Quaderni del Volontariato 8
Edizione 2010
di Deanna Mannaioli UNITRE Monte Castello di Vibio
Tradizione del territorio Umbro Antologia dei Ricordi
Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provicia di Perugia Via Sandro Penna 104/106 Sant’Andrea delle Fratte 06132 Perugia tel. 075.5271976 fax. 075.5287998 Sito Internet: www.pgcesvol.net Visita anche la nostra pagina su
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Con il Patrocinio della Regione Umbria
Edizione: Novembre 2010 Progetto grafico e videoimpaginazione: Chiara Gagliano
Si ringraziano Daniela Brugnossi e Simone Mazzi per le notizie sulla Filarmonica di Monte Castello di Vibio Si ringraziano Massimo Costanzi, G. Pietro Persichetti, Eugenio Masciotti, il Comitato per i festeggiamenti della sagra della Tequila
Il libro è stato scritto con la partecipazione di tutti gli iscritti all’UNITRE di Monte Castello di Vibio nell’anno accademico 2008/09
Tutti i diritti sono riservati Ogni riproduzione, anche parziale è vietata
I QUADERNI DEl VOlONTARIATO, UN VIAGGIO ATTRAVERSO UN lIBRO NEl MONDO DEl SOCIAlE
Il CESVOl, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia, nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifico nell’area della pubblicistica del volontariato. l’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temi di interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato organizzato ed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusione di argomenti e questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quelli presenti al centro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali. la collana I quaderni del volontariato presenta una serie di produzioni pubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico rivolto alle associazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria collana editoriale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazionismo provinciale. I Quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto per chiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale per motivi di studio ed approfondimento.
Indice
Introduzione di Roberto Cerquaglia Sindaco di Monte Castello di Vibio
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Prefazione di Giuliana Sabatta Presidente dell’UNITRE di Monte Castello di Vibio
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MUSICA E CANTI POPOlARI
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la Banda Musicale Canti e Filastrocche Serenate Ellerate Scampanate Stornelli Sega la Vecchia Canti di Passione
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TRADIZIONI NEllA STORIA
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Carnevale Balli Quaresima Confraternita Maria Santissima Addolorata Settimana Santa Pasqua Il lunedì di Pasqua Rogazioni Ascensione Corpus Domini Festa di San Giovanni Festa della Madonna dei Portenti Festa dei Morti Festa dell’8 Dicembre Il Natale la Befana la candelora
41 46 49 50 54 57 58 59 60 61 63 64 65 66 67 69 71
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Indice
I MESTIERI
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Il Fabbro Il Cocciaio Il Campanaro lavoro nei campi la Mietitura e la spigolatura Trebbiatura Scartocciatura Vendemmia Raccolta delle olive Cruciata o lacciuolo
75 76 77 79 79 81 83 84 85 86
lA CUCINA TRADIZIONAlE
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Il pane Il maiale la gallina e le uova
89 91 92
CREDENZE E SUPERSTIZIONI
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lupo Mannaro Streghe e fattucchiere
97 100
Bibliografia Antologia fotografica
104 105
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Introduzione
Grazie all’impegno dell’Unitre e di tutti coloro che hanno collaborato con la propria testimonianza alla realizzazione di questo progetto, la comunità di Monte Castello di Vibio si arricchisce, con questo libro, di una documentazione importante sulla memoria collettiva legata alla microstoria locale. Tale lavoro vuole essere un viaggio nel passato, alleggerito dalla retorica del ricordo, con una particolare attenzione alle radici storiche dei riti locali civili e religiosi, alle trasformazioni avvenute e al permanere dei simboli e delle abitudini nella nostra piccola comunità. la ricerca documenta molti aspetti del vivere locale testimoniati da riti e costumi legati al mondo contadino ormai scomparsi con il mutare dei tempi, della storia, dei mezzi di trasporto e di comunicazione. Si tratta di un’epoca in cui la vita era scandita dal lavoro stagionale dei campi e tutto ruotava intorno alla famiglia patriarcale legata, nella quotidianità, alla fatica, al lavoro manuale degli uomini e alla saggezza empirica delle donne, che rappresentavano il nucleo fondante nell’alternarsi delle epoche e delle stagioni, della vita e della morte. Con questa pubblicazione non solo si è provveduto a colmare una lacuna culturale importante ma è stato avviato un recupero delle tradizioni del nostro territorio, da consegnare ai giovani perché ne comprendano il significato; solo chi sa fare tesoro del proprio passato riesce infatti a vivere in modo propositivo il presente e a proiettarsi con consapevolezza verso il futuro. Nel gettare un ponte verso i giovani, l’Unitre, con la consapevolezza del proprio ruolo, ha saputo cogliere l’esigenza di rapportarsi al mondo delle nuove generazioni contribuendo alla crescita socio culturale della nostra popolazione. Voglio quindi ringraziare Deanna Mannaioli, autrice di questa pubblicazione, i consiglieri e collaboratori dell’Unitre che sostengono con il loro impegno tali iniziative. Roberto Cerquaglia Sindaco di Monte Castello di Vibio
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Prefazione
Il Consiglio Direttivo dell’Unitre di Monte Castello di Vibio avvertiva da tempo l'esigenza di un recupero della memoria storica locale e, su consiglio di alcuni membri dell’associazione, ha deciso di raccogliere in un libro i ricordi del passato ricco di riti e tradizioni tramandate oralmente e ormai quasi del tutto scomparse. Si è voluto quindi inserire nel programma culturale una serie di incontri volti a organizzare gli argomenti di maggior rilevanza e quelli sui quali è stato possibile raccogliere le testimonianze più significative. l’entusiasmo e la viva partecipazione di tutti ci ha consentito di raccogliere una ricca documentazione che spazia dalla musica ai canti popolari, alle feste religiose e tradizionali che segnano l’andamento stagionale scandito sul lavoro dei campi e sul lento ritmo di vita di un tempo in cui tutto era rallentato. Dalla ricerca è emerso un quadro vivo e palpitante testimone di una società povera di risorse economiche che si avvia inevitabilmente ai cambiamenti di costumi, di mestieri, di riti civili e religiosi in un contesto sempre più bisognoso di autentici rapporti interpersonali. Si è potuto attingere alla nutrita documentazione dell’archivio fotografico lasciatoci da Nello latini, e ad altri archivi privati, per arricchire l’“Antologia dei ricordi” fissando in modo chiaro e preciso i simboli degli usi e dei costumi che hanno segnato la nostra vita semplice e nel contempo ricca di valori. È auspicabile, pertanto, che questo testo venga consultato dai nostri giovani, affinché, con la conoscenza del passato, possano vivere meglio il loro presente e cogliere insegnamento per il futuro.
Giuliana Sabatta Presidente UNITRE di Monte Castello di Vibio
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Capitolo I Musica e canti Popolari
Musica e canti popolari
l’Umbria è stata sempre una regione ricca di tradizioni musicali anche se, essendo luogo di transito per i pellegrini che fin dal medioevo andavano a Roma, ha mostrato una certa duttilità per ciò che concerne le influenze delle regioni limitrofe. È certo che il canto umbro e in particolar modo quello perugino sia uno dei più antichi d’Italia, forse risalente alla seconda metà del Trecento, quando già si può parlare, per tutta l’area europea, di musica delle classi più elevate differenziata da quella delle classi popolari. Sappiamo che nell’Umbria medievale le lotte di classe tra il popolo e l’aristocrazia hanno avuto momenti duri e sanguinosi che hanno represso l‘identità popolare per cui la voce del popolo è rimasta nel canto, nelle espressioni musicali spontanee, legate al lavoro dei campi e alla fatica di tutti i giorni nell’avvicendarsi delle stagioni. È difficile parlare di letteratura su questo tema per l’impossibilità di ricerca delle fonti, infatti i canti sono stati tramandati solo per via orale e si sono diversificati nei luoghi subendo continui influssi nel tempo. Questo patrimonio oggi è demandato ai gruppi folk. Solo recentemente la nascita di nuove scienze, come l’etnomusicologia e la dialettologia nelle Università cercano di dare una qualche razionalità e sistematicità al fenomeno. I canti popolari, che sono veri gioielli di spontaneità e poesia, seguivano per lo più motivi musicali improvvisati, orecchiabili e molto ritmati; un esempio, anche se risale alla metà del 1900, è l’inno di Monte Castello di Vibio scritto da Renato Ippoliti. Tale canzone, composta dall’alternanza di due strofe e un ritornello che si ripetono cambiando il testo, si cantava negli anni sessanta in molte occasioni di festa, in particolar modo nelle “scampagnate” che si facevano a piedi nel territorio, dove mete preferite erano il Faena a Pianicoli, il Tevere al Furioso, il Doglio.
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Musica e canti popolari
Inno di Monte Castello Vibio In cima a ‘na montagna c’è ‘n paese con ‘na torre che fa da campanile c’è ‘n palazzone vecchio co ‘n cortile ‘n teatro, ‘n comune e ‘n par de chiese. Tra quelle mura nacque nonno mio tra quelle case ce so’ nato anch’io. Quanno che ce ritorno da lontano lo vedo steso in cima a ‘na montagna Me fa lo stesso effetto d’un poro vecchio stanco che se lagna d’avè tant’anni e che se mette a letto. lo sai come se chiama ‘sto poro vecchierello? Strillalo forte a tutti: questo è Monte Castello!! Ma al mattin d’estate chiaro e fresco pulito profumato scintillante el panorama è proprio pittoresco e ‘l sole brilla mejo d’un brillante!! E dentro la pineta dei giardini ce vanno le ragazze e i ragazzini. I forestieri che ce so’ venuti nun se scordano più de ‘sto paese. Ce lasciano anche el core dentro ‘ste quattro case e ‘ste du’ chiese perché questa è la terra dell’amore. lo sai come se chiama ‘sto posto così bello? Strillalo forte a tutti: questo è Monte Castello!!
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Musica e canti popolari
lA BANDA MUSICAlE Quasi ogni città poteva vantarsi di avere nella comunità locale un complesso bandistico costituito per volontà popolare allo scopo di diffondere e radicare sul territorio la conoscenza della musica in un periodo in cui non vi erano scuole specialistiche. Fin dai tempi più antichi esistevano complessi di strumenti a fiato che segnavano i momenti socio culturali della comunità di appartenenza, ad esempio nell’età romana erano usati nelle cerimonie religiose e militari mentre nel medioevo accompagnavano il carroccio, simbolo della città. la banda con le connotazioni attuali risale al XIV secolo quando un buon numero di suonatori prestava servizio presso le Corti, con compiti di parata. Più tardi, durante le battaglie, i corpi bandistici o le fanfare intonavano l’inno incitando i compagni al combattimento o al termine della guerra festeggiavano la vittoria. Fino al 1845 le bande, che già si distinguevano tra cittadine e militari, erano formate da ottavino, quartino, clarinetto, fagotto, oboe, tromba, trombone, corno, controfagotto, timpani; più tardi vennero inseriti i sassofoni, ma restavano esclusi gli strumenti a corde. In Italia fino al 1860 solo lo stato Pontificio possedeva corpi bandistici con l’organico predefinito che lavorava a tempo pieno. Nei primi decenni del ’900 le bande civili si moltiplicarono e la loro presenza fu richiesta per lo più in occasioni speciali, feste, nozze e ricevimenti. Oggi esistono diverse tipologie di corpi bandistici; si va dalla fanfara (formazione da parata come quella dei Bersaglieri composta solo da ottoni) alla banda sinfonica che, accanto agli strumenti tipici, ne utilizza altri impossibili da trasportare durante le marce come il contrabbasso, l’arpa, la batteria e le tastiere elettroniche. Il repertorio classico proposto era composto essenzialmente di marce ma a partire dall’800 si è ampliato con sinfonie d’opere composte per orchestra e ultimamente con le colonne sonore dei film o brani di musica pop, funk, blues.
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Musica e canti popolari
lA BANDA DI MONTE CASTEllO DI VIBIO Anche Monte Castello di Vibio ha avuto la sua banda musicale fondata nel 1829 con il nome di “Società Filarmonica”. Nel Regolamento, approvato il 15 maggio 1845 dalla Congregazione degli Studi di Montecastello si legge che: “Istituita fin dal 1829 una banda strumentale in questa terra di Monte Castello si giudicò dai più intelligenti sin da quell’epoca, che la suddetta non si sarebbe fatta abile se un valente professore di musica non ne avesse assunto la direzione e se delle leggi normali non avessero regolato il suo progressivo andamento. Si provvide alla direzione del 1836 affidandola al professor Giovanni Battista De Vecchis allora maestro di musica nel Comune di Todi ed i componenti della filarmonica, tutti intenti ad apprendere i precetti del bravo istruttore, trascurarono l’adozione di un regolamento. Proprio nel momento in cui i suoi allievi gli davano soddisfazione il maestro fu costretto ad abbandonare l’incarico e lo Stato Pontificio”. la filarmonica, secondo il regolamento, doveva dotarsi di un abile direttore almeno per un triennio e provvedere al suo compenso tramite i fondi raccolti nelle uscite sul territorio, nei servizi fatti in occasione delle feste nazionali (compenso a carico del Comune) e attraverso il pagamento di una quota annua a carico dei membri della filarmonica e dei soci. Questa era soggetta alle disposizioni dell’Apostolica Delegazione che con Declaratoria 14 luglio 1835 era emanata in osservanza delle prescrizioni a cui le bande dello Stato Pontificio si dovevano attenere (atto emanato dalla suprema segreteria per gli affari di Stato interni del 20 marzo 1835 n. 28301). Era cura della deputazione – cioè del Consiglio – cercare i migliori maestri, forniti dei requisiti politici e morali utili a dirigere la filarmonica per un triennio, almeno per quattro mesi all’anno. In questo periodo il maestro non avrebbe potuto fare scuola ad altri estranei alla filarmonica. Spettava a lui tenere un registro per le presenze, assegnare le posizioni all’interno del corpo bandistico e curare i progressi di ogni musicista. Il suo compenso veniva attinto da un capitolato a parte, dal fondo cassa della Società Filarmonica. la banda aveva il compito di rallegrare la vita del paese con i concerti che scandivano cerimonie e tradizioni nell’evolversi delle stagioni dell’anno. Nel periodico quindicinale di Monte Castello di Vibio “lA SVEGlIA” del 14 febbraio 1897 si legge: “...Sempre per iniziativa del Circolo dei divertimenti, gli ultimi giorni di Carnevale si daranno dei festivals diurni
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nel Piazzale del Mercato (oggi Piazza ludovico Migliorati); vi saranno pure dei giochi campestri come l’albero della cuccagna e le corse degli asini. Rallegrerà i divertimenti la banda del paese, la quale si presta anch’essa per festeggiare più lietamente possibile il Carnevale 1897”. Nello stesso anno si legge ancora che: “...In occasione dei festeggiamenti del Carnevale, realizzati nel nostro teatro, la banda cittadina sotto la direzione sempre valente del maestro Eugenio Piccini, tra un atto e l’altro suonò applaudita il Terzetto della lucrezia Borgia Atto I° ed il Terzetto della Jone atto III° e non è la prima volta che ciò accade!” Nel giorno della festa di Santa Cecilia, protettrice della musica, 22 novembre, venivano fatte celebrare a carico della Società tre messe, una delle quali cantata. la sera veniva impartita la santa benedizione. Tutti i componenti della società dovevano suonare la mattina nella messa cantata, che aveva generalmente luogo dopo che i filarmonici si erano confessati e comunicati. Ecco di seguito coloro che costituivano il gruppo bandistico della prima Filarmonica di Monte Castello di Vibio: Clarino Quartino Baldini, Erminio Benedetti, Filippo Faina, Nenio Fornari, Davide Sagrazzini, leonardo Fornari, Pietro Sagrazzini, Placido Tiratelli, Domenico Fornari Decimini Costantino Rossi, Massimo Tiratelli Corni Alessandro Tiratelli, Alessandro Carli, Sabatino Dozi, Vincenzo Rossi Trombe Filippo Salvatelli, Francesco Pellegrini Tromboni ludovico Pettinelli, Cesare Tiratelli, Giovanni Faina, Gioacchino Angeli Fagotti Scipione Pettinelli, Matteo Angeli Banda Pompeo Tiratelli, Francesco Tomassini, Pietro Mannaioli, Carlo Tiratelli. la Banda Musicale di Monte Castello di Vibio si ricostituì nel 1912 per merito del maestro Bistini che ottenne dal Comune l’incarico della sua direzione. Nel 1922 divenne presidente della banda Monsignor Don Oscar Marri, che chiamò a dirigerla il noto maestro tuderte Carlo Della Giacoma (3 Marzo 1858, Verona - 9 Aprile 1929, Todi). 17
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(Questo compositore, nato in Alto Adige, negli anni '70 studiò musica al Collegio militare di Milano e successivamente al Liceo musicale di Torino. Nel 1877 intraprese la carriera militare nel Regio Esercito Italiano ove rimase ventisette anni, prima suonatore di clarinetto, poi capo musica, assegnato a varie guarnigioni di stanza ad Ancona, Livorno, Trapani, Palermo e Mantova, del 38° Reggimento Fanteria. Congedatosi dall’Esercito per anzianità di servizio, il 1° gennaio 1900, si stabilì a Todi assumendo l’incarico di direttore della banda municipale, di maestro della scuola comunale ed insegnante di musica dell’istituto “Crispolti”. Il provvedimento del Comune di Todi, che soppresse nel 1923 il corpo bandistico, condizionò pesantemente il musicista, che negli ultimi anni, privo di occupazioni, fu oggetto di aggressioni e provvedimenti restrittivi esercitati dal regime che si stava instaurando tanto da giungere al suicidio per mezzo di un’arma da fuoco. A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, la musica di Della Giacoma suscita ancora interesse sia per il suo percorso di studi costruito in lunghi anni di formazione e riflessione, sia per l’importanza data alla tecnica strumentale e compositiva. La permanenza in vari luoghi del maestro favorì inoltre l’instaurarsi di rapporti con illustri personaggi quali Pietro Mascagni, Pietro Gori, Giovanni Pascoli, Giosuè Carducci ed i cantanti Papeschi, Gualtier-Messa, Hynes Orsini, Zonchi e Cantarelli. Ciò consentì quella facilità di circolazione di movimenti e novità, che a livello europeo crearono un substrato fecondo dal quale emersero solo i personaggi culturali considerati maggiori.) Nel 1932 si avvicendò alla direzione della Filarmonica di Monte Castello di Vibio Evaristo Ambrogi di Marsciano. Scioltasi durante la II° guerra mondiale, la banda si ricostituì nel 1946 sotto la guida di Antonio Salvatelli. Era così formata: Corni (tricorni e pistoncini o cornetta più corta): Mannaioli Decio, Tortolini Alfredo, Salvatelli Antonio, Salvatelli Aristide, Mannaioli Italo, Faina Giovanni, Angeli Adolfo, Frollini Guido, Salvatelli Mecuccio, Galletti Eugenio al quartino, al bombardino Nereo Angeli, al trombone Paciacchi Angelo, Alcide Cantaroni, al tamburo Giuseppe Capociuchi detto Cricco, poi sostituito da Mannaioli Wilson, al sassofono Mario Capocci. Don Francesco Dominici ne tenne la direzione dal 1952 fino al 1955, anno in cui il complesso bandistico fu sciolto di nuovo.
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Un disegno di Renato Ippoliti, storico del paese, documenta come la divisa era composta da un chippì con visiera filettata bianca e catena girata, giacca blu con alamari bianchi, pantaloni blu con fascia bianca e sciabola con fodero d’acciaio. Dopo circa trenta anni di inattività, nel 1981, per volontà di alcuni cittadini e dell’Amministrazione Comunale guidata da Giuliano Ciombolini, si ricostituì sotto la guida del Maestro D’Antonio la filarmonica intitolata “Gli Amici della Musica - Don Oscar Marri”. Negli anni ’90 il gruppo, formato da circa 30 elementi e diretto dal Maestro Rossano Emili, diplomato in sassofono e jazzista di fama, ampliò notevolmente il proprio repertorio con arrangiamenti di musiche tratte da colonne sonore di films e trascrizioni di brani di compositori classici. Il giornale locale “la Concordia” documenta la cronaca di un periodo di splendore sotto la direzione del concittadino Emili che ha avuto il merito di farla esibire nel teatro più piccolo del mondo. Nel 2000 la banda ha cessato l'attività, per carenza di organico. l’associazione “Gli Amici della Musica Don Oscar Marri” rimane però attiva sul territorio dove organizza concerti ed eventi nell’arco dell’anno. Nel 2005 viene istituita la Scuola di Musica attualmente coordinata dal maestro Federico Codini. Auspichiamo che questo gruppo di musicisti possa un giorno testimoniare la vivacità culturale che aveva un tempo la nostra piccola comunità.
Caricatura della Banda musicale del pittore americano Silverman 19
Musica e canti popolari
CANTI E FIlASTROCCHE Molti sono i canti che fanno riferimento alla religione anche quando diventano filastrocche o ninne nanne o canti della culla che, con la nenia cullante di tale forma semplice e diffusa di comunicazione orale, rappresentano il primo messaggio musicale trasmesso dalla mamma al bambino. Maria filava (ninna nanna) Maria filava Giuseppe stendeva Il fijo piagneva dal sonno che aveva. Azzitete fijo ch’adesso te pijo, te pijo, te fascio la zinna te do. Evviva Maria e chi la creò. Questa filastrocca, divenuta popolare nella nostra regione, oggi si è diffusa, grazie alle missioni religiose, anche in alcuni paesi sud americani. San Giuseppe vecchierello (Filastrocca) San Giuseppe vecchierello porta ‘l foco sotto ‘l mantello, pe’ scalla’ ‘l bambinello. Canta canta bello fiore; bello fiore ha cantato. Gesù Cristo ha predicato ha predicato ad alta voce che per noi è morto ‘n croce. È morto ‘n croce per salvarci, la Madonna che c’abbracci che c’abbracci ‘l suo fijolo che nun ci venga quel brutt’omo, che ci venga matre Maria sola sola da quella via. 20
Musica e canti popolari
Preghiera contro il diavolo (filastrocca) A letto a letto me ne vò. l’anima mia a Dio la do, la do a Dio e a San Giovanni, che ‘l nimico nun m’inganni, nnè de dì, nnè de notte, manco al punto de la morte; nnè de notte, nnè de dì, manco al punto de morì. Molte canzoni erano cantate durante il duro lavoro dei campi per alleviare la fatica e allontanare la tristezza. Si trattava di canti ritmati dal testo leggero e vivace come quello seguente dedicato al fazzoletto, un indumento importante un tempo, considerato poco nell’uso popolare e maggiormente nell’aristocrazia, dove veniva sfoggiato con pizzi e ricami dalle gran dame. Tra i contadini chi possedeva un fazzoletto lo riservava per i giorni di festa. Aridamme quel fazzolettino Amor dammi quel fazzolettino (Rip) Che alla fonte lo vado a lavar... Te lo lavo alla pietra di marmo (Rip) Ogni sbattuta un sospiro d’amor... Te lo stendo su un ramo di rose (Rip) Il vento d’amore lo deve asciugar Te lo stiro col ferro a vapore (Rip) Ogni pieghina un bacino d’amor Te lo metto nel primo cassetto (Rip) di nascosto di mamma e papà Te lo rendo di sabato sera (Rip) Quando vieni a fare l’amor
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Musica e canti popolari
Il cacciator nel bosco Il cacciator nel bosco mentre alla caccia andava trovò una pastorella graziosa e bella e il cacciator s’innamorò. Prima la prese per mano poi la condusse a sedere dal gusto dal piacere e dal godere la pastorella s’addormentò. Mentre la bella dormiva il cacciatore vegliava pregava gli uccelletti che non cantassero perché la bella potesse dormir. Quando la bella fu sveglia il cacciator non c’era vigliacco malfattore d’un traditore cuore crudele tu m’hai tradì. No che non sono malfattore nemmeno un traditore son figlio di un signore, son cacciatore so fare ben l’amore. Se i tuoi non son contenti noi li accontenteremo andrem lontan lontano e alfin ci sposeremo.
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Musica e canti popolari
Veneranda Di nome si chiamava Veneranda i giovanotti le fanno la ronda (Rit.) Babbo non vuole, mamma nemmeno come faremo a fare l’amor? babbo non vuole, mamma nemmeno come faremo a fare l’amor? Mi guarda e ti diranno gli occhi miei che la speranza e il mio amor tu sei (Rit.) Babbo non vuole, mamma nemmeno come faremo a fare l’amor? babbo non vuole, mamma nemmeno come faremo a fare l’amor? Mi guarda e favelliam così d’amore di quell’ amore che ci avvampa il core. (Rit.) Babbo non vuole, mamma nemmeno come faremo a fare l’amor ? Babbo non vuole, mamma nemmeno come faremo a fare l’amor ?
Si era soliti cantare così nelle campagne intorno Monte Castello di Vibio, Marsciano e Todi in occasione della trebbiatura e nelle serate d’estate al chiaro di luna.
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Musica e canti popolari
Quel mazzolin di fiori Quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna e bada ben che non si bagna che lo devo regalar. lo voglio regalare perché è un bel mazzetto lo voglio dare al mio moretto questa sera quando vien. Stasera quando viene sarà una brutta sera e perché lui sabato sera non è venuto a me. Non è venuto a me è andato da Rosina e perché io son poverina mi fa pianger e sospirar. Mi fa pianger e sospirare sul letto dei lamenti cosa mai dirà la gente cosa mai dirà di me. Dirà che son tradita tradita nell’amore e a me mi piange il cuore mi fa pianger e sospirar.
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Musica e canti popolari
SERENATE Molte erano le opportunità che si cercava di dare agli innamorati, visto che a quei tempi non vi era per i giovani tutta la libertà di frequentazione di cui si gode oggi. Una di queste era costituita dalla serenata che dava all’innamorato la possibilità di cantare tutta l’intensità del proprio sentimento affidandolo a una canzone appassionata, commovente e famosa, che voleva sciogliere il cuore della ragazza desiderata. la serenata veniva cantata a tarda sera dal giovane innamorato accompagnato dal suono della fisarmonica o del mandolino sotto la finestra della ragazza che si intendeva conquistare. Se la giovane accettava la sua corte accendeva la luce e successivamente il ragazzo veniva invitato a casa per le visite serali. Altrimenti se la fanciulla non ricambiava il sentimento, la luce della sua camera restava spenta e il giovane era costretto a tornare a casa triste e sconsolato. Qualche volta al posto della serenata c’era invece l’ELLERATA (o ENNERATA) una canzone improvvisata in rima dai toni ironici e pungenti. Si sa che gli amori non corrisposti sono spesso oggetto di scherno da parte degli amici. Una tradizione piuttosto simpatica riguarda la vigilia delle nozze di uno dei due giovani che in precedenza aveva rotto il fidanzamento. Colui che era stato tradito e abbandonato doveva offrire da bere agli amici per farli desistere dal gettare paglia o edera davanti alla casa. Era un modo per sdrammatizzare la situazione. la SCAMPANATA consisteva invece in una manifestazione di scarso apprezzamento nei confronti della malcapitata che aveva tradito il marito o si era comportata in modo poco onorato nell’ambiente sociale alquanto ristretto di allora. la scampanata si poteva verificare verbalmente o musicalmente, il più delle volte con l’ausilio di oggetti come imbuti, latte che potessero far rumore. Il gruppo di giovani si radunava sotto le finestre della donna per uno scambio di battute accompagnate dall’ironico rumore di latte che aveva lo scopo di schernire la donna e metterla alla berlina davanti a tutto il vicinato.
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Musica e canti popolari
STORNEllI lo stornello appartiene al genere della poesia popolare piuttosto semplice, spesso improvvisata e di argomento amoroso o satirico. È tipico dell’Italia centrale. Questo tipo di componimento è costituito da strofe composte da tre versi, il primo un quinario, che di solito contiene l’invocazione ad un fiore, gli altri due endecasillabi, in assonanza o in rima col verso d’apertura. In genere viene cantato o accompagnato da musica. Ecco qualche testo originario delle campagne umbre: Fior di olivella l’occhio te ride e la boccuccia parla (Rip) figlia del cielo quanto sete bella! Fiore dell'olmo tutta la notte te la vai giranno (Rip) e la mattina sei morto de sonno! Fior de ginestra per fa l'amore sete mezza guasta (Rip) portate tutti strappi ta la vesta! Fiore di canna tutta la notte fai la ninna nanna (Rip) non hai marito e sei chiamata mamma! Ricordiamo alcuni stornelli che i giovani di Monte Castello di Vibio cantavano in occasione del Carnevale, in particolare questi che riportiamo erano stati improvvisati per l’inaugurazione della sala da ballo - Al Falco Azzurro - che ebbe luogo il 16 febbraio 1963 ad opera dalla società del carnevale montecastellese FA.MO.PA.RO (Fabrizi, Moscardini, Pancrazi, Rosati). Musetto bello Vieni con me, ti vo portare al ballo del Falco Azzurro di Monte Castello. Fiorin di canna Metti tra i ricci la più bella penna che balleremo il twist alla Capanna. Fior Fior di Burro Ti voglio col vestito più bizzarro che andiamo al ballo del gran Falco Azzurro. 26
Musica e canti popolari
SEGA lA VECCHIA Sega la vecchia è un’antica rappresentazione di mezza quaresima del mondo contadino. Questa usanza era particolarmente diffusa in Umbria, Toscana ed Emilia Romagna. Un gruppo di attori improvvisati visitava le case del contado e inscenava una recita a carattere burlesco in cui una vecchia, che rappresentava un albero di quercia, veniva simbolicamente abbattuta e segata. Il farsesco dramma in cui giovani cantastorie, seguendo un rituale di cantilene, inscenavano la malattia della vecchia cadente, culminava con la segata della vecchia moribonda da parte dei contadini piuttosto aitanti fino a risorgere tra danze, canti e manifestazioni di gioia. Il gruppo di giovani era composto da tre attori improvvisati: un vecchio, una vecchia e un dottore. A questi si aggiungevano i figli, un prete, un coro e un suonatore di fisarmonica. Tra i nostri ricordi è ancora vivo il contributo che spesso offrivano alla rappresentazione i fisarmonicisti Bruno Fogliani, Gino Marchino e il famoso Centauro di Terni, mentre Peppe Capociuchi era tra i cantastorie più apprezzati. Questo è il testo della farsa: Coro: Buona sera, padroni di casa, son sei giorni che siam per la via, ci fareste la gran cortesia se la vecchia ci fate segà. Ringraziamo, egregi signori, che ci hanno dato il permesso d’entrà, la condanna dovranno ascoltà di una vecchia stordita che è qua. (Vecchio) Vattene vecchia furfante, non vedi, fai vergogna, sei peggio della rogna, non te posso più vedè. Vi prego cari figlioli de gridà presto vendetta, questa vecchia maledetta la dobbiamo ammazzà. 27
Musica e canti popolari
(Coro) Su fratello, ch’assisti alla farsa, di segare ’sta vecchia stordita, troncheremo all’istante la vita senza nemmeno farla parlà (I figli segano la vecchia. Canta il vecchio.) Figlio mio, mi sono avvisto che delitto abbiamo fatto, subito senza attardà il dottore bisogna chiamà. (Coro) Dottore per gentilezza, mi faccia una sveltezza, c’è mamma mia malata forte, c’è paura della morte. Dottore Se la vecchia risorger io posso, tutti voi farete attenzione, gli farò una grande iniezione e la vecchia risorger dovrà. (Il medico utilizza una gigantesca siringa per iniettare un farmaco capace di far risorgere la vecchia) Se la vecchia risorger io posso, tutti voi farete la prova, mi darete una cesta di uova, altrimenti il verbale farò. Coro No, no signor dottore, non ce fate del male, ci dica quel che vole, siam pronti per pagà. Buona sera, padroni di casa, siamo costretti di fare partenza, siamo costretti di far riverenza, tante grazie al vostro buon cuore.
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Musica e canti popolari
A conclusione della farsa alcuni giovani passavano con il canestro dove venivano deposte le uova offerte per tradizione dalla famiglia che ospitava lo spettacolo. Ci è giunta un’altra versione... Buona sera egregi signori son sei giorni che siam per la via Se ci fate la gran cortesia questa sera di farci alloggiar. Grazie tanto gentili che sono che il permesso ci han dato d’entrare la condanna dovranno notare a una vecchia birbante ch’è qui. Sta vecchiaccia zelante sorniona vuol ballare nel modo da invito non da retta nemmeno al marito sempre al ballo lei cerca di andar. Or che siamo a metà di Quaresima é proibito danzar e ballar ora è tempo di stare a pregar gli angioletti che stanno nel ciel. (Vecchia) È inutile miei cari che ciarlate, le chiacchiere in fumo sono andate e ballar voglio tutt’ il dì. (Vecchio) Imbecille di una vecchia non senti tu vergogna, sei peggio della rogna, non ti posso più vedé. (Vecchio) Ah! I nostri tempi lieti quando ti amavo tanto ora è il campo santo che sta aspettando te. 29
Musica e canti popolari
Vi prego, oh figli, di far presto vendetta sta vecchia maledetta dobbiamo qui stancar. (Figli) Senti mamma che brutta notizia che ti ha dato il crudele consorte Ti vuol dare all’istante la morte col sacrificio d’una novizia.
Sega la vecchia del 1960
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Musica e canti popolari
l’usanza, che si perpetuava il sabato e la domenica della Quaresima, era un modo per trascorrere il tempo in allegria insieme alle famiglie contadine, che non avevano altrimenti contatti, se non sporadici, con la società del tempo. Il gruppo di attori improvvisati chiedeva solo ospitalità e un po’ di uova in cambio della rappresentazione teatrale. la raccolta delle uova era quasi d’obbligo anche in vista della preparazione delle torte di Pasqua. Ma la tradizione affonda le sue radici ai tempi più remoti con la celebrazione pagana legata alla fine dell’inverno e all’avvicinarsi della primavera. Con la vecchia, infatti, si voleva segare simbolicamente e quindi eliminare tutto ciò che era vecchio, passato, non più utile, per propiziarsi una stagione e un futuro migliore.
Sega la vecchia del 1964
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Musica e canti popolari
CANTI di PASSIONE Fede e cultura popolare della terra umbra sono testimoniati dai Cantapassione, Pasquarellari sparsi nel territorio. Secondo una tradizione, ancora viva agli inizi del 1960 nelle campagne, durante il periodo della Quaresima, in particolar modo sabato e domenica, gruppi di musicanti, in prevalenza contadini, andavano di casa in casa suonando e intonando i Canti della Passione di Cristo. I Cantapassione erano canti raccolti in quartine (‘mpòste) da intonare a più voci secondo testi che potevano essere musicati diversamente da luogo a luogo, tramandati oralmente e imparati a memoria fin da bambini l’Umbria più di ogni altra regione ha mantenuto attivo il ciclo della settimana santa con un’intensa partecipazione popolare e con una ricca varietà di riti. I repertori musicali e i testi poetici che il popolo umbro ha intonato e declamato per generazioni in occasione della preparazione della Pasqua rappresentano un affresco sonoro dell’Umbria che è testimonianza di una cultura antica. Per capire come i Canti di Passione avevano trovato tanto seguito nelle campagne bisogna metterli in relazione con il misticismo della nostra regione e la capacità del popolo umbro di far poesia sulla passione di Cristo, ma è anche necessario legarli al dispiegarsi della tradizione dei canti di questua. I gruppi di cantori erano costituiti infatti da tre o quattro elementi, due o tre suonatori e un portatore di canestro per la raccolta delle uova e delle offerte. Secondo la tradizione gli strumenti per accompagnare il canto erano l’organetto, la fisarmonica dopo il 1929, a volte il contrabbasso e il triangolo. Spesso il mandolino sostituiva il contrabbasso, che era troppo costoso, e qualche volta c’era anche il clarinetto. I cantori erano due e si alternavano intonando una strofa ciascuno secondo la consuetudine dello stornellare “a batocchio”. I cantapassione annunciavano il loro arrivo cantando una strofa molto popolare ed emblematica di tutta una tradizione:
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Musica e canti popolari
E la Passion de Cristo Tutti la vò’ cantanno, le fregne de quest’anno non so’ successe più. la Passione dell’Italia centrale ripropone in vari momenti la ricerca dolorosa che Maria fa del Figlio, l’incontro con il fabbro che forgia i chiodi e la croce e la preghiera ai carnefici di agire con estrema delicatezza. Certamente la tradizione prende il via nel Medioevo rifacendosi anche alle laudi religiose e ispirandosi, per quanto riguarda il nostro territorio, al Pianto della Madonna di Jacopone da Todi (1230-1306) di cui si fa cenno: «Donna de Paradiso lo tuo figliolo è priso Iesù Cristo beato. Accurre, donna e vide che la gente l’allide; credo che lo s’occide, tanto l’ò flagellato. Attribuito a Jacopone da Todi è anche lo Stabat Mater, canto amato da intere generazioni di musicisti colti come Scarlatti, Vivaldi, Pergolesi, Rossini. Recitato durante la messa dell’Addolorata (15 settembre), prima della Riforma liturgica era utilizzato nell'ufficio del venerdì della settimana di passione (Madonna dei sette dolori) e accompagnava il rito della Via Crucis nella processione del Venerdì Santo.
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Musica e canti popolari
Versione in latino
Versione in italiano
Stabat mater dolorosa Iuxta crucem lacrimosa, dum pendebat filius.
Stava la madre addolorata ai piedi della crudele croce da cui pendeva il Figlio
Cuius animam gementem, contristatam et dolentem pertransivit gladius.
la spada trapassò la sua anima gemente Addolorata e dolente.
O quam tristis et afflicta Fuit illa benedica Mater Unigeniti.
Oh quanta tristezza e pena provò quella benedetta Madre del suo Unigenito!
Quae morebat et dolebat Pia Mater dum videbat Nati poenas inclyti.
Si addolorava e si disperava quella Pia Madre nel vedere i patimenti del figlio glorioso.
Qui es homo, qui non fleret Matrem Christi si videret In tanto supplicio?
Chi non piangerebbe nel vedere la Madre di Cristo in così grande tormento?
Quis non posset contristari Christi Matrem contemplari Dolentem cum filio?
Chi non si rattristerebbe osservando la Madre di Cristo addolorarsi insieme al figlio?
Pro peccatis suae gentis Vidit Jesum in tormentis, et flagellis subditum.
Per i peccati della sua gente Ella vide Gesù costretto alle torture e alle percosse. (ritornello) Santa madre deh ! Voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore
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Musica e canti popolari
ECCO CH’È GIUNTA l’ORA A Monte Castello di Vibio si era soliti cantare il sabato e la domenica delle ultime due settimane prima di Pasqua “Ecco che è giunta l’ora”. Noto anche con il titolo “Il canto sopra alla passione di Cristo” insieme alla “Passione delle ventiquattro ore” è il canto più conosciuto anche al di fuori dell’Umbria. Fino al 1960 faceva parte del repertorio intonato “a la spellana” ad Assisi, Valfabbrica, Nocera Umbra, Valtopina, ma anche “a la derutese” durante la processione del venerdì santo a Ripabianca di Deruta“ o “a la todina” nella zona di Todi e Montecastello di Vibio. Il testo appartiene all’italiano popolare colto che impiega parole tipiche del volgare ricercato come “alma” “periglio” “iniquo” e “rio”. la Passione è raccontata da un Nunzio, in cui si identifica il poeta, figura già introdotta da Jacopone da Todi in “Donna de Paradiso”. Il Nunzio ha il compito non solo di narrare ma di attirare l’attenzione sui punti salienti del dramma umano e divino riuscendo a commuovere e a far rivivere lo strazio della passione di Cristo. la tradizione, che si è interrotta nel 1960, vedeva Billera David al contrabbasso, Capocci Alviero alla fisarmonica con le voci di Capociuchi Giuseppe e Tomassi Primo. Ecco che è giunta l’ora, o ingrato peccatore, rimira il tuo Signore, che alla morte se ne va. Per te spietate ancora volle abbracciar la morte per aprì quelle porte del regno celestià. Nell’orto immantinente ha volte le sue piante, il bòn Gesù costante dal Padreterno andò. Tutto mesto e dolente In terra cate e langue, dal gran sudor di sangue resistere non può. 35
Musica e canti popolari
Alfine il traditore e Giuda con dispetto dice:- Maestro eletto, Iddio ti dia il buon dì.Rispose il mio Signore: -Che cerchi amico mio?E Giuda iniquo e rio col bacio lo tradì. le turbe in quel momento con funi e con catene verzo l’amato bene ognuno s’avventò. E con maggior tormento l’afflitto redentore con gran pen’e dolore alla prigione andò. Prigione fu levato con più vergogna e scorno e ancora lo menorrò l’amoroso Signò. Il traditore ingrato gli diete una guanciata, quella faccia beata sentì tanto dolò’. Allor per soddisfare al popolo l’insolenza a sì crudel sentenza Pilato acconsentì. E senza più indugiare legato a la colonna
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Musica e canti popolari
e come un malfattore ognuno lo schernÏ. legato a la colonna battuto e flagellato, di spine coronato fu il dolce Redentò. Piangea la cara matre mirando il suo Signore... Penzate il gran dolore che sentiva nel suo cuor!
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Capitolo II Tradizioni nella storia
Tradizioni nella storia
CARNEVAlE la parola carnevale deriva dal latino “carnem levare” (“eliminare la carne”) e sta a significare la necessità di iniziare il periodo di digiuno della Quaresima, dopo i bagordi della festa. Si tratta di un periodo, legato alla tradizione cristiana, che ha inizio con la Domenica di Settuagesima (la prima delle sette che precedono la Settimana Santa secondo il calendario Gregoriano) e finisce il martedì precedente il mercoledì delle Ceneri che segna l’inizio della Quaresima. Il momento culminante si ha dal giovedì al martedì grasso ultimo giorno di Carnevale. la celebrazione carnevalesca ha origine però da feste più antiche, ad esempio le dionisiache greche e i saturnali romani, che rappresentavano la necessità di un temporaneo scioglimento degli obblighi sociali per lasciar posto allo scherzo e alla dissolutezza. I festeggiamenti si svolgevano per lo più in parate pubbliche in cui dominava il carattere giocoso e fantasioso; in particolare l'elemento distintivo è la tradizione del mascheramento. Il Carnevale era una ricorrenza molto sentita nel territorio di Monte Castello di Vibio come in tutta la regione, anche se le città umbre non hanno fatto assurgere tale evento a manifestazione artistico culturale, come invece è successo a Viareggio o Venezia. Ad ogni modo si può dire che le abitudini quotidiane dell’intero paese erano trasformate nell’ intento di organizzare momenti sociali collettivi di divertimento in particolar modo quello del martedì grasso. Grande era l’eccitazione dei preparativi che vedevano specialmente le donne coinvolte a cucinare grigliate e torte al testo per rifocillarsi durante le serate danzanti organizzate in case private o in locali pubblici dove venivano chiamate le orchestrine in voga al momento. Si legge nel giornale “la Squilla” del 2 febbraio 1897 che “il Circolo dei Divertimenti, presieduto dai nostri amici Arpinolo Mannaioli e lucio Ciani darà nei giorni 6 e 25 corr. e 2 Marzo tre splendide feste da ballo con buffet, cotillon e premi alle migliori mascherine. I nostri filodrammatici poi stanno studiando, sotto la direzione di Rossi e Dell’Uomo, due bellissime commedie: la Fioraia di Chiossone in tre atti e l'Ingenua di G.Giraud in cinque atti che saranno rappresentate al Teatro Concordia le ultime due domeniche di Carnevale. E s’intende che dopo la recita s'incomincerà il ballo...” In tempi più recenti si ricordano negli anni sessanta le feste al CRAl (circolo ricreativo lavoratori), nella rimessa della casa di Aroldo Rosati situata 41
Tradizioni nella storia
presso l’edicola di San Giovanni e nel locale dell’Angelica (l’attuale market) dietro la medesima edicola dove si esibivano i gruppi musicali famosi nel territorio, come l’orchestra Mosè, l’orchestra Morena, il Quartetto Azzurro, il complesso Morando, the King’s e infine l’orchestra Famosdisperatos con Epifani Mario alla chitarra, Eugenio Masciotti al clarinetto, Renzo Rosati alla fisarmonica, Federici Paolo e Mario Galletti. Nel 1963 la società del carnevale montecastellese FA.MO.PA.RO. che prendeva il nome da Fabrizi, Moscardini, Pancrazi e Rosati, aveva organizzato feste da ballo alla Capanna del Falco Azzurro, otto serate “difilate” dal 16 gennaio fino a martedì 26 febbraio 1963... .
Società del Carnevale FA.MO.PA.RO 1963
....“E ogni sera nuova orchestra e nuovo cantautore. che nomi! Artisti di riconosciuta fama, notissimi in tutta l’Umbria per non dire in tutta Italia”.. così riportava una locandina. In un altro volantino era scritto: “cena di mezzanotte: cappelletti e fettuccine casalinghe.” Tra le degustazioni non potevano certo mancare le frappe o gli strufoli cucinati dalle abili mani delle nonne. 42
Tradizioni nella storia
Per il giorno di carnevale la tradizione voleva che si allestisse un mezzo di trasporto, un carro o più di recente un “camioncino” dove veniva issato un enorme fantoccio di cartapesta e stracci, a cui le brave donne del paese avevano cucito un adeguato abbigliamento maschile tipicamente contadino. Questi rappresentava il carnevale, che i giovani, stipati sul cassone del camion, portavano in giro nelle frazioni in un’atmosfera di sfrenata allegria. È certo che nelle diverse soste nelle piazze periferiche e nei bar tra i canti e i saluti con gli amici insieme a un buon bicchiere di vino cresceva l’allegria. Abbracci, canti, balli improvvisati rendevano vivi i festeggiamenti in quei borghi sempre tranquilli e dediti solo al lavoro che assumevano una vivacità incontrollata soltanto in questo periodo dell’anno.
Foto 1. Carnevale 1956
Era questa l’occasione per far nascere l’amore tra i giovani anche se vi era un detto abbastanza veritiero “Amore di carnevale poco dura” che usavano dire le madri per mettere in guardia le figlie, oppure per redarguire i ragazzi “Finito carnevale, finita la saccoccia del coione”. Al termine della tournée nelle frazioni si ritornava in paese e la festa procedeva nella piazza principale dove il Carnevale di cartapesta veniva sistemato sopra un falò a cui si appiccava il fuoco tra balli e canti sempre più animati. Con l’occasione tutti sfidavano il freddo delle serate invernali riscaldati dalla gioia di stare insieme a da un buon bicchiere di vino per dare l’ultimo addio al fantoccio e con lui ad una festa così viva, che riusciva a riunire tutti in allegria.
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Tradizioni nella storia
Il giorno dopo la quaresima avrebbe riportato il silenzio delle lunghe giornate di lavoro e di penitenza.
locandina del Falco Azzurro Carnevale 1963
Anche tale ricorrenza fa pensare ad una tradizione pagana che si celebrava nell’antichità bruciando il fantoccio, che rappresentava l’inverno, il freddo, la miseria, la mancanza di cibo nelle campagne. Si voleva insomma celebrare la fine della stagione fredda e l’avvento di quella primaverile, che rappresentava il risveglio della natura e l’avvicinarsi del raccolto. C’è da dire anche che, secondo il calendario romano, l’anno iniziava nel mese di marzo quindi in quel periodo cadevano i festeggiamenti popolari che in qualche modo sono rimasti nella tradizione pur con le dovute trasformazioni e adattamenti alle mutate condizioni e credenze.
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Foto 2 Carnevale 1958
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I BAllI Interessante è analizzare il modo di divertirsi anche durante le serate danzanti, che privilegiavano i balli di coppia, non certo quelli individuali o di gruppo come oggi. Certamente le occasioni ufficiali di incontro, al di fuori dei momenti lavorativi, per i giovani, e in special modo per gli innamorati, erano limitate a queste serate. I balli di coppia quindi non solo erano dettati dalla tradizione ma anche dalla necessità di favorire l’innamoramento e il conseguente fidanzamento. I balli di coppia seguivano la musica in voga all’epoca, ovvero il valzer, la mazurca, la polka, il tango, il salterello, la tarantella. Diffuso fin dal XIX secolo in Austria e nel sud della Germania, il valzer conquistò ben presto gran parte dell’Europa. Il successo fu dovuto al carattere orecchiabile della musica ma anche al fatto che per la prima volta la coppia di ballerini danzava abbracciata. Oggi il valzer è un ballo popolare eseguito con poche varianti in tutti i repertori e accompagnato con strumenti tradizionali come l’organetto e la fisarmonica. la mazurca, è una danza di coppia con ritmo ternario. Presente in quasi tutti i repertori di danza popolare, la polka, che si origina in Boemia all'inizio dell'800, è un ballo veloce a tempo binario in 2/4, molto popolare sia tra gli amanti del ballo liscio che tra quelli del ballo folk. la polka contagiò anche i compositori di musica classica, tra tutti Johann Strauss. Strumenti prediletti per la musica della polka sono la fisarmonica e l’organetto. Il tango è una danza popolare originale dell’Argentina, in voga dalla metà dell’800, diffusosi in Europa a partire dai primi anni del Novecento fino all’età d’oro, quella degli anni ’30 e ’40. In Italia ha avuto un peso culturale notevole con il supporto di grandi compositori e ballerini. Anche il tango utilizza per le sue esecuzioni la fisarmonica. Il salterello è una danza tradizionale dell’Italia centrale, derivata da un antico ballo di società del sec.XVI, molto ritmato con movimento rapido e vivace in misura di 3/8. Anche la quadriglia si proponeva durante le serate danzanti per ricreare il massimo dell’allegria e amalgamare i ballerini. Si tratta di un ballo di gruppo derivato dalle danze dei contadini francesi del XVII secolo e diffusosi in Europa. I danzatori si mettono generalmente in 2 file disposte l’una di fronte all’altra o altrimenti disposti in quadrato (il nome deriva dal francese quadriller), sotto la guida di un ballerino-coreografo che impartisce i comandi in un vernacolo che ha reminiscenze francesi, segno questo di una mescolanza di tradizioni avvenuta
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in seguito al periodo napoleonico. Anche la musica che accompagna il ballo viene chiamata quadriglia ed è in genere in tempo paro e spesso suonata con strumenti folcloristici, prevalentemente fisarmonica o organetto. Vi erano poi i balli figurati come la tarantella di chiara origine napoletana che, accompagnata da una musica ritmata sempre più frenetica, consentiva di scambiare la compagna e di effettuare diverse figure aprendosi al gruppo. Oltre alle danze in voga vi erano balli modificati dalla tradizione popolare in giochi scherzosi. Il Ballo dell’onore veniva eseguito in genere nelle feste familiari per creare maggior occasione di divertimento o per formare le coppie, quando il numero delle dame partecipanti era esiguo e non si voleva isolare nessuna ragazza. le coppie, a turno, si sedevano su due sedie opposte l’una all’altra in modo che i due giovani di sesso diverso non potessero vedersi, né riconoscersi. Il conduttore del gioco poneva domande molto semplici a cui i due ragazzi dovevano rispondere a monosillabi. Se le risposte dei due coincidevano la coppia era formata, altrimenti veniva sostituito uno dei due e si ricominciava con le domande fino ad esaurimento dei partecipanti e alla formazione di tutte le coppie. Il Ballo della scopa si eseguiva con una musica molto allegra che nel corso aumentava sempre più il ritmo. Tutti danzavano tranne un giovane che, accompagnandosi ad una scopa, andava a disturbare una coppia per sostituirsi al ballerino, che prendeva la scopa e a sua volta ripeteva l’operazione con un’altra coppia e così via all’infinito finché la musica non cessava e il danzatore restava con la scopa in mano tra le risate generali. È chiaro che c’era la volontà di divertirsi e quindi spesso il musicista interrompeva volutamente la musica quando voleva mettere alla berlina qualcuno tra l’ilarità generale. Chi restava con la scopa doveva sottoporsi ad una penitenza. Penitenze Anche le penitenze avevano lo scopo di giocare sul doppio senso e favorire il nascere di un amore. Il più delle volte si ricorreva a: Dire, fare, baciare, lettera o testamento. Se si sceglieva “Dire” si dava la possibilità al giovane, o alla giovane di esprimere un sentimento o fare un complimento o addirittura dichiarare il proprio amore di fronte a tutti. Con “Fare” vi era un’infinita gamma di possibilità in un raggio d’azione che andava dalla carezza
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Tradizioni nella storia
al bacio, al dispetto malizioso, allo scherzo con lo scopo di rendersi simpatico all’altro. Con “Baciare” chi si sottoponeva alla penitenza poteva dare un bacio a chi voleva, ma è naturale che in questo caso si doveva essere sicuri del fatto proprio per non rischiare un rifiuto davanti agli amici. Se si sceglieva la “lettera” si poteva dettare parole fingendo di scrivere sulle spalle di un ragazzo e immaginando di indirizzare frasi d’amore alla propria “bella”. Con “Testamento” il penitente doveva dare istruzioni relative alla sua eredità che non consisteva nei beni o nel capitale ma nei sentimenti e in tutto ciò che era legato al mondo della fantasia e della facezia. Accadeva perciò che l’innamorato lasciava tutti i suoi baci alla promessa sposa o immaginarie legnate al rivale in amore. Il “gioco delle penitenze” era molto in voga allora, certo costituiva uno dei rari strumenti per imparare a vivere in mezzo alla società e un mezzo divertente per rapportarsi con gli altri. Quando il gioco veniva fatto tra i più piccoli era sempre accompagnato da una filastrocca semplice e orecchiabile cantata dai bambini, che si tenevano per mano formando un cerchio, al centro del quale c’era il penitente, che al termine dello stornello ripetuto due volte, si affrettava a baciare il (o la) prescelto. Fai la penitenza fai la giravolta falla un’altra volta guarda in su guarda in giù dai un bacio a chi vuoi tu.
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Tradizioni nella storia
QUARESIMA
Priorette Anni ’70
Durante la Quaresima non erano più consentite feste danzanti, si rispettava l’astensione dalle carni e il digiuno almeno il venerdì. Nello Statuto di Montecastello di Vibio del 1516 era stabilito (R.ca XII, c.10rv) che tutti i venerdì del mese di marzo, ovvero della Quaresima gli abitanti del castello e della campagna si comportassero con il massimo rispetto come la domenica e si astenessero dal lavoro, da qualunque arte o attività manuale o dall’uso delle bestie da soma per non incorrere nella pena di dieci soldi. la tradizionale questua veniva fatta dai Priori e dalle Priorette. Il nome ci riporta ai Priori quali rappresentanti fin dal periodo comunale delle cariche istituzionali in quanto depositari di potere legislativo e politico; in questo caso il compito assegnato è solo religioso e di supporto alla chiesa. Il termine deriva dal latino prior-is e vuol dire “colui che precede”. In questa accezione i priori sono anche coloro che guidano la parrocchia, infatti in molte città umbre viene chiamato così il sacerdote. Nella nostra tradizione i priori sono questuanti che offrono arance in cambio di offerte in denaro per officiare le messe a favore delle anime del Purgatorio. le Priorette sono ragazze molto giovani che hanno ricevuto il sacramento della Cresima e restano in carica
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Tradizioni nella storia
un anno; anche loro raccolgono offerte da devolvere a favore del Santuario della Spineta. Nel 1932 don Oscar Marri istituì altri Priori, i quali avevano il compito di raccogliere nelle aie coloniche, durante la trebbiatura, offerte di grano che sarebbero servite a sostenere i costi per la celebrazione del secondo centenario della Madonna dei Portenti. Congregazione di carità di Monte Castello di Vibio la Congregazione di carità venne istituita con decreto del commissario straordinario Gioacchino Napoleone Pepoli n. 284 del 26 dicembre 1860, con il quale si estendeva alla provincia dell'Umbria la legge del 20 novembre 1859. la Congregazione di carità di Montecastello Vibio amministrò, già a partire dal 1862, le confraternite e i monti frumentari esistenti nel Comune: la Confraternita della Madonna del suffragio, la Confraternita del Santissimo Sacramento, la Confraternita di San Giuseppe, la Confraternita della Madonna dei portenti, la Confraternita della misericordia, la Confraternita del rosario, il Monte frumentario della misericordia, il Monte frumentario della frazione Doglio ed il Sussidio dotale Pellegrini. Confraternita Maria Santissima Addolorata Citiamo dallo Statuto: “la Confraternita dell’Addolorata nella nostra parrocchia è presente sicuramente dall’ottocento, quando nelle parrocchie le congregazioni sia maschili che femminili rappresentavano una delle più comuni forme aggregative: occasione di incontro dei fedeli oltre all’aspetto rituale o devozionale. Attraverso questo tipo di aggregazione la Parrocchia perseguiva i fini di evangelizzazione, di animazione della liturgia della carità. Tra i vari tipi di confraternite troviamo quelle che hanno come fine primario il suffragio, cioè la preghiera e la celebrazione eucaristica in memoria dei membri defunti del sodalizio. È il caso della nostra confraternita dell’Addolorata. Fino ad alcuni anni fa infatti la confraternita aveva come unica finalità quella del suffragio delle consorelle defunte. Dopo la morte di una consorella venivano celebrate sette messe nei sette mesi successivi la morte. Durante le esequie della consorella veniva portato lo stendardo della confraternita e
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Tradizioni nella storia
nei venerdì di Quaresima venivano celebrate S. Messe per tutte le consorelle defunte. Da alcuni anni la Confraternita ha subito una trasformazione nelle sue finalità; oltre al suffragio si è cercato di curare la pastorale caritativa e di dare una formazione spirituale con un taglio femminile mariano. Così cita lo Statuto: Art. 1 - la confraternita è un’aggregazione laicale che è parte integrante della parrocchia: ogni iniziativa deve essere presa d’accordo con essa e con il parroco pro tempore. la confraternita con sede nella Parrocchia dei Ss. Filippo e Giacomo ha come finalità primarie: • il suffragio delle consorelle defunte • l’animazione della pastorale della Carità • l’approfondimento di una spiritualità al femminile sul modello della B. V. Maria. Tali finalità verranno perseguite tramite varie iniziative che la confraternita inserirà nella programmazione pastorale della Parrocchia. le aderenti alla confraternita devono vivere in piena comunione ecclesiale e partecipare alla vita della parrocchia. Art. 7 - Sarebbe auspicabile che dalla confraternita dell’Addolorata nascesse il gruppo Caritas Parrocchiale. Uno degli obiettivi primari è quello di prendersi cura delle consorelle malate e anziane organizzando interventi di assistenza e aiuto. Art. 9 - la confraternita curerà come momento di festa e per tutta la comunità parrocchiale la festa dell’Addolorata che la chiesa celebra il 15 settembre. In tale occasione la confraternita renderà visibile la devozione a Maria madre dei dolori e aiuterà la comunità attraverso varie iniziative a celebrare Maria come modello di vita cristiano. Nell’ambito della festa sarà reso pubblico il bilancio delle entrate, delle uscite e delle attività svolte e quelle che verranno organizzate nell’arco del nuovo anno. Sarà cura delle consorelle portare la statua dell’Addolorata durante la processione del venerdì Santo. Ricordiamo che nel 1948 (anno del documento di seguito riportato) era presidente Esterina Pellegrini ved. Mannaioli, mentre attualmente detiene questa carica Antonella Gregori.
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Tradizioni nella storia
Liber in quo adnotantur Missae quae statutis diebus quotannis coelebrantur in Festis S. Mariae V. Septem Dolorum et pro Sororibus Defuntis Congregationis eiusdem Figuli quae Archypresbyteriali Eccl: SS. Philippi et Jacobi Montis Castellis Canonice Erecta est Libro in cui vengono annotate le Messe che sono celebrate nei giorni stabiliti nella Festa di S. Maria dell’Addolorata e per le sorelle defunte della congregazione stessa che è eretta nella chiesa Di S. Filippo e Giacomo nella canonica di Monte Castello
Si tratta di un documento di registrazione delle messe fatte celebrare in suffragio delle consorelle defunte a partire dal 1891. la prima registrazione così recita. In Festis S.Mariae septem dolorum (Nella Festa di S. Maria dei sette dolori o dell’Addolorata) Die 20 Martii 1891 (il giorno 20 marzo 1891) Vengono celebrate le messe per......................... Con lo stesso metodo vengono registrati ogni anno i suffragi. Alle prime annotazioni scritte in lingua latina seguono quelle in italiano a partire dal 28 aprile 1926. Tra le consorelle defunte, che beneficiarono di sette messe ritrovo nella quaresima del 1964 il nome di mia nonna Anna Mannaioli, negli anni successivi di Amalia Falini, Nisia Piscini, Erminia Pastorella e molte altre che rimangono nei nostri ricordi. 52
A volte vengono annotati anche i nomi dei predicatori e confessori presenti alle cerimonie religiose del venerdì santo. Così veniamo a sapere che quando era arciprete don Duilio Perni nel venerdì di passione del 1948 predicò Padre Felici Pacifico mentre confessori erano Padre Angelo dei S. di Maria e Padre Guido Ercoli. Nel 1949 sempre il venerdì santo predicò Don Ferdinando Falini e confessarono don Amedeo Friggi e Padre Nicola di Assisi. Vi sono inoltre delle annotazioni che riguardano decisioni prese in accordo con il parroco per interventi a beneficio della chiesa. Ad esempio nel 1948 si ideò di completare la chiesa parrocchiale con la sistemazione del quadro sull’altare maggiore e della statua della Madonna addolorata in una nicchia simmetrica con quella della Madonna Assunta e con quelle dei SS. Antonio Abbate e da Padova. Così ogni altare laterale avrebbe avuto il suo dipinto e le quattro statue avrebbero avuto nicchie uguali ricavate sui muri maestri della chiesa. Si fece un contratto con Alberto Tabacchini, pittore e professore dell’Accademia di belle Arti, che abitava al n.1 di via del Parione a Perugia. Il pittore presentò cinque progetti, di cui fu scelto uno dalla commissione composta dal soprintendente alle Belle Arti sig. Bizzarri, dalla Sig.ra Esterina Pellegrini ved. Mannaioli presidente della Confraternita dell’Addolorata e dal rev. Arciprete Duilio Perni. Il costo a lavoro eseguito sarebbe stato di 25.000 lire oltre alle 3.000 lire per il montaggio della tela su legno. la tela tutta intera, cioè in un solo taglio era offerta dalla sig.ra Cordella. Disgrazia volle che il pittore fu colpito da paralisi. Solo nel 1952 si potè completare il lavoro e celebrare la Festa dell’Addolorata il 4 aprile 1952 con l’inaugurazione del nuovo quadro sull’altare Maggiore dove è ancora situato.
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Tradizioni nella storia
SETTIMANA SANTA
Calvario Venerdì Santo 1930
Nel territorio la settimana santa era vissuta con molta partecipazione da parte di tutta la comunità. Secondo la tradizione finalizzata alla questua e alla beneficenza, l’istituzione dei Priori prevedeva la raccolta di offerte volontarie per le anime del purgatorio; alcune persone preposte a tale raccolta passavano di casa in casa e chiedevano un’offerta lasciando in cambio delle arance. Molti consensi raccoglieva la Confraternita dell’Addolorata, che aveva in particolare il compito di portare nella processione del venerdì santo la statua della Madonna (vedi Statuto). In tale occasione veniva allestito il Calvario nella Chiesa di S.Filippo e Giacomo coprendo l’altare maggiore con dei teli e sistemando delle piante in modo da rappresentare il monte dove Gesù consumò la Passione. A rappresentarla vi era in cima al Calvario una croce con Gesù crocifisso che dominava la scena e la chiesa. A lato era presente una preziosa statua della Madonna con un mantello di raso nero, bordato con una decorazione in oro, dall’atteggiamento commosso e addolorato. In una lettera del 6/01/1959 (scritta da San Marino) Renato Ippoliti dice che da tempo immemorabile nella nostra chiesa arcipretale costruivano il calvario e il sepol-
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cro del venerdì santo come avveniva solo in qualche rara chiesa di Roma in quanto le rappresentazioni sono un privilegio risalente all’alto medioevo. la statua di Maria accompagnava il Cristo morto nella processione seguita dalle pie donne vestite a lutto, le stesse che, facendo parte della congregazione, portavano lo stendardo dell’Addolorata. la processione si snodava in un silenzio religioso lungo le vie del paese illuminate da torce lungo il percorso e dai lampioncini di cartapesta che pendevano, insieme ai drappi, dalle finestre delle case. Intanto si alzava il canto commosso dello Stabat Mater di Jacopone da Todi mentre la processione faceva l’ingresso nella Chiesa di Santa Illuminata dove era stato allestito il Santo Sepolcro.
Note di Renato Ippoliti sul calvario.1959
l’altare maggiore era stato coperto da teli bianchi a ricordo di quelli in cui era stato deposto Cristo, in alto a dominare la scena veniva messa la statua dell’Addolorata e in basso il sepolcro circondato da fiori e candelabri. Dalla sera del venerdì Santo alla mezzanotte di sabato il sepolcro restava aperto per consentire a tutti di fare l’ora di adorazione. Fino a Pasqua anche le campane, che un tempo segnavano l’ora e suonavano per annunciare le cerimonie religiose, tacevano in segno di lutto (“Si legavano le campane”). l’ora veniva indicata dai bambini che percorrevano le vie del paese scuotendo le preole, delle assi di legno con dei battenti di metallo, che, se scosse,
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emettevano un suono cupo. I ragazzi facevano a gare per poter compiere il giro del paese con le preole e tale onore era concesso solo a quelli piĂš partecipi alle cerimonie religiose e in genere piĂš vicini alla parrocchia. Il sabato santo la Benedizione dei cibi in chiesa richiamava molta gente, che non poteva mancare a un rito tanto importante per tutta la famiglia. CosĂŹ le massaie portavano in un cesto i prodotti fatti in casa con cui avrebbero pranzato il giorno di Pasqua. Spesso erano i giovani ad occuparsi di tale incombenza in particolar modo quando si abitava lontano e si doveva usare la bicicletta per recarsi in chiesa o nella cappella prestabilita come punto di raccolta per la benedizione. le donne facevano a gara ad allestire il cesto con i centri ricamati da loro stesse o con tovaglie orlate di pizzi e merletti eseguiti ad arte dalle nonne, oggetti che facevano parte del corredo familiare. (Questo tipo di biancheria, che si tramandavano di generazione in generazione, veniva infatti portato in dote dalle giovani con il matrimonio). Il cesto veniva riempito con la torta di Pasqua, il capocollo, il vino, le uova lessate e colorate, a volte pitturate, il sale, che serviva a condire i cibi per il pranzo di Pasqua, ricco banchetto che celebrava la fine del digiuno quaresimale.
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lA PASQUA
Processione del lunedì di Pasqua dalla Spineta a M.C.Vibio
Il rito religioso che si celebrava in chiesa la sera del sabato santo in ricordo della Resurrezione di Cristo era sontuoso e richiamava anche dalle campagne moltissima gente, che il giorno dopo sarebbe stata impegnata a preparare il pranzo pasquale per la famiglia e i parenti che di norma venivano invitati per la festa. Sia per la messa del sabato santo che per quella della mattina di Pasqua la chiesa, addobbata ad arte e gremita di gente commossa, ospitava la corale locale. Si ricorda in particolare la Schola Canthorum guidata da Don Francesco che si esibiva negli anni ’60 e ’70 con un repertorio d’autore, in particolare i canti gregoriani e la Messa in latino di D. lorenzo Perosi a quattro voci, piuttosto difficile, a dir la verità, non solo per l’intervento musicale, ma anche perché a quell’epoca pochi dei giovani cantori conoscevano la lingua latina. Della Schola Cantorum fecero parte in tempi diversi i fratelli Eufemia, Marisa, Carlo e Renzo Innocenti, Evaldo Santi, Gino Margaritelli, Anna Mottini, Gianna Salvatelli, Tecla Quattropanetti, M.Grazia Deanna Mannaioli, Remigio Rosati, Ivo Rosati, Pancrazi Pier luigi, Capociuchi Rodolfo. Dopo la morte di don Francesco Dominici, avvenuta nel 1983, si sono avvicendati alla guida del Coro Fabrizio Fabrizi e successivamente dal
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1986 Ivo Scargetta, già componente della corale, prima come voce bianca al tempo dell'arciprete e poi come basso. Il lunedì di Pasqua Il lunedì di Pasqua la corale era impegnata a cantare durante la S.Messa nella chiesa della Spineta, dove si recava la tradizionale processione partendo in pellegrinaggio da Monte Castello di Vibio. l’enorme folla di pellegrini, dopo aver soddisfatto le esigenze spirituali partecipando alla funzione religiosa, si riversava sui prati e nei boschi, di cui Spineta è ricca, per consumare in compagnia il pranzo della festa. Di norma il banchetto all’aperto, che ancora oggi vuole la tradizione della “scampagnata di Pasquetta”, era costituito dalla torta di Pasqua con l’immancabile capocollo ormai stagionato (ricordiamo che la carne veniva lavorata a gennaio quando si uccideva il maiale), le uova lessate e i carciofi fritti. Vi era poi la tradizionale processione di Montemolino che giungeva in paese nel pomeriggio della domenica successiva con grande devozione e con una calorosa accoglienza da parte del paese.
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lE ROGAZIONI le Rogazioni, che oggi stanno scomparendo e restano solo nella memoria degli anziani, risalgono circa al 400 d.C. Il termine deriva dal verbo latino ROGARE e significa pregare intensamente. Si tratta infatti di processioni, preghiere e suppliche fatte a Dio perché proteggesse l'uomo e il suo lavoro nei campi, preservando il raccolto da malattie e grandine, da siccità e altre terribili calamità. Le Rogazioni Maggiori (dette anche Litanie Maggiori), di cui parlava don Bernardino, erano celebrate il 25 aprile ed erano una pubblica preghiera per tutte le umane necessità dell’anima e della vita nostra materiale specialmente colla benedizione dei campi. Fu papa Gregorio I (anno 600 circa) a scegliere questa data e fissare la solenne processione alla data del 25 aprile, perché secondo l’antica tradizione in quel giorno giunse a Roma S. Pietro per fissarvi la sede del primato apostolico su tutta la Chiesa. Nello stesso giorno nella Roma pagana si celebrava la Robigalia, processione in onore della divinità detta “Ruggine” per invocare il suo aiuto a tener lontano dalle messi il male detto della ruggine (attraverso il sacrificio di un cane e di un montone). Nel caso cristiano al mattino molto presto i fedeli si raccoglievano in chiesa e dopo la Messa con i paramenti violacei si andava in processione, al canto delle litanie dei Santi, per tutta la campagna, con vari itinerari nei diversi giorni, in modo che ogni podere, ricevesse la benedizione. Nei luoghi stabiliti, il corteo faceva una sosta, il Sacerdote interrompeva le litanie e con la croce benediceva la campagna ai quattro punti cardinali, cantando: “A FUlGURE ET TEMPESTATE” (Dalla folgore e dalla tempesta)e il popolo rispondeva: “lIBERA NOS, DOMINE” (liberaci o Signore). Poi il sacerdote: “UT FRUCTUS TERRAE DARE ET CONSERVARE DIGNERIS” (Affichè Tu possa dare e conservare i frutti della terra) e il popolo rispondeva “TE ROGAMUS, AUDI NOS” (Ti preghiamo, ascoltaci). Era davvero suggestivo il rito per lo stretto rapporto che si instaurava tra l’uomo, l’ambiente, la divinità ed era commovente quell'affidarsi totalmente a Dio.
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l’ASCENSIONE l’Ascensione rappresentava una festa molto sentita dalla popolazione delle campagne che ne celebrava l’avvento già dalla sera precedente. Molti giovani infatti si raccoglievano negli spazi aperti intorno alle case sulle colline verdi, già in fiore e accendevano dei fuochi ben visibili da lontano. Iniziava poi un rito particolare, precursore del sistema di comunicazione attuale vigente tra i giovani che hanno sempre sentito l’esigenza di spaziare oltre la propria famiglia entrando in contatto con gli altri. Da ogni poggio veniva mandato un messaggio, che veniva captato da quello più vicino e rimbalzava ancora sulle altre colline all’infinito. Il testo del messaggio, che poteva variare di poco da luogo a luogo, era il seguente: • Che giorno è domani? • È l’Ascensione! • Dove arriva la voce mia non possa arriva’ l’acqua ria! Era un rito che dava conforto ai cuori. Quel rimbalzare di colle in colle delle voci amiche, quell’eco che vagava nel silenzio della notte di valle in valle arrecava serenità e lasciava percepire l’importanza di sentirsi tutti uniti pur se lontani in certe occasioni. Era anche un messaggio di pace e di buon augurio per il raccolto affinché non fosse danneggiato dalla grandine, da sempre temuta nelle campagne. A tal fine dobbiamo ricordare che allora era molto rispettata la figura del campanaro che aveva il merito di allontanare la tempesta dai campi coltivati suonando “l’acquaria”, capace di frangere nell'aria il propagarsi delle nubi.
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CORPUS DOMINI Il Corpus Domini (dal latino “Corpo del Signore), ricorda un miracolo avvenuto a Bolsena dove un sacerdote dubbioso sulla presenza reale del corpo di Cristo nell’ostia consacrata, dovette ricredersi perché spezzandola vide uscire del sangue. Per tale festa, molto partecipata anche per la vicinanza con il luogo del miracolo, il paese si colorava dei fiori della primavera che diffondevano un profumo intenso per le vie. Era davvero una gara quella degli abitanti delle varie vie per addobbare le finestre, i portoni con drappi colorati, le strade con i fiori disposti ad arte a ricreare un disegno a tema religioso: erano rappresentate immagini della Madonna, di un Ostensorio, di un calice oppure venivano eseguite delle scritte come “ PAX” o “Corpus Domini” mentre nelle piazze erano allestiti dei piccoli altari. la processione si snodava lungo le vie e si fermava in preghiera davanti ad ogni altarino. Sotto un baldacchino il sacerdote, accompagnato dai chierichetti, mostrava l’ostensorio, mentre dietro sfilavano le confraternite, la banda del paese, i fedeli e le bambine vestite da angioletto con lunghe tuniche di raso bianco, ornate da stelle dorate e ampie ali di trina create con pazienza dalle suore Francescane.
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Bambine vestite da angeli per la processione del Corpus Domini
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FESTA DI SAN GIOVANNI la festa di S. Giovanni in molte città italiane ha dato luogo per secoli a manifestazioni strettamente legate alle credenze e agli usi popolari, come i “fuochi di S. Giovanni”, i presagi, i prodigi, le gare e tutto il complesso rituale di purificazione e propiziazione, tipico delle feste di inizio d'anno o di stagione. Siamo infatti nel solstizio d’estate. I fuochi, oggi, sono rari e sopravvivono solo qua e là nelle campagne.
Festa di San Giovanni
Tipico cibo della festa le lumache, che uscivano a frotte dopo le piogge della stagione ed erano pasto proteico prelibato per chi non si poteva permettere la carne; nel nostro paese si mangiava il bocconcello, offerto alla popolazione dopo lo svolgimento dei riti religiosi presso la Cappella di San Giovanni lungo la passeggiata dei giardinetti. la credenza popolare (che per alcuni aspetti risale ai tempi pagani) voleva che nella notte della vigilia, comparissero le streghe e che bastasse mettersi in un crocicchio per vederle. Tale credenza era viva in alcune grandi città, specialmente a Firenze, tanto che dal ‘200 al ‘500 si usava suonare le campane di tutte le chiese dal tramonto all’alba per impedire alle streghe di fare complotti o cogliere le erbe nocive. Proprio lo sbocciare in questo periodo di molte piante e fiori consentiva alle donne di raccogliere tante varietà di erbe (almeno cento) e di metterle
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a macerare durante la notte di S. Giovanni per lavarsi con l’acqua profumata al mattino e prepararsi così alla giornata di festa. Era un modo per sopperire all’impossibilità di acquistare i profumi nel mondo povero dei contadini. Secondo la tradizione popolare, questa festa, favoriva gli incontri e i fidanzamenti. Questa era l’invocazione: “S. Giovanni Battista Protettore delle vedovelle, padron delle donzelle, Voi che ne avete per tutte, serbatene anche per me”. FESTA DEllA MADONNA DEI PORTENTI la tradizione di Monte Castello di Vibio vuole che, nella domenica successiva la festa dell'Assunzione di Maria in cielo, i fedeli si rechino all’Elmo (a pochi chilometri dal paese lungo la strada per il Doglio) per ricordare il miracolo avvenuto ad opera della Madonna nel 1732. Si dice che la Vergine apparve ad Egidio, un bambino della famiglia Fioretti, che pascolava le pecore nel prato di fronte alla casa in cui vi era l’effigie sacra. Per intercessione divina, si trovarono colme d’olio le brocche rimaste vuote nella casa della famiglia che viveva in povertà. A testimonianza vi è nell’archivio parrocchiale una supplica dell’arciprete, che chiedeva al Papa Clemetente XII i fondi per l’erezione di un altare dedicato alla Madonna. In ricordo del miracolo l’effigie della Madonna dei Portenti, così acclamata dal popolo, venne traslata nel 1732 nella chiesa arcipretale di Monte Castello di Vibio, dove è ancora conservata in un’edicola, eseguita su disegno dell’architetto Nazareno Biscarini, posta dietro l’altare Maggiore e reso “privilegiato perpetuo” da papa Pio IX il 28/11/1864. Si ricordano ancora i festeggiamenti in occasione del secondo centenario dalla traslazione, quando le cerimonie si svolsero dal 18 al 21 agosto del 1932 con l'intervento di autorità religiose e politiche e con grande partecipazione di popolo accorso da tutta l’Umbria. Si parla di 10.000 persone. Erano presenti, oltre ai parroci delle quindici parrocchie limitrofe, l’abate di Viepri don Giulio Pazzaglia, l’arcivescovo di Rodi Mons. Gianmaria Castellani, il Canc. Don Giuseppe Orlandi, la Schola Cantorum di Assisi e il Rev P. Pietro Carlucci uno dei migliori organisti d'Italia. Per l'occasione era stato rinnovato l’organo ed erano stati effettuati restauri sia all'interno che alla facciata della chiesa arcipretale con l'affissione di due lapidi, per il Bi-
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centenario e per il Concordato tra lo Stato Pontificio e l'Italia. Anche l'effigie della Vergine era stata restaurata ad opera del pittore Nicola Biagini, su consiglio del direttore dell'Accademia di Belle Arti di Perugia, prof. Ettore Ricci che ebbe modo di analizzare il dipinto e valutarne l'origine seicentesca non solo per le caratteristiche intrinseche ma anche per la presenza del Cardinale Carlo Borromeo, innalzato agli onori degli Altari nel 1611 dal Pontefice Paolo V. Ancora oggi gli abitanti del paese nutrono una venerazione per la Madonna dei Portenti (molti sono gli ex voto per grazia ricevuta) e tengono particolarmente alla tradizionale festa, che richiede la processione nel luogo del miracolo, un'oasi di pace in mezzo ai boschi dove è piacevole trascorrere il pomeriggio della domenica tra canti e preghiere, cui segue immancabilmente un lauto rinfresco. FESTA DEI MORTI la festività dei Morti è stata istituita nel 998 da Odilo abate di Cluny, mentre quella di Ognissanti è stata voluta da Papa Gregorio II, nel sec VIII, al posto di una precedente festa pagana. Il rito della commemorazione dei defunti sopravvive a culti di epoche diverse come quelli dell’antica Roma, delle civiltà celtiche, del Messico e della Cina. Tale ricorrenza e la data del festeggiamento (1 e 2 novembre) non sono casuali. Civiltà remote celebravano già la festa degli antenati in un periodo che cadeva proprio tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre. Questa data sembra indicare per alcuni l’inizio della stagione fredda, per altri vuole riferirsi al periodo del Diluvio e dell’arca di Noè, che, secondo il racconto di Mosè, cadde nel “diciassettesimo giorno del secondo mese”, che corrisponderebbe al nostro novembre. la tradizione popolare in molte regioni vuole che, nella notte fra l’1 e il 2 novembre, i morti ritornino sulla terra ciascuno alla propria casa; bisogna riceverli, con un lume acceso. Nel nostro territorio per questo si faceva la veglia, che si passava in preghiera, dopo aver acceso il lume dei morti ( uno o più a seconda delle possibilità). Ed è per questo che nei cimiteri ancora oggi sulle tombe vi è sempre una luce. Il cibo tipico di tale ricorrenza sono le fave, che anticamente occupavano il primo posto nei conviti funebri.
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“Secondo gli antichi - dice il Pitrè - le fave contenevano le anime dei loro trapassati: erano sacre ai morti”. Anticamente le fave, o anche i ceci lessi, venivano posti agli angoli delle strade in capaci bigonci, dove ogni povero poteva attingere. In epoca cristiana esprimono devozione e carità. Nei tempi passati, infatti, i poveri andavano di casa in casa a chiedere la carità ricevendo cibo. Molte famiglie ricche cuocevano le fave e ne offrivano ai meno abbienti in suffragio delle anime dei defunti. Anche nel nostro paese Don Francesco rispettava questa usanza e fino agli anni sessanta la Veronica cucinava le fave per i poveri del paese. Ora le fave dei morti sono sostituite con dolci dallo stesso nome e di forma simile mentre i fiori della tradizione restano sempre i crisantemi. FESTA DEll’8 DICEMBRE “VENUTA DEllA MADONNA” (O “SABBATINA”) l’8 dicembre la Chiesa celebra l’Immacolata Concezione della Vergine Maria. (Con il dogma di Pio IX, l’8 dicembre 1854 con la bolla Ineffabilis Deus, si sancisce come Maria sia stata preservata immune dal peccato originale fin dal suo concepimento). Si ricorda inoltre l’evento prodigioso secondo cui la casa della Madonna fu portata dagli angeli a loreto, dove è venerata. Ancora oggi, nella notte tra l’8 e il 9 dicembre, nei territori tra Ancona e loreto, si accendono falò in ricordo dei fuochi che illuminarono la strada verso la Santa Casa. Fino agli anni ’60 anche nelle nostre campagne si celebrava la “Venuta della Madonna” con fuochi che servivano ad annunciare e ricordare a tutti l'evento. Naturalmente si bruciavano i sarmenti, le potature delle viti, degli ulivi, quindi l’operazione risultava necessaria anche per effettuare la pulizia e un’accurata manutenzione dei campi. la “venuta” si festeggiava anche con veglie familiari in campagna e in paese con riunioni conviviali allietate da balli e da musiche eseguite con la fisarmonica a cui seguiva l’immancabile degustazione di torta al testo e salsicce. Da molti la ricorrenza veniva chiamata anche “Sabbatina” e questo forse conferma il rafforzarsi dell’usanza della pia pratica della cosiddetta Sabbatina, (ovvero particolari preghiere alla Madonna da recitarsi ogni sabato) che si fa risalire ad una missione predicata dai padri Gesuiti, secondo la quale ogni sabato venivano cantate le litanie della Vergine.
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Il NATAlE
Natale 1956 - Rappresentazione presso l’Asilo delle Suore Francescane
Il Natale è di sicuro la festività più sentita a livello familiare e popolare. È la celebrazione della nascita di Gesù, che secondo il Vangelo di luca nacque da Maria a Betlemme, dove si recò con Giuseppe per il censimento della popolazione organizzato dai Romani. Il termine Natale deriva dal latino “natalis” che significa “natalizio, relativo alla nascita”. Dai romani natalis veniva impiegato per molte festività, come il “Romae Natalis” (21 aprile) che celebrava l’origine di Roma (e di Enea fondatore del popolo latino), e il “Dies natalis solis invicti”, ovvero la festa dedicata alla nascita del Sole anch’essa il 25 dicembre, istituita nel 273 d.C. da Aureliano sostituita poi durante il sec. III dalla ricorrenza cristiana. la festività si sovrappone alle celebrazioni tipiche del nord Europa per il solstizio d’inverno e alle feste dei saturnali romani (dal 17 al 23 dicembre), da cui l’ipotesi che sia nata per sostituire la festa pagana, ma recenti studi affermano che la data corrisponde alla vera nascita di Gesù. lasciamo ad altri il compito di ulteriori verifiche. Sta di fatto che il Natale è la Festa cristiana per eccellenza in quanto riesce ad unire sia la famiglia singola sia la parrocchia attraverso una serie di riti religiosi e abitudini che si avvalgono di racconti, poesie, canti popolari, filastrocche, che hanno radicato nel-
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l’animo umano la forte tradizione. Forse perché rappresenta anche la festa dei bambini, che credono nella magia dei doni volti a premiare la bontà, è nato un insieme di eventi di alto valore culturale e morale che portano alla cultura della pace. Tra queste mi piace ricordare i momenti di beneficenza e quelli sociali come le attività teatrali che in tale periodo si svolgono ancora oggi a conclusione delle lezioni scolastiche prima delle vacanze. Un tempo le recite erano realizzate presso l’asilo delle suore francescane (di cui riportiamo alcune foto), dove veniva allestito un palcoscenico improvvisato sul quale tanti di noi, più o meno bravi nella recitazione, si sono esibiti. C’è da dire che il lavoro delle suore era enorme se consideriamo che allora non vi erano mezzi per l’allestimento delle scene e i costumi, ma ne valeva la pena perchè costituiva per tutti un momento sociale importante che dava vita alla comunità. Alla fine c’è da ricordare la commozione dei genitori e le lacrime dei piccoli attori in erba, che sarebbero stati ripagati con frutta secca e qualche mandarino, come era solito a quei tempi. In effetti la frutta, insieme a qualche bambola di pezza, è quanto si poteva trovare accanto al presepe o sotto l’albero nelle famiglie povere sia che vivessero in paese che in campagna. Era certo difficile sfoggiare un abito nuovo per la festa, forse solo con tanta fatica e grazie alle abili mani delle mamme che lavoravano fino a tarda notte anche la vigilia di Natale prima della messa di mezzanotte.
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lA BEFANA
Anni’30 Rappresentazione teatrale nel giorno dell’Epifania
Anche la festa della Befana deriverebbe da elementi pagani, adattati dalla tradizione cristiana. la sua origine è forse da collegare a tradizioni agrarie pagane dell’inizio dell’anno. Così l’aspetto da vecchia sarebbe da mettere in relazione con l’anno passato, pronto per essere bruciato per “rinascere” come anno nuovo. Un’ipotesi collega la Befana con una festa romana, che si svolgeva all’inizio dell’anno in onore di Giano e di Strenia (da cui deriva il termine “strenna”) e durante la quale si scambiavano regali. l’uso dei doni assumerebbe un valore propiziatorio per l’anno nuovo. la parola epifania (dal greco ἐπιφάνεια, epifania) significa manifestazione. Secondo il racconto popolare, i Re Magi, non trovando la strada per Betlemme, chiesero informazioni ad una vecchia, che non volle accompagnarli. Poi, pentita, preparò un cesto di dolci, uscì di casa e si mise a cercarli, senza riuscirci. Così donò i dolciumi ai bambini che incontrava, nella speranza che uno di essi fosse Gesù. 69
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Secondo la tradizione, la Befana fa visita ai bambini la notte del 6 gennaio per riempire le calze lasciate appese al camino. Viene descritta come una vecchia, che vola su una scopa, ma è spesso sorridente e ha un sacco pieno di regali. Così la ricordiamo nella tradizione: la Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte con le toppe alla sottana: viva, viva la Befana! la befana vien di notte con le scarpe tutte rotte porta un sacco pien di doni che regala ai bimbi buoni. la befana vien di notte con le scarpe tutte rotte, con la scopa di saggina: viva viva la nonnina! Ma c’è anche una ninna nanna che la ricorda: Ninna nanna, ninna oh questo bimbo a chi lo do. lo darò alla Befana che lo tiene una settimana. lo darò al lupo nero che lo tiene un anno intero. Ninna nanna, ninna oh questo figlio a chi lo do.
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Tradizioni nella storia
lA CANDElORA Il 2 febbraio la Chiesa celebra la Presentazione del Signore, chiamata popolarmente festa della Candelora, perché si benedicono le candele, simbolo della luce di Cristo per illuminare le genti. la festa è anche detta della Purificazione di Maria, perché, per l’usanza ebraica, una donna era considerata impura per un periodo di 40 giorni dopo il parto e doveva andare al tempio per purificarsi. Il termine “Candelora” deriva dalla somiglianza con la festa dei lupercali (di epoca romana) che si celebrava a metà febbraio quando si accendevano le lampade e si facevano fiaccolate rituali. I romani chiamavano Februe le espiazioni così come gli ingredienti purificatori, il farro tostato e i granelli di sale, che il littore prendeva nelle case prestabilite. Da qui deriva il nome del mese febbraio, quando i luperci percorrevano tutta la città con strisce di cuoio per purificarsi. Il patriarca di Roma Gelasio fece abolire dal Senato i lupercali ai quali fu sostituita nella devozione popolare la festa della Candelora. Nel sec. VI la ricorrenza fu anticipata da Giustiniano al 2 febbraio, data in cui si celebra ancora oggi. la festività era molto sentita perché il concetto di purificazione legato alla simbologia della candela era molto forte. Determinante era pure la convinzione della fine del gelo invernale come recita un detto popolare: “Per la candelora dell’inverno semo fora”, anche se c’è chi asserisce che: “Ma se piove e tira vento dell’inverno semo drento.” Il legame tra religione e ciclo stagionale è sempre molto stretto.
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Capitolo III I Mestieri
I mestieri
Il FABBRO Molti dei mestieri tradizionali oggi sono scomparsi soppiantati dalle attività industriali che smerciano prodotti omologati in serie efficienti ma senza alcuna caratteristica particolare. Uno di questi mestieri è il fabbro, la cui opera era molto richiesta perchè forgiava nella sua officina tutti gli attrezzi agricoli necessari al lavoro nei campi, falci da fieno, da grano, asce, accette, ronchetti, zappe, seghe, ferri per ferrare i buoi, cavalli, somari. Il fabbro lavorava il ferro riscaldato sopra una fucina a carbone e, quando era infuocato, lo modellava con un martello fino a raggiungere la forma voluta. Man mano che si riscaldava il ferro prima diventava rosso, poi arancione, giallo, e infine bianco. la temperatura ideale per la maggior parte delle operazioni di forgiatura era quella corrispondente al colore gialloarancio. Per evitare che la luce ambiente impedisse di valutare con precisione il colore del metallo, molti fabbri lavoravano al buio, o in ambienti poco illuminati che avevano le pareti annerite dal tempo e dal fumo. Nella bottega vi era la forgia in mattoni di forma quadrata di circa un metro di lato con i carboni sempre accesi ravvivati dal vento prodotto da un mantice che il garzone doveva controllare per mantenere il calore alla stessa temperatura. Vi erano una o due incudini di ferro poggiate su ceppi di quercia utili a dare elasticità alle martellate inferte dal fabbro. Su un tavolo erano sistemati i vari attrezzi come il maglio, i chiodi, i martelli di varie dimensioni ed altro. Il suono prodotto dal martello quando il fabbro picchiava sopra l’incudine si propagava per tutto il paese e risuonava come una melodia tradizionale insieme all’odore che emanava il fuoco dei carboni accesi impregnati del metallo allora prezioso. A Monte Castello di Vibio vi erano generazioni di grandi fabbri esperti artigiani che lavoravano per il contado e non solo. Ricordo con affetto la figura del nonno Italo Mannaioli, o Fosco come tutti lo chiamavano, sempre avvolto nel suo mantello nero, conosciuto da tutti perché, quando andava in campagna a restituire il lavoro al contadino, accettava di buon grado un buon bicchiere di vino. Anche Tullio Mannaioli aveva seguito il mestiere di fabbro ed era molto apprezzato così come gli altri Mannaioli.
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I mestieri
Il COCCIAIO Uno dei mestieri più antichi è certamente quello del cocciaio che aveva il compito di produrre gli utensili per la cucina e gli oggetti per la casa come brocche per l’acqua quando, mancando un acquedotto che serviva le case, le donne dovevano andare a prenderla nei pozzi o al fiume. Anche le stoviglie erano di “coccio”, così come le pignatte dove si facevano bollire per ore e ore i legumi, che cuocendo lentamente sulla brace del camino, facevano un borbottio continuo quasi una musica a cui tutti erano abituati. Il camino era così grande che occupava quasi una parete dell’ampia cucina, con il vano per la legna e due sedili laterali dove la sera si riuniva a veglia tutta la famiglia e a volte i vicini. Molte pietanze di allora richiedevano una lunga cottura, per lo più legumi ma anche i bolliti, la selvaggina sotto alla quale si raccoglieva il sugo nella “ghiotta” sempre di “coccio”. Il cocciaio appunto utilizzava l’argilla per lavorarla al tornio ottenendo utensili, pignatte ma anche vasi e orci per conservare l’olio che, se danneggiati, venivano aggiustati legandoli con una rete di metallo, tanto difficilmente allora si buttava qualche cosa. Altre figure di lavoratori erano ambulanti e girovagavano per le campagne portando la loro competenza al servizio dei contadini che difficilmente andavano in paese. C’era il sediario che faceva o riparava le sedie, il falegname che riparava le credenze o faceva i ciocchi, ovvero zoccoli di legno, c’era l’ombrellaio che riparava gli ombrelli, l’arrotino che affilava i coltelli. Altri vendevano merletti, specchi, bottoni, portavano la loro mercanzia in una piccola cassetta che aprivano davanti alla casa da cui uscivano tutti incuriositi al solito richiamo: “Aghi, fili, spille e specchie, occhiale pe’ le vecchie”. Erano molto attesi dalle donne.
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I mestieri
Il CAMPANARO Il termine “campana” deriva, secondo Isidoro di Siviglia, dalla regione Campania, in cui vennero costruite le prime campane di bronzo usate a scopo rituale all’inizio del Cristianesimo. Nella cultura occidentale la campana era il simbolo della cristianità perché, oltre a radunare i fedeli per le cerimonie religiose, aveva la possibilità di allontanare il demonio e attirare la protezione di Dio. Vi era una simbologia, secondo la quale la durezza del metallo rappresentava la forza del predicatore, il battaglio in ferro la lingua del sacerdote, il colpo della campana il richiamo alla correttezza, la catena la meditazione. Fin dal medioevo il suono della campana serviva a scandire il lavoro dei campi e a ricordare la preghiera ai contadini. l’angelus suonava alle 6 la mattina e alle 18 la sera, sia per richiamare alla preghiera sia per indicare l’inizio e la fine della giornata lavorativa; a mezzoggiorno per indicare che già mezza giornata lavorativa era trascorsa e ci si poteva concedere una pausa. la campana costituiva l’unico modo per segnare il tempo oltre al metodo naturale basato sull’osservazione dello spazio che il sole occupa nel cielo. Rappresentava un sistema di comunicazione che univa in uno stretto rapporto il paese con il contado dal momento che il suo suono si sentiva in tutto il territorio sia quando annunciava l’ora (e i quarti d’ora), sia quando avvertiva di eventi gioiosi nelle cerimonie religiose dei sacramenti del matrimonio, della cresima, della comunione per i quali le famiglie organizzavano grandi feste con pranzi che potevano durare tutta la giornata tante erano le pietanze rigorosamente fatte in casa. Anche in questa occasione era importante l’aiuto che le vicine davano alla padrona di casa nel preparare i piatti tradizionali quali tagliolini e pasta fatta in casa, pollo o oca al forno, cacciagione a volte, torcolo e vinsanto. la campana annunciava con precisione l’orario delle funzioni religiose quotidiane, per la messa suonava tre volte a intervallo regolare, l’ultimo era un rintocco leggero fatto con la campanella, segnale dell’inizio della cerimonia. Spesso la campana annunciava anche la morte di un malato e allora tutti accorrevano a conforto della famiglia colpita dalla disgrazia e la aiutavano nelle incombenze di rito, la vestizione del defunto, la veglia e la cerimonia funebre. la figura del campanaro, ormai scomparsa, aveva quindi un ruolo
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di tutto rispetto. Era incaricato di suonare le campane per qualsiasi ricorrenza religiosa con un insieme di segnali, che variavano da luogo a luogo, codificato nel corso dei secoli. Spesso era anche il sacrestano che aiutava il sacerdote nella preparazione dei riti religiosi. I contadini lo tenevano in grande considerazione anche perché aveva l’incarico di suonare “l’acquaria” che consisteva in un suono forte e dirompente considerato capace di frangere l’avanzare delle nubi e della perturbazione ed evitare la sciagura della grandine. Il campanaro per questo passava presso la casa dei contadini al momento della trebbiatura per avere un po’ di grano come ricompensa all’ utilità del suo ruolo e di quello della campana. Tra le varie tecniche campanarie, una delle più antiche e diffuse era quella cosiddetta “a corde” usata anche nel nostro territorio dal campanaro Gino Tomassi (detto il Cacciunello) che con grande abilità la utilizzava molte volte tanto da essere occupato tutto il giorno. Per le cerimonie più importanti suonava invece anche il “campanone” che svettava in cima alla torre campanaria situata vicino al Municipio. Per far questo doveva salire nella parte alta della torre e utilizzare con perfetta sincronia mani e piedi per spingere ritmicamente la pesante campana. Allora il suono squillante e imponente si propagava per tutta la campagna e le valli circostanti riempiendole di una musica melodiosa, di cui ricordo ancora il ritornello, che invitava tutti alla gioia della festa.
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lAVORO NEI CAMPI Il lavoro del contadino era scandito dal ritmo stagionale e dalle necessità legate alla semina e al raccolto che, se pure in periodi diversi per molti prodotti, si verificava principalmente durante l’estate. Richiedeva un lavoro molto pesante, sempre uguale, essenzialmente manuale che a partire dai primordi della storia, se si eccettuano poche eccezionali modifiche apportate nel medioevo, come la rotazione annuale delle sementi o l’aratro pesante, è rimasto sempre uguale fino all’epoca della rivoluzione industriale in cui le macchine hanno sostituito l’uomo nella fatica. Proprio per il fatto di ripetersi in modo immutato nei secoli il lavoro del contadino ha dato luogo ad una vera e propria tradizione con dei rituali precisi, dei costumi particolari, canzoni, modi di dire che, pur variando da regione a regione, seguivano stessi concetti e principi. Molti valori erano legati alla religione che si riteneva fondamentale per la cura e la salvaguardia non solo delle anime ma del raccolto e quindi della sopravvivenza.
lA MIETITURA E lA SPIGOlATURA Dopo la semina, che avveniva in autunno prima che la campagna si riposasse nel freddo inverno, non c’erano altri momenti di incontro all’aperto se non per le rogazioni, quindi la comunità contadina si poteva ritrovare solo per la mietitura, che iniziava alla fine di giugno. Non doveva andare oltre il 29 giugno, così affermava un detto popolare: “Per San Pietro pija la falce e nun t’arvoltà dietro” Gli uomini e le donne che abitavano nelle case vicine si recavano nei campi dove il grano era maturo per iniziare la mietitura considerata il lavoro più duro e impegnativo nel quale venivano coinvolti anche i bambini. Occorreva fare in fretta, quando il grano era maturo, per evitare danni al raccolto. Si costituivano squadre di sette/otto persone che, avanzavano insieme nel campo per la mietitura, dopo aver preparato il balzo, legaccio fatto con gli stessi steli del grano, necessario per legare le “gregne”, ovvero i covoni. Molti covoni ammucchiati insieme costituiva la meta che poi sarebbe stata utilizzata per la trebbiatura. Ogni mietitore occupava uno spazio che costi-
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tuiva il corridoio che avrebbe poi percorso lavorando; per questo si vedevano dall’alto una serie interminabile di schiene curve e altrettante falci che procedevano all’unisono in modo instancabile in quella distesa di spighe dorate dove ogni tanto spuntava un rosso papavero. Anche la mietitura rappresentava un momento di socializzazione e poteva dar luogo a incontri amorosi, che venivano sollecitati da tradizioni romantiche e piene di sensibilità. l’ “Orto della mietitura” era appunto, in mezzo a tanta fatica, un’usanza delicata secondo la quale il ragazzo innamorato, che voleva dichiarare il suo amore, trovava uno stratagemma, diventato poi un rito particolarmente poetico. Sistemava in fondo al corridoio (prace) in linea con lo spazio in cui mieteva la fanciulla un orto, cioè uno spazio circolare in cui deponeva un cestino con un mazzolino di fiori vicino al quale metteva a volte un anello, una foto o più spesso un biglietto con parole semplici ma significative per la giovane se specialmente ricambiava il sentimento. Più raramente lo stesso sistema dell’“orto della mietitura” poteva essere usato per mandare messaggi d’altro genere, per esempio per minacciare un avversario in amore, nel qual caso si lasciava nello spazio circolare un coltello o un biglietto minaccioso. In tutti i casi era un modo per comunicare e la notizia si divulgava velocemente anche tra la gente che aveva un argomento di cui parlare per tutto il giorno. Alla fine della mietitura tutti i covoni erano ordinati e sistemati in una meta o pagliaio in cima al quale veniva sistemata una croce fatta di canna con un ramoscello di ulivo e a volte un giglio, che erano stati benedetti in chiesa il giorno di San Giovanni. le croci venivano sistemate anche nei campi per intercedere la protezione divina sul raccolto e sui campi a difesa dalle intemperie. In caso di temporali venivano accese anche le candele benedette dal sacerdote il giorno della Candelora. la povertà imponeva di sfruttare al massimo le risorse per cui dopo la mietitura si dava incarico alle donne e ai bambini di spigolare, ovvero di raccogliere le spighe che erano cadute sul terreno All’alba quindi si recavano nei campi avventurandosi tra le stoppie rimaste dure e irte tanto da far male ai piedi che difficilmente calzavano scarpe robuste da proteggerli. l’aria fresca del mattino compensava la fatica e stimolava l’appetito prontamente soddisfatto con una colazione a base di pane e frittata. la raccolta era portata avanti insieme ai bambini che mescolavano
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il lavoro con il gioco facendo a gara a chi trovava un maggior numero di spighe. Si tornava a casa che il sole era già alto con le braccia cariche di mazzi di spighe ambrate e profumate come fossero fiori. Il frumento raccolto e salvato dall’intemperie sarebbe servito poi come alimento per gli animali da cortile. lA TREBBIATURA
Trebbiatura 1979
la trebbiatura, che cominciava a luglio, rappresentava l’epilogo tanto atteso di un ciclo lavorativo. Costituiva per tutti una fatica sia per i lunghi giorni lavorativi sia per il caldo dei mesi estivi che opprimeva e rendeva insopportabile il lavoro a causa del sudore e della polvere acre. Nonostante ciò si può dire che l’allegria non mancava quando si trattava di riunire uomini e donne sempre pronti ad aiutare le famiglie vicine, che poi restituivano il favore. Solo il 26 luglio, festa di Sant’Anna, non si trebbiava anche per il ricordo di un fatto increscioso successo a un miscredente che, non aveva rispettato la festività e, in seguito a un boato, era stato inghiottito in una voragine insieme alle macchine e agli operai.
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Il lavoro della trebbiatura si svolgeva con un ritmo eguale, quasi a tempo di musica; i covoni venivano raccolti con le forche e immessi nella bocca della macchina trebbiatrice senza tregua, alternativamente da due operai chiamati “imboccatori”. Anche se il sudore grondava dalle loro fronti, la stanchezza non era sentita, o, se lo era, veniva compensata dalla vista del grano mondato, che, uscendo dalla bocchetta della trebbiatrice nei sacchi, aveva già la fragranza del pane benedetto. la paglia, una volta separata dal grano, andava ad innalzare il pagliaio mentre i sacchi riempiti, del cereale, che usciva dall’estremità della trebbiatrice, venivano chiusi e pesati dagli addetti sulle bascule, sotto il controllo dei fattori.
Festa per la trebbiatura Pianicoli 1955
Mentre masse di pula si rovesciavano in terra ed i fastelli di paglia strappati dal grano salivano in fila su per l`elevatore, nelle cucine fumose delle case coloniche, le donne preparavano da mangiare. Dall’alba fino alle nove di sera, era una fatica continua fatta di gridi e di canti, intramezzata da mangiate e bevute degne della tavola di un re. Quattro o cinque erano i pasti in questa speciale giornata. I primi due in piedi ed in fretta. A mezzogiorno, invece, si mangiava e si beveva seduti a tavola, nell’aia davanti alla casa. Alle sette la colazione con il bocconcello e il capocollo, alle dieci con la coratella di pecora, a pranzo con i maccheroni e lo spezzatino di pollo o di pecora, 82
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alle sedici il bocconcello col capocollo e il cacio. Ma il vero banchetto si teneva alla sera, dopo che era stato portato via a spalla l`ultimo sacco verso il granaio e la trebbiatrice finalmente riposava. Si preparava una tavola per i macchinisti, per i padroni e per gli operai, dove si alternavano i piatti della tradizione come antipasti di crostini di fegato di pollo, tagliatelle fatte in casa cotte al ragù, oca al forno con le patate, torcolo e vinsanto. Era una gran festa che continuava fino a tarda notte quando al chiarore delle lucerne ad olio gli uomini giocavano a morra, le donne cantavano e alcuni tentavano approcci amorosi, complice la luna estiva. SCARTOCCIATURA Alla metà di settembre si andava a raccogliere le grosse pannocchie di mais trasportate poi con un carro sull’aia dove venivano liberate dalle foglie che erano sistemate nei crini di vimini. Anticamente, fino alla seconda guerra mondiale, le foglie inserite in grandi sacchi posti sopra robuste tavole di legno costituivano il giaciglio dei contadini, facilmente attaccabile da insetti come pulci e pidocchi. Solo in poche case vi erano i letti di ferro con i materassi. la scartocciatura era un’occasione per stare tutti insieme. Era un lavoro per donne perchè richiedeva tempo e pazienza. Per questo si faceva a veglia, tutti insieme, donne e ragazzi, come per gioco, mentre gli uomini, davanti ad un bicchiere di vino, giocavano a morra o a tressette raccontandosi i fatti del giorno Mentre scartocciavano, le donne chiacchieravano e malignavano, le ragazze e i ragazzi scherzavano tra di loro. Era un’occasione per fare approcci amorosi, sempre difficili per la presenza vigile delle madri, e permetteva di stare gomito a gomito nella penombra della sera al lume di luna o di qualche acetilene creando l’atmosfera giusta a favorire il nascere di nuovi amori. Più tardi si mangiava tutti insieme la minestra di ceci o di fagioli con le cotiche e la pasta fatta in casa tagliata a quadrucci. In molti paesi umbri, i Gruppi Folk, nati per la tutela delle tradizioni, hanno ripristinato feste contadine come quella della scartocciatura e della trebbiatura, vedasi ad esempio la rievocazione ripresa da poco a Cecanibbi.
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lA VENDEMMIA la vendemmia si faceva verso settembre – ottobre e occupava i contadini dall’alba al tramonto per giorni interi, prima nella propria vigna, poi in quella dei vicini. Gli uomini partivano a piedi; sopra un carro trainato da un bue o un asino c'erano gli attrezzi, “i bigonzi” (bigonce) e i bambini che le mamme si portavano appresso. Nei cesti ancora vuoti riponevano i fagotti con il pane e il formaggio, da mangiare la mattina, una brocca d’acqua per bere e per lavarsi le mani e un bel fiasco di vino. Gli uomini e le donne si incamminavano tra i filari e cominciavano a tagliare l’uva riempiendo cesti che, una volta pieni, le donne portavano sulla testa verso il punto di raccolta sul carro. Mentre si lavorava, si cantava allegramente e si raccontavano storie e barzellette perché per tutti la vendemmia era una festa. Nel tardo pomeriggio si scaricava l'uva nel grande tino pronto nella cantina dove si pigiavano i grappoli e gli acini che dovevano diventare vino. Il mosto veniva successivamente versato dentro le botti con un imbuto di legno, mentre le vinacce si mettevano dentro lo strettoio per recuperare altro mosto e dopo quindici giorni, terminata la fermentazione, veniva data la “governa”, ovvero l’aggiunta di altra uva pigiata per aumentare la gradazione. Travasato in altra botte il vino era pronto a San Martino come si diceva:”A san Martino ogni mosto diventa vino”. Il contadino lo beveva durante l’anno solo nei giorni di festa, normalmente si accontentava del picchiotto, preparato con le vinacce rimaste dopo la pigiatura con l’aggiunta di acqua. Spesso al picchiotto si preferiva l’acetello, una miscela di acqua e aceto. Molto prelibato era invece il vinsanto prodotto con una qualità di uva dolce lasciata appassire, appesa ai travicelli in soffitta, fino a Natale; il succo ricavato dopo circa un anno era particolarmente pregiato.
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RACCOlTA DEllE UlIVE Antichi detti popolari individuavano diverse tipologie di raccolto già in base all’epoca di fioritura degli ulivi. Per cui così pronunciavano: “Se fioriscono in aprile vacce col barile, (in previsione di un buon raccolto) se fioriscono a maggio vacce col carro, (il tempo mite assicurava ottime risorse) se fioriscono a giugno vacce col pugno (prevedendo uno scarso raccolto). la raccolta delle olive in Umbria va fatta fra novembre e dicembre, nel momento in cui hanno raggiunto la massima dimensione e la polpa perde un poco di consistenza. Sempre al mattino presto i contadini si riunivano con i vicini in un nutrito gruppo e si recavano nel campo, dove le olive venivano raccolte e sistemate in ceste o cassette forate e poi messe in ambienti aerati e freschi per non più di due giorni. Erano poi portate al frantoio dove venivano macinate. Il frantoio aveva locali piuttosto grandi, con i pavimenti fatti con acciottolato, le pareti intonacate a calce con sassi a faccia vista, con un ingresso alto da cui facevano cadere direttamente le olive. Forte e intenso era il profumo dell’ ottimo liquido verde, una vera spremuta di olive proprio adatta alla “bruschetta”; solo l’olio umbro infatti per le sue caratteristiche organolettiche e per il sapore eccezionale è consigliato per essere consumato crudo sul pane tostato, come si usa da sempre nel nostro territorio con la “bruschetta”.
CRUCIATA o lACCIUOlO Nel periodo invernale il contadino non aveva molto da lavorare ma nemmeno da mangiare per cui si ingegnava nella caccia per procurarsi il cibo. la “cruciata” (o lacciuolo) era una tecnica di caccia piuttosto rudimentale, fatta per lo più da chi non possedeva un fucile (se lo potevano permettere solo i membri delle famiglie possidenti ). la sera, quindi, gli uomini si recavano in campagna vicino alle querce, ai pagliai o agli “ederacci” per organizzare la caccia che si basava su un ombrello pieno di vischio che, una volta schiacciato, diventava una potente colla capace di imprigionare gli uccelletti che vi si fossero posati. Prepara-
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vano intanto delle candele da sistemare in prossimitĂ dell’ombrello per attirare i volatili. Ăˆ chiaro che il compito dei giovani era quello di fare molto rumore per spaventare gli uccelletti che, a sera riposavano nei nidi sugli alberi, e che, una volta scappati, sarebbero andati a rifugiarsi presso la zona illuminata dalla luce delle candele e sarebbero rimasti intrappolati nel vischio. Normalmente la caccia era piuttosto proficua e il giorno dopo le famiglie avrebbero potuto mangiare. Non era poi cosĂŹ grave il danno arrecato al mondo animale che risultava in esubero rispetto ad oggi.
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Capitolo IV la cucina tradizionale
la cucina tradizionale
lA CUCINA TRADIZIONAlE la cucina tipica della nostra terra era semplice e costituita da ingredienti poveri, facilmente reperibili sul mercato locale e per lo più coltivati sul luogo. Certamente venivano utilizzati frutti di stagione per cui l’alimentazione variava a seconda di quello che offriva la terra. Il PANE Il pane non doveva mai mancare sulla tavola e veniva consumato ogni volta che si desinava, non solo nei pasti principali ma anche a colazione o a merenda, in special modo per i bambini, con lo zucchero o con l’olio. “Pane e companatico” si diceva una volta appunto perché “companatico” deriva da “cum” e “pane” e sta appunto a significare che si era soliti basare l’alimentazione sul pane accompagnato talvolta da qualche altro alimento, anche se in quantità minima, vista la povertà diffusa. Nel pane vi era una sacralità profonda riconosciuta da tutti tanto che gli avanzi non venivano mai buttati ma erano riutilizzati sempre anche quando l’alimento diventava secco e duro, nel qual caso era grattugiato per confezionare dolci o manicaretti. Al tempo della famiglia patriarcale, il pane si faceva a casa con la farina di grano o di granoturco non raffinata per cui le file avevano un colore più scuro rispetto a quelle di oggi ma si mantenevano almeno per una settimana e forse più. Fare il pane era certamente un rito importante paragonabile a quello religioso. le donne preparavano la sera prima un panetto di lievito e lo lasciavano coperto con un panno bianco nella farina. Al mattino si alzavano prima dell’alba per impastare e mettere a lievitare l’impasto nella madia, dopo avervi fatto sopra una croce, con un rito abituale che non concedeva niente alla fantasia. Non ci si poteva permettere errori quando si aveva la consapevolezza che il pane doveva essere pronto per l’ora di pranzo, momento in cui sarebbero tornati gli uomini dai campi. Anche le ragazze partecipavano alla lavorazione del pane preparando con l’impasto in eccesso delle pagnotte modellate a forma di pupazzi e mettendo acini di pepe al posto degli occhi. 89
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Nel frattempo si accendeva il forno con sarmenti, frasche di rovi e di ginepro, che le donne raccoglievano nel bosco oppure con ramoscelli ottenuti dalla potatura che i contadini facevano periodicamente. l’uso del forno a legna andava a completare quindi un ciclo agricolo importante che assolveva il compito della pulizia delle campagne con la raccolta delle fascine fatta dalle donne e si chiudeva con l’utilizzo della cenere che serviva per il bucato. le file lievitate venivano sistemate su lunghe tavole (coperte da un panno bianco adibito a questo uso esclusivo) che le donne portavano al forno sostenendole sulla testa con un portamento quasi regale. Quando il forno era ben caldo si capiva dal colore che assumeva la parte superiore della volta (“Il cielo è chiaro” si diceva); quindi si spazzava via la brace e si infornava. A cottura ultimata, il pane veniva riposto nella grande madia che ne conteneva tante file quante erano necessarie per tutta la settimana. Il profumo che si spandeva per tutta la casa sapeva di buono e dava un senso di tranquillità, o meglio di quella sicurezza riposta nelle cose che conosci da sempre e fanno parte di te, della tua vita, della tradizione. Il pane veniva mangiato anche da solo o con un po’ d’olio condito con sale e aglio dopo una leggera tostatura sui carboni, come siamo soliti fare ancora oggi con la “Bruschetta” così profumata specialmente nel periodo della raccolta delle olive. Il pane si arricchiva di altre varianti come la torta al testo, un impasto di acqua e farina che veniva cotta sotto la cenere direttamente sul piano del camino o sul testo, un pezzo di terra refrattaria di forma circolare che si faceva arroventare sui carboni. A volte si aggiungevano all’impasto i “friccioli” piccoli pezzi della parte grassa di scarto del maiale, che davano al tutto un gusto aromatico e saporito. Il “bocconcello” era un tipo di pane condito con formaggio, olio e uova e si serviva per colazione o prima (per questo era chiamato anche sbocconcello o sdigiunino) in occasione della mietitura o della trebbiatura. Vi era poi la “poltriccia”, costituita da un impasto di farina e acqua, cotta in padella o la “cresciola” fritta condita con sale o zucchero e le frittelle fatte con avanzi di pane duro, uova, zucchero e bicarbonato. Di solito per la vigilia dei Santi, il 1° novembre, ma anche per altre vigilie, si preparavano i maccheroni dolci. Il termine maccheroni richiama alla me-
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moria il nome che si dava un tempo alla pasta in genere anche se lunga come gli spaghetti. Anche questo piatto era realizzato con ingredienti poveri come la farina, l’acqua, il pane grattugiato, la cannella e le noci che, maturando in quel periodo, si trovavano facilmente in campagna. Molto conosciuta e apprezzata è la torta di Pasqua (così chiamata perchè veniva fatta nel periodo pasquale) preparata con un impasto di pane lievitato a cui si aggiungevano uova, farina, formaggio di diversi tipi e strutto. Veniva cotta nel forno a legna e poteva conservarsi come il pane per molti giorni senza cambiare qualità e profumo. Spesso più famiglie si mettevano d’accordo per preparare insieme l’impasto cominciando la lavorazione all’alba o la sera precedente quando si preparava il lievito aiutandosi tra vicini, come era in uso allora. Ciò consentiva un minor spreco di tempo e serviva anche ad utilizzare meglio le risorse, determinate sia dagli alimenti che dalle fascine per riscaldare il forno, e lo spazio stesso del forno, che veniva totalmente riempito. Serviva anche a mantenere intatte tradizioni nel tempo e a trovare momenti conviviali da condividere tra i membri delle famiglie.
Il MAIAlE la tradizione del maiale era altrettanto forte nelle nostre campagne perché la sua carne poteva essere poi conservata insaccata o sotto sale. l’uccisione del maiale era a carico degli uomini, che durante il periodo invernale, quando il lavoro nei campi diminuiva, andavano di casa in casa per aiutare il macellaio esperto nella lavorazione delle carni suine. le donne erano escluse perché considerate incapaci di sostenere tale operazione senza lasciarsi andare a espressioni del tipo: “Povera bestia” che erano considerate di cattivo augurio. Generalmente nel mese di gennaio si preparava l’uccisione del maiale designato precedentemente, ingrassato allo scopo, che veniva “ammazzato”, lavato con acqua bollente, raschiato, macellato. Spesso il fegato ancora caldo veniva mangiato dagli uomini in un rituale che richiama alla mente il coraggio del cacciatore nei confronti della preda o della vittima sacrificale.“Del maiale non si getta via niente”si diceva.
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Anche il sangue veniva utilizzato per la preparazione del Sanguinaccio che era condito con pinoli, zucchero, uva secca e sistemato in un budello lungo e appeso ad essiccare alle travi. la parte più importante era certamente il prosciutto, ovvero il coscio, che veniva conservato sotto sale e pepe e appeso poi ad asciugare in una soffitta ben arieggiata per essere utilizzato successivamente. Stessa sorte toccava al capocollo, alla “barbazza” (guanciale), alla “ventresca” (pancetta). Oltre alle bistecche, la carne veniva macinata per preparare salsicce, salami mentre con il fegato si facevano le “mazzafegate”, salsicciotti prelibati. la vescica era utilizzata per contenere lo strutto, il grasso che ricopriva le viscere e che veniva sciolto a fuoco lento in un tegame di coccio. Ancora oggi viene usato dalle massaie per le torte di Pasqua e per i fritti prelibati e leggeri. Il grasso che ricopriva le costole del suino era frantumato tra due assi e trasformato in sego, un grasso che si utilizzava come crema per le mani o per gli scarponi di cuoio.
lA GAllINA E lE UOVA la gallina era importante nella cultura contadina perché forniva, oltre alla carne, le uova preziose e necessarie sia per ottenere i pulcini da allevare sia per preparare diversi piatti basilari nell’alimentazione di quel tempo. Solo quando la gallina era vecchia e non serviva più a produrre uova, si poteva cucinare per preparare un ottimo brodo o un sugo per condire la pasta, come accadeva per lo più il martedì grasso di carnevale. “Gallina vecchia fa buon brodo” diceva il proverbio, ma noi sappiamo che era la necessità a creare tale convinzione, dato che l’animale ormai vecchio e non più utile doveva essere utilizzato in qualche modo, almeno per un pasto a base di carne. Sempre nel periodo di carnevale, quando abbondavano le uova, si preparavano dolci con queste mescolate a farina, zucchero e olio. Ne risultavano frittelle condite poi con zucchero e miele, che ancora oggi la tradizione rispetta, anche se con varianti, come l’aggiunta di liquori o alchermes, che ogni famiglia aggiungeva secondo la propria ricetta e il proprio gusto. Ma le uova erano utilizzate in grande quantità per la preparazione delle
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torte di Pasqua; gli ingredienti principali erano farina, uova e formaggio oltre allo strutto, utilizzato al posto dell’olio troppo prezioso allora, che aveva inoltre il vantaggio di una maggiore leggerezza. Si mangiavano insieme al “capocollo” che nel frattempo aveva raggiunto una perfetta stagionatura. Tale tradizione è ancora in uso ovunque, anzi si può dire che la pizza di Pasqua è così buona che ormai in città viene preparata tutto l’anno e commercializzata nelle più grandi catene di distribuzione varcando i confini dell’Umbria.
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Capitolo V Credenze e Superstizioni
Credenze e superstizioni
lUPO MANNARO leggende e tradizioni popolari ci parlano spesso del “lupo mannaro”. Si narra che nelle nostre campagne capitava di incontrare un uomo, capace di trasformarsi in lupo, che usciva nelle notti di luna piena ed era solito andare vicino a fontane o corsi d’acqua, spogliarsi, forse tuffarsi con grande sciabordio mentre emetteva feroci ululati. Episodi di questo tipo si dice che accadevano nella zona vicino al ponte del Tevere e alla Peschiera. Tra gli ultimi ricordi vi è quello del 1968, quando si racconta che rumori sospetti provenivano in alcune particolari notti dalla fontana di Giovaro nei pressi del cimitero del paese. Sì racconta che una volta, verso la mezzanotte, si sentì uno sciabordio intenso provenire dalla fontana, accompagnato da una serie prolungata di ululati che, emessi nel silenzio della notte, facevano davvero paura. Il fatto, col passaparola, si ingigantiva e preoccupava talmente gli abitanti delle case vicine che proibivano ai figli di uscire la sera e si chiudevano a casa dopo il tramonto del sole. I sospetti caddero su un “barbone”, a detta di molti, a cui era stata data ospitalità, per qualche tempo, nella stalla di una casa lì vicino. Ne avvalora la tesi il fatto che durante la notte, mentre si sentiva l’ululato dell’orrenda bestia, il vagabondo non si trovava nella stalla, che infatti era vuota quando i proprietari scesero spaventati a verificare quale strano animale emettesse quei versi. Ma la mattina, trovando che il barbone era ancora a dormire nella stalla, gli abitanti del luogo, che prima avevano solo qualche sospetto, si convinsero che era proprio quell’uomo a trasformarsi in lupo mannaro e lo cacciarono via. Storia del mito I miti che riguardano la figura del lupo hanno origine molto antiche. Presso gli Etruschi è Ajta a incarnare in qualche modo le sembianze del mannaro, il dio etrusco degli inferi, il quale indossa un elmo di pelle di lupo, che lo rende invisibile. È difficile stabilire quando nascono le prime leggende sui licantropi. Di certo la figura del lupo mannaro compare nel I secolo d.C. nella narrativa romana, quando ne parla Gaio Petronio nel frammento lXII del Satirycon.
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(Durante la cena a casa di Trimalcione, infatti, i protagonisti Encolpio, Ascilto e Gìtone hanno modo di ascoltare diverse storie macabre , come quella raccontata dal liberto Nicerote: un indimenticabile “faccia a faccia” con un lupo mannaro in un cimitero deserto! («Quando ero ancora schiavo, abitavamo in Vico Stretto, dove oggi c’è la casa di Gavilla. Lì, dài che ti dài, attacco a farmela con la moglie di Terenzio, l’oste. Magari l’avete anche conosciuta, Melissa, la Tarentina, quel gran pezzo di donna. Il caso volle che il mio padrone se ne fosse andato a Capua a vendere il fior fiore del suo ciarpame. E così, cogliendo la palla al balzo, convinco un nostro ospite ad accompagnarmi fino al quinto miglio. Mica per altro: era un soldato e per giunta forte come un demonio. Alziamo le chiappe al primo canto del gallo e con una luna così chiara che sembrava di essere di giorno. Finimmo dentro un cimitero: il mio socio si avvicina a una lapide e si mette a pisciare, mentre io attacco a contare le lapidi fischiettando. A un certo punto, mi giro verso il tipo e vedo che si sta togliendo i vestiti di dosso e butta la sua roba sul ciglio della strada. A me mi va il cuore in gola e resto lì a fissarlo che per poco ci resto stecchito. Ed ecco che quello si mette a pisciare tutto intorno ai vestiti e di colpo si trasforma in lupo. Non pensate che stia scherzando: non mentirei nemmeno per tutto l’oro del mondo. Ma, come stavo dicendo, appena trasformato in lupo, attacca a ululare e poi si va a imboscare nella macchia. Sulle prime io non sapevo più nemmeno dov’ero: poi mi avvicino ai suoi vestiti per raccoglierli, ma quelli erano diventati di pietra. Chi più di me avrebbe dovuto morire dalla paura? Ciò nonostante sguaino la spada e, menando colpi alle ombre, tra uno scongiuro e l’altro, arrivo fino alla casa della mia amica. Entro che sembro un cadavere, senza più fiato, con il sudore che mi scorre tra le gambe e gli occhi spenti. Tanto che per riprendermi ci metto un bel po’. La mia Melissa, stupita di vedermi in giro a quell’ora della notte, mi fa: “Se solo fossi arrivato un po’ prima, almeno ci avresti dato una mano: un lupo è entrato nel recinto e ci ha massacrato tutte le pecore come un macellaio. Comunque, anche se è riuscito a scappare, non ha da stare allegro, perché un nostro servo gli ha trapassato il collo con la lancia”. Dopo aver sentito questa storia, non riesco a chiudere occhio per tutta la notte, ma alle prime luci dell’alba me la filo a casa del nostro Gaio, nemmeno fossi un oste appena ripulito. E quando passo davanti al punto in cui i vestiti del mio compare erano diventati di pietra, ci trovo soltanto una pozza di sangue. Quando arrivo a casa, il soldato è lì sbracato sul letto come un bue, con al capezzale un medico impegnato a curargli il collo. Allora mi rendo conto che è un lupo mannaro e da quel giorno non ho più mangiato con lui manco un tozzo di pane, nemmeno a costo della vita.»)
Nella cultura romana il lupo era visto anche con ammirazione e ciò è testimoniato dalla lupa nutrice di Romolo e Remo, inoltre i vexillari, sottufficiali incaricati di portare le insegne di ogni legione, indossavano una pelle di lupo che copriva l’elmo. Il 15 febbraio si svolgeva la cerimonia dei lupercali, in onore del dio luperco (versione romana di Pan), nel corso della quale il sacerdote, vestito da lupo, passava un coltello sporco di sangue sulla fronte di due adolescenti (questo aspetto della cerimonia aveva origini da sacrifici umani). luperco era il protettore delle greggi e il rito era stato ereditato dai Sabini. 98
Credenze e superstizioni
Il termine stesso Lupo Mannaro ha origine dal tardo latino lupus homenarius il cui significato etimologico è: lupo che si comporta come un uomo. I romani colti erano consapevoli che la licantropia era una malattia e lo stesso Claudio Galeno nella sua – Ars medica – da una descrizione più realistica di essa, prescrivendo anche dei rimedi: («...coloro i quali vengono colti dal morbo, chiamato lupino o canino, escono di notte nel mese di febbraio, imitano in tutto i lupi o i cani, e fino al sorgere del giorno di preferenza scoprono le tombe. Si possono riconoscere le persone affette da tale malattia da questi sintomi. Sono pallidi e malaticci d’aspetto, e hanno gli occhi secchi e non lacrimano.. Sono anche assetati e hanno le tibie piagate in modo inguaribile a causa delle continue cadute e dei morsi dei cani; e tali sono i sintomi. È opportuno invero sapere che questo morbo è della specie della melanconia: che si potrà curare, se si inciderà la vena nel periodo dell’accesso e si farà evacuare il sangue fino alla perdita dei sensi, e si nutrirà l’infermo con cibi molto succosi. Ci si può avvalere d’altra parte di bagni d’acqua dolce: quindi il siero di latte per un periodo di tre giorni, parimenti si purgherà con la colloquinta di Rufo o di Archigene o di Giusto, presa ripetutamente ad intervalli. Dopo le purgazioni si può anche usare la teriarca estratta dalle vipere e le altre da applicare nella melanconia già in precedenza ricordate »)
Testi scritti e leggende tramandate oralmente facenti riferimento al “lupo mannaro” abbondano in tutti i periodi storici e in tutte le aree geografiche. Oggi per la medicina la licantropia è una rara affezione di natura isterica e le persone colpite simulerebbero, nei periodi di luna piena, il comportamento e l’ululato tipico del lupo. Questo riconoscimento della scienza dimostra che il fenomeno “licantropia” esiste e deve essersi manifestato nella storia con una certa frequenza, se lo si contempla nei manuali di medicina. Per altri la licantropia è una specie di possessione per opera del demonio. Fonte importante sarebbe il leggendario “Manoscritto di Assisi”, che è emblematico nella tradizione mistica al punto da indurre gli stessi studiosi dell’occulto a dubitare della sua esistenza. Proprio nel Manoscritto si avrebbe la conferma dell’esistenza dell’uomo-lupo. l’episodio di S. Francesco che ammansisce il lupo, altro non sarebbe se non un esorcismo operato dal Santo su di un posseduto da licantropia.
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STREGHE E FATTUCCHIERE Molti sono i racconti che riportano episodi accaduti nel nostro territorio volti a testimoniare la credenza popolare delle streghe. In particolare ritorna spesso il nome di Vienna, una donna che abitava a Ripalvella ritenuta da tutti fattucchiera, dall’aspetto deturpato con macchie rosse in volto, che si pensava fossero causate dalla sua partecipazione al sabba con il fuoco dei demoni. Questa spesso vagava per le campagne come molti altri poveri in cerca di qualcosa da mangiare e si rivolgeva ai contadini chiedendo farina e pane in cambio dei suoi servigi o peggio ricattandoli con i suoi malefici. I contadini un po’ per paura, un po’ per togliersela di torno spesso acconsentivano alle sue richieste. Si era diffusa infatti la voce che la donna fosse capace di fare il malocchio (cosa molto temuta allora ) o provocare incantesimi crudeli, per cui, al suo passaggio, i bambini venivano tenuti nascosti. Una delle conseguenze più note della crudeltà di Vienna era l’improvvisa comparsa di pidocchi dopo il suo passaggio, cosa peraltro molto comune a quel tempo in cui l’igiene personale e abitativa non era così importante. Ma si dice che fosse capace di far ammalare i bambini, succhiare loro il sangue e portarli alla morte. Alcuni ricordano che nella casa in cui si era rifiutato il pane alla fattucchiera, una bambina di dodici anni si ammalò e poco dopo morì; sulla schiena le fu trovato un “raganaccio”(un ramarro). A testimonianza della veridicità dell'accusa di stregoneria molti sostenevano di essersi recati il venerdì notte ai quattro crocicchi e di aver visto, con l'aiuto di una forcina a forma di Y, il passaggio delle streghe, tra cui avevano riconosciuto Vienna. Contro gli incantesimi non c’era nulla da fare se non affidarsi alla religione con preghiere o con “ devozioni” medagliette sacre che, in genere, venivano appuntate alla maglia di lana con una spilla da balia o portate al collo con una catenina di filo (solo in rari casi d’oro). Per difendersi ognuno poi aveva i suoi rimedi empirici: il ferro di cavallo, il corno rosso, la palma benedetta incrociata con spighe di grano da appendere dietro alla porta di casa. la religione era ritenuta basilare anche nei tentativi di maghi, che scoprivano di avere poteri particolari capaci di sconfiggere il male o il malocchio. Molti ricordano i guaritori, a cui si rivolgevano coloro che credevano di aver ricevuto una fattura. Questi, con riti particolari che prevedevano anche le preghiere, muniti di un piatto colmo d’acqua in cui lasciava cadere una
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goccia d’olio, erano capaci di leggere i segni che si presentavano nella frantumazione delle molecole dei due elementi mescolati e di dare un significato al problema, che il malato presentava. Un segno molto pericoloso era quando le gocce d’olio si disfacevano a contatto con l’acqua e si formavano dei serpentelli. Allora emergevano una serie di rimedi e interventi che il mago consigliava al malcapitato. Spesso si trattava di consigli, altre volte di interventi particolarmente originali come aprire un cuscino per osservare le composizioni, formatesi nel tempo, delle piume a cui si poteva dare diversi significati; poi si passava a bruciare le piume o tali formazioni considerate l’oggetto del malocchio. In questo modo il fuoco costituiva l’elemento purificatore, come nelle migliori tradizioni. Tra il 1450 e il 1750, con ondate diverse, vennero accusate di stregoneria (crimen except) migliaia di donne, di cui buona parte fu condannata a morte. Il fenomeno di caccia alle streghe si sviluppò in molte parti del mondo. Non solo il popolo credeva al maleficium, ma anche le classi colte erano certe dell’esistenza di una setta di streghe. All’idea rurale di una strega che lancia il malocchio, si somma la teoria colta che vedeva nella strega un' adoratrice del demonio. le guerre e il conseguente aumento della popolazione femminile, carestie, epidemie non fanno che aumentare la paura e la superstizione; si cominciò a parlare di sabba quando l’Europa venne squassata dalle rivolte delle jaqueries. Il Rinascimento quindi non inventò le streghe, ma le codificò e le descrisse. Nel 1484, papa Innocenzo VII concesse agli inquisitori Kramer e Sprenger, domenicani tedeschi, la facoltà di creare il manuale del perfetto cacciatore di streghe. Così nacque il Malleus maleficarum (martello delle streghe), pubblicato per la prima volta nel 1486. Anche in Umbria si sviluppò il fenomeno. lo attestano i documenti del processo di Mattecuccia di Francesco abitante a Ripabianca bruciata come strega a Todi il 20 marzo del 1428. la donna, secondo i giudici del tribunale, ispirata dal diavolo, avrebbe ripetutamente compiuto atti sacrileghi ed incantesimi su persone. le suddette malefatte erano state compiute, secondo gli accusatori, dal 1426 fino al momento dell'arresto della donna e della sua condanna da parte del tribunale presieduto da lorenzo de Surdis, capitano e conservatore della pace nella città di Todi per nomina della Santa Chiesa Romana. Questo è uno dei tanti episodi che si trovano narrati negli atti processuali e che fanno riflettere sulla cultura medievale, così ricca di commistioni tra sacro, pratiche magico-rituali e mondo mitico precristiano. 101
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Atti del processo alla Strega Matteuccia
Matteuccia non si limitava a preparare pozioni ed unguenti, ma prescriveva anche di recitare preghiere e di assumere acqua magica a tutti coloro che volevano riconquistare il proprio innamorato e insegnava alle donne come farsi amare dai mariti che le trascuravano o le picchiavano. All’epoca del processo Matteuccia era famosa e potente. I suoi clienti arrivavano anche da lontano, non solo contadini e persone dei ceti più umili ma anche personaggi di un certo rango, tra cui un uomo alle dipendenze del condottiero Braccio da Montone, che lei aveva salvato da morte sicura. Con le sue formule, i suoi unguenti e filtri la donna era conosciuta e ricercata in tutta l’Umbria, specialmente Todi, Orvieto e Perugia. la sua attività non aveva mai avuto quella connotazione diabolica che invece le fu attribuita al momento del processo di Todi. Per spiegare ciò bisogna comprendere che le condizioni storiche erano cambiate; Matteuccia non aveva più l’appoggio di Braccio da Montone e a Todi era giunto un predicatore, San Bernardino da Siena (citato nella carte processuali) che, vista la sua documentata avversione per le “incantatrici, aveva attirato con
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le sue prediche l’attenzione sulla potente signora. Il predicatore aveva parlato per la prima volta (in una predica del 1427) di Benevento come città un cui si svolgevano le riunioni notturne di streghe. Nella lunga sentenza fatta redigere dal capitano lorenzo de Surdis si riportavano filastrocche contro gli spiriti fatte confessare con torture durante l’interrogatorio. Si dice che dopo aver “sugato” sangue di bambini a Montefalco, Todi, Perugia e Orvieto, ovvero nei luoghi in cui era conosciuta, e dopo essersi unta di grasso di avvoltoio, sangue di nottola e sangue di lattanti, Matteuccia invocava il demonio lucibello, che le appariva in forma di caprone, la prendeva in groppa e, tramutato in mosca, veloce come il fulmine, la portava al noce di Benevento dove erano radunate moltissime streghe e demoni capitanati da lucifero. la povera Matteuccia riferì anche la formula che faceva volare: “Unguento, unguento, mandame a la noce di Benivento supra acqua et supra ad vento et supra omne maletempo.” la leggenda del noce come albero malvagio, invece, ha origine antiche ricollegabili ad una falsa etimologia, la derivazione del nome dal verbo latino “nocere”, nuocere. Il motivo delle streghe mangiatrici di bambini, tratto dalla letteratura classica (le lamie nell’Ars poetica di Orazio, le striges nei Fasti di Ovidio) e quello del volo al noce di Benevento, uniti alla documentazione delle arti magiche delle guaritrici, costituirono la base esplosiva nei processi per stregoneria dove in tutta Europa migliaia di donne innocenti persero la vita perché costrette con la tortura a confessare quelli che, suggeriti dagli inquisitori, sarebbero diventati gli stereotipi della stregoneria.
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Bibliografia
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Gioco di bocce 107
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Giochi d’altri tempi
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Commenorazione presso il Monumento ai caduti
Madonna dei Portenti 109
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Cappella rurale Madonna dei Lanari
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San Lorenzo in Vibiata
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Cappellina rurale
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Fontana di Giovaro
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Babbo Natale moderno 114
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Le Majorette alla Torraccia
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Filarmonica 1922
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Presepe a Monte Castello di Vibio
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