaria tra personaggi illustri e defunti che si ritrovavano in una torretta ben precisa. Poi di colpo la mia mente partorì enigmi letterari a sé stanti e andavo di seguito a sensazione, prendendo spunto da una città in cui abitavo che corrispondeva a Bruxelles. L’idea, comunque, che mi balena adesso è quella di scrivere in movimento. Passeggiando o andando nell’ascensore, sulle scale mobili o aspettando un ordine durante il lavoro. Si tratta di venire suggestionati dalla realtà a tal punto che diventa essa stessa fonte di narrazione nel tentativo, forse, di comprenderla e interpretarla, più che di fermarla. Il prodotto finale può essere surreale, assurdo. In fondo la vita quotidiana è il miglior spunto per uno studio 19
sociale. È il punto di partenza di questo eterno volontariato, di queste ore di vita non pagate e non assicurate a nulla, è un continuo obliarsi per andare avanti. Tiro un sospiro che non è di sollievo, più di noia e di nausea, perché tutto appare minimo e miniaturizzato rispetto all’ego. Tutto quanto. Preferisco allora esprimermi come posso invece di farmi un giro sui social a visualizzare post e pubblicità mirata. Mi hanno indicizzato o piuttosto profilato? Sul profilo mi affido alla frittura nei locali dove aspetto di prendere cibo da asporto. È da un anno che lavoro come driver. Qualche rara volta il cliente non prende il cibo perché magari è scotto, oppure perché arrivo in ritardo, il ristorante ha molti ordini, di conseguenza i soldi che ho anticipato per il servizio, mi vengono rimborsati dalla ditta e il cibo o lo butto o me lo mangio a fine turno. Che fatica rispondere ai clienti vogliosi e lontani. Sanno già tutto loro. Che cosa domandano a fare di portare loro le cose se dopo dicono che dove abitano loro noi non ci arriviamo? Io cosa ci posso fare? Rientrato alla base, mi godo un’oretta di ozio e riposo in attesa di un lavoro usa e getta da un giorno. Si tratta di inventariare un supermercato, dalle 20 a oltranza. Dress code: nero. Ho paura di annoiarmi, di non farcela e che il lavoro non mi piaccia. Mi può venire fame, sonno e voglia di sigaretta. Potrei sentire freddo. Potrei alienarmi. Non so, non voglio sapere; avevo due appuntamenti oggi pomeriggio ma sono saltati. Sono rimasto con un amico tutto il giorno da stamattina. Siamo andati dal barbiere e a comprare un giaccone per me. Ero un po’ emozionato all’atto di dover pagare, mi sembrava troppo, di spendere troppo per me. Siamo andati in un centro commerciale e ho provato tutti i capi che volevo prima di decidermi. L’ultima prova era la migliore di tutte. La fila alla cassa era più numerosa nel reparto uomini che in quello donne o bambini. Abbiamo anche fatto colazione in un bar a metà mattino. Ho pure preso chips salate di banane, prima di 20
fare i capelli. Il barbiere spazzava con sapienza il pavimento di parquet. Un cliente, in modo affrettato, ha concordato prima il prezzo per farsi le extensions. Una delle due persone che dovevo incontrare è una vecchia conoscenza che vedo molto di rado e che era favorevole all’acquisto della mia autobiografia. Sarebbe la 68esima copia che elargisco. Di solito chiedo un prezzo concordato prima. Alcune copie ho dovuto però regalarle. In particolare l’ultimo giorno dello scorso anno sono andato a casa di conoscenti a far vedere il libro, non ero particolarmente sveglio e brillante, loro davano per scontato che glielo regalassi e io non ho avuto il coraggio di contrariarli. Altre tre copie, invece, sono andate ai fratelli e sorelle della persona cui ho dedicato l’autobiografia, per mantenere vivo il ricordo. Qualche volta ci abbino pure la rivista e la tessera della mia associazione. Ora come ora, la mia associazione culturale sta portando avanti il progetto di diffusione legato al mio romanzo autobiografico. Vorrei anche uscire dall’ambito cittadino per altri orizzonti, senza sentire freddo alla testa, per cui mi devo equipaggiare. L’anta ospita il necessario. Mi ha chiamato l’altra persona latitante all’appuntamento. Dice che è impegnata tra scatole e scatoloni in un trasloco e ha l’ansia. Intanto si avvicina l’ora di partire e ho preparato vestiti e cibo. Chissà a che ora andrò a letto stanotte e soprattutto a che ora mi alzerò domattina visto che devo portare il mio amico a togliere il gesso. Dobbiamo pagare per toglierlo, per fare la Rx e per la visita. Lui si deve arrabattare per rimediare i soldi, perché è un mese fermo e in più lavora a nero. Conosco molta gente che lavora a nero. Non trovano lavori regolari e si arrangiano con l’idraulica, il volantinaggio, la meccanica e i traslochi. La maggior parte non sono di nazionalità italiana, anzi sono in attesa dei documenti e di una risposta positiva all’asilo politico, che a volte non ar21
riva. Pure se arrivasse non potrebbero tornare al loro paese d’origine, a riabbracciare la famiglia e a mangiare cibo conosciuto. Per quello ci sono i negozi di alimentari specializzati, che nella mia città sono concentrati attorno alla stazione dei treni. C’è anche una zona cinese, con supermercato, vestiti, tecnici informatici e per smartphone, negozi di chincaglieria e cineserie, gulp. Ora che ci penso, in periferia la metà dei bar è gestita da loro. Alcuni non sanno fare il loro mestiere, non conoscono il negroni. Altri sbagliano col caffè. A me piacciono i bar di lusso, mi danno la sensazione che tutto possa accadere, tutto sia possibile. Non ne conosco tanti perché la mia condizione sociale non è alta, ma qualche soddisfazione me la concedo. In discoteca non vado più. L’ultima volta ho chiesto un tavolo guest e mi hanno messo insieme a degli sconosciuti, ero in compagnia di un amico molto orso, poi, dopo un’infinità di tempo, è arrivata una bottiglia di rhum e di cola, finite in un battibaleno, che noi non siamo stati capaci di gustare. Dovevo quindi intervistare un dj americano ma non ci sono riuscito perché mi facevo qualche problema su cosa chiedergli: “Parlami di te” mi sembrava troppo generico e spiccio. Insomma, io e il mio amico siamo andati via, neanche ci piaceva la musica, l’atmosfera non era poi di quelle che invitavano a conoscere l’altro o l’altra, ognuno dei presenti era convinto di essere al posto giusto, al momento giusto, tranne noi. Neanche il parcheggio, a volte fonte di incontri o scambio di battute e vibrazioni, ci dava soddisfazione. E dire che mi ero preparato, indossavo una giacca di pelle vissuta old style ed ero pure riuscito a non far pagare al mio amico. Forse, avessimo pagato l’entrata e il drink, ci saremmo sentiti più a nostro agio anche se lui non ama tirare fuori soldi in locali pubblici, dal momento che ne gestiva uno underground che era il punto di ritrovo della città appena fuori porta. 22
La porta della percezione è sempre aperta. Casa e lavoro. Cambiare si può. Andare a vivere da solo e trovare un lavoro diurno, sono desideri legittimi che sembrano utopie, ora come ora. La sicurezza è data dal focolare domestico rappresentato da mio padre. Sto bene con lui, è cocco, poi, da quando lavoro come un matto mi apprezza di più. Faccio gli straordinari ma non riesco a risparmiare per mettere da parte i soldi per una caparra. La vita è cara, come ti muovi spendi. Se non ti muovi, come quando ero malato di depressione bipolare, pensi. Se pensi troppo, guardando fisso il soffitto o il muro della stanza, generi negatività che colpisce chi ti sta vicino e tutto il circondario. Anni fa dicevo le mie preghiere allargando pensieri di luce a tutto il creato, immaginando di mettere in contatto soli e galassie, viaggiando nell’etere a piacimento. Erano solo grosse seghe mentali dettate dalla voglia di evadere la realtà, perché è pesante e mi viene da rifuggirla. Così, questo inizio di anno appare confuso, sempre di più. Mi sono dato degli obiettivi ma sono liquidi e mutano di giorno in giorno. L’astronave della mia stanza mi porterà da qualche parte, per fermarmi alla deriva e approdare in terre calpestabili. Avrò il mio scafandro e riserva di ossigeno vitale e resisterò. Il pericolo è rappresentato dal venire sopraffatti dalle intemperie e dagli imprevisti. In tal caso ci si rincuccerà nel letto e si aspetterà il sereno. E se non arriva, qual è la soluzione? Affidarsi alle cure necessarie, ridurre la fonte di stress e di ansia, accettare l’ombra e il tramonto, camminare un passo alla volta e tutto questo genere di stronzate. Il tempo passa ed è inesorabile, non aspetta nessuno. La via che si traccia è quella della vita, con la consapevolezza che avrà un termine. Dobbiamo spenderla senza paura e far valere i nostri principi, le nostre idee. Da ragazzo non ero attirato dalla politica scandalistica. Mi sembrava lontana dalla realtà, la mia. Non inseguivo ideali utopistici, ero abbastanza chiuso e arroccato nel mio piccolo mondo. Mi emozionavano le ragazze e le 23
desideravo tanto. Quando riuscivo a creare una relazione mi sembrava una cosa buona. Idealizzavo la relazione, la condivo di acerbi significati. Con essa mi sembrava di stare più vicino ai miei genitori, di capirli, di comprendere meglio i loro conflitti. Una volta abbiamo mangiato in famiglia io con la mia ex-compagna e mio fratello con la sua. Era una situazione di allegria e reciproco sostegno. È successo una volta sola perché poi si è rotto l’incantesimo e oggi mio fratello è single. Io no per fortuna, perché sono accompagnato con una donna che stimo e che mi accende, ricambiato. Il problema è la distanza, che ci separa e ci unisce. Ci vediamo due volte all’anno quando va bene e ci sentiamo al telefono. Ci scambiamo affetto e regali, lei è comprensiva verso la mia malattia e la riconosce con facilità. Quando me la fa notare io non ho che da prenderne atto. Ho messo su un cd coi vecchi successi di Jimi Hendrix. Lo facevo anche venti anni fa quando abitavo a Londra e cominciavo a scrivere il mio primo e inedito romanzo. Alzavo il volume e mi sfogavo con la macchina per scrivere. Ci davo dentro per liberare rabbia e frustrazione. Londra mi sembrava enorme e mi ci perdevo, non riuscivo a trovare la mia strada. Era tutto così diverso e irreale rispetto alla provincia, così duro. Mi sembrava di poter fare tutto ma era un’illusione. Già soffrivo di problemi di salute mentale ma reagivo, fino ad un certo punto. Poi, dopo un anno e mezzo, il tracollo. Tornai a casa mesto e a pezzi. Non riuscivo a dialogare con la gente e coi miei. Conobbi, poi, un gruppo di persone che ancora frequento e che la pensavano come me: riabitare spazi abbandonati. Ho vissuto in uno squat di Clapham Common per lungo tempo, zona due di Londra. Si intrecciavano vite e si condivideva il quotidiano e la paranoia dell’eviction, ossia di venire cacciati. Siamo stati mesi senza corrente e al freddo, a riscaldarci e a scrivere lettere a lume di candela, mentre ci pioveva 24
in camera e la notte venivano i topi. La mattina ti alzavi e pensavi che eri nella merda. La cucina sempre un disastro, si viveva vendendo giornali per la strada e qualcuno prendeva la disoccupazione. Si facevano parties sulla grande terrazza a cui si accedeva dalla cucina con una scala di legno a pioli. La nostra era una vita semplice e lenta, il contrario di quella frenetica che invadeva ogni angolo della città. Nel nostro squat, nei nostri appartamenti occupati, trovavi rifugio e conforto umano. D’estate poi si ospitavano amici e amiche, l’energia era frizzante. Molti partivano a metà mattino e tornavano a metà pomeriggio per cercare di rimediare la giornata, poi si cucinava e si faceva baldoria fino a notte fonda. Per quanto mi riguardava ero un isolazionista, non facevo comunella e mi rintanavo nella stanza a porta chiusa. A volte ci mangiavo, in camera, era un’abitudine che ho sviluppato in Inghilterra come concetto di privacy. Non mi andava di condividere il sudiciume a tavola, le mura piene di scritte e i chiloom dei portoghesi. Sì, perché la maggior parte di noi abitanti veniva dal Portogallo, alcuni erano fuggiti per non fare la leva militare, altri erano saltimbanchi, giocolieri e maghi. Qualcuno si calava dalla canna fumaria di un tetto per rubare roba a gente facoltosa. Lo capivi perché tornavano neri di fuliggine e non è perché fossero stati in miniera a spalare carbone. Ho fatto dei lavori legati al catering. Servivo bevande nei locali e cibo durante le cerimonie; mi piaceva rendermi utile e far stare bene la gente. Loro mi ricompensavano. Mi muovevo con la metro o con la bicicletta, anche di notte. Quando andavo nei club a svagarmi tornavo con un night bus, il conducente lo guidava sempre a tutto gas e dovevi essere sveglio a prenotare la chiamata per scendere. Londra è una città che non dorme, non dorme mai, eppure le più grandi, durature e belle dormite le ho fatte in quella puttana di città che tentava di ammaliarti. Per paradosso, quando tornai in Italia avevo racimolato un bel gruzzolo che mi permise di mantenermi 25
senza l’ansia di sfangare la giornata. Feci allungare barba e capelli e giravo in macchina. Non avevo ancora il telefonino perché non era così diffuso. Andavo spesso da solo a visitare paesini della mia regione. Mi sentivo uno straniero dentro e fuori non mi riconoscevo. Ho vissuto la sensazione di essermi perduto e ogni giorno dovevo inventarmi una ricetta per non impazzire. Non sapevo da dove cominciare, la cosa più facile era di rimediare lavori agricoli. Me ne stavo chiuso e ripiegato su me stesso, un modo di fare che rispecchiava la psicologia del mio territorio, di dove sono nato e cresciuto. Pochi contatti ma buoni, o almeno così mi sembrava. Col tempo chi era veramente amico lo è rimasto. Altri sono scomparsi e dileguati, disciolti come neve. Da soli si sta bene perché la maggior parte delle persone è troppo concentrata su sé stessa. Non c’è spazio per il dialogo, per l’ascolto. Una signora sale con me nell’ascensore e si lamenta che questo nuovo modello ha le porte automatiche che si chiudono in modo troppo lento. Cerco di ribattere dicendole che è per la sicurezza. Uscendo, declama che sembrano le porte del Papa. Io mi dirigo al mio pianerottolo, ho una mezz’ora da dedicare alla lettura di un libro in scadenza preso in biblioteca, ci vado almeno una volta al mese, prendo in prestito qualche testo curioso. Una volta, tornando dalla biblioteca, vedo un gruppo di persone attorno a qualcosa. Decido di non essere curioso e vado dritto a casa. Mio padre mi accoglie dicendomi che una donna si è buttata dall’undicesimo piano, lui era in terrazza quando ha visto la sagoma biancovestita. Io strabuzzo gli occhi per la forte emozione e mi spavento. Da quel giorno nei momenti di depressione ho evitato come la peste la mia terrazza per il terrore che una voce potesse dirmi di porre fine a tutti i problemi. A volte getto una cicca dal terrazzo, cerco di non mandarla a sbattere sulle macchine parcheggiate di sotto. In ascensore, per esempio, non si può fumare ma io a volte lo faccio di na26
scosto. Mia madre mi riprende per questo, non le sta bene, lei accanita fumatrice che fumava in ufficio. Aveva un libro specializzato su come smettere di fumare, gliel’ho chiesto in prestito ma non lo ritrova. È che a me fumare piace troppo però mi è stato consigliato di ridurre o di smettere del tutto. In passato ho smesso più volte, ma poi ho sempre ricominciato. Anche adesso mi sta venendo voglia di fumare, mentre sono in macchina che aspetto un ordine da consegnare. Mi rilasso cercando di non pensare a quanto possa essere fastidioso il traffico quotidiano. Molti non rispettano la precedenza, altri sorpassano coi suv e le station. C’è chi ti si incolla dietro fino all’ultimo, chi va pianissimo, poi ci sono i semafori. Tutte fonti di stress che quando sei calmo non ci fai caso, altre volte ti accorgi di imprecare contro il prossimo. Nella mia città, comunque, non sanno guidare, questa è la mia opinione. Chi assicura i giocatori quando si fanno male? Alcuni di loro valgono montagne di denaro e tutti si allenano sempre, tranne quando sono infortunati. È successo a un mio amico, costretto ad un mese di gesso per una frattura al malleolo e ora deve fare la riabilitazione. Solo che lui non fa sport a livello professionale e non è assicurato. Fa sport con i pesi, a casa, dopo il lavoro, per scaricarsi. Poi ne ho un altro che fa il personal trainer per chi vuole allenarsi, potenziare la massa muscolare, ma lo fa per volontariato e per rendersi utile. Una volta dovevamo fare uno spettacolo di teatro insieme, lui non era in forma, aveva l’influenza ed era debole, così decide di arrivare un po’ prima, si corica nella stanza soppalcata, poi si sveglia, mangia un pochino e prende la medicina. A quel punto mi chiede di seguirlo. Andiamo in palestra, si toglie il sopra, mi prende una sedia e comincia a correre di buona lena, in tondo. Poi fa la serie di addominali ed altri esercizi. Io dovevo tenergli compagnia mentre lui sudava e si caricava. 27
Entrambi abbiamo recitato bene a teatro e abbiamo raccolto diversi applausi. Lo aspetto tra qualche giorno a casa mia per pranzo, per festeggiare il mio compleanno, ha detto di avermi comprato un berretto. Fatico a respirare, la tosse non mi dà pace. Devo incontrare una tipa più tardi per proporle una collaborazione di gonzo journalism italiano da Londra. Non l’ho mai incontrata dal vivo e la cosa è interessante. La vedrò dopo pranzo, ma non so dove. Nel frattempo ci sto dando dentro a cercare un bilocale arredato, sono partito dal centro della mia città per arrivare in periferia. Sul web qualche buona offerta c’è, ma potrebbero esserci delle insidie. Allora ho pensato di rivolgermi a una fondazione che fornisce residenze per utenti con criticità psichiche. Si tratta di coabitare con un paio di normodotati senza pagare l’affitto, se ho ben capito, al fine di un progetto graduale di reintegrazione e indipendenza. Queste cose però sono molto delicate e ci vogliono dei mediatori, secondo me. È come pensavo. L’assistente sociale mi conferma che per accedere al progetto della fondazione deve essere il servizio pubblico che ne fa richiesta, quindi l’esigenza dovrebbe venire da loro. In più mi ha consigliato di informarmi all’ufficio pubblico per il reddito di cittadinanza. Non so, mi sembra di aver messo a cuocere troppa carne, ci vuole un momento di stacco e riflessione per poter riprendere con maggior vigore. A me l’idea di cambiare casa non dispiace, ma deve essere carina e luminosa; vedremo il da farsi. Intanto avanza il silenzio casalingo dopo l’eccitazione telefonica paterna per una questione che non ho ben capito, si è arrabbiato per qualcosa ed è uscito a brutto muso. Se la prende molto per le cose, non riesce a essere distaccato. Mi ha detto che non faccio niente e lui fa tutto. Quando è nervoso me lo ripete spesso. Anche mia madre è spesso nervosa e, quando la vado a tro28
vare, mi riprende in continuazione. I miei genitori sono un po’ stressati perché l’età avanza e in più sono esigenti. Il mio dottore mi ha consigliato di evitare di essere preso nella loro morsa. Mi sembra un saggio consiglio. In tutta sincerità loro due mi sembrano un po’ comici. A volte fanno dei discorsi strampalati perdendo di vista la realtà. Credono nell’attualità e alle notizie della giornata come oro colato. La mia opinione, invece, è che l’informazione pubblica sia manipolata e funzionale, al fine di dividere i popoli che in questo modo son più asserviti al potere. Anni fa prendevo parte alle sedute di Indymedia, become your media. Poi i social media hanno livellato e spianato tutto quanto. Io li uso e trovo news, alcune sono dei fake. Penso che abbiano cambiato il mio modo di scrivere e la mia percezione del mondo virtuale. Mi lacrimano gli occhi, anche dal dottore mi lacrimavano, perché mi ero emozionato. Mi ha chiesto informazioni sulla mia compagna e ho sentito tanto calore dentro. A me non sembra vero che lei esista, mi sembra una grazia dall’alto, qualcosa di ancestrale. Noi dobbiamo avere fiducia, il tempo ci darà forza per passare una vecchiaia dignitosa insieme. Possiamo contare l’uno sull’altra e questo è di fondamentale importanza. Ora però ho davvero bisogno di alleggerirmi e di svagarmi. Sono al lavoro, fermo al parcheggio dello stadio. Dopo andrò a mangiare al circolo e ad aspettare la mezzanotte. In verità sono nato alle due del pomeriggio. È bello e interessante nascere all’inizio dell’anno o poco dopo, hai tutto davanti per realizzare desideri e obiettivi. Mi sono ben chiari. Sono invece offuscato dai colloqui con lo psik perché faccio fatica a interpretarlo. Sprigiono delle emozioni intime durante il setting, e il suo rimando è vago. Cosa che invece è precisa e puntuale con l’omeopata. Lui mi consiglia al meglio e non mi fa venire dubbi. Non capisco perché uno strizzacervelli debba 29
per forza metterti in crisi. Che senso ha? Che differenza tra i due! Chi lo dice che non si debbano fare paragoni? Il percorso omeopatico ha maggior rispetto per la totalità della persona e non è invasivo. Io la vedo così. C’è chi dice che non fa nulla, è un effetto placebo. Io mi ci curo da decenni e pure mia madre e mio fratello. Abbiamo conosciuto i nostri omeopati, padre e figlio, nel loro studio elegante. Sono persone squisite, molto dotte, umane e preparate. Piuttosto si avvicina anche un altro evento e quest’anno lo vorrei commemorare. Tra pochi giorni, infatti, ci sarà la ricorrenza della morte di un carissimo amico. In passato sono andato alla messa a lui dedicata. Quest’anno lo vorrei ricordare con la musica, sua passione principale. In ogni caso, tornando a me, la crisi dei 40 l’ho superata e non mi ammalerò ancora, sono fiducioso. Ho rafforzato le mie capacità e a livello astrale ci sono congiunzioni interessanti che presto creeranno allineamenti. La mia carta natale me lo diceva fin da adolescente; la mia indole di capricorno, ascendente gemelli, forse, mi crea problemi di integrità ma il vero lavoro è scavare. Mi sento ancora come quando ero bambino, con la voglia di giocare e divertirmi. Sì, niente pesantezze ma equilibrio. Credendo più in me, nelle mie possibilità, sarò più audace. Voglio rinforzare il pensiero e renderlo elastico, capace di comparare le cose e gestirle per trovare soluzioni efficaci. Sviluppare strategie percorribili con un minimo di audacia. Eccolo, il mio compleanno. Mi accoglie il mattino con una bella giornata di sole. In realtà non mi sento a posto, come ogni festa che si comandi mi sento un po’ stordito, come se mi mancasse qualcosa. Io so cosa, mi manca la vicinanza fisica della mia amorosa. Mi ha chiamato ieri e abbiamo riso piacevolmente tutto il tempo. Il suono della sua risata era regale, elegante. Mi ha lasciato una scia d’amore. Sì, il mio umore è strano. Sono malinconico. Lo ero anche da diciottenne, 30
quando studiavo come un folle le lezioni d’italiano del mio professore. Il Leopardi mi intristiva, il romanticismo mi incupiva, lo spleen si impossessava di me. Il diario che tenevo era abbastanza lugubre e provo un senso di affetto rileggendolo, come a farmi una carezza. Così, sono giunto a più di metà del cammino della mia vita, dietro ho il passato, le mie azioni e decisioni, davanti a me qualcosa che non so descrivere. Si procede con lentezza, passo dopo passo. Avrei bisogno di uscire in compagnia di un amico per fare due chiacchiere e schiacciare i pensieri. Chiamerò qualcuno. Fottuto compleanno. La mattina, in compagnia di un mio amico, vado in cerca di un cartomante che tanti anni fa mi fece la carta astrale. Arriviamo e non riconosco la casa, chiedo a un ferramenta e mi dice che è morto dieci anni fa. Torniamo dalle nostre parti. Poi non ricordo bene ma mi ritrovo ad aspettare l’ultima mezz’ora di lavoro. Sì, lavoro la sera del mio complex. I miei amici mi aspettano in centro e con loro mi sfogherò. Ogni tanto quattro urlacci sono leciti e non si scandalizza nessuno. Mi è stato consigliato di mangiare, tra un brindisi e un altro, ma non ho per niente fame, devo ancora digerire il pranzo col telegiornale a tutto volume. Niente, a quindici minuti dalla fine del turno di lavoro arriva un mega-ordine da consegnare lontano. Naturalmente il ristorante giapponese è in ritardo con la consegna, è sabato sera e il locale è a pieno regime. Il popolo mangia e parla, un vocio ininterrotto che sembra uno sciame d’api. Penso che mi stanno aspettando e sono bloccato a venti chilometri. Mi gira un po’ la testa per la stanchezza di una giornata spesa per gli altri e che sarà così anche domani. Il festeggiato che non può festeggiarsi stanotte. L’anno scorso feci le sei del mattino, completamente lucido. Mi comprai un braccialetto africano con delle conchiglie di cui ora non ricordo il nome. Dopo tre mesi ho ricevuto un ciondolo con una conchiglia d’oro. Non 31
l’ho più tolta, salvo quando mi esibisco in spettacoli e performances artistiche. Una volta mi si regalarono per anello l’apertura di una lattina e lo tenni per un po’, ma poi mi si gonfiavano le dita. Me lo regalò una tipa che prima lasciai io, poi mi lasciò lei. Mi sento preso dal compleanno, ho regali in giro da ritirare e ancora da fare festa con gli amici. Stasera sono pure libero e ne approfitterò per salutare un’amica che parte qualche mese per l’est Europa. Mentre scrivo il cane del vicino ulula, ancora una volta sarà stato lasciato solo; certe notti non ha pace. Ora ha smesso e l’unico rumore percettibile è quello del traffico di quartiere. Ho messo della musica black. D’un tratto sprofondo sul divano osservando con minuzia un posacenere di cristallo a forma di ippopotamo. Arriva della frutta secca come entrée. Con due dita prendo questa scura prugna secca che inizierà la mia cena. È arrivato il freddo penetrante. Non riesco a scaldarmi. Ci vorrebbe una doccia calda ma non ora, perché tra poco si va al lavoro e sarò affiancato da un amico che vuole vedere come si fa, per poi valutare la possibilità di chiedere di entrare nell’organico. Con lui ci conosciamo fin dai banchi di scuola, dal primo superiore. Siamo rivali nel calcio ma cerchiamo di rispettarci, più o meno. Suo genero mi ha regalato del tartufo bianco e nero, a me piace molto. Ha un cane addestrato che gli permette buoni raccolti e buoni affari. Credo ci vada di buon mattino. Mi ha anche proposto di entrare a far parte del partito che rappresenta, di presenziare le riunioni. Io li appoggio ideologicamente ma non intendo andare oltre. Non credo nelle battaglie civili, non abbastanza. Ho fatto manifestazioni e marce ma poi mi sono fermato. Per me fare politica significa agire nel mondo del volontariato. Nel 2001 ho fondato, insieme ad altre due persone, un’associazione culturale. Ci 32
occupiamo di prevenire situazioni di disagio, emarginazione, solitudine e intolleranza condividendo delle attività culturali. Il comune della nostra città non ci ha mai assegnato una sede pubblica, per cui la sede è diventata casa mia. Qui conservo fogli, documenti, schede e progetti dell’associazione. Per quest’anno ci concentriamo nel redigere una rivista e organizzare eventi performativi legati alla letteratura. Io sono il presidente e l’elemento trainante da cui partono le idee, gli accordi e le date degli eventi. Abbiamo formato un trio collaudato di due uomini e una donna e interagiamo insieme quando c’è da intrattenere un pubblico. Abbiamo i nostri affezionati che, col tempo, si sono avvicinati ai nostri progetti. L’intento è quello di allargare il gruppo, i punti di vista e l’apporto in termini di disponibilità. Ci si sente utili con semplicità e dedizione. Con gli anni ci siamo organizzati preparando prima una proposta e arrivando così consapevoli sul tema da trattare, pur conservando sempre margini di improvvisazione e approfondimento. I nostri principi sono la solidarietà e il mutuo aiuto. In un mondo sempre più schiavo dell’individuo, troviamo la soluzione nel quieto vivere e nel gruppo. Più siamo uniti meno siamo calpestabili. Io sono stato spesso, quasi sempre, ignorato dalle autorità. In quasi venti anni ho visto, abbiamo visto, cambiare Giunte e modo di fare, con associazioni nuove che avanzano e ottengono visibilità. Noi no, siamo sempre stati fuori dal meccanismo di industria culturale, abbastanza incapaci di gestire l’aspetto manageriale, prediligendo la spontaneità e il cuore. Ecco, ci mettiamo il cuore e la passione ed ogni nostro evento è per noi una gioia. Si è tesi poco prima e rilassati poco dopo, anche perché c’è la risposta del pubblico, comunque. La parte che segue, che viene dopo, è quella di stemperare la tensione cercando di raccogliere qualche consenso; anche solo uno sguardo vero è un traguardo. Io poi sono un tipo di pancia, viscerale, che si inebria se c’è scambio. Non amo i ragionamenti troppo com33
plicati, gli intellettualismi di sorta. Mi piace più il fuoco, il pulsare rosso dei corpi e dei sentimenti; vedere quanta voglia di vivere c’è dietro una performance. Ieri sera ero ospite a cena di un teorico. Vive in due appartamenti e i suoi libri sono sparsi dappertutto. Abbiamo parlato di argomenti vicini a nuove ipotesi di pubblicazioni, di periodici. Poi stanotte sono andato a dormire spossato e non ho riposato al meglio, complice questo freddo polare senza neve. È il periodo più duro dell’anno, in cui ci si rimbocca le maniche e si tira la cinghia; è il periodo che precede il carnevale e le prime braciolate dell’anno. La natura sonnecchia e la terra sembra un coperchio del sottosuolo. L’umore è triste dopo i bagordi natalizi. Il carico ce lo mette, come sempre, l’attualità che ci informa che non c’è lavoro; il paese è in crisi sotto tutti i punti di vista. Questo lavoro cui han tolto i diritti al lavoratore, alla persona. Sei parte di un sistema di sfruttamento e di falsi miti di potere, dove vieni ridotto ad un numero, in cui si diventa una sigla, uomo-macchina a chiamata, veloce, efficiente e produttivo, in cui l’errore non è ammesso perché distruggerebbe l’ingranaggio. Prendiamo il mio lavoro attuale di car driver: conosco i miei colleghi, ho la possibilità di confrontarmi e comunicare con loro? No. La struttura è piramidale e siamo isolati tra di noi. Dobbiamo rispondere ad una app e i turni di lavoro li fa l’algoritmo. Viene trattenuto il venti per cento di contributi e la media oraria netta è di 4,5 euro. Ho iniziato questo lavoro un anno fa con la speranza di trovare qualcosa di meglio. Non ho trovato nulla di meglio o di peggio semplicemente perché non c’è e le prospettive non sono buone. In più se sto male e non posso andare al lavoro, non mi pagano. È il lavoro a chiamata il nuovo schiavismo. L’ansia della prestazione che domina, ti prende e non ti lascia più. Io lo faccio per cercare di sopravvivere, non certo per 34
realizzarmi; oltretutto non c’è possibilità di avanzare, di fare carriera, devi solo guidare la tua macchina e portare da mangiare ai clienti, fine. Ma il cibo è una grande cosa. Conosco in parte il cibo dell’Africa dell’ovest. Ho amici e conoscenti di quella bellissima parte del globo vicino l’equatore, felici di condividere esperienze culinarie. A me fa piacere qualche volta mangiare con le mani, ma devo essere a mio agio altrimenti mi imbratto tutto e non mi godo il pasto. Con loro si sdrammatizza su tutto senza perdere di vista i sani principi; scherziamo sulle nostre differenze culturali e di linguaggio, ci scambiamo sogni e informazioni. Sono stato in Africa 23 anni fa e vorrei tornarci a rilassarmi, a scandire il tempo e, soprattutto, a scrivere. Conservo pagine di diario dell’epoca scritte su carta spessa, esperienze preziose e indelebili, come quando ero in difficoltà e fui ospitato, o quando, partecipando a una camminata notturna, ricevetti dell’acqua da sconosciuti. Il riposo e il mangiare sono alla base, poi viene subito dopo il sesso. A me piaceva molto il rapporto tra i membri delle famiglie, vedere e sentire il rispetto dei giovani per gli anziani, il tramandare la conoscenza da parte di questi ultimi. I bambini, seminudi, liberi di correre, schiamazzare e ridere, che venivano lavati dai genitori per strada su delle ciotole. La doccia a secchio, fresca, a contrastare il calore esterno. La natura, suprema, con il suo suono e la sua voce ripresa dalle percussioni locali. I corpi, quasi perfetti e muscolosi, scattanti e pronti. E poi i colori dei vestiti del posto, il vocio costante del mercato, il silenzio profondo di chi osserva, la speranza indistruttibile in Dio. Tutto questo mi manca e lo ritrovo, in parte, frequentando gente dell’Africa che vive nella mia città e che ho conosciuto soprattutto grazie al laboratorio interculturale teatrale. Lì vedi i loro miglioramenti con l’italiano, assisti al lento mutamento del loro atteggiamento, dapprima in sordina e ben educato, li vedi poi prendere confidenza col mezzo espressivo, li senti parlare e cantare nel 35
loro dialetto, i corpi sudare ed esprimersi. L’amicizia che costruisci d’incontro in incontro diventa più solida e palpabile, il sorriso sempre pronto a scoprire denti bianchissimi. Quel senso comune di presa in giro, quel controvoglia necessario. Un’umanità che ti entra dentro per sempre. Concludo affermando ad alta voce che il popolo africano conserva l’innocenza che hanno i bambini ed è questo che lo porta più vicino al mio cuore. Il fuoco è acceso e scalda l’ampio ambiente, capace e accogliente; musica italiana in diffusione. In cucina si decide cosa preparare per il pranzo, l’acqua bolle per una tisana “Purezza”. Vicino a me una radiolina invadente. Fuori la nebbia che ti entra nelle ossa per lasciare posto, nei prossimi giorni, al gelo. Mi chiedono aiuto per pulire il cancello; rispondo affermativamente e intanto prendo tempo. Sto bene al chiuso. Subito dopo un’altra richiesta: acquistare del mascarpone. È tutto un gran casino e io voglio solo bere la mia tisana in pace, devo aspettare che si freddi un po’; prendo un sorso e mi ustiono. Mi hanno messo l’ansia di fare veloce. Il sapore di liquirizia non mi aggrada, aggiungerò del miele, se c’è. Mi sa di no. Ecco, ho cambiato sala e ora a farmi compagnia ho un mazzetto di fiori, per la felicità del mio olfatto. Pure la tisana, corretta con zucchero, è accettabile. Caccio un urlo liberatorio. Un altro sorso. Devo finirla e poi farò ciò che mi hanno chiesto. Mi viene da tossire, ho mal di testa; forse una boccata d’aria mi farà bene. Traccheggio. Davanti a me la cartina del pianeta. La Russia è immensa. Il camino fa un gran frastuono e mi fa pensare all’Australia in fiamme. Ho voglia di fare merenda ma resisto. Ho preso qualche chilo e non faccio sport, una volta alla settimana, come prima. La 36
mia squadra di calcio si allena il mercoledì pomeriggio e partecipa a un campionato regionale non competitivo. D’estate andiamo al raduno nazionale dove incontriamo squadre più forti, ma noi non facciamo certo brutta figura. Io sono mancino di piede e gioco all’attacco. Quando, con una finta, riesco a saltare l’uomo, ci godo e mi esalto. Purtroppo il fisico è quello che è e, in genere, il secondo tempo è sempre più duro. Il raduno si svolge sempre in una regione del Sud, dove c’è il mare, con residence e piscina. I pasti sono a buffet. Abbiamo tutti un posto in spiaggia, con ombrellone e sdraia. Ci si impigrisce a parlare di noi e qualcuno ascolta la musica. La parte più odiosa è l’animazione, quando improbabili ragazzi ti esortano a partecipare e tu non riesci a dire di no. Allora ti coinvolgono in penosi tornei di calciobalilla e ping-pong ma il peggio arriva col gioco aperitivo dove, dopo aver sostenuto incredibili prove, vinci un analcolico. La sera in genere non si fa molto, c’è la discoteca del residence con musica che non gradisco, oppure il karaoke dove qualcuno starnazza. Il massimo è la prima sera che si arriva, quando ti tocca assistere allo spettacolo di benvenuto, con gag molto sessiste dove il capovillaggio prende in giro tutte e tutti e le assistenti sono chiamate a far innamorare gli ospiti; solo che hanno, se va bene, diciotto anni. Devo ammettere che per sei o sette giorni non penso a niente, se non al guardaroba, a farmi tante docce e a scegliere cibo pronto. L’aria è buona, siamo al mare, e qualche volta si fanno le uscite in città. In realtà vorrei vacanze diverse; innanzitutto tornerei a farmi un giro a Londra, la sera andrei ai concerti e berrei birra, scriverei come se non ci fosse un domani. In fondo è in questa metropoli che è cominciata la mia avventura letteraria, non mi stancherò mai di dirlo. Avevo la mia preziosa musa che, per fortuna, ancora mi influenza e ci sentiamo in chat. Lei ora insegna e ha comprato casa. Non la vedo da un decennio. Mi ha rivelato di essere felicemente single, dopo una serie di 37
flirt andati male. Ho immaginato molte volte di rincontrarla, di averci a che fare. Le mando sempre le mie pubblicazioni all’indirizzo dei suoi genitori, perché il suo me lo cela, per via della privacy. Le ho scritto molte lettere ma non mi ha mai risposto, eccetto agli auguri di Buone Feste. Ha una sorella e due fratelli. Il minore non l’ho mai incontrato. Ho conosciuto sua madre e suo padre quando mi hanno ospitato. Poi c’era la sua amica di adolescenza, che ha creato qualche scompiglio tra di noi per la sua irrequietezza giovanile. Ora è diventata madre di tre bambine, ha una relazione solida. Ci ho pure dormito insieme, desiderandola. Mi venne a trovare e passammo dei giorni di follia. Ad oggi non vuole più avere a che fare con me perché le ricordo il passato. Io conservo le sue lettere e un buon ricordo di lei; ci tengo, come altre persone che hanno incrociato il mio cammino; non sono nostalgico, ma non rinnego il passato. Devo dire che non viaggio più molto, mi sono impigrito. Il fatto è che, mentre prima con due soldi facevo di tutto, ora è diverso. Sono diverse le aspettative e l’agio, io desidero stare bene, mi piace avere denaro da spendere, per cui ogni volta che parto devo programmarmi per tempo e mettere da parte i soldi. Non che sia facile, perché la vita, nonostante la crisi, è sempre più cara. Quanta disperazione ha creato, quanta gente sul lastrico, che ha perso la fiducia e la dignità. Ci sono stati aumenti considerevoli per i servizi di salute mentale. A un certo punto della mia vita sono crollato, non avevo certezze. La paura mi immobilizzava. Chiunque mi mandava in paranoia. La presenza di mio padre mi “flippava”, mi sentivo minacciato, controllato e abusato. Il letto era il mio rifugio, il mio mondo. Rifiutavo cibo e acqua, non mi lavavo. Mi sentivo in colpa per questa irreversibile discesa agli inferi. Persino respirare mi rimaneva scomodo. Alzarmi dal letto per andare 38
in bagno era un viaggio infinito. Naturalmente non riuscivo a leggere e a scrivere, poi ho scoperto le parole crociate, la settimana enigmistica e non facevo altro. Le parole troppo negative però cercavo di evitarle. Avevo l’ossessione del pensiero positivo e cercavo conforto nella preghiera e nei salmi. Pensavo che il diavolo fosse dietro l’angolo, tentatore e malefico. Sudavo, annaspavo; era estate, una delle più calde di sempre. Un mio amico era morto di overdose e pensavo che un giorno sarei finito come lui. La depressione bipolare mi incatenava alla sofferenza. Quando ero “up” facevo cose al limite. La notte mi guardavo una trasmissione televisiva e l’abbinavo a scorpacciate di cibo, qualsiasi cosa trovassi in frigo. Mi sembrava di rinascere nel riprovare emozioni intime rivelate. Riuscivo a uscire la mattina, ma poi vomitavo e tuttavia non mi fermavo. Lunghissime, chilometriche passeggiate, qualcosa come trenta chilometri a “botta”. Avevo le mie goccine omeopatiche e mi sentivo invincibile. Ovviamente prediligevo la solitudine ma mi pesava. Osservavo il cielo, la natura, avevo la sensazione di dominarla e di essere un predestinato. Credevo di poter curare la gente prendendo sul mio groppone le loro malattie. Avevo letto che i santi facevano così. L’esoterismo era una parte importante della mia vita, frasi come “La malattia è la cura” erano il mio pane quotidiano. Una preghiera in ebraico la ripetevo mentalmente. Mi aiutava, mi dava forza. Tutto ciò che era soprannaturale mi attraeva, non avevo il minimo interesse per la scienza, anzi la consideravo un ostacolo alla vita spirituale, all’ascensione, alla catarsi. Andavo in cerca di attrazione e magnetismo. Ero uno sprovveduto che non accettava la sua malattia, il suo disagio esistenziale. Compravo libri molto tristi e densi. Io, che ho sempre creduto nella forza della risata e della comicità, nella bellezza di far ridere e sognare gli altri, non mi riconoscevo più. Tutto questo caos a volte determinava sentimenti di incoraggiamento da parte delle compagne che, via via, ho avuto. 39
Erano delle crocerossine nei miei confronti; il problema compariva però quando dovevo dimostrare di essere un uomo. Ho sempre avuto qualche difficoltà di genere e la mia virilità si è espressa a stento. Ho avuto sempre dei rapporti da dominato, sottomesso, “ingabbiato”. Non riuscivo ad uscire da quelle che consideravo trappole amorose. Le subivo, assecondavo le mie compagne, con la speranza che tutto si sarebbe risolto senza sforzo. Un’utopia che danneggiava il rapporto, da me vissuto passivamente. A volte la mia partner era brava a farmi rendere conto dei miei sbagli, a volte si stufava del mio comportamento. Forse ci usavamo a vicenda, ma in realtà ci facevamo solo del male. Piangevo spessissimo, bastava un niente per far arrivare le lacrime. Del lavoro non ne volevo sapere granché, mi adattavo a lavoretti per tirare a campare. Mi consideravo, sbagliando, un artista incompreso. Ero io il primo a non comprendermi, a non accettarmi, a giudicarmi. Vivevo in uno stato di ansia perenne, di dipendenza affettiva. Tutto questo, a livello di analisi psicologica, aveva una sua patologia e connotazione. Ma il cervello non è tutto. Il cervello si incasina e prende, a volte, il sopravvento. Ci fa immaginare situazioni irreali, ingigantisce la realtà. Ci sono poi gli obblighi morali per cui la società ti vuole produttivo e competitivo, quando magari hai la necessità di fermarti a pensare. A volte vedevo i miei pensieri e cercavo di dar loro un ordine: perché sto pensando così, che associazione mentale ho fatto? Qual è l’origine? Ho agito bene o male? In base a quale giudizio decido se è bene o male, in base a quale gabbia, schema, procedura? Ci sono comportamenti che sono accettati, altri additati come non utili o distruttivi. Tuttavia se non faccio del male al prossimo che male c’è? Se voglio farmi del male la salute è la mia. E no, caro, perché intorno a te hai parenti e amici che tengono a te e soffrono. E se volessi farmi del bene?
40
Sono andato in libreria a ritirare un testo. Vicino la cassa c’era un libro enorme di interviste a William Burroughs dal costo proibitivo. Non lo leggo da tanti anni, i suoi libri mi tenevano compagnia nell’età adolescenziale, insieme a quelli di Kerouac. Rivedere i loro volti mi dà una sensazione di intimità e voglia di esprimermi. Quante volte ho immaginato di dialogare con loro. Di Jack Kerouac ho letto tutto tranne due libri. Ho pure i suoi chorus. Il suo è un viso interessante e meticcio, la sua vitalità ti invita ad andare avanti, sempre e comunque. È stato uno dei primi autori che mi ha spalancato le porte verso la scrittura di argomenti scomodi. Una volta scrissi una frase, all’inizio del mio primo romanzo: “non arriverai alla fine, imbecille”. Quella frase era rivolta a me, una sfida a proseguire la narrazione nonostante i blocchi. Il mio era uno stile nervoso e non organico. Anche nella rivista che redigo metto i miei editoriali in forma di gonzo journalism. Solo molto più tardi ho cominciato a dare una struttura ai miei racconti. A volte, però, trovo ancora difficoltà; è la mia vita e la mia scrittura rispecchia la mia vita. Lo ho anche scritto nel mio primo magazine; ancora una volta a Londra, ancora una volta più di venti anni fa. La rivista si chiamava “The rough copy”, fotocopiata e distribuita gratuitamente. La redazione si trovava in un ufficio del Council dedicato ai disoccupati. Lo scrissi in inglese e con dei neologismi. Ero molto ispirato in quel periodo e partecipai anche ad un concorso inglese di poesia, componendo a quattro mani. Mi sembrava di aver fatto la cosa giusta, gli anni accumulati alle superiori, e la convivenza con una tipa che si nutriva di arte e filosofia, mi tornarono utili: cominciai a dedicarmi alla scrittura. La mia voce interiore, quel flusso incessante di parole, discorsi e monologhi. Se “osservo” la mia mente vedo che produce energia, che rielabora gli stimoli, che reagisce, forse troppo, rispetto all’agire. Ma come può una mente agire? Sappiamo che non stacca 41
mai, non può spegnersi. Sono convinto che la morte psichica corrisponda con quella fisica. Ci si può avvicinare al nulla, a calmare i pensieri, ad ascoltarli e lasciarli andare, a instaurare il silenzio, tutto questo attraverso la meditazione. Si entra in uno stato dove nulla ci raggiunge, ci sentiamo parte dell’universo e del suo pulsare. Ci sono menti eccelse, ma le migliori, sono veramente quelle che hanno successo oppure sono quelle di chi ha fatto delle rinunce e vive in uno stato trascendentale continuo? Chi è capace di ascoltare il battito del mondo è avvantaggiato e può avere una migliore qualità di pensiero? Allora una volta ottenuta una migliore qualità di pensiero, ci si può dedicare alla materia al fine di soddisfare lo spirito e viceversa. Il punto intermedio, allora, qual è? Secondo me il punto intermedio è adesso. Non è possibile, per retaggio culturale, vivere nell’eterno presente. Ognuno è diverso eppure uguale, chi vive in una metropoli si sussume abbia una gamma maggiore di emozioni che si possono creare, manipolare e utilizzare. La memoria emotiva di un attore è la sua mappa interiore che corrisponde a immagini-simbolo. Quando non sono codificate, quando non sono standardizzate, quando si esegue un canone e poi con consapevolezza non lo si rispetta, quando si presta il corpo e la voce al grande spirito, quella è la vocazione. Si è a contatto con ogni cellula propria che sembra espandersi e toccare lo spazio. In quel momento è possibile trasgredire, perché si è agiti. Ci si sciamanizza. Si compie un rito magico, non duale. Il bene e il male appaiono più astratti, le dimensioni più di tre. A quel punto si può desiderare, per esempio, l’amore. Di baciare labbra, di toccare i fianchi, di esplodere. Credo che l’incontro con la mia attuale compagna non sia casuale, in quanto avvenuto in un preciso momento, netto e puntuale. Ci siamo rivisti a distanza di tanto tempo, lasciamo 42
in semplicità passare anni al prossimo appuntamento, come se una forza superiore a noi lo conceda. Non diamo per scontato nulla. Quando ci rivediamo siamo contenti e il solo stare insieme ci nutre. I saluti sono molto sentiti. Cerco sempre di conservare nella memoria l’ultimo attimo prima dell’addio, come se fosse una chiave da girare la prossima volta. Non voglio andare oltre questa immagine, per ora, è molto forte dentro di me. Come è forte il ricordo delle lettere, la corrispondenza che ho avuto con alcune persone e che conservo integra in una scatola. Quasi integra, perché una volta in preda al furore ho gettato via delle preziosità. Ogni tanto mi prendeva che dovevo buttare via qualcosa. Non so da che fosse dipeso, a pensarci bene è dalla voglia di nuovo.
Capitolo 2 Ho cominciato a pubblicare testi nel 2007, il primo si intitolava “Psik”, un libricino che raccontava con ironia il servizio, pubblico e privato, relativo alla salute mentale. La conseguenza è che, forse, non me ne sono mai liberato. Voglio dire, l’introspezione necessaria a scriverlo mi ha sempre accompagnato e, per quanto mi riguarda, è incompleta. Da qui la voglia di andare avanti e proseguire. Nel rapporto con gli editori ho sempre privilegiato il contatto diretto a discapito di quello che riguarda la visibilità e la grandezza dell’editore stesso; intendiamoci, ho avuto solo piccoli editori locali. Forse la mia comunicazione non è stata efficace. Ho spedito, quasi sempre, i miei lavori via mail agli indirizzi preposti nella pagina web della casa editrice selezionata, prediligendo quelle di media importanza, questo, forse, perché ho avuto una brutta esperienza all’inizio della mia carriera, quando contattai una delle major ed ebbi una scheda di valutazione 43
positiva. Tutto contento presi il treno per la grande città con il proposito di parlarci a quattr’occhi. In fondo avrei dovuto mettere una firma in calce. Ebbene, chiamai dalla stazione di arrivo e dissi che ero pronto. Il mio contatto in redazione fu a disagio. Ebbi un moto di stizza e riattaccai. Dopo qualche anno incontrai nella mia città, nell’ambito di una kermesse letteraria, un capo-editor; mi presentai e mi invitò a mezzanotte ad andarla a trovare nell’albergo dove alloggiava. Non era una brutta donna ma sinceramente declinai, era una situazione troppo informale e poi non sapevo come passare il tempo in attesa di quel galante appuntamento. Non ci andai e basta. Il mio romanzo, il primo, non vide mai la luce e ancora adesso è orfano di un editore. La storia che raccontavo era piena di energia giovanile, strizzando l’occhio al genere dark. Quando ho iniziato a scrivere non mi aspettavo successo, ma sognavo di incrociare persone squisite e di buona cultura. Avevo idealizzato questo mondo. Sarà che c’è troppa gente che scrive e troppo poca che legge, sarà che sono affezionato al romanticismo, che non sono al passo con questi tempi di logiche di mercato e ridimensionamenti, fatto sta che non ci sto e protesto pacificamente esprimendo il mio pensiero in queste poche righe. Sono scontento di come vanno le cose, della piega che hanno preso. Vedo intorno a me gente opportunista e incompetente che avanza senza amore per la letteratura, tutti presi da un iper-individualismo di fondo. Dove sono finiti i circoli letterari, quella generosità solidale tra gli addetti ai lavori? Ho partecipato a letture collettive in circuiti riconosciuti come il Salone del libro. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. In altre circostanze ho preferito non leggere. Me ne sono andato e basta. Mi sembrava pura ipocrisia, un auto-incensarsi fine a sé stesso. Poeti e poetesse che si arrampicavano sugli specchi per un posto al sole. Poi ci sono i “Poetry Slam”, delle competizioni tra autori. Quando era una novità ci ho provato anch’io, ma devi stare lì ed aspet44
tare il tuo turno, come dal dottore. Devi far ridere ma anche riflettere, mai annoiare, procurandoti attenzione con affermazioni importanti e altisonanti. Tutto questo non fa per me, preferisco tenermi le mani in tasca. Verranno tempi migliori, altrimenti mi preparerò in tempo, consegnando i miei scritti a qualcuno che li avrà a cuore. La mia parte l’ho fatta e continuerò a scrivere, non posso farne a meno. Sono nato in provincia ed è dura, non ci sono i giri giusti forse, la sera dopo il lavoro devi inventarti il divertimento, che non sia l’ubriacatura triste o il filmetto del dopo cena. Faccio un lavoro che, a causa dell’orario, non mi permette di andare al cinema o al teatro. Di andare ad ascoltare buona musica mi sono stancato, anche se c’è un festival estivo nella mia città che riscuote successo e pubblico. Per nove giorni è tutto un fermento musicale. Poi tutti al lago a prendere il gelato. Non esiste un auditorium. C’è solo un palazzetto dall’acustica imbarazzante in cui ho assistito alle esibizioni di gruppi che amavo, ma oggi l’offerta invernale non esiste più perché l’organizzatore è deceduto. Questo per dire che non c’è stato ricambio. Hanno dedicato a suo nome una fondazione. Preferisco, se proprio ho voglia di fare tardi, andare in una vineria che sta aperta fino al mattino. Mi capita di rado, come per esempio l’anno scorso al mio compleanno; avevo voglia di stare in mezzo alla gente, dopo una cena tristissima con i miei compagni di classe delle elementari, che non vedevo da milioni di anni. Ecco, quella cena risultò ad alcuni indigesta per via di un capello trovato sulla mia torta di compleanno. Io quel capello non l’ho mai visto. Alla radio passava una canzone della nostra adolescenza e io, felice e imbarazzato, d’istinto invitai una mia vecchia fidanzata a ballare, ma lei, davanti a tutti, declinò. Quando tornai a sedere mi avevano già fatto un video che avevano fatto girare sulla nostra chat di 45
gruppo. Feci una gran brutta figura. Finita la cena pagammo e ognuno rincasò, come fossimo tredicenni. Io scelsi la notte. La notte ha qualcosa in più. La gente è più calma e disponibile. Chi decide di uscire, nella mia città, è perché non può farne a meno. Esistono delle risacche, delle zone di socialità opportune e necessarie. Ambiti in cui il delirio è contemplato. A me non piace troppo chi non riesce a tenersi, chi si sfoga senza pensare a una conseguenza, chi alza le mani e la voce senza senso. Come non amo quella superiorità cialtrona, quel sentirsi chic. Ora mi trovo a pasteggiare un passito offerto da una barista che sembra molto interessata alla mia situazione di salute mentale, il posto si addice perché la metà dei lavoratori è afflitto da queste patologie, per cui ci si può fare confidenze, non ultimo la possibilità di lavorare nel posto. Sopra il bancone c’è una specchiata notevole che, mi immagino, un giorno possa essere distrutta. La ragazza mi passa a fianco e mi tocca il braccio, come a dire, stai tranquillo, io ci sono. In realtà, vorrei domandarle com’è andata l’ultimo dell’anno; era indaffarata a compilare la carta dei vini quando le ho venduto il mio ultimo libro e le ho lasciato, gratis, la mia rivista. Di colpo arriva il mattino che neanche me ne accorgo. Dove sono? È tutto buio e le persiane sono abbassate. Mistero. A fianco a me qualcuno dorme. Mi alzo già vestito e mi defilo, facendo le scale una alla volta. Devo aver perso i sensi e qualcuno si è occupato di me. Rientro a casa e mi concedo ancora qualche ora di sonno; mi aspetta una giornata al telefono piena di appuntamenti, ma credo che rimanderò tutto quanto. In realtà, la cosa più importante ora, è ritrova46
re lo stampato del mio ultimo libro per estrapolare dei pezzi da leggere all’imminente presentazione. Non c’è. Guardo tra gli scaffali con la sensazione di non ritrovarlo mai più. Dove sarà? Ne avevo due copie, una l’ho lasciata in visione ad un regista, l’altra dovrei in teoria averla. Mi sfugge qualcosa. La testa ancora frastornata non m’aiuta. Tossisco, prendo due caffè dalla moka, suona una sveglia che non ricordo per cosa sia, ho un senso di vuoto e smarrimento. Decido di chiamare la mia amorosa, la sua voce mi farà bene. Stavolta mi risponde e mi ascolta, ho parlato quasi sempre io, ne avevo un gran bisogno. L’ho aggiornata sulle mie ultime vicissitudini. È ben raro trovare chi ti ascolta e ti concede un po’ del suo tempo, chi sa ascoltare senza giudicare, lasciandoti raccontare fatti ed episodi. Le parlo di quando sono stato preso a sportellate in un ristorante in cui poi, passato qualche giorno, sono ritornato per lavoro; mi hanno accolto con premura e siamo finiti a parlare di una collaborazione letteraria. Questi tipi hanno preso in gestione il ristorante per finanziare la loro casa editrice; vorrei spedirgli un racconto magico dal titolo semplice. Mai avrei pensato che il mio lavoro di car driver avrebbe potuto riservarmi una così gradita sorpresa. Ci tornerò anche a mangiare, perché la cucina è buona e le porzioni generose. A parte questo, tra poco dovrò rivedere mia madre per portarla dall’omeopata. Con lei mi viene bene di ridere e scherzare perché sta al gioco, naturalmente finché non si stufa. Tutti si stufano di me quando sono “up” e ho voglia di comunicare. Sembra che il mondo non giri intorno a me e ai miei stati d’animo, peccato. Se avessi un’azienda da condurre sarebbe diverso; dovrei incitare ogni giorno, con costanza, i miei collaboratori, ma non sono un imprenditore, mi esercito nella conduzione della mia associazione culturale cercando di motivare le persone, di fare progetti utili, di tesserare nuova gente. A volte mi imbatto in persone squisite e speciali, capaci e attente, pronte a dare preziosi consigli per la gestione. Altre 47
volte, di rado ma non troppo, trovo singolarità problematiche che non riesco a comprendere, ma con cui resto disponibile per un incontro. Sta diventando un terno al lotto questa storia degli appuntamenti fissati e da fissare, visto che c’è chi non li ottempera, tanto che quando per qualche congiunzione astrale vanno in porto, non sembra vero. Gli devi stare dietro mesi, a volte anni. Ottenere trenta minuti del loro tempo, o cinque, a me ne bastano cinque ma intensi. Sono anni che mi esercito e ora, finalmente, riesco a essere più chiaro e coinciso. Prima annaspavo perché, forse, non avevo le idee chiare. Pensavo a una sorta di rivoluzione culturale dal basso, un risvegliare coscienze intellettive assopite. Mi ero ritagliato un ruolo pericolosamente messianico, una missione da compiere per il bene comune. A forza di porte chiuse ho dovuto ridimensionarmi. Dal 2001 a oggi ho visto fiorire quartieri e nuove forme di associazionismo, mai però nessuno, tranne il circolo Island, che ci avesse cercato e coinvolto in un percorso condiviso. Siamo sempre e solo stati noi a cercare strade culturali percorribili, a volte abbiamo agito d’istinto, per poi analizzare sforzi e risposte e aggiustare il tiro. Ma il mondo del volontariato richiede costanza e impegno. Devi dare molto per ricevere qualcosa. Devi dare, anzi, senza pretendere nulla in cambio. La riconoscenza è personale e interiore e si attiva nel momento in cui accadono cose, si vive un evento, si socializza; non c’è mai un fine di lucro. Ora, per esempio, un assessore ha promesso di aiutarci; vorrebbe presenziare, tra qualche mese, a un evento pubblico, il terzo, col quale si informa la cittadinanza dell’esistenza della mia autobiografia. Ho sempre avuto paura delle istituzioni e del loro potere. Ricordo che, quando stavo male, salutavo sempre il sindaco per farmelo amico in quanto era lui che doveva firmare il Tso: il trattamento sanitario obbligatorio era per me un’ossessione. Aspettavo gli infermieri venirmi a prendere da un momento all’altro; per questo non mi lavavo, era la mia rivincita. Il Tso 48
nei miei confronti non c’è mai stato. Nei momenti di massima disperazione scrivevo lettere a Gesù che mi aiutasse. Avevo paura del demonio e lo ritrovavo dappertutto. Mi soffocava la famiglia, la supponenza di mio fratello, il suo viso di disapprovazione, la sua insofferenza verso le mie manifestazioni di malattia mentale. Cominciarono lentamente, con delle nevrosi. Poi diventarono idee fisse. Mi sentivo piccolo di fronte al mondo, alla società con le sue leggi, la sua morale, il suo perbenismo e le sue falsità. Oggi ci convivo. Quando mi imbatto in discorsi qualunquisti e pressapochisti, quando sento frasi di intolleranza, quando mi accorgo di queste maschere di finta accettazione del diverso, questo sentirsi superiori a qualcun altro, riesco a mediare. Ieri sera, dopo il lavoro, sono andato a salutare un’amica che festeggiava il suo compleanno con un nutrito gruppetto di amici. Due di loro erano abbastanza cotti dall’alcool. Uno in particolare fomentava il caos, fischiando e urlando. Dava calci alle macchine, alle vetrine. Esprimeva la sua rabbia contro il sistema in generale. Per paradosso, mi sono sentito molto in imbarazzo; in altri tempi, specialmente quando ero del tutto disoccupato, avrei solidarizzato. Ma con il lavoro, questa disciplina giornaliera che mi sta regolando la vita e salvando dalle tentazioni di mandare tutto a rotoli, che mi invoglia ad essere produttivo e a costruire, qualcosa mi è risultato indigesto, in questo gruppo anarcoide. Ho salutato la festeggiata per rispetto e mi sono congedato, con mio sollievo. Lei mi ha ringraziato per aver partecipato anche solo una mezz’ora a quella folle serata. Se ne deduce che è importante e fondamentale avere uno scopo, un percorso, una visione. Il lavoro, per quanto duro, ripetitivo e impegnativo, mi permette di fare piccoli progetti per il futuro. Con un amico di vecchia data sogno di andare a vivere in Africa, di comprarci casa e avviare un’attività 49
commerciale. Lui qui non riesce a trovare un lavoro. Sarebbe una buona soluzione per entrambi; l’unico ostacolo, oltre quello di possedere un capitale iniziale da investire, ma a quello potremmo trovare una soluzione, sarebbe la mancanza fisica dalle nostre famiglie. Per ora penso a trovare un buon contratto di lavoro che potrebbe aiutare il mio stato di salute mentale, e integrare il mio misero assegno mensile di invalidità. Non sembra, ma la condizione di disagio psichico comporta una serie di importanti doveri materiali ed etici; da un lato, una volta riconosciuta l’incapacità psichica per un valore superiore al settantacinque per cento, viene concesso un assegno per una cifra non sufficiente all’autonomia; dall’altro se vengono raggiunte, nel corso dell’anno, entrate superiori a una certa soglia, te lo tolgono. È una condizione che, per alcuni, rappresenta una stasi. Ci si accontenta di quello che “ti passa il convento”, lo Stato, si accetta e non si fa nulla per cambiare le cose. Negli anni novanta, nella seconda metà, percepivo l’assegno di disoccupazione in Inghilterra. Avevo lavorato in regola per un periodo e poi mi licenziarono. Ero in una condizione diversa ma analoga. Potevo rimanere in quello stato inattivo in cui prendevo quaranta sterline a settimana e far finta di cercare lavoro, oppure andarmene. Come ho già scritto andai a vivere in uno squat, una casa occupata, non si pagavano affitto e bollette. A mangiare andavo in mensa dove avevo diritto a un pasto gratuito, per vestirmi c’erano i charity shop. Fu in uno di quei negozi che acquistai la mia macchina per scrivere, da lì cominciò tutto. Poi non ressi più lo stress di una vita ai margini e tornai. Furono momenti duri di riadattamento alla vita in famiglia e mia madre mi portò in un centro di salute mentale. Non ne sono più uscito, nonostante la mia intemperanza. Rifiutavo la terapia farmacologica, poi cedetti. Lo psik mi illustrò un cammino: cu50
rarmi, frequentare un centro diurno, andare da lui a colloquio ogni due settimane, organizzarmi per fare domanda per un alloggio comunale. Era la fine assoluta e totale dei miei sogni. Non che avessi chissà che prospettive o alternative, ma io una vita da parassita non la volevo. Che me ne facevo di una casa del Comune? Oltretutto non ne avevo diritto perché, vivendo a casa di mio padre, il suo reddito si cumulava col mio (inesistente) e superavo la maledetta soglia. Ero comunque in trappola. Dovevo solo accettare la mia condizione di malato e così lo psicodramma si consumava nel focolare domestico. Negli anni ho come ripetuto la matrice di dipendenza affettiva, culturale, economica. Non ho mai esplorato, tranne che con il teatro, la libertà della mia essenza. Quante volte mi sono sentito represso, oppresso, in disordine e non accettato; ero terrorizzato dall’idea di essere me stesso, di sviluppare le mie idee. Penso che dipenda dal momento storico, dalle circostanze esterne. Non bisogna dare tutta la colpa al mondo che ci circonda, mi ripeteva sempre mia madre. Secondo me, però, è controproducente dare la colpa solo a sé stessi. Dopo tanto tempo ho deciso di studiare da solo sceneggiatura. Non ho i soldi per pagarmi un corso e, comunque, nella mia città non ci sono scuole di cinema, così mi sono dotato di manuali e testi, vediamo come andrà. L’idea è di darmi una struttura di riferimento, una traccia da seguire per scrivere la storia da raccontare; voglio partire da una storia vera. Col tempo mi sono reso conto che, come autore, rendo di più se parto dal reale per poi trascenderlo e fantasticare, come i bambini. Non riesco ad abbracciare nessun genere, la mia scrittura parla di me, l’utopia è quella che possa risultare interessante anche agli altri. Mi chiedo spesso se una vita ordinaria come la mia sia degna di essere raccontata. Non è un ennesimo tentativo di autoanalisi e di cura attraverso questa forma di arteterapia che è l’autobiografismo? Il rischio è di nutrire l’ego, ritenere che ciò che abbia vissuto in prima per51
sona sia talmente impregnante da farci un film, un romanzo, una serie, un’epopea. Ma io chi sono per fare questo? Quali sono le mie eccellenze, i miei talenti? Tutto quello che posso trasmettere è solo passione. Deficito di tecnica, di metodo, non ho mai studiato all’università, ho un diploma di scuola superiore e qualche corso di formazione, frequentato contro voglia. Cosa aggiungere? I miei sogni mi aiutano a volare e liberarmi dalla pesantezza, dalla depressione e dalle durezze di un mondo troppo vasto che non ho visitato, che mai visiterò, se rimango alla finestra. Sono alcuni giorni che mi guardo i video che parlano della Costa d’Avorio, amo tanto questo paese e vorrei tornarci. Non sono in grado di programmare adeguatamente questo viaggio, mi manca qualche elemento e, forse, qualche rotella. Il fatto è che ci vogliono molti soldi per viverci un mese o tre settimane, compreso il viaggio. Ad oggi, con il mio lavoro serale, non riesco ad arrivare a mettere da parte i soldi necessari. Ci vuole un benedetto lavoro che mi dia uno stipendio mensile accettabile. Basterebbe prenotare il volo. Una volta lì affitterei un appartamento in un quartiere della capitale Abidjan. Per mangiare non sarebbe un problema, conosco in parte la loro cucina. La sera, poi, ci sono le discoteche, almeno un paio di volte potrei andarci; poi il mercato e lo shopping, insomma relax totale. Mi piace il popolo ivoriano. È triste constatare che l’unica persona che cucina per me sia un amico, un amico vero e sincero che comprende le difficoltà; in famiglia devo sempre cucinare io. Ci sono persone che non mi invitano mai a cena, non è colpa loro ma del sistema, ognuno per sé; ognuno nel suo piccolo mondo, nel suo piccolo spaventato orticello. Ci hanno allevati così. Quando cominciai a frequentare le scuole superiori vedevo i miei compagni come futuri rivali per un posto di lavoro. Facevo 52
ragioneria e contavano i numeri, i risultati, ma io eccellevo in italiano. Mi affascinavano le storie che ascoltavo, lo sturm und drang, Leopardi mi deprimeva fino alle lacrime. Abbracciavo l’idea romantica, provenzale e apollinea della donna come veicolo verso il divino; la sentivo come la metà giusta per ricongiungermi con Dio, per poter raggiungere il giusto cammino. Penso di essere nato per lasciare una traccia, se pur piccola, in questo mondo. Questa vita contiene energia e la vorrei condividere con gli altri. Forse è arrivato il momento di comunicare allo psik il fatto che sto scalando i farmaci in modo autonomo. O forse no. Ho paura che mi possa ricoverare. Io sto bene, ho perso anche qualche chilo e mi sento in grado di proseguire la mia scelta. Di fatto sono malato a livello fisico, mali invernali come se avessi la febbre, che mi impediscono di leggere i miei libri. Ci dormo insieme, li metto sotto le coperte, ne ho acquistati anche dei nuovi, su consiglio di un’amica. Ho molte amiche. Gente che lavora nel settore musicale, teatrale, con cui è facile scambiarsi informazioni. Tu gli dici che hai pubblicato e loro ne sono entusiaste. Semplice ed efficace. In passato ho realizzato un cd di moesia, ovvero musica e poesia. I testi erano miei e gli arrangiamenti di un musicista fraterno. È stato lui a spingermi di realizzare quel progetto; a distanza di anni mi sembra una cosa importante. Ricordo le estenuanti sessioni di registrazione in studio, con il microfono a leggere i miei componimenti finché non fossero quasi perfetti. Il silenzio dello studio di registrazione, le pause caffè, le sigarette e poi di nuovo a provare, con la voce leggermente roca per il fumo. Una volta, con uno dei miei amici, abbiamo suonato per strada, o meglio, lui suonava e io passavo col cappello. Per una settimana siamo stati stabili in una via pedonale della mia città, in contemporanea al festival di musica jazz. Non 53
era tanto il guadagno a spronarci, quanto l’esperienza sans souci. Era d’estate col caldo, prendevamo la corrente elettrica dai negozi, poi non è stato più possibile a causa dei permessi che non ci sono stati concessi. Sulla strada vedevi fermarsi con timidezza un piccolo pubblico, dovevi essere bravo a cominciare in sordina e poi, in crescendo, si creava l’energia giusta tutti insieme fino all’applauso liberatorio. Io passavo col cappellaccio rivolto verso il basso, ci davano monete e ci ringraziavano. Poi andavamo a rifocillarci, dovevamo smontare l’impianto e trasportarlo in macchina, una fatica, tanto che poi dovevi farti la doccia, ma ben ripagato dai sorrisi degli altri. Si lavorava di buon mattino fino a pranzo, poi basta. Nel pomeriggio infatti arrivava l’orda e l’attenzione si disperdeva, per cui era anti-producente. Avevamo il pomeriggio e la sera liberi di andare ad ascoltare i concerti, la notte c’erano le jam session. Il mio amico preferiva riposare, a me interessava andare in giro. Era la mia città e, anche se non potevo permettermi di spendere denari per i concerti a pagamento, vivevo quei nove giorni di festival come un toccasana per saldare amicizie e farne di nuove. La strada mi è sempre piaciuta, nei limiti. Ho sempre ammirato gli artisti di strada e i buskers, quella capacità di improvvisare dal nulla e coinvolgere le persone a seguirti. Devo dire però che, nei vari spettacoli che ho assistito, me ne sono sempre stato in disparte perché non volevo essere coinvolto nei loro scherzi e derisioni. Non mi piace essere ridicolizzato. Nel teatro che seguo in questi anni, nel teatro interculturale cui partecipo, si lavora su questo aspetto. Lo chiamiamo ‘essere nella merda’, ovvero essere al centro di una situazione, di una dinamica, di un pubblico, e fare flop. È un principio clownesco in cui tutti ridono di te. Da lì nasce qualcosa che somiglia alla poesia, da lì devi essere bravo a ridere anche tu con gli altri di te stesso e della situazione di perdente che ti sei creato, e magari nasce una soluzione inaspettata che parte dall’intimo, dal fanciullino che 54
è in te. I bambini infatti ci riescono a far ridere, o sorridere, perché passano da uno stato d’animo a un altro in un battibaleno. La loro innocenza è spiazzante. Quando una situazione è forzata però, quando l’attore recita e prende atteggiamenti e cliches, assume una maschera non sua. Il lavoro rimane quello di spogliarsi di tutto, fino a rimanere sé stesso nella sua bellezza e fragilità di essere umano. Allora anche il pubblico si immedesima con lui e si commuove, rinnovando lo scambio di emozioni e il rito. Trovo questo aspetto delicatissimo. Anche in un rapporto amoroso spesso ci troviamo in difficoltà perché prendiamo a pontificare, a voler avere sempre ragione, ad atteggiarci per ciò che non siamo. Quanto è bello invece essere autentici e veri. Riconoscere di sbagliare, sentirlo fino in fondo, parlare alla persona amata con sincerità e delicatezza. Ho letto che amare significa prendersi cura del compagno o della compagna. Questo è un inizio ma non è sufficiente. C’è qualcos’altro di più profondo e indescrivibile, qualcosa che ti fa vibrare e ti nutre. Ho vissuto i momenti migliori con la mia compagna quando non avevamo nulla da fare. Potevamo così condividere spazio e tempo solo per il piacere di farlo. Confidarci piccoli segreti, ascoltarci in tranquillità, farci compagnia. È una dimensione speciale, una grazia. Non devi preoccuparti di fare bella figura, di conquistarla. Ti devi solo rilassare. Penso che il relax ci salverà. Come ho accennato, in questi giorni, sono malato e posso fare molto poco. Non leggo, non vedo film, ascolto poca musica perché sono debilitato. Posso solo stare tranquillo, assumere rimedi omeopatici e aspettare. La sera di norma lavoro comunque. Ieri, nonostante non fossi in forma, ho fatto sette consegne. Mi ha accompagnato un caro amico e poi siamo andati a mangiare cucina turca. Sono andato a letto e mi sono svegliato molte volte, il mio corpo sussulta sempre. Devo alzarmi, andare in terrazza a fumare una sigaretta, tornare a letto e rilassarmi. Sembra una condanna, questa storia di ri55
lassarsi; in realtà è una disciplina e come tale va praticata nel quotidiano. Presi come siamo da ritmi sempre più incalzanti di questo pazzesco Occidente, annaspiamo nel concederci il meritato riposo, e poi ci ammaliamo. Io se mi ammalo non posso lavorare e se non lavoro non mi pagano. Col lavoro di car driver non hai nessuna assicurazione sanitaria, non hai garanzie. Se non fai il tuo turno perdi il guadagno. L’anno scorso ho avuto la febbre a 39 per una settimana. Vivevo a Val Tidone e non c’era mio padre con me a farmi da mangiare e tutto quanto. Non potevo andare al lavoro perché ero allettato. Sudavo tantissimo ed ero in uno stato di non pensiero. In quei momenti non puoi fare altro che accettare la situazione e trovare la forza di mangiare, consapevole che ti aiuterà. Quando son malato mi nutro di cose ghiotte. Le minestrine e altri cibi da ospedale mi deprimono. Io invece a tavola voglio divertirmi, zenzero e peperoncino. Back to work, manca poco alla fine. Un barista si è mangiato l’ultimo pezzo di torta farcita rimasta dell’aperitivo, allora dirotto per un dek. Sto in piazza in silenzio, la radio della macchina è spenta, poco movimento. A casa mi aspetta la cena calda, mangio sempre tardi. Tra due giorni presenterò la mia autobiografia in un circolo della mia città. È la terza presentazione e non riesco a uscire dalle mura cittadine. D’altronde non mi conosce nessuno, nonostante faccia promozione sui social. Non sono contrario ai social, li uso per le informazioni sulle mie attività e ho tanti amici virtuali. Sono più di dieci anni che uso Facebook. All’inizio mi trovavo impacciato a chattare, ora va meglio. Prima di Facebook usavo le chat private, con parsimonia. Avevamo un hacklab con alcuni conoscenti e sviluppavamo la filosofia open-source. Organizzavamo meeting nazionali e media days. Alcuni e alcune di noi erano a Genova, al G8, quello dove Carlo Giuliani ha 56
trovato la morte. C’è stato un momento dove avevamo dei sogni e ci univamo per realizzarli. Produzione di dossier, inchieste, report. Quotare era il verbo usato per commentare in chat. Organizzavamo street parade, resistevamo e ci davano adesioni. Poi c’è stato il ricambio generazionale. I risultati comunque sono buoni: ragazzi e ragazze che si impegnano a gestire il nostro circolo fondato su principi antirazzisti, antisessisti e antifascisti. Alcuni dicono pure anticapitalisti. Ma il capitalismo è una bestia potente e subdola, non puoi starne fuori, puoi solo conoscerlo con analisi teoriche, seminari di conoscenza e formazione sulla destra e l’estrema destra, per cercare di capire. Penso che questa onda di odio e intolleranza abbia vita corta e le cose cambieranno presto. La vita non è facile, la stroncatura economica della crisi ha piegato tante coscienze. Ci siamo fatti plasmare e abbindolare per tanto tempo, è ora di svegliarci, rimboccarci le maniche, aprire il cervello e riprenderci gli spazi comuni. Ho quasi sempre votato; sono andato alle urne con la mia scheda, non l’ho mai bruciata, anche se ho sempre avuto poca fiducia nelle istituzioni. Con la memoria ripercorro i passi della prima e della seconda Repubblica. A quante repubbliche siamo arrivati? C’è tempo per prepararsi alla lettura pubblica, mal di testa permettendo. Oggi è pure giorno di riposo, ci vorrebbe un film, un libro, una musica oppure il silenzio completo. Quando senti troppe voci è meglio staccare la spina e rimanere ad aspettare che passino. Non fare nulla, mi è stato suggerito più volte. Sembra facile. Sembra tempo perso, immerso come sono a cercare di migliorare questa vita di merda. Meglio chiudere le finestre che qualcuno potrebbe farsi male. Che ansia. Non passa. Momenti in cui non stai bene né da solo né con gli altri. Gli altri anzi sembrano una minaccia. 57
Poi dipende dai luoghi che frequenti. Se ti prendi il caffè con un amico nel bar più losco del quartiere la cosa non aiuta. Lì ogni sguardo incrociato è una miccia che può esplodere. C’è chi fa la posta tutto il giorno cercando di scroccare. C’è la sex worker in pausa che, sfrontata, ti chiede da accendere. Chi si dà appuntamento per faccende da risolvere da dire sottovoce. Il bar è pure abusivo coi tavolini fuori, ma non c’è controllo. Non riesco a capire che ci sia di conveniente a tenerlo aperto, vista la scarsità di clienti. Il bar ha cambiato tre gestioni. Quest’ultima è la peggiore. Una volta era rinomato per il gelato e d’estate organizzavano penose sfilate di miss. Poi ci fu una sparatoria rimasta impressa agli abitanti e il bar perse incassi e prestigio. Oggi è frequentato da malavita di bassissimo rango. D’altronde è il bar sotto casa e ogni tanto ci vado. La barista poi è lunatica. A volte non ti calcola, altre volte invece si mette a fare battute imbarazzanti. O forse sono io che mi sto imborghesendo, ma fatico a trovare un locale pubblico decente, dove possa sentirmi a mio agio. Anzi, la maggior parte delle volte mi sento gli occhi puntati, appena entro, dura qualche secondo e poi gli sguardi sono rivolti altrove. Sensazione abbastanza sgradevole. Ho da ripassare, studiare e leggere a voce alta il testo. È un assillo. Non ne ho voglia ma lo devo fare. Mi sento strano, febbrile, agitato. Di quella agitazione che porta alla stasi. Di quel dover fare, quel senso acuto del dovere che non ne puoi più. Controproducente. Mi devo fermare, fermare il respiro, chiudere gli occhi, anestetizzarmi, nebulizzarmi. Non ci riesco, non ci riuscirò mai, i pensieri sono tanti, lo stress di chi non ha niente di veramente importante da fare, che si deve inventare i passatempi, ingabbiato. Perché non mi cerco un lavoro vero? Di quelli che ti alzi la mattina, prendi la macchina e vai al luogo di lavoro e non ci pensi più, ti dai da fare a 58
essere produttivo, guadagni quattro soldi da spendere in viaggi intercontinentali, dove veramente puoi rigenerarti. Se fosse per me darei una festa a casa, con la musica e l’alcool, poi chi ha voglia di leggere agli altri lo fa, a condizione che sia qualcosa di nuovo. Voglio la novità e non il compitino correttamente eseguito, meglio l’eccezione e la stonatura voluta. Urlare il proprio disagio, l’inutilità sociale, la condizione di marginalità rispetto a questi finti miti di progresso. Tutta la società occidentale è malata, schizzata, andata. Non c’è niente di buono, non c’è speranza. Siamo scivolati verso il basso istinto, il nulla assoluto, la morte. Non me ne capacito, non ho pace. E come potrei? Sono incatenato nella mia condizione di invalido, non ho una lira, non sono sposato. Cosa ho da essere felice? Amici sinceri e una famiglia amorevole. Una compagna magnifica. Un futuro prossimo da costruire. La realtà ti sbatte in faccia la sua durezza. Devi saperti muovere in questa giungla di false opportunità. Io non capisco, non conosco quasi nulla del sistema se non quello sperimentato sulla mia pelle. Ho il terrore, quando non ci saranno più i genitori, ho il terrore nel gestire la parte materiale della mia vita perché c’è in giro gente senza scrupoli e io sono un credulone. Potrebbero tranquillamente prendersi gioco di me e mi ritroverei a terra. Sarebbe il fallimento dei sacrifici della mia famiglia, ma io penso che non abbia la testa per questo genere di cose. Non mi ci sono mai trovato e neanche voglio pensarci. Io faccio le cose col cuore e la passione, i calcoli li lascio a chi li vuole fare. Questo è quello che ho appreso, a modo mio, nel corso del tempo. Sono molto sconcertato da tutte queste incertezze, tutte queste debolezze di carattere e fragilità… mi sto buttando giù da solo, sto diventando claustrofobico. Dovrei scrivere e introdurre situazioni esterne, ma è più forte di me, non ce la faccio. Certo è che se mi guardo 59
sempre l’ombelico non ne esco. Sembra stia facendo un auto-referto medico della mia vita, un memoriale di mezza età, un’operazione sgarbata e sgambata. Vorrei spendere due parole per l’affetto e la curiosità dimostratami dal circoletto, perché non è cosa comune. La terza presentazione del mio ultimo libro è andata molto bene perché mi hanno fatto un sacco di domande e di ragionamenti, tanto che alla fine ero spossato ma soddisfatto. Poi la mia lettura ha ricevuto un’ovazione di applausi che non pensavo. È venuta fuori anche l’idea di iniziare degli incontri di letture ad alta voce, mentre un altro tipo mi ha chiesto di aiutarlo a scrivere la storia della sua vita. Un’amica, inoltre, mi ha preso due copie di cui una con l’autografo e dedica. Finita la presentazione siamo andati a cena al ristorante cinese più vicino. Io non ho mangiato nulla e mi sono preso un saké. Potevamo parlare di tutto senza pregiudizi e farci delle sane risate. Quando ci siamo congedati poi mi sono sentito un po’ solo e con il mio amico del cuore siamo andati a farci un goccio nel “bancone” più bello della città, quello dove aspiro, un giorno, di lavorare. Il lavoro di bartender è affascinante. Stare dietro il bancone è speciale, servire il cliente consigliandolo con un sorriso è un’arte, è come stare in un palcoscenico e il rapporto coi colleghi e le colleghe deve essere di mutuo aiuto. Tornato a casa mi sentivo su di giri, con il mio vestito elegante e la camicia barocca, non avevo voglia di andare a letto perché stavo bene. Poi ho ceduto e, messo il pigiama, sotto le coperte mi sono sentito perdutamente solo. C’è un’aria frizzante pregna di magia, in giro. Da dove viene? L’affetto e il rispetto delle persone care, la considerazione. È l’effetto della presentazione. Pare di volare. E allora voliamo, 60
amore, ovunque tu sia voliamo, e stiamo insieme. Lavori, sei impegnata? Non importa, ci rivedremo presto e ascolteremo la nostra musica e mangeremo insieme. La tua voce m’illumina e mi rinforza, mi fa sentire un uomo. A volte non so cosa dirti al telefono, mi faccio i problemi dove non ce ne sono. Se mi impallo capisci che sono stanco e mi dici di richiamare. C’è quel video a Natale dove suoniamo, cantiamo e balliamo con la pace nel cuore. Emani serenità e spiritualità. Poi di quando sei voluta andare al supermercato e ci sei rimasta ore, con calma, a scegliere i prodotti da riportare nel viaggio di ritorno. Avevamo pranzato insieme, io troppo veloce, infatti mi sono sentito male e hai guidato tu. Giorni intensi che segnano la memoria. Attimi irripetibili come nuvolette che compaiono in cielo e poi van via. Poi c’è l’amore per gli amici, infine quello per i familiari. Quando qualcuno mi chiama per un favore ho imparato ad aiutarlo, a differenza di prima che snobbavo chiunque. L’umiltà sta infatti nell’ascolto delle esigenze altrui. A volte sono piccoli gesti, come quello di condividere un po’ di tempo insieme. Secondo me, è rivoluzionario creare e vivere in un gruppo compatto. Per esempio, nella promozione della mia autobiografia cerco di coinvolgere le persone che conosco, chiedendo feedback. È un progetto che va rafforzato, con il tempo. Mi sono reso conto che tanti amici e amiche che frequento non sanno nulla della mia attività di scrittore. Non sanno che si può mixare musica e scrittura video-proiettata, composta al momento, la scrittura, e usarla in un evento che preveda un dj set o un live. Le possibilità sono tante e spesso le teniamo in tasca, per sopravvivenza. Ci accontentiamo del nostro piccolo mondo, abbiamo smesso di desiderare. Volevamo un altro mondo. Invece ha vinto quell’altro. La Brexit, per esempio, toglie energia all’Europa. C’è chi dice che è un bene, tanto l’Inghilterra ha sempre privilegiato 61
gli Stati Uniti. Io che ci ho abitato, a Londra, posso dire che è un tipo di società impostata sul business selvaggio, devi dare tanto per ricevere qualcosa. C’è grande competizione nel lavoro e nella società, questo mi ha dilaniato, è stato un duro colpo sapere che ci vorrà il passaporto per tornarci. Ho alcuni conti in sospeso da quelle parti, dal punto di vista creativo, anche se, ora come ora, non ci tornerei, ho altre ambizioni. L’individualismo spinto di quella città è disperante, una vera giungla. So anche che la realtà può mutare e posso aver sviluppato anticorpi artificiali e, magari, Londra è la nuova Eldorado. L’energia, la forza propulsiva, l’innovazione e l’ispirazione sono i suoi lati positivi. Ci sono pure quelli occulti, esoterici. Invisibili e sottili. Il tramonto segna il passaggio dal giorno alla notte. Di notte ci sono gli scambi di energia e i voli pindarici. A volte non si riesce a dormire, a volte sembra di sognare e basta. Allora lì sei nudo, libero e indefesso. Puoi pure manipolare la realtà secondo i tuoi desideri. Chi crea lo fa, captando un momento intenso ed espandendolo; tenta di rendere universale un messaggio personale, di distribuire una vibrazione. Ci sono dei codici cui orientarsi, metodi sistemici in cui migliori con la pratica e l’applicazione. Puoi abbracciare un canone, un movimento, cercare analogie e, poi, differenze. L’atto creativo contiene in sé un impulso. Per me viene molto dalla curiosità, ma per alimentare la curiosità occorre cercare; una buona cosa è mescolarsi con altre culture. Da giovane era naturale fare così, avevamo un gusto per l’esotismo e le nuove frontiere, questo mi è rimasto dentro. Una città che ho amato è stata Napoli. Siamo andati a giocare un torneo di pallone nazionale con la mia squadra, Fuorigioco. Mi sentivo bene in ogni momento della giornata, nonostante fossi partito costipato. Persino in farmacia ho ricevuto attenzione, affetto e rispetto. In centro mi muovevo sicuro e 62
felice e ho scovato una buona pizzeria dove abbiamo cenato con tutta la squadra. Era inverno e il giorno dopo sentimmo alla radio l’annuncio del nuovo primo ministro italiano, Gentiloni. Nessuno lo conosceva e questo faceva tabula rasa e, quindi, ben sperare. Andammo al mare a goderci il sole, qualcuno fece il bagno. Di sera eravamo ospitati in un ostello ricavato da non so quale impiccio, era molto calmo e conciliante per il cibo e il riposo. Il pane era buono, sufficientemente salato. A me dava una sensazione di cameratismo piacevole. La nostra comitiva era composta da utenti della salute mentale e operatori. Ogni anno, poi, d’estate, stiamo insieme. Gli operatori sono bravi ma è molto difficile comunicare con quelli che non siano i tuoi. È come se si formassero delle squadre anche negli alloggi, in piscina, al ristorante e in spiaggia. Ho provato molto spesso a fare amicizia, con tutti. Ogni anno per esempio incontro un tizio del Lazio che è un amante del pingpong e della lettura. Il suo punto fisso e di conflitto tra noi è il suo rapporto con Dio, lo vive con un po’ di ossessione, talvolta fino al delirio mistico. Si è aperto con me una volta, parlava molto, tanto che, a un certo punto, non riuscivo più a seguirlo, mi citava poeti e libri in quantità industriale. Gli ho regalato la mia rivista con la speranza che mi inviasse qualche scritto. Quest’anno non so se riuscirò ad andare in ferie. Fino a qualche anno fa non sarei stato neanche in grado di pronunciare la parola ferie, in quanto avevo idiosincrasia al lavoro. Era più forte di me, rifiutavo ogni forma subordinata e non riuscivo a ottemperare agli appuntamenti e agli orari. Vivevo in un perenne stato interiore di anarchia e mi sembravano tutti e tutte schiavi del sistema. Naturalmente non avevo mai una lira e questo aspetto ha pregiudicato i rapporti di coppia; mi sentivo un bohémien e un artista. Oggi ho fatto dei passi necessari per cui non mi sento più di dire che sono un artista; lo affermo in quanto accetto la mia condizione marginale anche rispetto alla cultura. La mia arte, se così si può definire, non è destina63
ta al mainstream, non è molto commerciale. È un mezzo per esprimermi e comunicare e, forse, tentare di comprendermi e di comprendere la realtà, questo concetto tanto relativo del mondo e di come funziona. Ho amato molto la confusione e la destrutturazione del discorso, della frase e della parola. Ne ho tratto un libro, pubblicato più di dieci anni fa, definito dal mio psik come “cemento armato”. Ero in pieno ermetismo e mescolavo la prosa alla poesia. Fui definito “Il James Joyce de noaltri” ma il testo non decollò. Ammisi la sconfitta, ne presi atto. Ricominciai a scrivere, attento a non farmi prendere dalla scrittura inconscia. Non avevo limiti e non seguivo regole, non avevo mentori che non fossero i miei amati autori, ma stavolta volevo farmi capire e riuscii a buttare giù trecento cartelle dedicate al mio ex maestro di teatro. Ci fu spazio per allargare il discorso e parlare dei familiari, compagne e viaggi. La parte finale della narrazione non ha potuto fare a meno del libero pensiero scritto, con associazioni di parole, ritmo e suono del tutto impreviste e inconsapevoli. Volevo infatti chiudere il testo in maniera personale, un compendio delle vicissitudini trattate che desse risalto all’irrisolto. Poi c’è l’afro-trap, che è un genere musicale che si può ascoltare online e vedere i video. È interessante come i musicisti africani di nuova generazione riescano a coniugare le tradizioni con l’innovazione; i ritmi sono africani, spesso cantano nella lingua di origine, sempre con un senso di narrazione che riprende il griot. Il punto sta nell’uso dell’auto-tune, di queste voci rielaborate al computer. In genere nei video vengono mostrati i cantanti nell’atto di cantare e le ballerine nell’atto di ballare. Gli abbigliamenti, il modo di vestirsi è moderno. I cantanti a volte si muovono all’americana, le ballerine a volte fanno twerking, a volte semplicemente muovono il bacino. Si vede, in tutto questo, pescare dalla danza tradizionale 64
africana. La cosa interessante, secondo me, è che l’uomo fa l’uomo e la donna fa la donna. I ruoli sono distinti e complementari, non c’è confusione di genere. Ora, il discorso che porta avanti il movimento queer in Italia è politico, di liberazione sessuale. In Africa non ce n’è bisogno. Fare all’amore è naturale come mangiare. Ci sono poi occasioni in cui il cibo si mescola: nella stessa padella entra l’Europa e l’Africa. Si mangia finché va, il resto si butta. Poi si pulisce tutto e si digerisce ascoltando musica. Spesso nei video di cui parlavo prima ci sono belle macchine e soldi, mostrati a ripetizione. Chi ha successo, chi pubblica canzoni e ottiene visualizzazioni non ne fa un mistero ed è anzi contento di dimostrarlo. Infine ci sono i balli di gruppo. Un grande gruppo che propone una coreografia in comune. Vedi uno spicchio di popolo felice che dà la dimostrazione della sua cultura: forza, unità e potenza. Non c’è spazio per individualismi e personalismi, tutti e tutte insieme per diffondere un messaggio. A volte le location mostrate indicano posti pieni di natura. Le persone in sintonia con la loro terra. Il significato è di libera espressione, senza giudizio. Ciascuno fa ciò che vuole. E quello che vuole è comune, l’appartenenza insieme, la coscienza è di gruppo. È simile a certo concetto, o concerto, teatrale. Con la mia compagnia di teatro stiamo lavorando su un tema specifico, che è quello della diffusione del virus dell’intolleranza. La molla che ci ha fatto scattare questo tema è l’uso e l’abuso che hanno fatto i media del fenomeno del coronavirus. Non tanto la sua demonizzazione, quanto la degenerazione di fenomeni di razzismo e intolleranza nei confronti del popolo cinese colpito e, più in generale, degli asiatici. Il fatto è che non è facile, non è stato facile, rappresentare la questione. Le nostre proposte sono state diverse e variegate. Con noi c’erano quattro componenti cinesi più un’altra ragazza orientale. Alla fine uno di loro ha letto un pensiero che ha composto e che invita il pianeta ad accogliere la malattia per 65
sentirci un po’ tutti più vicini e consapevoli. La vita è bella e luminosa. Sarebbe utile aprire le frontiere mentali così che la gente possa scambiarsi esperienze, informazioni, conoscenza e testimonianze. Invece si insinua il virus che divide. Ci stiamo chiedendo il motivo, ne siamo alla ricerca. Non abbiamo soluzioni. Ad oggi le persone che vivono nella città da cui è scoppiata l’epidemia sono isolate, si devono proteggere e schermare. Lo stile di vita è cambiato, lo Stato diffonde una comunicazione di allarme e d’assedio. Le regole per starci sono cambiate. La percezione è apocalittica, viene impedito di uscire di casa, di avere contatti, tutto è asfittico. Le palestre, le hall degli alberghi e i luoghi comuni sono un ospedale aperto per curarsi. I bambini non possono andare a scuola e giocare tra di loro. La dimensione è familiare e casalinga. Non è sempre facile, però, relazionarsi. Specie quando ti fanno le domande ed esprimono giudizi. Si esprimono giudizi per affermare il proprio pensiero, per criticare l’altro in modo da sentirsi al sicuro, superiori. In questo modo la propria idea e concezione la si preserva dalle contaminazioni, dal contagio. Il nostro piccolo mondo, l’insieme delle nostre credenze, è salvo, è preservato. Ognuno vuole avere più ragione dell’altro, il conflitto monta e la bagarre ha inizio. Non c’è confronto, non c’è scambio. Diventiamo isole deserte, inabitate e inabitabili. I confini e i muri diventano pesanti, tangibili e sempre più alti. Chissà quale bomba possa disintegrarli una volta per tutti. Ci vuole molta attenzione, suspense, attesa di un cambiamento. Ogni mossa, atteggiamento, sguardo e variazione d’impostazione viene esaminato, valutato, interiorizzato. L’equilibrio è precario, il rischio è di cadere o proseguire sulla fune sopra il baratro. Esami continui, lavoro di accettazione, scavo. Alla fine ci si trova dentro una miniera a cercare la via d’uscita ma manca l’aria e la luce, le forze ven66
gono meno e si soccombe, una volta per tutte. Poi si spegne lo schermo. Le squadre perdono spesso. Ti illudono quando vincono che sembra lo possano fare in eterno, non ci siano più ostacoli. Tutto è possibile, invece succede il contrario, tutto d’un colpo. Si va in ritiro, ci si allena, si ricomincia. Che noia, che barba. Tutto è troppo ragionato e consequenziale, come fosse una funzione matematica. L’orologio che non si interrompe, inesorabile, né prima né dopo la nascita e la morte. “Un bel niente basta far”, cantava un tale. Quando la tua mente è troppo affollata, è il momento di staccare. Che la vita diventi una vacanza. Pure il lavoro va preso con distanza e distacco. Vedersi come in un film e, piano piano, dal primissimo piano arrivare al campo lungo. Lasciare spazio alle immagini che parlino al posto tuo e, lentamente, scomparire fino al vuoto. Ecco, siamo fatti di vuoto, i nostri corpi sono un piccolo involucro e niente di più. Spesso la mente ha il sopravvento. Non lasciamo che sia il cuore a dirigerci, meno che mai l’ombelico, da dove genera tutta la nostra energia vitale. È una società edipizzata, problematica e mentale. Eppure siamo tutti collegati e il ciclo vitale non si esaurirà mai. Sono convinto che, nel futuro, la nostra società migliorerà e si risveglierà dal torpore e le brutture, si alimenterà con energie alternative e la scienza farà passi da gigante. Ho letto da poco, tuttavia, alcuni lavori sul futuro. Sono rimasto impressionato da quanto la cibernetica e l’intelligenza artificiale possano generare nuove figure professionali. È un campo che non conosco e mi spaventa. Mi spaventano le macchine che con la loro utilità possono fare lavori immensi al posto nostro, ma a che prezzo? La mia percezione è di paura, dovuta 67
al fatto che se ne parla molto poco e i laboratori di ricerca sono top secret. Si parla di robot con emozioni. Vengono in mente romanzi e lungometraggi su androidi e supercomputer che soppiantano e assoggettano l’uomo. Come se ci fosse un’anima fatta di algoritmi sempre più potente che, finora, è rimasta nell’ombra ma un giorno uscirà allo scoperto e ci governerà. La rivoluzione informatica è scoppiata nel secolo scorso e ci ha investito tutti, io alle superiori la studiavo, cercando di comprenderla. Sono cresciuto con i videogiochi a pagamento. Sono stati fatti dei progressi incredibili da allora. Ai miei tempi non era stato inventato internet. Ora si possono trovare informazioni con molta facilità, forse troppa. Internet è un’enciclopedia a volte fuorviante. Hai la sensazione di conoscere una materia nuova solo per il fatto che c’è internet, in realtà le info che trovi lì sono spesso superficiali; allora, mi chiedo, prima come si effettuavano le ricerche? Ci si consultava a voce con un esperto, un professore, si andava in biblioteca? Pare un’era remota, remotissima quella in cui compravi a rate l’enciclopedia di casa, i vocabolari, le collane di libri. Non voglio con questo fare il nostalgico, le mie sono riflessioni sul senso della nostra civiltà e capire da dove siamo partiti e dove siamo oggi. Posso solo testimoniare la mia piccola esperienza, sono sempre stato attratto dalla comunicazione, un’attrazione fatale. Ricordo l’emozione alla gola, il rossore di quando mi regalarono il primo computer; poi il cellulare, per ultimo lo smartphone; inizialmente, quando uscì, snobbai l’argomento, mi sembrava troppo radical. Poi lo comprò mio fratello, di seguito mio padre. Lo avevano quasi tutti, li vedevo spippettare sullo schermo coi pollicioni. Tutti a testa bassa con l’attenzione in quel piccolo schermo dal costo esagerato. In fondo però lo desideravo anch’io. Mi sono posto delle domande etiche sul suo utilizzo e possesso. Quanto è veramente utile e risolutivo, o è un bisogno indotto dalla pubblicità? Come spesso accade, la risposta è una via 68
di mezzo. Per chi usa i social network ti permette di essere costantemente connesso, postare foto e video e tutte le cose che sappiamo si possono fare, compresi i pagamenti in tempo reale. Il prezzo da pagare è la privacy, la tracciabilità. Gli altri sanno molte più cose di te perché ti rendi visibile e il gioco è questo, sfruttare questo ego al centro del mondo che ti illude e ti dà importanza personale. In una società iperliberista, individuale e consumista, la voglia di apparire ti viene offerta, impacchettata e venduta al telefono. Quando ricevetti il mio primo, e finora unico, smartphone dentro di me scattò qualcosa. Scoprii che lo avevo sempre desiderato. Fui da subito ipnotizzato dai colori, le luci, le possibilità. Consultavo al buio, prima di addormentarmi, questo mio oracolo elettronico. Mi cambiava la mente e la notte sognavo diversamente. Mi sentivo come diverso, appena disturbato. Era l’effetto del suo schermo accattivante che agiva nel mio subconscio. È durato un po’ di tempo, poi mi sono assuefatto. I sogni che faccio la notte, però, sono spesso caleidoscopici, come la home di Facebook. Non hanno né capo né coda e ci si trova un po’ di tutto e di niente. È un periodo di stanca. Non si muove nulla. Ci si aggrappa alle poche sicurezze rimaste. La ripresa economica è un miraggio, il carnevale quest’anno mi pare poca e triste cosa. O meglio, è un continuo carnevale, ognuno intento a indossare pesanti maschere sociali. Costretti a mettere e smettere panni non propri, a recitare una parte per una fiction. Non vedo progresso, non ne vedo. C’è un grande senso di solitudine in giro. Nella mia città non ci sono conferenze interessanti. La gente si lamenta che i negozi storici chiudono, si riempiono la bocca di lamentele per il gusto di farlo, quando, forse, non ci sono neanche mai andati. Persino la febbre non si manifesta quest’anno, pur indebolendo i più. Sembra come ci abbiano 69
messo in un gran calderone a bollire, a cuocerci a fuoco lento. Sono, queste, riflessioni che faccio, che mi vengono spontanee dettate, da ciò che vivo e sento tutti i giorni. La maggior parte dei discorsi che sento sono così insignificanti, pieni di ego, del darsi importanza personale. Facessero come pare a loro. Io vado avanti per la mia strada. Ogni tanto penso che ho una missione, ripeto, quella di lasciare una traccia che, un giorno, qualcuno raccoglierà e valorizzerà. Sì, perché spesso quando c’è tabula rasa, livello zero, nasce qualcosa di inaspettato. A teatro, per esempio, ad ogni incontro di laboratorio sembra di ricominciare daccapo come fosse la prima volta. Solo col confronto con l’altro comprendi meglio dove sei, la tua presenza e qualità scenica. È una cosa che senti a pelle, che senti dentro. Sei lì, gli sguardi altrui, tutti si aspettano un’emozione, tu devi captare il sentire comune e rielaborarlo, restituirlo. Sono di nuovo al mio lavoro serale e aspetto cibo da asporto. La gente è seduta a ordinare al tavolo, i camerieri schizzano da una parte l’altra. La musica proposta è italiana e cantautorale. Una radiolina manda la diretta di una partita ai vertici della classifica della serie A. Io ho svuotato un bicchiere di acqua fredda e poggio i gomiti al bancone di questa che è una delle trattorie storiche di una località turistica. Dentro queste volte in pietra ci lavorava un’amica di mia madre. Prendo una mappa cartacea, la sfoglio per far passare il tempo. Nonostante tutti questi stimoli esterni mi sembra di stare in un deserto di sentimenti. Coltivo solo rabbia. Rabbia per questo sistema sanitario che ti costringe a seguire cure e terapie fine pena mai. Ho messo la mia vita nelle mani del doc, ma è ora di riprendermela. Devo solo trovare la forza necessaria per cercare un lavoro migliore, dove per migliore intendo un 70
lavoro che mi impegni durante la giornata. Quali sono le mie competenze? È questo il punto. Il compito dello psik dovrebbe essere quello di aiutarmi a trovarle, perché mi deprimo da solo a pensare che non ne ho. Invece non è vero. Il mio punto di forza è l’impegno e la costanza. Tengo duro nei momenti di stress, in quei momenti dove sei un numero, anzi meno di un numero. Una pedina e molto piccola che può essere mangiata in qualsiasi momento. La novità è che posso cambiare lavoro. C’è la possibilità di fare le consegne con un’altra ditta, e di aumentare le ore di lavoro. Di conseguenza aumentano i soldi e l’impegno. Ho visitato il sito all’uopo e penso che farò proprio questa scelta. Il settore è lo stesso. Si tratta di dilatare le competenze. Si tratta di avanzare. Lasciare il vecchio per il nuovo, con tutte le paure e le ansie del caso. Ora, per esempio, mi stanno facendo aspettare; devo pagare del cibo da asporto; potrei guadagnare tempo pagando, ma il cassiere non mi calcola e devo stare qui fisso ad aspettare, intanto che preparano la roba. Nessuno che parla con me, che mi guarda. Se prendessi l’iniziativa e parlassi, mi rivolgessi a qualcuno, ma a chi? Eccoci, manca poco alla fine del turno. Domani farò il grande passo, oppure no. Meglio usare un metodo scientifico e studiare le opzioni per decidere a ragion veduta, piuttosto che a cose fatte, per esperienza; questo significa approcciarsi a un altro livello, più consapevole. Cercare di sognare meno e ragionare di più, usare il cervello per costruire qualcosa di concreto. È un campo nuovo, per me, qualcosa da esplorare. Il lato materiale del sacrificio volto al benessere. Cominciare a pensare all’avvenire coi piedi ben piantati a terra, di conseguenza pure la parte irrazionale può esprimersi liberamente e senza pregiudizi. Mi sembra una crescita. C’è poi l’aspetto sentimentale relativo a un mio amico cui ho fatto conoscere una ragazza. Voglio dire, anche qui regna 71
l’ignoto, perché lui si è innamorato di lei al primo incontro. Solo che è timido e non sa come ottenere il suo numero di telefono. Sa dove abita, lei abita nel mio quartiere e il mio amico ha incaricato me di aiutarlo. Il problema è non so in che modo possa farlo. L’unica cosa che mi ha chiesto è di fare un giro ogni tanto, se per caso dovessi incontrarla, gli ho detto di sì. Ci aiutiamo a vicenda cercando lavoro, perché l’unione fa la forza. Ci sono con noi altri due amici fraterni e ci andiamo a prendere un caffè in un bar, siccome siamo gentili ci trattano benino, anche se sono un po’ razzisti, secondo me. I miei amici sono arrabbiati per via della discriminazione che ricevono per strada solo perché hanno una pelle diversa dalla maggior parte della popolazione che vive qui. Sarebbe bastato un gesto o una battuta per scatenare l’inferno. Come nel film di Spike Lee, invece è andato tutto liscio, meglio così, ma per un attimo mi sono sentito in pericolo. Evviva il sole. Il clima è cambiato e sono tutti preoccupati. Le api sono già uscite a farsi un giro, i germogli hanno fatto capolino da un pezzo e le mimose sono in anticipo. La vitamina D fa il suo dovere, nutre e cura, allora si prende un caffè all’aria aperta. Mia nonna diceva che il sole d’inverno non fa bene ma io lo prendo ora perché d’estate non potrò farlo. Dovrò lavorare e prepararmi per lo spettacolo. Niente vacanze. Tutt’ al più me ne andrò a trovare l’amata. Stamattina la pensavo. Ultimamente non ci sentiamo molto al telefono; la chiamo ma ha sempre da fare. Oggi, invece, mi ha richiamato una cara persona che non sentivo da anni, era la mia musa e anche qualcosa di più, molto di più; è forse un decennio che non la sento, tanto che mi ero dimenticato della sua forte cadenza veneta, all’epoca la consideravo musicale. 72
Adesso per esempio potrei richiamarla, che ho il telefono in carica. Eppure mi sento intimidito e ho anche paura di rinnamorarmi di lei. Chi amo? Con chi voglio stare? Per ora sono da solo. Lei è lontana. Tutto è lontano e grigio. La mia vita non la conosco, non la conosco perché la vivo. Mi ci vuole uno psik per capirla, un esercito di psik per governare il mostro in me. Mi sento come un x-men che deve tenere a bada i superpoteri costituiti da ipersensibilità. Dice che è un dono e come tale richiede uno sforzo a conviverci, perché talvolta le voci si accavallano dentro ed è un casino seguirle. Ordini interni che ti dicono fai questo e fai quello. Da dove vengono? Solo a teatro posso seguire quelle voci, perché è un terreno di sperimentazione, neutro e libero. O così mi sembra. Una non zona con regole che, finalmente, puoi fare tu. C’è un senso di appagamento, di tenerezza e intimità. Io quando faccio teatro mi rilasso. Anzi, mi rilasso sempre e lascio che le cose accadano. È un eterno, buon film dove le immagini scorrono e raccontano la mia storia. A volte ne faccio parte, altre volte mi godo lo spettacolo. Quando la tensione è troppo alta, stacco tutto oppure la aumento, fino a consumarla, a dissolverla. Ecco, è questo che faccio, nulla di più, nulla di meno. È come organizzare un incontro e tu arrivi, la persona non c’è, hai preso le birre per berle insieme e che fai? Ne stappi una, accendi l’autoradio e aspetti. Cerchi di non arrabbiarti, tanto non risolvi la situazione. Gli incroci sono strani, si pensa al caso. Io penso, invece, che il caso non esista e le energie si muovano liquide, sono libere di muoversi, di respingersi e di attrarsi. Demonizzare l’attrazione, attribuirle un significato di tentazione è controproducente, non serve, sono solo proiezioni mentali, viaggi psiconautici. La realtà è ben altro, è fatta di quotidiano, di attenzioni, di condivisione del tempo e anche di tristezza. Sembra che sia un tabù parlarne. Ebbene, nel mondo c’è tanta tristezza, ci si batte come dei leoni e si arriva alla fine senza forze. Si ha bisogno di tranquillità, che i 73
pensieri facciano il loro corso e vengano ascoltati. Ho fatto chiarezza. Non ci è voluto molto. Amo la mia donna, punto e basta. Se lei ha bisogno di tempo e non vuole essere disturbata al telefono, non c’è problema. Dobbiamo andare oltre il telefono. In fondo, sentire la sua voce, la sento sempre. Lei è con me, io con lei. Ho mancato di rispetto a un amico, gli ho messo in testa delle cose solo per il gusto di farlo, cose che non portano a nulla di buono. Devo farmi un esamino di coscienza e basta. Questo mio esagerare con gli altri, distrarli, stressarli, perché? Perché mi annoio? Perché butto via la mia vita e voglio che gli altri facciano lo stesso? Perché voglio sperimentare le estremizzazioni? Perché sono un fottuto figlio di papà e tanto un tetto e da mangiare lo ho? È questo lo scopo? Infastidire le persone? Darmi importanza personale? Non sarebbe meglio giacere nel letto e cercare risposte nei libri? Risposte a cosa? Dare un senso al tutto, a tutto quanto? Ogni giorno che passa porta qualcosa, ma cosa? Sono molto attento, mi pare di esserlo, ai miei avvenimenti. E quelli degli altri? Quante volte forzo l’andamento del destino? Cosa è il destino? Attribuire a forze esterne l’andamento degli eventi? Troppe domande, nessuna risposta. C’è da affrontare una serata in cui qualcosa succederà. Sono le serate in cui non lavoro, le più impegnative, dove riempio il vuoto con la birra e il giorno dopo mi sento uno straccio, anche se qualche volta la birra della sera prima mi dà la carica per fare le cose al mattino e riduco tutto all’essenziale. Certo, vorrei aiutare i miei amici, ma quanto di questo è vero? Lo faccio per sentirmi bravo? A me chi aiuta? Sono un self-made 74
man o un cazzaro? Un po’ di auto-indulgenza, dai. Eccomi in una sala importante del Comune della mia città a aspettare i musici. La sala è riscaldata, fuori un freddo cane. Ho saltato la cena, lieve mal di testa. Da un lato non vorrei esserci, vorrei andare a casa e stare con il mio mondo, con le mie sicurezze. Dall’altro sono curioso di ascoltare una combo europea africana. La sala è piuttosto vuota e la gente parla. Ho un senso di depressione, di beat, che non è beatitudine, piuttosto abbattimento. Cosa sto a fare qui? È la mia città eppure mi è estranea. Tento di essere dentro un evento culturale, ma la mia testa è altrove. Ecco, una ragazza che conosco. Una tipa cui ci piacevamo. Ci conosciamo fin da piccoli, siamo nati nello stesso quartiere. Da grandi, dopo una breve frequentazione, ci siamo visti e ho ricevuto sedute cranio-sacrali da lei. Solo che spesso mi addormentavo e allora non ci sono più andato. Ho paura di voltarmi verso di lei e accennare a un saluto. Sarebbe solo imbarazzante. In realtà vorrei scomparire, ho accettato di venire all’evento segnalato dal mio regista, ma lui non c’è. Pensavo che avrei incontrato qualcuno della nostra compagnia teatrale. Mi giro intorno e non trovo nessuno. Faccio un sospiro con l’unico intento di prendere tempo. Tra un po’ mi alzo, saluto la tipa, vado all’uscita e mi accendo una sigaretta, valutando l’idea di andare in una sala da bagno del centro città. La cosa si è risolta bene. Ho fatto due chiacchiere, ho visitato la toilette comunale, e ora la sala è gremita. Avverto un po’ di fame e tra cinque minuti comincia il concerto. Sembra di stare chissà dove, a chissà quale avvenimento. Non sono dell’umore giusto, forse perché ho la pancia vuota. Ecco, le luci si spengono e tutto dovrebbe cominciare, iniziare. Invece no, ancora non è ora. 75
Pazzesco, una serata pazzesca. Non avevo voglia di rimanere in giro coi compagni di teatro. Una di loro mi ha cantato una canzone guardandomi negli occhi ed era la cosa giusta da fare in quel momento. Poi si è rullata una sigaretta e mi ha chiesto l’accendino, mantenendolo. Ho fatto degli sforzi per rimanere ma avevo freddo, gliel’ho ripreso. Mi sono diretto verso il mio bolide e sono ripartito. Il calduccio del letto ha fatto il resto ma i sogni sono stati impietosi. Meglio lasciar perdere e godersi un buon caffè. La sera, quando non lavoro, dicevo, è un disastro. Mi sembra sempre di aver perso un’occasione di guadagno. Se non avessi questo straccio di lavoro sarei sul lastrico. Ho provato altre soluzioni ma le mie richieste non sono state accettate. La provincia dove vivo per alcuni sembra un eldorado, mi riferisco agli universitari che arrivano da lontano, che possono trovare divertimenti e distrazioni a iosa. A me intristisce la vita notturna della mia città. Il quartiere degli artisti lo trovo mieloso, scontato, sempre le stesse facce. Forse sono solo invidioso di chi ha trovato la propria strada e ci crede. Chi si accontenta di piccole, grandi cose. Da sempre mi pare che gli altri, tutti quanti, riescano a organizzarsi, a trovare uno scopo per andare avanti e non tirare le cuoia. Ma la realtà ti sbatte in faccia la sua durezza. Siamo soli, tutti quanti. Disperatamente. L’umanità non ha scampo. Ci si convince di un’idea solo per non soccombere. Il sistema vince, vince sempre. È tutto così assurdo e noi siamo piccoli. I bambini, angeli del futuro e del presente, ti guardano e salutano, accennando un sorriso. Che ne sanno loro delle furbizie dei grandi, dei loro inganni; per loro il mondo è una continua scoperta. Ti tengono la mano fiduciosi e protetti. Liberty, il bambino che non ho mai potuto avere, a cui sono molto legato, quando mi vede gli si illuminano gli occhi, vuole che lo prenda in braccio e rimane guancia a guancia con me, in silenzio. Ha imparato a dire Ciao, la sua vocina si fa grossa quando piange, piange perché si arrabbia se non ottiene qual76
cosa o, forse, piange per la sua condizione di infante, vorrebbe essere più grande ma non sa come fare, è impaziente. La vita in comunità è deprimente. La comunità che frequento è pubblica e diurna. Gli utenti provengono dal servizio di salute mentale del territorio, alcuni sono lì da più di dieci anni, io da tre, anzi da più. Tempo fa, forse due anni ormai, abbiamo cambiato direttore. Come ci sono finito, io? Ebbene, ho avuto una manifestazione psicotica per cui non uscivo più di casa, è durato un mese e mezzo nel periodo estivo, mio padre era disperato. Mi è stato imposto questo centro diurno con la forza. Potevo scegliere: o questo Centro o il repartino psichiatrico dell’ospedale, ossia la prigione dell’anima. Malvolentieri ho scelto. I primi tempi di adattamento erano duri. L’unica nota positiva è che si poteva fumare sul cortile. Mi colpivano gli sguardi degli altri utenti e le molteplici domande degli operatori. Le facevano per farmi aprire, per conoscermi ma rispondevo molto evasivo. Poi una volta, nel pulmino che ci trasportava, un operatore alla guida, nel tardo pomeriggio, toccò un tasto emotivo. Ero seduto sul sedile davanti e parlammo di cibo. Mi venne spontaneo parlare di cibo africano. Sentii un moto al cuore, un moto caldo e avvolgente e i miei occhi si inumidirono. Presi atto della mia condizione di fragilità, di instabilità. Da lì cominciai ad accettare questo mio sradicamento da casa per frequentare il Centro. Cominciai a migliorare e a saper gestire i rapporti; se prima vedevo con ostilità gli operatori, ora cominciavo a fidarmi. Ho avuto alti e bassi, sbalzi di umore con picchi di euforia; anche l’abbigliamento era mutevole. I primi tempi vestivo sempre e solo con la tuta, poi mi sono curato maggiormente, sembravo un figurino elegante. La mia opinione è che ho fatto un grande percorso. Ad oggi non so quanto durerà, quando finirà, certo, dipende da me. Arriverà il giorno in cui mi sentirò pronto per 77
chiedere al dottore di licenziarmi del tutto. C’è chi dice che dalla salute mentale non se ne esce mai del tutto, è vero, crea dipendenza. Ti senti accettato lì dove il mondo non ti accetta. Ma il marchio ti rimane tutta la vita. Lo strascico del matto ti attraversa per sempre. Il pericolo di una ricaduta è lì. E il potere decisionale non è in mano tua, ma del responsabile, dello psik. Questa sua onnipotenza, questo potere taumaturgico che gli attribuiamo, questo sciamano e curandero che ti fornisce la terapia su misura, il capo assoluto e totale, questa istituzione simile a Dio, capace di distruggerti per una seduta andata male e poi consolarti con quella dopo. Mi sento guarito, sto scalando con sapienza gli psicofarmaci, non gioco più a pallone di mercoledì con la mia squadra di mattarelli semplicemente perché non mi va, è finito quel tempo. Voglio solo lavorare e guadagnare onestamente i miei soldi, cercare di metterli da parte, nulla più. Quello che mi dà gioia è viaggiare. Vorrei tornare in Africa, lo desidero da sempre. Ma anche visitare l’Oriente. Ovvio che si sia occidentalizzato, rispetto al passato. Non è certo la Cina dei film di Bruce Lee. Però anche questo fatto di viaggiare in me è cambiato. Prima viaggiavo per il gusto di farlo, da turista diciamo, oggi non mi basta. Ho bisogno di storie, di creare legami umani che non si limitino a ristoratori e albergatori. Vorrei conoscere le famiglie dei miei amici venuti da un altro continente. Essere accolto nei loro villaggi, nelle loro comunità, sentirmi parte di un sentire comune. Sarei disposto a lasciare tutto, tutto quanto e ricominciare una vita a contatto con la natura, con la semplicità e la tranquillità. Per fare questo devo andare molto lontano. E invece non potrei farlo andando ad abitare in un paesino di campagna dalle mie parti? Cosa è questo mito dell’esterofilia, dell’esotismo? Cosa è questa attrazione, per esempio, per le donne dalla pelle scura? Per quegli sguardi profondi, per quegli ombelichi sublimi, 78
amore, quanto mi manchi, dove sei finita, senza di te è un casino, cosa posso fare per rivederti ancora, non ne posso più. Mi aspetta il consueto scatolone di libri, sono le copie da vendere, il libro da presentare, la mia missione. Se il teatro è relazione, la scrittura è solitudine e intimità. La pagina bianca accoglie queste lettere una ad una e le conserva; dai un messaggio che un giorno qualcuno o qualcuna raccoglierà. Solo le letture pubbliche danno un ascolto collettivo. Un libro lo si legge da soli. Lo si può leggere in biblioteca o in un tavolino del bar. Si può scrivere in camera o per strada su una panchina. In aereo mi viene bene. In una situazione live pure. Personalmente scrivo da sempre e quello che non farò mai vedere sono i miei diari giovanili perché me ne vergogno. Il mio pensiero era molto malinconico. Ricordo una lettera di augurio scritta a mio fratello che non avevo neanche diciotto anni e gli dichiaravo che la mia vita era fottuta. Si mise a piangere. Pure io piangevo spesso e tanto. Quando ero in relazione amorosa piangevo perché mi rendevo conto di non poter offrire una vita da uomo alla compagna. Semplicemente non ne ero capace. Non davo sicurezza, protezione e stabilità e non avevo mai una lira. Tiravo a campare, di giorno in giorno, e loro si stufavano. Non volevo costruire un legame solido, era tutto molto platonico. Forse volevo riprodurre qualcosa che compensasse la separazione dei miei genitori. Quando mia madre se ne andò non fu facile. Mi mancava l’aria. Mi mancava la sua presenza in casa, in camera, in cucina, quel suo tornare a casa trafelata e indaffarata sempre con qualcosa tra le mani. Si era rotto l’incantesimo della famiglia perfetta, della famiglia modello, che appariva nella pubblicità in tv, dove tutti i componenti erano felici e sognanti. Da piccolo leggevo le storie dei “Barbapapà” e mi davano forza. Tutti per uno e uno per tutti. Da piccolo andavo all’asilo dalle suore, come 79
la maggior parte dei bambini del mio quartiere, uno dei primi vicino alla stazione, costruito negli anni settanta. Ci andavo accompagnato dalla mamma al volante. Quando mi lasciava all’asilo mi sentivo abbandonato, il deserto dentro. La mensa e le carote che facevano bene alla vista, le recite sul palco, la prima bambina che mi piaceva e un anellino che le ritrovai, il cortile con Biancaneve e i sette nani. Papà che non c’era mai perché lavorava tanto e faceva gli straordinari e ci riportava i modellini delle macchinine. Le custodivamo sul mettitutto in camera e le spolveravamo con pazienza perché le consideravamo cose molto preziose. La mia infanzia non me la ricordo tanto bene, ho sempre avuto problemi di memoria. Però ricordo con piacere che mamma aiutava coi compiti, ascoltava le confidenze, consigliava. Quel mio poi girovagare in cerca di compagne era, secondo il mio strizzacervelli, un compensare l’affetto materno che si interruppe. Interpretazioni a parte, ero semplicemente in cerca dell’amore. Avevo capito che è il combustibile necessario e imprescindibile. Ad oggi, penso che l’amore non basti. Rimane la scintilla iniziale per far partire il motore, ma poi va alimentato e, soprattutto, va scelta la strada giusta, che sia lunga e duratura. Occorrono delle basi solide. Il progetto è per tutta la vita e, per me, va fatto con la persona giusta, che è una e unica e nelle mie e sue corde. Pensare di invecchiare insieme, di costituire una famiglia, vivere in un posto e in una casa e avere delle entrate. La pensione è una chimera che cambia ad ogni governo, nel mio Stato c’è quella sociale al raggiungimento del sessantacinquesimo anno. La corruzione nelle stanze del potere è cosa risaputa. La gente ricca, da sempre, fa i propri interessi. Si sentono privilegiati, superiori, un’élite illuminata. Più intelligenti, più furbi. Mangiano una montagnetta di biscotti e dicono all’operaio, che nel suo piatto ne ha uno di biscotto, che il migrante glie 80
lo ruberà. Divisivi e invasivi, cercano portaborse e lacchè. I paradisi fiscali in terra, quelli divini in cielo e all’inferno tutto il resto. Chi osa opporsi è perduto. L’opinione pubblica la fabbricano coi media, rilasciando dichiarazioni provocatorie, facendosi pubblicità sulla pelle degli altri. Ma penso che i veri manipolatori, i fili con cui muovono le marionette siano sottili. Creano guerre e devastazioni per fare affari. Lucrano sulle disgrazie altrui, sui virus, sui rifiuti. Su tutto. Il profitto prima di tutto. È il capitalismo, il neoliberismo, il mercato selvaggio. Tutto è merce, specie quella umana. La forza lavoro ridotta a una sigla, la sigla del nuovo schiavo. Lo schiavo deve essere efficiente e veloce, meglio se un po’ intelligente ma non troppo. Non deve capire ma eseguire. Se esegue sarà ricompensato. Mi viene in mente il libro di Herman Hesse, “Siddhartha”: il ciclo di vita dell’uomo che passa per vari stadi intermedi, tutti utili, interessanti ma non indispensabili. Bisogna saper scegliere, ma qualche volta non hai questa possibilità, vieni scelto e basta. Penso che la questione classista sia più che mai attuale, va studiata di più, analizzata e approfondita, al fine di comprendere diritti e doveri e dotarsi della personale scala di valori a ragion veduta. La realtà ci sfugge, la percezione del tempo è cambiata, la frenesia ci porta alla confusione. Il consumismo è presente anche nei rapporti sociali. C’è il fast food dei sentimenti e delle idee. Soluzioni veloci, pratiche, all’istante. Ma il ritmo della vita è un ritmo costante, il cuore batte un tanto al minuto. Per questo amo l’Africa e il suo lento ritmo. Ci sono stato due volte e la natura parla; è una cultura molto antica e profonda, non è spiegabile a parole perché sono vibrazioni. A me il solo vedere, per esempio, un africano suonare il djembé con le mani mi provoca un effetto estatico e mi sembra di tornare bambino e assistere al privilegio di un evento. Nei villaggi usavano comunicare coi tamburi. È una cosa emozionante. Gli indiani d’America lo facevano coi segnali di 81
fumo. Io quando vado in campeggio con la mia tenda mi sento bene, dormo per terra col mio sacco a pelo e al mattino mi sembra di essere più riposato che a casa. Solo che son pigro al pensiero di campeggiare, poi quando succede son contento. Tutto questo per dire che non sono un fanatico della natura, sono nato in città e le sue comodità e contorsioni, però l’aria buona, l’aria non inquinata la so riconoscere e apprezzare. I tramonti non mi fanno più effetto come una volta. Preferisco forse l’alba perché è l’inizio. Il tramonto mi mette anzi malinconia e non mi sento di ringraziare la giornata che volge al termine, piuttosto quella che comincia. A Londra mi soffermavo sul tramonto aspettando con ansia la sera e poi la notte, che aveva un sapore di magia. Ero convinto che nella notte si potessero scambiare maggiori energie perché non c’era la frenesia diurna del risultato a tutti i costi. A Londra, mentre dormivo, ho sentito diverse volte il mio corpo levitare. Quello fisico rimaneva disteso, ma qualcosa scivolava dalla pancia e librava nell’aria, uscendo dalla finestra. Ho visitato i tetti e ho volato. Poi rientravo sempre nel corpo fisico ed ero appagato. Succedeva da solo, senza che lo programmassi. Le prime esperienze in tal senso non riuscivo a collocarle. Poi sì. Qualche volta non vedevo l’ora che si manifestassero. Ad oggi, sogno sempre di volare e gestisco questi voli sempre con un po’ di vergogna e pudore. È un superpotere onirico appena velato. Sono giorni difficili e complicati, in cui non trovo motivo per sorridere e alleggerirmi. Giorni in cui rimugino e ripenso ai miei sbagli, al fatto che alcune persone si sono stufate di me per qualche motivo. Ho un po’ di pena dentro, mi prende allo stomaco. Vado avanti per inerzia e il pomeriggio non riesco a dormire. Vorrei dormire un po’ in modo da far passare tutto il brutto male che sento. 82
Perché è così complicato vivere? Non so, non provo soddisfazione, non faccio l’amore da troppo tempo. Bisogna saper porsi domande e accettare certi responsi: la persona che amo prende le distanze da me, proprio quando vorrei che fossimo più vicini, più complici, più alleati. L’amico che frequento giornalmente ha sempre da fare. Di leggere libri al momento non ne ho voglia. Passo il tempo a leggermi notizie allarmistiche sul web. Cosa significa questa parola, web? Non che sia così importante, nulla è importante, ora, niente è vitale. Ci vorrebbe una distrazione che faccia tornare il buonumore. Alleggerirmi. Arriverà. Sono in un vortice al ribasso, un consapevole silenzio. Sono pronto per l’ennesima seduta psicanalitica ma bisogna aspettare. Bisogna sempre aspettare, questo è l’esercizio. Stare con le antenne dritte in attesa di un piccolo cambiamento. Perché le cose devono cambiare. Non si può rimanere immobili in attesa della bacchetta magica. Eccola, la magia. Ritrovarsi di colpo da soli, in casa, senza nessun altro che si agiti e faccia rumore. Avere a disposizione il proprio spazio-tempo. Ieri mentre lavoravo ho visto una grande processione uscire da una basilica e cantare con quel tono di voce quasi mostruoso, inquietante. Sembravano una setta, con le loro torce, che andavano a bruciare e inquisire qualcuno. In nome di cosa, di quale Dio? C’è un Dio per tutti o ognuno ha il suo, personale? Non so, un’amica poco fa mi parlava di bad karma, scontare la colpa per qualche azione del passato. Mi chiedo, allora, come si possa ripulire il passato. Mi chiedo anche se i momenti down, di riflessione, non siano necessari per ripartire con più decisione e consapevolezza. Tutto è a rotoli. Le lezioni di teatro sono svogliate, senza energia, quasi un obbligo. Dove è finito il piacere? Certo, bisogna accettare le zone d’ombra, la palestra dei momenti bui, c’è bisogno di raccoglimento e cercare risposte dentro di sé, invece che conferme esterne. Bisogna essere roccia inscalfibile. Come? Una soluzione potrebbe essere quella di 83
attingere dalla propria biblioteca personale, essere attenti lettori e captare i messaggi tra le righe, i suggerimenti, i dubbi dell’autore che sono pure i nostri. Certi libri ti mettono in discussione ed esorcizzano il malessere perché ne parlano, non lo nascondono dietro parabole samaritane, ma lo affrontano e lo mettono a nudo. Il coraggio di ammettere la propria sconfitta, la propria piccolezza, tic e manie, questo diavolo di mondo che va all’incontrario, dove tutti cercano di fare sfoggio del loro adattarsi, del loro mostrare una vita perfetta, di questo palestrarsi i muscoli, eterne competizioni di bravura, pavoni di un abisso dell’anima. Ho deciso che ridurrò le chiamate, le telefonate, all’essenziale. Questo fatto dell’abbonamento per cui hai minuti illimitati mi ha portato a un uso smodato dell’oggetto, a un’ansia di comunicazione, in fondo, per dire nulla. Quanto mi piacciono, invece, quelle telefonate in cui ci si coordina, ci si dà un appuntamento e si fanno quattro risate leggere. Non ho capito, infatti, perché bisogna sempre spezzare il capello in quattro e stressarci con conversazioni volte a scoprire chissà quale segreto e stabilire chissà quale strategia. Strategia di che, per fare cosa? Per risolvere quale problema? Ma lasciateci in pace, abbiamo i nostri libri da leggere, i nostri film da vedere e il nostro cibo da mangiare. Dal terrore delle mie paranoie ancora una volta è venuta in mio aiuto l’Africa. Il mio grande amico con la sua amica, con un alcoolico medicinale per lo stomaco. Sì, perché a me, appena ho qualcosa che non va, prende allo stomaco. E allora mangio carne e pesce e poi vado in giro con la macchina in cerca di nuove avventure, con il volume dell’autoradio ad anticipare tutti i pensieri, tutti quanti. Ci vogliono separati e isolati? E noi no, insieme a condividere gioie e dolori. Sì, perché ognuno porta la sua pena e c’è chi porta una piuma. 84
Troverò il verso per sposarmi e per offrire all’amata ciò di cui abbiamo bisogno. Ma intanto lei non c’è. Per non pensare affogo tutto nell’alcool. Mi è stato consigliato un whiskey scozzese torbato, una marca precisa ma penso che ce ne siano di diversi tipi. Ne ho provato uno, l’unica bottiglia che avevano, a un malto. Il sapore è lungo e arriva fino alle narici. Ricorda vagamente il mare. Ma non è questo che voglio dire. Il punto è che per quanto mi sforzi di pensare positivo, di pensare in modo costruttivo, c’è sempre un fondo di immondizia, di fato più grande, di disegni superiori che l’entità costruisce e domina incatenandoti. Occorre uno sforzo sovrumano per spezzare questa pesante catena di accadimenti e venirne a capo per qualche momento. Sì, hai come la sensazione, a sprazzi, di sentirti libero, seguita da un down. Bisogna accettare la condizione? Cosa possiamo fare? Mandare tutto in malora o subire la tortura, magari urlando tutta la propria contrarietà? Sfogarsi fa bene? C’è voluta una festa di compleanno africana. Ho preso anche accordi con un amico che mi farà da trainer, un mese, tutti i giorni, per fare esercizi per tornare alla forma fisica ideale. Sì, perché da quando sono in terapia sono aumentato di peso; sono diventato ingordo e ho preso tanti chili quasi non mi riconosco più. È il momento giusto per mettermi in forma. Ho problemi d’amore con la persona che amo, quindi posso sfogare la frustrazione muovendo il corpo. Anni fa ne ero così orgoglioso, riuscivo a fare camminate enormi, riuscivo a usare il fisico come volevo e più lo usavo più mi sentivo bene. Sentivo proprio benessere in me e intorno a me. Poi è venuta la crisi, il fondo del barile. È ora di rialzarsi. Sarà dura, perché l’esercizio sarà giornaliero e troverò tutte le scuse per non farlo e tutti i trucchi mentali per rimanere nella merda dove 85
sto. Ma il dolore che sento dentro, il fatto che l’amata prenda le distanze, sarà il motore per risalire. Lo spero tanto, perché un conto è deciderlo a tavolino, un altro passare all’azione. La solidarietà degli amici è una grande cosa, senza di loro sarei perduto; ci si aiuta a vicenda, ci si sostiene. A volte la vita ti sbatte in faccia la sua crudeltà, senza motivo apparente, eppure ogni problema viene perché poi ha una soluzione, sta a noi trovarla e scegliere la migliore. Certo, da soli non si va da nessuna parte. Io voglio cambiare qualche lampadina sul soffitto ma ho bisogno di una scala, di un sostegno che sto trovando dentro, sto maturando delle decisioni importanti. In sostanza mi dedicherò a togliere un vizio che mi costa molto in termini di salute e di soldi, sono le sigarette. Il mio trainer mi dice che devo smettere piano piano; mi dice che domattina cominciamo gli esercizi fisici, che mi devo vestire con la tuta per andare al parco; mi consiglia di portare una banana, di prevedere uno yogurt, di comprare tanti limoni dell’orto. Dice che sarà dura ma non impossibile, soffrirò di dolori per un po’. Ho un’ansia tremenda al pensiero, resisterò? Ho fiducia in lui, mi aiuterà a rinforzarmi, perché il fuori è come il dentro e sono flaccido. In realtà non so cosa mi stia succedendo ma ultimamente ingigantisco tutto. Penso sia l’effetto di aver diminuito le medicine, forse non è così semplice, soprattutto senza consultare lo psik. Affidarsi all’omeopata, con quali conseguenze? Ho perso il buonumore, e penso molto. Anni fa mi curavo dall’omeopata, ma il malessere non mi passava e ho dovuto accettare la tradizionale terapia farmacologica. In pochi mesi ho ritrovato la vita e il buonumore, la giusta chimica. Sono andato avanti per qualche anno. Ho continuato ad andare dall’omeopata lo stesso e, con lui, abbiamo deciso di diminuire le medicine senza farlo sapere allo psichiatra. I primi tempi andava bene. Oggi non tanto, oggi non tantissimo. Ho preso consapevolezza di questa cosa ed è urgente, è importante par86
lare con qualche specialista perché ho bisogno di sapere. Ho il diritto e il dovere di non tradire la fiducia reciproca con lo psik, non demonizzarlo, magari pure di parlargli e spiegargli la situazione. Sono molto confuso, ho lo stomaco in subbuglio da diversi mesi. Non ci capisco più niente. Ecco, così va meglio. Un po’ di ritorno alla posologia iniziale e aspettiamo che faccia effetto. Anche l’umore è migliorato, inoltre mi prendo meno gatte da pelare. Oggi ho pure fatto una potatura con le tronchesi, tanto che poi mi tremava buffamente la mano destra. La fame è un carnevale allegro e, a tratti, macabro. I morti risorgono e i pesci si mangiano tra di loro. La scena è precisa e piena. L’ombelico lo disconosco, le parole sono al vento di tempesta dove un albero divelto ha sfasciato un’autovettura. Il dado si sta sciogliendo. Al più rischio di andare al Csm, in infermeria, due volte al giorno, accompagnato, come all’inizio. Mi viene in mente che, inconsciamente, ho voluto qualcosa, tipo sperimentare la diminuzione di farmaci un po’ incoraggiato dall’omeopata, un po’ allo scopo di scriverci un libro. Questo. Che non è un libro, ma una narrazione non consequenziale, in quanto scritta a intervalli. Aspetto di parlare con un amico per un lavoro. L’aspetto più duro potrebbe essere una limitazione della mia libertà. Sia fisica che decisionale. Trattare male la mia psiche, turbarla. Ma c’è uno sportello per i diritti del malato? Esiste? Bisogna parlare e non allarmarsi, oppure tenersi i segreti, o mediare, che storia. Cosa è quindi che mi fa stare bene? È chérie. So che lei c’è e mi vuole bene e io a lei. Tesoro mio dolce, mi si inumidisco87
no gli occhi se ti penso, perché mi emoziona da dentro, mi si scalda il cuore, l’anima brilla. I dubbi sul mio comportamento permangono. Mi tocco l’anulare sinistro. Cerco l’anello d’oro con all’interno inciso il suo nome, che sta a casa al sicuro accanto a quello, più piccolo, con inciso il mio. Voglio ricominciare a portarlo, mi aiuterà e mi sosterrà nei momentacci. Quello che voglio è tornare a sorridere, ed essere meno invisibile, non vuol dire accentrare l’attenzione su di me, una volta si diceva autoreferenzialità. Chi ha letto il primo capitolo, mi riferisco a un conoscente, mi ha mosso la critica di parlare troppo di me e troppo poco degli altri. Ma io mi faccio i cazzi miei, perché dovrei parlare dei loro? Questo è terapeutico. Parlando di cose concrete la ditta di consegne dove lavoro si sta ottimizzando, aumentando l’orario di lavoro. Il mio amico mi ha aiutato ad accettare un nuovo lavoro, sempre di consegne, con una nuova ditta che fa lavorare anche di giorno. Domani aiuterò un amico a cercare lavoro, andremo in una zona della provincia a lasciare curriculum. Stasera, dopo il lavoro, vado a trovare una persona e a dargli un pensierino. In realtà domani mattina vado al Centro e non so se mi tratterranno a parlare con l’infermiere del Csm. Spiegherò la mia situazione. Non la devo prendere con pesantezza perché l’esito sarà buono, non c’è rischio, almeno credo. Non mi è dato saperlo, per ora, neanche prevederlo perché non faccio l’astrologo. Va bene, ho finito il mio turno e ora sono da questo caro amico che sta parlando al telefono nella sua lingua, un mix tra inglese e il suo dialetto. Il cibo si sta cuocendo e scaldando, un odore di olio di palma da una parte, di riso dall’altra. È vestito con le ciabatte infradito e un buffo cappotto. Tiene 88
con una mano il telefono in viva voce e con l’altra mescola la salsa. Considerando l’ora ci faremo una buona scorpacciata e poi saliremo a vedere le trasmissioni della serata. Eccomi al giardino del Centro, nel suo orto. Gli uccellini cantano nonostante il freddo. Le montagne sono innevate in cima. Penso che mi stia venendo l’influenza, forse ho somatizzato gli ultimi eventi. L’omeopata mi suggerisce uno specifico rimedio. Al Centro stanno apparecchiando, ma faticano un po’ a trovare il verso. Una paziente ascolta la sua radiolina da sola e guarda sempre in alto, di sbieco, ha lo sguardo fisso, aspetta sempre che qualcuno si sieda vicino a lei, accanto al camino spento. Stanno arrivando i camminatori, annunciati dal clacson. Hanno fatto sette chilometri all’aria aperta. C’è una ragazza nuova che mi dà la mano, non capisco se è una paziente o una tirocinante, credo più in quest’ultima ipotesi, dal portamento e la prontezza con cui mi si è presentata. Ora sto meglio, mi è passato quel senso di febbre. Un altro paziente mi chiede se mi sia sposato per via dell’anello che porto, che in effetti può ricordare la fede. Poi mi conferma che la ragazza di prima fa servizio civile. Che trip! Comincerò altri due lavori di consegna con l’automobile e lo smartphone. Potrò così gestirmi la giornata scegliendo io le ore di lavoro. Posso lavorare di più, molto di più e, di conseguenza, avere maggiore impegno e più entrate. Molto bene. Tutto questo mentre tra poco ho l’appuntamento telefonico con l’infermiere del Csm per rivedere il dosaggio della terapia. Un appuntamento rimandato di mezz’ora. Che mi dà modo di pensare di concludere questo capitolo. 89
Capitolo terzo Nella lista dei desideri c’è una smart tv, credo si chiami così la televisione che va su internet. La vorrei per vedermi i video musicali, i film e quant’altro; la metterei in camera, sulla parete di fronte al letto. Potrei prenderla nuova a rate o di seconda mano, ci vuole un po’ per installarla. Vedremo. La terapia la prendo come all’inizio e ci vorrà del tempo per trarne beneficio. Ma noi siamo pazienti. Ho deciso di aumentare le ore lavorative perché almeno la testa è concentrata in un’attività produttiva. Di conseguenza le ore dedicate al riposo possono essere sfruttate al meglio con l’uso della tecnologia. Da qui la voglia di una smart tv, per vincere la noia. Sì, perché quando non lavoro, quando aspetto che si ricarichi il telefono per andare al lavoro, non so che fare, non mi va più di accendere il bluetooth musicale, ho voglia di qualcosa di nuovo. Sogno un giorno di avere un’attività produttiva migliore, di inserirmi in un mercato fiorente, di avere quattrini per fare casa, di non avere più angoscia per il futuro. Di farmi da me, senza aspettare la manna dal cielo. In quest’ottica costruttiva e ottimista affronto i momentacci, quei pensieri che mi tormentano dicendomi che non ce la posso fare, che sono condannato a prendere la terapia a vita, che sono di salute cagionevole. Eppure dentro di me sento premere il mostro che vuole tutto, la volontà di potenza da canalizzare, il pensiero alto e supremo. A volte, quando bevo, mi sento meglio ed ho voglia di non prendermi sul serio. Quando succede, rido di me e di come reagisco a contatto con gli altri. Ieri sera, per esempio, sono uscito di casa che tossivo, ho incrociato, per caso, una conoscente che mi chiede come va e mi guarda negli occhi; i miei occhi erano umidi per la tosse e una gocciolina mi scendeva sulla guancia. La ragazza mi ha abbracciato 90
con generosità e mi ha detto che mi era vicina. Le ho spiegato che non stavo piangendo per cose brutte ma avevo la tosse. Non mi ha creduto e mi guardava sempre più intensamente. Ogni tanto mi capita di incontrare ragazze che mi fraintendono. Ce n’è una che mi guarda sempre negli occhi, nonostante giri sempre col suo ragazzo. Mi viene vicino, mi dice cose nell’orecchio strusciandoci appena le labbra. Non so mai che fare, se assecondarla. D’altronde non c’è niente di prestabilito, mi ci ritrovo in mezzo per caso. Con maggiori entrate posso ottimizzare anche le piccole cose, come scegliere cibo a mio piacimento, un’automobile accessoriata e vari comfort. Tutte cose che, in giovane età, snobbavo. Tutte cose che non rientravano nel mio mondo di protesta. In quel mondo tanto bene illustrato dal film “Trainspotting 1 e 2”. Mi ha colpito anche il discorso del colesterolo. Sono anni che ho questa fissazione, mi condiziona l’alimentazione. Gli alimenti, il cibo, è un mondo a parte, bisogna goderne e concedersi ai piaceri del palato, assaggiare di tanto in tanto una bottiglia buona. Dotarsi di un frigo bar in camera. Spendere, spandere ed espandersi. Se si allarga il paniere c’è modo pure di destinare qualcosa al risparmio. Essere quindi formica e cicala. Non è illusione, sono riflessioni da recluso nella mia stanza, fuori tira forte il vento, sono stanco, ho bisogno di riposare e basta, ma non è neanche vero. L’ideale è non avere nulla, né desideri, né aspirazioni. I sogni sì perché sono gratuiti, l’irrealtà aiuta ad andare avanti. Ogni giorno porta qualcosa. Io non ce la faccio più. C’è poi da decidere una cosa. Un conto è spedire via mail un racconto esoterico, un altro è consegnarlo a mano al ristorante. Sì, perché la casa editrice specializzata in testi esoterici finanzia la propria attività con quella di ristorazione. Io li ho 91
conosciuti facendo le consegne. Siamo andati a pranzo lì e lo abbiamo scoperto, gli ho pure regalato una copia della mia autobiografia. La soluzione è di tornarci, prendere accordi e poi consegnare il racconto per una valutazione. Se non rientra nel loro piano editoriale sapranno indicarmi una strada, altrimenti lo spedirò a un editore cui lo ho promesso, anzi lo faccio lo stesso, basta ritrovarlo nella memoria del mio pc. Sì, perché lo avevo scritto a mano in un quaderno in salotto a Bruxelles, a casa dell’amorosa, in presenza di sua figlia. Mi era preso uno slancio mistico e ho composto, riga dopo riga, una storia che aveva un suo senso di apparire. Mi piace pensare che ho fatto da tramite, da antenna, captando un afflato verso l’alto che intendeva congiungere le persone. È un inno, in fondo, alla Luce. Penso sia arrivato il momento di dargli lustro. Ho fatto il mio primo turno con la nuova ditta di consegne. Tre ore diurne. Mi hanno inviato a prendere cibo in una nota catena di fast food. Ho dovuto aspettare un po’, poi la consegna è stata rallentata dal traffico. Mentre lavoravo mi è venuto in mente il lavoro da corriere o da fattorino. Le poste o un’altra catena delivery. Purtroppo nel loro sito non hanno posizioni aperte nella mia città. Allora dovrò gestirmi queste tre ditte concorrenti per fare i turni e riempire la giornata e la sera. Ci vorrà sacrificio, e all’inizio i guadagni saranno ridotti. Sto pure pensando di dedicare il venerdì al lavoro, invece che l’impegno col laboratorio teatrale interculturale. Intanto stasera non andrò né al lavoro, né a teatro. Non sto molto bene e ho bisogno di una serata libera. La passerò con chi mi vuole bene. Non rimarrò a casa, perché l’atmosfera non è delle migliori. Rientrare un po’ provati dopo il lavoro ti porta a sopportare di meno la convivenza. Io in casa vivo quasi sempre in camera, a meno che non cucini qualcosa, ma lo devo fare sempre con attenzione. In fondo ha ragione il dotto92
re che devo andare a vivere da solo. È un lungo processo, che richiede preparazione interiore, oltre a un impiego quotidiano del tempo volto a generare reddito. Chi ci riesce, beato lui. Mio fratello lo ha capito da un pezzo. Lavoro/casa binomio perfetto. Non hai rotture di coglioni e non devi dipendere dagli umori degli altri. Eppure quando sono da solo, a casa, alla lunga non mi prende bene. Certo, se avessi un’occupazione per cui esci la mattina e rientri il tardo pomeriggio poi mi godrei la mia casa. Siamo sempre lì, come fai ne manca un pezzo; ci vogliono nervi saldi. Mi viene voglia di fotografare le lettere londinesi. Farci un piccolo archivio. Ricordo quella con incollata, con scotch e filo, una pasta. E quella calligrafia così incisiva, graffiante come una gatta. Ho dimenticato i lineamenti del viso della mittente, ho vaghi e indefiniti ricordi. Sarei a disagio, i primi momenti, a rincontrarla dal vivo. Magari possiamo organizzare una videochiamata. Non ora, non mi va. Le ho inviato qualcosa. Un conto è parlare di energie intangibili, di energie psichiche, un altro di immagini concrete. Nelle lettere anni fa pensavo fosse contenuta l’energia di chi le redige a mano, tanto che una volta ne aprii una e saltò la luce elettrica. In Inghilterra scrivevamo a lume di candela, le lettere erano dense; le conservo, anche se qualcuna l’ho buttata in un raptus irrazionale in cui mi mancava una persona; ne ho una buona collezione. Oltre alle lettere, intese come epistole, conservo quaderni, block-notes, diari e foglietti sparsi, non ultimi i dattiloscritti, con la macchina per scrivere. Questo è materiale non archiviato, so dove sta ma non lo ho schedato, non ne sono capace. È quasi completamente inedito e, probabilmente, non degno di essere menzionato. Qualcosa però ho pubblicato, sette libri. Come autore ho partecipato, anche, ad alcune antologie letterarie. Il problema è che la mia scrittura è poco commerciale, piuttosto intima e personale, è come se vivessi 93
in un eterno romanzo, lungo una vita, cui non mi è dato conoscere il suo corso; è un po’ strano. Avere voglia di esprimersi da dentro, trovarlo in silenzio, ascoltando la voce interiore sempre presente. Quando la realtà si confonde, quando senti il disperato bisogno di esserci, quando ti manca qualcosa, quello è il momento di comporre le frasi. Per me è così, non ne posso fare a meno nonostante un blocco durato molti anni in cui non ho quasi scritto per niente. Poi la scintilla, grazie ai consigli di un amico, un ex operatore del Centro, e il disagio di un concorso letterario, non alla mia portata, mi hanno portato al disarmante atto di composizione del presente testo. Poi, a occhio e croce, c’è da sistemare il sito dell’associazione. In particolare bisogna indicare la categoria Le periferie freepress, di modo che sia indicizzata correttamente. Si potrebbe mettere il pulsante “donazioni”. Si potrebbe introdurre il catalogo per gli sponsor, renderlo un po’ più professionale, perché ora siamo soltanto a un livello amatoriale. Dicono di scrivere con il cuore e i piedi radicati a terra, solo che se prendi devi dare, offrire servizi, forme, formule di soluzioni, risolvere problemi. Mi viene in mente la lista di figure professionali richiesta dal web. Oltre a penna e calamaio ci sono capacità da affinare con e grazie alla tecnologia. C’è chi adora la natura e sta bene in mezzo al verde, agli alberi e ai giardini, in mezzo all’erba, chi fa il tirocinante e si deve comprare gli attrezzi da lavoro e la tuta. A me diedero le scarpe rinforzate, antinfortunio, le avrò messe cinque volte, poi ho lasciato il mio tirocinio con il servizio avviamento al lavoro, il famoso Sal, chimera per bisognosi di stabilità. Non faceva per me quell’ambiente buio coi muri scrostati, con tempi di attesa enormi, in cui non potevi usare il telefonino. O forse sì, lo potevi usare ma non lo facevi per pudore. Non sapevo letteralmente come passare il tempo, erano tutti indaffarati in 94
cantina, con la linea di imbottigliamento che produceva un rumore infernale e le sigarette che abbinavo ai caffè e alle pause forzate. Insomma, un delirio. Le scarpe ora le voglio ritrovare perché impicciano da qualche parte, danno fastidio, posso farci qualcosa come fotografarle e venderle al mercatino, oppure tenerle. Sono preziose, per me, possono sempre tornare utili. In garage ho molti oggetti di natura personale, non ho il coraggio di toccare niente, lì; a parte che c’è sempre la macchina, ma poi non lo gestisco io. Ogni tanto ci appoggio cose, come magazzino, ma anche i magazzini possono essere codificati, messi a posto, ordinati nello spazio, destinati. Spostando qualcosa possono venire in mente idee. Questa stratosfera notturna, non fa tardi, è venerdì sera, il mio giorno preferito. Ora sono in un african-shop, c’è in atto una discussione sulla lingua. Che lingua parli quando sei al lavoro? Siamo entrambi degli evasi. Siamo stati contagiati dal sistema. Ci siamo dovuti adattare? Questo significa diventare grandi? Mi riprendono al presente. Qualcuno mi chiede una sigaretta. Io sono qui per vedere un amico. Un tipo ubriaco chiede attenzione, mi sa che sta un po’ fuori, ma non è questo l’importante, quanto il fatto di stare insieme, di condividere un po’ di tempo insieme, di ridere e scherzare in semplicità. Insomma il tipo ora sta cercando di offrire da bere. Solo che mi pare un po’ confuso. La conversazione è animata, prevale la lingua francese. In un certo senso io sto bene come sto, ho preso il mio drink e sono andato due volte al bagno. Sto considerando l’idea di cominciare da zero a scrivere una sceneggiatura. Devo solo cominciare a seguire le indicazioni di un vate dello script, in voga alcuni anni fa, oppure iniziare a leggere due volumi di un altro esperto della materia. Mi si intrecciano i pensieri. Da un lato si espande lo spazio tempo95
rale delle mie esperienze, la base per scrivere il film. Un film come auto-esplorazione, sul modello proposto e suggerito da quel tale, Jodorowsky. Un mix di poesia e buon odore. Il profumo mi rende agile, quando sento aromi gradevoli mi rilasso da morire. Sono pochi, e intensi, attimi. È come ascoltare un’altra lingua e sentire, di tanto in tanto, la tua. È un attimo, molto profondo. Un battito di ciglia definitivo, come quando si ferma il tempo, per dire. Come stamattina che mi ritrovo a parlare con una conoscente e rimane colpita dal fatto che, insomma, ho pubblicato un argomento di comune interesse. Eccomi nell’occhio del grande fratello. Tutto un agitarsi di corpi comunicanti. Ci vorrebbe un fiore. Sì, un fiore colorato e aperto. Un pensiero come un fiore. Ho avuto una conversazione molto gustosa con una ragazza, ormai donna, conosciuta molti anni fa. C’era un po’ di imbarazzo perché avevamo avuto una storia importante, ma ci siamo chiariti molto bene e siamo ora solidi amici, anzi abbiamo anche fatto due risate. Abbiamo parlato del mio nuovo lavoro di consegna, sul fatto che, mentre aspettavo al fast food, i lavoratori sembrassero formichine: quello che preparava il pane, poi prendeva il contenitore abnorme di ketchup, passava il tutto a un altro che imbottiva, seguendo il programma indicato dai tablet; le cameriere portavano i vassoi, la cassiera aveva un auricolare professionale, i clienti erano quasi tutti ventenni o meno. Insomma ho lavorato tre ore e, sembra, guadagnato otto euro. Credo che lascerò perdere queste deviazioni e tornerò a concentrarmi su altro. Sto utilizzando il computer come fosse una tv. Guardo i film sul mio letto. È una sensazione positiva, stare accucciati a vedere le immagini scorrere mentre fuori è brutto. In questo periodo la gente non esce, per paura di contagi e contamina96
zioni. Il sabato sera un deserto. Si ferma pure il campionato di calcio, allora è una cosa seria. La squadra della mia città, infine, è in crisi di sconfitte e rischia grosso. Da piccolo andavo allo stadio con papà. Avevo paura dei botti che lanciavano i tifosi, i raudi, come li chiamavamo. Andavamo in gradinata, io ero contento perché papà era un appassionato e la partita la sentiva molto. Urlava: “Dai, dai che è il momento buono!” e si gasava, a volte ci prendeva pure. Vicino a noi gli stessi abbonati di sempre; ricordo un signore sempre un po’ critico nei confronti della squadra amata. Quando finiva la partita mio padre mi diceva di rimanere sul posto finché non si sfollava lo stadio; ci andavamo a piedi in quanto abitavamo a qualche isolato. Sono nato e cresciuto in un quartiere residenziale della mia città, si giocava tantissimo a pallone, era un modo per socializzare, caldo o freddo non faceva differenza. Avevamo organizzato pure un torneo dove ogni via aveva la sua squadra. La mia via era piuttosto lunga e animata. Ancora me la sogno ogni tanto. Ci andavo in bicicletta e avevo sia amici che amiche. Fino ai quattordici anni ci ho abitato. Non che abbia ricordi chiarissimi, solo che ci stavo bene. C’erano le attività commerciali tipiche di quartiere, l’edicolante, il fruttivendolo, l’alimentari, la merceria e la lavanderia. La pescheria era già un lusso. Ah, il bar, naturalmente, vero ritrovo di ogni quartiere. Nel nostro si diceva venissero a trovarci i giocatori della squadra della città. Ora che ci penso, la ristorazione non era così sviluppata come adesso. La pizzeria era un po’ distante, l’unica, per altro, della zona. Ci andavamo coi compagni e le compagne di classe. Sì, perché l’attività principale era l’istruzione, la mia vita sociale istituzionale è cominciata prima all’asilo, poi alle elementari, medie e superiori. Spendevo tempo a studiare, spronato da mia madre. A scuola c’era tutto un mondo di sogni legato alla prima fidanzatina, che ritrovavo alle feste e ci facevo coppia fissa. In realtà eravamo 97
nella stessa classe, ma ci divertivamo molto a ballare i lenti nei garages e a fare i giochi di società. Lei mi trasportava in un mondo altro, dove mi sentivo sollevato. Bastava solo pensarla per sentire le farfalle allo stomaco. Pausa caffè gestita da una persona speciale. Fa dei caffè corretti buonissimi. Ha rilevato una precedente gestione da poco e non è mai solo. Siccome è buono di cuore, è sempre circondato da amici. Mette musica fantastica, tutto il giorno. Parla arabo, francese e italiano, ragion per cui la clientela è variegata. C’è chi ci staziona tutto il giorno, in fondo è un posto per rilassarsi e non pensare a niente. C’è pure una saletta interna per conversazioni intime. Chi vuole farsi una sigaretta va fuori e ascolta la musica attraverso una cassa che dà sull’esterno. Questo bar mi riappacifica con la mia città, finalmente. In fondo a me basta poco, sono stufo dei locali per universitari. Qui se vuoi studiare c’è l’imbarazzo della scelta. Arrivano da tutta la nazione, poi c’è l’Università per Stranieri che attira persone da ogni dove, con prevalenza di asiatici, attualmente. Gente che si innamora della nostra architettura, cucina e cultura, che ha fatto figli qui e che ha aperto attività commerciali. Persone molto integrate che parlano tranquillamente il nostro dialetto. Non è poco. È un arricchimento, e spero sia così dappertutto. La mia non è una grande città, non è una metropoli. È a misura d’uomo, come si dice. L’arabo poi è di cuore buono e gentile, gli piace fare amicizia. Purtroppo io non conosco la loro lingua, ma questo mio amico barista mi ha insegnato a scrivere il mio nome in arabo, da destra a sinistra. الوقن Così non va bene, dice che c’è un errore, per via della pronuncia, indicandomi la gola. Quindi, che facciamo? Coi miei amici decidiamo di andare a casa, ad ascoltare musica mentre fuori piove. Mancano tre ore al mio turno, non c’è cosa 98
migliore di un po’ di compagnia, anche se stare davanti alla finestra da soli a guardare la pioggia ha un suo fascino. Ogni gocciolina è un pezzo di elemento che scorre qualche volta in orizzontale, qualche volta in verticale. Poi, per fare gli alternativi, c’è il trasversale. Sembra che stia scrivendo per la mia stretta cerchia di pubblico e non per altro. Oggi è morta una cantante che vidi da giovanotto in un locale alternativo della mia città. Lei aveva il suo gruppo ed era scatenata. Dalla postazione ci dissero che mettevano a disposizione una t-shirt del gruppo a chi saltasse più in alto. Io per tutta risposta mi misi sopra una cassa e saltai fino al soffitto, solo che non se ne accorse nessuno. Poi sul palco aprirono uno scatolone di magliette. Mi precipitai rivendicando vittoria e la ottenni. Era rossa con le scritte in nero. La sventolai come una bandierina. Me la portai all’estero, esibendola al momento giusto. La batteria della mia macchina è da cambiare ed ho perso un turno di lavoro a causa sua, devo comprarne una nuova, che è meglio, non riesco a gestirla con il maltempo: devo spingerla in discesa per farla ripartire, in mezzo al traffico. Il traffico è poco, qualche luce rossa dei freni e gialla dei fanali; poca roba in giro. Occorre uno sforzo per mandarla in moto: il motore viene comandato dalla turbina cibernetica, bisogna avere la chiave, è lì il trucco. Ci si avvolge di maschere e di ruoli, di personaggio in personaggio. È un continuo e tranquillo nomadismo, un andare, rimanere e ripartire. Lo stimolo finale è il non esserci. Lasciateci in pace, non pensateci, siate. Non abbiamo bisogno di altri bisogni, bisogna desiderare di meno. Occorre tornare al punto di partenza e rinforzarlo, rinfrescarlo. È un passatempo innocente, che non chiede e non pretende attenzioni. È un richiamo dell’innocenza più schietta e una forma di baratto. Ricordiamo che nel baratto non c’è economia, è una terra fuori 99
mercato, esente da vincoli, obbligazioni e tasse. È uno scambio alla pari, oltre logiche egemoni e imperanti. Un elevarsi finalmente oltre, ma è ancora terreno infantile, un brancolare nel buio, finalmente. Non vogliamo accendere più candele e ceri. Siamo noi il cielo da bruciare. Non so fermarmi, è tutto uno sgorgare di qualcosa che non si può scrivere, non si riesce a definire, un insieme di prove che mi attendono, perché sono solo nel tempo e nello spazio a contemplare me stesso e il me stessismo. Un agitarsi invano in cerca di qualcosa che non mi è dato conoscere, e qui sta il bello. Non si sa mai, cosa ci riservi il futuro. Lo possiamo intuire ma non plasmare. C’è poi tutto il discorso delle allucinazioni, il non detto, il poco chiaro. Non va dato lui credito, non più di tanto. Sono interferenze. Come arrivano, se ne vanno. Forse non sto al meglio, devo fare esercizio di pensiero positivo e aspettare. La macchina non riparte un’altra volta e ho chiamato il soccorso stradale, c’è da stare tranquilli e aspettare. Domani compro una nuova batteria, domani risolvo gran parte dei problemi, ma non tutti, ci vuole tempo e soluzioni. È tardi e oggi non ho concluso granché. Non ho lavorato, ho fatto diversi minuti di chiamate, ho mangiato con soddisfazione e ora devo solo riuscire a tornare a casa, posare la vettura e coricarmi. Per un pochino dovrò prendermi cura di me, riflettere e non fare cose troppo azzardate. Ci vuole uno stop, come dire, da qualcosa che non so individuare. Mi ha chiamato l’assistenza, tra venti minuti è qui e mi richiama. Se non dovesse andare in moto col buster ho diritto a un traino fino a venticinque chilometri. Devo decidere cosa fare, anche niente; ecco il segreto, non fare nulla. Per un dato periodo di tempo è possibile, fare nulla, poi sopravvengono pulsioni. Chi sta in isolamento sa di cosa parlo. 100
L’istinto è di dubitare di saper fare nulla, occorre riempirlo di false certezze. Voglio dire, il panico di dover sostenere una responsabilità per le proprie azioni. Una situazione contingente e reale come quella che la macchina è ferma e non parte. Sbirciare sul telefonino è un riflesso, una questione di un attimo. Che bello scherzare con le persone, quanto aiuta. Il difficile è riuscire a farlo coi familiari, non si sa mai come la prendano. A volte si offendono per un nonnulla. Mi spiace questa cosa. Fa niente, andiamo avanti. D’altronde, si sa che nessuno è profeta in patria. Non voglio mettere troppo il dito nella piaga, meglio lasciar scivolare addosso e non intestardirsi a volere per forza ragione. Spesso le discussioni nascono quando ci si impunta su un’idea e non si sentono ragioni. Ma oggi è un giorno speciale, inizia il mese e la settimana, finalmente. Andrà tutto bene. Ritroveremo motivazioni ed equilibri, i tasselli si metteranno a posto. A volte non occorre scervellarsi più di tanto per cercare la fonte primordiale del benessere, la radice magica, il sacro fuoco, colmare qualcosa che ci manca, perché non abbiamo occhi per vedere che già c’è, esiste. La paura più grossa è quella di sentirmi abbandonato, di ripetere gli stessi errori. Sentimentalmente all’inizio di una relazione fatico a lasciarmi andare, poi mi ci attacco, mi coinvolgo molto, o almeno così mi sembra. Puntuale arriva l’abbandono. Sempre. E giù a ripensare a dove abbia sbagliato, con la sensazione di morire dentro. Sono fasi mentali gestibili, tuttavia, per trattarle col senno di poi, del distacco. Siamo in una fase, credo, precaria in tutto e quindi i rapporti tra persone che si vogliono bene risultano qualche volta troppo fluidi, per non dire fatui. È difficile fare dei programmi in comune, decidere di vivere insieme, è sempre più complicato. Per me è importante essere seguito a livello medico e non posso lasciare la mia terra e il centro di salute che fre101
quento, è la base. Di conseguenza devo costruire qualcosa qui, non mi riferisco al lavoro, alle entrate economiche, al vil denaro, parlo di serenità. Quando si è tranquilli, infatti, siamo più disponibili e aperti alle bellezze del creato. Le brutture le osserviamo e poi le mandiamo via. Quando siamo in estasi abbiamo questa capacità di risplendere e di attirare energie buone. O almeno mi piace pensarla così. Mi dò un’altra settimana di tempo prima di compilare i moduli necessari alla partecipazione del concorso letterario, poi procedo con l’invio del materiale. Devo anzi cominciare la rilettura e la revisione, la parte per me meno interessante, in cui comincio a giudicarmi o ad osannarmi. La parte in cui sono più fragile, perché coinvolto emotivamente. Le emozioni forti, queste che fanno smuovere le montagne. Si può anche stare seduti in apparente calma mentre dentro succede di tutto, maremoti e alluvioni dei sensi e della mente. Lo sguardo fisso, incapace di muoversi. Attaccati ai braccioli, non possiamo che aspettare la normalità. Siccome, però, ognuno è un individuo diverso dall’altro, non c’è una formula generale. In questa mia trattazione parlo di me, testimonio il mio vissuto, lascio un mini solco, una traccia del cammino fin qui fatto. Non so se ci stia riuscendo in modo adeguato e interessante, è solo un tentativo, una prova. Uno studio, forse, di comprensione, perché la realtà la facciamo noi e spesso è fuggevole, impermeabile. Siamo fuori giri, dobbiamo cambiare le candele della macchina interiore, pedalare quanto basta. Nelle nostre miserie camminiamo, spaventati cuccioli di tigre. Non resta che organizzare l’atto finale. Pulire, pulire per non pensare, perché il pensiero va lì, pregno di paure e senso di abbandono. Pulire per tenersi attivi ed evitare di guardare fisso il soffitto con le mani dietro la nuca. Oppure guardarlo intensamente tanto da bucarlo una volta 102
per tutte e fare entrare aria ed elevarsi nella galassia, andare in una dimensione senza tempo e senza materia, senza nessuno. Via tutto e via tutti dai piedi, lasciatemi solo e lasciatemi in pace. Hey tu, che mi complichi i sogni notturni, cosa vuoi da me? Vuoi attenzione? Me lo avevano detto che eri una piattola, ma non ci credevo. Vuoi ritagliarti il tuo quarto d’ora di celebrità a mie spese? Sfrutti il mio senso di accoglienza per accozzarti a me? Ah, che pazienza che ci vuole. Meglio farsi un caffè caldo e forte, berlo guardando dal balcone, organizzarsi per affrontare la giornata col suo vento potente e tutti gli spiritelli al seguito. Per spiritelli intendo forme di energia-pensiero a spirale, che ti attraversano e poi se ne vanno, senza problemi. Quando li incontri è meglio assecondarli, anzi sparire con loro, come scompare la scrittura che avevo prodotto per loro e su loro. Il fatto è che non mi ricordo ciò che avevo scritto, ma finiva con uno spettacolo. Di palo in frasca, di volo in volo, seguendo il flusso che non c’è. Come fosse contenibile in una tazza con l’acqua calda e colorata, la cui sostanza abbia bisogno di tempo per fare effetto e sciogliere il freddo dentro, il caldo fuori, di rado succede di ascoltare il traffico e il semaforo è verde, nell’aria pulviscolo atmosferico e sottile, delicato, penetrante. Un pazzo non saluta, poi comincia a ragliare dalle risate. La fila alla cassa, in libreria. Ho da pagare con la carta, non occorre una busta, signorina. Non vedo l’ora di tornare a casa e leggere un libro, steso sul letto. È un periodo che ho voglia di stare in panciolle a casa. Non voglio altro. Insomma la cassiera beve la sua acqua, risponde al telefono con voce profonda, stampa lo scontrino. È alta, slanciata e riccia. Mi 103
piacerebbe averla come collega. Mi sto mezzo innamorando, non è vero, è solo attrazione. Occhi chiari e sbarazzina, è una che se le dai delicata considerazione ti considera a sua volta. Piccoli passi verso una forma di desiderio, finalmente, verso qualcuna. Giuro che fatico e annaspo a trovare in giro, durante la giornata, un qualsiasi tipo di rapporto dove si possa anche ammiccare, dove per un attimo ti sembra tutto possibile. Incasinarsi un attimo, invece di incasellare. Ora per esempio vorrei una birra per continuare a giocare con questa tipa. In pratica sto trasferendo il gioco che si fa al laboratorio teatrale, solo che lì mi annoio perché non trovo gente affine, come dire, trasversale. È solo, lì, un altro modo di apprendere la vita, solo che è la vita in sala, circoscritta, seguire i suggerimenti del pedagogo. Begiate, solo begiate. La tipa non è molto socievole, non è nessuno. Pace. Ho fatto l’errore di rivolgerle la parola non richiesta e mi ha azzittito subito. Sono goffo. Devo mascherare un qualche mio interesse, invece di sembrare un libro aperto. Io sono così, genuino. Prendere o lasciare, diciamo. Vogliamo parlare del passato? Parliamone. Dell’ultimo spettacolo con Human Beings? Del fatto che guardavamo le nuvole? Dell’adrenalina che circolava tra di noi? Dei sacrifici fatti per seguire il regista? Di quante rotture di scatole abbiamo dovuto sorbirci per un effimero senso di appartenenza al gruppo? Ebbene, quest’anno non lo sento. Veramente non lo sento mai, in nessun anno. Da nessuna parte. Mai. Sembra che sia, pure, un sentire comune e affine a certi amici che frequento. Certo, le incomprensioni regnano sovrane, in fondo ognuno ha voglia di farsi una gran manciata di affari propri, 104
basta con questo eterno senso di appartenenza e comunione. Ma comunione di cosa? Il disagio è insito nell’essere umano, la confusione dirige il creato, basta con questo perenne trovare soluzioni e occasioni. Insomma questa ragazza parla troppo e non parla di niente, cerca di portare avanti le sue ragioni, ma mi sembra che non valga nulla. È ambigua e insistente, ha solo tanta voglia di parlare solo per parlare. Tutte le sue richieste di attenzioni. Ho voluto provare la stessa marca di bevanda solo per provare, non volevo provocare alcuna reazione. E poi qui non ci arrivano, sono troppo provinciali. Sì, lo dichiaro, finalmente: nonostante pensassi di trovarmi in un posto carino e aperto, si ripetono le stesse dinamiche, uguali. E tornano i pensieri relativi al fatto che sono over size, fuori age, fuori posto. Ecco, abbiamo avuto una conversazione, ci siamo parlati ma il suo sguardo sembrava cercare altro. Ma chi se ne frega del suo senso di trovare il lato positivo, di non avere brutti pensieri. E se mi vengono, che devo fare? Siamo solo in una serata come un’altra. L’ansia di esserci, tu fait ton tibotage, non significa granché, è una frase in codice, come un’altra; da piccolo ne avevo tantissimi, di linguaggi criptici, capibili solo da pochi intimi. È stato impegnativo. Di buono c’è che ho conosciuto un tale che mi ha invitato come suo ospite personale sabato prossimo in un locale. Dice che non devo pensare a niente, ingresso, tavolo e amici. Oltre a questo ci saranno delle ragazze. Sarà interessante fare nuove amicizie, avere delle conversazioni con toni femminili, con voci e sguardi e movenze e vicinanze. Tutto molto bello, forse troppo, sto fantasticando. 105
Ero stanotte ospite a casa di un amico per riposare in quanto non avevo voglia di guidare. Sono crollato subito e sentivo, ovattato e in lontananza, cucinare piano piano. Solo che non sentivo odori e aromi. All’alba mi ha svegliato la mia tosse, avevo un pizzico fastidioso che non se ne andava e ho preso la decisione di uscire. Il cielo era da poco schiarito, in giro nessuno, nella mia testa il viso della ragazza sbarazzina che poi, probabilmente, è partita con un altro. Sono riuscito a tornare a casa mia guidando senza accendere nessuna sigaretta, mi sono infilato nel mio letto ed ho aspettato. Non ricordo altro, ma il secondo risveglio è stato bello quanto il primo. Ero al sicuro dopo una serata di divertimenti, non avevo quasi nessun senso di colpa. Unica pecca, una gran fame in quanto non avevo cenato, quindi penso a quella salsa che ha cucinato il mio amico stanotte e che vuole condividere, me lo ha promesso. Solo che dorme e non voglio disturbarlo al telefono. Di conseguenza devo aspettare, con una sensazione di nervosismo per il buco allo stomaco. Quasi quasi schiaccio un altro pisolino, tanto per quello che ho da fare oggi... ho da recuperare un po’ di forze e di energie, perché è stata una battaglia e quando la sbarazzina si è espressa dichiarando la sua fede calcistica la ho presa lungamente in giro e penso si sia offesa. D’altronde si sentiva troppo al centro dell’attenzione e degli sguardi maschili, certo era un bel guardare ma finiva, doveva finire lì e si capiva avesse i suoi problemi e i suoi trascorsi, che pure mi ha elencato. Non dico fosse matta, ma passava da uno stato d’animo all’altro cercando considerazione. I nostri sguardi non facevano che incrociarsi e cercarsi, era empatica e non sapevo come uscirne, il ciclone era forte. Allora ho chiesto aiuto a un amico, che mi ha accompagnato da lui e, durante la camminata, sentivo i miei passi rimbombare per la via, stretta e in prossimità del centro storico. Lui mi ha capito e ha sbattuto i piedi, per sdrammatizzare i rumori di entrambi.
106
Ecco che di nuovo fa capolino la mia tosse. A volte quando è forte mi fa girare la testa. Se mi prende alla guida devo fermarmi. Durante il mio lavoro di consegne avviene di rado, per fortuna. Grazie a questo piccolo e provvisorio lavoro riesco a mandare avanti la baracca. Oggigiorno il provvisorio diventa stabile, si fanno dei calcoli in base a questo. Lo spirito dei tempi è l’adattamento alle condizioni che cambiano di continuo. Si minano le sicurezze elementari, ci si forgia di novità, di nuove scoperte. Si fanno progressi in ogni ambito umano, sembra. Eppure l’alienazione corre anch’essa a stoppare gli animi. Il tran tran della sopravvivenza, la presenza di una storia, e che storia. Tutto questo mentre aspetto un segnale, di andare. Nel fermarsi c’è tutto un mondo fatto di prese in giro. Voglio dire, crei un’aspettativa a una domanda di lavoro, a una notizia da confermare, a un’analisi ontologica. La domanda da porsi è sempre la stessa, conoscersi. Forse è ora di staccarsi davvero da terra. Volare sul serio, aleggiare per allontanare le miserie che girano dappertutto. Sono momenti rari e benedetti, quelli in cui ricevi una telefonata cara, di qualcuno che si interessa a te, alla tua salute e al tuo mondo. Lo senti dal tono della voce e dall’intensità energetica. Ti lascia una scia di gioia, di voglia di sognare e saltellare tra le nuvole. Quante volte mi hanno detto che ho la testa per aria, che non sono concreto. Ormai non ci faccio più nemmeno caso, anzi ci gioco. Mi piace provocare e creare equivoci, altrimenti sarebbe tutto piatto e standardizzato. Questo mentre ascolto la musica della lavatrice, che igienizza il mio giacchetto nuovo, aveva due macchioline di troppo. Imperdonabile. Come lo è, in effetti, chi non si concede una risata. 107
Oggi al Centro mi sono spaventato a vedere un utente ripetere lo stesso schema all’infinito. Sguardo vuoto e passettini sul selciato. Voce sommessa e colorito da non invidiare. Poi il pranzo silente, sull’atrio l’ho visto ridere da solo con gusto, gli ho chiesto il motivo e mi ha risposto che gli veniva da ridere. Finalmente il suo viso era disteso e ha trovato la forza per rispondermi. Un’altra utente invece è una poetessa rara, non si concede molto, anzi si spazientisce, poi anche a lei scappa una battuta ogni tanto e le si illumina il viso, allora la osservo e lei fa uno sbuffetto aggiustandosi i capelli con un piccolo scatto civettuolo del collo. Sarà, ma per lavorare a un importante festival estivo della mia città sembra come che dovessi fare domanda per la “BBC”. Li avevo chiamati mesi fa, li ho richiamati oggi aspettando il termine che mi avevano dato, mi rispondono che fanno tutto tramite sito e, ovviamente, devi caricare il tuo curriculum. Il problema è che non ho un curriculum competitivo per lavorare nei punti di ristoro del festival, dove ti puoi gustare la musica live, lavorando. È questo il mio obiettivo: servire birra ai concerti, non c’è altro. Non ho fatto corsi specifici, non ho più vent’anni. Voglio solo passare nove serate a servire, è una mia utopia, personale e irrealizzabile, un desiderio che rimarrà tale perché non ho il coraggio di proseguire con questa storia dei curriculum. Chissà quanti ne ricevono e con quali criteri li accolgano. Ma spesso scelgono i giovani, gli universitari. Io, comunque, farò lo stesso un tentativo. Alla fine ho compilato tutto e spedito, ho poche speranze. Unico punto di forza, o debolezza, è l’iscrizione alla legge ‘68. Solo che forse ho sbagliato qualcosa, ma non so cosa. Magari li chiamerò tra una settimana. Tutto questo mi ha cre108
ato solo mal di pancia, e non è un buon segno. Certo, la vita va avanti lo stesso, dipende sempre dalla digestione. Poi uno fa le cose avventate, e ci ripensa. Deve correggere gli errori, aggiustare il tiro. L’impulso è di agire, ma occorre saperlo fare. Non è un buon punto di partenza, penso che neanche mi risponderanno, e io li tartasserò un pochino, e mi prenderanno per folle, disperato e battuto animo di richiedente asilo lavorativo. In fondo si tratta di questo, avere un riparo dalle intemperie. Cosa altro è il lavoro, se non un tetto che non sia il cielo? Anche i morti al cimitero ne hanno uno, tranne i poeti, seppelliti all’ombra di un albero, non importa quale, purché duri. Non ritrovo la mia chiavetta, contiene i miei segreti. Dove si sarà nascosta? L’ho cercata dappertutto, non c’è. Ci sono due film dentro, di cui uno molto importante. Cosa ne sarà? Voglio dire, i supporti fisici sono fonte di perdita. Meglio il cloud, sempre. Inondare la rete di dati, aumentare la potenza dei server, vivere perennemente in modalità aleatoria e immateriale. Lasciamo perdere, meglio accendere il fuoco procurandoci legna. Ci arrostiamo qualcosa che dà nutrimento vero, non fumo agli occhi. Solo che se dobbiamo vivere in isolamento occorre organizzarsi. Contornarci di comfort. Andare a fare una passeggiata avanti e dietro per il corridoio di casa o, non visti, sul pianerottolo. Così, per riempire il tempo in attesa di un’idea per svoltare la giornata. Per esempio, pensare in dialetto a volte aiuta a ridimensionarci. Sembra quasi sia vietato. Come se ci vergognassimo di sfoggiarlo, perché grezzo e poco conosciuto, ma la cadenza non la puoi togliere. Fa parte di te, ti caratterizza. Parliamo di radici e di territorio, certo, i confini vanno allargati. La verità sta nel mezzo. Non nel fine. Il finale ancora non compare, l’orizzonte è vasto: tocchiamolo. 109
Non so, per completezza mi viene da dire che sono alla prima ora del primo turno con una nuova ditta di consegne pasti. Non sto ricevendo nessun ordine e non ho la più pallida idea se mi paghino a ore o a consegna. Sul web c’è di tutto e di più. Bip, è appena arrivato il primo ordine, la procedura è molto più snella delle altre ditte. Ora il cielo tuona e io starnuto con lui. Tira il vento, sembra una pacifica fine del mondo.
110
Postfazione (o sarebbe meglio dire Conclusioni) Ho scritto questo materiale da novembre a marzo. Cinque mesi e basta possono essere sufficienti per non allungare troppo il brodo. Tutto è nato da un imbroglio: pensavo di partecipare a un concorso letterario ma ho sbagliato direzione e la carne è venuta fuori lo stesso. Il seme che ho creato non ha terreno, si eleva un poco. A parte questo, sono arrivate le zanzare, i tramonti lunghi e i lampioni accesi. La natura prorompe, qualunque essa sia. Teniamo alti i calici finché meritano. Gli argomenti che ho trattato, lungo la narrazione temporale, sono quelli che ho ritenuto utili a una maggiore comprensione della realtà ma, più andavo avanti, più scoprivo difficoltà a starci. Il lavoro, il teatro e la scrittura, il malessere che arrivava non richiesto, il cercare amore nelle cose minime e quotidiane, la cura. Questo scritto prosegue nella mia tradizionale ricerca interiore, pertanto non vuole dare risposte ma spalancare possibilità. Saper riconoscere una strada da percorrere e vedere che succede in corsia. Sì, perché siamo tutti dentro un enorme ospedale sociale, ci disperiamo ma nessuno ha la soluzione. Nico qui è forse colpevole di mettersi troppo a nudo, o troppo poco. Cerca di dimostrare continuamente la sua innocenza perché additato fin da piccolo per la sua diversità. Ma diversità rispetto a cosa? Ed è qui che entra il gioco il libro.
111
«Inseguendo sogni, o forse in cerca di buoni consigli, Nicola Castellini si aggira sulla pagina e nella vita ssando un orizzonte ... in una città umbra e in una vita di provincia dominati dalla calma piatta in super cie,... mentre dentro è subbuglio, rabbia e caos. Con questa inquietudine di fondo, e un senso di inadeguatezza proprio dell'animo umano ma qui acuito ed estenuato da un “eccesso di sensibilità”, di chi cerca e scava ma spesso non trova, altalenando tra intimismo e denuncia sociale, Nico is not a crime ripercorre con capacità di introspezione, non priva di guizzi di ironia e lucida autoanalisi, le vicende personali dell'autore» Tratto dall’introduzione di Francesca Giommi