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La Collana del Nonprofit 8
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Nota editoriale La Collana del non profit è una collana di numeri monotematici, nata all’interno del Bando Un invito a proporre idee e contenuti per pubblicazioni sulle tematiche sociali e di interesse per il volontariato e pensata per dare voce al volontariato attraverso le attività e i suoi operatori e mantenere viva la sua memoria storica.
I lavori pubblicati riflettono esclusivamente le opinioni degli autori e non impegnano la responsabilitĂ del Centro Servizi per il Volontariato.
I lettori che desiderano informarsi su tutti i libri realizzati dal Cesvol della provincia di Terni possono consultare il nostro sito Internet alla pagina www.cesvol.it o scrivere una mail a comunicazione@cesvol.net
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Cristina Montesi
Il paradigma dell’Economia Civile. Radici storiche e nuovi orizzonti
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Il Cesvol svolge le sue attività con risorse del Fondo Speciale per il Volontariato amministrato dal Comitato di Gestione dell'Umbria. Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni, Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto, Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno, Fondazione Cassa di Risparmio di Spoleto, Fondazione Cassa di Risparmio di Città di Castello
Copyright © 2016 Umbria Volontariato Edizioni, Terni, Italy Ce.S.Vol. della provincia di Terni Via Montefiorino 12/c- 05100 Terni (TR) Tel. 0744/812786 Fax. 0744/817917 www.cesvol.it Servizio Editoria Sociale: comunicazione@cesvol.net Edizione: ristampa dicembre 2016 Editing, progetto editoriale e di impaginazione: Emanuela Puccilli
Copertina: Jean Luc Umberto Bertoni In copertina: antica mappa, risalente al 1600, della città “ideale” di Palmanova (Udine). Tutti i diritti sono riservati. Vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo effettuata, se non previa autorizzazione dell’Editore. ISBN: 978-88-99107-13-0 6
Agli Economisti Civili del passato, del presente e del futuro con gratitudine per la scoperta e la valorizzazione del ruolo del dono e dell’amore in economia Cristina Montesi
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Indice Pag. 11
La Collana del Non profit di Lorenzo Gianfelice, presidente del Cesvol
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1.1 Beni relazionali, capitale sociale ed Economia Civile
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1.2 Caratteristiche dei beni relazionali
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1.3 Il legame tra capitale sociale e mercato: tre intrecci virtuosi
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Bibliografia
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Introduzione Parte I
I fondamenti dell’Economia Civile 1. I fondamenti dell’Economia Civile
Parte II
L’eredità di San Benedetto: una lezione europea di Economia Civile 2. L’eredità di San Benedetto: una lezione europea di Economia Civile
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2.1 L’eredità di San Benedetto sotto il profilo economico
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2.2 San Benedetto come anticipatore dell’Economia Civile
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2.3 Le differenti “lezioni” dal punto di vista economico che possono scaturire dalla abbazia benedettina
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2.4 La lezione sul piano macroeconomico della abbazia benedettina
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Il ruolo della spiritualità in campo economico
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L’influsso esercitato dalla spiritualità benedettina sulla nascita di un’economia di mercato razionale, pacifica, fruttifera
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2.5 La lezione sul piano mesoeconomico della abbazia bene- Pag. 43 dettina: l’originale rapporto dell’abbazia benedettina con il territorio L’abbazia benedettina funge da catalizzatore dell’Economia Civile
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L’abbazia benedettina funge da calamita di un marketing territoriale ante-litteram
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L’abbazia benedettina come impresa “civile”
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L’etica del lavoro dell’abbazia benedettina
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L’abbazia benedettina come precorritrice della cooperazione sociale
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Il governo non autocratico dell’abbazia benedettina
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I principi guida dell’abbazia benedettina
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L’etica delle virtù nell’abbazia benedettina
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La centralità della conoscenza nell’abbazia benedettina
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La centralità della innovazione nell’abbazia benedettina
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2.7 Conclusione
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Bibliografia
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2.6 La lezione sul piano microeconomico della abbazia benedettina
Parte III
L’evoluzione storica dell’Economia Civile 3. L’evoluzione storica dell’Economia Civile
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3.1 Il contributo del monachesimo francescano all’Economia Civile
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3.2 Umanesimo civile ed Economia Civile
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3.3 Illuminismo italiano ed Economia Civile
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Antonio Genovesi, il padre dell’Economia Civile 3.4 Dall’Economia Civile italiana all’Economia Politica inglese
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3.5 Dall’Economia Politica inglese alla Scienza Economica degli economisti neoclassici
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Bibliografia
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Parte IV
L’Economia Civile nella contemporaneità 4. L’Economia Civile nella contemporaneità
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4.1 Un nuovo spunto di riflessione
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4.2 Le affinità elettive tra mondo profit e mondo non profit
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4.3 Un confronto tra impresa socialmente responsabile e impresa civile
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4.4 Insieme per un’Economia Civile: dalla teoria all’azione formativa
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4.5 Il Manifesto per l’Economia Civile
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Bibliografia
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Ringraziamenti
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L’autrice
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La Collana del Non Profit di Lorenzo Gianfelice, presidente del Cesvol di Terni
Prosegue con questo numero la collana del Non profit pensata per dare voce al volontariato attraverso le attività e i suoi operatori e mantenere viva la sua memoria storica. Il volume si inserisce all’interno del Bando Un invito a proporre idee e contenuti per pubblicazioni sulle tematiche sociali e di interesse per il volontariato A. 2016. Il Centro di servizio per il volontariato opera quotidianamente in un processo di affiancamento delle associazioni nel loro percorso di crescita e maturazione. In questo contesto a partire dal 2014 il Centro ha definito un piano specifico di editoria del volontariato. L’obiettivo che ci proponiamo è quello di raccogliere documenti, riflessioni e ricerche che possano essere occasione di conoscenza e di crescita culturale e sociale valorizzando il patrimonio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato organizzato e favorendo la circolazione di temi coerenti con quelli al centro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali. La collana del Non profit presenta una serie di pubblicazioni, a carattere monografico, selezionate attraverso un invito periodico rivolto alle associazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria collana editoriale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazionismo provinciale.
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Introduzione
Il volume analizza i fondamenti dell’Economia Civile (beni relazionali, capitale sociale, dono, principio di reciprocità); le sue radiche storiche (monachesimo benedettino e francescano; Umanesimo Civile; Illuminismo italiano con un focus particolare sulla figura di Antonio Genovesi, esponente dell’illuminismo napoletano e padre dell’Economia Civile); le motivazioni del declino dell’Economia Civile a favore dell’Economia Politica inglese del XIX secolo; il tramonto definitivo dell’Economia Civile con l’avvento nel XX secolo della Scienza Economica dagli economisti neoclassici; l’Economia Civile nella contemporaneità. Nel capitolo dedicato ai fondamenti dell’Economia Civile si esamina il ruolo strategico dei beni relazionali (amicizia, amore, partecipazione alla vita politica ed associativa) in economia. Le buone relazioni tra persone sono infatti fondamentali non solo per la vita in società, ma anche per la promozione dello sviluppo economico e per l’umanizzazione stessa dell’economia. I beni relazionali sono alla base del capitale sociale, ovvero dei legami sociali fiduciari tra persone, senza il quale il mercato non può nascere e grazie al quale il mercato può operare senza dispendiosi attriti. I beni relazionali si costruiscono/cementano attraverso il dono effettuato all’insegna della reciprocità (dono relazionale). Ma il principio di reciprocità è propedeutico al mercato non soltanto perché crea/ rinsalda il legame sociale, ma anche perché esso è alla base dell’innesco di ogni contratto: senza un’apertura incondizionata all’Altro, fatta con l’incognita/speranza che l’Altro possa ricambiare l’investimento di fiducia effettuato al buio, nessun contratto potrebbe mai essere avviato. Un contratto può generarsi soltanto da una scommessa basata su di un dono originario di fiducia, sulla incondizionalità condizionale teorizzata da Alain Caillè. 14
Questi assunti dell’Economia Civile (beni relazionali, capitale sociale, dono relazionale, principio di reciprocità, dono della fiducia) sono particolarmente rivoluzionari dal punto di vista della scienza economica in quanto essi contraddicono l’economia neoclassica che si basa sul paradigma dell’homo oeconomicus, un agente perfettamente razionale, individualista (che non coltiva i beni relazionali e che intrattiene con il prossimo soltanto relazioni impersonali) ed egoista (che persegue soltanto il suo interesse personale e che quindi non è incline a fare doni, se non quelli strumentali). Quali sono state le conseguenze teoriche di questa inconciliabilità di fondo tra beni relazionali, dono relazionale ed economia neoclassica? Dal punto di vista epistemologico la separazione tra società ed economia ha fatto sì che il dono sia stato studiato dapprima soltanto dagli antropologi come fenomeno sociale delle società arcaiche e/o esotiche (vedi gli studi di M. Mauss, C. Lévi-Strauss, B. Malinowski), poi dai sociologi, dagli psicologi e dai filosofi e soltanto da ultimo, con grande ritardo, dagli economisti. Data l’incompatibilità tra dono relazionale ed economia neoclassica, dove ha finito per collocarsi il dono spazialmente e temporalmente? Spazialmente si è lasciata cittadinanza teorica al dono solo al di fuori del mercato: 1. il dono è stato relegato alla sfera della socialità primaria (famiglia, amicizia, associazionismo) dove è stato studiato soltanto da alcune scienze sociali (sociologia, antropologia, etnologia, psicologia); 2. il dono è stato confinato in campo economico alla sfera del nonprofit (come eccezione al mercato), un mondo a sé che ha incuriosito gli economisti costringendoli finalmente ad interrogarsi sull’origine e sulle modalità di funzionamento di tale settore. La scissione spaziale tra dono e mercato trova conferma in una frattura che avviene anche sul piano temporale tra i due, ovvero si è legittimato uno sfasamento cronologico tra dono e mercato: 1. il dono dovrebbe intervenire, tramite la filantropia (ovvero la carità, il dono puro), a posteriori, ovvero solo dopo che il mercato ha prodotto 15
ha prodotto ricchezza nel segno dell’efficienza, a parziale correzione delle disuguaglianze che possono essere state generate dal suo funzionamento (affiancandosi, in modo complementare, alla funzione redistributiva del Welfare State nel segno dell’equità). Ebbene l’Economia Civile ha riscoperto il ruolo che beni relazionali, dono relazionale e reciprocità giocano proprio all’interno del mercato, né a latere, né a valle di esso, riconnettendo la città (la società) ed il mercato. Da cui l’aggettivo “civile”. Nella copertina di questo volume per ribadire l’importanza della città per l’Economia Civile è riprodotta la pianta seicentesca della città “stellata” di Palmanova (provincia di Udine) pianificata dalla Repubblica di Venezia nel 1593. Questa città si distingue dalle altre città rinascimentali “ideali” perché: 1. viene ideata e realizzata dalla Repubblica di Venezia e non da una Signoria dispotica dell’epoca (come ad esempio la città immaginaria di “Sforzinda” commissionata da Francesco Sforza all’architetto Antonio Averulino, detto “Filarete”); 2. la presenza degli esseri umani nella mappa della città denota che il funzionalismo ed il razionalismo adottati dagli architetti dell’epoca per progettare, con perfezione matematica e geometrica, una realtà urbana ordinata, sicura, efficiente non hanno comunque reso la città “disumana”; 3. l’importanza dei beni relazionali si evince anche dalla centralità che nel disegno assume la piazza che è il centro di gravità di tutta la città verso la quale convergono tutte le principali strade e dal fatto che tutta la struttura della città è stata concepita sul numero 3 (l’archetipo del paradigma della Santissima Trinità) e sui suoi multipli (la pianta poligonale della città è una stella a 9 punte; le porte di accesso alla città sono 3; le strade radiali sono 18, di cui 6 principali; la pianta della piazza centrale è esagonale). Dopo aver illustrato i “fondamentali “ dell’Economia Civile, nel volume si fa un breve excursus storico delle prime forme di Economia Civile. Nel capitolo dedicato all’eredità economica di San Benedetto si 16
dimostra come essa sia ancora valevole, sotto vari aspetti (a livello macroeconomico, mesoeconomico, microeconomico), per guidarci nella comprensione e nella soluzione di molti problemi socioeconomici della contemporaneità. In questo specifico capitolo si dimostra che l’abbazia benedettina è espressione appropriata di Economia Civile per diverse motivazioni: perché è un luogo dove si pratica la cura dell’anima e del proprio essere (che si realizza pienamente solo in relazione con gli altri) insieme alla produzione che implica lavoro di squadra e razionalità relazionale (si tratta quindi di un’impresa comunità); perché questa impresa comunità rientra tra le organizzazioni non profit (che sono tipiche espressioni di Economia Civile) dato che, in virtù delle sue caratteristiche, può essere considerata l’antesignana di una moderna cooperativa sociale basata sui principi dell’armonia, della stabilità, del Bene Comune; perché l’abbazia ha funzionato, grazie al capitale sociale prodotto, da centro vivificatore dello spazio circostante non solo dal punto di vista sociale (favorendo la rinascita delle città), ma anche economico dato lo stretto legame tra città e mercato (favorendo così il passaggio da un’economia di mera sussistenza ad un’economia di mercato); perché l’abbazia ha stimolato la nascita di una particolare economia di mercato: un’economia di mercato “civile”, ovvero razionale, pacifica, inclusiva; perché l’abbazia è stata “civilizzatrice” anche in senso culturale, fungendo da luogo di irradiazione e trasmissione a livello europeo della cultura del tempo e dell’antichità, nonché da laboratorio di creazione di innovazione tecnologica grazie al fatto di configurarsi, sin da allora, come un “sistema cognitivo” immerso nell’“economia della conoscenza” dell’epoca. Le Università, che nasceranno posteriormente, costituiranno lo sviluppo evolutivo delle attività di studium svolte in forma comunitaria nei monasteri benedettini ed in alcune scuole cattedrali. Nel capitolo dedicato all’evoluzione storica dell’Economia Civile si analizzano anche i primi Monti di pietà, nati su impulso dell’Ordine 17
francescano, che riabilitano il prestito (ad un giusto interesse) come terza via tra usura ed impossibilità/condanna dell’attività creditizia. Essi sono una forma di Economia Civile in quanto si impegnano, attraverso l’erogazione di una forma di microcredito ante litteram, per il reinserimento sociale di persone in difficoltà economiche. La trattazione affronta quindi il tema dell’Umanesimo Civile della prima metà del 1400. L’Umanesimo Civile, sposa come archetipo ideale del tempo l’immagine di un uomo colto, versatile, proiettato su più dimensioni (lavorativa, politica, sociale), una concezione che andrebbe riscoperta e rivalorizzata rispetto a quella riduzionistica dell’homo oeconomicus della scienza economica neoclassica appiattito solamente sulla dimensione del avere/consumare e dell’homo economico dell’economia politica della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith schiacciato sull’interesse personale, se non si tiene conto della sua capacità di provare anche simpatia per gli altri che emerge solo da una lettura della Teoria dei sentimenti morali non disgiunta da quella dal trattato economico del filosofo ed economista scozzese. L’antropologia posteriore di Antonio Genovesi, esponente dell’Illuminismo napoletano e padre dell’Economia Civile, è più esplicitamente che in Adam Smith basata su di un mix equilibrato di interesse per sé (egoismo) ed interesse per gli altri (altruismo reciproco). Questa idea di uomo permea la sua concezione del mercato (un luogo di mutua assistenza tra persone, che funziona grazie alla fiducia generalizzata, ovvero grazie al capitale sociale ed alle leggi dello Stato) e la sua concezione di scienza economica (che è la scienza della pubblica felicità). Nel capitolo dedicato all’Economia Civile nella contemporaneità, più che svolgere una riflessione sulle moderne organizzazioni del Terzo Settore che fanno capo ad essa, si è portato a sintesi il leitmotiv di un ciclo seminari, progettato e realizzato dal Cesvol della provincia di Terni e dal Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di 18
Perugia sede di Terni (cattedra di Economia pubblica a dei settori produttivi - docente Cristina Montesi), dal titolo “Insieme per un’Economia Civile” composto da sette incontri che hanno avuto luogo da febbraio ad ottobre 2016. Gli incontri hanno esplorato i possibili “ponti” che si possono instaurare tra mondo non profit e mondo profit. Il ciclo di seminari ha presentato almeno quattro elementi di novità. Il primo elemento di novità è che esso ha ipotizzato, anticipando i contenuti della riforma del Terzo Settore recentemente approvata dal Parlamento (25 maggio 2016), il superamento della netta separazione tra “imprese profit” ed “enti non profit” che possono reciprocamente prendersi a modello per coevolversi e per instaurare forme di collaborazione che, ad oggi, non sono così diffuse (si tratta da un lato di “eticizzare” l’impresa profit che può guardare per questo scopo al non profit e, dall’altro, di “imprenditorializzare” il Terzo Settore, nella componente del volontariato e dell’associazionismo, nel senso di fargli acquisire maggiore attenzione agli aspetti di efficienza tipici del profit). È già peraltro in atto un processo di ibridazione delle imprese profit, che ha trovato cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico (si fa riferimento alla recente disciplina della Benefit Corporation ed a quella, più remota, della Impresa Sociale che verrà rivisitata a breve dai decreti attuativi della Riforma del Terzo Settore che verranno emanati dal Governo). Il secondo elemento di novità è che, grazie a questa fertilizzazione incrociata, mutano i confini dell’Economia Civile. Possono allora idealmente rientrare, nel perimetro dell’Economia Civile, oltre agli ibridi organizzativi già giuridicamente riconosciuti, le imprese profit “civili”, a movente veramente ideale, che sono diverse dalle imprese socialmente responsabili. Il terzo elemento di novità è che la contaminazione dei due mondi non dovrebbe esaurirsi nella ibridazione dei modelli organizzativi (generando imprese profit “civili” ed associazioni, anche di volontariato, più “efficienti”), ma dovrebbe dare vita anche a forme di collaborazione tra profit e non profit 19
e non profit (generatività di progetti comuni, forme inedite di osmosi). Non a caso il titolo dell’ultimo seminario “Prove d’orchestra: incamminarsi verso forme di collaborazione tra settore profit e settore non profit”, tenuto dal Prof. Stefano Zamagni il 7 ottobre 2016, rinviava simbolicamente all’orchestra sinfonica come luogo ove, attraverso prove ripetute, si produce armonia coordinando tanti strumenti musicali differenti, avanzando quindi l’idea di un’Economia Civile come “polifonia”. La cooperazione tra mondo profit e non profit potrà avvenire se da un lato l’impresa profit uscirà dall’idea riduzionistica che la sua missione sia quella di massimizzare il profitto (che è invece un vincolo, non il fine aziendale), per abbracciare la più ariosa concezione che essa debba concorrere attivamente con il suo progetto imprenditoriale allo sviluppo economico, ecologico e sociale del territorio, in termini però non meramente filantropici, ma diventando a tutti gli effetti “impresa civile” (ovvero trasformandosi in un’impresa che fa con il territorio, non per il territorio); dall’altro se il volontariato e l’associazionismo usciranno dagli stereotipi di vedere tutte le imprese solo come un insieme di contratti guidato dal profitto con cui è preferibile non avere rapporti per evitare “contaminazioni” e si apriranno senza pregiudizi alla cooperazione con quelle imprese che si comportano da vere comunità sociali e morali. Il quarto elemento di novità è quello di aver lanciato, a partire dal Manifesto per l’Economia Civile (che è stato illustrato nell’incontro del 23 giugno nei suoi principi fondamentali, nel suo metodo, nella sua visione più allargata di Economia Civile) la nascita di un’Alleanza Locale per l’Economia Civile.
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PARTE I I fondamenti dell’Economia Civile
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1. I fondamenti dell’Economia Civile
1.1 Beni relazionali, capitale sociale ed Economia Civile L’Economia Civile è quel filone di pensiero economico, tutto italiano, che enfatizza il ruolo che la “città” svolge per la nascita ed il funzionamento del mercato (di qui l’aggettivo “civile”), discostandosi in modo innovativo dalla ortodossia economica1. Per “città” si intende il cosidetto “capitale sociale”, ovvero l’insieme di relazioni che si instaurano tra persone che hanno la caratteristica di aumentare il grado di fiducia esistente tra le stesse e che connotano stabilmente una data comunità (si parla in questo caso di capitale sociale collettivo, ma il capitale sociale può essere concettualizzato anche a livello individuale2). La fiducia è una risorsa molto importante perché essa favorisce l’azione collettiva, in molteplici campi di attività, per un fine condiviso. Secondo l’Economia Civile ciò che edifica la città (ovvero le relazioni fiduciarie tra persone) edifica anche il mercato3. L’Economia Civile è dunque incentrata sulla importanza che la fratellanza, il principio della Rivoluzione francese più negletto e dimenticato rispetto a quello di libertà e di uguaglianza, può giocare in campo economico. Meno controverso è il ruolo che la fratellanza può svolgere in campo sociale, per una coesistenza pacifica e solidale delle persone, che è cosa diversa dal vivere insieme in un clima di indifferenza, di apatia o ancor peggio di ostilità. Concordo con il Cardinale Carlo Maria Martini nel dire che “… già Aristotele considerava l’amicizia il bene più grande della città: non è la giustizia – affermava 1 Cfr. Genovesi (2013); Bruni e Zamagni (2004); Bruni e Zamagni (2009); Bruni e Zamagni (2013a); Bruni e Zamagni (2015); Becchetti, Bruni e Zamagni (2010); Becchetti, Bruni e Zamagni (2014); Becchetti, Bruni e Zamagni (2016); Becchetti (2014a); Becchetti (2014b). 2 Cfr. Coleman (1988); Putnam (1993); Bourdieu (1995); Fukuyama (1996); De Blasio e Sestito (2011). 3 Cfr. Zamagni (2014).
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perché la giustizia non salva; rende forse sicura la città e però la rende rigida, dura, inflessibile; la città ha bisogno dell’amicizia” 4. Il capitale sociale non è generato da relazioni impersonali, autointeressate ed anaffettive, ma da relazioni sociali identitarie, disinteressate, empatiche. La sorgente del capitale sociale risiede, secondo gli Economisti Civili, in una nuova categoria di beni: i beni relazionali (amorevolezza, amicizia, partecipazione attiva alla vita comunitaria e politica)5. Bisogna osservare che questi beni hanno ricevuto attenzione scientifica prima dai filosofi (M. Nussbaum), poi dai sociologi (P. Donati), poi dagli scienziati della politica (C. Uhlaner), soltanto recentemente dagli economisti (B. Gui, S. Zamagni, L. Bruni, L. Becchetti). Il ritardo degli economisti si spiega con il paradigma antropologico fondativo della scienza economica moderna: l’homo oeconomicus, assunto dall’economia neoclassica (che è ancora oggi la dottrina dominante), che dipinge l’agente economico come un attore perfettamente razionale, individualista (refrattario alle relazioni personali ed empatiche) ed egoista (massimizzatore della utilità individuale)6. I beni relazionali producono il capitale sociale, ma il capitale sociale a sua volta è un ri-generatore di beni relazionali. Un tessuto sociale povero di capitale sociale non favorisce, quindi, la produzione di beni relazionali. Ecco perché è importante che in un territorio prosperino le attività di volontariato e di associazionismo. Il capitale sociale può essere una risorsa di stock (la “civicness” storicamente accumulata nel tempo in un territorio, da cui dipende il successo economico di tante regioni7, ma può essere anche una risorsa di flusso (nel senso che si può costruire anche ex-novo attraverso l’interazione ripetuta tra persone: si parla allora di “capitale sociale per sperimentazione”)8. La famiglia, seppur solcata oggi da profonde trasformazioni, costituisce il capitale sociale primario perché attraverso le relazioni tra i suoi membri (che non sono solo di cura, ma socio-educative), cerca di far 4 Cfr.
Martini, 2009, p.13, corsivo mio Cfr. Donati e Solci (2011); Montesi (2013); Montesi (2014a); Montesi (2014b). 6 Cfr. Zamagni (2012a); Sacco e Zamagni (2002); Sacco e Zamagni (2007). 7 Cfr. Putnam (1997) e Trigilia (2005).
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sviluppare al suo interno le persone in modo armonico e di stimolare in loro la capacità di provare fiducia nel prossimo, capacità che è indispensabile per la cooperazione da adulti in società. Inoltre essa rappresenta il primo luogo ove vengono insegnate le “virtù civiche”, fungendo da mediatrice tra individuo e società, oltreché tra natura e cultura. La famiglia è la culla del capitale sociale secondario che può esistere proprio perché essa ne crea i presupposti. Un’altra importante distinzione da fare tra le varie forme di capitale sociale è quella tra capitale sociale di bonding, di bridging, di linking9. Il capitale sociale di bonding (dall’inglese “vincolo”) è quello che scaturisce, all’interno di un gruppo sociale omogeneo, da relazioni dense, esclusive, di corto raggio. Si realizzano rapporti di fiducia, ma a beneficio solo dei componenti del gruppo (si pensi ai legami esistenti tra i membri di una stessa associazione). È una fiducia tutta interna alla sfera del sociale, a cui è riconducibile l’aggregato. Se i legami sociali sono troppo fitti questa fiducia può travalicare nell’egoismo di gruppo ed assumere quindi un connotato corporativo (ad esempio: il clan). Il capitale sociale di bridging (dall’inglese “fare ponti”) è quello che nasce, all’interno di un insieme più eterogeneo di persone, da relazioni meno vischiose e più allargate. Si realizzano rapporti di fiducia tra persone appartenenti a gruppi culturalmente distanti con interessi divergenti (ad esempio: relazioni tra produttori e consumatori; tra mondo profit e mondo non profit). È una fiducia quindi di carattere generalizzato, che funge da collante tra mercato e società. Questo tipo di fiducia è estremamente importante per far decollare lo sviluppo economico di un territorio e per decretarne la qualità in termini di umanizzazione, rispetto dei diritti, sostenibilità ambientale. Il capitale sociale di linking (dall’inglese “collegare”) è quello che fa compiere all’alleanza “società civile/mercato” un ulteriore balzo istituzionale, con il coinvolgimento della società politico/amministrativa. Si sprigionano così relazioni che connettono Stato (istituzioni politicoamministrative a livello sia centrale che decentrato), mercato, non profit, società civile (organizzata e non). È una fiducia di “sistema” che intercorrendo tra sfere diverse (sfera pubblica, sfera privata, sfera del comune) alimenta una “razionalità di squadra”. Questa “razionalità del 9
Cfr. Field (2004); Zamagni (2011).
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noi” è quella che consente di realizzare “insieme” obiettivi complessi, impossibili da raggiungere in modo isolato da ciascun attore. Ai fini dello sviluppo economico deve sussistere un mix equilibrato delle tre forme di capitale sociale: un eccesso di capitale di bonding è deleterio perché sfocia nel comunitarismo endogamico che è fonte di nepotismo, collusione, corruzione (E. Bansfield parlava di “familismo amorale”)10. Un eccesso di capitale di bridging su quello di linking (ovvero un mercato, il cui avvento è stato favorito da buone relazioni sociali, ma che è riottoso ad essere regolamentato, per prevenire e/o rimediare ai sui eventuali fallimenti, dallo Stato rifiutando il link con esso), sfocia nell’ordo-liberismo e nel privatismo sociale, che sono altrettanto nocivi. Il capitale sociale, insieme ad altre istituzioni (legge, valori, tradizioni, cultura, storia), sono dunque fondamentali sia per la vita sociale e politica della città che per la sua prosperità economica. Ma anche il Bene Comune è necessario per la vita civile urbana, a cui deve essere indirizzata anche l’attività economica11. Il rispetto del principio di fratellanza, nello svolgimento delle attività di produzione e di consumo, è ciò che rende il mercato civile. Ma in cosa precisamente consiste la differenza tra il Bene Comune e il Bene totale? “Una metafora chiarisce il punto. Mentre il Bene totale può essere reso con l’immagine di una sommatoria, i cui addendi rappresentano il bene dei singoli, il Bene Comune è piuttosto assimilabile a un prodotto, i cui fattori rappresentano il bene dei singoli. È chiaro il senso della metafora: in una somma se alcuni degli addendi si annullano la somma totale resta comunque positiva. Anzi, può addirittura accadere che se l’obiettivo è quello di massimizzare il bene totale convenga ‘annullare’ il bene (o benessere) di qualcuno a condizione che il guadagno di benessere di qualcun altro aumenti in misura sufficiente per la compensazione. Non così, invece, con un prodotto, perché l’annullamento anche di un solo fattore azzera l’intero prodotto. Detto in altri termini, quella del Bene Comune è una logica che non ammette sostituibilità: non si può sacrificare il bene di qualcuno – quale che ne sia la situazione di 10 Il comunitarismo soffoca, con il suo corporativismo, la costruzione del Bene Comune ed impedisce l’accumulazione delle altre due forme di capitale sociale. 11 Cfr. Zamagni (2007); Becchetti e Marino (2012); Montesi (2010b), Grasselli e Montesi (2010); Grasselli (2011).
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vita o la configurazione sociale – per migliorare il bene di qualcun altro e ciò per la fondamentale ragione che quel qualcuno è pur sempre un portatore di diritti umani fondamentali. Per la logica del bene totale, invece, quel qualcuno è un individuo, cioè un soggetto identificato da una particolare funzione di utilità e le utilità – come si sa – si possono tranquillamente sommare (o confrontare), perché non hanno volto, non esprimono un’identità, né una storia. Essendo comune, il Bene Comune non riguarda la persona presa nella sua singolarità, ma in quanto è in relazione con altre persone. Esso è dunque il bene della relazione stessa fra persone; è il bene proprio della vita in comune”12. Quindi l’attività economica non deve essere finalizzata ad accrescere il bene di una parte, ma deve essere orientata alla fioritura di tutta collettività. Ciò implica prestare attenzione agli aspetti non solo quantitativi, ma anche qualitativi del produrre e del consumare; ad una distribuzione non sperequata della ricchezza tra le persone; alla inclusione sociale ed alla “buona occupazione”. Sul piano macroeconomico il principio del Bene Comune si traduce nel fatto che il fine dell’attività economica non deve allora essere la crescita economica, ma lo sviluppo (peraltro sostenibile); non l’aumento del Pil (Prodotto Interno Lordo) di una nazione, ma l’aumento del benessere che abbraccia molte dimensioni (e non solo quella reddituale). Sul piano microeconomico la traslazione da fare nella applicazione del principio del Bene Comune è il passaggio da un’impresa che ha per unico fine la massimizzazione del profitto (e quindi il bene solo degli azionisti, proprietari dei mezzi di produzione, che vi hanno investito il denaro come è nello schema della economia capitalistica) ad un’impresa che ha invece per fine la realizzazione di una determinata idea imprenditoriale, nell’osservanza di due condizioni: la non distruzione dei beni relazionali che sono in gioco, tra tanti diversi attori, all’interno ed all’esterno della impresa ed il conseguimento del profitto (che diventa quindi un vincolo, ma non il fine in sé dell’attività aziendale e che può anche essere destinato ad un uso diverso da quello della remunerazione del “capitale”)13. I diversi elementi (beni relazionali, capitale sociale, Bene Comune) passati in rassegna sono dunque all’opera nella città in modo intercomunicante anche grazie all’operare del paradigma del dono (sia puro 12 Cfr. 13 Cfr.
Zamagni (2012b), p.8, corsivo mio. Zamagni (2013).
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che relazionale). Specialmente il dono relazionale, ovvero quel dono eseguito all’insegna della reciprocità simmetrica, se viene fatto in modo disinteressato, crea legame sociale (ovvero genera beni relazionali), costruisce identità (che è un ingrediente fondamentale anche dei beni relazionali), edifica amicizia di virtù, non di interesse (come è nel codice genetico dei beni relazionali autentici). Beni relazionali, dono relazionale, capitale sociale, Bene Comune si implicano vicendevolmente, si rafforzano reciprocamente ed hanno come prodotto la felicità pubblica (felicità non individuale come nella concezione degli economisti neoclassici, ove essa coincide con l’utilità, ovvero con il mero consumo di beni; ma nemmeno felicità “per il maggior numero di persone” come nello schema di J. Bentham, che è in pratica l’idea di felicità come Bene totale dato da una sommatoria di piaceri individuali). La realizzazione del Bene Comune comporta infatti la rinuncia parziale all’interesse individuale in nome della felicità pubblica (e quindi implica una componente donativa), le persone felici sono quelle in relazione ed in comunione con gli altri (e il dono crea/cementa le relazioni), fare/ricevere doni sinceri (non strumentali) aumenta la felicità ed aiuta la costruzione del Bene Comune. La città è quindi tenuta insieme da relazioni di interdipendenza tra persone, da una comune identità, da vincoli di reciprocità, da regole (legali, morali, sociali) condivise. Questo particolare habitat della città è, secondo l’Economia Civile, proprio ciò che ha una funzione maieutica nei confronti del mercato e che preserva il mercato dalle sue degenerazioni. Nell’Economia Civile entrano paradossalmente in funzione per “civilizzare il mercato” tutti quegli elementi (i beni relazionali, il “dono” della fiducia, la fiducia negli altri, l’altruismo reciproco e generalizzato) che sono stati espulsi dalla teoria economica neoclassica. Un mercato civile è una delle componenti della felicità pubblica che è l'insieme delle “buone condizioni di vita” di una città (sia economiche che relazionali che ambientali), condizioni che devono essere costruite insieme e godute insieme da tutti i cittadini (l’aggettivo pubblico rinvia anche alla componente politica della felicità, ovvero alla introduzione ed applicazione di forme di democrazia deliberativa, oltreché di democrazia rappresentativa per la costruzione del Bene Comune)14. 14 Cfr.
Montesi (2010b).
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1.2 Caratteristiche dei beni relazionali I beni relazionali sono intanto beni e non merci, dato che non possono essere comprati sul mercato. Sono inoltre beni perché rispondono ad un bisogno profondo degli esseri umani, quello della socievolezza, che è una caratteristica intrinseca della persona umana (vi è in questo caso l’assunzione di un’antropologia relazionale positiva, assai diversa dall’idea di uomo che, sul piano politico, hanno tramandato N. Machiavelli e T. Hobbes, che configurano l’individuo come un essere asociale, competitivo, aggressivo, pauroso degli altri, scaltro, simulatore, le cui pulsioni vanno contrastate, anche con l’impiego della forza, da parte dal Principe o da parte dello Stato autoritario, il Leviatano). Questa idea negativa di uomo si trasferisce dalla politica all’economia con B. Mandeville che demolisce la concezione del soggetto come “animale civile” nella sua famosa “Favola delle api. Vizi privati pubbliche virtù” del 171415. Con la metafora dell’alveare delle api avare e disoneste, ma benestanti, Mandeville esalta i vizi umani antisociali che sono funzionali al mercato ed apre la strada all’homo oeconomicus del Novecento che ancora imperversa nella dottrina economica. Non dobbiamo allora stupirci se da questa antropologia negativa è scaturita un’economia senza cuore, che non si prende cura dell’uomo e della sua dignità. I beni relazionali sono chiamati così perché per la loro esistenza è necessaria: 1. una relazione tra persone, 2. di natura non strumentale (si ricerca la relazione perché la si considera un bene in sé, non per altri scopi), 3. in cui è molto importante l’identità delle persone che concorrono a metterla in atto (sono amico di una determinata persona e non di un’altra), identità che si determina in chiave relazionale attraverso il mutuo riconoscimento; 4. la reciprocità, ovvero il fatto che nell’amicizia, nell’amore, nell’impegno comunitario, bisogna essere contraccambiati (fatto questo che sancisce anche la fragilità intrinseca dei beni relazionali). Per 15 Cfr.
Mandeville (2002).
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essere corrisposti bisogna però fare all’inizio un salto nel buio, bisogna fare un’apertura incondizionata agli altri, un tuffo nella pura gratuità. All’inizio del rapporto non vi è infatti alcuna garanzia che la restituzione si verificherà, non si sa quale importo avrà, né quale forma prenderà, né quando accadrà. Tutto il contrario dello scambio di mercato che è obbligato, rispettoso dell’equivalenza, istantaneo. Nei beni relazionali entrano dunque in circolo doni (di tempo, di risorse di varia natura), che creano legame sociale in quanto instaurano una sorta di dipendenza del donatario dal donatore. Questi doni reclamano una restituzione, anche se di tipo particolare perché libera, lontana dall’equivalenza, differita nel tempo. Si tratta di doni, cosidetti relazionali, improntati al principio di reciprocità (simmetrica - tra persone che si conoscono, ove si verifica che A dona a B e B contraccambia ad A - o generalizzata – in questo caso A dona a B e B dona a sua volta a C)16. I beni relazionali hanno anche altre curiose proprietà rispetto ad altre tipologie di beni studiate dalla teoria economica: 1. sono beni che si producono e che si consumano insieme; 2. sono beni che non si deteriorano, ma anzi che si accrescono con l’uso (mentre deperiscono con il non uso); 3. sono beni che richiedono investimento di tempo e non di denaro; 4. sono beni che sono estremamente importanti per la felicità delle persone che dipende, tra altri fattori, in larga misura da essi18. Ma quale è il legame tra beni relazionali e mercato?
16 Sul paradigma del dono cfr.Caillè (1998); Caillè (2008); Caillè (2010); Bruni (2006); Bruni e Zamagni (2013b); Godbout (1998a); Godbout (1998b); Montesi (2008); Montesi (2010a); Montesi (2014c); Montesi (2015). 17 Cfr. Sacco e Zamagni (2002); Sacco e Zamagni (2007); Gui (2002); Gui e Sudgen (2005); Bruni (2007). 18 Cfr. Bruni (2002); Frey e Stutzer (2002); Layard (2005); Bruni e Porta (2005); Becchetti (2005); Becchetti (2009); Frey e Frey Marti (2012).
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1.3 Il legame tra capitale sociale e mercato: tre intrecci virtuosi Solo i legami sociali fiduciari tra persone (il capitale sociale), che si instaurano grazie ai beni relazionali, rendono possibile la nascita ed il funzionamento del mercato19. Senza un minimo di fiducia nell’Altro, nessun contratto potrebbe mai essere siglato. Il clima di mutua diffidenza paralizzerebbe le transazioni. La città, intesa come un clima di buona coesione sociale tra persone, precede allora il mercato, che non è un’entità astratta ed autonoma dalla società, ma è un’istituzione che si incastona nella città e che beneficia delle norme morali e sociali vigenti in essa, oltreché delle leggi dello Stato (norme legali). La città consente dunque l’avvento del mercato. Una buona coesione sociale fluidifica anche il funzionamento del mercato perché grazie ad essa si abbassano i costi di transazione necessari per effettuare gli scambi. Una buona coesione sociale previene e/o rimedia perfino ai fallimenti del mercato dato che essa può intervenire per scongiurare o sanare, attraverso le virtù civili (come la serietà, l’onestà, la temperanza, la prudenza, solo per citarne alcune ripensando al “Dialogo intorno alla Repubblica” intercorso tra N. Bobbio e M. Viroli20 ed al recente libro di S. Zamagni dal titolo “Prudenza”21), l’inceppamento del mercato dovuto, ad esempio, ad asimmetrie informative, all’incertezza, all’incompletezza contrattuale, alla presenza di beni pubblici o di beni comuni locali e/o globali. Delineato, seppur sinteticamente, il legame virtuoso tra “città” ed economia, si può ora mostrare, andando alle radici storiche della Economia Civile, come l’abbazia benedettina, vero crogiuolo di beni relazionali, tenesse armoniosamente unite sfera sociale, sfera economica, sfera spirituale e, grazie alla sinergia tra capitale sociale e mercato, contribuisse, dopo la rovinosa caduta dell’Impero Romano, ad una rinascita economica complessiva, basata sul rifiorire dei commerci, degli insediamenti urbani, delle aree coltivate.
19 Cfr.
Bagnasco (1988). Bobbio e Viroli (2001). 21 Cfr. Zamagni (2015). 20 Cfr.
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PARTE II
L’eredità di San Benedetto: una lezione europea di Economia Civile
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2. L’eredità di San Benedetto: una lezione europea di Economia Civile 2.1 L’eredità di San Benedetto sotto il profilo economico L’Ordine benedettino ha rappresentato una luce nel buio dell’Alto Medioevo, un faro di civilizzazione nei tempi cupi caratterizzati da guerre, invasioni, pestilenze, carestie, assenza di punti di riferimento conseguenti al collasso dell’Impero Romano1. San Benedetto (480-547), il patrono dell’Europa, ci ha lasciato una preziosa eredità non solo dal punto di vista spirituale, sociale, politico2, ma anche economico (anche se l’eredità economica è certamente meno conosciuta e celebrata delle più famose “radici cristiane dell’Europa”). Questa eredità è ancora valevole, sia a livello universale che a livello storico, per tre fondamentali motivazioni. La prima motivazione è che il modello gestionale dell’abbazia benedettina ha anticipato un certo modello di economia, l’Economia Civile, che rappresenta un’idea alternativa a quella del pensiero economico neoclassico dominante in quanto si fonda schematicamente su due concetti: - la scoperta della importanza della relazione fiduciaria (quindi non anonima né anaffettiva) tra persone in campo economico che soppianta il paradigma individualistico dell’homo oeconomicus; - la scoperta dell’importanza del dono (e del correlato principio di reciprocità) in campo economico che soppianta il paradigma egoistico dell’homo oeconomicus (i due concetti sono tra l’altro collegati dato che il dono relazionale è un costruttore di legame sociale personale). La seconda motivazione è che il modello gestionale dell’abbazia benedettina, che precorre la moderna nozione di impresa “civile”, può fungere ancora oggi da valido esempio, sotto vari profili, per il management di varie tipologie di impresa (sia per le imprese profit che per le organizzazioni non profit). La terza motivazione è che San Benedetto attraverso: 1. la fondazione delle abbazie benedettine che possono essere 1 Cfr. 2 Cfr.
Salvatorelli (1983). Muolin (1980).
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considerate delle proto “cooperative sociali” e che, all’epoca, erano dei veri e propri centri produttivi assai vitali; 2. l’“etica del lavoro” propugnata nella sua Regola; 3. la rivitalizzazione del territorio operata dalle stesse abbazie ha gettato le basi per la nascita dell’economia mercantile che sarebbe più compiutamente fiorita nell’anno Mille3.
2.2 San Benedetto come anticipatore dell’Economia Civile Beni relazionali e dono (sia relazionale che caritatevole), due principi cardine dell’Economia Civile, sono centrali anche nella Regola di San Benedetto. Questo si evince dal fatto che: 1. il primato della ricerca di Dio, prescritto dalla Regola, che non è una ricerca solitaria, ma una ricerca sinfonica che esige la presenza degli altri, deve tradursi in una grande premura per l’uomo (ovvero in beni relazionali). Tutti i grandi mistici, da San Benedetto a Santa Teresa d’Avila, ci insegnano che la via maestra per arrivare a Dio non è solo la contemplazione, ma è la contemplazione unita all’azione, che consiste nell’amare fraternamente e gratuitamente gli altri. La Regola benedettina prescrive infatti al monaco di “onorare tutti gli uomini” (capitolo 4, capitolo 8). L’importanza della socievolezza e del dono, che sono gli elementi portanti dell’Economia Civile, si rinvengono dunque in San Benedetto che, con felice eclettismo, porta a sintesi, nella concezione economica della sua abbazia, il pensiero greco e cristiano in materia, ovvero: 1. l’idea che la ricchezza è solo un mezzo, non un fine (concezione presente sia Aristotele che nel pensiero cristiano); 2. l’idea che la ricchezza non è comunque solo ricchezza di beni, ma ricchezza di relazioni umane (Aristotele) e ricchezza di beni dell’anima (Socrate, Platone, pensiero cristiano). Secondo San Benedetto le tre sfere della “produzione”, dei “beni relazionali”, della “ascesi materiale e spirituale” sono inscindibili e devono essere in equilibrio tra loro sia a livello individuale che comunitario (c’è quindi un’idea pluralista della comunità monastica che è una comunità economica e sociale, 3 Cfr.
Zamagni (2012); Bruni e Zamagni (2004); Bruni e Zamagni (2009); Bruni e Smerilli (2008); Novak (1994).
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oltreché spirituale, con il vantaggio che, al suo interno, l’economia non è peraltro disgiunta dall’etica); 3. l’idea che la ricchezza si raggiunge attraverso le virtù morali (Socrate; Aristotele; pensiero cristiano); 4. l’idea che la ricchezza non può prescindere né dal principio di fratellanza né da quello di gratuità. Questo stretto legame deriva dal concetto di “persona” del pensiero cristiano che San Benedetto assume come faro guida della sua antropologia (la persona è un individuo costitutivamente in relazione con gli altri, che non si limita però ad essere semplicemente un “animale politico”, cioè un individuo socievole, ma che nutre sentimenti di “simpatia” ed “empatia” verso gli altri). Ne deriva che la ricchezza è un bene comune: si produce insieme con un lavoro di squadra e va goduta insieme agli altri. Quindi i frutti del lavoro, una volta soddisfatti i bisogni fondamentali sempre in comunione con gli altri, vanno, secondo la visione benedettina, redistribuiti tramite la carità anche agli estranei.
2.3 Le differenti “lezioni” dal punto di vista economico che possono scaturire dalla abbazia benedettina Se si guarda all’esperienza della abbazia benedettina si possono trarre diverse “lezioni” sotto il profilo macroeconomico, mesoeconomico, microeconomico, ovvero a livello di analisi del ruolo giocato dalla abbazia benedettina nello sviluppo economico dell’epoca; del singolare modo con cui essa si rapportava al territorio in cui operava; delle novità che essa arrecava sia nel modo di gestire i fattori produttivi che di fare innovazione riscontrabili a livello di singola unità produttiva.
2.4 La lezione sul piano macroeconomico della abbazia benedettina Il ruolo della spiritualità in campo economico La spiritualità, nella sua continua dialettica di pungolamento e di rinnovamento della religione, può giocare un ruolo importante non solo sul versante teologico e morale, ma anche in campo economico. Questo implica concepire i “carismi” (ovvero “i grandi doni dello spirito” elargiti sia a laici che a religiosi) come una forza intangibile che innova la Chiesa, la società e perfino i sistemi economici. Le religioni 41
sono il precipitato materiale di insegnamenti spirituali che si cristallizzano e si istituzionalizzano. Dunque la religione è la componente “hard” di un credo, mentre la spiritualità è la componente “soft” che è al fondamento stesso della religione e che la rinnova periodicamente. Religione (“principio petrino”) e spiritualità (“principio mariano”) più che in conflitto sono quindi in rapporto dialogico e di complementarietà4. La spiritualità rinnova la religiosità, ma a sua volta il carattere organizzato della religione consente all’innovazione spirituale di propagarsi più efficacemente e di diventare parte integrante della religione. I carismi, con la loro carica rivoluzionaria, fanno evolvere le istituzioni, che se da un lato recepiscono l’innovazione metabolizzandola con gradualità e prudenza, dall’altro ne consentono, una volta assorbito lo shock, il dispiegamento su larga scala. I carismi agiscono quindi dentro le istituzioni, non al di fuori di esse, alla faticosa quanto lenta ricerca di una coabitazione pacifica tra il vecchio ed il nuovo, condotta in uno spirito di unità e di armonia, evitando di imprigionarsi in una dimensione di separatezza, intransigenza, insignificanza sociale. La spiritualità agisce comunque non solo all’interno della religione rinnovando la Chiesa come istituzione, ma anche all’interno della società. Lo Spirito Santo fa dei doni, detti “carismi”, sia a singoli (laici e religiosi) sia alle comunità, per l’edificazione del Bene Comune non solo in ambito religioso, ma anche in campo sociale ed economico. Questi doni sono elargiti gratuitamente, sono frutto della Grazia, non del merito delle persone. Occorre però distinguere tra “piccoli” doni e “grandi” doni dello Spirito. I “grandi” doni sono quei doni che rendono alcune persone veramente “speciali”, ovvero in grado di: 1. capire i problemi più impellenti della Chiesa e della società, tenendo anche conto che tra questi due mondi c’è osmosi e che intravedere e risolvere i problemi in una sfera, può comportare benefiche ripercussioni anche sull’altra5 ; 2. trasformare i problemi in opportunità di cambiamento; 3. trovare soluzioni innovative a detti problemi (anche fondando nuove istituzioni che, a loro volta, contaminano e modificano in 4 Cfr.
Bruni e Smerilli (2008), p.23. Vedi ad esempio il caso di Santa Teresa d’Avila che ha riformato l’Ordine della Carmelitane, ma che è stata anche un esempio di straordinaria forza femminile nella società conservatrice e sessista dell’epoca. Cfr. Montesi (2012), Montesi (2014), Montesi (2015). 5
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modo innovativo la realtà in cui agiscono, con effetti di spill-over anche in altri ambiti); 4. fornire nuovi paradigmi nel senso che i “grandi carismatici” non creano soltanto istituzioni innovative sia per la Chiesa che per la società, ma nel farlo danno vita, talvolta pure inconsapevolmente ed informalmente, anche a nuove visioni che vengono decifrate e codificate dal punto di vista teorico soltanto posteriormente. Molti studiosi hanno individuato in alcune figure “carismatiche” del monachesimo occidentale (San Benedetto da Norcia, San Francesco di Assisi), che era nato in funzione riformatrice della Chiesa cattolica, i fondatori e/o gli ispiratori di istituzioni innovative (rispettivamente dell’abbazia benedettina e dei monti di pietà e frumentari) che hanno avuto un ruolo strategico, insieme ad altri fattori, per lo sviluppo economico del tempo e che sono ascrivibili al paradigma dell’Economia Civile. San Benedetto sembra soddisfare perfettamente le caratteristiche del “grande carismatico” in quanto ha convertito una situazione di crisi (caduta dell’Impero Romano, decadenza della Chiesa) in un’opportunità di rinascita spirituale. Egli ha positivamente indirizzato l’esigenza di rinnovamento spirituale fondando un nuovo ordine monastico, l’Ordine benedettino, con delle specificità rispetto ad altri Ordini monastici maschili di quel tempo (presenza di una Regola codificata; particolare attenzione prestata alla dimensione comunitaria della vita monastica; recupero della purezza originaria dello stile di vita dei Padri del deserto, che si può riassumere in tre parole: povertà, lavoro e preghiera; previsione della autosufficienza economica dell'abbazia che non deve vivere solo di elemosina, ma del lavoro dei monaci rappresentando, per quell’epoca, una vera novità sul fronte economico e sociale). L’influsso esercitato dalla spiritualità benedettina sulla nascita di un’economia di mercato razionale, pacifica, fruttifera Non solo le religioni istituzionalizzate, come il Calvinismo secondo la famosa interpretazione di Max Weber6, possono aver giocato un ruolo 6
Cfr. Weber (1991).
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nella nascita del capitalismo moderno, ma anche l’azione della spiritualità benedettina è stata determinante per la nascita dell’economia di mercato7. I carismi di San Benedetto hanno di fatto esercitato degli effetti anche in campo economico (anche perché la Regola benedettina prevedeva l’auto-sufficienza economica dell’abbazia grazie al lavoro dei monaci ed alla presenza delle attrezzature necessarie per lavorare) (vedi il capitolo 48 ed il capitolo 66 della Regola). Ma quale tipo di economia di mercato ha promosso la spiritualità benedettina? Un’economia di mercato razionale, pacifica, fruttifera. Un’economia di mercato razionale perché fondata sulla razionalità, ovvero sulla produzione di valore aggiunto tramite una organizzazione razionale del lavoro e l’introduzione di innovazioni tecnologiche, due tratti distintivi dell’abbazia benedettina. Un’economia di mercato pacifica perché non fondata sulla violenza (con il profitto guadagnato tramite la guerra, la rapina, lo sfruttamento), né fondata sulla spregiudicatezza (con il profitto realizzato tramite la speculazione, l’opportunismo, la furbizia, le entrature politiche, l’usura). Un’economia di mercato fruttifera perché non fondata sull’avarizia e sulla tesaurizzazione della ricchezza8 , ma sulla rimessa in circolo della stessa9. Va però osservato che il dilemma tra “voto di povertà” e “imbarazzo della ricchezza” generato dalla sorprendente produttività delle abbazie benedettine si ripresenterà diverse volte lungo tutta la storia del monachesimo benedettino, dando periodicamente origine a varie riforme dello stesso (a partire da quella realizzata dai Cistercensi).
7 Cfr.
Bruni e Zamagni (2004), p. 30. Zamagni (2009). 9 L’abbazia benedettina anticipa l’uso sociale della ricchezza che verrà ancor più compiutamente posto in essere, nella seconda metà del Quattrocento, dai Monti di Pietà francescani. Cfr. Bruni e Zamagni (2004), pp.37-40; Bruni e Smerilli (2008), pp.79-85. Vedi anche Todeschini (2004). 8 Cfr.
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2.5 La lezione sul piano mesoeconomico della abbazia benedettina: l’originale rapporto dell’abbazia benedettina con il territorio L’abbazia benedettina funge da catalizzatore dell’Economia Civile L’economia di mercato razionale, pacifica, fruttifera ispirata dalla spiritualità benedettina, si sviluppa non solo all’interno dell’abbazia, ma anche all’esterno. Il capitale sociale generato dalle abbazie nel loro circondario, ovvero il clima di ordine, sicurezza, fiducia che si instaura nei loro dintorni, nel contrastare l’entropia del tempo, incoraggia la rinascita di un micro-cosmo urbano nelle vicinanze delle abbazie, a fronte del desolante “cimitero delle città” generato dalle invasioni barbariche10. La città, seppur costituita da piccoli nuclei insediativi, favorisce a sua volta l’avvento del mercato (ecco perché si parla di Economia Civile). Le attività economiche (gli scambi, le fiere commerciali, la coltivazione delle terre abbandonate secondo nuovi contratti di affitto, le attività artigianali) riprendono proprio in virtù dei beni relazionali generati dalle abbazie nel loro hinterland (San Benedetto privilegiava le sommità dei monti come insediamento delle abbazie; San Bernardo le valli; San Romualdo gli eremi; San Giovanni Gualberto le foreste). L’abbazia benedettina funge da calamita di un marketing territoriale ante-litteram L’abbazia, armoniosamente inserita nel territorio, esercita nel suo intorno un forte potere attrattivo di vari soggetti ed attività economiche tra loro interrelate, favorendo l’insorgere di quello che il geografo F. Perroux avrebbe chiamato uno “sviluppo polarizzato”, anche se non dispotico e non distruttivo dell’ambiente come quello di matrice industriale dei secoli successivi. Molti moderni distretti industriali italiani mostrano delle sorprendenti coincidenze di localizzazione nelle aree di insediamento monastico benedettino11. 10 Cfr. Le Goff (2011); Cherubini (2009); Brogiolo e Gelichi (2006), Berengo (1999). La storia dell’abbazia di San Gallo è un esempio di come un centro monastico possa aver favorito la crescita di una città. 11 L’eredità di San Benedetto ha esercitato un ruolo anche nello sviluppo siderurgico dell’area industriale di Terni. Cfr.Montesi (2002).
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L’abbazia benedettina come impresa “civile” L’abbazia aveva molte relazioni, di differente genere ed intensità, con molti attori (anche non economici), andando alla ricerca, all’interno dei rapporti (perfino in quelli economici), del perseguimento del mutuo vantaggio tra le parti e non dell’utilità individuale. Il tenere conto, a livello territoriale, da parte dell’abbazia, delle esigenze di tanti portatori di interesse (e non solo delle proprie necessità), in chiave peraltro non strumentale, ma piuttosto in termini di assistenza reciproca, rappresentava, embrionalmente, l’assunzione di una sorta di moderna responsabilità civile di impresa (che è cosa ben diversa dalla responsabilità sociale di impresa)12. Ma chi erano gli interlocutori dell’abbazia? L’abbazia forniva alla comunità locale cibo e know-how tecnico, la comunità reciprocava offrendo all’abbazia manodopera ed acquistando i suoi prodotti. Sul piano religioso l’abbazia si prendeva cura di credenti, penitenti, scomunicati, convertiti. Sul piano sociale l’abbazia si intratteneva con pellegrini e stranieri in nome di un’accoglienza che, con le dovute cautele, doveva essere come quella che si sarebbe tributata a Cristo in persona (vedi il capitolo 53 della Regola: “all’ospite si offra ogni più umano servizio di ospitalità”). Sul piano assistenziale e sanitario l’abbazia aiutava poveri, malati, moribondi. Sul piano educativo l’abbazia si rapportava con le popolazioni locali e con i barbari conquistatori, a cui venivano insegnate tecniche di coltivazione, di artigianato, di allevamento di animali (soprattutto pecore e cavalli)13. Sul piano economico l’abbazia entrava in contatto con gli acquirenti dei prodotti dell’abbazia che venivano portati sul mercato locale o alle fiere; con gli artigiani per la realizzazione di lavori architettonici nell’abbazia o negli annessi agricoli; con i contadini per la coltivazione delle terre mediante la stipulazione di contratti agrari innovativi e/o mediante la creazione di forme originali di partnership. 12 Cfr. 13 Cfr.
Bruni (2009), Montesi (2009), Montesi (2011a), Zamagni (2013). Stead (1993).
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Sul piano istituzionale l’abbazia si confrontava con le altre abbazie diffuse in tutta Europa14. Ogni abbazia era autonoma dalle altre, ma esse solevano incontrarsi una volta l’anno in un’assemblea speciale chiamata “Parlamento”. In questa sorta di convention, che rappresenta il primo meccanismo formale di coordinamento di organizzazioni non profit a livello europeo, venivano approvate democraticamente delle direttive generali per rafforzare l’integrità dell’Ordine e facilitare l’identificazione di tutte le abbazie in una sola comunità monastica.
2.6 La lezione sul piano microeconomico della abbazia benedettina L’etica del lavoro dell’abbazia benedettina San Benedetto riabilita il lavoro rispetto alla concezione dominante del tempo che esaltava nella vita monastica solo la contemplazione e glorificava nella vita laica il non lavoro (che era privilegio delle classi dominanti: redditieri, aristocratici, ecclesiastici15). San Benedetto dice che i monaci sono tali “quando vivono del lavoro delle loro mani, così come facevano i loro padri e gli apostoli” (capitolo 48 della Regola). Secondo San Benedetto il lavoro deve vincere sull’ozio dato che quest’ultimo è “il nemico dell’anima” (capitolo 48). La pigrizia come il “darsi troppo al dormire” è da evitare (capitolo 4). Ma ci sono differenti forme di lavoro che si possono svolgere nella abbazia: 1. labor, il lavoro manuale, necessario per il sostentamento; 2. ars, l’esercizio delle arti o dei mestieri (come la medicina, la lavorazione del metallo, del vetro, del marmo, della carta, la raffinazione del sale, l’orologeria, etc.); 3. opus, il lavoro intellettuale (lo studio, la copiatura dei testi, la realizzazione di lavori scientifici e tecnici); 4. opus Dei, la preghiera individuale e collettiva; 5. lectio divina, la lettura delle Sacre Scritture; 6. bonum, la carità nei confronti delle persone; 7. conversatio morum, il lavoro interiore per ascendere a Dio con l’esercizio di alcune virtù: in primis l’umiltà con il passaggio attraverso dodici gradi progressivi di applicazione della mede14 Cfr. 15 Cfr.
Lekai (1957 e 1977). Folador (2008).
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sima (capitolo 7), ma anche l’obbedienza (capitolo 5), il silenzio (capitolo 6), la castità, la povertà, la carità. Tutti i lavori devono essere fatti nell’abbazia: questo significa che non c’è separazione tra mondo e spirito, tra azione e contemplazione, tra lavoro e preghiera. Nel monastero il lavoro “produttivo” ed il lavoro del “prendersi cura” degli altri e degli ambienti viene distribuito fra tutti perché esso non opprima e non alieni nessuno e ciascuno possa cogliere l’attività lavorativa sia come realizzazione che come servizio. Tutti i lavori devono dunque essere fatti da tutti i monaci secondo un principio di uguaglianza. Quindi da un lato c’è una gerarchia verticale, con diversi gradi di autorità, alla quale spetta l’assegnazione ai monaci dei lavori da farsi, dall’altro un’orizzontalità nella loro esecuzione che garantisce equità sociale. Tutti i lavori hanno pari dignità. Non c’è la superiorità del lavoro intellettuale su quello manuale, solo la preghiera ha una precedenza: “nulla deve essere anteposto all’opera di Dio” (capitolo 43), salvo la cura dei malati (“prima di tutto e soprattutto ci si deve prendere cura dei fratelli malati”, capitolo 36); il lavoro, di qualsiasi tipo, è comunque un mezzo, non il fine dell’esistenza: “nulla deve essere anteposto a Cristo” (capitolo72). La distribuzione di tutte le attività durante il giorno deve essere bilanciata (la tematica del “time management” è trattata a vario titolo in più di venti capitoli della Regola). Tutti i lavori devono essere fatti con passione e con zelo, non però con lo “zelo cattivo e pieno di amarezza” (capitolo 72). Il paradigma del lavoro benedettino è molto differente dalla concezione individualistica-liberale (basata sulla motivazione monetaria; sulla performance individuale; sull’auto-realizzazione personale; sulla competizione tra individui a livello lavorativo), così come dall’approccio marxiano (basato sulla motivazione monetaria, ovvero sulla legge bronzea dei salari; sulla performance non dell’individuo, ma della classe lavoratrice, un aggregato omogeneo dal punto di vista della comunanza degli interessi da tutelare, ma al tempo stesso indistinto ed anonimo; sulla mortificazione del lavoratore dovuta allo sfruttamento; sulla solidarietà di classe nel quadro però della conflittualità capitalelavoro). Il lavoro benedettino è infatti basato sulla motivazione non solo estrinseca, ma anche intrinseca al lavoro (ovvero sull’importanza dell’amore per il 48
lavoro in sé); sul lavoro di squadra (dove gli obiettivi individuali sono conciliati con quelli della comunità attraverso una “razionalità di team”: nel capitolo 57 della Regola si stigmatizza la superbia in campo lavorativo perché essa è anti-sociale); sulla fioritura reciproca (“i monaci si prevengano nello stimarsi a vicenda; facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda; nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello degli altri”, capitolo 58); sulla fertilizzazione incrociata tra spiritualità, lavoro manuale, lavoro intellettuale. Tutte queste caratteristiche rendono ancora oggi il paradigma benedettino del lavoro più sostenibile a raffronto di quello liberale o marxiano16. L’abbazia benedettina come precorritrice della cooperazione sociale L’abbazia benedettina non era un centro isolato di preghiera, ma anche un sistema produttivo. I monaci non dovevano vivere di carità, ma dei frutti del loro lavoro. Così l’abbazia doveva avere il mulino, l’orto e tutti gli attrezzi necessari per il sostentamento della comunità (capitolo 66). Le modalità di utilizzazione e di conservazione delle immobilizzazioni tecniche avvengono sotto la responsabilità dell’Abate che deve redigere l’inventario (capitolo 32) e deve far sì che “tutte le suppellettili ed i beni del monastero siano trattati come i vasi sacri dell’altare”. Nascono così le prime forme di contabilità aziendale che verranno diffuse, tramite l’insegnamento, anche all’esterno dell’abbazia (un altro segnale di Economia Civile). Ma a quale tipo di impresa può avvicinarsi l’abbazia benedettina? Se si guarda al tipo di attività svolta, l’abbazia benedettina manifesta, a mio avviso, dei tratti in comune con la moderna cooperativa sociale del nostro ordinamento giuridico (sia delle cooperativa sociale di tipo A dato che l’abbazia forniva assistenza alle persone di varia natura – materiale, sociale, spirituale, sanitaria, educativa- che di tipo B dato che talvolta l’abbazia produceva beni per il mercato dando lavoro a soggetti che avevano, anche a quel tempo, problemi di inclusione sociale (ex-schiavi, ex-detenuti). Di qui il ricollegamento dell’abbazia benedettina al paradigma dell’Economia Civile, ovvero ad un’economia che vede il lavoro come fine e non solo come mezzo 16 Cfr.
Bianchi (2006); Folador (2006); Zorzi e Brescianini (2014).
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dell’attività economica ed in cui la divisione del lavoro tra soggetti viene introdotta non per aumentare la produttività del singolo individuo, ma per allargare il più possibile la partecipazione al mondo del lavoro delle persone (anche di quelle meno dotate fisicamente o psichicamente o discriminate socialmente) e promuovere maggiore inclusione sociale. La somiglianza tra abbazia benedettina e cooperativa sociale si può desumere anche da altri tratti: 1. natura non profit dell’attività desumibile dal fatto che la Regola stabilisce che, nel fissare il prezzo dei beni da vendere, non ci si faccia prendere dall’avarizia, ma che il prezzo sia fissato ad un livello inferiore a quello di mercato, così che tutto possa essere glorificato in Dio (capitolo 57). L’abbazia deve essere efficiente ed auto-sufficiente, ma la massimizzazione del profitto non è comunque il fine dell’organizzazione. L’economia benedettina è un’economia di sobrietà, che si limita, anche nel consumo, allo stretto necessario e che rifiuta il superfluo. Ciò che si guadagna, come tutto ciò che è già presente nell’abbazia, deve essere messo in comune e non deve essere appropriato da nessuno (“Tutto sia comune a tutti e nessuno dica o ritenga qualcosa sua proprietà”, capitolo 33). Parte del guadagno eccedente il soddisfacimento dei bisogni fondamentali può essere reinvestito nella comunità per il Bene Comune, un’altra parte va donata ai poveri; 2. produzione di beni relazionali sia al suo interno che all’esterno: molti capitoli della Regola parlano dei modi con cui evitare il deterioramento del “capitale sociale” interno (dal capitolo 23 al capitolo 30) o dei modi con cui incrementarlo, ovvero di come accogliere gli ospiti (capitolo 53) o di come ricevere i monaci forestieri (capitolo 61); 3. mutualità tra i suoi membri; 4. elevata motivazione intrinseca nell’agire dei suoi membri; 5. partecipazione attiva alla vita dell’organizzazione da parte dei suoi membri; 6. governo non autocratico.
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Il governo non autocratico dell’abbazia benedettina Tutta la vita dell’abbazia è regolata dalla Regola, a cui perfino l’Abate è subordinato. L’idea che il Potere debba essere sottomesso alla legge è molto moderna (“L’Abate faccia tutto nel santo timore di Dio e nell’osservanza della Regola, conscio che di ogni decisione dovrà rendere conto a Dio, giustissimo giudice”, capitolo 3; “Soprattutto l’Abate osservi integralmente questa Regola”, capitolo 64). L’Abate è scelto in modo concorde dalla comunità o solo da una parte di essa, sia pur esigua, purchè con più retto giudizio (capitolo 64) e risponde a Dio delle sua azioni (“L’Abate costituito consideri sempre a chi dovrà rendere conto del proprio ministero”, capitolo 64). L’abbazia è guidata dall’Abate a cui spetta il potere decisionale, ma esso non viene esercitato in modo autocratico, ma concertato. Sulle faccende più importanti l’Abate deve infatti decidere dopo aver consultato tutta la comunità, ascoltando anche il parere dei più giovani perché “spesso proprio al più giovane il Signore manifesta ciò che è meglio fare” (capitolo 3). Sulle faccende minori l’Abate può richiedere, a titolo consultivo, il consiglio dei monaci più anziani (capitolo 3). Ogni mattina avviene un briefing (il Capitolo mattutino), che rappresenta un’altra occasione di dare voice a ciascun monaco: esso costituisce una chance di canalizzare, in modo costruttivo, l’eventuale dissenso17. L’esercizio discrezionale dell’autorità da parte dell’Abate è così mitigato dal coinvolgimento e dalla partecipazione alle decisioni dei monaci. Tutti questi tratti democratici hanno reso le abbazie molto efficienti e longeve da un punto di vista organizzativo, assai più di tante altre istituzioni nate nell’era moderna o in epoca posteriore, oltre ad aver ispirato, in campo civile, gli Statuti di molte città italiane dell’età dei Comuni e la Magna Charta inglese. I principi guida dell’abbazia benedettina La Regola benedettina è indirizzata a costruire e mantenere coesa la comunità economica, sociale e spirituale. Alcuni principi guida sono indispensabili allo scopo: armonia, stabilità, Bene Comune. 17 Cfr.
Rost, Inauen, Osterloh, Frey (2008).
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Per quanto riguarda l’armonia, la Regola non consente la sua distruzione attraverso un comportamento negativo del monaco che consiste non solo nella disobbedienza, ma anche nella lamentazione (capitolo 34). San Benedetto è ben consapevole della fragilità e debolezza umana, tuttavia ritiene l’uomo sempre capax Dei, ovvero capace di redenzione. Tenerezza e misericordia sono utili nell’opera di correzione dei comportamenti antisociali. Se alcuni monaci contestano la Regola, l’Abate assegna loro un mentore (capitolo 27). I monaci ribelli devono comunque essere trattati sempre con gentilezza e simpatia (capitolo 27). La disobbedienza non è più tollerata dopo tre avvertimenti, i primi due in forma privata, il terzo in forma pubblica (capitolo 23), dopodiché subentra la punizione (capitolo 28). Se perfino la punizione non sortisce effetti, la preghiera individuale e collettiva deve essere messa in pratica per governare l’insubordinazione. Se nemmeno questo rimedio funziona, allora può essere decisa l’espulsione (capitolo 28). Due altre possibilità di rientro sono comunque date ai monaci espulsi (capitolo 29). Per quanto riguarda la stabilità, essa è assicurata da diversi meccanismi: dalla non possibilità dell’opzione di uscita (nel senso che i monaci sono assegnati alla stessa abbazia per tutta al vita, fatto questo che impedisce il turn-over18); dalla espulsione dei più recalcitranti; dal reclutamento attento dei monaci che previene, anche attraverso un training guidato da un monaco più anziano, le future defezioni; dal rispetto delle routine quotidiane che non comporta noia ed assuefazione, ma che genera un’atmosfera di fiducia e sicurezza. Per quanto riguarda il Bene Comune, questo si traduce nel fatto che i bisogni (materiali ed immateriali) individuali e della comunità devono essere conciliati, senza che la comunità da un lato soffochi il bisogno di espressività del singolo, ma che dall’altro il protagonismo ed il bisogno di riconoscimento del singolo laceri la comunità19. Da questo punto di vista l’Abate deve disporre ogni cosa in modo tale che “i forti possano desiderare di fare di più e i deboli non siano tentati di tirarsi indietro” (capitolo 64). 18 L’opzione di exit, ovvero di abbandono della abbazia, che viene preclusa per garantire all’organizzazione maggiore stabilità, viene compensata dalla voice, cioè dalla possibilità, attribuita ai monaci, di far sentire la propria voce. 19 Cfr. Skrabec (2007), p. 27.
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L’etica delle virtù nell’abbazia benedettina Anche se l’abbazia benedettina è più simile ad un’organizzazione non profit, essa può fornire alcune utili direttrici anche alle aziende profit. Oltre all’etica del lavoro, al suo modello di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, è da sottolineare l’importanza attribuita nell’abbazia ad alcune virtù come l’obbedienza, l’umiltà, la discrezione, la prudenza, la giustizia, il coraggio, che sono virtù strategiche anche per il funzionamento di un’impresa (il successo dell’impresa giapponese ad esempio è stato attribuito, da diversi studiosi, anche alla virtù dell’obbedienza20). L’attribuzione dei compiti secondo le qualità umane (e quindi secondo le virtù delle persone) che sono più adatte per ricoprire specifici ruoli, più che secondo le abilità professionali più idonee a conseguire determinati risultati, è un altro tratto distintivo dell’abbazia benedettina. La Regola delinea i requisiti caratteriali delle figure guida dell’abbazia: l’Abate, che in termini aziendali equivale all’amministratore delegato (capitolo 2 e capitolo 64); il Priore che è il direttore generale (capitolo 65); i Decani, che corrispondono al middle management e che sono così chiamati in quanto si prendono cura ciascuno di dieci monaci ed organizzano e sovrintendono ad alcuni servizi del monastero (capitolo 21 e capitolo 65); il Cellerarius (capitolo 31) che funge da direttore amministrativo e degli approvvigionamenti; il Portinaio che è l’addetto alle pubbliche relazioni (capitolo 66); l’Hospitarius che governa l’accoglienza (capitolo 53). Ma vediamo alcuni tratti del carattere che San Benedetto raccomanda debbano essere in capo ai predetti ruoli organizzativi. Abate Come deve essere: coerente con la propria condotta alle Regola che deve far rispettare, imparziale, “esigente maestro e tenerissimo padre” (capitolo 2), “amorevolmente premuroso con i monaci vacillanti” come un buon pastore ed un medico esperto (capitolo 27), “santo di vita”, “sapiente nelle cose spirituali”, “casto”, “sobrio”, “misericordioso”, “prudente e moderato perché volendo troppo raschiare la ruggine, 20 Cfr.
Montesi (2009).
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non gli accada di frantumare il vaso” tanto più che “non si deve spezzare la canna già incrinata”, umile in quanto “consideri sempre la sua fragilità”, “previdente e ponderato”, “discreto” (capitolo 64). Come non deve essere: “inquieto ed ansioso, esagerato ed ostinato, geloso, eccessivamente sospettoso” (capitolo 64). Priore Come deve essere: San Benedetto non si sofferma molto ad elencare in dettaglio le caratteristiche che deve avere questa figura che può essere prevista solo se la situazione locale lo renda veramente necessario. San Benedetto vuole scongiurare il fatto che essa funga da alter ego dell’Abate, tant’è che, per depotenziare il Priore, introduce la figura dei Decani. Come non deve essere: “orgoglioso, superbo, vizioso” (capitolo 65). Decani Come devono essere: “di buona reputazione e di santa vita, di integrità di vita, sapienti nelle cose di Dio” (capitolo 21) Come non devono essere: “superbi” (capitolo 21) Cellerario Come deve essere: “saggio, maturo, sobrio, moderato, umile, pieno di timore di Dio” (capitolo 31). Come non deve essere: “intemperante nel cibo, arrogante, agitato, insolente, lento a dare o prodigo” (capitolo 31). Portinaio Come deve essere: “saggio, capace di ricevere e trasmettere le comunicazioni, affabile, pronto a rispondere grazie al fervore della carità” (capitolo 66). 54
Come non deve essere: “incline ad andare in giro con leggerezza e a dissiparsi con gli altri” (capitolo 66). Hospitario Come deve essere: “permeato dal timore di Dio” (nell’espletare il servizio di pernottamento previsto per gli ospiti) (capitolo 53). “veramente capace” (nell’espletare il servizio in cucina) (capitolo 53). La centralità della conoscenza nell’abbazia benedettina Il lavoro manuale ed il lavoro intellettuale sono entrambi contemplati dalla Regola e praticati nell’abbazia sin dalle origini. San Benedetto comprende il ruolo strategico che la conoscenza (sia esplicita -libresca - che implicita - il learn by doing -) riveste per qualsiasi organizzazione, che può evolversi attraverso l’apprendimento (idea che ha ispirato il “knowledge management” delle imprese moderne). Nel Prologo della Regola San Benedetto paragona l’abbazia ad una Scuola, in cui apprendere, a livello individuale e collettivo, in primis la scienza della salvezza, ma anche l’ecologia sociale e l’economia civile (“Eccoci dunque a istituire una scuola di servizio del Signore”). L’abbazia è dunque per San Benedetto un sistema cognitivo dinamico che apprende incessantemente in vari campi. Ma l’abbazia benedettina ha messo al centro la conoscenza anche per un’altra motivazione: essa è stata determinante nel potenziare la circolazione della conoscenza codificata del tempo, attraverso la creazione degli Scriptoria, ovvero dei centri di riproduzione di manoscritti, di redazione dei cataloghi dei manoscritti esistenti, di trasmissione delle informazioni. Solo grazie agli Scriptoria molte opere dell’antichità, in aggiunta alle Sacre Scritture, sono arrivate ai posteri e sono divenute patrimonio universale dell’umanità. Gli Scriptoria costituivano il sistema informativo del tempo. Le abbazie potevano scambiarsi manoscritti ed informazioni durante il meeting annuale (il Capitolo generale) e durante le visite incrociate dei monaci. L’attitudine del condividere, già presente nella vita di tutti i giorni, si rivelava preziosa per la diffusione della conoscenza “codificata” tra varie abbazie e persone, a differenza delle corporazio55
ni medioevali che erano gelose del loro sapere “tacito” che viaggiava solo in forma orale (limite questo che ne ha decretato la scomparsa). L’ospitalità data dalle abbazie a persone provenienti da tutti gli angoli d’Europa era un altro canale di diffusione della conoscenza e delle informazioni. Il ricorso alla miniature (e quindi alle immagini), che spesso accompagnavano i testi scritti, serviva per acculturare ed evangelizzare le persone comuni, che al tempo non erano certamente in grado di leggere. Le abbazie sono state, insieme ad alcune cattedrali, una delle poche agenzie educative dell’epoca, anticipando in questo compito le Università. La centralità della innovazione nell’abbazia benedettina Le abbazie sono dunque centri manifatturieri ed agricoli che spesso gestiscono un’intera catena del valore (agricoltura, allevamento degli animali, fabbricazione di strumenti utilizzabili in campo agricolo o per la tosatura delle pecore, lavorazione dei metalli, attività estrattive dei metalli stessi). Questa diversificazione produttiva, insieme al bisogno di accrescere la produttività della intera filiera, ha indotto un’intensa attività di ricerca scientifica e di innovazione, in un contesto ancora assai poco incline alla tecnologia, favorita anche dalla metodicità imposta dalla Regola in campo lavorativo e dalla attenzione tributata alla conoscenza21. I monaci benedettini sono stati protagonisti di molte innovazioni di processo: mulino ad acqua, aratro, fornaci, altoforni per la fusione di minerali; di nuove tecniche di agricoltura, silvicoltura, apicoltura, di costruzione, di ingegneria idraulica, di estrazione del carbone, di fusione del rame, di produzione del ferro, di lavorazione del vetro, etc.; di innovazioni di prodotto: formaggi, birra, champagne, vino, etc.; di innovazione organizzativa: creazione di grandi fattorie collegate alla abbazie che diventano centri non solo produttivi, ma anche commerciali.
21 Cfr.
Montesi (2011b).
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2.7 Conclusione L’eredità di San Benedetto, come si è cercato di dimostrare, è stata molto importante da un punto di vista macro, meso e microeconomico e la sua lezione rimane valida ancora oggi, dopo ben quindici secoli. La Regola ci offre infatti delle indicazioni per risolvere molte delle questioni che assillano le società e le imprese moderne: la gestione delle relazioni interpersonali, la necessità di coesione sociale di una comunità, la ricerca del giusto mix di autorità e democrazia; il modo innovativo di concepire il lavoro, l’equilibrio tra differenti sfere di vita delle persone, l’armonia tra azione e contemplazione; l’evoluzione materiale, psicologica, sociale, spirituale di un individuo e di una comunità che supera il trade-off tra realizzazione personale e Bene Comune. Un altro punto di forza della Regola, in aggiunta alla sua estrema attualità, è che essa non è diretta a degli “iniziati” in campo religioso, ma a tutti (quindi anche ai laici alle prime armi di un percorso di conversione). Dice San Benedetto: “Chiunque tu sia, metti in pratica, con l’aiuto di Cristo, questa piccola Regola scritta per principianti e così- sotto la protezione di Dio- giungerai sicuramente a sublimi vette di sapiente dottrina e di virtù” (capitolo 73). Ma la Regola non rappresenta soltanto la road map per un cammino di ascesi personale e comunitaria, è anche una filosofia organizzativa che, attraverso la codificazione di un’organizzazione razionale ispirata ad alcuni principi guida (armonia, stabilità, Bene Comune), può aiutare qualsiasi tipo di sistema (economico, sociale, spirituale) a resistere all’entropia. L’eternità della Regola è anche dovuta alla possibilità di un suo elastico adattamento, da parte dell’Abate, alla varietà dei contesti, ovvero a seconda delle caratteristiche specifiche dei luoghi e delle persone. Anche la proclamazione nella Regola del principio del “miglioramento continuo” (capitolo 73) è veramente brillante ed è un segno dell’intelligenza, umiltà, modernità di San Benedetto (“Abbiamo scritto questa Regola perché, osservandola nei nostri monasteri, diamo prova di una certa serietà di costumi, o di avere almeno mosso i primi passi sulla via della conversione”). Miglioramento continuo che deve prendere le mosse dalla tempestiva ammissione, senza paure, degli errori da parte dei monaci che li commettono, perché questo fa parte integrante del processo di apprendimento dell’organizzazione dai propri sbagli (capitolo 46), in base al quale operare le dovute correzioni per riavviare l’istituzione lungo un sentiero più virtuoso. 57
Non si può non riconoscere un’anticipazione della ruota di W.E. Deming (plan, do, check, act), inventore del Total Quality Management, ideato per il miglioramento continuo della qualità del sistema aziendale. Lo stesso San Benedetto scrive la Regola, che applicherà con successo a Montecassino, facendo tesoro dei due fallimenti in campo organizzativo che aveva subito a Vicovaro ed a Subiaco. Ma l’universalità della Regola è frutto del misticismo di San Benedetto, oltreché della sua esperienza di vita. San Gregoria Magno, nel secondo Libro dei suoi “Dialoghi”, dedicato alla vita di San Benedetto, narra un episodio singolare occorso al Santo22. “D’un tratto, fissando l’occhio nelle tenebre profonde della notte, scorse una luce scendente dall’alto che fugava la densa oscurità e diffondeva un chiarore così intenso da superare perfino la luce del giorno. In questa visione avvenne un fenomeno meraviglioso, che lui stesso poi raccontava: fu posto davanti ai suoi occhi tutto intero il mondo, quasi raccolto sotto un unico raggio di sole”23. Ebbene quella medesima luce, come Papa Francesco ha spiegato nella Enciclica “Lumen Fidei”, e la Regola benedettina, che ha il pregio di essere “globale” perché ispirata dallo stesso raggio, possono validamente guidarci nell’epoca dei “nuovi barbari”, che A. Baricco intende come l’era dell’intrusione, grazie al vorticoso progresso delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, del “radicalmente nuovo”24, alla quale corrisponde la perdita dello spirito di profondità (ed io aggiungo anche del sacro), e l’“imbarbarimento” (ovvero il disfarsi di una civiltà nella superficialità, nell’indifferenza, nel cinismo, nel consumismo, nel degrado ambientale).
22 Cfr.
Gregorio Magno (1995). Gregorio Magno (2000), p.23. 24 Cfr. Baricco (2013). 23 Cfr.
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PARTE III
L’evoluzione storica dell’Economia Civile
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3. L’evoluzione storica dell’Economia Civile
3.1 Il contributo del monachesimo francescano all’Economia Civile Tracce di Economia Civile possono rinvenirsi in un’altra tradizione spirituale posteriore: il Francescanesimo. Qui assistiamo ad un paradosso: un Ordine monastico fondato sulla povertà che ispira la fondazione di una banca (i Monti di Pietà che si dividevano in Monti pecuniari e in Monti frumentari1). Con la creazione dei Monti di pietà si risolve ingegnosamente il dilemma di come impiegare le risorse finanziarie ricevute in dono dall’Ordine francescano, denaro che non poteva essere tesaurizzato. Ma si tratta della prima banca etica della Storia, incentrata sulla lotta (in maniera non assistenziale) alla povertà ed all’usura. La banca di ispirazione francescana mette infatti al centro i beni relazionali: la sua missione è quella di lavorare per l’inclusione sociale dei poveri nel consorzio civile. I Monti di Pietà nascono in Umbria e nelle Marche, nella seconda metà del Quattrocento, per poi estendersi in Italia ed in Europa2. Quelli che possono essere considerati un’anticipazione della moderna banca etica, prestano preferenzialmente denaro ai cittadini meno abbienti (ecco di nuovo il legame con la città). Il contratto di mutuo può essere stipulato perché si è prima membri di una comunità (la società precede il mercato, in questo caso il mercato del credito, come vuole l’Economia Civile). I Monti di Pietà, prestando modiche quantità di denaro o di sementi ad un interesse minimo ed in base alle necessità del cittadino/agricoltore richiedente, aiutavano le persone in moderata 1 In ambito rurale i Monti frumentari mettevano a disposizione dei contadini più poveri non crediti monetari come facevano nelle città i Monti pecuniari, ma frumento per la semina. 2 Cfr. Bruni e Zamagni (2004); Todeschini (2004); Montesi (2013a).
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(non estrema) difficoltà economica a non cadere definitivamente nell’indigenza, evitavano lo spreco di risorse umane che potevano industriosamente essere impegnate in progetti imprenditoriali (si trattava quindi di una pietà non compassionevole basata sull’elemosina, ma di una pietà fondata sull’empowerment dei soggetti attraverso la messa a leva della loro operosità), contenevano l’esclusione sociale che poteva minare la stabilità sociale e politica della città. Per ottenere il credito bisognava lasciare in pegno qualche oggetto ed il prestito andava restituito a scadenza abbastanza ravvicinata. L’interesse richiesto dai Monti di pietà non era da considerarsi come il prezzo del denaro prestato, ma come il contributo necessario per coprire le spese di gestione della struttura. Nel caso in cui il prestito non fosse stato restituito l’oggetto ricevuto in pegno veniva venduto in un’asta pubblica e se il ricavato superava il valore dell’oggetto si restituiva la differenza a chi aveva depositato l’oggetto in garanzia. Quindi il prestito dei Monti di pietà promuoveva mobilità e riscatto sociale, cementava la coesione della comunità e ne agevolava il progresso morale e spirituale in quanto fortificava le virtù sia dei poveri (l’umiltà) che dei ricchi (la carità) che facevano le donazioni ai Monti di pietà. La lezione che proviene dall’esperienza di successo dei Monti di pietà è che anche nel presente, ovvero in tempi di globalizzazione non regolamentata, il paradigma dell’Economia Civile nella sua moderna articolazione finanziaria3 (banca etica, microcredito, finanza etica che si rifanno tutti ai principi delle istituzioni creditizie francescane) si mostra sicuramente all’altezza di poter affrontare la sfida delle crescenti disuguaglianze di reddito del capitalismo patrimoniale contemporaneo, di poter contenere i danni generati in campo reale dall’instabilità endemica del capitalismo finanziario attuale, di poter tentare di risolvere la questione della povertà, la questione del lavoro ed anche la questione ecologica (dato che questione ambientale e questione sociale sono intrinsecamente connesse come ci ha dimostrato Papa Francesco nella Enciclica “Laudato Sì”4). Lo scopo ultimo dovrebbe essere quello di ridimensionare l’economia del fare ricchezza come fine in sé attraverso la speculazio3
Cfr. Becchetti (2008); Becchetti (2014). Papa Francesco (2015).
4 Cfr.
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ne (che Aristotele chiamava la “chrematistikè technè”) in modo oltretutto sproporzionato rispetto al volume delle transazioni dell’economia reale, di far riassumere alla finanza la sua funzione fisiologica di intermediazione tra risparmio ed investimento mettendola al servizio dell’economia reale per costruire il Bene Comune e a disposizione anche di soggetti che non possono offrire garanzie reali al momento di richiesta di un prestito, di ritornare a produrre ricchezza per il soddisfacimento dei bisogni umani (“oikonomikè technè”). Ma i Monti di pietà non sono comunque l’unico contributo dato dal monachesimo francescano alla nascita della moderna economia civile di mercato. In ambito francescano vengono sviluppate anche le prime riflessioni su temi economici centrali quali: la distinzione tra usura ed interesse che porterà alla riabilitazione del prestito ad interesse; il concetto di valore soggettivo dei beni; il mercato inteso come realtà sociale, ovvero come luogo in primis di relazioni di fiducia tra persone di una data comunità5. Si deve ad un francescano, Frate Luca Pacioli, l’invenzione della partita doppia, una forma di contabilità necessaria al controllo dei risultati dell’attività di impresa. Infine alcuni filosofi francescani (Duns Scoto, Guglielmo d’Ockham), nel dare centralità al mondo della natura e nel sancire la scissione tra teologia e scienza, sono stati i precursori dell’empirismo inglese che, a sua volta, ha influito sulla nascita della prima rivoluzione industriale6.
5 Cfr. 6 Cfr.
Núñez (2014). Montesi (1998).
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3.2 Umanesimo civile ed Economia Civile La strategicità dei beni relazionali, già affiorata nel Basso Medioevo nella città medievale ed emersa, più tardi, nei Comuni italiani (due brillanti esempi di come la società possa fertilizzare l’economia7), continua nel cosidetto “Umanesimo civile”, che va dai primi del 1400 fino al 1440, i cui rappresentanti principali sono Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, Leon Battista Alberti, Matteo Palmieri8. A differenza della lettura univoca che J.Burckardt dà dell’Umanesimo come l’epoca della nascita dell’individualismo moderno contrapposto alla società corale medioevale9, E.Garin10 e H.Baron11 distinguono due tipi di Umanesimo: un primo Umanesimo, quello “civile”, che potremmo definire “aristotelico” e “sociale” ed un secondo Umanesimo, quello “cortigiano”, di matrice “platonica” ed “individualista”, rappresentato da Pico della Mirandola e Marsilio Ficino. L’Umanesimo “civile” si fonda su: 1. riscoperta e reinterpretazione della cultura classica (greca-in primis Aristotele- e latina-Cicerone); 2. affermazione della natura relazionale dell’uomo che si esprime in primis in famiglia, la cellula fondamentale della società, ma anche nei rapporti con i parenti e con gli amici; 3. esaltazione della “vita attiva”, ovvero della partecipazione alla vita politica della città, che è fonte di felicità (la felicità è pubblica); 4. riabilitazione, sul fronte economico, del lavoro, rispetto all’attività contemplativa, come attestazione dell’abilità dell'uomo a sfruttare le proprie capacità e potenzialità; non dissociazione dell’attività economica dall’etica (la ricchezza va prodotta nel rispetto del Bene Comune); riconoscimento della ricchezza privata come strumento utile per aiutare lo Stato in momenti di crisi e per realizzare e conservare la bellezza (arte).
7 Cfr.
Le Goff (2011); Montesi (2016). Bruni e Zamagni (2004). 9 Cfr. Burckhardt (1991). 10 Cfr. Garin (1964); Garin (1965); Garin (1989); Garin (2008). 11 Cfr. Baron (1938). 8 Cfr.
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All’Umanesimo “civile” corrisponde sul piano politico il prosperare di realtà non dispotiche come la Repubblica di Firenze e la Repubblica di Venezia e sul piano economico una ripresa demografica ed economica (soprattutto in campo agricolo dato che la borghesia cittadina investe in terreni, rilanciandone la produttività). Il tramonto dell’Umanesimo “civile”, dovuto a diversi fattori, può simbolicamente ricondursi alla trasformazione, avvenuta nel 1435, della Repubblica di Firenze in Signoria. Si apre una stagione che sul piano politico darà vita: 1. a regimi autoritari in lotta tra loro (conflitti tra principati e successiva nascita degli Stati assoluti con guerre tra nazioni per la conquista della supremazia); 2. a nuove teorie politiche basate su di un pessimismo antropologico (il Principe di N.Machiavelli che scinde la politica dall’etica; il Leviatano di T.Hobbes, ovvero lo Stato che impone con la spada l’ordine ai cittadini); 3. all’emarginazione della borghesia dal governo effettivo della città; 4. al vagheggiamento, per reazione, di Stati ideali (come l’Utopia di T.Moro, la Città del Sole di T.Campanella, la Nuova Atlantide di F.Bacone). Sul piano economico-sociale la scoperta delle Americhe e la perdita di centralità del Mediterraneo portano al declino economico di tante città italiane e ad una rifeudalizzazione dell’attività economica (primato della rendita fondiaria sul commercio e sull’industria, accrescimento delle disuguaglianze di classe, svalutazione della operosità umana). Nell’epoca attuale sembra verificarsi un inquietante parallelismo con l’era del tramonto dell’Umanesimo “civile” desumibile dall’allargamento, come allora, degli interscambi (globalizzazione); dal trionfo della rendita finanziaria sul lavoro produttivo, sia dipendente che autonomo, dovuto al capitalismo finanziario; dall’aumento delle disuguaglianze di reddito tra individui dovuto al capitalismo patrimoniale. L’eredità dell’Umanesimo civile da riscoprire oggi è l’importanza da esso attribuita alle relazioni tra persone; il suo carattere parzialmente solidaristico, parziale perché si tratta di una solidarietà solo di corto raggio (che si limita alla cerchia della socialità primaria: famiglia, amici ed alla cerchia dei concittadini); la centralità da esso propugnata dell’etica della respon69
sabilità e della cura che più che alle persone è rivolta dagli Umanisti civili alla “cosa pubblica”, postulando un ideale di “vita attiva”, impegnata nella politica e nel governo cittadino, così come nella fera economica. L’Umanesimo civile, con la sua idea che l’uomo fiorisce solo insieme agli altri, e non a scapito o senza gli altri, anche se non manifesta la stessa carica di universalismo di quello cristiano, rappresenta comunque un valido modello a cui guardare nella contemporaneità rispetto alle concezioni di “homo homini lupus” che sarebbero prevalse successivamente e che avrebbero portato all’imbarbarimento ed alla disumanizzazione dell’economia. Recuperare una concezione più relazionale di uomo è importante perché solo da un profondo mutamento nella antropologia economica può derivare un cambiamento anche del paradigma fondativo della scienza economica (sintetizzabile nel passaggio dall’homo eoconomicus all’homo reciprocans) che può tradursi, a sua volta, in un diverso modello di sviluppo12.
12 Cfr.
Bruni (2010).
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3.3 Illuminismo italiano ed Economia Civile Tracce di Umanesimo civile riemergono, due secoli dopo, nell’Illuminismo italiano, napoletano (Antonio Genovesi, Giuseppe Palmieri, Gaetano Filangieri, Francesco Maria Pagano, Ferdinando Galiani) e milanese (Ludovico Muratori, Pietro Verri, Giandomenico Romagnosi, Cesare Beccaria solo per citare alcuni esponenti), quasi tutti accumunati dalla ricerca della pubblica felicità (ove pubblico è sinonimo di relazionale, non di statuale) e dalla investigazione dei suoi prerequisiti istituzionali. Antonio Genovesi, il padre dell’Economia Civile Antonio Genovesi nasce nel 1713 a Castiglione, un piccolo paese del Salernitano da una famiglia borghese (il padre è un fabbricante di scarpe). Viene ordinato sacerdote nel 1737 e si trasferisce a Napoli nel 1738. Qui studia filosofia con G.B.Vico, fondando una Scuola privata di Filosofia e Teologia. La sua prima docenza all’Università è in Metafisica, per poi passare all’insegnamento, in lingua italiana invece che in latino, di Commercio e Meccanica. Pubblica tra il 1765 ed il 1767 il trattato “Lezioni di Economia Civile”. Muore nel 1769. I principali punti della sua riflessione economica, di straordinaria modernità, che lo fanno inscrivere, a pieno titolo, nell’ambito della Economia Civile sono13: 1. un’antropologia relazionale: l’uomo è dipinto come un essere naturalmente socievole, in cui coabitano amore di sé (forza concentrativa) ed amore per gli altri (forza diffusiva). L’amore per gli altri, prende la forma, come in altri autori dell’Illuminismo scozzese (A.Smith), della simpatia (capacità di immedesimarsi negli altri) che è una virtù naturale nell’uomo; 2. la fiducia è alla base del mercato (dice Genovesi: “niente è più necessario ad una grande e pronta circolazione, e a rinvigorire ogni sorta di utile industria, quanto la fede pubblica”; “dove non è fede, ivi non è certezza dei contratti..”; “dove manca la fede, la corda che lega le persone, ivi i patti sono ignoti, o derisi, o precari o sono trappole”); si deve distinguere tra fiducia privata (reputazione, un asset individuale che può essere costruito ed incrementato attraverso investimenti specifici) e fiducia pubblica (capitale sociale di 13 Cfr.
Genovesi (2013).
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linking); la fiducia pubblica si distingue a sua volta in fiducia etica (quella generalizzata tra persone), politica (quella tra cittadini e governanti onesti e probi), economica (quella tra agenti economici14); 3. il mercato è il luogo dell’assistenza reciproca per il soddisfacimento di bisogni, non del mero perseguimento dell’interesse personale; ne deriva che il commercio tra nazioni, basandosi sui beni relazionali, è strumento di pace e di civilizzazione; 4. la scienza economica non va coltivata per erudizione, ma deve essere un mezzo di incivilimento, un mezzo per migliorare il benessere delle persone (questo obiettivo reclama un’innovazione anche di metodo: teoria ed esperienza -che consiste nella raccolta ed elaborazione di dati empirici riguardanti i fenomeni economici oggetto di studio- vanno strettamente saldate, così come teoria ed azione. Riecheggia il motto vichiano: verum est factum); 5. la scienza economica, se è agganciata al benessere delle persone, deve occuparsi della felicità pubblica (non della ricchezza); la felicità pubblica diventa il quarto polo del programma riformista dell’Illuminismo napoletano dopo libertà, uguaglianza, fratellanza. È però opportuno esplicitare sinteticamente le caratteristiche della felicità pubblica secondo Genovesi15: 1. la felicità è il fine ultimo della condotta umana; 2. la felicità è un bene perfetto, è sufficiente di per sé (tutti gli altri beni, come la ricchezza, sono solo strumenti per raggiungerla); 3. la felicità è inter-soggettiva (l’uomo è per natura un animale socievole e la felicità scaturisce dalle relazioni personali -amichevoli, amorose, politiche - tra persone; per questo motivo le virtù civiche, che rinsaldano i legami sociali, sono fondamentali); 4. la felicità ha bisogno di sincerità (la felicità risiede in rapporti non strumentali con gli altri, è il risultato indiretto di azioni gratuite, non il frutto diretto di azioni auto-interessate mirate a conseguirla); 5. la felicità ha bisogno di reciprocità (le relazioni amicali ed amorose sono spesso fragili perché sussiste il rischio che l’amicizia, l’amore possano anche non essere contraccambiati); 6. la felicità è paradossale (felicità è far felici gli altri, questo paradosso si giustifica proprio in virtù del carattere relazionale della felicità); 14 Bruni 15 Cfr.
e Sudgen (2000), p. 22. Bruni (2002); Bruni (2004); Bruni e Zamagni (2004); Bruni e Zamagni (2013).
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7. la felicità è collegata al Bene Comune (la felicità è uno dei tanti ingredienti della “vita buona” di una comunità, che è il “Bene Comune” inteso in senso sostanziale). Inoltre felicità e Bene Comune si fondano entrambi sui beni relazionali (si costruiscono con “agire argomentativo” ed “agire comunicativo” tra persone e si godono insieme). Secondo Genovesi ai fini del conseguimento della felicità pubblica, in aggiunta all’azione collettiva improntata a reciprocità effettuata dalla società civile, che riveste comunque l’importanza maggiore, occorre anche l’intervento di: 1. Stato (leggi, equa amministrazione della giustizia, lotta alla corruzione; educazione impartita ai cittadini sulle virtù civiche da coltivare); 2. Provvidenza, che opera in via sussidiaria rispetto allo Stato ed alla società civile. Antonio Genovesi afferma dunque la necessità dell’esistenza di una pluralità di forme di regolazione dell’economia. Questa visione è recentemente tornata di moda. L’economia neoclassica ha celebrato acriticamente le virtù del mercato, ignorandone i fallimenti con cui oggi deve invece fare amaramente i conti alla luce della crisi economico-finanziaria. I critici dell’economia standard, nel mettere in luce gli errori del mercato, hanno rimarcato, in occasione della crisi, l’importanza dell’intervento dello Stato (anche in forme innovative e selettive) non solo per rimediare ai suoi fallimenti, ma anche per cambiare il modello di sviluppo16. In questa visione polarizzata il rischio è però quello di ricondurre soltanto a due le forme di regolazione dell’economia: lo scambio di mercato e la coazione/redistribuzione esercitate quest’ultime dallo Stato tramite rispettivamente la regolamentazione pubblica, il Developmental State ed il Welfare State. Antonio Genovesi suggerisce invece che anche la reciprocità dovrebbe stare legittimamente a fianco delle altre due forme di regolazione dell’economia, in un mix variabile a seconda del contesto economico, culturale e politico di ogni paese (in incastri storicamente variabili, ma non troppo squilibrati tra Stato, mercato e società civile17). Tra mercato e Stato si innesta anche la fratellanza della società civile che si costruisce attraverso il dono e che civilizza il mercato. 16
Cfr. Pennacchi (2010). Montesi (2010).
17 Cfr.
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3.4 Dall’Economia Civile italiana all’Economia Politica inglese La tradizione italiana dell’Economia Civile è stata poi offuscata nel XIX secolo dall’Economia Politica inglese (A.Smith, D.Ricardo, C.Marx, J.S.Mill) e dall’utilitarismo di J. Bentham. Da scienza della felicità pubblica così come teorizzata dall’Economia Civile, per l’esigenza di acquisire maggior rigore epistemologico, l’economia diventa con A.Smith la scienza della ricchezza delle nazioni e con J.Bentham la scienza che deve garantire la maggior felicità per il maggior numero di persone, anche se per Bentham la felicità coincide con il piacere che ha natura individuale (si perde così definitivamente il connotato relazionale della felicità)18. Eppure il tema della felicità viene originariamente trattato anche da Adam Smith, il padre dell’Economia politica, che se ne interessa in qualità di filosofo morale, nell’opera Teoria dei sentimenti morali (1759) sostenendo la tesi che pensare che più ricchezza comporti più felicità è ingannevole: i ricchi, con l’avanzare degli anni, sono infatti tormentati dalle crescenti preoccupazioni per i loro beni, soffrono per la solitudine da cui sono circondati non potendo contare su legami di amicizia autentici, hanno comunque un limite fisiologico nel godimento dei loro beni, al di là dell’ammontare di ciò che hanno accumulato. Il povero, invece, ha sì meno ricchezze, ma anche meno affanni. Quindi per quanto concerne la vera felicità della vita umana, i poveri secondo Adam Smith non sono affatto inferiori ai ricchi. Nonostante questa verità, l’auto-inganno ed il desiderio di distinguersi dagli altri, spinge i più poveri ad impegnarsi per raggiungere lo stesso livello di disponibilità economiche del “ricco signore”. L’ansia di mobilità sociale è dunque la molla dello sviluppo economico. Il meccanismo della “mano invisibile” fa poi sì che la frenetica attività di accumulo di ricchezze (originata dall’inganno sulla sorgente della felicità) sia convogliata verso il benessere comune. 18 La felicità pubblica per Bentham non è che la sommatoria delle felicità individuali. La felicità individuale è collegata al piacere ed il piacere è connesso a sua volta con l’utilità. L’utilità è la proprietà di un oggetto per mezzo della quale esso tende a produrre piacere ad un soggetto. Quindi la felicità si genera secondo Bentham dal rapporto uomo-oggetto e non da una relazione tra uomini. Cfr. Bruni (2002); Melasecche, Montesi e Terenziani (2010).
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Nell’opera successiva la Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni (1776) scompare del tutto il tema della felicità e diventa centrale il tema della ricchezza della nazioni. Quanto alla sostanza della felicità, mentre nella Teoria dei sentimenti morali Smith sostiene che essa abbia, in aggiunta agli aspetti reddituali, un connotato relazionale (felicità è riuscire, tramite la simpatia, a “mettersi nei panni degli altri” e ad essere apprezzati dagli altri), nella Ricchezza delle Nazioni, la felicità coincide di fatto solamente con il benessere materiale, ovvero con la ricchezza, la cui bussola è l’interesse personale. Le due opere Teoria dei sentimenti morali e Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni, apparentemente distoniche, dovrebbero essere lette in chiave di complementarietà e non di contrapposizione19, così come fanno sia gli ultra-liberisti (George Stigler) sia gli oppositori più estremi del mercato (Serge Latouche, il teorico della decrescita, intravede in Smith la stessa personalità schizofrenica del Dott. Jekill e Mr.Hyde del romanzo di Stevenson20). La Teoria dei sentimenti morali è, in un certo senso, propedeutica alla Ricchezza della nazioni. Ed anche se Smith non era arrivato a sostenere esplicitamente, come invece avevano fatto gli Economisti Civili settecenteschi suoi contemporanei, che la reciprocità è alla base non solo della società, ma anche del mercato, tuttavia nella Teoria dei sentimenti morali egli si pone prioritariamente il problema del buon funzionamento della società prima di procedere ad analizzare, nella Ricchezza della nazioni, quello del mercato, come se avesse intuito la possibile fertilizzazione del mercato ad opera della società, senza però portare pienamente a compimento questo percorso teorico. La complementarietà tra società e mercato emerge più limpidamente nella opera successiva di Adam Smith, la Ricchezza delle Nazioni, anche se con una direzione di causalità che è diametralmente opposta a quella degli Economisti Civili (nella prospettiva di Adam Smith è il mercato che fertilizza la società). Nella funzione liberatoria dalle dipendenze dai legami sociali forti (di famiglia, di clan, di patronage) per il soddisfacimento dei propri bisogni risiede secondo Adam Smith il prezioso contributo che il mercato può dare allo sviluppo sociale affrancando gli individui dalla vischiosità 19 Cfr. 20 Cfr.
Sen (1987); Roncaglia (2003); Cockfield, Firth e Laurent (2007). Latouche (2010), pp.183-219; Montesi (2013b).
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delle relazioni comunitarie (non scelte ed asimmetriche) basate su dono obbligato e sacrificio. Ecco come il mercato può fertilizzare la società secondo Adam Smith21: “Nessuno che non sia un mendicante sceglie mai di dipendere soprattutto dalla benevolenza dei suoi concittadini, e persino un mendicante non dipende esclusivamente da essa. Alla maggior parte dei bisogni, il mendicante, come chiunque altro, provvede di volta in volta con la contrattazione, il baratto, e l’acquisto”. Ne consegue che22: “Il mercato non è basato sull’amicizia o sul dono, ma crea le precondizioni per un’amicizia e un dono autentici: individui liberati da legami sociali non scelti, e dalle varie forme di dipendenza, diventano finalmente capaci di rapporti sociali più liberi e maturi… Senza la relazione di mercato, che libera, non si ha un’autentica socialità nella vita civile. Il mercato è dunque uno strumento di civiltà, ma non è in sé luogo di socialità genuina”. Questo ruolo svolto dal mercato è importante perché l’uomo è naturalmente incline a rapportarsi con gli altri. Nella Teoria dei sentimenti morali Adam Smith propugna una antropologia incentrata sulla socievolezza, esaltando la simpatia, ovvero la capacità di immedesimarsi negli altri, come il fondamento morale dell’individuo e della società23. Il suo modello di uomo non è affatto individualista, né egoista, come si desume dall’incipit dell’opera24: “Per quanto l’uomo possa essere supposto egoista, vi sono evidentemente alcuni principi nella sua natura che lo inducono ad interessarsi alla sorte altrui e gli rendono necessaria l’altrui felicità, sebbene egli non ne ricavi alcunché, eccetto il piacere di constatarla”. In aggiunta alla funzione catalizzatrice della simpatia, vi sono secondo Smith anche delle altre virtù che fungono da lubrificante degli ingranaggi della società. Tra le possibili virtù “cooperative” compaiano in 21 Cfr.
Smith (1977), p.18. (2006), p.29, corsivo mio. 23 Con il termine sympathy Adam Smith intende in realtà l’empatia, ovvero la capacità dei propri sentimenti di essere modificati da quelli (sia di gioia che di dolore) altrui. Smith fa riferimento più che altro alla capacità di un individuo di entrare in risonanza con un altro individuo. 24 Cfr. Smith (1991), p.5. 22 Bruni
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posizione preminente proprio le virtù del dare (giustizia e generosità con il primato della prima sulla seconda25) e le virtù del ricevere (la gratitudine26). La prudenza trova feconda applicazione sia in campo sociale che economico27. Questa visione relazionale dell’uomo è stata occultata da coloro che interpretano, sia da destra che da sinistra, Smith soltanto come paladino del liberismo selvaggio e che vedono la Teoria dei sentimenti morali e la Ricchezza della nazioni come due opere separate e profondamente in contraddizione tra loro. Il passaggio della Ricchezza della nazioni più citato, in modo strumentale, al riguardo è il seguente28: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi”. George Stigler ha interpretato l’interesse privato smithiano contenuto in questa frase in senso assai restrittivo, ovvero come egoismo (selfishness) anziché come interesse personale (self-interest), cioè come attenzione ai propri interessi moderata dal riconoscimento degli interessi altrui29 . La parola interesse deriva d’altro canto dal latino “inter-esse” che significa “stare tra”. In realtà l’enfasi sull’interesse personale era dovuta al fatto che Smith doveva ricercare e giustificare le motivazioni dell’agire umano in campo economico (il brano va dunque contestualizzato: appartiene al capitolo della Ricchezza della nazioni dedicato al “principio che dà origine alla divisione del lavoro”), anche se nella Teoria dei sentimenti morali si era affannato a dimostrare che le pulsioni altruistiche sono altrettanto originarie e presenti nelle persone di quelle egoistiche30. In aggiunta a 25 Cfr.
Smith (1991), pp. 104-106. Smith (1991), p. 306. 27 Cfr. Smith (1991), pp. 289-294. 28 Cfr. Smith (1977), p. 18, corsivo mio. Sul metodo distorsivo dell’“economia per frammenti” vedi Sen (1987), p. 28. 29 Per questa critica a Stigler cfr. Roncaglia (2003), p.137. Anche secondo Emma Rothschild la vita economica per Adam Smith è un “luogo di emozioni calde e discorsive” e non di freddo egoismo. Cfr. Rothschild (2003), p.41. 30 L’economista A. Sen rimarca infatti come l’interesse personale non sia per Adam Smith l’unico movente dell’azione umana che può invece essere guidata anche da sentimenti (bontà, simpatia), virtù (generosità, giustizia, prudenza), senso civico, convenzioni sociali. Cfr. Sen (2010), pp.196-198. 26 Cfr.
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queste considerazioni che stemperano la visione di Smith come guru soltanto dell’egoismo, si può osservare che l’homo smithiano è comunque assai diverso dalla monade chiusa dell’homo oeconomicus frutto dell’individualismo metodologico dell’economia neoclassica: è infatti un soggetto più in relazione con il prossimo in quanto si preoccupa dell’essere ammirato ed emulato dagli altri31. In pratica è un soggetto costantemente a caccia di riconoscimento, anche se questo non si traduce solo in ricerca conformistica della approvazione altrui sulla spinta esclusiva della vanità. L’homo smithiano agisce infatti per essere apprezzabile ai suoi stessi occhi, non solo a quelli degli altri, guidato anche dal rispetto di sé e dalla salvaguardia della propria dignità32. Inoltre è un soggetto più sfaccettato, più complesso dell’homo oeconomicus neoclassico: ha dentro di sé una specie di voce della coscienza (il famoso “spettatore imparziale”) che giudica le sue azioni (anche economiche) in base all’accordo tra i sentimenti altrui ed i propri (e questo costituisce un altro elemento relazionale della antropologia smithiana33). Quindi l’homo smithiano (un essere empatico in società e relazionale anche sul mercato) è la riprova che simpatia (Dr.Jekill) ed egoismo (Mr.Hyde) coesistono in ogni individuo (collocandosi l’agire umano al crocevia tra interesse per sé ed amorevolezza per gli altri e tra obbligo e libertà34) a differenza di quanto presupposto dall’homo oeconomicus neoclassico che è un soggetto monodimensionale (agisce solo in base all’egoismo) e schizofrenico (è scisso tra l’essere cattivo sul mercato e l’essere buono in società). Leggere da un lato l’intera opera di Smith in modo più olistico e, dall’altro, recuperare la tradizione degli Economisti Civili, significa delineare l’ipotesi di una possibile fertilizzazione incrociata tra società ed economia e ricomporre l’artificiosa frattura tra società e mercato, con il risultato di una maggiore umanizzazione di entrambi35. Questa 31 Cfr.
Smith (1991), pp.154-155. Bee, (2011), pp. 10-15. 33 Cfr. Smith (1991), p.173 e p.178. 34 Cfr. Caillè (2009), pp.21-22. 35 Political Economy e Civil Economy sono dunque complementari nel lavorare la Political Economy per la sfeudalizzazione della società, la Civil Economy per l’umanizzazione del mercato, per l’affermazione di una pluralità di principi di regolazione dell’economia (scambio di mercato, reciprocità, Stato), per la ricerca di un equilibrio omeostatico tra la sfere del privato, del comune, del pubblico, a differenza dell’Economic Science che ipostatizza lo scambio di mercato e che sancisce il primato del privato sulle altre sfere. Cfr. Montesi (2010). 32 Cfr.
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umanizzazione si evince dal fatto che sia per il pensatore dell’Illuminismo scozzese che per gli esponenti dell’Illuminismo italiano il soggetto economico è un individuo in relazione con gli altri, e dal fatto che non vi è incompatibilità tra società e mercato, ma anzi osmosi, a differenza di quanto teorizzato dagli economisti neoclassici che propugnano una netta cesura tra economia ed etica avallata dall’asocialità del paradigma dell’homo oeconomicus36. Per Smith è il mercato che può migliorare la società, mentre per gli Economisti Civili è la società che civilizza il mercato. Se allora mettiamo insieme da un lato il contributo che la reciprocità arreca al mercato (con le sue iniezioni di fiducia) con quello che lo scambio di mercato arreca alla società (con la liberazione, per il soddisfacimento dei bisogni, dalla dipendenza da rapporti sociali non scelti, verticali, asimmetrici, creando così le condizioni favorevoli per una socialità veramente genuina tra soggetti uguali e liberi) possiamo parlare di fertilizzazione incrociata tra economia e società che può trovare una felice sintesi dal punto di vista imprenditoriale nella figura dell’imprenditore civile e dal punto di vista antropologico nell’homo reciprocans, un soggetto che è guidato da intelligenza sociale, emotiva ed ecologica37, mosso da una pluralità di motivazioni non esclusivamente estrinseche, ma anche intrinseche38, guidato da una razionalità non strumentale, ma relazionale ed attenta ai valori, che è capace di esprimere varie forme di amore (eros, philìa, agapè) e di sentimenti (la simpatia, l’empatia), di fare doni (relazionali e puri), di manifestare tante altre virtù39.
36 Cfr.
Zamagni (2002). Goleman (1999; 2007; 2010). 38 Cfr. Frey (2008). 39 Cfr. Montesi (2009). 37 Cfr.
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3.5 Dall’Economia Politica inglese alla Scienza Economica degli economisti neoclassici Nei primi anni del XX secolo avviene un ulteriore smottamento: il passaggio dall’Economia Politica alla Scienza Economica. Con il tramonto dell’aggettivo “politico” si perde l’ultimo barlume di relazionalità in Economia. Gli economisti cosidetti neoclassici (anche se non costituiscono un aggregato omogeneo, ma vi sono al loro interno diverse Scuole di pensiero) assumono un nuovo paradigma antropologico: l’homo oeconomicus, soggetto razionale, individualista (non vuole avere relazioni empatiche con gli altri, intrattiene con il prossimo soltanto relazioni impersonali) ed egoista (massimizzatore dell’utilità individuale40). Un soggetto sostanzialmente analfabeta in campo emotivo ed incapace di pratiche donative. Ma quali sono stati i fattori che hanno spinto gli economisti neoclassici a tratteggiare l’homo oeconomicus così a tinte fosche (von Hayek lo definisce “la vergogna di famiglia” della scienza economica) ed in modo così irrealistico (l’economista indiano A. Sen, Premio Nobel per l’economia nel 2001, lo ha rinominato, in tempi più recenti, “l’idiota sociale” ed anche “lo sciocco razionale”)? Il fatto di postulare che l’agente economico intrattenga con gli altri solo relazioni anonime ed impersonali, ovvero che sia un soggetto individualista, presenta un’indubitabile vantaggio: minimizzare l’importanza dei legami sociali all’interno delle transazioni economiche consente di poterle eseguire con maggiore velocità ed efficienza. Sussiste infatti maggiore libertà di entrata ed uscita dal contratto (quello che A. Hirschman chiama il principio di exit 41). Il fatto di ipotizzare che l’agente economico sia egoista (e quindi refrattario ai doni) ha il pregio di espellere, ancora una volta, la dimensione relazionale in economia (dato che il dono, almeno quello fatto all’insegna della reciprocità, costruisce legame sociale) con un altro vantaggio indiscutibile: quello di poter trasformare la scienza economica da scienza sociale e scienza naturale con un guadagno in oggettività e rigorosità. 40 Cfr. 41 Cfr.
Pennacchi (1990); Caruso (2012). Hirschmann (2002).
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Nell’ambito di una scienza così riconcettualizzata si possono finalmente rinvenire delle leggi universali, astratte ed eterne di funzionamento dell’economia in base alle quali poter addirittura prevedere il futuro42. Ma quali sono state le principali conseguenze del passaggio dalla Political Economy alla Economic Science? Le conseguenze sono state ambivalenti: se da un lato con la semplificazione, raggiunta per via matematica, della realtà e con la riduzione, perseguita sempre per via deduttiva, della complessità si è riusciti a definire, per alcuni fenomeni economici, delle leggi che li governano, dall’altro ciò ha comportato un’eccessiva matematizzazione e modellizzazione della scienza economica, nonché un’esasperato riduzionismo43. Si sono trascurati, in nome della quantità, gli aspetti qualitativi dei fenomeni economici e la loro dimensione istituzionale e relazionale, ed è prevalso il metodo sui contenuti. Sono stati sviscerati soprattutto i rapporti tra l’uomo e le cose (dal lato della domanda) ed i rapporti tra l’uomo ed i fattori produttivi (dal lato dell’offerta) perché facilmente esprimibili con delle funzioni matematiche, mentre i rapporti tra gli uomini sono stati dimenticati. Questo oblìo ha definitivamente sancito la fine dell’economia come scienza che si occupava di felicità pubblica e favorito l’avvento dell’economia come scienza che si deve occupare dal lato del consumatore della massimizzazione dell’utilità individuale e dal lato dell’impresa della massimizzazione del profitto. Le conseguenze pratiche del crepuscolo dei beni relazionali in economia sono state l’insostenibilità economica, sociale, ambientale dell’attuale modello di crescita (inclusa la tragedia dei beni comuni44) anche se la crisi economica in atto e tutto il recente lavoro scientifico di valorizzazione della prospettiva relazionale in economia costituiscono rispettivamente un’occasione ed uno strumento per rimettere in discussione l’ordine dato45.
42 Cfr.
Zamagni (2007). Sen (1987), pp.7-10. 44 Cfr. Pennacchi (2012); Bruni (2012); Montesi (2013c); Montesi (2013d); Zamagni (2015). 45 Cfr. Becchetti e Tripodi (2015). 43 Cfr.
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PARTE IV
L’Economia Civile nella contemporaneità
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4. L’Economia Civile nella contemporaneità
4.1 Un nuovo spunto di riflessione Si è brevemente ricostruito nelle pagine le radici storiche dell’Economia Civile con le sue istituzioni: il monachesimo benedettino (l’Abbazia benedettina come precorritrice della cooperazione sociale); il monachesimo francescano (con i Monti di pietà come proto banche etiche); l’Umanesimo civile della prima metà del Quattrocento che individua nella rivalutazione del lavoro e nella esaltazione della partecipazione alla vita politica della città il volano dello sviluppo economico; l’Illuminismo italiano: milanese (Ludovico Muratori, Pietro Verri, Cesare Beccaria) e napoletano (Antonio Genovesi autore del primo trattato di Economia Civile) che fanno tutti della felicità pubblica il loro oggetto di riflessione teorica ed il nucleo del loro concreto impegno politico. In tempi più recenti sono nate, anche nel nostro paese, altre istituzioni che si ispirano all’Economia Civile: le organizzazioni del Terzo Settore o del settore non profit1, anche se sarebbe meglio che venissero chiamate “organizzazioni della società civile”2. Si è già molto discusso sul perché, sul quando, sul come e sul dove 1 Tra le organizzazioni della società civile annoveriamo attualmente secondo il nostro ordinamento giuridico: le associazioni (riconosciute e non riconosciute); le associazioni di promozione sociale; le associazioni e le società sportive dilettantesche; i comitati; le fondazioni; le ex-Ipab; le organizzazioni di volontariato; le cooperative sociali (di tipo A; di tipo B; miste); le organizzazioni non governative; i circoli aziendali; le Onlus (organizzazioni non lucrative di utilità sociale). Il perimetro dell’attuale Terzo Settore così configurato andrebbe allargato per includere il Welfare delle relazioni, agito, in forma individuale o di gruppo, dalla società civile non organizzata sotto forma di erogazione di servizi gratuiti di mutualità (che rappresenta l’ultima frontiera dopo il passaggio dal Welfare State al Welfare mix). 2 La denominazione Terzo Settore, coniata in Francia, rinvia sul piano simbolico ad un ruolo “residuale” di queste organizzazioni che andrebbero ad occupare lo spazio lasciato libero dal mercato (primo settore), laddove esso non trova convenienza a operare, o dallo Stato (secondo settore) quando esso non è in grado di evadere la domanda di beni pubblici che gli viene rivolta. La denominazione “non profit”, che nasce nel Nord America, in una realtà ove la società è fortemente dominata dal mondo del “for profit”, definisce questo tipo di organizzazioni con il suffisso “non”, per differenziare il loro modo di funzionare da quello, prevalente in quel contesto, degli enti profit.
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è nata ciascuna forma organizzativa della società civile; sugli elementi identificativi di ognuna; sulla loro performance comparata a quella delle imprese capitalistiche o delle imprese pubbliche; sulla loro evoluzione futura; sulle sfide a loro lanciate dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia che implicheranno degli adattamenti, ma che offriranno al tempo stesso anche delle ulteriori opportunità di intervento da parte di queste organizzazioni. Si è invece meno investigato sul possibile rapporto che le organizzazioni della società civile possono costruire con quelle profit, specialmente con gli ibridi organizzativi, ovvero con quelle imprese che, pur essendo profit, presentano al loro interno anche delle caratteristiche marcatamente non profit3. A questa tematica, ancora poco esplorata, è dedicata l’ultima parte di questo volume.
4.2 Le affinità elettive tra mondo profit e mondo non profit Il volontariato e l’associazionismo, attraverso il dono relazionale che è la loro stella polare (relazionale perché il volontariato mette in pratica ed insegna, esercitando una preziosa funzione educativa, un dono improntato a reciprocità che instaura quindi legame sociale4), sono i principali creatori di capitale sociale di tipo bridging e di tipo linking, così importanti in campo economico5. Occorre quindi che assumano la consapevolezza di essere, insieme ad altri soggetti del Terzo Settore (dei quali sono comunque la radice), uno dei “costruttori sociali del mercato” e ricerchino legittimamente (e più esplicitamente) con il mondo 3 L’aggettivo “marcatamente” tende a sottolineare che si possono considerare ibridi organizzativi, ovvero imprese profit a movente ideale, solo quelle in cui l’orientamento al dono relazionale ed al dono puro sono presenti, sia quantitativamente che qualitativamente, in misura ragguardevole, esplicita, consapevole. La precisazione è opportuna perché perfino nelle imprese meno “socialmente” e “civilmente” responsabili si possono comunque rinvenire tracce di vari tipi di dono (strumentale, relazionale, puro) nascoste nelle pieghe del capitale organizzativo, umano, relazionale e nelle strategie competitive. Si tratta però solo di tracce che operano solo implicitamente e debolmente. Cfr. Montesi (2008). 4 Cfr. Godbout (1998); Caillé (1998); Caillè (2008); Caillé (2010). 5 Cfr. Montesi (2008); Montesi (2014); Montesi (2015a).
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profit la loro fisiologica quanto benefica riconnessione, anziché rifuggirlo per la paura di essere contaminati nella loro “purezza”6. Va sottolineato che il mondo non profit nella sua interezza sviluppa quella coesione sociale che funge non solo da coagulatrice del mercato, ma anche da umanizzatrice del suo funzionamento ordinario. Attraverso alcune sue particolari forme organizzative il mondo non profit riesce perfino a far prendere parte all’attività economica i soggetti meno provvisti di risorse o i soggetti meno efficienti che altrimenti rimarrebbero esclusi dal mercato, coinvolgendoli attivamente al momento stesso della produzione della ricchezza (e non invece come passivi recettori di sussidi al momento della redistribuzione di una ricchezza prodotta solo dai soggetti più dotati). Un’operazione di inclusione sociale che rende i mercati veramente “civili”. In un mercato “civile” è allora naturale che si sviluppino al suo interno anche imprese che, pur essendo profit, sono orientate al Bene Comune in diverse modalità e con diversa intensità. Si tratta delle: imprese che hanno come oggetto della loro attività specifica un business sociale7, ovvero di forme di impresa profit che possono nascere ed operare con l’obiettivo di perseguire finalità sociali e di altri tipi di imprese. Benefit Corporation Le Benefit Corporation sono nate negli Usa per poi diffondersi anche in altri paesi8. Le Benefit Corporation sono società profit che scelgono 6 Cfr.
Montesi (2010). Si pensi a Grameen Bank di M.Yunus che da ente non profit si è trasformata in società per azioni, avendo però sempre la finalità della lotta alla povertà tramite il microcredito. Per questa trasformazione di Grameen Bank e per un’analisi del resto del gruppo di imprese profit Grameen cfr. Yunus (2008). Si veda al riguardo anche l’esperienza della community interest company inglesi. Si tratta di una società di capitali con responsabilità limitata garantita da investitori o garanti, con speciali caratteristiche, creata per chi voglia condurre un business o altre attività per il bene della comunità e non per il vantaggio privato. 8 Negli Stati Uniti le organizzazioni ibride presenti sono: le benefit corporation; le bcorporation, imprese profit così chiamate perché si sottopongono volontariamente ad un severo test che accerta il loro impegno sociale ed ambientale al fine di conseguire una certificazione rilasciata da B Lab (una organizzazione non profit); le Low Profit Limited Liability Company, società di capitali a responsabilità limitata, il cui fine è quello di realizzare attività a “basso profitto” atte a favorire il raggiungimento di un obiettivo filantropico ed in cui la produzione del reddito non costituisce il principale obiettivo della società. Cfr Rago e Venturi (2014), p. 5. 7
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volontariamente di produrre, nell’esercizio della loro normale attività economica, anche benefici di carattere sia sociale che ambientale. Tali finalità devono essere formalmente esplicitate nell’atto costitutivo o nello statuto della società, devono essere indicate nell’ambito delle attività dell’oggetto sociale, e devono essere perseguite dalla società attraverso una gestione responsabile, sostenibile e trasparente. L’Italia è stato il primo paese europeo ad introdurle nel proprio ordinamento giuridico. Vedi la legge n.208 del 28 dicembre 2015 (legge di stabilità) agli articoli 376-384 ed ai suoi allegati 4 e 5. Imprese sociali Nel quadro di altri ibridi organizzativi contemplati dal nostro ordinamento giuridico va ricordata l’impresa sociale italiana (disciplinata dal d. lgs n. 155 del 24 marzo 2006). L’impresa sociale non rappresenta un soggetto giuridico a sé, ma è una qualificazione che può essere assunta da soggetti costituiti con qualsiasi forma giuridica, in presenza di due condizioni: operatività nei settori considerati ad utilità sociale; divieto di distribuzione degli utili ai soci. L’impresa sociale è quindi un’organizzazione privata, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile, che esercita, in via stabile e principale, un'attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale. Si considerano beni e servizi di utilità sociale quelli prodotti o scambiati nei seguenti settori: assistenza sociale; assistenza sanitaria; assistenza socio -sanitaria; educazione, istruzione e formazione; tutela dell’ambiente e dell’eco-sistema; valorizzazione del patrimonio culturale; turismo sociale; formazione universitaria e post-universitaria; ricerca ed erogazione di servizi culturali; formazione extra-scolastica; servizi strumentali alle imprese sociali; ogni altro ramo di attività purché finalizzato all’inserimento di persone disabili e svantaggiate, quando queste costituiscano almeno il 30 % del personale. La legge vieta la distribuzione, anche in forma indiretta, dei suoi utili e avanzi di gestione, comunque denominati, nonché di fondi e riserve in favore di amministratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori. L’impresa sociale deve destinare gli utili allo svolgimento dell'attività statutaria o ad incremento del patrimonio. L’impresa sociale deve prevedere nei regolamenti aziendali o negli atti costitutivi forme di coinvolgimento dei lavoratori e 90
dei destinatari delle attività nelle decisioni inerenti le condizioni di lavoro o la qualità dei beni/servizi prodotti; imprese della Economia di Comunione operanti nei più diversi campi di attività, in quanto sono aziende in cui profitto e dono relazionale coesistono esplicitamente in modo pacifico9; imprese che adottano la responsabilità sociale di impresa10; imprese cosidette “civili” secondo l’interpretazione che se ne può dedurre dai principi dell’Economia Civile11. Stante le caratteristiche illustrate di questi ibridi organizzativi, sempre al fine di superare lo steccato tra mondo profit e mondo non profit, si possono allora idealmente includere, con un briciolo di elasticità, nell’Economia Civile non solo le organizzazioni strettamente appartenenti al Terzo Settore, ma anche tutte queste particolari tipologie di imprese profit vocate al Bene Comune. L’allargamento del perimetro dell’Economia Civile è però possibile ad una condizione: quella del mutuo riconoscimento. Da un lato le organizzazioni del Terzo Settore, superando l’autoreferenzialità, dovrebbero fare largo, prendendo atto della loro diversità, alle imprese profit vocate al Bene Comune, dall’altro le imprese profit vocate al Bene Comune dovrebbero riconoscere al Terzo Settore il ruolo di costruttore primario, insieme alla famiglia e ad altre istituzioni, di quel capitale sociale che permette loro di nascere e prosperare in una comunità. Una presa di coscienza non affatto scontata dopo più di un secolo di predominio dell’economia neoclassica che ha affermato la separazione tra mercato e società. Da questo reciproco riconoscimento potrebbero derivare, come vedremo, anche scambi, di varia natura, a vantaggio di entrambi. 9 Le imprese dell’Economia di Comunione, nate dall’innovativa idea di Chiara Lubich fondatrice del movimento dei Focolarini, si caratterizzano per quattro elementi fondamentali: la loro finalità innovativa che consiste nel “costruire unità e comunione fra gli uomini”; la “cultura del dare”; il formare “uomini nuovi”, il fondare “scuole”. Nelle imprese dell’Economia di Comunione il profitto viene suddiviso in tre parti: una va a remunerare l’imprenditore, un’altra viene devoluta in progetti di formazione dei dipendenti, l’ultima viene donata per la realizzazione di progetti nei paesi in via di sviluppo. Quindi profitto e dono (di natura relazionale perché mira a mettere il donatario in condizione di reciprocare) coabitano al suo interno. Cfr.Bruni (1999); Moramarco e Bruni (2000). 10 Cfr. Becchetti (2005a). 11 Cfr. Bruni (2009); Zamagni (2013); Montesi (2011a).
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4.3 Un confronto tra impresa socialmente responsabile e impresa civile A questo punto rimane solo da capire la differenza tra imprese socialmente responsabili ed imprese civili. Per fare questo bisogna distinguere tra diverse nozioni in gioco di impresa (impresa come insieme di contratti oppure impresa come comunità sociale e morale). L’impresa può infatti essere vista come un contratto vigente solo tra azionisti e manager (shareholder model), il cui scopo è solo quello di massimizzare, da parte del manager, il profitto (l’attività aziendale è solo lo strumento per perseguirlo), rispettando le leggi, ma senza curarsi delle aspettative di altri portatori di interessi che interagiscono con l’impresa né dell’ambiente naturale (è questa l’impresa irresponsabile). Oppure può essere concepita come un contratto tra azionisti e tutti gli altri interlocutori aziendali (manager, dipendenti, clienti, fornitori, banche, comunità locale, etc.) (stakeholder model) (è questa l’impresa socialmente responsabile). In questo quadro il fine dell’impresa rimane comunque sempre il profitto, sottoposto ad un vincolo, che è quello di una responsabilità del manager allargata ad altri soggetti di impresa e non ristretta solo agli azionisti (ecco perché si parla di responsabilità sociale di impresa12). A queste due visioni contrattualistiche di impresa si può opporre una visione relazionale, in cui l’azienda è intesa come una comunità sociale 12 La visione etica dell’impresa socialmente responsabile (ovvero il suo “tenere conto dell’Altro”) non è però autentica. L’inclusione del punto di vista prospettico altrui avviene non tanto per il riconoscimento del valore in sé dell’Altro e della sua indispensabilità per il rapporto (ovvero in un’ottica relazionale), ma perché tale riconoscimento è utile alla massimizzazione del profitto che rimane sempre il fine ultimo dell’impresa (ecco perché si parla di concezione strumentale della responsabilità sociale di impresa). Molte imprese hanno infatti capito che essere socialmente responsabili “conviene” dal punto di vista del profitto (grazie alla costruzione di reputazione, alla possibilità di differenziazione del marchio, alla riduzione del rischio di boicottaggio dei prodotti, etc.). Molte ricerche comprovano però che quando i comportamenti morali sono dettati soltanto da motivazioni economiche, quasi sempre si produce con il tempo una perdita di rilevanza degli stessi che diventano pleonastici perdendo quindi di mordente o, nel peggiore dei casi, le motivazioni estrinseche producono addirittura un effetto “spiazzamento” delle motivazioni intrinseche dell’agire con un peggioramento delle performance aziendali. Cfr. Frey (2008). Per altri limiti recentemente riscontrati nella applicazione della responsabilità sociale di impresa cfr.McKinsey (2013).
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(ovvero attenta a salvaguardare, nel suo produrre, i beni relazionali sia al suo interno che all’esterno13) e come una comunità morale (che riconosce, in modo non strumentale, la dignità di ciascuno dei suoi interlocutori e la loro indispensabilità all’attività produttiva14 che l’impresa cerca di condurre in modo sostenibile anche dal punto di vista ambientale e non solo economico-sociale) (è questa l’impresa civile15). Per le imprese civili il profitto non è il fine in sé dell’attività aziendale, ma è solo il vincolo a cui le aziende devono sottostare per condurre sul mercato la loro attività, che è il vero scopo dell’impresa, in modo tale da consentire a tutti coloro che vi sono coinvolti, direttamente o indirettamente, di “vivere una vita buona” in senso aristotelico. Vorrei citare Adriano Olivetti, l’archetipo dell’imprenditore civile, che si interrogava così sui fini dell’impresa16: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova, ove non vi sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di questa terra, una vita più degna di essere vissuta”. 13 Cfr.
Zamagni S. e Zamagni V. (2012). La responsabilità civile si fonda sul mutuo riconoscimento tra impresa e stakeholder. Da un lato l’impresa riconosce che senza il contributo degli individui, delle loro famiglie, della comunità locale, essa non potrebbe né esistere né prosperare; dall’altro gli individui e le famiglie sono consapevoli del ruolo svolto dall’impresa come datore di lavoro, promotore dello sviluppo del territorio, levatrice delle loro capacità. La relazione è quindi bi-direzionale e si tinge di eticità per il reciproco riconoscimento dell’Altro, che non solo ha un suo valore intrinseco, ma è anche indispensabile ai fini dell’esistenza stessa del soggetto e della costruzione della sua identità. La relazione si colora di eticità anche per l’attenzione reciproca al bene dell’Altro (l’Altro deve star bene perché possa fiorire anche io). L’impresa è per tutte queste motivazioni anche una comunità morale (non solo una comunità sociale, che è comunque un progresso rispetto alla visione di impresa come insieme di contratti). 15 Cfr. Bruni (2009); Zamagni (2013); Montesi (2011a). 16 Cfr. Olivetti, Gallino (2012), pp. 28-29 (corsivo mio). 14
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Si può a questo punto finalmente pervenire ad una definizione di “impresa civile”: “Quindi è civile l’impresa che realizza un progetto industriale17, sotto vincoli di efficienza (conseguendo quindi profitti), senza separare la vita economica dalla vita civile (condotta in famiglia e nella società dai suoi membri) ed in un patto di alleanza con la natura”18. L’impresa “civile” se agisce economicamente preservando i beni relazionali al suo interno ed al suo esterno, dimostra di essere in grado non solo di costruire cittadinanza di impresa (ecco perché si dice civile), ma anche di fare comunità insieme al territorio. Se non c’è frattura tra economia e società, la responsabilità civile dell’impresa è strettamente intrecciata all’attività industriale ed allora è un fine in sé (e non semplicemente un vincolo al profitto come accade nella responsabilità sociale di impresa). Ecco perché si parla di concezione normativa della responsabilità di impresa (assai diversa da quella strumentale19). Le imprese che abbracciano la responsabilità sociale sono allora diverse dalle imprese che praticano quella civile20, ma sono comunque tutte da preferire alle imprese irresponsabili dello “shareholder value”. Naturalmente questa ripartizione non va considerata in modo statico perché nel tempo le imprese possono passare da un tipo di responsabilità ad un’altra. Questi riflessioni possono essere estese, con i dovuti distinguo, anche alle piccole e medie imprese, dove il salto da fare è il passaggio dal paternalismo all’impresa “civile”. “L’imprenditore, come ci raccontano la vita vera di tutti i giorni e alcuni grandi economisti come Schumpeter, Einaudi o Becattini, è invece un soggetto diverso (dallo speculatore), perché il primo scopo della sua attività è realizzare un progetto, tanto che Giacomo Becattini (2002) chiama tali imprese “imprese-progetto”. Il profitto è solo uno dei tanti elementi del suo progetto, soprattutto è un importante e fondamentale segnale che quel progetto funziona, è innovativo e cresce nel tempo”. Cfr.Bruni (2012), p. 36. 18 Cfr. Montesi (2011a), p. 128 corsivo mio. 19 Cfr. Zamagni (2006). 20 La responsabilità civile di impresa, ovvero il tenere conto, in modo responsabile ed autentico (non solo strumentale), degli interessi di tutti gli interlocutori aziendali presenti sul territorio, può articolarsi in varie forme: dalla filantropia, al welfare aziendale possibilmente “generativo”, al diversity management, al rispetto di standard ambientali e sociali con il conseguimento delle relative certificazioni, ad una contrattazione aziendale innovativa improntata a forme di collaborazione tra capitale e lavoro, all’introduzione di forme avanzate di democrazia industriale e/o economica, alla gestazione di nuove imprese a loro volta “civili”. 17
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L’impresa civile dovrebbe dunque essere caratterizzata da un elevato grado di democrazia industriale, dalla presenza di forme di economia della partecipazione, dalla presenza di politiche di conciliazione famiglia-lavoro e di corporate welfare, da politiche di gestione ambientale aziendale, da diversity management, da un’organizzazione la cui governance dovrebbe essere addirittura multi-stakeholder. Dalla concezione di impresa civile (ovvero di impresa comunità) si comprende che essa e le organizzazioni del Terzo Settore, entrambe orientate al Bene Comune, possono lavorare fianco a fianco non solo per avere dei mutui vantaggi dalla loro fertilizzazione incrociata, ma anche perché possono sinergicamente contribuire, con le loro specificità, allo sviluppo, in chiave integrale, del territorio.
4.4 Insieme per un’Economia Civile: dalla teoria all’azione formativa Nel 2016 il Cesvol di Terni (Centro Servizi per il Volontariato) e la cattedra di Economia di Economia pubblica e dei settori produttivi del Dipartimento di Economia, sede di Terni, dell’Università degli Studi di Perugia (docente Cristina Montesi) hanno realizzato un ciclo di seminari formativi interdisciplinari, che si è articolato in sette eventi, dal titolo “Insieme per un’Economia Civile” che hanno avuto luogo presso la sede del Cesvol di Terni. Il ciclo, che ha avuto il patrocinio di Comune di Terni, del Polo Scientifico e Didattico di Terni, del Labec (Laboratorio di Economia Civile della Camera di Commercio di Terni), si è inaugurato il 24 febbraio, nell’ambito della Fiera del Volontariato di Terni, e si è chiuso il 7 ottobre 2016. Il ciclo è stato ispirato dalla constatazione che Terzo Settore, imprese, enti pubblici e cittadinanza sono le varie anime della comunità. Insieme possono essere motore di un’economia solidale e “civile” che impatta positivamente nei confronti del benessere della società producendo un valore condiviso. Abbracciando questa prospettiva il ciclo di seminari è stata un’occasione di incontro e conoscenza tra i diversi attori sociali ed economici del territorio, con l’obiettivo di superare le reciproche resistenze ed intraprendere un percorso comune di cambiamento sociale, economico e culturale che, sotto certi aspetti, è già in atto e va sotto il nome di responsabilità “civile” di impresa. 95
La responsabilità “civile” di impresa, ispirandosi al filone dell’“Economia Civile” al quale il Terzo Settore è già idealmente collegato21, va infatti ben oltre la responsabilità “sociale” di impresa come illustrato in precedenza.
21 Cfr. Zamagni (2002); Zamagni (2010); Zamagni (2011a); Zamagni e Mazzoli (2005); Zamagni S. e Zamagni V. (2008).
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Insieme per un’Economia Civile Riepilogo degli incontri
Una lezione di Economia Civile: educare alle virtù nel mercato e nella società, a cura della Prof.ssa Cristina Montesi, Dipartimento di Economia, Università degli Studi di Perugia, 20 febbraio 2016. Al termine del seminario vi è stato anche l’intervento del Dott.Stefano Tabò Presidente della rete CSVNet (la rete nazionale dei Centri di Servizi per il Volontariato) e l’illustrazione, da parte di alcune associazioni locali, di esperienze di partnership con imprese “civili” del territorio. Economia Civile ed impresa responsabile, a cura del Prof. Pierluigi Grasselli, Dipartimento di Economia, Università degli Studi di Perugia, 19 marzo 2016. Oltre il profitto. Imprese ed Umanesimo Civile, a cura del Prof. Marco Moschini, Dipartimento di Filosofia, Università degli Studi di Perugia, 9 aprile 2016. Al termine del seminario vi sono state testimonianze di imprese “civili” del territorio relative a: start up innovative in campo sociale, welfare aziendale, filantropia aziendale, certificazione etica ed ambientale aziendale, agricoltura sociale. Il ruolo dei consum-attori nell’Economia Civile, a cura del Prof. Leonardo Becchetti, Dipartimento di Economia, Università di Roma “Tor Vergata”, 14 maggio 2016. Al termine del seminario vi è stato anche l’intervento di Sergio Veroli, Vicepresidente Nazionale di Federconsumatori sul tema delle asimmetrie informative tra banca/cliente e sui provvedimento intrapresi a difesa dei consumatori in occasione della crisi finanziaria di alcuni gruppi bancari italiani. Le infrastrutture per l’Economia Civile, a cura del dott.Antonello Scialdone, Isfol, 28 maggio 2016. Al termine del seminario vi è stata la testimonianza dell’azienda Vetrya, gruppo italiano leader nel campo delle piattaforme broadband per la distribuzione di contenuti multimediali e di servizi digitali ad alto valore aggiunto, localizzata ad Orvieto, che si è classificata seconda nella categoria delle medie imprese (quelle tra 50 e 500 dipendenti) nella competizione “Great Place to Work®” delle migliori aziende in cui lavorare in Italia (edizione 2016) e che ha vinto, nell’ambito della stessa gara, anche un premio speciale Welfare. La buona volontà per l’Economia Civile, tavola rotonda con i rappresentanti delle principali istituzioni impegnate in Umbria nella promozione dell’Economia Civile, 23 giugno 2106.
Prove d’orchestra: incamminarsi verso forme di collaborazione tra settore profit e settore non profit, a cura del Prof. Stefano Zamagni, 7 ottobre 2016. Al termine del seminario sono stati presentati esempi di forme di collaborazione tra organizzazioni non profit e imprese profit. 97
Il ciclo di seminari, rivolto a imprese, Terzo Settore21, istituzioni, sindacato, studenti, consumatori, cittadini, è stato pensato come catalizzatore di relazioni virtuose fra i diversi attori della comunità per una costruzione condivisa e partecipata del Bene Comune22. Per superare le difficoltà di questo particolare momento storico è infatti necessario operare un cambiamento culturale, iniziare a condividere le risorse (di varia natura) che sono disponibili tra i vari soggetti ed imparare ad utilizzarle in modo più efficiente, ma al tempo stesso etico. Gettando ponti tra Terzo Settore, impresa ed altri attori sociali ed istituzionali del territorio si possono trovare, in modo corale, modalità nuove per affrontare le sfide attuali. A questo proposito può risultare particolarmente fruttuoso instaurare forme di collaborazione tra mondo profit e mondo non profit che, all’insegna della reciprocità, valorizzino le peculiarità di ciascuno per un mutuo vantaggio. L’“impresa civile” può infatti contaminare beneficamente il mondo non profit (nella componente del volontariato e dell’associazionismo) nel mostrarsi come un esempio di efficienza nell’uso delle risorse da impiegare in una data attività, mentre il settore non profit può giocare un importante ruolo per la promozione di valori autenticamente altruistici e di motivazioni intrinseche nell’impresa, trasformandola in “impresa civile”23. Il Terzo Settore può addirittura ispirare la creazione, dentro l’“impresa civile”, di istituzioni non profit24 o può altresì fornire, a condizioni più vantaggiose e più attente alla produzione di beni relazionali, alle “imprese civili” quei servizi di corporate welfare25 che, se di tipo generativo, riescono ad aumentare la felicità dei dipendenti (e con essa anche la loro produttività26). Infine le organizzazioni non profit (volontariato ed associazionismo), se adeguatamente sele21 Poiché l’iniziativa è stato progettata dal Cesvol insieme all’Università, il target del ciclo di seminari è stato, nell’ambito del Terzo Settore, principalmente il mondo del volontariato e dell’associazionismo. 22 Cfr. Zamagni (2007); Grasselli (2009). 23 Cfr. Frey (2008); Frey e Frey Marti (2012); Becchetti (2007). 24 Si fa riferimento, ad esempio, alla Banca del Tempo presente in Luxottica. 25 Per rassegna delle possibile forme di corporate welfare e degli stili aziendali di conciliazione famiglia-lavoro cfr. Montesi (2011a). Per un confronto tra le diverse esperienze di welfare aziendale in Italia cfr. Mallone (2013); Ciarini e Lucciarini (2015); Donnet et al. (2016). 26 Si pensi, ad esempio, agli asili aziendali, la cui gestione può essere esternalizzata dall’impresa a cooperative sociali.
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zionate da parte delle “imprese civili”, avvalendosi in questo compito anche della preziosa guida dei Cesvol, possono divenire i “luoghi ideali” dove poter effettuare, da parte dei dipendenti, volontariato di impresa che può avere benefiche ripercussioni sulla crescita di capitale sociale sia all’interno dell’impresa stessa che nella comunità ove essa opera. Il ciclo di seminari si è incentrato sul superamento della netta separazione tra “imprese profit” ed “enti non profit” che possono reciprocamente prendersi a modello per co-evolversi. Si tratta da un lato di “umanizzare” l’impresa profit ispirandosi al paradigma del dono relazionale tipico del non profit e, dall’altro, di “imprenditorializzare” il Terzo Settore (volontariato ed associazionismo) nel senso di fargli acquisire maggiore attenzione agli aspetti di “efficienza” tipici dell’impresa profit, oltrechè a quelli di efficacia della propria azione, senza naturalmente cadere in uno snaturamento27. La contaminazione dei due mondi non dovrebbe esaurirsi nella ibridazione dei modelli organizzativi (generando imprese profit “civili” ed organizzazioni non profit più “efficienti”), ma dovrebbe dare vita anche a forme di collaborazione tra profit e non profit (generatività di progetti comuni specie in tema di corporate welfare, ricerca di altre forme inedite di osmosi28). 27 Va osservato che la recente legge “Delega al Governo per la riforma del Terzo Settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”, approvata il 26 maggio 2016, va proprio in questa direzione. Infatti prevede, nei suoi design principles che in seguito dovranno trovare applicazione nei decreti attuativi del Governo, da un lato maggiori possibilità operative per le associazioni (con la possibilità di svolgimento anche di attività di impresa e l’acquisizione, con il riconoscimento della personalità giuridica, di una responsabilità patrimoniale limitata che può agevolarne l’operatività); dall’altro contempla la partecipazione di imprese profit (ma anche di Pubbliche amministrazioni) agli organismi di amministrazione delle imprese sociali. Infine attenua per le imprese sociali i vincoli di non distribuzione degli utili (dal divieto assoluto si passa ad una distribuzione degli utili in misura non superiore a quanto previsto per le cooperative a mutualità prevalente). 28 Anche nell’ambito della cooperazione sociale, a seguito della crisi del Welfare State dovuta a differenti motivi, si nota da un lato una crescente tendenza delle cooperative sociali a dipendere sempre meno dalle risorse finanziarie pubbliche diversificando la propria attività sul mercato (marketization), dall’altro si osserva la tendenza a “fare ibridazione” con il mondo profit con produzione di innovazione sistemica. Una recente ricerca ha evidenziato gli ibridi organizzativi generati dal gruppo cooperativo Cgm in nuovi campi di attività diversi da quelli tradizionali per rispondere a nuovi bisogni espressi dalle comunità di riferimento. Cfr.Venturi e Zandonai (2014).
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Questa consapevolezza ha un ulteriore risvolto: quello di allargare, grazie a questa fertilizzazione incrociata, i confini dell’Economia Civile. In aggiunta al Terzo Settore possono allora rientrare legittimamente nel suo perimetro le imprese profit “civili”, a movente veramente ideale, che sono diverse dalle imprese socialmente responsabili29. Il ciclo di seminari ha quindi rappresentato un’occasione per scoprire e valorizzare le buone pratiche già in atto sia sul versante della “civilizzazione” delle imprese che del miglioramento del rapporto mezzi/fini agito delle organizzazioni non profit, per legare più saldamente il mondo della solidarietà a quello dell’imprenditoria locale, per promuovere nuove relazioni di cooperazione tra questi due mondi. Il ciclo si è estrinsecato in un percorso di ricerca per capire, sia sul versante teorico che empirico, come le imprese della provincia di Terni interpretano la responsabilità verso la società, come la mettono concretamente in pratica, come si relazionano o potrebbero relazionarsi con il Terzo Settore nella “cura” del territorio e della comunità; come il Terzo Settore può a sua volta fluidificare questo processo di osmosi uscendo dall’autoreferenzialità per andare a contagiare, con la sua carica valoriale, il mondo profit; come i consumatori consapevoli e critici possono esercitare un ruolo di pungolo nei confronti della sostenibilità delle imprese; come diverse istituzioni possono contribuire, a vario titolo, alla promozione dell’“Economia Civile”. Gli incontri, che hanno avuto una cadenza mensile, sono stati accompagnati da Laboratori formativi di approfondimento delle tematiche trattate che sono stati però a contenuto più professionalizzante e/o sperimentale30. 29 Cfr.
Montesi (2011a); Montesi (2015b). primo Laboratorio è già stato realizzato per le associazioni il 4 aprile 2016 sul tema della “Rendicontazione e Bilancio Sociale” a cura del Dott. Roberto Museo, Direttore della rete CSVNet. Un secondo Laboratorio, che è stato concepito a coronamento del seminario già effettuato dal Prof.Leonardo Becchetti su “Il ruolo dei consum-attori nell’Economia Civile”, si è svolto il 1 ottobre 2016 a cura del Dott. Sergio Veroli (Vicepresidente Nazionale di Federconsumatori) sul tema: “Nuove Direttive Europee a favore dei consumatori e possibili forme di cittadinanza attiva nel campo del consumo critico e responsabile”. Un terzo Laboratorio consisterà nell’apertura di un vero e proprio “cantiere” per la ricerca tra imprese profit “civili” ed organizzazioni non profit di forme “leggere” di collaborazione o per l’avvio di possibili partnership più “pesanti” su progetti comuni a suggello della tavola rotonda “La buona volontà per l’Economia Civile” e del seminario “Prove d’orchestra: incamminarsi verso forme di collaborazione tra settore profit e settore non profit” tenuto dal Prof. Stefano Zamagni. 30 Un
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Nella regione Umbria per motivi di dimensioni d’impresa, ma anche per le specifiche caratteristiche culturali e politiche locali, la responsabilità sociale d’impresa ha avuto uno sviluppo lento e differenziato, ma le cose stanno gradualmente cambiando. Il ciclo di seminari ha delineato una nuova prospettiva per lo sviluppo della comunità locale perché basata sul dialogo tra mondo profit e mondo non profit superando il separatismo statico che ha fino ad ora connotato le due sfere. Questo nuovo orizzonte ha intrecciato la dimensione teorica e storica dell’“Economia Civile” fornita da accademici (al ciclo hanno concorso, con il loro contributo scientifico, alcuni degli scopritori dell’Economia Civile in Italia: il Prof. Stefano Zamagni ed il Prof. Leonardo Becchetti31), da esperti, da professionisti, con le esperienze concrete, più rappresentative e/o innovative, ad essa riconducibili, provenienti sia dal mondo dell’impresa (associazioni di categoria, imprenditori, manager, sindacalisti) che dal mondo non profit presenti a Terni e nella sua provincia.
4.5 Il Manifesto per l’Economia Civile La novità del ciclo di seminari non risiede unicamente nel paradigma dell’Economia Civile32, già di per sé eterodosso, all’insegna del quale esso è stato concepito, con una visione interdisciplinare che ha visto il concorso di economisti, filosofi, sociologi33. Non si esaurisce nemmeno nella individuazione, dal lato della offerta, dell’identikit dell’“Impresa Civile” con la rilettura critica del concetto di responsabilità sociale (che potrebbe avere, come sviluppo evolutivo, la responsabilità civile di impresa34). Non risiede neppure nella piena valorizzazione, sul fronte della domanda, del ruolo del consumo critico e responsabile per l’eticizzazione, attraverso il “voto con il portafoglio”, dell’economia35. 31 Cfr.
Becchetti, Bruni, Zamagni (2014). Bruni e Zamagni (2013a); Zamagni (2012); Zamagni (2014). 33 Va comunque rimarcato che il ciclo di seminari ha contribuito, con la centralità da esso attribuita all’Economia Civile, alla legittimazione di una biodiversità scientifica, a livello sia accademico che di divulgazione scientifica, con un guadagno in termini di coesistenza di una pluralità di approcci nella scienza economica. 34 Cfr. Bruni (2009); Grasselli (2011); Montesi (2011a); Zamagni (2013); Becchetti e Marino (2012). 35 Cfr. Becchetti, Di Sisto e Zoratti (2008); Becchetti (2012); Becchetti e Tripodi (2015). 32 Cfr.
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Non dimora neanche nella ricerca di fertilizzazione incrociata tra mondo profit e mondo non profit variamente perseguita: dapprima come comprensione, a livello teorico, dei mutui vantaggi conseguibili dall’osmosi tra queste due sfere; poi come valorizzazione delle esperienze già esistenti di collaborazione; infine come promozione ex novo, all'interno di un Laboratorio sperimentale, di sinergia tra i due mondi per la realizzazione di progetti comuni. Non sta altresì nell’equilibrato connubio che si è cercato di mantenere tra conoscenza [formazione scientifica e professionale (Laboratori)] e prassi. E nemmeno nel forte radicamento territoriale delle esperienze portate come buon esempio sia di imprese “civili” che di organizzazioni del Terzo Settore “non tribali”. La novità importante è non aver dimenticato l’importanza della “politica”, indispensabile per un’economia che voglia dirsi veramente “Civile”. Questa dimensione ha preso corpo con il tentativo embrionale, di costruire un’Alleanza locale per l’Economia Civile, a partire dalla convergenza ideale sul “Manifesto per l’Economia Civile” da parte di enti pubblici locali, enti pubblici economici, associazioni di categoria, imprese singole o associate, sindacati, università, scuole, organizzazioni del Terzo Settore, istituzioni creditizie (banche di credito cooperativo, banche etiche locali), operatori dei mass media, studenti, cittadini, consumatori36. Il Manifesto, redatto dagli ideatori/realizzatori del ciclo (Cesvol di Terni e Cattedra di Economia pubblica e dei settori industriali del Dipartimento di Economia sede di Terni), è stato presentato in occasione della tavola rotonda “La buona volontà per l’Economia Civile” del 23 giugno 2106 a diversi attori istituzionali, sociali ed economici colà convenuti per testimoniare la loro buona volontà per la causa o riuniti semplicemente per ascoltare37. 36 Il Manifesto ha tratto ispirazione da quello più ampiamente sviluppato dal Prof.Becchetti nel volume Wikieconomia. Manifesto dell’economia civile. Cfr. Becchetti (2014a), nonché da tutto l’ impianto concettuale dell’Economia Civile. Cfr. Bruni (2006); Bruni (2007); Bruni (2010); Sacco e Zamagni (2002); Sacco e Zamagni (2007); Zamagni (2007); Zamagni (2012); Zamagni (2013); Zamagni (2014); Becchetti, Bruni e Zamagni (2016). 37 La tavola rotonda è stata divisa in tre sezioni: Umanizzare insieme l’economia, Cooperare per una “vita buona”, Promuovere l’Economia Civile a partire da “noi”, all’interno delle quali sono stati ripartiti gli interventi.
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Il Manifesto, che si articola nella enunciazione dei principi fondamentali dell’Economia Civile, nella illustrazione della sua particolare visione del mercato, nel suo metodo di lavoro, nella definizione dei suoi confini, ha raccolto per ora un’adesione convinta da parte di quasi tutti i presenti. Il processo partecipativo, che si è innescato dal basso, a livello locale, è alle sue prime battute. Dovrà trovare in futuro continuazione ed altri momenti di espressione, anche più formalizzata; dovrà altresì predisporsi ad un allargamento di confine disciplinare e di sottoscrittori. La molla di questo ulteriore processo sarà sempre la ferma convinzione che un’altra economia è veramente possibile38.
Cfr. Becchetti (2005b); Becchetti (2009); Becchetti (2014b); Becchetti (2016); Becchetti, Bruni, Zamagni (2016). 38
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Manifesto per l’Economia Civile I fondamenti dell’Economia Civile L’Economia Civile si fonda sulla reinterpretazione dei tre principi di libertà, uguaglianza, fratellanza e su di una antropologia positiva (l’uomo non è un agente solamente individualista ed egoista come descritto dall’economia neoclassica, ma è persona, ovvero un essere naturalmente socievole, in relazione con il prossimo, che nutre amore di sé ed amore per gli altri). La libertà e l’uguaglianza La libertà è un diritto naturale di cui ogni persona dispone dalla nascita e per tutta la vita. La libertà va concepita sia in senso negativo (libertà da) che positivo (libertà di). La libertà va intesa non solo come assenza di interferenza e costrizioni da parte del potere sulle azioni di un soggetto, ma anche come autonomia e come capacità di agire in conformità ai propri desideri e scopi. Questa nozione di libertà positiva trova, sul piano dell’uguaglianza, il suo corrispettivo nella nozione di “uguaglianza di capacità”, teorizzata dall’economista Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998. A causa della stretta interdipendenza, come condizione antropologica, che sussiste tra gli esseri umani, la libertà di ciascuno si costruisce anche grazie a quella degli altri. Ogni individuo deve quindi prestare attenzione alle libertà dell’altro, con l’intenzione, altrettanto consapevole, di difenderle e accrescerle. Il postulato correlato a questa visione relazionale di libertà è la necessità del riconoscimento dell’Altro. Ne deriva che non esiste un diritto senza un dovere associato. L’etica delle intenzioni, basata sull’imperativo categorico kantiano dell’“agisci per l’universale” deve coniugarsi con l’etica delle responsabilità. Non si tratta tuttavia del semplice rispetto dell’Altro, indispensabile per la convivenza pacifica, ma della ricerca attiva del suo Bene, fondamentale per la vita in comune, partendo dalla consapevolezza che l’Altro è parte costitutiva di noi stessi ed è indispensabile per la fioritura reciproca. Inoltre il riconoscimento dell’Altro non ha un fondamento solo razionale, ma si basa anche su passioni “civili”, come la simpatia e l’empatia. Se il riconoscimento dell’Altro non è avulso dai sentimenti e dalle 104
emozioni, allora esso si può praticare anche attraverso l’etica (contingente e contestuale) della cura e l’etica delle virtù, che variano a seconda dei tempi e dei luoghi. L’etica della cura include non solo le persone, ma anche il “mondo”. La fratellanza Il riconoscimento dell’Altro avviene mediante il paradigma del dono relazionale, che è costruttore di legame sociale, ovvero di fratellanza, basandosi sul principio di reciprocità (simmetrica e generalizzata) che è cosa diversa dallo scambio di mercato. La reciprocità instaura dipendenza tra soggetti perché implica restituzione, anche se libera, lontana dall’equivalenza e differita nel tempo. I beni relazionali (amicizia, amore, legami di prossimità) creano fiducia (capitale sociale), la fiducia è alla base della nascita del mercato e di un suo più fluido funzionamento. La proposta dell’Economia Civile è quella di vivere l’esperienza della fratellanza all’interno di una normale vita economica, né fuori dal mercato (come nel caso della filantropia), né a latere del mercato (come nel caso del settore non profit considerato un’eccezione al mercato), né solamente dopo il funzionamento del mercato (come nel caso della solidarietà conseguibile, attraverso l’intervento redistributivo del Welfare State, a valle del mercato che può quindi mantenersi “incivile” nel mentre crea ricchezza, riconfermando il divorzio tra efficienza ed equità). La scienza economica, così fortemente ancorata alla fratellanza, è la scienza della felicità pubblica, non la scienza della ricchezza delle nazioni (la concezione di Adam Smith) o dell’utilità per il maggior numero di persone (la concezione di Jeremy Bentham) o della massimizzazione della utilità individuale (la concezione degli economisti neoclassici). Oltre al dono relazionale, anche altri tipi di dono (puro, convenzionale, cerimoniale), agiti attraverso le correlate virtù del dare quali la generosità, la carità, la misericordia, la giustizia (intragenerazionale, intergenerazionale ed interspecie), possono comunque contribuire alla umanizzazione del mercato nonché ad uno sviluppo sostenibile.
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La visione del mercato nel paradigma dell’Economia Civile Il mercato secondo l’Economia Civile è il luogo dell’assistenza reciproca per il soddisfacimento di bisogni, non il luogo del perseguimento dell’interesse personale come in Adam Smith. I mercati non sono entità autonome ed astratte, ma sono istituzioni incastonate nelle società. I mercati hanno un background politico ed etico (norme legali, sociali, morali) e funzionano grazie al contributo di diverse istituzioni (in primis grazie al capitale sociale nelle sue diverse espressioni -di bonding, bridging, linking- ed allo Stato) che, oltre a favorire l’avvento stesso dei mercati, prevengono e/o rimediano ai loro fallimenti. Mercato, Stato, Società Civile costituiscono un sistema tripolare di circolazione di beni e servizi (guidata dai rispettivi principi di regolazione: scambio di mercato, redistribuzione, reciprocità), in cui ciascun polo esercita, con pari dignità, una funzione di stimolo e di controllo/correzione nei confronti degli altri due, in un rapporto di co-evoluzione. A questa poliarchia corrispondono dal lato della offerta una pluralità di forme di impresa: l’impresa capitalistica; l’impresa pubblica; l’impresa “civile”; l’impresa cooperativa; le diverse forme organizzative del Terzo Settore e della Sharing Economy; tutte le possibili forme di ibridazione organizzativa di questi modelli (come ad esempio le benefit corporation, l’impresa sociale, l’impresa della Economia di Comunione, etc.). Dal lato della domanda, alla sfera privata, pubblica, comune corrispondono rispettivamente: i diversi meccanismi di segnalazione da parte delle imprese che intervengono per rimediare ai fallimenti del mercato connessi a situazioni di asimmetria informativa tra impresa e consumatori (pubblicità, garanzia, reputazione, marchi); la regolamentazione pubblica a tutela del consumatore; il consumo consapevole e critico, esercitato attraverso il “voto con il portafoglio” ed il “voto con il mouse” o altre forme (cash mob etico, slot mob) per indurre le imprese a comportamenti virtuosi dal punto di vista sociale ed ambientale.
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Il metodo dell’Economia Civile L’Economia Civile si avvale, nel suo funzionamento, non solo della ragione, ma anche di vari tipi di intelligenza (sociale, emotiva, ecologica), che è la facoltà con cui si ricerca e si attribuisce un senso alle azioni individuali e collettive, anche economiche. L’Economia Civile non procede mediante la razionalità strumentale che persegue soltanto l’interesse personale, ma attraverso la razionalità relazionale che ricerca, democraticamente, il Bene Comune mediante l’“agire argomentativo”, il dialogo e l’“agire comunicativo”. Azioni istituzionali intraprese da parte di enti pubblici locali, parti sociali, associazioni di categoria e processi partecipativi, che si innescano dal basso, soprattutto a livello locale, ad opera del Terzo Settore, imprese singole o associate, istituzioni creditizie (banche di credito cooperativo, banche etiche, fondi etici), studenti, cittadini, consumatori devono convergere in un’Alleanza Locale per l’Economia Civile. Buone pratiche e testimonianze concrete di Economia Civile vanno diffuse, premiate, messe in comunicazione tra loro. È più importante l’avvio di processi che generino nuovi dinamismi socio-economici rispetto a risultati concreti immediati. Meglio lavorare sulla lunga durata che in un’ottica di breve termine. La gradualità deve essere uno dei requisiti del processo, nella consapevolezza che l’umanizzazione dell’economia è un obiettivo difficile da realizzare partendo dallo status quo, che va adattato ad un ambiente sempre mutevole ed incerto, che va continuamente attualizzato e che richiede uno sforzo incessante e corale. Una certa dose di realismo deve guidare il processo di umanizzazione del mercato. Un’idea, per quanto buona, di riforma dell’economia se avulsa dalla realtà rischia di scivolare nell’utopia. Ma una certa dose di idealità, se congiunta a pragmatismo, determinazione, flessibilità, può riuscire ad imporre, nel tempo, dei cambiamenti. Il desiderio di trasformazione necessita anche del principio di speranza, che rende prefigurabile la transizione tra “il già esistente e il non ancora”, vincendo il pessimismo, lo scoraggiamento, la delusione. La speranza deve coniugarsi anche con la pazienza. Un nuovo sapere economico che veda la collaborazione interdisciplinare tra diverse scienze (naturali, umane, sociali), l’educazione, l’informazione, sono condizione necessaria per la promozione dell’Economia Civile. 107
L’estensione dell’Economia Civile Gli attuali confini dell’Economia Civile vanno ampliati. L’Economia Civile non si esaurisce in tutte le variegate componenti del Terzo Settore, che rappresentano la radice primaria e la linfa vitale dei mercati, ma può legittimamente includere al suo interno le imprese profit “civili”, ovvero le imprese che agiscono come comunità sociali e morali e non come insieme di contratti (anche se il contratto può arrivare a contemplare gli interessi di altri stakeholder aziendali e non solo degli azionisti, come avviene nel caso delle “imprese socialmente responsabili”). Le imprese “civili” consentono a tutti coloro che sono (direttamente o indirettamente) coinvolti nelle loro attività di vivere una “vita buona” tramite il rispetto di standard ambientali e sociali, l’adozione di forme di welfare generativo aziendale, il diversity management, la filantropia, una contrattazione aziendale improntata a maggiore democrazia industriale con forme di collaborazione tra capitale e lavoro nella gestione/proprietà/risultati dell’azienda, l’introduzione di forme avanzate di democrazia economica (governance multistakeholder). Le imprese “civili” contribuiscono all’elevazione materiale, culturale sociale anche del luogo ove operano. L’allargamento del perimetro dell’Economia Civile presuppone da un lato che le imprese “civili” riconoscano al Terzo Settore il ruolo determinante di “costruttore sociale del mercato”, dall’altro che il Terzo Settore riconosca le imprese “civili” come modelli a cui ispirarsi per migliorare la sua efficienza. Da questo doppio movimento possono derivare scambi, di varia natura, a vantaggio di entrambi gli attori. In questa visione mondo profit e mondo non profit possono fertilizzarsi reciprocamente (dando vita a nuove forme organizzative ibride, a progetti comuni, a forme inedite di contaminazione) per uno sviluppo in chiave più umanistica, sostenibile ed integrale del territorio.
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Ringraziamenti
Ringrazio sentitamente il Dott. Lorenzo Gianfelice, Presidente del Cesvol (Centro Servizi per il Volontariato) della provincia di Terni e la Dott.ssa Silvia Camillucci, Coordinatrice del Cesvol della provincia di Terni, per l’attenzione e la sensibilità dimostrate in ordine ai temi dell’Economia Civile che hanno reso possibile progettare e realizzare, in stretta collaborazione con il Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Perugia sede di Terni, il percorso di seminari “Insieme per un’Economia Civile”, di cui questo volume è uno dei diversi frutti giunto a maturazione. Ringrazio altrettanto caldamente la Dott.ssa Emanuela Puccilli, referente Servizio Editoria Sociale del Cesvol della provincia di Terni, per i consigli, la pazienza e la disponibilità dimostrate, senza le quali questo volume non sarebbe potuto venire alla luce.
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L’autrice
Cristina Montesi è ricercatrice e professore aggregato presso il Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Perugia. È titolare dell’insegnamento di Economia pubblica e dei settori industriali presso il corso di laurea triennale in Economia Aziendale del Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Perugia sede di Terni e dell’insegnamento di Economia dell’Ambiente presso il corso di laurea magistrale in Economia e Direzione di impresa del Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Perugia sede di Terni. È autrice di numerose pubblicazioni nazionali e internazionali, tra cui si ricordano i seguenti volumi: P. Grasselli, C. Montesi, L’interpretazione dello spirito del dono. Milano:
Franco Angeli, 2008;
P. Grasselli, C. Montesi, Le politiche attive del lavoro nella prospettiva del
Bene Comune. Milano: Franco Angeli, 2010;
P. Grasselli, C. Montesi, L’associazionismo familiare in Umbria. Cura, dono
ed economia del Bene Comune. Milano: Franco Angeli, 2013.
I suoi interessi scientifici vertono su: nuova economia delle istituzioni, economia civile, economia del dono, economia ecologica, sviluppo locale, i legami tra mistica ed economia con particolare attenzione alle figure di alcuni grandi carismatici (Santa Teresa d’Avila, San Benedetto, San Francesco).
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Umbria Volontariato Edizioni Questo volume è stato stampato presso CMStudio Srl – Collestatte (TR)
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