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DIARI DI ECOPOESIA
Introduzione
di Marco Fratoddi
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Gentile ma allo stesso tempo un po’ discola. Come una ragazzina cresciuta fra i borghi e i prati, magari sopra quelle colline fra l’Umbria, il Senese e l’Aretino di cui si sono nutriti i suoi sensi, che ama giocare ma che ogni tanto, com’è giusto che sia, trasgredisce le regole. Non ho mai incontrato in presenza, come ci siamo abituati a precisare, Elena Bussolotti. L’ho conosciuta soltanto attraverso le sue narrazioni, poetiche e giornalistiche, più alcune conversazioni in rete. Mai dal vivo, per capirci. Però me la immagino così. Come una persona animata da una grande passione verso il prossimo e la natura, desiderosa d’incidere, come scrive in una delle sue composizioni, con il proprio “puntino” nel “quadro del mondo”. Rivoluzionaria a modo suo, insomma, attraverso relazioni interpersonali autentiche, una forte generosità umana, l’adesione a ideali di grande respiro. E un’innata predisposizione alla divergenza esistenziale, ci sembra, prima che ideologica. In qualche maniera alla disobbedienza (come la natura di cui scrive, “madre” e “sorella” ma anche un pochino “brighella”) che cogliamo nella sua scrittura, nelle opzioni stilistiche che persegue, nella composizione stessa del periodo e nelle discordanze che generano le sue carrellate visive. Piccole pietre d’inciampo, piazzate ad arte, come le preposizioni semplici al posto di quelle articolate, un certo ricorso all’accumulo e all’allitterazione che s’interrompono bruscamente, bisticci e slittamenti semantici che obbligano a rileggere l’intero periodo per confermarne il senso. Pare di stare a passeggio con l’amica che ogni tanto ti fa lo sgambetto, ti dà un pizzicotto quando meno te l’aspetti, tanto per invitarti a stare desto con la mente, a riflettere sul presente, a controllare dove metti i piedi. Forse ad accorgerti di lei. È una poesia soprattutto di frammenti espressivi e assonanze, la sua, che indulge soltanto di rado alla rima, evocando stralci che oscillano fra Mario Luzi e Guido Gozzano (il paesaggio elettivo d’altro canto è molto simile). C’interroghiamo sull’ecopoesia, leggendo questo suo Diario, curiosamente fermo al 2017. Scopriamo che Elena in quegli anni spaziava fra gli oceani e le sorgenti di campagna, fra la Luna e le nuvole, fra lo stupore verso tutto ciò che brulica su questo pianeta e quanto risuonava nella sua interiorità. Percepiamo una passione quasi mistica (siamo poco distanti, del resto, dalle terre di Francesco) verso il contatto con l’erba e la percezione della luce, un’esplorazione tattile, viene quasi da dire infantile – nel significato più proprio del termine, vale a dire inesprimibile attraverso le parole – degli ecosistemi. Poi il senso della memoria, la lealtà verso le proprie radici (la raccolta del resto è dedicata alle nonne Olga e Ada ma anche i saperi dei nonni vengono più volte evocati), il rifiuto verso la violenza e la richiesta di Pace, con la P maiuscola, valore che oggi cogliamo in tutta la sua centralità nell’ambito di una cultura ambientalista che forse, dopo la stagione pionieristica di Alex Langer, l’ha frettolosamente messo da parte. E ancora, l’idea che la presa in carico di tutto questo spetti alle molteplici generazioni, attraverso un patto di lealtà che guardi verso il futuro. Va letta e riletta questa prima produzione di Elena Bussolotti, spontanea come l’erba di quei campi su cui ci sembra di vederla correre, per apprezzarne la coerenza e il messaggio, forse anche l’imperfezione a volte inconsapevole, a volte voluta, nel segno di una punteggiatura anomala come un diamante in gestazione. La base di una ricerca che oggi prosegue, chissà, verso direzioni inedite, che siamo curiosi di scoprire, certamente in continuità con una personalità narrativa fortemente ancorata al bene comune, a quanto ci lega fra noi e agli altri viventi. Al bisogno di sentirsi utili, per quanto attraverso un minuscolo punto, al racconto d’insieme della biosfera. Nel frattempo qualcosa è cambiato, c’è parso d’intravedere una vita nuova, dentro i riquadri di quelle conversazioni in remoto, fra le braccia dell’autrice. La poesia s’è fatta bambina, sembra che proprio per lei ci sia ancora bisogno di comporre versi utili al cambiamento, che a lei fra poco si possa passare la parola.
Prefazione
di Carlo Carabba
L’epifania non è soltanto una questione letteraria, una figura retorica. Anche, ma non solo. L’epifania è una questione esistenziale, ontologica, metafisica. Una condizione, umana, di apertura verso orizzonti di senso che improvvisamente mostrino l’essenza più autentica del mondo che ci circonda, della vita che siamo.
Può riguardare tutti gli esseri umani, ma alcuni autori fortunati hanno una tale predisposizione all’epifania da riuscire non solo a farne esperienza, ma anche a trasferirla sulla pagina scritta. Di questo gruppo fa parte Elena Bussolotti.
L’io lirico da cui muovono i suoi versi e il suo sguardo è talmente disposto all’epifania che vive quasi in uno stato di abbandono vigile e desiderato nei confronti della natura. E la natura risponde, sorprendendo l’autrice, ricordandole che la destinazione e il dovere di donne e uomini non sono il successo, il potere, il dominio, ma l’armonia, l’amicizia, l’amore.
Sin dal titolo di questa raccolta breve ma composta da poesie dotate di una forza sorgiva, la dimensione autobiografica (i “diari”) si indirizza verso un compito quasi etico, “l’ecopoesia”, versi che, attraverso l’apertura al mondo, restituiscano al lettore l’ambiente, la “casa” (“eco” deriva dal greco òikos, casa, appunto), il mondo in cui gli esseri umani sono gettati alla nascita, superando la frattura cartesiana tra res cogitans e res extensa, tra aspetti materiali e spirituali, ricomponendola e mostrando che siamo chiamati a vivere in armonia con tutto quello che ci circonda – e di cui siamo parte –, con gli altri umani –che anche noi siamo – e con noi stessi.
Commento
Diari di ecopoesia
Dialoghi nuovi con la natura
Leggere le pagine di un diario è come varcare la soglia di un giardino privato. L’autrice ci invita a condividere una riflessione intima, un dialogo segreto. Il lettore accede ad una dimensione interiore, assistendo al bisbigliare della poetessa alla natura in un flusso di coscienza in versi. Il libro, come una farfallina su sfondo colorato, raccoglie un vibrare intimo fatto di tante piccole cose che formano un caleidoscopico mosaico con la capacità di trattare la grande tematica del rapporto uomo-natura. Al centro della raccolta una festa di compleanno, un evento come tanti, o un pretesto per nascere che disvela il segreto della creazione della soggettività. Nascita di un Io leopardianamente solo, sperduto ed estraneo a partire dagli adulti più prossimi della propria specie. Ma la natura rimane il nido in cui un punto di vista può sempre prender corpo attraverso alcuni materici ingredienti in grado di legare insieme i pezzi per creare una forma. Se riusciamo a tenerli insieme - tengo tutto stretto - si può festeggiare la nascita e il giorno del/dì natale. Un testo pieno di frammenti (gemme/arazzi/collage/patchwork) che cercano una nascita, una forma. Perché è di frammenti che è fatta la voce artistica del XXI che si esprime anche attraverso le parole di Elena Bussolotti, una Ifigenia poetessa che nelle pagine di un diario dialogico con il mondo circostante si fa raccoglitrice di pezzetti (unici Altri-da-Sé possibili) e li unisce con una colla che sa di sabbia, di miele, farina.
Sembrano essere proprio le pagine del diario, anch’esse ri-legate insieme, a creare un interno-culla da cui uscire nella natura, un diario, anzi tanti diari, da cui possono sgusciare fuori poesie attraverso cui la voce umana si intona al canto della natura.
Diari di ecopoesia è una raccolta plurale. Non un diario ma tanti diari in uno. E a fare di tanti diari una sola raccolta, la colla sembra essere la sua natura sonora.
Una natura piena di sole che anche quando è tumultuosa ci indica la via attraverso suoni come le imposte che sbattono, le vele che si gonfiano e sbattono e in cui l’Io docile non sente paure, resistenze, infatuazioni… esso le segue. In una dialettica continua con una natura animata di cri cri e cip cip (grilli e uccellini) si crea un immaginario sonoro che pare dunque indicarci la Via ma… solo apparentemente perché se si porge l’orecchio la natura smette di palesarsi diventando afona! In questo modo il testo, anche quando parla di assenza di voce come nell’invocazione al muto oceano, è attraversato da un silenzio che è anch’esso una potente esperienza acustica. Muto e assordante sono i due estremi di una dimensione acustica sempre oscillanti e compresenti nello stesso fenomeno osservato. Due poli capaci di creare dimensioni spaziali in opposizione come in un aiuku che talvolta risolve la tensione ambivalente in una invocazione alla natura. Ma quale invocazione può risolvere la lacerante contraddittorietà della natura? Forse proprio la possibilità di farne parte. Richiesta che nella sua semplicità spezza la tensione di secoli concentrati sull’incolmabi- le iato – per dirla in termini psicanalitici lacaniani – tra l’essere umano con quella natura che che nell’atto di nascita ci espelle inesorabilmente dalla fusione simbiotica primaria di cui faremo eternamente ricerca. Nella poesia ecologica invece si intravede una sorta di alleanza, un ponte tibetano teso in questo baratro di distanza. I versi dei diari sono testimonianza di un grido possibile verso la natura perché ci fornisca l’opportunità di aggiungere la voce umana nel suo grande spazio sonoro. In “mali peggiori” sarà nuovamente un suono – un vento sonoro –a dare forza. Un vento sonoro che nasce da un gerundio interiore, meditando. L’oceano può forse trovare un’isola perché la voce umana possa partecipare. Per aiutare/ col mio puntino/ il quadro del Mondo.
E ancora l’animo poeta pazienta, accondiscendente al capriccio della natura in un’attesa arcadica. La natura terrestre diventa il giardino in cui l’autrice osa - presi del vento - e partecipa - e gli espirai un sogno -. Alcuni versi appaiono come ciò che rimane di antiche invocazione al vento dell’ovest, Sii tu il mio spirito impetuoso vento, a cui come Shelley si può ancora chiedere ispirazione... e con una modalità tutta contemporanea, averla. Da quel passato i versi sono in grado di portarci fin qui dove siamo, in un presente storico, l’antropocene, in cui sono palesi gli effetti dello sfruttamento della specie umana sulla natura e si ha consapevolezza scientifica sul significato del cambiamento climatico. Tra le nuove generazioni si diffonde una nuova idea di natura e di rapporto con l’ambiente che è frutto proprio di questa consapevolezza di disastro imminente. E’ qui che la poesia può acquista- re un significato ecologico. E forse è questo il messaggio che si può cogliere in un intento ecopoetico. Iscrivo dunque in quest’ottica il lavoro di Elena, poetessa che incarna la sua epoca, sentendosi essa stessa natura e che di fronte all’evento terrestre albero, diventa albero e ci fa sentire attraverso il suo corpo lo scricchiolare pieno d’anima. I versi portano il lettore in una dimensione storica in cui la natura da madre diventa anche sorella perché si anima di capacità, fosse anche grottesca, di scherzare. Una natura sorella che si fa piccola e diventa divinità da accudire. Una natura che si trova nei guai e va accudita ribalta nuovamente le dimensioni spaziali. Da puntino quale siamo nel quadro del mondo lo stesso infinitamente piccolo puntino acquisisce voce per cantare e mani per accarezza consolare e diventa così potente che è in grado di guarire la gigantesca madre. Quel puntino che è isola nello spazio liquido, è lo stesso che nello spazio asciutto di un assolato il pomeriggio, compiendo una stereotipia generativa dal cuore bollente della natura, produce movimento animato, Io e l’anima gira in un’allegra conocchia. La semplicità dell’esistenza sembra svelare in un colpo di allegria e di gioco una smagliatura nella rete attraverso cui la meccanica stessa di un movimento umano può generare presenza nell’ambiente.
Una natura poliedrica e cangiante talvolta consolatoria e talvolta animata di un senso divino che la poetessa sfida “ho osato rapire il cielo in un canto” superando quella distanza timorosa antica da un contesto che indifferente esprime la sua placida esistenza cose (Il cielo. / Nevica.). Una natura che talvolta si nega al poeta, si nega alle nuove generazioni, una natura che parlava solo ai nonni. Una natura da interrogare con nuove domande, da guardare con nuovi occhi, tanti occhi quante sono le sue facce. Una natura che si fa cibo e nettare ma un nettare che dolcifica solo la vita degli dei mentre quella degli umani allegramente la ingrassa.
Un testo pieno di bei paesaggi, altitudini, giochi geologici e idrici che diventano poesia (la pianura chiama a sé le sorgenti…) mostrando una identità comune tra la natura e gli umani entrambi guidati da una volontà pulsionale sconosciuta in cui amare si può dire solo cosa non è ma è pur sempre amore che Ci muove alla nascita e ci innerva i passi, ed è centro di energia pulsante della vita.
Sara Della Giovampaola
Psicologa. Docente di poesia-terapia presso master di arti-terapie ad orientamento psicofisiologico di Roma