La bellezza della lentezza a cura di Maria Grazia Giannini Stefania Lanaro Claudia Andrea Maria Nembri Prefazione Umberto Nizzoli
sociale Centro Servizi per il Volontariato Perugia Terni
CESVOL UMBRIA EDITORE
Quaderni del volontariato 2021
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Quaderni del volontariato 13
Edizione 2021
Cesvol Centro Servizi Volontariato Umbria Sede legale Via Campo di Marte n.9 06124 Perugia tel 075 5271976 www.cesvolumbria.org editoriasocialepg@cesvolumbria.org
Edizione ottobre 2021 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Disegno di copertina di Elisa Bonucci Stampa Digital Editor - Umbertide
Per le riproduzioni fotografiche, grafiche e citazioni giornalistiche appartenenti alla proprietà di terzi, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire. È vietata la riproduzione, anche parziale e ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzato.
ISBN 9788831491211
I QUADERNI DEL VOLONTARIATO UN VIAGGIO NEL MONDO DEL SOCIALE PER COMUNICARE IL BENE I valori positivi, le buone notizie, il bene che opera nel mondo ha bisogno di chi abbia il coraggio di aprire gli occhi per vederlo, le orecchie e il cuore per imparare a sentirlo e aiutare gli altri a riconoscerlo. Il bene va diffuso ed è necessario che i comportamenti ispirati a quei valori siano raccontati. Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, dove il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso del quotidiano, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore. Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente o più antico, 3
per consegnarci insegnamenti e visioni. Quelle visioni che i cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Gli autori di questi testi, e di tutti quelli che dal 2006 hanno contribuito ad arricchire la Biblioteca del Cesvol, hanno fatto una scelta coraggiosa perché hanno pensato di testimoniare la propria esperienza, al di là di qualsiasi tipo di conformismo e disillusione Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo. Salvatore Fabrizio Cesvol Umbria
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La Bellezza della Lentezza di Maria Grazia Giannini: Counselor e Presidente de Il Bucaneve ODV Stefania Lanaro Psicologa e Psicomotricista Claudia Andrea Maria Nembri Psicologa ed Educatrice con la prefazione di Umberto Nizzoli
Psicologo clinico e Psicoterapeuta Presidente SISDCA, Società Italiana sui Disturbi del Comportamento Alimentare FAED, vice-president European Chapter Academy, AED Eating & Weight Disorders, Springer Nature, Guest Editor Master 2° livello sui Disturbi della Alimentazione e Obesità, Unitelma La Sapienza, direttore già direttore del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche e del Servizio per i dca, ASL di Reggio Emilia
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Prefazione di Umberto Nizzoli Una bella metafora dice che noi esseri umani nasciamo menù ma diventiamo ricetta. Ciò significa che i geni influiscono sulla personalità, ma non la controllano, non ci dicono che cosa dobbiamo fare. Avere un pianoforte non equivale a dire che suonerai Chopin ed ancor meno che suonerai come Chopin! Gary Marcus (1) scrive che “non esiste una corrispondenza tra geni e comportamento”. Quando fu chiesto a Donald Hebb (2) cosa contasse di più se la genetica o l’ambiente, lui rispose ponendo una domanda se per l’area del rettangolo conta di più la base o l’altezza. La nascita della mente umana già a partire dalla gestazione si sviluppa nella relazione. Le neuroscienze chiariscono che il cervello è sociale, nel senso che sono le relazioni e le esperienze a stimolare forgiare le architetture cerebrali, Martin (3). La relazione madre bambino in gravidanza è complessa: è definita sincronia materno-fetale. Infatti sono ben noti i funzionamenti contingenti dei sistemi dinamico fisiologici e comportamentali che si instaurano fra loro. La psicanalisi spiega così la formazione della realtà “oggettuale” sorta dalla separazione dalla madre. Il cibo, ineludibile fonte di sostentamento, non viene più fornito gratuitamente ed inarrestabilmente all’interno della unione simbiotica attraverso il cordone ombelicale, ma attraverso una separazione tra un soggetto bisognoso che desidera e chiede ed un oggetto (il seno materno) 7
che può essere o non essere dato nei modi e nei tempi opportuni. La sofferenza esistenziale è invariabilmente collegata ad ogni processo di separazione. Il dolore connesso alla separazione e l’afflato insopprimibile per il ricongiungimento danno vita in Aristofane al mito della mela dimezzata. Secondo questa lettura gli umani non sarebbero esseri interi ma … mezze mele alla perenne ricerca dell’altra metà che manca. E’ la capricciosa pretesa di ottenere quel che ci manca che tiene gli individui bambini; capricciosi e prepotenti. Purtroppo certi amori iperprotettivi genitoriali favoriscono il blocco della crescita. Crescere invece è inesorabilmente fare delle scelte, separarsi. Il cervello del bambino è experience-dependent e impara durante le interazioni a percepire l’ambiente sociale come minaccioso o come supportivo. Panksepp J. (4) Se l’essere umano non ha buone radici, vive sentimenti di distruzione e di perdita. L’ansia di separazione a cui si è destinati nascendo, se non è arginata dalla gioia di crescere, fa emergere spinte di tipo regressivo che vorrebbero l’incorporazione totalizzante. E’ qui che si gioca il valore dell’adulto genitore che sa trasmettere fiducia ed apertura alla crescita oppure che inibisce spesso per malinteso senso di protezione dai mali e dai rischi del mondo. La psiche esiste solo nella relazione. I fondamenti biologici dello sviluppo della psiche dimostrano che il cervello è geneticamente programmato per avvertire la spinta o l’inclinazione a conoscere il mondo circostante e distinguere ciò che siamo noi da quello che di altro è 8
importante per noi già biologicamente. Dunque siamo sintonizzati su un mondo sociale. E’ uno sviluppo creativo quello che va dal biologico allo psichico; e quest’ultimo si sviluppa poi in relazioni con gli altri, Kernberg (5). Generalizzare è sempre un’operazione molto difficile. Spesso è anche solo, si fa per dire, un’operazione ideologica che serve a proiettare qualche colpa o qualche assoluzione. La realtà si compone più spesso di situazioni uniche, sfumate e delicate che richiedono interventi, ragionamenti, valutazioni personalizzate. Ci fu un tempo in cui, semplificando, si attribuiva alla famiglia ogni responsabilità nella formazione di un disturbo dell’alimentazione o dell’immagine corporea; in particolare si accusavano le madri. Questa semplificazione ha comportato l’aumento dei sensi di colpa e la crescita delle esclusioni dalle richieste di aiuto da parte di persone travolte dal bisogno di mantenere il segreto per nascondere la vergogna dei loro sintomi. Gli sforzi attuali di liberare le persone dal senso di colpa e di aiutare le persone a chiedere aiuto uscendo da questa forma di auto-isolamento punitivo non saranno mai sufficienti finché non si arriverà alla condizione per cui nessuno verrà condannato per la sofferenza è il dolore da cui è affetto. Dall’altra parte tuttavia non può essere negato il valore importante delle relazioni familiari nello sviluppo della persona umana a partire dalle relazioni primarie, quelle coi propri genitori, nella propria famiglia, con la propria madre. Più che una caccia ai responsabili, che ovviamente non 9
dovrebbe interessare a nessun serio professionista, si tratta di comprendere dove ci siano delle fragilità e delle vulnerabilità in modo da poter cercare di attenuarne gli effetti patogeni. Ecco perché è straordinariamente importante sviluppare, fin dalle fasi più precoci, attività di aiuto e vera e propria formazione ai genitori per potere dare a loro gli strumenti per affrontare la relazione in modo nutritivo col neonato. Si tratterebbe poi di individuare quali situazioni possono essere più delicate o più potenzialmente problematiche per poterle affiancare precocemente con un lavoro di sostegno al gruppo familiare. È palese che per potere fare un’azione così diffusa e capillare occorrono enormi risorse che possono essere sviluppate solo dal territorio stesso, dal sociale, attraverso operazioni di prossimità e di volontariato e di sostegno alle reti sociali. Ma anche laddove si rivelerà necessario fare un intervento personalizzato di cura è necessario includere tutte le dimensioni esistenziali della persona in trattamento e quindi lavorare con il suo gruppo familiare di riferimento che va aiutato a comprendere la patologia, a leggere i sintomi e l’espressione del dolore ma che va stimolato a potere interagire nel modo più proficuo possibile divenendo così parte del sistema curante stesso. É perciò un’ottima iniziativa quella dell’includere nei percorsi di formazione del piano assistenziale personalizzato e nel suo svolgimento il gruppo familiare. Esattamente questo è il senso che cerchiamo di introdurre con la serie di webinar formativi che svolgiamo come SISDCA (6) all’interno del master che gestiamo con Unitelma La Sapienza. Sono i webinar definiti “dentro alla clinica” dove si discute in équipe multidisciplinare 10
è un familiare del piano assistenziale da sviluppare per il caso in esame. Uscire dall’isolamento in cui può gettare la disperazione per un corpo vissuto come una mutilazione e il cibo come devastante minaccia, è già un passo importante. È chiaro che una conversazione con un amico può aiutare una persona in crisi ma vi è una netta differenza tra una conversazione esistenziale con un amico e un colloquio metodico di psicoterapia, Otto Kernberg (5). Stante l’atavica straordinaria carenza di risposte qualificate in buona parte dei territorio nazionale e stante l’aumento della domanda potenziale legata alla diffusione dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione a causa della pandemia e tenendo conto delle difficoltà finanziarie dello stato sociale, diventa palese che assume un ruolo cruciale l’organizzazione di volontariato. Esso rappresenta la cerniera fra le persone che vivono la sofferenza nella loro singolarità e nella loro familiarità e i centri specialistici per il trattamento dei disturbi dell’alimentazione. Questa zona intermedia, vastissima, può essere occupata solo dalle reti di volontariato e di mutuo ed auto-aiuto. Queste reti si possono offrire come luogo di prima accoglienza, quindi di facilitazione dell’intercettazione dei bisogni, come luogo di supporto e in molti casi possono essere sufficienti per poter risolvere le situazioni. Nel caso in cui la problematica fosse più severa, sarebbero il contenitore adatto per poter fare da interfaccia tra il singolo e i servizi. Per potere dare corpo ad un’opera così importante e 11
capillarmente diffusa occorre poter seminare conoscenze. Non ci si improvvisa attori sociali e di prossimità. Lo si diventa attraverso un percorso fatto di esperienze e di studi. Quelle esperienze che fanno sì che alcune persone che hanno attraversato con crescente consapevolezza la storia di malattia possono essere considerate esperte per esperienza. Il testo prodotto da Il Bucaneve, sapientemente guidato da Maria Grazia Giannini, ha tutte le caratteristiche per essere un ottimo strumento per i familiari, per i gruppi dei familiari e per coloro i quali all’interno dell’associazione dei gruppi dei familiari svolgono le funzioni di supporto di sostegno, di orientamento e di accompagnamento. Il presente è un bel manuale breve che, oltre ad essere ben fatto, può essere suggerito a tutti gli operatori di base. Le persone vanno avvicinate, ci vuole prossimità; vanno aiutate a comprendere e ad accogliere; vanno aiutate a conoscere ed a riflettere e, nel caso, a modificare i propri comportamenti. “Nonostante abbia partecipato ad incontri, gruppi di ascolto e sentito testimonianze, mi sono trovata con la cassetta degli attrezzi dolorosamente vuota”, dice mamma Cristina. Chi meglio di una figura formata e competente, vicina nel proprio territorio può svolgere una funzione di supporto ed aiuto al cambiamento? Queste benemerite figure di arricchimento sociale si pongono in posizione intermedia fra la rete amicale e la rete specialistica. Questo testo è lo strumento per un giusto accompagnamento.
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Riferimenti 1. Marcus G, (2004) la nascita della mente, Come un piccolo numero di geni crea la complessità del pensiero umano, Codice 2. Donald O. Hebb, The organization of behavior; a neuropsychological theory. Wiley, New York, 1949. [tr. it. L’organizzazione del comportamento, FrancoAngeli, Milano, 1975.] 3. Il cervello sociale, Manuel Martin Loeches, RBA 2019 4. Panksepp J. The long-term psychobiological consequences of infant emotion, Prescription for the twenty-first Century, Infant Mental Health Journal 22- 2001, pagine 132173. 5. Lutz M (2021), dottor Kernberg, a cosa serve la psicoterapia? Raffaello Cortina 6. https://www.sisdca.masteralimentazione.eu/eventibitmeeting/catalogo
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Prima parte di Maria Grazia Giannini
“La prossima volta che vedrete un fiore o una piantina spuntare dal terreno o in un vaso, voi ricordate che una parte della sua profonda bellezza è la lentezza con cui è cresciuto.” [J.Spinelli]
“Quanto ci vuole?” Questa la domanda che più spesso mi sono sentita rivolgere dai familiari e dalle persone che si sono rivolte alla mia Associazione Il Bucaneve in cerca di aiuto per liberarsi da quel mostro che da tempo divorava le loro vite: il Disturbo del Comportamento Alimentare. Una domanda colma di emozioni: dolore, rabbia, paura, speranza… una domanda colma di fatica e sfinimento, di desiderio di vivere in altro modo da quello imposto da questa patologia viscida, invischiante e manipolatoria. La risposta non è mai stata facile, ma sempre la stessa, anche se cosciente di avere davanti persone che volevano 15
sentire altro, sapevo di dover rispondere la verità, unico modo per costruire fiducia è dire la verità e quindi non potevo che rispondere in un modo: “Non si può dire quanto ci vuole, sicuramente tanto…”. Non è semplice per chi accoglie tutto quel dolore e la speranza di sentire una risposta facile, veloce e riparatoria osservare quegli sguardi, notare le spalle accasciarsi e il respiro che per un attimo lunghissimo si ferma. Quel “sicuramente tanto” è difficile da capire dopo che magari già si è faticato tanto per arrivare lì a chiedere aiuto, ad ammettere con noi stessi che da soli non si può, a dire che quel tarlo che divora la mente e il corpo è diventato insopportabile ma che non se ne va da solo, è difficile non vedere un orizzonte preciso, un termine a tutto quanto. Eppure è così, non si risolve un Disturbo Alimentare se non con il tempo necessario della terapia e la collaborazione continuativa, senza stancarsi. Imparare a dare e darsi tempo. Comprendere l’importanza dei propri spazi e concederseli. Non dimenticare mai, anche se spesso è difficile, che c’è anche bellezza in ciò che ci circonda. Prima di proseguire credo sia sempre utile per chi legge uno scritto che riguarda i Disturbi del Comportamento Alimentare addentrarsi nelle parole che sono nella mente di chi è affetto da questa patologia e che prendono vita quando vengono pronunciate davanti a chi si mette nella posizione di un ascolto empatico e congruente: o “Ho 30 anni, 24 dei quali passati in compagnia del mostro. Come ci si ammala? Non lo so, ero 16
troppo piccola per capirlo. Come si guarisce? La malattia funge sempre da scusante, la malattia mi fa aggrappare alle persone come una sanguisuga, succhiando tutto l’affetto che posso, fino a portarle allo sfinimento perchè non possono vedermi soffrire così…e finisce che poi si allontanano lasciandomi sola, alla deriva.” (Chiara) o “Qualsiasi cosa accade nella mia vita, io l’affronto con la malattia, perchè è troppo più comodo vivere con la giustificazione che sono malata, è troppo più comodo offuscare tutte le emozioni negative o positive, mescolandole, confondendole, nascondendole dietro ai vomiti, ai digiuni o alle abbuffate....dietro un numero, un maledetto numero che più scende più mi fa sentire felice, onnipotente. A rendere il tutto più difficile anche due lutti importanti: la mia dolce nonna con la quale vivevo, e un mio cugino che si è suicidato. E allora si che la malattia urla...allora si che voglio affrontare tutto insieme a lei e non contro di lei” (Laura) o “L’alcool è ipercalorico, dunque se bevo non mangio e viceversa... Non si parla di un sabato sera… E poi in realtà odio bere. Si perde il controllo e odio perdere il controllo…ma non riesco a non bere!” (Veronica) o “E ho capito che l’Amore aiuta...che però biso17
gna fare i conti con le proprie paure...il passato, l’interiorità, il dca...e ho capito che davanti a “Un ti vedo ingrassata finalmente....”la mia testa pensa ancora “Aiuto, adesso restringo” ma poi-... poi ciò che ti ha segnato ti ha anche INSEGNATO....quindi stasera ho cucinato io...e sono stata brava devo dirlo. ...il numero è salito…lo sento ma sai....è salita anche la mia forza, la voglia di vivere, i successi. La bilancia è da molto chiusa nell’armadio...le uscite sono di più...il contatto non mi fa paura....è questo che devo mettere sulla bilancia...quella della vita...perché io non scendo a compromessi...” (Ruby) o “Come si fa a guarire se la causa si trova in famiglia? Con tutte le buone intenzioni si va dallo psicologo ma se poi si torna a casa e si trova il caos come ci si fa a difendersi? Purtroppo da un po’ di tempo ho smesso di arrabbiarmi e di piangere, sono diventata “passiva”. Ma ho iniziato ad avere sintomi fisici di origine psicosimatica. Mi chiedo: i figli che stanno male per il comportamento inaccettabile dei genitori, fino a che punto devono restarne fuori? Fino a che punto non è una cosa che li riguarda se la causa del loro stare male sono proprio i comportamenti dei genitori? Ho sbagliato a dire quello che pensavo? Avrei dovuto stare zitta? Dovrei farmi gli affari miei? Sono 25 anni che subisco tutto, questo tutti i giorni. Qualcosina dovrei pur contare. In fondo anche io faccio parte della famiglia. No? Non so più cosa 18
pensare onestamente...Perchè ci sono leggi per la tutela dei minori, delle donne (in quanto mogli, fidanzate, compagne o conviventi) e non c’è una legge per la tutela dei figli maggiorenni, quando non hanno un lavoro e dunque non possono decidere dove stare? Non è violenza anche questa?” (Genny)
disegno di Leonardo Meoni 19
DCA: malattia “trasversale” in aumento Tutto può iniziare da un buon ascolto, da un incontro con chi, finalmente, capisce cosa sta passando chi ha questa patologia. Ecco perché sarebbe opportuno capire e conoscere come creare una alleanza con chi abbiamo davanti e ci apre finalmente il suo sentire. I DCA sono diventati una vera e propria epidemia sociale, sono stati definiti una malattia “trasversale”, cioè che non conosce più confini geografici o di estrazione sociale eppure, come denuncia Lucio Rinaldi, responsabile dell’Ambulatorio per i Disturbi Alimentari al Policlinico Gemelli di Roma, ci siamo quasi rassegnati all’idea che molti giovani, anche giovanissimi, soffrano di questa malattia. Ormai nelle scuole è diventato quasi “normale” avere ragazzi che soffrono di anoressia o bulimia, quasi “fisiologico”. Spesso si evita persino di farlo notare, si agisce poco. E così accade che la bambina ha quasi smesso di mangiare oppure che il ragazzino che all’inizio si preoccupava per la forma fisica abbia trasformato questo in un disturbo grave con ossessioni implacabili. Soffrire di Disturbi del Comportamento Alimentare è come avere un corpo che parla: la vita sembra esaurirsi in chili, grammi, centimetri. Come se tutto quello che si è, si esaurisse in una forma, quella corporea, come se l’eccessiva magrezza o il sovrappeso fossero la cifra attraverso cui misurare il proprio essere umano. Ed ecco che inizia una guerra implacabile, in guerra con il proprio corpo, in lotta con se stessi. Chi vive in questo stato sono coloro che soffrono dei Disturbi del Comportamento Alimentare, disturbi che ‘mangiano’ la mente distrug20
gendo il corpo, che su di esso riversano, tramite un comportamento alimentare alterato, una sofferenza enorme, radicata in un disagio identitario. Usano il corpo e il cibo per esprimere ciò che non riescono ad esprimere con le parole, il dolore, la fatica interiore della ricerca della propria identità, la paura di affrontare le emozioni che la vita propone, il terrore che cambiando si perda l’affetto di chi prima ci vedeva sempre all’altezza, “bravi ragazzi” che erano un copia incolla delle aspettative che i genitori si erano creati. Questi Disturbi nascono dopo che per molto tempo la persona ha tenuto dentro di sé, ben nascosto, un disagio profondo e quando emergono hanno bisogno di tempo e molte cure per essere estirpati. Capita anche che a volte questa patologia “cambi faccia”, trasmigri verso una forma diversa del sintomo se non anche in altra dipendenza ( Fairburn C.J., Harrison P. J.). Tutto questo non deve comunque mai lasciare spazio alla perdita della speranza nella guarigione, perché seguendo una terapia ben strutturata si può sempre tornare ad avere una vita più che soddisfacente. Secondo gli ultimi dati del Ministero della Salute tutti i disturbi dell’alimentazione sono più frequenti nella popolazione femminile che in quella maschile: negli studi condotti su popolazioni cliniche, gli uomini rappresentano il 5-10% di tutti i casi di anoressia nervosa, il 1015% dei casi di bulimia nervosa. L’incidenza dell’anoressia nervosa è di almeno 8-9 nuovi casi per 100mila persone in un anno tra le donne, mentre per gli uomini è compresa fra 0,02 e 1,4 nuovi casi. 21
( Fairburn C.J., Harrison P. J. 2003)
Per quanto riguarda la bulimia nervosa ogni anno si registrano 12 nuovi casi per 100mila persone tra le donne e circa 0,8 nuovi casi per 100.000 persone in un anno tra gli uomini. Nell’anoressia nervosa, il tasso di remissione è del 2030% dopo 2-4 anni dall’esordio, 70-80% dopo 8 o più anni. Nel 10-20% dei casi si sviluppa una condizione cronica che persiste per l’intera vita. Sulla parola cronicità vorrei soffermarmi per specificare che è un termine usato quando la malattia persiste nel soggetto per svariati anni, ma ciò non toglie che non si possa realizzare un cambiamento. È un termine che fa 22
paura se ascoltato da chi ha il problema o dai familiari; va sempre detto invece che ogni caso è un caso a sé, che per tutti si può trovare la strada e la soluzione. Con il tempo e il lavoro sempre si può cambiare…Altro aspetto che spesso viene sottovalutato è l’importanza dell’eliminazione dello stigma: basta parlare di anoressica/o, bulimica/o, obesa/o! Identificare la persona con la malattia è un danno enorme soprattutto per chi, come per i Disturbi dell’Alimentazione, ci si “fonde” con il problema, si sta bene con il sintomo e ci si identifica in questo. Iniziamo a dire “persona con anoressia, bulimia obesità”. Ci rivolgiamo alla persona, e non alla malattia. Quindi anche il medico, e il sistema di cura nel quale è inserito, devono stabilire con il paziente una relazione che non è organizzata solo dalla diagnosi sul corpo malato ma anche dall’accoglienza dei bisogni della persona che chiede il loro intervento e, appunto, anche della persona. Ecco che anche qui ritorna forte la necessità dell’informazione e formazione magari basata sull’orientamento al paziente, condotta da psicologi esperti, che aiuti medici e infermieri a relazionarsi con chi esprime il proprio disagio con procedure meno asettiche, distanti e impersonali, mirate al coinvolgimento del paziente nel percorso di cura. Aggiungerei poi che bisognerebbe anche provvedere al sostegno psicologico delle équipe mediche e paramediche che, in splendida solitudine, affrontano situazioni altamente angosciose e traumatiche, per far fronte all’inevitabile burn-out.
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(progetto Nazionali senza Filtro di Alessandro Gimelli e il Bucaneve odv)
Il dato impressionante su questa malattia è che negli ultimi dieci anni è aumentata del 300%: nessun’altra malattia in un tempo così ha subito un tale aumento. Ecco perché può tranquillamente essere definita epidemia sociale. Nell’anno 2020 poi, come sappiamo bene, siamo stati sottoposti al Covid19 e per quello che riguarda i DCA è stato così devastante da far aumentare del 30% la mortalità (dati Ministero Salute). Per la mortalità è bene ricordare che non si muore di Disturbi dell’Alimentazione, bensì si muore perché non si è stati “aggangiati” dalle giuste cure. Il tasso di mortalità per questo problema è più alto laddove mancano le cure, dove la rete assistenziale manca e dove è difficile garantire la continuità assistenziale.
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DCA: protagonista assoluto della vita familiare Il Disturbo Alimentare è una patologia che molto probabilmente solo chi l’ha vissuta in prima persona o come familiare può davvero comprendere quanto sia invadente, prepotente e subdola, diventa protagonista assoluto in ogni momento della vita familiare e padrone di ogni attimo della relazione genitoriale e coniugale. Un terremoto, un senso di impotenza colpisce una madre e un padre, una sorella o un fratello, una famiglia insomma. La famiglia con DCA viene definita, o meglio etichettata, come famiglia disfunzionale. Sappiamo bene quanto le parole hanno un peso e quanto può questa parola pesare sul senso di colpa inevitabile che ogni genitore, soprattutto all’inizio, prova. Invece sappiamo bene che Il sistema famiglia non è una macchina eteronoma, regolata dall’esterno, ma un sistema con sue regole e con una serie infinita di possibilità di funzionamento. Parlare di famiglia disfunzionale non è del tutto proprio, perché il sistema famiglia in ogni caso si comporta secondo la propria organizzazione, realizzando la sua coerenza interna. Molte sono le domande che si pone tutto il nucleo famigliare e la sfera di affetti che sta intorno al soggetto affetto: domande come “Cosa devo fare con mia figlia? Come posso aiutarla?”, ma anche “Perchè proprio mia figlia? Cosa le è successo? Perchè è cambiata?”. È importante che i genitori o i familiari di chi soffre di un disturbo dell’alimentazione abbiano degli strumenti a disposizione per aiutare meglio i propri figli. Conoscere la malattia, comprenderla nelle sue caratteristiche e nella sua evoluzione è un passo indispensabile. La famiglia, insieme al 25
paziente che soffre di disturbi del comportamento alimentare, è da considerarsi spesso una vittima della malattia e delle sue conseguenze. I familiari vanno pertanto sostenuti, coinvolti e aiutati. Anzi, se sono disponibili in termini di tempo e salute, vanno considerati una risorsa indispensabile nel programma terapeutico. Il contributo della famiglia è fondamentale sia per quanto riguarda la prevenzione che per la cura. La sofferenza che si trova a gestire il soggetto con DCA si riversa su tutto l’ambiente familiare che si trova spiazzato da un familiare “che non sembra più lo stesso”, che “non riesce più a riconoscere”. Spesso per i genitori è difficile comprendere i meccanismi delle ossessioni di questa patologia e all’inizio si pensa che sia importante far leva sulla “forza di volontà”. Invece un disturbo dell’alimentazione è una malattia e non è una “questione di volontà”: i disturbi alimentari non sono affrontabili con la semplice forza di volontà, ma richiedono l’intervento di più persone competenti. È meglio quindi evitare frasi come: “sei tu che non ti impegni a guarire” oppure “sono sicuro che ce la puoi fare, basta che ce la metti tutta”. Quando poi una persona non ce la fa (e da soli è veramente difficile riuscirci se non impossibile), ha perso ancora una volta la fiducia e stima in se stesso e, a questo punto, anche quella dei genitori.
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disegno di Margherita Meoni
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Non dobbiamo poi mai dimenticare che il sintomo è la soluzione migliore che un componente della famiglia trova in un determinato momento per sopravvivere e per dire ciò che non può con la comunicazione verbale. Per togliere “la colpa” alla famiglia si è dovuti passare dalle teorie degli anni 70 in cui il Disturbo dipendeva dal nucleo familiare, ed in particolare dalla madre, alle nuove ipotesi formulate da Janet Treasure basate sulla multifattorialità e sul definire la famiglia una preziosa risorsa per la soluzione del problema. Certo è che nonostante la famiglia sia stata sollevata dal sentirsi unica e sola colpevole è basilare che questa si assuma la responsabilità di ciò che sta accadendo e che tutti coloro che sono coinvolti dallo tsunami del Disturbo si mettano in cammino… Su tutto questo si basa l’importanza di un ascolto nutriente e non giudicante, un ascolto che sappia che dietro l’apparente e manifestata rabbia di chi chiede aiuto si nascondono tante domande e tante paure: paura di ascoltare con attenzione i silenzi, paura di vedere, paura di sentirsi impotente, paura di chiedere aiuto e sostegno, paura di essere giudicati. L’importanza del primo colloquio Prima di parlare di come affrontare un primo colloquio, importantissimo e basilare per creare un’alleanza con chi chiede aiuto, rimarcherei la necessità di chi ascolta di STARE, di ESSERCI, anche se quasi sempre si vedrà costretto a vivere situazioni all’inizio complicate e poco gratificanti. A questo proposito vorrei riportare uno 28
scritto di Claudia Nembri, psicologa e membro de Il Bucaneve che racconta molto bene cosa vuol dire STARE in varie situazioni legate a una relazione di aiuto: “La grande fatica del mio lavoro è fare i conti con i miei limiti, trovarmi spesso ai confini di qualcosa che ci metto giorni a capire e su cui so di dover sostare. So che devo rimanere anche quando tutto va in pezzi, che a volte un ricovero significa salvare un adolescente che da solo non può più farcela. So che mentre aspetto in pronto soccorso devo tenere l’aggancio con il genitore perché non ci ripensi. So che ci sono giorni in cui è più facile vedere la luce ed altri in cui sembra che niente si muova. So che a volte di fronte a una ragazza che ti dice “tanto quando esco di qua mi ammazzo”, l’unica cosa da fare è restare, restare quando ti buttano in faccia la loro disperazione, restare quando all’ingresso della neuropsichiatria tirano su le maniche perché tu possa vedere quello che hanno provato a farsi, come a dire “lo vedi allora?”. Far piano, quando mentre aspetti di entrare, la neuropsichiatra esce dalla guardiola e chiede a una madre:” allora Signora le hanno dato le ferie? Quanti giorni? Bene signora due settimane intere, bravissima!”. Restare quando sono incazzati perché non li capisci, perché gli fai fare quello che non vogliono. “Perché mi comandi, sei veramente una rompipalle” mi dice un ragazzo, però poi sorride. Perseverare quando sai che è dura ma è per il loro bene, chiedere scusa e cambiare strada quando ti accorgi che qualcosa lo hai sbagliato. Dire, anche quando è difficile, che da quel reparto prima o poi si deve uscire perché é troppo deprivante, perché il malessere è mutato, perché non si confonda, che fuori c’è la vita. 29
Restare ancora, quando ti dicono che tanto è tutto inutile, che non cambia niente, che fa troppo male, che una vita così non ha senso. Restare anche quando non ci sono più parole, sapere che ne troveremo di nuove, che è comune ciò che ci sta a cuore.” In una patologia come quella dei Disturbi dell’Alimentazione il primo colloquio, il primo momento in cui il soggetto con sintomo o la famiglia affronta il primo contatto con chi può ascoltarli è basilare e di una importanza straordinaria. Spesso da questo primo incontro può dipendere la decisione di dare il via ad un percorso terapeutico, può succedere di valutare che davvero serve un percorso per il cambiamento. Il primo colloquio può aiutare la persona a rio-orientarsi: individuare e riconoscere il problema; cominciare a prendere in considerazione la possibilità di affrontarlo. Ovviamente, anche se pare superfluo, va sottolineato che deve svolgersi in un clima di non giudizio con un ascolto attento ed empatico e con la tutela offerta dalla segretezza professionale degli operatori. Dal primo colloquio è bene ottenere una descrizione della persona che chiede aiuto che possa servire da cornice per inquadrare in quali dinamiche si è costruito il problema. Quando una persona affronta questo primo incontro permette a chi ascolta di introdursi all’interno tre tipi di informazioni su di sé: informazioni formali, informazioni sui propri modelli comportamentali e di comunicazione e informazioni sulle proprie convinzioni, pregiudizi e valori. 30
Ascoltando e osservando chi abbiamo davanti si può recepire informazioni sui suoi modelli comportamentali e comunicativi, che probabilmente rivestono un ruolo importante nel mantenimento del problema che vuole affrontare. Inoltre questi primi momenti servono anche per conoscere i propri pregiudizi che si attivano nei confronti dell’altro, capire cosa li ha generati ed essere in grado di distaccarsi da loro per mantenere una visione oggettiva e la capacità di trasmettere un senso di accettazione completa. Il tutto senza mai perdere di vista il fatto che ogni persona è diversa dall’altra e per ognuna si dovrà trovare il giusto approccio ed ascolto. “Un guerriero della luce ha bisogno di pazienza e rapidità allo stesso tempo. I due maggiori errori di una strategia sono: agire prima del tempo e farsi sfuggire l’occasione. Per evitarli, il guerriero della luce tratta ogni situazione come se fosse unica, e non applica formule, ricette, o risoluzioni altrui.” [Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.61] Come abbiamo già detto per molto tempo la famiglia è stata considerata unica responsabile dell’insorgenza del Disturbo e per chiarire meglio come la famiglia invece va “inserita” nel percorso di guarigione partiamo da cosa la nostra Costituzione stessa ci dice: “La famiglia è l’istituzione fondamentale in ogni società umana, fondata sul matrimonio o la convivenza, con i caratteri dell’esclusività, della stabilità e della RESPONSABILITA’[…] La famiglia è il nucleo naturale e fonda31
mentale della Società e ha il DIRITTO ad essere PROTETTA dalla Società e dallo Stato […]. Quindi basta questa attenta lettura per capire che la famiglia deve assumersi la responsabilità di ciò che sta accadendo, ma che ha anche il diritto di essere tutelata, aiutata e accolta. In Italia purtroppo ancora in molte parti del territorio nazionale mancano i centri e le strutture dedicate e quindi è spesso molto complicato arrivare alle giuste cure con le conseguenze di un problema che può diventare molto grave. Tornando all’importanza del primo colloquio riporto qui le parole di Carl Rogers che bene esprimono come ci si sente se si è accolti da un ascolto vero e non giudicante: “Quando una persona capisce di essere sentita profondamente, i suoi occhi si riempiono di lacrime. Io credo che, in un senso molto reale, pianga di gioia. È come se stesse dicendo: «Grazie a Dio, qualcuno mi ascolta. Qualcuno capisce cosa mi sta accadendo».” Ascolto empatico e nutriente per creare l’alleanza Chi si pone nella condizione di ascoltare la richiesta di aiuto deve tenere ben presente di concentrarsi sul fatto che ogni individuo possiede la capacità di auto-comprendersi, di migliorare e trovare le soluzioni alle proprie difficoltà e che ogni individuo si assume la responsabilità delle proprie scelte e dei propri vissuti. Tutto questo basato su tre caratteristiche indispensabili per chi ascolta: empatia, autenticità e accettazione incondizionata. 32
A partire da questo atteggiamento, diventa possibile mettersi in ascolto: atteggiamento arduo ma essenziale quello di ascoltare una presenza che esige da ciascuno di noi una risposta, dunque sollecita la nostra responsabilità. L’ascolto non è un momento passivo della comunicazione, ma è atto creativo che instaura una con-fidenza quale con-fiducia tra i partner del dialogo. L’ascolto è un sì radicale all’esistenza dell’altro come tale: nell’ascolto le rispettive differenze perdono la loro assolutezza e quelli che sono dei limiti all’incontro possono diventare risorse per l’incontro stesso. Nell’ascoltare l’altro occorre rinunciare ai pregiudizi che ci abitano. Si tratta allora di modificare le immagini stereotipate di noi stessi e dell’altro e di riflettere sui condizionamenti culturali, psicologici, religiosi cui siamo soggetti. E quando si sospende il giudizio, ecco che si appresta l’essenziale per guardare all’altro con “sympátheia”, ossia con un’osservazione partecipe la quale accetti anche di non capire fino in fondo l’altro e tuttavia tenti di “sentire-con” lui. Il dialogo diviene così esperienza di comprensione reciproca: ci consente di passare non solo attraverso l’espressione di identità e differenze ma anche attraverso una condivisione dei valori dell’altro, non per farli propri ma per comprenderli. Dialogare non è annullare le differenze e accettare le convergenze, ma è far vivere le differenze allo stesso titolo delle convergenze: il dialogo non ha come fine il consenso ma un reciproco progresso, un avanzare insieme. Così nel dialogo avvengono le traversate nei territori sconosciuti, si aprono strade inesplorate. 33
Dopo aver creato un setting adatto, che tenga cioè conto dello spazio fisico e temporale e che abbia quell’insieme di regole che contengono e danno sicurezza all’interno di un contenitore che è la relazione possiamo dare inizio all’incontro, dare inizio alla relazione che inevitabilmente nascerà. Ogni incontro dà il via ad un processo relazionale tramite l’avvio, lo svolgimento e la chiusura. L’avvio è la parte che contiene l’ACCOGLIENZA, dove si crea il clima giusto, ci si presenta, verifichiamo la richiesta che la persona ci porta tramite informazioni del contesto e creiamo il cosiddetto “contratto”, cioè capiamo insieme su cosa c’è necessità di lavorare. E’ nella fase dello SVOLGIMENTO che metteremo in atto comprensione e sostegno perché ci focalizziamo sul vissuto per comprendere meglio i bisogni e le aspettative e di conseguenza far emergere le risorse e favorire la responsabilità di chi abbiamo davanti. Con la CHIUSURA, importantissima, verifichiamo con la ricapitolazione dell’incontro se abbiamo ben compreso e ascoltato, attribuiamo quindi un senso al colloquio e al percorso fatto. Nel salutarsi al termine troviamo l’occasione, se è necessario, di darsi un nuovo appuntamento. Potrebbero sembrare passaggi ovvii, ma è solo considerandoli importanti ed indispensabili che si può costruire un incontro che porti alla nascita di una alleanza nella relazione che si è creata . E’ solo considerando tutto questo che chi si pone in ascolto può contenere le emozioni forti e spesso incontenibili che vengono fuori durante il colloquio, emozioni come rabbia, dolore, paura, vergo34
gna, smarrimento, ignoranza, orgoglio ferito, delusione delle aspettative. Quando ci mettiamo in ascolto di chi ha un Disturbo dell’Alimentazione dobbiamo ricordare sempre che è un Disturbo egosintonico, cioè la persona si sente in sintonia coi sintomi, quindi non prova disagio, e sono ritenuti da essa coerenti col resto della personalità; la sintomatologia viene percepita dalla persona come la soluzione più vantaggiosa in un determinato momento della sua esistenza. Quindi chi vive con un DCA vive un “SUO” mondo che è diventato la “SUA” realtà e ogni altra opinione, verità o modo di vivere è inaccettabile. Quindi cosa dire o non dire per creare alleanza durante il primo colloquio con una persona che soffre di Disturbo dell’Alimentazione? In linea generale è importante non parlare di quelli che sono gli oggetti sintomatici delle sue ossessioni, cioè: cibo e corpo. Chi soffre di un disagio alimentare pensa al cibo e al proprio corpo solo da un punto di vista emotivo con poca aderenza alla realtà, mentre chi non ha questo disturbo ovviamente parla del corpo secondo il comune buon senso medico ed estetico, e questi due livelli interpretativi sono opposti. Così come spiega Rhiannon Lambert è importante non centrare la conversazione sul cibo o sul peso “anche se potrebbe essere necessario chiarire questo aspetto perché si è preoccupati, questa è una delle cose su cui una persona affetta da disturbi alimentari è particolarmente sensibile” . La radice di un disturbo alimentare va oltre il problema del cibo, riguarda lo stato interiore 35
di una persona, infatti il medico inglese sottolinea che “se si inizia a discutere sul modo in cui si assume cibo, quella persona può iniziare a sentirsi attaccata ed essere meno propensa ad aprirsi”. Evitare di parlare di cibo e corpo, ma spostare la discussione su altri temi: in particolare sugli sbalzi umorali che inevitabilmente saranno presenti in chi soffre di un sintomo alimentare. Parlare dei cambi d’umore, cercare di comprenderli, di interrogare quelli invece del corpo. Il corpo è pensato come intoccabile, come un feticcio sacro che la persona riesce a controllare e a piegare al suo ideale anoressico, almeno per un periodo di tempo iniziale, l’umore invece è ciò che certamente sfugge al suo controllo, gli fa fare e dire cose di cui poi si pente, provando vergogna e senso di colpa. Su questo tema vale la pena portare la conversazione, alla ricerca di una alleanza per occuparsi della persona stessa e non direttamente del suo problema. Bisogna sforzarsi consapevolmente di non usare un linguaggio accusatorio che possa far sentire la persona in un angolo. “Mi chiedevo se ti piacerebbe parlare di come ti senti” è un approccio più gentile di “hai bisogno di aiuto”. Anche se si può finire per ricevere risposte aggressive, è importante cercare di evitare di arrabbiarsi a propria volta e non scoraggiarsi. Rassicurarli che saremo presenti quando saranno pronti e che la nostra preoccupazione è il loro benessere. In questo tipo di relazione di aiuto ricordiamoci di dare importanza al silenzio e allo sguardo: il silenzio ha in sé numerosi significati e può dare spazio all’osservazione 36
fenomenologica di chi abbiamo davanti. Ricordiamoci poi di usare alcuni elementi basilari: o Chiarezza di linguaggio: semplice, libero da gergo o termini tecnici, di chiaro significato o Ascolto accurato: l’incapacità di ascoltare l’informazione che la persona che abbiamo davanti presenta può facilmente indurre attribuzioni erronee di significati e creare le condizioni di una relazione non equilibrata e sana o Stimoli non verbali: sono funzionali come ad esempio osservare la posizione del corpo, vari suoni come “mmm”. o Incapacità a fermarsi del cliente: di fronte ad un fluire di parole, può essere utile dire ”aspetta, aspetta, stai dicendo alcune cose veramente importanti e merita di fermarsi un momento su…”. o Il contatto visivo: il contatto degli occhi rende piacevole l’incontro ed è altamente informativo purché lo sguardo non diventi eccessivo perché può essere percepito come “minaccioso” o indagatore e quindi potrebbe causare un allontanamento nella relazione di aiuto Poiché sappiamo bene che i sintomi dei disturbi del comportamento alimentare possano essere dei comportamenti finalizzati alla ricerca di attenzione, un grido soffocato di aiuto perché incapaci di esprimere a parole ciò che si prova, è importante e necessario che sempre al termine del colloquio si dia un feedback per far com37
prendere che siamo stati attenti alla persona e a ciò che ha detto o raccontato, quindi riportiamo sempre una espressione che indichi non un consiglio o una indicazione, ma un dato di fatto di ciò che abbiamo sentito o visto, ecco alcuni modi che possono far comprendere meglio questo concetto: Mentre tu raccontavi… o Ho visto (mani chiuse, mimica, postura), o Ho ascoltato (che dicevi, citavi) o Ho immaginato (che eri arrabbiato, triste) o Ho sentito (tensione, calore) o Ho immaginato (che eri arrabbiato, triste) Può poi aiutare l’alleanza esprimere quello che noi abbiamo sentito, esporre le nostre emozioni: Adesso vedo te (che hai una posizione, il tuo viso...) o Penso (che tu sia irritato) o Sento (il mio cuore che batte forte) Tutto questo può rendere la chiusura come un momento in cui si sente che la persona è ascoltata volentieri, che è desiderata e accettata. La comunicazione usata per la chiusura segnala a chi abbiamo davanti come la relazione è cambiata o mantenuta o interrotta e quali sono le 38
possibilità di ulteriore contatto. Se è fatta nel modo idoneo ha lo scopo di rendere un secondo incontro possibile e desiderabile. Nella relazione d’ aiuto c’è un aspetto che va tenuto presente: non possiamo aiutare nessuno se prima noi stessi non siamo ben saldi nel nostro equilibrio interiore, non basta seguire il desiderio forte di aiutare senza essere pronti e ben preparati. Se non si ha ben chiaro questo si corre un grave rischio. La relazione con le persone sofferenti rischia di diventare una sorta di fune su cui chi ascolta cerca di camminare sforzandosi di mantenere l’equilibrio tra la propria essenza di esseri umani e ciò che può essere utile all’altro, per cui è bene prima conoscere noi stessi e fare un percorso interiore e di formazione all’ascolto. Iniziamo con dire che ogni essere umano vive e cresce nella continua interazione con l’altro. È attraverso lo scambio con gli altri che ognuno di noi dà significato a se stesso e alla sua esperienza. Ogni individuo è chiamato a gestire in prima persona il proprio percorso e a mettere in gioco le risorse necessarie al raggiungimento di una piena realizzazione di sé durante tutto l’arco della propria vita. L’abilità all’ascolto rappresenta la possibilità per ciascuno di promuovere la propria salute e quella dei contesti in cui vive. Quindi dobbiamo imparare ad ascoltarci, nel senso di prendere dall’esterno, dall’ambiente gli stimoli, le sollecitazioni, il nutrimento psicofisico; nel senso di individuare i bisogni e l’abitudine a decodificare i segnali che provengono dal corpo come un processo di comunicazione. Sviluppare 39
insomma le cosiddette lifeskills, parola molto usata ultimamente e che significa quella competenza specifica personale di ascoltare e poi usarla nel processo di trasformazione e cambiamento personale. Dobbiamo poi avere ben chiaro cosa è una relazione di aiuto, cioè quell’ intervento affinché un progetto di vita possa sostenersi e che viene attivata in quelle situazioni in cui le risorse personali del soggetto non sono più sufficienti per affrontare in modo adeguato una situazione critica, serve quindi per promuovere la crescita e sostenere il cambiamento dell’altro. “…è come il lavoro di un giardiniere coscienzioso e attento che cura le sue piante con premura cercando di farle crescere, dando loro ciò di cui necessitano in base ai loro bisogni individuali. Un buon giardiniere è consapevole che la pianta deve crescere da sola senza essere asfissiata e sa che quando questa sarà diventata un albero e avrà messo solide radici non avrà più bisogno del suo supporto.” (F. Batini (2001). Più chiaramente cosa si intende per aiuto? o Accompagnare il riconoscimento e il superamento delle difficoltà incontrate nel proprio cammino (di crescita o di sviluppo) o Aumentare capacità di chiedere aiuto e livello di consapevolezza del problema o Favorire crescita in un rapporto di interscambio con chi offre aiuto o Sostenere attivazione di risorse di cui la persona dispone ma che al momento non riesce a recuperare 40
o Deve essere centrato sulla persona che chiede aiuto, il cui bisogno va letto nella peculiarità del suo originarsi Sul chiedere aiuto a volte dimentichiamo che chiedere aiuto quando necessario è un atto di umiltà e coraggio, riconoscendo il fatto che abbiamo strumenti che ci fanno aumentare le nostre possibilità e azioni, nei nostri obiettivi e nelle nostre difficoltà. Più diventiamo adulti e più risulta difficile chiedere aiuto, eppure crescere non significa che non abbiamo bisogno degli altri, non vuol dire che dobbiamo affrontare il mondo da soli, soprattutto non significa che non possiamo farci aiutare. Un altro motivo per cui ci risulta difficile chiedere aiuto è perché non vogliamo che l’altra persona conosca i nostri problemi, forse perché ci vergogniamo di questi. Questo è spesso il caso di chi soffre di una dipendenza. Alla base di questa vergogna vi è la convinzione che gli altri ci ameranno di meno considerandoci dei falliti, e la paura di essere giudicati. In realtà, quando una persona ama veramente qualcuno, sarà disposta a fare di tutto per evitargli delle sofferenze e quindi non smetterà di amarla per un problema specifico. Al contrario, proverà ad aiutarla. Oppure rimandiamo il momento della richiesta di aiuto per orgoglio: cioè, alcuni pensano che sia sinonimo di riconoscere che hanno commesso un errore o che non sono in grado di fare qualcosa da soli. Al contrario, l’atto di chiedere aiuto non rappresenta una sconfitta, non è una capitolazione, invece, è un atto di coraggio che coinvolge il riconoscere i nostri limiti, ma essere anche pronti a superarli con l’aiuto di un’altra persona. Quando usciamo da un periodo difficile in cui abbiamo 41
dovuto lottare per superare un problema o una malattia, dopo può succedere che si senta forte il desiderio di aiutare chi può passare per la nostra spessa esperienza e “ci buttiamo” seguendo il nostro cuore. Ma prima di metterci in una relazione di aiuto, qualunque essa sia e sicuramente in una relazione di aiuto verso chi ha un DCA, dobbiamo avere ben chiaro che solo il cuore non basta. Quindi come aiutare? Ci sono degli elementi fondamentali che dobbiamo fare nostri e cioè: ascolto, competenza emotiva e cura di sé. Praticare e usare l’ascolto attivo significa ascoltare il verbale, il non verbale e trasmettere la sensazione che stiamo ascoltando veramente. Non lasciamoci convincere dal fatto che la parte verbale sia la cosa che più conta nell’ascolto perché è stato dimostrato che invece occupa solo una minima parte del tutto e precisamente solo il 7%. Il vocale, cioè il volume, il tono con cui si parla, il ritmo occupa il 38% e i movimenti del corpo il 55%.
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Poniamoci sempre davanti all’altro con la considerazione positiva, cioè io credo in te, in ciò che dici e sei e so che puoi riuscire a trovare le risorse per te stesso. Siamo autentici, cioè ascoltiamo solo se siamo davvero pronti per farlo, molto meglio rimandare se quel momento non è giusto anche per noi. Ed infine impariamo l’empatia nel modo così come ci viene descritta da Carl Rogers: “...sentire il mondo più intimo dei valori personali del cliente (dell’altro) come se fosse proprio, senza però mai perdere la qualità del “come se”...sentire la sua confusione, o la sua timidezza, o la sua ira o il suo sentimento di essere trattato ingiustamente come se fossero propri, senza tuttavia che la propria insicurezza, o la propria paura o il proprio sospetto si confondano con i suoi.” È quel “come se” che fa la differenza: quelle emozioni come se fossero nostre ma con la piena consapevolezza che appartengono all’altro. Questo ci consente di poter davvero supportare chi abbiamo davanti, senza farci invadere dall’emozione e dal dolore. Grazie all’empatia, chi ascolta è in grado di sintonizzarsi sulle frequenze di chi parla, connettendosi emotivamente, facendolo sentire ascoltato e comprendendone le esigenze. In questo modo, le persone si sentono protette nel condividere sensazioni, esperienze ed emozioni, non temendo di essere giudicate o criticate. Essere empatici significa anteporre le esigenze degli altri alle nostre e, prima di parlare, sforzarsi di ascoltare anziché criticare, offrire sostegno anziché giudicare, provare a capire. Trattandosi di una capacità, e non solo di un’attitudine, l’empatia nell’ascolto può essere imparata e allenata con la pratica. 43
Essere empatici non significa obbligatoriamente essere d’accordo con tutto e tutti; si tratta di provare ad osservare una situazione da un punto di vista differente rispetto al proprio, e comprendere l’altro fino in fondo. Non tutti possiedono naturalmente questa abilità, e non trovano quindi sempre facile immedesimarsi nelle situazioni altrui, capire le sensazioni e fare sentire a proprio agio l’interlocutore. Come è possibile allora sviluppare e allenare con pazienza l’empatia? Solitamente, l’empatia nasce dalla consapevolezza di sé e dalla capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni. Il valore dell’empatia è ancora più alto oggi, visto il contesto nel quale tutti ci troviamo a lavorare, fatto di tempi sempre più ristretti e di sempre meno pazienza, in cui ci aspettiamo che ogni desiderio sia immediatamente realizzato. Prendersi del tempo e dedicarlo all’ascolto degli altri, senza fretta di volere esprimere un’opinione o un giudizio, fa parte degli esercizi utili ad allenare l’empatia. E’ solo attraverso la competenza emotiva che quando ci mettiamo in una relazione di aiuto evitiamo il rischio di cadere in un rapporto non sano e non nutriente per l’altro, ricordiamoci sempre che esiste il pericolo nella relazione con le persone sofferenti di camminare su una sorta di fune su cui chi ascolta cerca di camminare sforzandosi di mantenere l’equilibrio tra la propria essenza di esseri umani e ciò che può essere utile all’altro.
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Riconoscere le proprie emozioni per saper riconoscere l’altro Forse troppo spesso sottovalutiamo la forza e l’importanza delle emozioni, eppure è proprio tramite le emozioni che ci muoviamo, che arrivano quegli impulsi ad agire, quei piani di azione dei quali ci ha dotato l’evoluzione per gestire in tempo reale le emergenze della vita. Sembra che questa reazione fisiologica si sia modellata nel corso dell’evoluzione della specie in risposta a situazioni di pericolo nelle quali il fermarsi a pensare cosa fare poteva costare la vita. Tutto questo può farci riflettere su quanto sia nocivo far finta di non provare certe emozioni, o ignorarle addirittura. Sicuramente, prima o poi, ciò che non vogliamo sentire o ammettere a noi stessi si riaffaccerà e probabilmente in malo modo. Quindi quando proviamo emozioni diverse (rabbia, paura, gioia, tristezza ecc) è importante: o riconoscerle per capire a quale rappresentazione della situazione sono collegate (paura di perdere cosa?, tristezza per aver perso che cosa?, rabbia perché qualcosa non va come mi aspettavo?, gioia per aver raggiunto q.sa? …). o esplorarle, rappresentandole come parti di me o accettarle per verificarne la loro adeguatezza riducendo eventuali amplificazioni cognitive o capire quale è la funzionalità positiva per me in quel momento e utilizzarle come energia creativa (che cosa, questa emozione, mi suggerisce di fare?) 45
Come conclusione dobbiamo dire che per creare quella alleanza indispensabile per costruire una relazione di aiuto che sia nutriente per tutte e due le parti che si mettono in contatto, dobbiamo umanizzare l’incontro: stare in contatto con se stesso, avere davvero interesse per la persona in quanto tale che abbiamo davanti, imparare a vedere il mondo dell’altro dal suo punto di vista, senza filtri personali, e non aver paura di comunicare ciò che empaticamente ci arriva. “Avere il gusto dell’altro”. Così Michel de Certeau, definiva il primo, il fondamentale passo di un cammino di umanizzazione dell’incontro, dove “l’altro è colui senza il quale vivere non è più vivere”. L’umanizzazione si gioca infatti nel rapporto tra l’io, il noi e gli altri, anche se troppo spesso ricorriamo sbrigativamente alle categorie 46
di “noi” e “gli altri” per contrapporle, sperando così di essere agevolati nell’affrontare problemi, risolvere situazioni intricate, giustificare atteggiamenti e incomprensioni. Eppure sappiamo bene quanto sia arduo definire i confini tra queste due entità e, ancor di più, stabilire con certezza chi appartiene all’una o all’altra, in che misura e per quanto tempo. Quando giustapponiamo i due termini, in realtà intraprendiamo un percorso suscettibile di infinite varianti: ci possiamo infatti inoltrare su un ponte gettato tra due mondi, oppure andare a sbattere contro un muro che li separa o ancora ritrovarci su una strada che li mette in comunicazione. Possiamo anche scoprire l’opportunità di un intreccio fecondo dell’insopprimibile connessione che abita noi e loro. Sì, perché ciascuno di noi – e anche degli altri – esiste e trova la propria dimensione pienamente umana in quanto essere-in-relazione: con quanti lo hanno preceduto, con chi gli è o è stato accanto, con coloro che ha avuto o avrà modo di incontrare nella vita, con il pensiero, la vita e le azioni di persone che non ha mai conosciuto personalmente e perfino con chi non conoscerà mai ma che contribuisce con la sua esistenza, le sue gioie e le sue sofferenze a quel mirabile corpo collettivo che è l’umanità. Ma allora come intraprendere e percorrere cammini di dialogo e di comunicazione con l’altro, capaci di condurre gli interlocutori a un’autentica umanizzazione? Forse innanzitutto occorre riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscere la sua dignità di essere umano, il valore unico e irripetibile della sua vita, la sua libertà, la sua differenza. Incontrare l’altro significa anche porsi come responsabi47
le di lui senza attendersi reciprocità. Ciò che l’altro può fare nei miei confronti riguarda lui, ma la responsabilità verso di lui impegna radicalmente la mia persona. Ecco la vera via dell’umanizzazione, quella “responsabilità” per l’altro che, come ci ha insegnato Lévinas, è “la struttura essenziale, primaria e fondamentale della soggettività”. È così che la vicenda dell’incontro con l’altro si fa via di umanizzazione, cammino verso un orizzonte comune, una speranza condivisa, una terra più abitabile. Sarebbe davvero importante, per tutti, fare nostre le parole di Carl Rogers: “È così facile curarsi degli altri per ciò che io penso che siano, o vorrei che fossero o sento che dovrebbero essere. Curarsi di una persona per quello che è, lasciando cadere le mie aspettative di ciò che essa dovrebbe essere per me, lasciando cadere il desiderio di modificare questa persona in armonia con le mie esigenze, è la via più difficile, ma anche la più maturante, verso una relazione intima più soddisfacente.” Per tornare alla domanda iniziale “Quanto ci vuole?” forse ad ogni famiglia, ad ogni genitore, fratello, sorella, amico che si pone questa domanda per sapere per quanto tempo ancora dovrà vedere soffrire chi ama, bisognerebbe provare a spiegare che in ogni relazione serve tempo, 48
soprattutto in quella con se stessi. Ogni persona che soffre di un Disturbo dell’Alimentazione deve capire come conoscersi, come amarsi, come entrare in contatto con il mondo. E ci vuole tempo…Nulla però è più appagante di quando questo accade e di quando alla fine di quel percorso iniziato con quel “Quanto ci vuole? Arrivano parole così: “Maggio 2018.Non ero pronta. Eppure ero una mamma consapevole, “preparata” che aveva coscienza e conoscenza del problema. E nonostante abbia partecipato ad incontri, gruppi di ascolto e sentito testimonianze, mi sono trovata con la cassetta degli attrezzi dolorosamente vuota. Mi sono sentita a disagio con me stessa, arrabbiata per sentirmi inadeguata ad aiutare mia figlia che aveva bisogno. Le parole giuste sono arrivate , la persona giusta l’ho trovata: Maria Grazia, come amica quale è e non solo, ha portato con sé tutto il valore cresciuto negli anni de il Bucaneve. Sapevo cosa fare ma non come. E in questo corso che avete realizzato Maria Grazia, Stefania e Claudia ho rivissuto il mio percorso che ancora prosegue. Ho avuto tante risposte e mi si sono aperte nuove finestre di dubbi come è giusto che sia. Ho avuto la conferma che stiamo facendo bene come famiglia forse anche noi disfunzionale, con il nostro nuovo vocabolario rielaborato, con ciò che si può e non si può dire; il linguaggio del corpo in continua “correzione” sempre in allerta per non “sbagliare”. Ma siamo in equilibrio, siamo uniti e insieme, consapevoli che va meglio ma che non è finita. Grazie Cristina, una mamma” 49
Bibliografia “L’invenzione del quotidiano” - Michel de Certeau, 1980 – Feltrinelli “Terapia centrata sul cliente” – Carl Rogers, 1951 – Giunti “Manuale del guerriero della luce” – P. Coelho, 1997 – La nave di Teseo SPA “Intelligenza emotiva. Che cos’è, perché può rendere felici” Goleman D. (1999) BUR, Rizzoli, Milano “Relazioni efficaci” - Gordon T. (2005), La Meridiana, Molfetta (BA) “Pragmatica della comunicazione umana” - Astrolabio, Roma - Watzlawick P., Beavin J.B., Jackson D.D. (1971)
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Seconda parte di Claudia Andrea Maria Nembri
“Per rimarginare la vita servono coraggio, fortuna e un luogo comune in cui dipanare il racconto prudente di sé.” (Laura Imai Messina – Quel che affidiamo al vento) DENTRO LA CURA SI PUO’ GUARIRE? Tutti noi sappiamo molto bene, quanto sia faticoso essere delle persone, con le nostre vulnerabilità, le nostre paure ed insicurezze, i nostri desideri e le nostre storie. Per questo, dovremmo cercare di essere sempre discreti e gentili quando abbiamo a che fare con il dolore degli altri e con il nostro. Quando qualcuno mi domanda: “Si può guarire?”, sento di commuovermi profondamente perché comprendo che il termine “guarigione” non comunichi fino in fondo ciò che davvero per una persona può significare. Come si può dire che è possibile vivere il mondo in modo diverso? Le relazioni in modo diverso? La vita in modo che sia vita sentita, sofferta, amata e desiderata? Non ci sono parole per dirlo, tuttavia, lo possiamo sentire e lasciare che dentro di noi quella sensazione trovi uno spazio, così 51
che, magari, un po’ di quello spazio, possa farsi largo anche nell’Altro, in colui o colei che ci pone la domanda. E in quello spazio può accadere di tutto. Capita che, ad un primo sguardo superficiale, le persone non si capacitino che il disturbo del comportamento alimentare non sia una questione “di cibo”. È un aspetto così ovvio l’atto di mangiare che non si riesce a non considerarlo come qualcosa di semplice, banale. In questi termini, diventa banale anche la soluzione al problema. “Allora perché non guarisci? Perché non mangi e basta? Tu non vuoi guarire!”. Ecco perché, a mio avviso, spesso chi non sa, tira in ballo la volontà; tuttavia, quando ci si ammala, non si tratta di volontà ma di impossibilità nel comunicare in altro modo il proprio malessere. E c’è un’enorme differenza. I disturbi del comportamento alimentare, infatti, sono un mezzo attraverso cui la psiche di una persona cerca di curare un malessere profondo; in questo senso il problema alimentare rappresenta una sorta di autocura, la cosa migliore che una persona ha potuto fare per se stessa in un dato momento. Per questo, la guarigione è qualcosa di estremamente complesso: si vuole essere liberi da quella enorme sofferenza ma si teme terribilmente l’essere privati di quel sostegno. Chi svolge una professione di cura dovrebbe sapere che è importante muoversi con cautela, che lo stare meglio non coincide con la sola normalizzazione del peso o con una remissione della sintomatologia alimentare in quanto tale, che la fatica è una fatica immensa, che il dolore è un dolore ancestrale e che, solo in seguito ad una pro52
fonda trasformazione dell’assetto psichico, sarà possibile dire che è avvenuto un cambiamento nella persona, nella sua vita e nel suo stare nel mondo. La guarigione, quindi, non corrisponde alla riduzione sintomatica della malattia ma ad una ricollocazione dell’individuo al centro della propria esistenza. La guarigione è un percorso. Inoltre, non possiamo credere che sia utile “togliere” a una persona il sintomo con la forza, perché non lo è. Quella sofferenza verrà fuori inevitabilmente da un’altra parte. Solo attraverso la comprensione del significato del sintomo, si aiuterà la persona a stare meglio. Ecco perché questa trasformazione richiede tempo. Per riprendere allora la domanda iniziale: “Si può guarire?”
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Nella mia esperienza, la risposta a questa domanda è che sì, si può guarire e, dopo aver fatto un lavoro su se stessa, la persona potrà arrivare ad avere una vita-VITA. Per questo, è fondamentale chiedere aiuto, ancora di più e fondamentale chiedere aiuto a chi sappiamo che quell’aiuto può darcelo.
“Vorresti dirmi che strada devo prendere, per favore?” chiese Alice “Dipende, in genere, da dove vuoi andare”, rispose saggiamente lo Stregatto. (Lewis Carroll- Alice nel paese delle meraviglie) SE NON ORA, QUANDO? Quando una persona si ammala, si trova come ad un bivio. Per questo, ho sempre amato molto il paragrafo in cui Alice chiede allo Stregatto che strada debba prendere. È vero che tutto dipende da dove vogliamo andare. Sapere come stiamo, sentirlo e poterlo vivere, ci consente di capire quale direzione vorremmo prendere. Vogliamo mantenere le cose così come sono anche se ci fanno soffrire? Vogliamo provare a vedere cosa succede se cambiamo strada, se guardiamo dentro di noi? Cosa 54
accade se ci allontaniamo dalla strada di cui conosciamo ogni bivio, ogni angolo? Quella strada che conosciamo bene in parte ci rassicura ma, in parte, ci tiene in ostaggio.
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Certo, prima si chiede aiuto prima si riesce a stare meglio ma non dobbiamo credere che non ne valga più la gioia se è passato tanto tempo. Non ho sbagliato a scrivere, uso volutamente il termine “gioia” al posto di “pena”. Tempo fa me lo fece notare una persona che continuava a sottolineare quanto, nella sua esperienza, avesse potuto notare come gli esseri umani fossero dediti al sacrificio: “Credo che il detto che tutti conosciamo sia sopravvalutato, dal mio punto di vista, ne dovrebbe valere la gioia, non la pena”. Ci ho messo un po’ a capire, ma credo proprio che avesse ragione. Scegliere di intraprendere un percorso, accettare aiuto, essere disposti a correre il rischio e affidarci ci permetterà di scoprire che il mondo non è sempre una prigione di indifferenza e disinteresse, che una vita diversa è sempre possibile e che non esiste un dolore più grande di quello di non vivere. E allora, se non ora, quando?
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“Esiste un curioso paradosso: quando mi accetto così come sono, allora posso cambiare.” (Carl Rogers) COSA ACCADE QUANDO CHIEDIAMO AIUTO? Nel corso della nostra vita ci potrà capitare di romperci un braccio o una gamba, potrà capitare che il nostro corpo si ammali per le più svariate ragioni. Ebbene, anche la nostra psiche può ammalarsi e questo ci spaventa enormemente. Oggi ci sono ancora una serie di barriere culturali e sociali che fanno apparire la richiesta di aiuto, il malessere psicologico/psichiatrico, il rivolgersi ad uno/a psicoterapeuta, ad uno/a psicologo o a uno/a psichiatra come qualcosa di cui vergognarsi, come una debolezza. Qualcosa di sbagliato che va assolutamente nascosto. Lo stigma, che si basa su pregiudizi e stereotipi, di frequente è associato ad atteggiamenti discriminatori. Per questo motivo molti non riescono a chiedere aiuto. È molto difficile poter dire in generale che cosa accada nella stanza dello/a psicoterapeuta, poiché ogni essere umano è unico, così come i legami che si vengono a creare tra le persone: l’alleanza che si crea tra terapeuta e paziente è proprio ciò che è indispensabile per poter iniziare un percorso di cura insieme. Nel caso dei disturbi del comportamento alimentare credo che essere psicoterapeuti, tuttavia, non sia sufficiente e che sia, anzi, necessario avere una preparazione speci57
fica nel campo, altrimenti, si rischia davvero di non riuscire ad aiutare chi soffre e di curare male. In base alla persona e alle sue esigenze, inoltre, si potrà valutare, ad esempio, se consigliarle di intraprendere una terapia individuale, una terapia di gruppo o magari entrambe se questo può avere senso. Semplificando davvero al massimo: la psicoterapia individuale coinvolge il terapeuta e la persona portatrice di una sofferenza in una relazione diadica, mentre la psicoterapia di gruppo si focalizza sulle interazioni tra i partecipanti. La condivisione della sofferenza permette di uscire dall’isolamento e dal sentimento di vergogna. Il gruppo diventa in questo senso un luogo terapeutico in cui la persona può parlare di sé o ascoltare gli altri. Quale terapia è la migliore? In realtà, non c’è una terapia migliore di un’altra: nell’arco della nostra vita attraversiamo diverse fasi e ognuna di queste fasi può richiedere strumenti diversi perché le si possa attraversare al meglio. È faticoso, ma penso che la terapia possa essere una meravigliosa occasione per dare una nuova lettura alla nostra storia e alle nostre relazioni passate e presenti. In questo, il/la terapeuta sarà sempre e solo una guida, perché la verità è che nessun cambiamento è mai possibile senza la persona. Anche dopo tanto tempo, non è mai tardi per chiedere aiuto.
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“[…] Questa non è una favola e dunque, come in tutte le storie vere, ci saranno, nella vita di Matteo come in quella di ciascuno di noi, giorni di pioggia e forse anche di temporale, e momenti bui, e lutti e tristezze e forse anche occasioni di disperazione. Nessuna psicoterapia può evitare tutto questo, né questo è il compito di nessuna psicoterapia. La speranza è che quando i momenti di tristezza verranno, Matteo sia capace di riconoscerli, accettarli, esprimerli e, quando sarà necessario (e questo non vale solo per lui ma per tutti noi) emozionarsi e piangere.” (Fabio Celi- Psicopatologia dello sviluppo, pag.594) Ecco, io credo che un percorso di cura, come prima cosa, debba dare speranza.
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IL TRATTAMENTO MULTIDISCIPLINARE C’è una cosa che chi svolge una professione di cura non può mai dimenticare, ovvero, il fatto che si lavora con delle persone. Non esiste un trattamento che vada bene per tutti poiché ognuno porta con sé la propria storia personale, familiare, talvolta anche transgenerazionale complessa ed unica (Scoppetta, 2017). Questo cambia ogni cosa e significa che ogni trattamento dovrebbe, quindi, essere incentrato sulla persona, dovrebbe essere cucito su misura per quella persona. Un percorso di cura per Anna, per Luca, per Alessio, per Daniela; ecco la sfida per chi svolge una professione di cura. Questo ci ricorda anche quanto sia importante non dimenticare che diagnosi e persona non coincidono: non dobbiamo perdere mai la persona dietro alla diagnosi, quella ci serve per capire delle cose, per indirizzare la cura. Ma prima c’è sempre la persona. Solo guardando alla persona, infatti, abbiamo accesso al significato profondo di una storia, della sua storia. Solo offrendo un ascolto altro è possibile offrire un altro ascolto, andando alla ricerca della soggettività della persona. La presa in carico, quindi l’assunzione di determinate responsabilità terapeutiche verso un individuo e la sua sofferenza (Ballerini, 1994), quando riguarda persone che soffrono di un disturbo del comportamento alimentare, dovrebbe essere concepita in termini multidisciplinari ed integrati. Ciò significa strutture di cura che vedano coinvolti un team di specialisti in discipline differenti. Questo “team approach” dovrebbe prevedere idealmente sempre cure 60
psicoterapiche, cure mediche, cure nutrizionali e, se necessario, cure psichiatriche (Scoppetta, 2017). Perché si possa davvero aiutare la persona è necessario che i professionisti mantengano vivo il lavoro di rete senza mai smettere di dialogare tra loro. Se mancano dialogo e confronto tra coloro che vanno a formare l’equipe di base, il rischio è che la persona racconti un po’ all’uno e un po’ all’altro, senza che quei pezzi vengano mai riuniti in una visione d’insieme. Questo genera confusione nei curanti e nella persona stessa ed è uno dei rischi maggiori a cui può andare incontro questo tipo di approccio. Nella pratica, sia in ambito pubblico sia in ambito privato, tutto questo si realizza con non poche difficoltà e le richieste rispetto alle risorse del territorio continuano ad essere insufficienti e disomogenee tra regione e regione. Su questo aspetto, nei prossimi anni, ci sarà ancora tanto lavoro da fare. Continuiamo ogni giorno a batterci per questo: accessibilità alle cure per tutti sull’intero territorio perché nessuno resti indietro.
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From small things, big things one day come... 62
I LIVELLI ASSISTENZIALI Il trattamento di chi soffre di un disturbo del comportamento alimentare, dovrebbe realizzarsi all’interno di diversi livelli di assistenza: ambulatorio, day hospital o centro diurno, comunità terapeutiche o strutture residenziali e reparto ospedaliero (Scoppetta, 2017). Sulla base dell’assessment, ossia di una valutazione clinica multidisciplinare iniziale che prenda in considerazione diversi elementi e la persona in quanto tale, si imposterà il progetto terapeutico e si valuterà il livello assistenziale più adeguato. Si tratta di un processo molto complesso. Secondo un modello a passi successivi, il primo accesso dovrebbe essere quello ambulatoriale poiché meno invasivo, in modo da accedere ad un livello seguente in caso di mancato miglioramento o se dovesse essere necessario un intervento più intensivo. L’ambulatorio, che consente alla persona di mantenere inalterato il proprio funzionamento globale (ci si reca, infatti in ambulatorio 2-3 volte a settimana ma, nel contempo, si continua con la propria vita), svolge compiti di prima accoglienza, diagnosi, consulenza, rinforzo della motivazione ed eventuale filtro per i successivi livelli terapeutici. In caso di peggioramento o non miglioramento della situazione entro un certo periodo di tempo, si potrà indicare il passaggio ad un livello successivo, ad esempio, il centro diurno, una struttura semiresidenziale dove è sempre presente un monitoraggio delle condizioni cliniche della persona associato alla riabilitazione nutrizionale. 63
Successivamente, può essere effettuato il passaggio ad una struttura residenziale o ad una comunità terapeutica, dove il ricovero avviene sulla base di una lista di attesa. In alcune situazioni specifiche ha senso pensare come prima proposta ad un trattamento residenziale o a una comunità terapeutica, ad esempio, in quei casi in cui la persona sia da molti anni in una grave condizione di sottopeso, quando chi soffre arriva dal professionista in assenza di una domanda di cura propria con scarsa motivazione e di consapevolezza di malattia, oppure quando vi è anche un grave disturbo psichiatrico associato, piuttosto che gravi condotte autolesive (Scoppetta, 2017). Infine, abbiamo il ricovero in ambiente ospedaliero che può rivelarsi sia uno strumento salva-vita in condizioni estreme, sia un momento transitorio per fare accertamenti medici o per preparare la persona all’ingresso in una struttura residenziale o in una comunità terapeutica (Scoppetta, 2017). Idealmente, ad ogni livello di trattamento sarebbe importante che venissero garantiti un approccio e un supporto adeguato anche alla famiglia che può diventare un’importante risorsa nel percorso di guarigione di coloro che soffrono. La malattia di un figlio, di una sorella, di un fratello, di qualcuno che amiamo, inoltre, può essere un’importante occasione per mettersi in discussione, perché quando la malattia entra in una casa non è mai solo del singolo. La terapia familiare e i gruppi terapeutici per i familiari, ad esempio, possono diventare una risorsa davvero importante. In parole molto semplici, la terapia fami64
liare si focalizza sul sistema famiglia e sulle dinamiche complesse che si vengono a creare al suo interno, mentre i gruppi terapeutici per i familiari sono un’occasione di ascolto e confronto reciproco con persone che vivono situazioni simili. Il gruppo può aiutare a comprendere meglio, ad esempio, i meccanismi della malattia di chi soffre di un disturbo del comportamento alimentare, a mettere in atto delle strategie più funzionali e a far sì che si possa imparare DA e CON altri mettendo a confronto i propri vissuti, rompendo in questo modo il senso di isolamento e vergogna. Tempo fa, la mamma di una ragazza che stava molto male mi disse, commuovendosi dopo tanta fatica, che mettersi in discussione le aveva concesso di “scoprirsi capace di chiedere aiuto” e questo, per lei, significava un nuovo inizio.
“Accadono cose che sono come domande, passa un minuto oppure anni, e poi la vita risponde.” (Alessandro Baricco) PARLARSI A volte la vita ci mette a dura prova, ci sono delle situazioni che ci fanno soffrire enormemente, che ci riempiono di domande, di dubbi. Ci riempiono di solitudine e di paura. 65
Spesso i genitori, di fronte alla malattia di un figlio o di una figlia, si sentono colpevoli, una delle prime domande che si pongono e che pongono ai curanti è: “Perché è accaduto? È colpa nostra?” Come riportato in letteratura, l’eziologia dei disturbi del comportamento alimentare è multifattoriale, vanno cioè considerati i fattori psicologici, evolutivi e biologici; questo, in parole semplici, significa che non c’è un unico motivo per cui ci si ammala. Quando mi capita di parlare con i genitori, rifletto sempre insieme a loro sul fatto che c’è un enorme differenza tra colpevolizzarsi e riflettere sul concetto di responsabilità. La colpa immobilizza, mentre accettare la responsabilità significa accogliere la nostra vulnerabilità in quanto esseri umani, ognuno con il proprio vissuto. Significa dare e darsi una possibilità, riconoscendo la propria storia e trasformandola in risorsa. Quanto tempo ci vuole per stare bene? La verità è che non lo sappiamo, proprio perché ognuno di noi è unico così come ogni processo terapeutico. Marta Scoppetta, psichiatra e psicoterapeuta, sottolinea in un suo scritto la distinzione tra fattori di mantenimento, cioè i fattori che allungano i tempi del disturbo alimentare e i fattori terapeutici, ossia i fattori che accelerano i tempi della cura. Tra i fattori di mantenimento troviamo, ad esempio, tutti i trattamenti monodisciplinari composti da un unico approccio terapeutico, oppure trattamenti incompleti che necessiterebbero di un passaggio ad un altro livello 66
assistenziale che, per varie ragioni, non viene effettuato. Oppure quelle condizioni che, anche inconsapevolmente, fanno sì che abbia senso per chi sta male continuare a stare male. In ultimo, le fratture terapeutiche, quali ad esempio le dimissioni precoci o il rivolgersi continuamente a nuovi professionisti interrompendo di frequente i percorsi precedenti (Scoppetta, 2017). Rientrano tra i fattori terapeutici, invece, la disponibilità dei genitori o dei familiari a mettersi in discussione, una rete di curanti competente e capace di dialogare mantenendo vivo il lavoro di rete e, infine, la capacità dei vari professionisti di approcciarsi alla persona in quanto persona, ovvero nella sua unicità (Scoppetta, 2017).
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Il percorso di cura richiede tempo, la guarigione richiede tempo, perché la vita stessa richiede tempo. “Tornerà mai ad essere quella/o che era prima?”. La mia personale risposta a questa domanda è sempre la stessa: spero proprio di no. La malattia di qualcuno in famiglia indica che qualcosa si è rotto, non si può più fare finta di niente. Se la persona sceglierà di mettersi in gioco e se lo faranno anche i suoi cari, ma anche se non lo faranno, la persona che sceglierà di fare un lavoro su di sé, uscirà da tutto questo cambiata, non per forza in meglio o in peggio, semplicemente diversa. Qualora la famiglia non fosse disposta o non avesse le risorse per mettersi in gioco, non scoraggiamoci, possiamo fare comunque un percorso per noi stessi. Certo, sarà difficile ma le cose importanti lo sono sempre.
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OLTRE IL DSM- 5. LE NUOVE FORME DEI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE Attualmente, sono due le classificazioni dei disturbi del comportamento alimentare maggiormente utilizzate: quella proposta dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) e quella proposta dalla Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati (ICD-10). Negli anni, si è potuto osservare accanto alle forme più conosciute (anoressia nervosa, bulimia nervosa, disturbo da alimentazione incontrollata e i disturbi alimentari non altrimenti specificati - i disturbi sottosoglia) l’emergere di nuove forme “ibride” di disturbi del comportamento alimentare. Alcuni comportamenti, legati a queste forme “ibride”, possono passare inosservati ma rischiano di prendere la forma di ossessioni vere e proprie, andando a gravare in modo incisivo sulla qualità di vita della persona. Rientrano tra queste “nuove forme” ad esempio ma non solo, l’ortoressia, la vigoressia e la drunkoressia. Il primo a parlare di ortoressia fu Bratman nel 1997. Chi soffre di ortoressia mostra una preoccupazione eccessiva per un’alimentazione sana, in particolare per la qualità del cibo e non per la quantità. L’autostima in chi soffre di ortoressia è fortemente influenza da ciò che l’individuo mangia, va da sé che possano verificarsi screzi nei confronti di coloro che, ad esempio, non condividono le stesse idee rispetto al cibo, senso di colpa in caso di 69
trasgressione rispetto alla dieta che ci si è autoimposti e il progressivo scadimento del funzionamento lavorativo e sociale. La prevalenza del disturbo sembra essere maggiore tra gli uomini (11.3%) piuttosto che tra le donne (3.9%) (Donini et al.,2004). Questa condizione non è inserita nel DSM-5, tuttavia, in chi soffre di ortoressia l’immagine corporea sembra essere prevalentemente integra, per tale motivo alcuni autori propendono a farla rientrare tra i disturbi ossessivi piuttosto che tra i disturbi del comportamento alimentare (Brytek-Matera, 2012). Il termine vigoressia (conosciuta anche come bigoressia o complesso di Adone) sta ad indicare la “fame di grandezza”, si tratta, infatti, di quella condizione in cui persone molto muscolose continuano a vedersi minute e poco prestanti. Il primo a parlarne fu Pope nel 1993 che, inizialmente, la chiamò “reverse anorexia”, cioè “anoressia inversa”, perché i sintomi richiamano quelli dell’anoressia: infatti, così come la persona che soffre di anoressia quando si guarda allo specchio vede se stessa come enorme, la persona che soffre di vigoressia vede se stessa poco muscolosa e poco atletica. L’autostima è fortemente correlata all’aspetto fisico e all’essere muscolosi. Anche questa condizione, come l’ortoressia, sembra avere una prevalenza nel sesso maschile (Lindstrom et al.,1990), in parte, probabilmente, per via degli stereotipi culturali legati alla forma fisica maschile. 70
Attualmente la vigoressia è inquadrata all’interno dei disturbi ossessivo-compulsivi e disturbi correlati nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali come “disturbo di dismorfismo corporeo con dismorfia muscolare” (Scoppetta, 2017). Quando si soffre di dismorfismo corporeo, infatti, si vedono una parte o più parti del corpo come vergognosamente deformi, quando, in realtà, si tratta di difetti molto lievi se non, addirittura, inesistenti. Di drunkoressia si parla ancora molto poco, il termine venne utilizzato per la prima volta dalla stampa popolare nel 2008 (CBS News, 2008), essa consiste nel limitare l’assunzione di calorie nei giorni in cui è previsto il consumo di alcol (Ward, 2015). Il digiuno non è fine a se stesso ma è strumentale all’assunzione di alcol. Il fenomeno riguarda sia la popolazione maschile sia quella femminile. Diversi studi evidenziano come spesso la drunkoressia sia molto diffusa tra gli studenti iscritti al primo anno di college per via di una minore supervisione da parte dei genitori e delle norme sociali dei campus universitari che incitano all’uso di alcol (Larimer & Cronce, 2002). Anche questa condizione non è inserita nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. I disturbi del comportamento alimentare, vista la loro connessione all’immagine corporea, al significato del cibo e all’ossessione per l’apparire, rappresentano in modo sbalorditivo l’epoca che stiamo vivendo (Dalla Ragione, 2012). Ogni epoca ha la sua malattia. Bisogna però fare estrema attenzione, come sottolinea Laura 71
Dalla Ragione, a non confondere gli effetti che modellano la forma che prendono i sintomi (gli effetti patoplastici della cultura) con i processi che provocano le malattie (processi patogenetici); in questo senso, il culto della magrezza, l’attenzione estrema al corpo e all’apparire, così come la moda non sono “l’origine” dei disturbi del comportamento alimentare: “ […] la loro funzione, sembra quella di suggerire la strada attraverso la quale un malessere più profondo, grave, strutturale si esprime e cerca una risoluzione” (Dalla Ragione, p.26, 2012). Bisogna tenere conto anche del fatto che i disturbi del comportamento alimentare sono sindromi “culture bound”, ossia legati a certe culture e specifiche di alcuni Paesi, infatti, sono piuttosto frequenti nei paesi ricchi e fortemente industrializzati.
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“What makes night within us may leave stars.” (Victor Hugo)
INCONTRARSI: RELAZIONI E CONFINI PERCHE’ SCEGLIERE UN LAVORO DI CURA? L’ho capito soprattutto negli anni in cui ho lavorato come educatrice con i ragazzi cosa significhi essere sinceri, non tanto sinceri rispetto a chi abbiamo di fronte (quello nel lavoro di cura dovrebbe sempre esserci), sinceri rispetto a se stessi e al proprio sentire. Qualche settimana fa A. durante un’attività mi ha detto: “Tu mi vuoi bene”. L’ho guardato un momento, mi ha colpito molto che la sua non fosse una domanda e lui deve averlo colto perché poi ha aggiunto: “Nel senso che lo sento proprio che mi vuoi bene”. All’inizio ho avuto paura di sbagliare perché, nella mia esperienza, il rischio di fare del male alla persona che si affianca creando confusione c’è; io l’ho vissuto in prima persona quando ero molto giovane e mi ha segnata profondamente. Partendo dalla mia esperienza, ho capito che ogni relazione è diversa, che il nostro passato non è il nostro presente, che se è andata così una volta non è detto che debba andare sempre allo stesso modo, che tutto dipende da come si è stati fino a quel momento: una relazione non inquinata da ambiguità e ambivalenza non cade nel limbo della vaghezza. Anni fa, un collega più grande mi disse che “l’educato73
re, deve saper abitare un confine”, ero all’inizio e non capivo bene che cosa volesse dirmi. Ora, quelle parole risuonano spesso dentro di me, ne capisco il senso perché posso sentirle e sono così vere che, a volte, lo visualizzo quel confine quando sono con i ragazzi. L’educatore, più dello psicologo che ha un ruolo diverso, deve davvero saper abitare un confine. È difficile, è un cammino che fa stare un po’ male e un po’ bene ma in quale relazione questo non avviene? Non è forse così nelle relazioni? D. me lo chiede spesso: “Come si può stare vicini senza farsi male?”. “Non si può” le ho detto un giorno, proprio come scrive Antoine de Saint Exupéry, bisogna correre il rischio, non c’è un altro modo. Bisogna avere fiducia dell’altro e nell’altro. Come L. che mi parla di un suo progetto e mi chiede con un po’ di timore: “Secondo te si può creare qualcosa del genere?” e io, che nei lavori manuali sono una grande frana, le dico: “Perché no? Proviamo!”. La bellezza del lasciare uno spazio di possibilità e vedere cosa accade. Accompagnare nella fatica, facendo fatica. Esserci e restare. Fare esperienza di una buona relazione ci protegge e ci ripara, anche dopo tanto tempo, anche quando non ci si incontra più. Non lo perdiamo mai. Così, pensando a tutto questo e grazie al confronto con una persona di grande umanità, un giorno ho saputo cosa rispondere ad A. e a quel suo “tu mi vuoi bene”... l’ho guardato e senza paura gli ho detto: “Sì, quando c’è una buona relazione, ci si vuole bene.” E lui, con un mezzo sorriso sotto alla mascherina, mi ha guardata e mi ha detto: “Lo sapevo”. 74
Per tutto questo, queste relazioni in cui è stato possibile “dire”, posso sinceramente solo ringraziare. La vita ha una sua forza, una volta ho letto che non sempre servono le ali, per fare grandi cose: e questo, se ce lo concediamo, è un incredibile spazio di possibilità in cui possiamo crescere; perché noi cresciamo sempre in relazione agli altri.
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“È un minuscolo allargar lo sguardo. Riflesso in quello di qualcuno. Si parla sempre a qualcuno. […] Ma un dialogo vero è anche con la nostra comune umanità. C’è una moltitudine tutto intorno. E allora si può condividere […] fermare quel momento che ci sorprende dentro un capire che offre una promessa, un riconoscere che quello che faremo tra un minuto o domani è ancora nella nostra libertà. Appunto...la libertà è poter dire che proprio no, non è un destino l’ingiustizia e non è un recinto la nostra vita […].” (Mariapia Veladiano – Ma come tu resisti, Vita) Bibiliografia American Psychiatric Association – Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, pag. 280-286/391409, Quinta edizione DSM-5, 2014, Raffaello Cortina Editore. Ballerini A., La presa in carico e la continuità terapeutica, in Rossi Monti M., Manuale di psichiatria del territorio, 1994, La Nuova Italia. Bratman S., Knight D., Health food junkies, 2000, Broadway Books. Brytek-Matera A., Orthorexia nervosa-An eating disorder, obsessive-compulsive disorder or disturbed eating habit? , 2012, Archives of Psychiatry and Psychotherapy. Celi F., Fontana D., Psicopatologia dello sviluppo- Storie di bambini e psicoterapia, pag. 594, 2015, McGraw- Hill Education Editore. Dalla Ragione L., Mencarelli S., L’inganno dello spec76
chio. Immagine corporea e disturbi del comportamento alimentare in adolescenza, p.23-29, 2012, FrancoAngeli Editore. Dalla Ragione L., Scoppetta M., Giganti d’argilla. I disturbi alimentari maschili, 2009, Il Pensiero Scientifico Editore. Donini L.M., Marsili D., Graziani M.P, Imbriale M. & Cannella C., Orthorexia nervosa: a preliminary study with a proposal for diagnosis and an attempt to measure the dimension of the phenomenon, 2004. Imai Messina L., Quel che affidiamo al vento, 2020, Piemme Editore. Larimer M.E., Cronce J.M., Identification, prevention and treatment: A review of individual-focused strategies to reduce problematic alcohol consumption by college students, 2002, Journal of studies on alcohol. Lindstrom M., Nilsson A.L., Katzman P.L., Janzon L., Dymling J.F., Use of anabolic-androgenic steroids among body builders-frequency and attitudes, 1990, Journal of Internal Medicine. Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, 2007, Demetra Editore. Mariapia Veladiano, Ma come tu resisti vita, Introduzione, 2013, Giulio Einaudi Editore. Marta Scoppetta, Perché mia figlia non mangia più? Comprendere e curare l’anoressia in adolescenza, 2017, Castelvecchio Edizioni. 77
Terza parte di Stefania Lanaro La distanza tra il corpo reale e il corpo immaginario crea una crepa che fa sentire il vuoto, che fa male perché fa sentire il dentro, il sé scoperto e nudo. (Lanaro S.) Un atto di accusa Il corpo perché? Il corpo è un oggetto da guardare, misurare, toccare, modificare… e allora perché il corpo entra in un discorso di cura? In realtà potendolo definire come il palcoscenico su cui mettere in scena il proprio malessere gli concediamo un “potere” quasi assoluto. È Lui, il corpo, la sua imperfettibilità, come causa e quindi come messa in mostra dello stare male rispetto al mondo; ma il corpo è in realtà la parte visibile del malessere proprio perché visibile agli occhi e confrontabile con gli altri corpi. Il corpo è il maggior imputato del grave reato di imperfezione, ma ci siamo chiesti se è il reale ed unico colpevole? Per poterne definire il reale “valore” dovremmo provare a pensarlo come oggetto/soggetto della nostra esistenza terrena; è visibile a tutti, è guardabile, misurabile e con78
frontabile e proprio per questo potremmo condannarlo prima del tempo: è sua la colpa, ma questa è soltanto l’arma del Pubblico Ministero, forse dovremmo provare ad ascoltare le argomentazioni della difesa: il corpo è il mezzo della nostra relazione, è il soggetto che incontra altri soggetti, incontra, condivide e permette Vostro Onore!!! Il corpo è il soggetto delle carezze, delle vicinanze e delle lontananze, è vivo ed ascolta i linguaggi senza parole delle altre persone/corpo che lo circondano, è vestito, agghindato per essere piacevole da guardare ma qualcuno ha provato davvero a chiedergli come sta e cosa prova con tutta quella “esteriorità” che lo vuole assomigliare ad altri corpi?
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Qualcuno ha provato a chiedergli cosa succede quando si muove, che cosa prova e cosa guarda? Forse la sua colpa è proprio solo quella di essere guardato alla luce del sole ma la sua grande attenuante è che quella luce non sempre lo vuole e lo guarda per quello che è. Lo sguardo dell’altro lo può far vivere come sbagliato, diverso, forse anche brutto ma ne ha davvero colpa? La Cultura del paese che lo accoglie cerca di definirlo, limitarlo e trasformarlo oltre a cercare di renderlo suddito, gli rende la vita difficile e quando la sensazione di non essere abbastanza bello da essere considerato è troppa decide di non essere più un attore ma una maschera.
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La sensazione di essere brutti, di essere vuoti dentro perché ci sente non abbastanza, crea nel suo proprietario fatica, stanchezza, dolore e sofferenza perché quella sensazione può far pensare a una propria inutilità e, se questo incontra un dolore profondo come un trauma, una solitudine o un’impossibilità anche momentanea a riconoscersi quel corpo oggetto soggetto dimentica di essere vivo e inizia a considerarsi alla pari di una suppellettile: da pulire, spostare, vezzeggiare e se non piace da nascondere in un armadio chiuso. Mi viene da immaginare il corpo del DCA come un oggetto forse raro ma soprattutto inguardabile e per questo nascosto in un armadio di paure, regole e limiti. Liberato in parte dalle sue colpe quale può essere la sua condanna? Ma soprattutto possiamo provare a riabilitarlo e renderlo nuovamente libero?
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Il sorvegliato speciale Riabilitarlo vuol dire riconoscere le sue colpe ma anche le sue attenuanti e quindi ritrovare quelle sue peculiarità così spiccate. Nel paragrafo precedente ho accennato alla cultura, se facessimo un breve excursus storico potremmo renderci conto di quanto questo imputato ha dovuto modificare anzi quanto gli è stato chiesto di modificarsi, dalle linee arrotondate dell’antichità, alla costrizione delle linee spezzate dei corsetti, alla morbidezza degli anni 50/60, alla ribellione delle rette negli anni 70 per tornare alla rotondità localizzate come labbra, seno, glutei, per passare agli accessori delle sue coperture pilifere peluria si, peluria no, capelli lunghi, corti, ricci, lisci, semi lisci e semi ricci, biondi, bruni, rossi, grigi sempre e comunque diversi da quelli che la persona proprietaria possiede, una trasformazione per appartenere al gruppo, alla moda più che per sentirsi a posto e inquilini coerenti con l’età del proprio corpo. Rispetto al nostro maggior imputato anche qui la cultura si è permessa di definirne il tempo storico di appartenenza, nel passato le rughe erano il simbolo della saggezza, e i grandi potenti di alcune culture erano vecchi dai capelli lunghi e grigi, lenti nel cammino, ricchi di solchi in viso e con ampie vesti che ricoprivano corpi sconosciuti. La popolazione ne ammirava il sapere e le conoscenze come un valore da assaporare e da desiderare, negli ultimi decenni il corpo della modernità deve essere giovane, incapace di riconoscere il tempo che passa, agile scattante, rapido, un corpo immobile rispetto allo scorrere del 82
tempo. Un corpo senza storia e con un futuro da controllare. È difficile per l’imputato reggere questi ritmi, velocità, prontezza, regole e limiti imposti dalla società, ma di quale società stiamo parlando? Non la società del pensiero libero, dell’ascolto e dell’accoglienza della diversità, ma quella dettata dai media, dalla televisione e dalla moda. Nasce la paura di non essere come si dovrebbe essere, è una paura che incontra un mondo frammentato e spaventato, ricoperto da un corpo che ha ferite e dolori che lo rendono permeabile agli sguardi esterni che indagano e condannano. Quella domanda “chi sono io? “rimane senza risposta, il corpo si sente immagine sbiadita, non assomiglia a nessuno e tantomeno vuole assomigliare a se stesso, e allora il lavoro dell’accusato si fa arduo, stringe gli occhi, chiude le orecchie per non ascoltare le parole e indurisce il corpo, la pelle diventa spessa proprio perché fragile, diventa pelle che blocca, stringe e ti fa sentire dolore ad ogni cambiamento. “La falla dell’io, viene tamponata, occlusa, frenata inutilmente attraverso qualunque mezzo (cibo, alcool, sostanze, autolesionismo shopping multi-compulsivo, cleptomania) perché la posta in gioco non è in realtà solo la forma del corpo ma la possibilità di evitare la dissoluzione di sé.” Il cibo diventa il mezzo per anestetizzare le ferite della pelle, introdurre troppo poco, introdurre per poi buttare fuori, buttare solo dentro, tutto per non ascoltare quel dentro tenuto assieme dal dolore, bloccarsi per non sentire la voce dell’imputato che dopo essersi guardato, 83
sbarrato e odiato prova a tapparsi la bocca con il cibo, con i tagli e con il dolore senza parole.
Quel corpo diventa davvero il palcoscenico, un teatro senza parole che incontra gli spettatori e mostra la forza del controllo o la forza dell’impossibilità del controllo, non importa quale sia la sua esteriorità: smette di essere abitante di un intero mondo e diventa unico membro del mondo. Se il pubblico ministero ascoltasse solo questo dibattimento condannerebbe l’imputato al massimo della pena! Colpevole di limitare il suo proprietario e di renderlo schiavo del suo sguardo.
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Nel comunicare con l’altro il principale ostacolo è il narcisismo. Nella seduta di psicomotricità il movimento del non essere incontra il non essere dell’altro. Come detto, il proprio mondo va a incontrare il mondo dell’altro e, sul nascere, gioca per lui, tessendo una trama narrativa con il corpo. M. Barisone
E ora la parola alla difesa Proprio l’imputato colpevole di questi “crimini” diventa la voce silenziosa di quello che sta succedendo al suo proprietario, la sua postura, i suoi gesti potranno diventare un linguaggio dedicato a pochi intimi, molto pochi, forse solo quelli che avranno voglia di rivolgere uno sguardo oltre, oltre l’apparenza, oltre il dolore e oltre il silenzio “Quando il corpo diventa oggetto e non riesce più a contenere il suo vissuto, diventa un contenitore frammentato e frammentario che lascia fuoriuscire parti intime e profonde del tanto nominato vissuto; parti frammentate di me che si lanciano fuori dall’oggetto corpo, confusione, paura, sofferenza, perdita di memorie e di umori, un malessere che diventa evidente ed evidenziato dalle malattie 85
del vissuto del corpo, per passare attraverso il corpo del “- non - sentire” che viene tagliato, marchiato, bruciato per creare un sfiatatoio di dolore e arrivare al corpo del disturbo alimentare, oggetto odiato mai perfetto perché incapace di placare la voce del vuoto”. Questo linguaggio deve essere intercettato, ascoltato e forse anche capito per quello che rappresenta, il modo che questa persona ha per poter sopravvivere al suo vuoto, alla sua rabbia e alla sua disperazione. Il corpo con la sua carica di dolore annaspa nella realtà quotidiana, cerca aria e cerca di sopportare un dolore che consuma nella solitudine, come si può colpevolizzare l’imputato per la sua scelta di sopravvivenza? Come scrive Sarah Kane” Il cerchio è l’unica forma geometrica che è definita dal suo centro. (…) La Terra, per definizione, ha un centro. E solo il pazzo che lo sa può andare dove vuole, perché tanto sa che il centro lo terrà giù, impedendogli di volare via fuori orbita. Ma quando la percezione del centro diventa confusa, arriva sibilando in superficie, l’equilibrio si è rotto. L’equilibrio cara mia si è rotto” E quel centro, è riconducibile proprio al nucleo del corpo, alla sensazione corporea che a contatto con il vuoto e il dolore si frammenta e perde il suo ruolo di “punto di partenza” dell’identità, perde il suo desiderio creativo e diventa rigido, fermo circondato da vuoto e da dolore, cerca di non creare ma di fermare il mondo, tutto deve rimanere immobile perché quello che cambia crea scossoni e terremoti al corpo, alla mente, ai pensieri e aumenta il dolore e il desiderio di non ascoltare più nulla, e 86
per ritornare a sentirsi stabili quale miglior appiglio del nostro imputato? Il corpo lo posso guardare, misurare, confrontare e soprattutto manipolare; quale altro oggetto è così sempre e perennemente a disposizione se non lui? Quale può essere la sua colpa se non quella di essere sempre disponibile? Iperattività, autolesionismo, controllo diventano il pane quotidiano del suo proprietario, il movimento perde la sua caratteristica principale che è proprio quella di essere il mezzo e lo strumento per raggiungere uno spazio– tempo differente, per poter stare con gli altri proprietari inquilini del proprio corpo e non solo arredatori. La persona invasa dal vuoto del DCA si focalizza come definisce la Lemma su sé stesso e si focalizza sul consumo. Questo progetto rende il corpo senza confini, con una pelle che lascia trasparire, che rende l’altro da sé inquisitore di perfezione perché l’unico sguardo di cui ci si nutre è lo sguardo della disapprovazione perché questo corpo non sarà mai come lo si vuole, non potrà mai essere gelido, fermo, duro ed impermeabile, la vita in quanto tale non lo riesce a permettere e allora il controllo diventa più forte e il corpo si sente stretto in questa morsa di gelo dove il mondo non esiste. Mi verrebbe da dichiarare vostro onore, che questo gelo è di difesa, non di attacco e forse l’unica possibilità è riportare lentamente l’imputato, molto lentamente per non spaventarlo, a riascoltare sensazioni, percezioni, emozioni attraverso un percorso fatto di piccoli passi e 87
di relazioni che gradualmente facciano uscire fuori il dolore e portino lo sguardo oltre la pelle.
Ed ecco che ora può arrivare la vera difesa dell’imputato: la sua necessaria messa in gioco nel percorso di cura, il suo indispensabile ritorno al suo ruolo primario: stare in relazione con sé stesso, con gli altri, con il suo tempo e con il suo spazio.
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(Progetto Nazionali Senza Filtro 2 con Gimelli A., Lanaro S. e il Bucaneve odv)
E il corpo riprende ad ascoltarsi anche se subito cerca di fuggire come un cerbiatto impaurito, quello che sente è amplificato, perché la pelle è troppo sottile e la certezza precedente fatica a lasciare spazio all’incertezza. A volte la persona invasa da quel dolore si ribella e la lotta con il cibo e con il suo corpo sembra accentuarsi, comincia a ribellarsi a quello che il mondo le propone e la rabbia si mostra. Forse è questo il primo segnale…la rabbia comincia a mostrarsi, cerca di sfiatare fuori e di “tastare” la tenuta del setting. Il setting di cui parlo è quello dell’approccio psicomotorio, dove l’ascolto, il rispetto e il non giudizio creano lo spazio per poter raccontare, l’imputato può cominciare a rappresentare la sua parte di storia e permettersi di incontrare la storia di altri. 89
Per il corpo è difficile riconoscere di avere così tanta paura, aveva creduto che quel lavorare il corpo potesse renderlo più forte e dargli un nuovo nome con cui potersi riconoscere, e potersi incontrare con altri corpi con lo stesso nome; aveva sicuramente già avuto delle avvisaglie rispetto alla fragilità di quel percorso, all’inizio quell’angoscia sembrava svanire per lasciare il posto al controllo, ma poi … Quel controllo è una fatica, sembra facile, ma forse non sempre riesco a mantenerlo e allora la restrizione incontra l’abbuffata e la paura diventa terrore, la voglia di svuotarsi diventa necessità anche se non sempre possibile. Il dolore del vuoto incontra il terrore e il controllo diventa incontrollabile, lavorare il corpo e quindi modificarsi non sembra essere più attuabile e allora in quel momento tutto diventa ipersensibile. Lavorare con il corpo permette di cominciare a riconoscere il dolore, lo si può sentire con la protezione del setting, lo si può guardare non da soli ma insieme, lo si può raccontare, urlare ma soprattutto mettere in gioco. Mettere in gioco per poterlo guardare non con gli occhi del giudizio, ma con le sensazioni, il corpo si osserva come un corpo, senza le parole ma con il suo unico ed inimitabile linguaggio. A volte quel linguaggio fatto di vicinanza, lontananza, tempo dell’adesso e tempo del passato, solitudine e gruppo, dentro e fuori, è difficile da tradurre in parole, perché quelle sensazioni sono profonde, antiche sono difficili da 90
riassumere ma assumono, colore, forma, gesto, e vanno a riempire il vuoto, la voragine diventa meno profonda e può forse essere guardata insieme agli altri, senza paura di rimanerne intrappolati.
Progetto Aperture di Alessandro Gimelli con Il Bucaneve odv
Il nostro imputato comincia ad entrare nel pieno merito della sua difesa, è soggetto del male di essere o è oggetto del suo proprietario? Quando potrà essere di nuovo libero di pensare e di ascoltare? Si potrebbe pensare al suo viaggio verso il non esistere come un viaggio paradossalmente “imbottito” e reso silenzioso all’esterno, imbottito dai pensieri e dal rimuginio, legati alla paura di cambiare e di affrontare le diffi91
coltà del movimento legato all’esistere. L’accusato non riesce più ad ascoltare i suoi sensi, i suoi muscoli e articolazioni, perché ogni parte del corpo diventa un bersaglio dei pensieri e del giudizio, le gambe non sono più mezzi per camminare, correre, raggiungere obiettivi ma sono informi da modificare, sono oggetti da misurare, controllare e manipolare, perdono il loro senso profondo, le braccia non servono per afferrare, abbracciare, coccolare ed essere coccolate raggiungere oggetti ma sono larghezze, lunghezze e profondità; il corpo diventa misurabile, un insieme di proiezioni numeriche e di sguardi che lo esplorano, giudicano e fanno sentire brutti e inutili. Chi di noi riesce a mettersi nei panni del principale accusato? Come ci si può sentire a perdere completamente il proprio senso del vivere? Ossia come può il nostro imputato essere considerato colpevole quando non viene più abitato ma solo controllato? Proviamo a metterci letteralmente nelle sue scarpe e ad ascoltare cosa può voler dire perdere il proprio senso di vita e diventare sordo alle emozioni e alle sensazioni ed ascoltare solo la paura del suo proprietario. Questa pubblica difesa non vuole trovare altri colpevoli, se il proprietario del corpo non riesce ad ascoltarsi e a viversi come soggetto del mondo lo fa per sfuggire ad ansia, paura, angoscia di perdere il proprio posto di vita perché sentito immerso in un mondo pericoloso e denigrante; se proprio dovessimo trovare colpe e condannare qualcuno dovremmo provare ad interrogare il nostro mondo 92
e la nostra società fatte di immagini, trasformazioni per rendere onnipotenti e perfetto che incontrano le paure del nostro soggetto, perché le paure quando vanno a far sentire troppo piccoli e forse anche molto brutti sia fuori che dentro e fanno sentire il bisogno di scomparire . “Lavorare con il corpo vuol dire prendere atto della propria fragilità, del proprio essere con gli altri, circondata, supportata, inserita, essere fragili senza avere troppa paura, avere la possibilità di riconoscere le proprie crepe. (Lanaro) È prendere atto, esserne consapevoli; anche se esserne consci non vuole ancora dire aver «accettato» È cercaredi lavorare dove quel vuoto ha avuto origine, quel vuoto, quel “buco nero” che ha avuto origine nel momento in cui le parole non sono riuscite o non hanno potuto riempirlo. È permettere all’essere che ha obbligato sé stesso a diventare oggetto di poter riuscire a ritornare soggetto del mondo” (Lanaro S.) E il corpo ricomincia silenziosamente a parlare… Come dice Galimberti a decidere il grado di vitalità del corpo non sono i sensi ma il suo interesse per il mondo e il corpo comincia a guardare altri corpi che lentamente diventano altre persone, cominciano a dialogare come solo i corpi sanno fare, si ascoltano e si misurano ma la misura non è più per sé ma per gli altri, quanto ti voglio vicino o lontano, quanto ti guardo per starti accanto e quanto il mio sguardo ti chiede spazio. Lo sguardo diventa presenza, ti guardo ma non per giudicarti ma per creare legami e mi posso anche permette93
re di dirti che il tuo sguardo non mi fa stare bene o per contro che mi sembra quasi che mi abbracci, e lo posso fare nella stanza della psicomotricità perché il setting tiene, chi conduce il gruppo e ne fa parte attivamente riesce a stare nel setting e a funzionare da paracadute, tesse una rete che tiene ma non costringe, c’è lo spazio che si ritiene importante avere, ognuno ha il suo posto e ognuno permette agli altri di avere un posto, per quello che sono e che rappresentano. Tutto questo non ha molte parole ma ha sguardi, spazi e tempi, e soprattutto relazioni.
Quando la realtà incontra i nostri sogni e li sgretola (progetto Nazionali senza Filtro di Alessandro Gimelli e il Bucaneve odv)
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“Parlare con il corpo è possibile solo se io parlo al tuo corpo con il mio corpo, se il linguaggio, l’intellettualizzazione, la sublimazione, il pensare a come raccontare non rappresentano una difesa ma solo una maschera che io posso anche decidere di abbassare e giocare, non apparire ma essere, muovere e raccontarmi attraverso il gesto, lo sguardo, il tono nello spazio dell’accogliere, della messa in scena del mio vuoto, dove non devo ma posso” (Lanaro S.) E il corpo da imputato diventa parte del percorso di cura, perché attraverso di lui, in un setting e con l’approccio psicomotorio è la persona non il suo malessere ad essere accolto; il corpo che entra nella stanza permette alla sua storia di entrare in gioco, viene accolto con il suo nome e non con la sua etichetta che spesso è solo uno dei modi per appartenere al mondo, le maschere per sopportare il vuoto e assomigliare ad altri, per non sentirsi soli e brutti. Quel linguaggio doloroso del sintomo lascia degli spiragli alla comunicazione, agli sguardi, al gioco che si svolge in quel luogo dove gli unici limiti che vengono dati sono il non giudicare e giudicarsi e il rispetto reciproco; le persone prendono il posto delle malattie e si possono sperimentare le proprie paure, si possono guardare, giocarle, limitarle e rappresentarle attraverso i gesti: il gesto racconta e il suo linguaggio non parla della malattia come destino ineluttabile ma come forma di espressione individuale, un messaggio da decodificare; è uno dei molteplici modi in cui il corpo può comunicare, senza quelle parole che così difficilmente possono descrivere il proprio vuoto e il proprio dolore. 95
Nel momento in cui io posso riconoscere che essere corpo è la mia identità, che quel corpo rappresenta me e me soltanto, posso finalmente permettermi di essere. La persona si ascolta, sente, comincia a riempire quel vuoto di emozioni e di relazioni per riuscire poi a rivolgere il suo sguardo all’altro “Il corpo è inserito in una relazione di scambio, tocca ed è toccato, sfiora ed è sfiorato, occupa un luogo, un posto ed uno spazio, viene guardato e guarda quello che lo circonda, riceve ed è accolto, muove i suoi passi nello spazio della relazione con l’altro e da questo incontro riceve informazioni del suo ruolo, del suo posto ma anche di quanto è desiderato. Da questo ambiente di relazione il corpo soggetto, conosce il proprio limite e le proprie possibilità, affina o diminuisce la sua capacità, ma soprattutto la sua possibilità di ascoltare e di essere ascoltato” (Lanaro) E il corpo comincia a parlare e a raccontare di sé e del proprio mondo interno, parla per metafore e per immagini ma ancora di più racconta con i gesti, i movimenti e l’utilizzo dello spazio e del tempo, racconta a tutti gli altri mondi del sentire che incontra, lentamente desidera incontrare persone che ascoltano e sentono quanto lui ascolta e sente. Il primo campo di ascolto e di comunicazione diventa proprio la propria insicurezza che comincia ad essere guardata e non solo vissuta come un tutto, viene portata fuori da sé e comincia ad essere messa in discussione, non annullata e nemmeno guardata ma portata fuori all’attenzione del mondo. La comunicazione del nostro imputato ormai quasi libe96
rato dalla colpa diventa un incontro a due, come afferma la Lemma il corpo comunicativo o diadico esiste nelle relazioni reciproche con gli altri. Il suo scopo è comunicare agli altri quello che si sente. ma chi sono i due di cui noi parliamo? Il corpo è inserito in una relazione di scambio, tocca ed è toccato, sfiora ed è sfiorato, occupa un luogo, un posto ed uno spazio viene guardato e guarda quello che lo circonda, riceve ed è accolto, muove i suoi passi nello spazio della relazione con l’altro e da questo incontro riceve informazioni del suo ruolo, del suo posto ma anche di quanto è desiderato. Da questo ambiente di relazione il corpo soggetto conosce il proprio limite e le proprie possibilità, affina o diminuisce la sua capacità, ma soprattutto la sua possibilità di ascoltare e di essere ascoltato”. Da questo momento il corpo diventa nuovamente il “bambino vero” di Pinocchio, perde la sua identità di corpo oggetto e diventa persona, corpo soggetto del mondo perché nel momento in cui io posso riconoscere che essere corpo è la mia identità, che quel corpo rappresenta me e me soltanto. Posso finalmente permettermi di essere, perché essere corpo è riconoscere il proprio desiderio ma anche il proprio bisogno, riconosco me e l’altro da me come soggetti che si incontrano e dialogano con voci e toni differenti, i corpi oggetto dialogano di forme e di dimensioni, e solo una persona attenta all’ascolto ritrova in quelle parole le paure e le angosce che hanno originato questa necessità, il corpo soggetto, persona sta nella relazione con la propria storia e l’incontro con la storia dell’altro. 97
“Il lavorare e comunicare con il corpo dovrebbe presupporre proprio il ricominciare a sentire ed ascoltare; il corpo del vivere non può essere quello da porre sul piedistallo ed ammirare o denigrare, ascoltare il corpo è favorirne il ritorno nel mondo, permettergli di diventare un corpo che sente, ascolta, che si muove perché vuole farlo e va verso, conosce attraverso, cambia e si trasforma, per poter agire, essere, sperimentare e modificare. (Lanaro) Da questo momento in poi la persona comincia a fare i conti con la propria paura, i corpi raccontano storie spaventose, parlano dell’angoscia del vuoto e della dissoluzione e chi li ascolta profondamente deve esserci, fare i conti con le proprie sensazioni e spogliarle dei preconcetti e delle diagnosi, è osservare senza interpretare, è sentire risuonare l’emozione. Chi incontra in una relazione di ascolto la persona che racconta la propria angoscia deve ascoltare il proprio corpo e differenziarlo dall’altro corpo, e questa è la difficoltà: riconoscere che quello che ascolta il nostro corpo è quello che ci dice il corpo dell’altro e che spesso viene interpretato dal nostro corpo con la nostra storia. Spesso interpretiamo il linguaggio del corpo dell’altro invece che ascoltarlo, lo filtriamo con il nostro corpo, e non è che questo sia un errore, ma spesso confondiamo e interpretiamo il messaggio che ci viene inviato. Il compito primo dell’ascoltatore è quella di non muoversi seguendo le proprie distanza e il proprio bisogno ma permettere all’altro di avvicinarsi e allontanarsi a propria discrezione: ognuno deve poter stabilire la propria distanza per acquistare sicurezza. 98
La distanza e il contatto si possono sperimentare in tutte le loro sfaccettature, per chi ha un disturbo legato alla comunicazione e al corpo la difficoltà è quella di vivere le sfumature dei contrasti, spesso esistono soltanto la distanza massima o la fusione con l’altro, che esprime il bianco ed il nero, la felicità o la disperazione; il lavoro che si propone è sperimentare e ascoltare la distanza, le distanze, vivere le mezze misure, lo sfiorarsi appena, la vicinanza senza contatto, sentire l’altro nella comunicazione del corpo perché sperimentandola nella sicurezza del setting si può riuscire a non avere paura di perdersi. Il corpo ritorna a riempirsi di mondo e lo fa seguendo il proprio tempo, senza fretta, e lo fa in un processo che non è lineare, a volte ha bisogno di ritornare al quel corpo conosciuto che è quello del controllo e della limitazione della pelle che diventa a tratti impermeabile, a volte ne ha la necessità perché le emozioni e i sensi stordiscono e fanno perdere la rotta stabilita, ma riconoscere il proprio essere persona a volte fa paura perché vuol dire accettare di non sapere chi si è e chi si diventerà, ma la strada continua, è importante che l’altro da sé rimanga al fianco per ricordare che non si è soli e che si rispetta lo spazio, il tempo e la paura, ma non si è più soli dentro, l’altro che ascolta è presente nella sua distanza, può permettersi di aspettare e di accogliere. È la relazione di ascolto, di cura e di rispetto che permette al corpo di ritrovare la sua completezza di persona.
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…Se non incontra l’altro il corpo non può farsi mente: la mente non nasce. Affinché la persona si costituisca come tale occorrono ‘iscrizioni’ sul suo corpo di tracce vive della psiche dell’altro. (M. Barisone)
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Bibliografia Kane, S. (1995) Febbre in Tutto il teatro. Einaudi Editore. Torino Galimberti, U. (1983). Il corpo: Opere V. Feltrinelli Saggi. Milano Lemma, A. (2005). Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee. Raffaello Cortina Editore. Milano. Lanaro, S. (in pubblicazione) Incontrare il corpo. Edizioni CSIFRA. Bologna
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