La strada dell'Africa

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EDITORIALE DI ADOLFO URSO

Presidente

Gianfranco FINI

fini@ farefuturofondazione.it

www.farefuturofondazione.it

La strada dell’Africa

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

Segretario generale

Adolfo URSO Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA

scibetta@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione Alessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Angelo MELLONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Direttore Mario CIAMPI

campi@farefuturofondazione.it

ciampi@farefuturofondazione.it

Direttore editoriale Angelo MELLONE

Direttore relazioni internazionali Federico Eichberg

mellone@farefuturofondazione.it

eichberg@farefuturofondazione.it

Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 400044130 - fax 06 400044131 info@farefuturofondazione.it

www.farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno IV - Numero 3 - maggio/giugno 2010

Direttore scientifico Alessandro CAMPI

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009

urso@ farefuturofondazione.it

La strada dell’Africa Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno IV - n. 3 - maggio/giugno 2010 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

È qui che si decidono gli assetti del futuro L’Africa non è più il grande buco nero della globalizzazione ma anzi il continente su cui si misureranno le migliori prospettive di crescita dei prossimi decenni. L’Africa mediterranea, che già quest’anno avrà le migliori performance di ripresa di tutto il bacino Euromediterraneo e di cui l’Italia è diventata la prima partner commerciale, superando Francia e Germania: da soli rappresentiamo un quarto degli scambi europei. La sponda sud del Mediterraneo rappresenterà per l’Italia nei prossimi anni quello che l’Europa centrale ed orientale è stata per le nostre imprese e per la nostra economia negli ultimi vent’anni. Sarà l’area di maggiore crescita ai confini dell’Unione, fonte di energia e consumatrice di prodotti, e nel contempo la maggiore destinataria del cono di luce dello sviluppo che si estende lungo il Golfo Persico, l’India, la Cina, il sud-est asiatico, l’Oceania: l’area del mondo che sta già trainando la ripresa, non solo luogo di produzione ma anche di consumo per miliardi di uomini prima ai margini ed ora al centro dell’economia mondiale. L’Africa mediterranea è già nostra partner, con le sue contraddizioni e le sue speranze: islamica ma in buona misura anche laica, ormai avviata nella integrazione con l’Unione attraverso l’area di libero scambio euromediterranea che finalmente sarà compiuta nel 2012, sulle prospettive del processo di Barcellona. L’Africa però è anche e soprattutto il conIn Africa si decidono tinente nero. Dal deserto del Sahara sino al Capo di Buona Speranza: una volta conle nuove gerarchie siderata come terra perduta, sopraffatta da globali e gli assetti un convulso processo di decolonizzazione del prossimo futuro che ne aveva piegato le speranze e lacerato le società. Negli ultimi dieci anni, molto è cambiato, senza che ce ne accorgessimo. Molti paesi sono cresciuti a due cifre e in tanti si è consolidata la democrazia, soprattutto lungo le coste commerciali. La nostra Europa era troppo presa dalla crescita della sua metà orientale e dalla necessità di integrarla, per accorgersi di quanto fossero cambiate le condizioni e soprattutto le prospettive di un’area del mondo che è stata a lungo europea. Nel frattempo, altri paesi ed altre economie hanno occupato gli spazi vuoti e soprattutto le aree di crescita. La Cina innanzi tutto, con una politica espansionista priva di scrupoli, fatta di prestiti e di imprese, nella corsa ad accaparrarsi le materie prime di cui necessita. Ed inoltre, a ruota, India e Brasile e le economie emergenti del sud-est asiatico, con gli Stati Uniti a tentare di fare argine, prima con Bush e con un’accorta politica bilaterale, poi con Obama che ha ovviamente un richiamo in più anche sul piano ideale e quindi multilaterale. L’Europa, grande assente, ha perso terreno ma ora sa o comunque dovrebbe sapere che proprio in Africa si decidono le nuove gerarchie globali e gli assetti del prossimo futuro. L’Africa ha tutto quello che serve alla crescita degli altri grandi, dei nuovi grandi


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO IV - NUMERO 3 - MAGGIO/GIUGNO 2010

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

La strada dell’Africa

R OMA

Incontro con le fondazioni europee Lunedì 3 maggio

È qui che si decidono gli assetti del futuro ADOLFO URSO - EDITORIALE

Quando il calcio fa miracoli - 96 ITALO CUCCI

Presso la sede della fondazione Farefuturo a Roma,

WASHINGTON

SEOUL

The Milton Friedman Prize for Advancing Liberty Il premio per la libertà intitolato a Milton Friedman viene consegnato dal Cato Institute al giornalista dissidente iraniano Akbar Ganji. Giovedì 13 maggio

German Unification and EU, Implication on Korean Peninsula La Konrad Adenauer Stiftung interviene a un seminario dell’università Yonsei che confronta la riunificazione tedesca con la divisione della Corea. Venerdì 28 maggio

in via del Seminario 113, si terrà un incontro fra i rappresentanti delle fondazioni che aderiscono allo

Africa, un altro mondo - 2 STEFANO CALICIURI

Sudafrica: uno Stato a due facce - 106 ERIC MOLLE

Il continente del XXI secolo - 8 GIUSEPPE PENNISI

Un giorno a Kayalitcha, l’inferno alle porte di Città del Capo - 116 SILVIA ANTONIOLI

Non abbiamo bisogno del vostro paternalismo - 16 ABDOULAYE WADE

Mataka: «Aids, bisogna fare molto di più» - 119 INTERVISTA a ELISABETH MATAKA di S.A.

Ghana: la stabilità favorisce gli investimenti - 20 HANNAH TETTEH

Quel pezzo di Africa che parlava italiano - 124 ALFREDO MANTICA

Come si misura il benessere

Una priorità etica e strategica per l’Italia - 32 ELISABETTA BELLONI

La stele venuta da lontano - 138 BARBARA MENNITTI

Martedì 11 maggio

Religione, un mezzo per superare le divisoni etniche - 38 INTERVISTA a PETER TURKSON di Federico Brusadelli

Il business delle navi pirata - 146 PIERO BONADEO

Presso la Sala delle Conferenze di Palazzo Marini,

Per fare sentire forte le voci assordanti dimenticate - 42 DA Ffwebmegazine DI CECILIA MORETTI

La linea rossa che squarcia l’area subsahariana - 154 DOMENICO NASO

del benessere e la sostenibilità dello sviluppo. Inter-

European Ideas Network, rete che riunisce i thinktank del Ppe.

R OMA

Camera dei deputati, in via del Pozzetto 158, alle ore 10 inizierà il convegno Oltre il Pil. I nuovi indicatori

Serve un bagno di realismo per capire un continente plurale - 46 INTERVISTA a GIULIO ALBANESE di Domenico Naso La sicurezza globale passa dall’Africa - 58 PAOLO QUERCIA Una strategia italiana al servizio del continente nero - 64 ROBERTO PASCA DI MAGLIANO E DANIELE TERRIARCA La rinascita africana passa anche per le imprese - 72 GIOVANNANGELO MONTECCHI PALAZZI

Tra petrolio e colpi di Stato - 160 PIETRO URSO Quando l’Africa funziona - 168 DANIELE CRISTALLINI I difficili equilibri del Maghreb - 175 ANTONIO PICASSO Verso l’unità africana - 183 BRUNO TIOZZO

verranno fra gli altri, Mario Ciampi, Kazuiko Takeuchi, Raffarele Bonanni, Federica Guidi, Enrico Letta e Adolfo Urso. Concluderà i lavori Gianfranco Fini, presidente della fondazione Farefuturo.

R OMA

L’odissea americana del XXI secolo Giovedì 20 maggio Presso la sede della fondazione Farefuturo a Roma,

Servono investimenti per diventare adulti - 80 FRANCESCO CROCENZI Il colonialismo del Terzo Millenio - 90 FEDERICO BRUSADELLI La Somalia libera fa sentire la sua voce - 92 Ffwebmegazine

DA

in via del Seminario 113, si terrà la presentazione del volume L’ora di Telemaco. Un’odissea americana di Alberto Pasolini Zanelli, edito da Feltrinelli. Interverrà l’autore.

CADENABBIA Konrad Adenauers Europa und Cadenabbia. Incontro della Konrad Adenauer Stiftung nella villa italiana dell’ex Cancelliere, rivolto ai motociclisti. I partecipanti partono, in moto, da Oldenburg nella Germania settentrionale. Interviene Hans-Gert Pöttering, Presidente della Kas. Domenica 16 – Sabato 22 maggio

CRACOVIA Building a Commercial Society: Culture & the Transition to Wealth Seminario dell’Acton Institute sulla transizione all’economia di mercato nell’Europa dell’est 20 anni dopo la caduta del muro di Berlino. Tra i relatori: Mart Laar, ex Premier estone, Leszek Balcerowicz, ex ministro dell’Economia polacco e John O’Sullivan, già consigliere di Margaret Thatcher. Mercoledì 19 maggio

SIMI VALLEY (CALIFORNIA) Annual Reagan Lecture Il discorso annuale organizzato dalla Ronald Reagan Foundation in memoria dell’ex presidente americano sarà tenuto da Mitt Romney, già governatore del Massachusetts. Romney presenterà anche il suo nuovo libro: No apology: The Case for American Greatness. Martedì 25 maggio

TORONTO Fraser Institute Gala Dinner Cena di gala del Fraser Institute. Interviene Peter Munk, Presidente di Barrick Gold e noto filantropo. Giovedì 3 giugno

BRUXELLES Changes in Nato and consequences for Eu La European Ideas Network, che raggruppa i think-tank del Ppe, si interroga sul futuro rapporto tra l’Ue e la Nato. Mercoledì 9 giugno

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Barbara Mennitti mennitti@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Federico Brusadelli, Stefano Caliciuri, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Alessandro Marrone, Pierluigi Mennitti, Cecilia Moretti, Domenico Naso, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Bruno Tiozzo, Pietro Urso. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/97996400 - Fax 06/97996430 E-mail: redazione@chartaminuta.it direttorecharta@gmail.com

Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia

RABAT Forum marocain-allemand de jeunes décideurs Incontro fra giovani tedeschi e marocchini impegnati nella politica e nell’amministrazione, organizzato dalla Konrad Adenauer Stiftung insieme all'Association Ribat Al Fath pour le Développement Durable. Giovedì 24 – Sabato 26 giugno

Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Gianmaria Sparma

Segreteria amministrativa Silvia Rossi

EICHHOLZ Europas beste La summer school della Konrad Adenauer Stiftung contiene una simulazione sulla sicurezza energetica europea e un’escursione alle istituzioni Ue a Bruxelles. Domenica 11 – Mercoledì 14 luglio

Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO IV - NUMERO 3 - MAGGIO/GIUGNO 2010

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

La strada dell’Africa

R OMA

Incontro con le fondazioni europee Lunedì 3 maggio

È qui che si decidono gli assetti del futuro ADOLFO URSO - EDITORIALE

Quando il calcio fa miracoli - 96 ITALO CUCCI

Presso la sede della fondazione Farefuturo a Roma,

WASHINGTON

SEOUL

The Milton Friedman Prize for Advancing Liberty Il premio per la libertà intitolato a Milton Friedman viene consegnato dal Cato Institute al giornalista dissidente iraniano Akbar Ganji. Giovedì 13 maggio

German Unification and EU, Implication on Korean Peninsula La Konrad Adenauer Stiftung interviene a un seminario dell’università Yonsei che confronta la riunificazione tedesca con la divisione della Corea. Venerdì 28 maggio

in via del Seminario 113, si terrà un incontro fra i rappresentanti delle fondazioni che aderiscono allo

Africa, un altro mondo - 2 STEFANO CALICIURI

Sudafrica: uno Stato a due facce - 106 ERIC MOLLE

Il continente del XXI secolo - 8 GIUSEPPE PENNISI

Un giorno a Kayalitcha, l’inferno alle porte di Città del Capo - 116 SILVIA ANTONIOLI

Non abbiamo bisogno del vostro paternalismo - 16 ABDOULAYE WADE

Mataka: «Aids, bisogna fare molto di più» - 119 INTERVISTA a ELISABETH MATAKA di S.A.

Ghana: la stabilità favorisce gli investimenti - 20 HANNAH TETTEH

Quel pezzo di Africa che parlava italiano - 124 ALFREDO MANTICA

Come si misura il benessere

Una priorità etica e strategica per l’Italia - 32 ELISABETTA BELLONI

La stele venuta da lontano - 138 BARBARA MENNITTI

Martedì 11 maggio

Religione, un mezzo per superare le divisoni etniche - 38 INTERVISTA a PETER TURKSON di Federico Brusadelli

Il business delle navi pirata - 146 PIERO BONADEO

Presso la Sala delle Conferenze di Palazzo Marini,

Per fare sentire forte le voci assordanti dimenticate - 42 DA Ffwebmegazine DI CECILIA MORETTI

La linea rossa che squarcia l’area subsahariana - 154 DOMENICO NASO

del benessere e la sostenibilità dello sviluppo. Inter-

European Ideas Network, rete che riunisce i thinktank del Ppe.

R OMA

Camera dei deputati, in via del Pozzetto 158, alle ore 10 inizierà il convegno Oltre il Pil. I nuovi indicatori

Serve un bagno di realismo per capire un continente plurale - 46 INTERVISTA a GIULIO ALBANESE di Domenico Naso La sicurezza globale passa dall’Africa - 58 PAOLO QUERCIA Una strategia italiana al servizio del continente nero - 64 ROBERTO PASCA DI MAGLIANO E DANIELE TERRIARCA La rinascita africana passa anche per le imprese - 72 GIOVANNANGELO MONTECCHI PALAZZI

Tra petrolio e colpi di Stato - 160 PIETRO URSO Quando l’Africa funziona - 168 DANIELE CRISTALLINI I difficili equilibri del Maghreb - 175 ANTONIO PICASSO Verso l’unità africana - 183 BRUNO TIOZZO

verranno fra gli altri, Mario Ciampi, Kazuiko Takeuchi, Raffarele Bonanni, Federica Guidi, Enrico Letta e Adolfo Urso. Concluderà i lavori Gianfranco Fini, presidente della fondazione Farefuturo.

R OMA

L’odissea americana del XXI secolo Giovedì 20 maggio Presso la sede della fondazione Farefuturo a Roma,

Servono investimenti per diventare adulti - 80 FRANCESCO CROCENZI Il colonialismo del Terzo Millenio - 90 FEDERICO BRUSADELLI La Somalia libera fa sentire la sua voce - 92 Ffwebmegazine

DA

in via del Seminario 113, si terrà la presentazione del volume L’ora di Telemaco. Un’odissea americana di Alberto Pasolini Zanelli, edito da Feltrinelli. Interverrà l’autore.

CADENABBIA Konrad Adenauers Europa und Cadenabbia. Incontro della Konrad Adenauer Stiftung nella villa italiana dell’ex Cancelliere, rivolto ai motociclisti. I partecipanti partono, in moto, da Oldenburg nella Germania settentrionale. Interviene Hans-Gert Pöttering, Presidente della Kas. Domenica 16 – Sabato 22 maggio

CRACOVIA Building a Commercial Society: Culture & the Transition to Wealth Seminario dell’Acton Institute sulla transizione all’economia di mercato nell’Europa dell’est 20 anni dopo la caduta del muro di Berlino. Tra i relatori: Mart Laar, ex Premier estone, Leszek Balcerowicz, ex ministro dell’Economia polacco e John O’Sullivan, già consigliere di Margaret Thatcher. Mercoledì 19 maggio

SIMI VALLEY (CALIFORNIA) Annual Reagan Lecture Il discorso annuale organizzato dalla Ronald Reagan Foundation in memoria dell’ex presidente americano sarà tenuto da Mitt Romney, già governatore del Massachusetts. Romney presenterà anche il suo nuovo libro: No apology: The Case for American Greatness. Martedì 25 maggio

TORONTO Fraser Institute Gala Dinner Cena di gala del Fraser Institute. Interviene Peter Munk, Presidente di Barrick Gold e noto filantropo. Giovedì 3 giugno

BRUXELLES Changes in Nato and consequences for Eu La European Ideas Network, che raggruppa i think-tank del Ppe, si interroga sul futuro rapporto tra l’Ue e la Nato. Mercoledì 9 giugno

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Barbara Mennitti mennitti@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Federico Brusadelli, Stefano Caliciuri, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Alessandro Marrone, Pierluigi Mennitti, Cecilia Moretti, Domenico Naso, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Bruno Tiozzo, Pietro Urso. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/97996400 - Fax 06/97996430 E-mail: redazione@chartaminuta.it direttorecharta@gmail.com

Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia

RABAT Forum marocain-allemand de jeunes décideurs Incontro fra giovani tedeschi e marocchini impegnati nella politica e nell’amministrazione, organizzato dalla Konrad Adenauer Stiftung insieme all'Association Ribat Al Fath pour le Développement Durable. Giovedì 24 – Sabato 26 giugno

Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Gianmaria Sparma

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Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

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EDITORIALE DI ADOLFO URSO

Presidente

Gianfranco FINI

fini@ farefuturofondazione.it

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La strada dell’Africa

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

Segretario generale

Adolfo URSO Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA

scibetta@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione Alessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Angelo MELLONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Direttore Mario CIAMPI

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Direttore editoriale Angelo MELLONE

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Nuova serie Anno IV - Numero 3 - maggio/giugno 2010

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La strada dell’Africa Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno IV - n. 3 - maggio/giugno 2010 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

È qui che si decidono gli assetti del futuro L’Africa non è più il grande buco nero della globalizzazione ma anzi il continente su cui si misureranno le migliori prospettive di crescita dei prossimi decenni. L’Africa mediterranea, che già quest’anno avrà le migliori performance di ripresa di tutto il bacino Euromediterraneo e di cui l’Italia è diventata la prima partner commerciale, superando Francia e Germania: da soli rappresentiamo un quarto degli scambi europei. La sponda sud del Mediterraneo rappresenterà per l’Italia nei prossimi anni quello che l’Europa centrale ed orientale è stata per le nostre imprese e per la nostra economia negli ultimi vent’anni. Sarà l’area di maggiore crescita ai confini dell’Unione, fonte di energia e consumatrice di prodotti, e nel contempo la maggiore destinataria del cono di luce dello sviluppo che si estende lungo il Golfo Persico, l’India, la Cina, il sud-est asiatico, l’Oceania: l’area del mondo che sta già trainando la ripresa, non solo luogo di produzione ma anche di consumo per miliardi di uomini prima ai margini ed ora al centro dell’economia mondiale. L’Africa mediterranea è già nostra partner, con le sue contraddizioni e le sue speranze: islamica ma in buona misura anche laica, ormai avviata nella integrazione con l’Unione attraverso l’area di libero scambio euromediterranea che finalmente sarà compiuta nel 2012, sulle prospettive del processo di Barcellona. L’Africa però è anche e soprattutto il conIn Africa si decidono tinente nero. Dal deserto del Sahara sino al Capo di Buona Speranza: una volta conle nuove gerarchie siderata come terra perduta, sopraffatta da globali e gli assetti un convulso processo di decolonizzazione del prossimo futuro che ne aveva piegato le speranze e lacerato le società. Negli ultimi dieci anni, molto è cambiato, senza che ce ne accorgessimo. Molti paesi sono cresciuti a due cifre e in tanti si è consolidata la democrazia, soprattutto lungo le coste commerciali. La nostra Europa era troppo presa dalla crescita della sua metà orientale e dalla necessità di integrarla, per accorgersi di quanto fossero cambiate le condizioni e soprattutto le prospettive di un’area del mondo che è stata a lungo europea. Nel frattempo, altri paesi ed altre economie hanno occupato gli spazi vuoti e soprattutto le aree di crescita. La Cina innanzi tutto, con una politica espansionista priva di scrupoli, fatta di prestiti e di imprese, nella corsa ad accaparrarsi le materie prime di cui necessita. Ed inoltre, a ruota, India e Brasile e le economie emergenti del sud-est asiatico, con gli Stati Uniti a tentare di fare argine, prima con Bush e con un’accorta politica bilaterale, poi con Obama che ha ovviamente un richiamo in più anche sul piano ideale e quindi multilaterale. L’Europa, grande assente, ha perso terreno ma ora sa o comunque dovrebbe sapere che proprio in Africa si decidono le nuove gerarchie globali e gli assetti del prossimo futuro. L’Africa ha tutto quello che serve alla crescita degli altri grandi, dei nuovi grandi


del sud del mondo. L’Europa deve agire, con una politica comune, per consentire al continente nero di crescere con gli altri e anche grazie agli altri, evitando un’altra, diversa deriva colonizzatrice. L’Africa non come oggetto dei nostri desideri e nemmeno meramente come destinataria di elargizioni, con cui mettere in pace la nostra tormentata coscienza. L’Africa non ha bisogno di doni ma di imprese, la cooperazione basata solo Bisogna che l’Africa sugli aiuti è stata anzi spesso fonte di guai, diventi un partner di corruzione e violenza: ha devastato il territorio, le sue colture (agricole) e le sue culcon cui agire insieme, ture (umane). L’Africa non come oggetto in rapporto win-win ma come soggetto dello sviluppo, partner con cui agire insieme, in un rapporto per la prima volta davvero win-win. L’Africa è il più grande giacimento di materie prime e il problema dei prossimi decenni sarà appunto il reperimento e l’utilizzo delle risorse. Tra poco saremo sette miliardi, con una crescita in gran parte concentrata nell’altro emisfero. Soprattutto sette miliardi di persone che giustamente pretendono di consumare anche loro, dopo che negli ultimi secoli hanno assistito al consumo (e agli sprechi) degli altri, e talvolta assistito il consumo degli altri, di pochi. È il caso di dire: prima consumavamo in pochi ma molto e i nostri consumi trainavano la lenta e sconnessa crescita di alcuni paesi emergenti, lasciando comunque indietro i più. Negli ultimi trent’anni è stata la crescita dei consumi in Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, a determinare la crescita dell’Oriente, a cominciare dalla Cina. Noi consumavamo di più ad ovest, loro producevano di più ad est. Questo assioma si è infranto con la bolla finanziaria e immobiliare. Ora anche gli Usa vogliono produrre ed esportare, e non solo consumare. E la Cina intende anche consumare per crescere. Per la prima volta lo scorso anno sono cresciute più le esportazioni italiane in Cina che le importazioni di prodotti cinesi in Italia. Cambiano le direttrici dello sviluppo e gli asset della crescita, in un mondo che dovrà razioCon la crisi economica nare e dividere ogni risorsa, per soddisfare sono cambiate le le molteplici e crescenti esigenze. Il nuovo direttrici dello sviluppo modello di sviluppo si fonda sull’uso più e gli asset della crescita parco di ogni bene, a cominciare quello primario dell’acqua. Quando si produce e non solo quando si consuma, occorre sempre pensare a come razionalizzare, riutilizzare, riciclare, rinnovare, insomma ottimizzare le risorse. E quando si parla di risorse oggi si parla di Africa.

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AFRICA, un altro mondo DI STEFANO CALICIURI

U

n continente da vivere e interpretare, per non continuare a cadere nello stesso errore: quello di giudicarlo secondo criteri occidentali.


INTRODUZIONE Stefano Caliciuri

Quando si parla di Africa non bi- tà locali, perché sono ideati da sogna cadere nell’errore di volerla mentalità occidentali e seguendo descrivere e giudicare secondo i criteri ed esigenze occidentali. canoni occidentali. L’Africa non è Ad esempio, intervenire per cosoltanto un altro continente, ma struire un deposito di grano gaè soprattutto un altro mondo. Un rantisce certamente la conservamondo che per conoscerlo biso- zione del raccolto per la stagione gna innanzitutto viverlo, prima in corso; ma se l’anno successivo ancora che studiarlo. Soltanto in la regione sarà colta dalla siccità questo modo ci si rende conto nessuno penserà alla manutenzioche, ad esempio, tre concetti per ne della struttura perché la prionoi fondamentali, in Africa ven- rità diventerà la ricerca di un tergono svuotati di ogni significato. reno fertile. La canna da pesca è Tempo, democrazia e famiglia importante per catturare il pesce, non possono essere analizzati se- però poi ci vuole qualcuno che condo le nostre comuni convin- sappia spiegare anche come trovare le esche. zioni ma occorre Ma siamo sicuri uno sforzo di im- Accanto all’Africa che la mentalità medesimazione. Le occidentale sia differenze sono povera delle guerre sempre e comundettate sia da di- e a quella dei mondiali que quella domiversi substrati annante, quella da tropologici, sia di calcio, ne esiste dalle diverse abitu- una spesso sconosciuta esportare e da inculcare anche a dini quotidiane. Accanto all’Africa povera delle popolazioni che hanno necessità e guerre etniche e a quella colorata stili di vita profondamente diverdei mondiali di calcio, ne esiste si dai nostri? Vivere di nomadiun’altra, spesso sconosciuta, a smo o di pastorizia presuppone volte contraddittoria. L’Africa del delle difficoltà che le società innomadismo e dei pastori; l’Africa dustrializzate e sedentarie neppudei capi-villaggio e delle istitu- re possono immaginare. Ed allozioni, l’Africa della cooperazione ra, perché proporre anche in Afrie delle missioni religiose. Forse ca un modello che poco ha a che un’Africa non proprio politica- fare con la mentalità e le radici mente corretta ma sicuramente locali? Nella nostra società il tempo è alun’Africa più vera. Per avere un’idea della diversa la base di ogni attività: dal semprospettiva che utilizziamo quan- plice appuntamento alla normale do ci occupiamo di Africa, è suf- scansione della giornata, non si ficiente esaminare alcuni fra i può vivere senza un riferimento molteplici progetti di cooperazio- temporale. In Africa non è così: ne internazionale che operano nel non esiste il concetto di puntualicontinente africano. Spesso non tà, non esiste il concetto di “aptengono conto delle reali necessi- puntamento”. Il ritmo è condi-

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zionato dalla luce. Con la luce si qua sono zone di intensi traffici e fa quello che si deve fare, con il scambi commerciali. E di consebuio ci si riposa. Gli incontri isti- guenza anche la promiscuità è tuzionali sono fissati, infatti, sol- ben maggiore rispetto alle aree tanto seguendo il giorno sul ca- interne, non fornite di attracchi o lendario ma senza indicare un ponti. Al contrario, all’interno orario preciso. Saranno le condi- dei villaggi patriarcali la vita è rizioni del momento a stabilire stretta al solo mantenimento quando l’incontro potrà comin- dell’ordine costituito, alla sopravciare e solitamente succede quan- vivenza della tribù e alla salvado “ci sono tutti i partecipanti”, guardia del suo nucleo. Non ci si sposta, se non alla ricerca di terresenza fretta e senza pressione. Nell’Africa nera, l’enorme area ni coltivabili. I rapporti, dunque, continentale al di sotto del deser- vengono consumati soltanto con to del Sahara, i rapporti fra le persone dello stesso villaggio atpersone sono basati essenzialmen- traverso cui si garantisce la sopravvivenza della te sulla pura concomunità. Ecco servazione della In Africa il ritmo perché non è penspecie, che oltresabile che si possa tutto significa ga- è condizionato trovare risposta al rantire forza lavoro dalla luce, con la luce problema delalla famiglia. Il l’Aids con la semruolo principale si deve fare, plice distribuzione della donna è quel- con il buio ci si riposa di preservativi: lo di procreare, quello dell’uomo è lavorare. Il l’atto sessuale è visto come una sesso è puro sfogo, da cui conse- necessità fisiologica ed in quanto gue il concepimento. Non esiste tale non può essere né prevista la figura della moglie ma della tanto meno pianificata. Si fa e badonna in quanto tale, che procrea sta, senza preamboli o sovrastrute vende i prodotti al mercato, ture. sempre dove esso esiste. Soltanto L’errore di fondo commesso dalle conoscendo questi rapporti inter- società industrializzate è che da personali è possibile analizzare il sempre hanno considerato il conproblema relativo alla diffusione tinente africano come una zona dell’Aids. Spesso, invece, gli occi- da spartirsi, senza tenere in minidentali vorrebbero intervenire se- ma considerazione gli interessi guendo i loro schemi e canoni so- della popolazione autoctona. Baciali. L’incidenza della malattia è sti pensare alla secolare dominaesponenziale vicino i fiumi, men- zione coloniale ed alla conseguentre nei villaggi interni l’Aids è te suddivisione artificiosa del terpressoché assente. Per conoscerne ritorio. I confini sono stati traci motivi è sufficiente analizzare la ciati non tenendo conto delle reageomorfologia del territorio: le li etnie ed appartenenze tribali aree verdi adiacenti i corsi d’ac- degli abitanti. I confini disegnati


INTRODUZIONE Stefano Caliciuri

a tavolino, infatti, ancora oggi uniscono realtà diversissime tra loro. Un esempio per tutti è quello dell’Etiopia: i Tigrini presenti nel nord del paese hanno caratteristiche somatiche minute e regolari, mentre al sud sono presenti i villaggi dei Suri, etnia che vive ancora quasi allo stato primitivo, conosciuta dagli occidentali per l’usanza femminile di inserire un piattello nel labbro inferiore. In tali società tribali è quindi difficile parlare di democrazia. Bisognerebbe invece parlare di norme di comportamento o di abitudini sociali, spesso inconcepibili per noi. Il saggio del paese, o il consiglio dei saggi, rappresenta tutti e le decisioni finali non possono essere messe in discussione. Gli equilibri interni si fondano sul

diritto di occupare una terra: è questa la causa principale scatenante le guerre tra villaggi. Per le regioni con importanti giacimenti (soprattutto coltan e diamanti), invece, il discorso è molto diverso: in questo caso entrano in gioco le forze straniere (soprattutto Usa e Cina, ma in passato anche Francia e Olanda) che finanziano e armano i villaggi e le tribù accanto ai giacimenti per conservare l’ordine stabilito. Le cronache hanno spesso riportato degli eccidi tra gli Hutu e i Tutsi in Rwanda, ma quasi mai hanno spiegato che la causa di tutto furono i finanziamenti prima concessi e poi ritirati dalla Francia, una sorta di doppio gioco che ha favorito l’armamento dei villaggi e il loro successivo annientamento. Anche le istitu-

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zioni che pian piano stanno cercando di accreditarsi sulla scena internazionale in realtà hanno dentro di sé molte contraddizioni: basti pensare all’Unione africana, una sorta di via mezzo tra l’Ue e l’Onu, lo scorso anno presieduta da Gheddafi, oppure al suo segretario generale, il sinoafricano Jean Ping, corporatura orientale e pelle nera, una sorta di personificazione dell’attuale situazione del continente. All’azione ufficiale dei governi, però, bisogna aggiungere anche l’attività, gratuita e volontaria, dei numerosi missionari presenti in Africa. Costituiscono una sorta di cooperazione non istituzionale e spesso, proprio per l’impegno diretto, sono i primi a pagarne le conseguenze. Non sono rari, infatti, i casi di missionari rapiti o assassinati proprio mentre svolgevano il loro lavoro di assistenza. Perché vengono uccisi? Semplicemente perché affiancano le tribù minoritarie del luogo in cui operano e dunque vengono visti come nemici dell’ordine costituito. A differenza dei cooperanti (che svolgono progetti che inglobano tutti, e quindi “non danno fastidio”) i missionari sono oggetto degli assalti delle tribù armate che, uccidendoli, intendono mantenere lo status quo. Cogliendo l’occasione del primo mondiale di calcio organizzato in Africa, non si poteva dunque non parlare del paese ospitante, il Sudafrica. Dopo le vergognose leggi razziali, per paura di tornare al vecchio ma anche per dimostrare agli occhi dell’Occidente che

l’apartheid è cosa passata, è in atto una sorta di “apartheid alla rovescia” ai danni dei bianchi di origine europea: ghetti in cui i bianchi vivono con i bianchi e le cui case sono sorvegliate con guardie armate ventiquattr’ore al giorno. Questo numero di Charta minuta, dunque, cerca di delineare un quadro della situazione africana, al di là degli stereotipi o preconcetti. Innanzitutto distinguendo le diverse Afriche presenti in Africa: mondo arabo, corno orientale, zona subsahariana, Sudafrica. Senza dimenticare che anche l’Italia, agli inizi del Novecento, ha cercato di colonizzare parte del continente. Soltanto recentemente ci siamo resi conto dell’errore e, trascorsi 50 anni dall’occupazione, siamo gli unici ad aver riconosciuto lo sbaglio ed aver in qualche modo ripagato il prezzo dell’invasore: all’Etiopia è stato riconsegnato l’obelisco di Axum, alla Libia è stato concesso un accordo in infrastrutture di 5 miliardi di dollari. La speranza è che anche altri paesi seguano l’esempio italiano e sappiano, con umiltà, riparare i loro errori storici.

L’Autore stefano caliciuri Giornalista professionista, già consulente per la comunicazione del ministero degli Affari esteri, lavora attualmente al ministero della Funzione pubblica. Collabora con Il Giornale, Il Secolo d’Italia e Ffwebmagazine. Ha pubblicato il volume Giovani nel merito per I tipi di Rubbettino Editore. .



Percorsi strategici

Il continente del XXI secolo Dal Piano di Strasburgo ai giorni nostri, passando per la lunga parentesi della Guerra Fredda, ecco come è cambiato il ruolo geopolitico dell’Africa e come può ancora evolversi, positivamente, in questo secolo. DI GIUSEPPE PENNISI 8

Nel delineare oggi i temi principali della geopolitica e della geoeconomica dell’Unione europea rispetto all’Africa a sud del Sahara (e nella nascente Unione africana), pochi ricordano come gran parte di queste tematiche venissero esaminate in un documento “europeo”, ossia non di singoli Stati del Vecchio Continente ma dell’Europa in via d’integrazione, quasi subito dopo la seconda guerra mondiale in un documento redatto da un gruppo di esperti su incarico del Consiglio d’Europa e presentato nel 1957 all’Assemblea parlamentare dell’organizzazione: il Piano di Strasburgo. Frutto di un’elaborazione complessa e non banale – una prima versione era stata redatta

nel 1952 –, aveva l’obiettivo di permettere «all’Europa ed ai Paesi aventi legami costituzionali con essa» di costituire, «tra la zona collettivistica e quella del dollaro, una terza zona economica capace di equilibrare gli scambi con le prime due». Un disegno, se lo si legge con gli occhi di oggi, lungimirante anche a ragione di alcune indicazioni specifiche: in breve, una duplice liberalizzazione degli scambi sia tra gli Stati africani sia tra questi ultimi e le potenze coloniali (allora quasi sul punto di passare il testimone), coordinamento delle politiche commerciali (anche tramite tariffe doganali preferenziali); contratti a lungo termine per alcune materie prime e prodotti di


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base; una banca euro-africana, modellata più o meno sulla Banca mondiale. In parallelo, il Consiglio d’Europa varava una direttiva intesa a «far formulare ogni proposta innovatrice capace di favorire lo sviluppo economico e sociale dell’Africa tramite una cooperazione su un piede di parità nel seno di una comunità euro africana». Tenendo conto del linguaggio dell’epoca – ad esempio il richiamo all’Euroafrique ipotizzata da Etienne Antonelli nel lontano 1924 – è chiara l’indicazione di un rapporto preferenziale tra un’Europa in via d’integrazione ed un’Africa allora formata in gran parte da colonie. Tale rapporto sarebbe dovuto essere la stella polare una volta avviato il

processo d’integrazione europea e compiuta l’indipendenza di numerosi paesi africani. I due percorsi iniziarono quasi contemporaneamente; nel 1958, cominciò ad operare l’Europa a sei con l’obiettivo di formare un mercato comune ed aggregare risorse e potenzialità in alcuni settori funzionali specifici (uso pacifico dell’energia atomica, metallurgia e siderurgia, sostegno dell’agricoltura) e nel 1960-64 gran parte dell’Africa a sud del Sahara assunse la piena indipendenza. Sappiamo come è andata. Il disegno del Piano di Strasburgo è stato ben presto abbandonato. Da un lato, l’Europa a sei strinse accordi di associazione (basati su


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zone di libero scambio parallele Guerra Fredda, ma anche di ma imperfette ed un Fondo di competizione tra i singoli Stati aiuti allo sviluppo) con i paesi europei pur uniti nella Comunicon cui aveva avuto “legami co- tà con sede a Bruxelles. stituzionali”. Da un altro, molti È interessante, ad esempio, sofferStati di nuova indipendenza marci sul ruolo quanto meno amnon si rivelarono all’altezza biguo della Francia. Amara per della situazione, come docu- avere perso alcune ex colonie (la mentò l’economista agrario Guinea ed il Mali si erano saldafrancese (simpatizzante per mente collocati nel blocco soviel’Africa) René Dumont. Da un tico) ambiva ad ampliare la proaltro ancora, nel disegno di un pria sfera altrove. Un tentativo, rapporto privilegiato tra l’Eu- peraltro, velleitario venne effetropa e l’Africa subsahariana, si tuato nell’Etiopia ancora imperiainserì la Guerra Fredda. La si- le dove sorse una mini-università tuazione non cambiò sostan- francofona e venne perseguito (tra l’altro con poca zialmente neanche quando a par- Durante la Guerra Fredda forza e scarsa coerenza) il piano di tire dal 1972 la rimpiazzare l’inComunità euro- l’Africa subsahariana glese con il francep e a s i a l l a r g ò diventò un “campo se come seconda progressivamente , in c lu d e n d o di battaglia” per i singoli lingua; allora, i principali consigran parte degli Stati europei glieri economici Stati che avevano od avevano avuto “legami costi- del governo erano britannici e, sotto le guisa di una missione tuzionali” con l’Africa. geografica (la Us Mapping Mission), gli americani vigilavano La Guerra Fredda Al momento dell’indipendenza sulle sorti del traballante impero. e negli anni immediatamente Più coerente e portato avanti con successivi, solamente pochi Stati maggiore determinazione, il tenafricani (esempi importanti sono tativo di soppiantare il Belgio stati la Guinea ed il Mali nella nella regione dei Grandi Laghi. costa occidentale e, in parte, la Pochi sanno che la capitale del Tanzania in quella orientale) Burundi (Bujumbura) è stata per cessarono il rapporto privilegia- anni una centrale dello spionagto con quelle che erano state le gio russo, americano, francese e loro metropoli o gli Stati euro- belga: dalle stazioni radar di Bupei titolari di “amministrazioni jumbura, infatti, si controlla lo fiduciarie” per conto delle Na- Shaba (un tempo chiamato Kazioni Unite. Nell’arco di un pa- tanga), una delle regioni mineraio di lustri, però, l’Africa a sud rie più importanti al mondo. del Sahara diventò non solamen- Ancora negli anni Novanta, i te campo di battaglia della Tutsi che, dopo trent’anni d’esi-


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lio in Uganda, hanno conquista- Ancora meno brillanti gli interto il Ruanda, il Burundi e lo venti in Madagascar nonostante stesso Congo, sono stati adde- il gruppo dirigente fosse non strati ed armati dai francesi, in africano ma polinesiano e parlascompetizione con gli americani se una lingua di ceppo indoneed i belgi (allora il blocco orien- siano e malesiano. Molto declamatoria ma poco eftale si era spappolato). Più astuto, per molti aspetti, il ficace la funzione dell’Unione ruolo della Cina. Privilegiava sovietica. I rapporti privilegiati soltanto in apparenza gli Stati con la Guinea ed il Mali si deteentrati nell’area socialista, ma riorano nell’arco di pochi anni. corteggiava (già negli anni Ses- L’Urss ottenne un ruolo imporsanta e Settanta) quelli con im- tante, per un periodo, in Somalia portanti risorse naturali (il Con- principalmente come riflesso di go allora denominano Zaire) e si quello che gli Usa avevano nelteneva alla larga da quelli che l’impero d’Etiopia; poco amati dalla popolazioavevano rapporti ne somala, artep r i v i l e g i a t i c o n Nello scacchiere fici di progetti l’Urss e l’Europa quanto meno biorientale a sociali- africano l’Europa slacchi (come smo reale (Etiopia ha perso il prestigio quello del matdopo la fine dell’imtatoio di Mogapero, Somalia, Mo- che aveva al momento discio), alzarono zambico, Angola). dell’indipendenza i tacchi non apA molti paesi dava un pacchetto d’aiuti bello e fat- pena Menghistu defenestrò Haito: stadio, campi sportivi, pisci- lé Selassié. Fornirono armi al rene e teatro all’aperto. A Tanza- gime socialista etiope, ma prefenia e Zambia aggiunse la ferro- rirono affidare una funzione povia Tam-Zam per trasportare il litica ed economica a quella che rame delle miniere ai porti sen- allora veniva chiamata Repubza giungere a quelli del Sudafri- blica democratica tedesca (molto ca e di colonie (allora portoghe- presente pure in Mozambico ed si). Non guardò molto per il Angola) nelle cui università pesottile costruendo per il filo- raltro molti leader africani hanno americano Zaire guidato da Mo- studiato. butu la “città ideale” di N’Selé In breve, nel perdurare della raggiungibile da Kinshasa in Guerra Fredda l’Africa subsahapoche ore di navigazione fluvia- riana è stata uno scacchiere a le. Modesti i risultati in attività macchia di leopardo dove, però, produttive: addirittura disastro- l’Europa in quanto tale ha prosi quelli all’Office di Niger gressivamente perso il prestigio (l’ente del Mali per il controllo ed il peso che pareva avere al modelle acque, l’irrigazione e, so- mento dell’indipendenza di molprattutto, la produzione di riso). ti Stati. A ciò hanno contribuito

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non solamente le differenti e divergenti strategie di vari Stati di quella che sarebbe diventata l’Unione europea ma anche la decisione, per taluni aspetti corretta ma fondaLa scarsa attenzione mentalmente ai progetti del Fondo rinunciataria, europeo di sviluppo ha delle delegasvantaggiato l’Europa zioni della Commissione europea nei vari Stati; hanno sempre avuto la consegna di occuparsi quasi esclusivamente di problemi tecnici e microeconomici dei singoli progetti, evitando quelli macroeconomici e delle politiche di sviluppo. In pratica, le rappresentanze del Fondo monetario e della Banca mondiale (pur con un orga12 nico molto ridotto rispetto a quello delle delegazioni della Commissione) incidevano sulla macroeconomia e sulle politiche di sviluppo molto di più degli europei in quanto tali. Non ha avvantaggiato l’Europa, inoltre, l’attenzione comparativamente scarsa alla valutazione dei progetti a valere sul Fondo europeo di sviluppo. Dopo la Guerra Fredda. Le determinanti della crisi

Dopo il crollo del muro di Berlino, la situazione nell’Africa subshariana (tranne poche eccezioni) non è migliorata ma peggiorata. Da un canto, si sono scatenate pandemie nuove (Aids) e sono mutate diventando più aggressive quelle vecchie (malaria, tubercolosi, oncocerco-

Dopo il crollo del Muro, la situazione di molti Stati peggiorò ulteriormente

si). Da un altro ancora, si sono scatenate quelle locali per motivi etnico-tribali od anche futili come l’esito di una partita di caccia. Ad un certo momento, erano in corso 24 guerre dichiarate e guerreggiate. Attualmente, la Somalia appare disintegrata, il


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Sudan afflitto da movimenti separatisti che 20 anni fa apparivano in via di pacificazione, uno degli Stati un tempo considerati più moderni, la Costa d’Avorio, diviso in due (dopo un conflitto), uno dei più ricchi (il Congo) di fatto dominato da Tutsi del

Ruanda (dopo ben 30 anni di esilio in Uganda). Nell’ultimo quarto di secolo, si sono succeduti studi su studi. Cerchiamo di comprendere le determinanti della crisi. L’economia di Le colonie inglesi tratta ossia si sono sviluppate l’impoveripiù di quelle francesi mento delle ridopo l’indipendenza sorse umane dovuto alla tratta degli schiavi. Considerata per decenni una delle ragioni principali del mancato sviluppo, la storiografia moderna documenta che, specialmente nella costa occidentale, la schiavitù era ampiamente praticata sia negli impe13 ri del Mali e del Benin sia nel regno degli Ashanti e dei Dogon sia in formazioni politiche minori: il lavoro (non la terra) veniva considerato il principale fattore di produzione e la schiavitù veniva praticata nei confronti di prigionieri di guerra e di debitori. Un secondo fattore è la distanza dalla moderna scienza e tecnologia. Un’analisi, ancora inedita dell’Università di Capetown, documenta, in primo luogo, che le ex colonie britanniche hanno riportato (negli ultimi 50 anni) un an- Nel modello britannico si massimizzava damento econolo sviluppo di capitale mico migliore umano di qualità delle ex colonie francesi e molto migliore di quello delle ex colonie belghe e portoghesi. Utilizzando una strumentazione statistica raffinata, lo studio quantizza che nel modello britannico, si massimizzava l’obiettivo di sviluppare capi-


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tale umano di alta qualità ad un’élite ristretta mentre in quello francese, pur rivolgendosi sempre ad un’élite ristretta, si massimizzava quello di sviluppare capitale umano “assimilato” (alla metropoli) ma di scarsa qualità. Ciò spiega le differenze in distanza di moderne scienze e tecnologia e specialmente di governo della cosa pubblica. Circa le determinanti della decolonizzazione di cinque lustri orsono, è ancora un lavoro inedito della Università di Capetown a dare una lettura nuova – come è noto solo in pochi Stati dell’Africa a sud del Sahara (il caso più significativo è la rivolta Mau Mau in Kenia) si è combattuto per l’indipendenza – al fenomeno. La natura del capitale umano trasferito dalle potenze coloniali spiega i processi di decolonizzazione, la loro tempistica ed i nessi con la ex metropoli dopo l’indipendenza. Spiega anche il proliferare di governi “proprietari” che consideravano la cosa pubblica come loro appannaggio privato. Altro problema è la perdita continua di capitale umano. Nonostante la vastissima disponibilità di risorse naturali il deflusso di capitale umano (essenziale per renderle produttive) è continuato dopo l’indipendenza. E prosegue ancora tanto che si parla di un vero e proprio brain drain dall’Africa subsahariana. Un lavoro interessante è stato prodotto all’inizio di gennaio dall’Istituto tedesco di analisi sui problemi del lavoro. Sulla base di dati dal 1990 al 2001 di emi-

grazione verso l’Ue, viene testata econometricamente l’ipotesi secondo cui è la formazione di capitale umano, oltre alle affinità con le metropoli di un tempo, ad orientare i flussi. Non solamente partono i più preparati (o quanto meno coloro che hanno i titoli di studio più elevati), ma le mete preferite paiono essere, in quest’ordine, il Portogallo, il Regno Unito, il Belgio, la Germania e l’Italia, con Francia e Spagna ultime ed ex aequo. L’esistenza di reti e di più alti tenori di vita e di maggiori opportunità contribuiscono al brain drain. Le prospettive

Altri articoli in questo fascicolo esaminano aspetti puntuali (come i rapporti tra Africa a sud del Sahara e Cina e la competizione in Europa per concessioni per l’uso di risorse naturali del continente). La Banca mondiale e la Banca africana per lo sviluppo pubblicano periodicamente indicatori di sviluppo dei singoli Stati e rapporti sulle storie di successo e sulle lezioni che da tali storie si possono apprendere. Sono note, poi, le attività di grandi imprese italiane (ad esempio, l’Eni) nella vasta regione. A conclusione di questo articolo sarebbe banale ripetere ciò che altri hanno già detto, fornendo una maggiore e migliore base empirica. Il rinnovato interesse per l’Africa subsahariana è di buon auspicio se vuole dire maggiori risorse finanziarie e tecniche dal resto del mondo ed un migliore governo interno di quelle natura-


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li disponibili. L’Africa a sud del Sahara può diventare un’area di crescita e di sviluppo del XXI secolo, dopo avere mancato gli appuntamenti del XX. Ci sono, però, due condizioni: ritornare (con gli aggiornamenti appropriati) al Piano di Strasburgo nel senso di dare una risposta europea non dei singoli Stati dell’Ue alla sfida del continente. Solo in questo modo, si potrà evitare una nuova Guerra Fredda e massimizzare l’impiego delle risorse disponibili, puntando sul capitale umano, il vincolo maggiore al decollo ed allo sviluppo dell’Africa subsahariana. Questo articolo riguarda i nessi tra Europa e Africa a sud del Sahara; i rapporti con l’Africa mediterranea presentano problematiche molto differenti. Ho lavorato per diversi anni sull’Africa subsahariana quando, nel 1967-1982, ero in Banca mondiale, nel 1986-89, alla Fao e alla metà degli anni Novanta venni invitato dalla Banca mondiale a collaborare al programma per la ricostruzione postbellica dell’Angola. In questo lungo arco di tempo, ho avuto molti amici africani veri e sinceri, in particolare Peter Gauchati, leader Mau Mau, imprenditore kenyota e a lungo segretario permanente all’Istruzione; Million Neqniq, ministro dello Sviluppo dell’Etiopia, Trevor Combe dell’Università dello Zambia e Kama Sywor Kamanda, consigliere economico del presidente dello Zaire. Ringrazio Charta minuta per avermi dato l’opportunità di tornare con la memoria a quegli anni ed ad amici molto cari. G.P.

Bibliografia Agbor J, Fedderke J-W, Viegi N (2010) A Theory of Colonial Governance University of Capetown, in corso di pubblicazione. Agbor J (2010) The Economic Origins of 20th Century Decolonisation in West Africa University of Capetown, in corso di pubblicazione. Tien B. (2010) Brainy Africans to Fortress Europe: For Money or Colonial Vestiges? Iza Discussion Paper No. 4615 Dumont R. (1962) L’Afrique Noire est mal partie Parigi, Du Seuil. El Badawi I, Kaltani L, Soto R. (2010) Aid, Real Exchange Rate Misalignment and Economic Performance in Sub-Saharan Africa World Bank, Economic Development Institute. Fedderke, J-W. , Viegi N., Agbor J. (2010): Does Colonial Origin Really Matter for Economic Growth in Sub-Saharan Africa? University of Capetown, in corso di pubblicazione. Pennisi G. (1967) L’Europa e il Sud del mondo”, Bologna, Il Mulino. Thorton J. (2010) L’Africa e gli africani nella formazione nel mondo atlantico”, Bologna Il Mulino.

L’Autore giuseppe pennisi Docente di economia all’Università europea di Roma e all’Università di Malta.

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Non abbiamo bisogno del vostro paternalismo

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l presidente senegalese è uno dei protagonisti della nuova Africa, un continente che ha deciso di far capire all’Occidente che non ha bisogno di elemosina ma di infrastrutture, regole, concreti aiuti allo sviluppo. Senza questo cambio di prospettiva, la Cina è sempre più vicina. DI ABDOULAYE WADE


L’INTERVENTO Abdoulaye Wade

Discorso tenuto in occasione del convegno Italy&Africa Partners in Business organizzato a Roma il 25-26 giugno 2009 dal ministero dello Sviluppo economico. Sono molto felice di essere oggi qui insieme a voi in questo incontro sulla cooperazione fra l’Italia e l’Africa. Alcuni, non solo qui ma anche in Africa, potrebbero stupirsi della mia presenza qui, visto che sono un capo di Stato, ma ho scelto liberamente di venire perché dietro le formalità protocollari ci sono le realtà e gli interessi degli Stati. Sono quindi molto contento di essere qui con voi e di aver accettato l’invito del vice presidente Tajani che ho conosciuto ad Addis Abeba in qualità di rappresentante dell’Unione europea, occasione in cui l’ho sentito parlare un linguaggio nuovo rispetto a tutti quelli che lo avevano preceduto. Abbiamo visto un uomo che finalmente aveva compreso quello che volevamo e non quello che gli altri vogliono per noi. Ha capito che la nostra priorità, perché anche noi abbiamo una nostra scala di priorità, sono le infrastrutture. Ed è la ragione per cui ho voluto accettare, in qualità non tanto di presidente del Senegal ma di coordinatore del settore infrastrutturale del Nepad, il suo invito e venire a vedere quali benefici l’Africa può trarre dalla nuova concezione dell’Unione europea in termini di infrastrutture. Sono quindi venuto qui in seduta di lavoro, infatti dal punto di vista del protocollo io per il presi-

dente della Repubblica Italiana e per il presidente del Consiglio Italiano, che saluto e che rispetto e che vedrò presto visto che Berlusconi mi ha gentilmente invitato a titolo personale a partecipare al G8, non esisto qui in questo momento. Sono venuto qui per discutere di problemi molto pratici, perché per me il tempo è prezioso. Vorrei ringraziarvi e ringraziare i nostri amici che hanno voluto ricevermi e darmi la parola in qualità di coordinatore delle infrastrutture e di altri settori come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’energia e l’ambiente del Nepad. Il Nepad è il nuovo partenariato economico per lo sviluppo dell’Africa, in inglese New Partnership of African Development, da cui la sigla Nepad. Noi africani abbiamo riflettuto per definire come vogliamo sviluppare l’Africa a partire da quelli che chiamiamo settori, che non sono i settori economici classici, quelli che chiamiamo i settori di Collins-Clarck, ovvero l’agricoltura, l’industria e il terziario, bensì dei settori di determinate attività economiche fondamentali che chiamiamo filiere. Abbiamo discusso a lungo e il risultato è stata la definizione di otto settori essenziali per lo sviluppo. In primo luogo le infrastrutture, a seguire l’istruzione, la sanità, l’agricoltura, l’ambiente, l’energia, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e infine le esportazioni, fra cui il turismo. Abbiamo classificato questi otto settori in settori direttamente produttivi,

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come l’agricoltura o l’industria, e settori “irriganti” ovvero settori i cui effetti si diffondono in tutta l’economia, come ad esempio le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’energia, ecc. Tutto questo Le infrastrutture sono per farvi comla priorità prendere che per innescare la rinascita abbiamo defidell’Africa nito un percorso di sviluppo razionale. Perché per troppo tempo i nostri amici europei hanno definito quelle che erano le loro priorità e per loro la priorità era l’Aids, la malaria, l’immigrazione. Per noi invece la priorità va alle infrastrutture. Se anche non ci fosse più Aids, più malaria, l’Africa rimar18 rebbe un continente sottosviluppato. Qualche giorno fa in Germania ho iniziato dicendo “Per favore, non cominciate a dire che ci aiuterete a lottare contro l’Aids o la malaria”. L’Africa non è malata! L’Africa è sana. Esistono delle malattie come ne esistono in tutto il mondo. E invece si parla sempre e solo di Aids, di malaria, di tubercolosi. Vorrei che fosse chiaro che non sono venuto qui per questo. Bisogna pensare anche L’Europa non deve alle persone sapensare all’Africa solo ne, che lavoraper le malattie, ma deve no nell’agricoloccuparsi dello sviluppo tura, nelle industrie. Certamente le malattie devono essere curate, bisogna portare avanti la ricerca scientifica, ma non bisogna pensare solo a questo: io non sono stato eletto per guarire i malati. Sono stato eletto per svi-

luppare un paese, per occuparmi dei malati, ma anche per occuparmi delle persone sane, che sono numerosissime. Queste visioni unilaterali e paternalistiche non corrispondono alla nostra visione. Se pensate che, dicendo questo io trascuro la sanità, vi assicuro che vi state sbagliando. Io spendo il 40% del bilancio per l’istruzione ed è l’unico paese che faccia una cosa del genere in tutto il mondo. Quando sono andato in Giappone, prima del mio intervento ho discusso con il Primo Ministro e quando gli ho detto quanto spendo per l’istruzione lui mi ha detto che il Giappone spende il 30% del bilancio nell’istruzione, ed è comunque uno dei più importanti paesi del mondo! Ma se noi faccia-


L’INTERVENTO Abdoulaye Wade

mo questo è perché sappiamo che è sviluppando il fattore umano che si combattono anche le malattie. Perché le malattie colpiscono soprattutto i poveri? Persino in Africa, le persone colpite dall’Aids, dalla malaria o dalla tubercolosi sono soprattutto i poveri. Io spendo il 12% del bilancio dello Stato per la sanità: non è sicuramente sufficiente, ma ho voluto privilegiare l’istruzione perché so che una parte di questa spesa andrà comunque nella sanità. Torniamo a parlare delle infrastrutture: quali infrastrutture? Purtroppo fino ad oggi in Africa abbiamo avuto delle esperienze negative per quanto riguarda le infrastrutture. Si costruisce una strada, bella, la si inaugura, ma quando arriva la stagione delle

piogge, perché noi abbiamo due stagioni, di cui una è appunto quella delle piogge, la strada è già deteriorata e si ritorna a utilizzare la pista. È per questo che dico che preferisco 10 km di strada fatta coSolo sviluppando me le avete voi il fattore umano in Europa, si potranno combattere piuttosto che anche le malattie 1000 km di strada che comportano una continua spesa di manutenzione. Se continueremo ad accettare questo tipo di cose, in futuro l’Africa sarà un continente di strade dissestate. Non è possibile continuare a utilizzare la maggior parte delle nostre risorse per la manutenzione delle strade. È economicamente 19 assurdo. Costruite strade di qualità, così come facciamo in Senegal. Da quando sono stato eletto ho vietato al ministro delle Infrastrutture di costruire strade che non siano della migliore qualità. E ho discusso con il delegato dell’Unione europea, con il presidente della Banca mondiale all’epoca, ma loro mi hanno detto che sono i paesi africani a presentare i progetti che loro approvano, e probabilmente hanno ragione perché talvolta In Africa gli africani hanle persone colpite no delle aspetdall’Aids o dalla tative trop po malaria sono i poveri basse e non cercano di ottenere la migliore qualità possibile. Io sono diverso, io voglio la migliore qualità in qualsiasi settore. Abbiamo scelto di sviluppare le infrastrutture perché questo è il vero problema del nostro conti-


L’INTERVENTO di Hannah Tetteh*

Ghana: la stabilità favorisce gli investimenti

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Grazie moderatore, grazie signor Celi, colleghi, ministri, spettabili signore e signori, prima di tutto vorrei ringraziare il governo italiano per l'opportunità che ci ha offerto di partecipare oggi a questo forum così importante su Italy & Africa Partners in Business. Riteniamo che questo sia estremamente importante e significativo perché non tutta l'Europa sembra essere in grado di comprendere le potenzialità e le promesse che ci sono in Africa e ci complimentiamo con voi per lo sforzo compiuto nel riunirci e nell'aver esposto alla comunità economica italiana le opportunità che ci sono nel nostro continente. Vorrei anche portarvi il saluto del nostro presidente, Sua Eccellenza professor John Evens Ata Mills, entrato in carica a gennaio 2009. Ora vorrei darvi qualche informazione sul mio paese, il Ghana. Siamo stati il primo paese subsahariano ad ottenere l'indipendenza nel 1957 e negli ultimi 18 anni siamo stati forse l'unico paese subsahariano in grado di tenere cinque elezioni governative democratiche consecutive e due partiti politici che si sono alternati al governo e tutto questo si è svolto in un clima pacifico e democratico. Questo vi dice molto sulla stabilità del Ghana. Nell'arco dello stesso periodo, ma forse anche negli ultimi 25 anni, abbiamo assistito ad una costante crescita economica dal 5 al 7% annuo. La nostra economia si è rafforzata e si è estesa, come pure sono aumentate le opportunità per ogni tipo di investimento. Siamo principalmente un paese esportatore di cocco e l'oro è forse il secondo materiale che esportiamo e abbiamo sviluppato un settore non tradizionale che si dirige principalmente verso mercati europei, ossia il settore della frutta tropicale, della verdura e dell'orticultura. Ma negli ultimi due anni siamo stati in grado di fare qualcosa di diverso, abbiamo scoperto dei giacimenti di petrolio e gas, in base alle informazioni che abbiamo a disposizione, è la scoperta più interessante dopo quella in Guinea Bissau e questo offre l'opportunità di trasformare la nostra economia completamente. Per questo motivo, abbiamo stabilito l'obiettivo per il 2020 di diventare un paese a medio reddito. Non vogliamo che le persone continuino a pensare all'Africa come a un paese esportatore esclusivamente di materie prime, non vogliamo che pensiate che l'Africa a cui dare solo elemosina, perché in Africa e in Ghana ci sono molte opportunità. Esistono opportunità per uomini d'affari che vogliono trarre vantaggio dai consumatori del nostro continente e che sono pronti a venire e a investire in Africa per produrre beni e servizi per i consumatori africani e per l'estero. Esistono opportunità per coloro che vengono e intendono fare business in modo etico: non siamo interessati a coloro che praticano falsa fatturazione e utilizzano scorciatoie e che continuano ad alimentare il ciclo della corruzione, che ha creato difficoltà in molti paesi del nostro continente. Siamo alla ricerca di partner commerciali con cui instaurare un rapporto di fiducia e crediamo che gli italiani abbiano dimostrato proprio questo e per questo vi siamo molto grati. Dobbiamo inoltre esprimere la nostra gratitudine al governo italiano, in modo particolare per gli aiuti economici provenienti dal settore privato per le piccole e medie imprese ghanesi: grazie a questi aiuti sono stati messi a disposizione 10 milioni di euro che finanzieranno i più importanti progetti d'impresa ghanese e di recente la somma a disposizione è duplicata così ora abbiamo 20 milioni di euro. Concorderete con me nell'affermare che, se finora è stato un successo, è possibile fare ancora di più. Vi invitiamo ad approfittare delle opportunità che il nostro paese vi offre, vorremo aiutarvi a trovare la strada che porta ad Accra e a farvi capre che, quando venite in Ghana passate per la porta dell'Africa occidentale. Il nostro impegno è assicurare che il nostro paese funzioni. Siamo costantemente impegnati a


L’INTERVENTO Abdoulaye Wade

nel processo di sviluppo. In Ghana è necessaria una settimana per registrare un'attività ma stiamo lavorando per ridurre l'intera procedura a due giorni; ci sono ancora difficoltà nel settore dei trasporti e della logistica che necessitano di ulteriori investimenti ma siamo impegnati anche su questo fronte. Abbiamo zone economiche speciali e zone per il libero scambio e ne stiamo creando una nella città di Sekondi-Takoradi, città dove abbiamo giacimenti di petrolio e gas. Vogliamo concentrarci su questa zona posizionata nella valle del petrolio e del gas perché crediamo che sia il settore che abbia le potenzialità per creare altre attività commerciali per la piccola e media impresa ghanese. Vi ho già detto che i nostri primi prodotti di esportazione sono il cocco e l'oro, ma non vogliamo limitarci ade essere esportatori di materie prime: siamo molto grati alle società che vengono per investire nella lavorazione del cocco e vi invitiamo a fare lo stesso perché crediamo nella trasformazione agricola e industriale e vogliamo garantire il processo che allontani il nostro popolo dalla povertà. Vogliamo investire anche nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e con il ministero del Commercio dell'industria e la Banca mondiale abbiamo realizzato un progetto per creare un parco tecnologico. Ma vorremmo fare ancora di più perché crediamo che, se vogliamo essere la porta verso l'Africa occidentale dobbiamo assicurare che la tecnologia e i servizi finanziari funzionino. Per concludere, quando il nostro primo presidente fece il suo discorso inaugurale disse che l'indipendenza del Ghana non aveva senso senza l'indipendenza del resto dell'Africa. Riteniamo che gli sviluppi in campo economico e sociale debbano essere fermamente ancorati sia all'integrazione regionale a livello della comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale sia all'integrazione continentale a livello dell'Unione africana. Dunque quando investite in Ghana, state investendo anche nel resto dell'Africa occidentale e aiuterete non solo la popolazione ad uscire dal tunnel della povertà ma contribuirete anche a creare opportunità che solo in Africa possono esistere una volta che le nostre risorse siano sfruttate nel modo migliore. *Ministro dell’Industria e commercio della Repubblica del Ghana ripreso dagli atti del convegno Italy & Africa Partners in Business del 25-26 giugno 2009 a Roma

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nente. Parlando agli americani ho chiesto: “Cosa hanno fatto i vostri antenati quando sono arrivati in America nel XIX secolo? Hanno per caso fatto dei calcoli per stabilire la redditività delle strade o delle ferrovie che dovevano realizzare fra l’est e l’ovest?”. Hanno semplicemente costruito strade e ferrovie: le attività economiche sono venute dopo. Anche voi europei avete sviluppato strade nazionali e internazionali. Certo per voi la situazione è differente e speciale perché tutto quello che avete oggi è il prodotto di una storia millenaria, che ha inizio con i romani. Per noi in Africa serve sviluppare delle strade che seguano le nostre scelte razionali di sviluppo. Non è che non ci siano strade, ma le strade costruite nel XIX secolo erano strade che servivano essenzialmente ai colonizzatori, quindi strade che portano dalle miniere e dai luoghi di produzione ai porti: ed è così in tutta l’Africa. Anche le ferrovie sono scarse: in ben 13 paesi le ferrovie non esistono e non sono paesi piccoli. Oggi dobbiamo quindi passare da un tipo di razionalità ad un altro e bisogna costruire tutto. Non parlerò degli altri settori, mi limiterò a parlare di quello delle infrastrutture. Quando occorre costruire tutto da zero è ovvio che ci sia bisogno di tutto l’aiuto possibile. Con l’Europa abbiamo avuto delle relazioni contraddittorie: la schiavitù, la colonizzazione, ma queste sono cose note che devono essere superate. Lo sapete bene voi europei,

voi italiani, visto che la guerra mondiale contro la Francia e la Germania non vi ha impedito di creare un insieme che si chiama Unione europea per andare insieme verso la creazione di una grande comunità. E anche noi dobbiamo farlo. Pur rispettando il dovere delle memorie, ci stiamo impegnando nella creazione di una vasta comunità africana: abbiamo gli Stati Uniti d’Africa, ma cooperiamo con gli altri paesi, e in primo luogo con l’Europa. Spero di farmi capire bene perché talvolta le mie parole non vengono interpretate nel modo corretto: io non dico che l’Europa non aiuta l’Africa; non lo direi mai. Nel caso ad esempio del mio paese o della Costa d’Avorio gli investimenti francesi sono quelli più importanti, tuttavia si sta verificando un cambiamento, di cui vi chiedo di essere coscienti. Noi siamo nella cooperazione francese e quando abbiamo avuto bisogno


L’INTERVENTO Abdoulaye Wade

di costruire un’autostrada ci siamo rivolti alla Banca mondiale in Francia e alla Banca africana di sviluppo che partecipava a questo progetto, ma i cinesi ci hanno detto che avrebbero costruito loro l’autostrada senza problemi. Non lo abbiamo fatto, ma non a causa dei nostri rapporti con l’Europa, non abbiamo affidato questo lavoro ai cinesi perché avevamo altre priorità che in questo modo non potevano essere soddisfatte. Non dico quindi che l’Europa non aiuta l’Africa perché sarebbe come cambiare la realtà, dico semplicemente che oggi esistono delle realtà di cui siamo obbligati a tenere conto. L’Europa non è più sola. Abbiamo creato un mondo di libero scambio con l’Ocse, che sorveglia come un grande gendarme tutto il mondo. Bisogna smantellare le barriere doganali, bisogna liberalizzare le esportazioni: sul piano di principio è tutto ve-

ro, ma l’Europa non rispetta le regole. Il commercio è come un gioco e giocare è bello, ma bisogna in ogni caso rispettarne le regole, e ci sono dei giocatori che non lo fanno. L’Europa stessa, che ha creato queste regole, non le rispetta: ha istituito delle sovvenzioni ai propri prodotti che rendono i nostri prodotti non competitivi in Europa, e questo non è accettabile! Non si può competere con prodotti che ricevono delle sovvenzioni. Io sono un liberale in economia e sono quindi contro le barriere doganali e contro le sovvenzioni ed esigo che l’Europa rispetti le regole: l’ho detto in tutte le sedi, negli Stati Uniti, al G8, ovunque ne abbia avuto occasione. Ma non è tutto: esistono degli accordi fra l’Europa e l’Africa chiamati Epa (Economic partnership agreements) che dovrebbero permettere di costruire delle relazioni economiche fra i paesi Acp, Africa, Caraibi, Pacifico, e l’Unione europea. Innanzitutto, signor Commissario, vorrei chiederLe di dire ai nostri amici europei che personalmente non comprendo le ragioni per cui si continua a mettere insieme l’Africa, i Caraibi e il Pacifico: sono dei paesi che rispetto molto, presto farò un viaggio nei Caraibi, ma questo non è un buon motivo per metterli tutti nella stessa categoria. In questo modo si generalizza e ci si allontana dalla realtà. Esistono realtà africane che non hanno niente a che vedere con la Giamaica o Haiti. E gli europei, per semplificare le cose, hanno deciso

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di avere come interlocutore gli di commerciali, ma la nostra priAcp: è molto semplice, ma si ma priorità non è il commercio, tratta di realtà molto diverse è lo sviluppo. Per commerciare l’una dall’altra. Occorre suddivi- bisogna avere dei prodotti fabdere: lavorate con l’Africa, lavo- bricati in Africa in condizioni di rate con i Caraibi, lavorate con i concorrenza. Gli Stati Uniti ofpaesi del Pacifico, ma prendete frono ad alcuni paesi, fra cui il l’Africa come una realtà diversa Senegal, la possibilità di esportada quella di questi altri paesi, al- re alcuni prodotti senza tariffa trimenti resterete sempre lonta- doganale e in quantità illimitata. ni dalle realtà locali. Chiudo Ebbene, dal Senegal non abbiaquesta parentesi con la certezza mo mai potuto esportare uno soche Lei saprà farsi interprete del- lo dei prodotti elencati. È inutile offrire alle persone cose che non le mie parole. Per tornare dunque alle relazioni possono realizzare. Anche l’Eurofra l’Europa e l’Africa, queste so- pa, quando parla di reciprocità, di aprire le fronno fondate su basi tiere, parla di costoriche, soprattutto L’Ue non è più l’unico se senza senso per il Senegal sono perché l’Africa almeno tre secoli o partner commerciale non può esporanche più, ma oggi che abbiamo: tarvi nessun prola realtà è che l’Eudotto, mentre gli ropa non è più sola: esistono anche Cina, italiani possono la Cina, l’India, in India e Brasile produrre qualsiaparte il Giappone, il Brasile sono ormai presenti sui si prodotto ed esportarlo in Africa. Non è quindi realistico né mercati africani. Per quanto riguarda poi gli ac- economico ed è per questo moticordi di partenariato, abbiamo vo che diciamo che questi accordovuto superare numerose diffi- di devono essere prima di tutto coltà perché ci siamo rifiutati di degli accordi di partenariato ecofirmarli: così come ci sono stati nomico e non commerciale. Il presentati a Bruxelles, gli accordi commercio potrà essere incluso Epa erano inaccettabili e ho deci- successivamente. Se decidessimo so di rifiutarli. Si parla di colla- di fare degli scambi eliminando borazione Europa-Africa, di libe- le barriere doganali il risultato ralizzazione degli scambi, di sarebbe che i paesi africani che apertura delle frontiere e di ricavano una buona parte delle smantellamento delle barriere loro risorse dai diritti doganali doganali, ma non è possibile fare (fino all’80%) sui prodotti eurotutto questo brutalmente, biso- pei finirebbero per pagare loro gna farlo gradualmente e occorre stessi i loro sviluppi. La risposta definire le modalità con cui arri- a questo problema, secondo l’Euvarci. Il primo problema era che ropa, sarebbero le compensazioni ci venivano proposti degli accor- finanziarie. Se noi lasciassimo en-


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trare i prodotti europei abbassan- nanziare questi progetti. In quedo le tariffe doganali, la conse- sto modo, gli accordi economici, guenza sarebbe la distruzione di gli Epa contro cui ho combattuto alcune industrie in Africa. E si stanno trasformando in quello questi effetti economici secondo che chiamiamo un “programma l’Europa potrebbero essere com- di sviluppo degli Epa”. Io invece pensati con il denaro: è ovvio che propongo una nuova denominaeconomicamente questo sistema zione di questi accordi, che senon può funzionare. Il Senegal condo me dovrebbero chiamarsi avrebbe tanti di quei problemi Dpa, ovvero Accordi di partenache il denaro ricevuto come com- riato per lo sviluppo (Developpensazione sarebbe speso solo per ment partnership agreements) cercare di risolverli e non per invece di Accordi di partenariato creare qualcosa. È per questo economico che è troppo generico motivo che abbiamo rifiutato di e ha un’accezione ormai negatifirmare gli accordi e abbiamo va. E chiedo a Lei che è così sensibile alle problechiesto invece aiumatiche dell’Afrito per sviluppare Finalmente l’Europa ca di trasmettere alcune nostre attiquesto messaggio. vità affinché pos- ha deciso di negoziare Io ho già fatto s i a m o d a v v e r o con le comunità questa proposta esportare di più in ma può darsi che Europa. Non è regionali e non sia entrata da un una questione di con l’Unione africana orecchio e uscita compensazione. Oggi, dopo una serie di negozia- dall’altro. Ecco dunque quello ti, abbiamo raggiunto un accor- che stiamo facendo dal punto di do: l’Europa ha scelto di negozia- vista economico. re, non con l’Unione africana, Il secondo punto di discussione è creando così una rottura del pa- stato lo smantellamento delle tarallelismo delle forme (Unione riffe doganali. L’Europa ci ha europea con Unione africana), ma chiesto di indicare un elenco di con le comunità regionali. Si è prodotti, detti “sensibili” sui deciso così e anche se non ho ap- quali non vogliamo riduzione prezzato questo approccio ho do- delle tariffe doganali ed è quello vuto comunque rispettarlo. Il Se- che stiamo facendo: stiamo selenegal fa parte della comunità zionando questi prodotti e la didell’Africa occidentale. Ci è stato scussione sta procedendo. Inoldetto di selezionare i nostri pro- tre, alle quattro categorie di libegetti: ogni paese ha selezionato i ralizzazione la Nigeria ne ha vopropri e il Senegal ne ha selezio- luta aggiungere una quinta che è nati 33, dopodiché verrà presen- quella del petrolio. Se tutto va tato all’Unione europea un “pac- bene, dovremmo essere in grado chetto” su cui si discuterà e di firmare gli accordi già durante l’Unione europea ci aiuterà a fi- questo mese di giugno. Se avessi-

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mo firmato gli accordi così come erano il 31 dicembre scorso, perché c’erano paesi come la Costa d’Avorio che erano disposti a firmare, i paesi i cui prodotti essenziali e le cui risorse derivano dall’esportazione di caffè, di cacao, sarebbero stati strangolati e obbligati a firmare. Oggi, per fortuna, grazie alla contestazione tutti insieme potremo firmare degli accordi comuni a tutti i paesi dell’Africa occidentale e potremo rispettare il nostro senso della verità. Tutto questo per dire che esiste un problema. Adesso vorrei parlare dell’Europa per dire semplicemente che l’evoluzione in atto in Europa ci preoccupa non poco. Non tanto le misure che in Europa vengono adottate: l’Europa è un grande paese che ha tutto il diritto di scegliere i propri orientamenti, ma il mondo in cui viene affrontato il problema dell’immigrazione. E qui mi sento in dovere di ringraziare l’Italia e la popolazione italiana. La prima colonia di immigrazione dal Senegal è l’Italia, grazie all’ospitalità degli italiani, anche se esistono comunque dei problemi. Forse perché il vostro è un paese di esportazione e di emigrazione. A seguire ci sono la Francia e la Spagna. Io però sono contro l’immigrazione, non contro quella che ha come unica motivazione il gusto di partire all’avventura. Sono millenni che l’uomo si sposta da un paese all’altro ed è sicuramente libero di farlo. Ma quando gli uomini sono obbligati a partire perché hanno fame, perché non


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hanno un lavoro, è quello che Spagna, vengono rimpatriati sennon funziona. In questi casi la za esitazione con un nostro aereo. soluzione non è da ritrovarsi nel La sola cosa che chiedo è che vostro paese ma nel nostro. È nel queste persone vengano rispettanostro paese che dobbiamo creare te perché chi va in cerca di un lalavoro, sviluppo e impiego per voro non è un malvivente. Al tutti quelli che vorrebbero torna- tempo stesso, la Spagna ha bisore a casa loro, e vi assicuro che gno di mano d’opera, per cui absono davvero numerosi quelli che biamo realizzato un sistema di fanno richiesta di rientrare in Se- formazione e di selezione: la Spanegal. È dunque in questo senso gna ci comunica in quale settore che bisogna lavorare e modificare hanno necessità di personale, noi la nostra cooperazione, soprattut- li formiamo su richiesta e li to in Europa, affinché gli africani mandiamo a lavorare in Spagna che non vogliono partire possano con un contratto regolare. Oggi rimanere nel loro paese. Il pro- fra i 35 e i 40mila senegalesi lavorano normalgetto di cooperamente in Spagna, zione con la Fran- È nel nostro paese non sono clandecia non è molto stini e spesso ritorvalido: gli “aiuti che dobbiamo creare nano nel loro paeal ritorno” sono lavoro e sviluppo se. Non bisogna solo filosofia, pergiudicare male la ché gli uomini per tutti quelli che Spagna per il rinspendono tutto vorrebbero tornare vio degli immiquello che viene dato loro prima di ritornare e grati clandestini perché in realtà non riportano nulla nel loro pae- sono io che ne ho la responsabilise. Al contrario, la particolarità tà: perché io ho bisogno dei miei della nostra cooperazione con la giovani. La Spagna è stata coSpagna è che gli spagnoli hanno struita da giovani come voi. Non capito che io non sono a favore molto tempo fa era un paese in dell’immigrazione. È per questo via di sviluppo come il Portogalmotivo che in otto giorni di di- lo, ma hanno lavorato. Senza scussioni con Zapatero siamo dubbio anno avuto il supporto riusciti ad arrivare ad un accordo dell’Unione europea, ma anche che ha lo scopo di combattere in noi, lavorando e cooperando con modo risoluto l’immigrazione altri paesi riusciremo a costruire selvaggia. La Spagna ci ha aiuta- l’Africa. Io sono sicuro che ti: noi abbiamo dei battelli e de- l’Africa può essere costruita e che gli elicotteri e perseguiamo le si arriverà a un momento in cui imbarcazioni e i trafficanti che le anche noi attireremo persone da organizzano, li prendiamo e li ri- paesi meno sviluppati. In realtà portiamo nel nostro paese. E in Senegal sta già accadendo: cerquelli che invece riescono, non to, siamo un paese che ha ancora importa come, ad arrivare in molti poveri, molta disoccupa-

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zione, ma molte persone vengono gna con l’Africa occidentale. Si è in Senegal da altri paesi del- trattato di una vera e propria sel’Africa perché il Senegal si sta duta di lavoro, non di formalità e sviluppando al punto che il red- discorsi, durante la quale abbiadito è superiore a quello di altri mo vagliato tutte le opportunità paesi. Io dico ai nostri giovani che possono derivare dalla coopeche non devono fuggire per sal- razione con la Spagna. La Francia varsi, è una battaglia e devono è un’altra questione, esistono rerestare per battersi per la costru- lazioni molto particolari con noi, ma voglio parlare in particolare zione dell’Africa. È per questo che comprendo dell’Italia. C’è stato un momenmolto bene l’Italia, comprendo le to, subito dopo l’indipendenza, pressioni che sono state fatte in cui la cooperazione con l’Italia dall’Europa su gli italiani perché era disastrosa, la cooperazione liberalizzano troppo e troppe si- pubblica mal gestita, e voi tutti tuazioni sono considerate norma- lo sapete bene, con l’operazione Mani Pulite, e so li. Siete in Europa e di dire spesso conon potete fare co- I cinesi e gli indiani se che non si dome volete, sopratvrebbero dire. tutto per quanto ri- ci danno i macchinari, Anche la coopeguarda l’immigra- i veicoli e i trattori razione con il zione. Voglio cosettore privato munque ribadire con pagamenti non è mai stata che siamo partner, dilazionati a 20 anni molto felice. All’immigrazione senegalese in Italia è in una buona cuni anni fa abbiamo avuto situazione e beneficia anche della l’esperienza di aziende italiane cooperazione diretta delle società che hanno realizzato lavori pessiitaliane e dei sindacati. La coope- mi in Africa: strade che si sono razione da parte del settore priva- rovinate subito, ponti crollati. to è senz’altro un fattore molto Eppure tutti sanno che l’Italia è il paese dei costruttori, è la paimportante. Questo è quello che volevo dire tria dell’architettura, che gli itariguardo all’Europa. Ora vorrei liani sanno costruire ottimi edifiinvece parlare dell’Italia. L’Italia ci, mi dicevate poco fa che queè un paese europeo come gli al- sto edificio è stato costruito decitri, con le sue relazioni con ne di secoli fa. Ma non basta fare l’Africa, così come la Francia, degli edifici di buona qualità, è l’Inghilterra, la Spagna. Tre gior- necessario anche costruire buone ni fa ero ad una riunione con Za- strade. Dobbiamo quindi creare patero con l’Ecowas (Economic una nuova cooperazione dell’Itacommunity of west african sta- lia con l’Africa: bisogna trovare tes) durante la quale ha confer- un nuovo approccio e la cosa più mato la sua intenzione di inten- importante è quindi sapere quali sificare la cooperazione della Spa- sono le possibilità. Nel campo


L’INTERVENTO Abdoulaye Wade

dei finanziamenti nei settori che strutturali nella concezione stessa ho indicato, ad esempio in quello della cooperazione, sarà difficile agricolo in cui ho lanciato la riuscire a guadagnare quote di Goana, la Grande offensiva per mercato. I cinesi e gli indiani ci l’agricoltura e l’indipendenza che danno infatti i macchinari, i veiè stata presa molto sul serio dal coli, i trattori che ci servono (ne ho ordinati 100 in India) con pagoverno italiano. Oggi l’Europa è un grande mer- gamenti dilazionati su 15 o 20 cato di prodotti orticoli: società anni, cosa che gli europei non private francesi e spagnole si so- fanno. Non parlo dell’Unione euno installate in Senegal e produ- ropea, che può fare donazioni o cono ed esportano questi prodot- crediti a lungo termine, parlo di ti. Abbiamo la terra, l’acqua e imprese private e, forse mi sbaanche i lavoratori. Anche l’Italia, glio, ma le aziende europee non che ha grandi capacità nel campo sono pronte a operazioni di quedelle culture orticole e frutticole, sto tipo. Il credito europeo in genere si pone nel può senz’altro tromedio termine e vare un proprio Il credito europeo gli africani in quespazio in questo sto modo non hansettore. Sono stato in genere si pone no la possibilità di invitato dalla mia nel medio termine e pagare. Gli asiatici amica, la signora non sono certo dei Moratti, a Milano, gli africani non hanno dove ho trovato la possibilità di pagare benefattori e fanno questo perché hanimprenditori italiani che ho invitato a venire e a no una strategia, cosa che l’Eurolavorare in Senegal. Mi ha colpi- pa, mi dispiace dirlo, non ha. I to la differenza di produttività cinesi e gli indiani investono sul fra la produzione di riso in Italia futuro attraverso le macchine e e quella in Senegal: anche se dei sugli uomini: dovreste vedere la produttori italiani venissero in formazione che offrono agli afriSenegal per produrre per la loro cani. Sono andato in Cina e ho azienda, ci sarebbe già un trasfe- ricevuto 8 senegalesi. Tutti starimento di conoscenze e di tec- vano ricevendo una formazione nologia a favore dei produttori nel campo della finanza e del maafricani. Invito quindi gli im- nagement, nessuno di loro studiaprenditori italiani di questi set- va letteratura o sociologia. La Citori a venirsi ad installare in Se- na offre agli africani corsi di formazione con un impegno finannegal e in Africa. Bisogna comunque tenere pre- ziario davvero rilevante. Sul piasente che in molti settori, come no industriale quindi la qualità quello industriale e dei macchi- dei prodotti e dei prezzi dell’Eunari bisogna affrontare la concor- ropa non è competitiva, sicurarenza della Cina, dell’India e, a mente non sui prezzi, forse lo è meno di grandi cambiamenti sulla qualità, anche se i prodotti

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cinesi e indiani sono anche essi di buona qualità. L’Europa ha anche il problema del credito: l’Africa per il momento non può funzionare solo sul credito. Ma questo non vuol dire che non ci sia possibilità di fare affari. Lanciamo continuamente gare di appalto per la costruzione di strade e in quel caso siamo noi a mettere il denaro necessario e gli italiani che io sappia non partecipano mai pur avendone la possibilità. La signora che mi sostituirà qui è la responsabile dei grandi progetti in Senegal e potrà rispondere a tutte le vostre domande in modo preciso e vi dirà come sono gestiti tutti questi progetti. Ci sono poi ottime opportunità anche nel campo della formazione e della cooperazione scientifica. Sono stato molto colpito da quello che ho visto a Milano durante una visita alle università e ai centri di ricerca: sicuramente in quel settore abbiamo molto da imparare. Sono pronto a ospitare ricercatori e a progetti di cooperazione fra i centri di ricerca italiani e quelli senegalesi. Dicevo poco fa che non capisco come mai Fiat non abbia mai provato a venire in Senegal. Hanno provato in Marocco a concepire un veicolo per il terzo mondo ma è stato un fiasco. Gli indiani hanno costruito questo tipo di auto per l’Africa. Ma ci sono altre possibilità soprattutto per quanto riguarda i trattori, visto che gli italiani per un certo periodo sono stati i migliori al mondo per la costruzione di trattori. Come abbiamo detto,

l’Africa si svilupperà soprattutto nel settore agricolo, quindi ci sono buone opportunità di investimento per l’Italia. Vi chiedo di riflettere a fondo su tutti questi argomenti e di organizzare delle tavole rotonde con gli africani sia a livello di Unione Europea sia a livello dell’Italia. Da parte nostra, siamo in molti a pensare che se l’Europa rivedesse in parte i propri principi, le modalità di azione e soprattutto la propria strategia nei suoi rapporti di partenariato con l’Africa, si potrebbero costruire relazioni fruttuose a lungo termine. Concludo tornando a suggerire una riflessione periodica ad alto livello: ogni sei mesi ci si dovrebbe incontrare in modo molto informale per stabilire cosa sta funzionando e cosa no, per suggerire soluzioni e per andare avanti. Vi ringrazio ancora infinitamente della vostra attenzione e di avermi dato l’opportunità di venire a spiegare, in quanto amico dell’Europa, amico dell’Italia, quello che mi sta veramente a cuore e che dovrebbe a mio parere essere alla base della nuova cooperazione fra i nostri due continenti. Ancora grazie. L’Autore ABDOULAYE WADE Dal primo aprile 2000 è il terzo presidente del Senegal. Laureato in giurisprudenza a Parigi. Iscritto al Partito democratico senegalese (Pds), concorre nelle presidenziali del 2000 contro il presidente uscente Abdou Diouf. Nel 2001 modifica la costituzione, allungando il mandato presidenziale da 5 a 7 anni.



Una priorità etica e

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edele al suo abituale impegno per lo sviluppo economico, culturale e sociale dell’Africa subsahariana, l’Italia rilancia una nuova concezione degli aiuti, per passare finalmente dal patronage alla partnership. DI ELISABETTA BELLONI

L’Africa è nostra vicina. Parte essenziale del destino dell’Europa, per l’Italia è il continente in cui dispiegare la vocazione alla presenza solidale e alla collaborazione fra pari che caratterizzano la proiezione internazionale del nostro paese e la sua politica estera. L’Africa subsahariana è, d’altra parte, destinazione tradizionalmente privilegiata dell’impegno italiano per lo sviluppo. Lo abbiamo codificato con le nuove linee guida strategiche per il triennio 2009-2011 e confermato con il loro aggiornamento per il periodo 2010-2012. In entrambi i casi, la decisione è stata adottata dal massimo organo decisionale della cooperazione italiana, il Comitato direzionale, sotto la presidenza del ministro Frattini. In Africa sono stati sperimentati i modi d’intervento che costituiscono, oggi, gli strumenti d’aiuto più allineati con gli standard internazionali di cui disponiamo. È in Africa, infine, che sono state poste le basi per il superamento dei ruoli tradizionali di “paese donatore” e “paese beneficiario”, attraverso gli obiettivi condivisi della Dichiarazione del millennio del 2000. Lì, adesso, la cooperazione internazionale allo sviluppo deve passare definitivamente dal patronage


COOPERAZIONE Elisabetta Belloni

strategica per l’Italia


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alla partnership. Se vogliamo dav- mico-commerciali per le nostre vero raggiungere gli obiettivi del imprese, perché attraverso la coomillennio, che in Africa trovano perazione allo sviluppo si possoi maggiori ostacoli, ciò deve av- no creare solide e sane premesse venire seguendo i principi e i cri- per lo sviluppo di rapporti di teri dell’efficacia degli aiuti, san- collaborazione. citi dalle conferenze di Roma, Considero, infine, il campo delle stesse relazioni politiche internaParigi e Accra. Occorre, peraltro, puntare anche e zionali, perché – ad esempio – in soprattutto all’efficacia reale e ambito Onu vige il principio concreta per lo sviluppo di quanto “uno Stato, un voto” e le nostre tutti gli attori coinvolti, comin- aspirazioni in termini di candidaciando dagli stessi paesi partner ture negli organismi internazioafricani, intraprendono in vista di nali devono poggiarsi anche sul un futuro migliore, che comincia nostro impegno per lo sviluppo. sempre dall’impegno responsabile Una priorità etica e nello stesso tempo strategica, nell’oggi. quindi, che ci è L’Africa, nostra La “priorità Africa” ben presente come vicina, è per l’Itadimostrano, fra lia un imperativo dell’Italia è stata l’altro, le due misetico di solidarietà ribadita dalla nostra sioni in Africa efma anche, in quefettuate in un anno st’epoca globaliz- presidenza al vertice dal ministro Fratzata, un investi- del G8 dell’Aquila tini ed i frequenti mento strategico per stringere e rafforzare legami incontri, con un rinnovato ima tutto campo con paesi essenzia- pulso alle attività di cooperazioli per la nostra stessa sicurezza, ne allo sviluppo. oltre che per un orizzonte comu- Questa “priorità Africa” dell’Italia è stata evidente in occasione ne di pace e di prosperità. Penso all’emigrazione, che non della nostra presidenza del G8 potremo mai controllare davve- dello scorso anno. Al vertice ro, se non creando nei paesi di dell’Aquila i leader del G8 hanno provenienza condizioni economi- confermato gli impegni di aiuto che e sociali capaci di radicarvi pubblico allo sviluppo già assunle proprie popolazioni, special- ti, hanno rilanciato i negoziati mente le fasce più giovani e me- dell’Organizzazione mondiale del commercio e avviato il dimezzaglio formate. Penso alla sicurezza internaziona- mento dei costi delle rimesse dele, perché la lotta al terrorismo gli emigrati. Sono state adottate, passa anche attraverso una giu- per la prima volta, due dichiarastizia sociale e un progresso civi- zioni congiunte con i paesi afrile che siano alternative vere al fa- cani: una sulla sicurezza alimennatismo e al rancore. Penso a le- tare, con un impegno di 20 migittimi e necessari spazi econo- liardi di dollari per lo sviluppo


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agricolo sostenibile, e una sulle risorse idriche. In Africa subsahariana la cooperazione italiana è attiva nella sanità e nell’educazione, nello sviluppo locale, nella sicurezza alimentare, nella gestione delle acque e nelle infrastrutture. In questi settori vogliamo rafforzare le sinergie con le componenti di quel sistema paese della cooperazione che siamo impegnati a costruire. Le università italiane si sono mostrate fortemente interessate ad approfondire la collaborazione con le università africane, mentre la cooperazione decentrata di regioni, province e comuni e le organizzazioni non governative manifestano un rinnovato interesse a fare davvero sistema con la cooperazione del ministero degli Esteri. Il mondo imprenditoriale non è da meno,

all’insegna di nuovi modi di guardare allo sviluppo che si fanno strada. Ampliando così i nostri orizzonti, aumenta lo spazio per attività innovative come il convegno, che abbiamo organizzato a margine del Sinodo dei vescovi africani dello scorso ottobre, su una nuova cultura dello sviluppo in Africa e il progetto Biblioteche del deserto in Mauritania. Con l’iniziativa Smile (Systemic Multistakeholder Italian Leveraging Aid), che si sta avviando in Mozambico e Tunisia, sperimenteremo un nuovo modo di favorire lo sviluppo endogeno dei paesi partner, valorizzando le eccellenze del sistema- Italia in un’ottica di partnership pubblico-privato. In Africa subsahariana, le linee guida triennali individuano dodici paesi prioritari. Vi sono i

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partner tradizionali dove la nostra cooperazione ha operato con successo nei decenni scorsi, quali il Mozambico e l’Etiopia (tuttora i maggiori beneficiari dei nostri aiuti a dono), il Senegal, il Ghana, il Burkina Faso, il Kenya e la Mauritania. Anche paesi con situazioni di crisi o fragilità, quali Sudan, Somalia e Sierra Leone, sono fra quelli prioritari. Non potrebbe essere diversamente per un paese come l’Italia, che fa della pace e della sicurezza uno dei pilastri della sua politica estera, a partire dal peacekeeping Onu. Qui concentreremo sempre meglio le risorse disponibili in settori strategici per lo sviluppo sostenibile dell’Africa come sanità, agricoltura e sicurezza alimentare, istruzione, governance e sostegno alle piccole e medie imprese, ma anche in ambiti dove l’Italia ha acquistato un ruolo di primo piano, quali il ruolo della donna e la protezione dei soggetti vulnerabili come i bambini e i disabili. L’impegno per la cooperazione allo sviluppo della Farnesina è stato dunque rilanciato, anche con una serie d’innovazioni organizzative interne, in parte ancora in corso, su cui non mi soffermo in questa sede. Siamo consapevoli, tuttavia, di un’inadeguatezza crescente a far fronte ai molti impegni assunti dal nostro paese, bilateralmente e nelle sedi multilaterali. L’arretratezza del nostro quadro normativo, che risale a oltre venti anni fa, unita al drastico taglio delle risorse finanziarie – che saranno soggette ad un’ulteriore significa-

tiva riduzione nel 2011 – e alla cronica insufficienza di quelle umane, rende impossibile sfruttare appieno le potenzialità, per il nostro sistema paese e la sua politica estera, di una cooperazione governativa pur aggiornata nelle sue priorità e strategie e nei suoi metodi. Essendo l’Africa subsahariana al centro della nostra attività, le ricadute negative sull’impegno e la presenza del nostro paese in quel decisivo continente sono facilmente intuibili. Di qui l’importanza di una più diffusa e penetrante presa di coscienza del ruolo della cooperazione allo sviluppo, per un paese e un popolo generosi e aperti al mondo come l’Italia e gli italiani. Come Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, siamo attivi in questo senso con idee e proposte su cui, oltre alla società civile e al mondo imprenditoriale, registriamo crescente attenzione e sensibilità anche da parte del mondo politico e parlamentare, al di là di logiche di schieramento.

L’Autore elisabetta belloni Direttore generale della cooperazione allo sviluppo della Farnesina. Ha ricoperto incarichi nelle ambasciate e nelle rappresentanze permanenti a Vienna e a Bratislava. Dal novembre 2004 al giugno 2008 ha diretto l’Unità di crisi del ministero degli Affari esteri.



Religione, un mezzo per superare le divisoni etniche

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n continente di diversità, un mosaico di culture ed esperienze storiche, politiche e culturali. Ecco perché parlare di Africa come un unico paese è ingiusto e sbagliato. E anche il concetto di solidarietà andrebbe rivolto al futuro. INTERVISTA AL CARDINALE PETER TURKSON DI FEDERICO BRUSADELLI

Serve un cambio di percezione, innanzitutto. Il resto del mondo non può continuare a parlare di Africa «come se fosse un piccolo paesino sperduto». Perché è un continente, un mosaico di culture e di esperienze. In cui esperimenti di successo (la democrazia in Ghana, per esempio) si mescolano a tragedie globali (il Darfur, l’emergenza sanitaria, le migrazioni di massa). È questo il pri-

mo auspicio del cardinale Peter Turkson, arcivescovo di Cape Coast, primate del Ghana e dall’ottobre 2009 chiamato dal papa a presiedere il Pontificio consiglio della giustizia e della pace. Che chiede poi all’Occidente di dimostrare solidarietà vera, nei confronti di un continente verso cui – se non “colpe” – ha certamente “responsabilità”. Più formazione tecnologica, più soste-


L’INTERVISTA Peter Turkson

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gno allo sviluppo economico, più solidarietà “vera”. E meno paura. Perché «si deve capire che lo sviluppo dell’Africa sarebbe un bene per tutti». Eminenza, qual è la sua preoccupazione principale sullo stato del continente?

Intanto ho un desiderio. Il desiderio che il mondo si liberi di una percezione sbagliata dell’Africa. Perché l’Africa viene

troppo spesso raccontata come se fosse un piccolo paesino sperduto. E invece l’Africa è un continente. Il secondo continente, per estensione, dopo l’Asia. Un continente vasto, un mosaico di culture, di esperienze politiche, storiche e culturali. Un continente di diversità, insomma. E allora parlare di Africa come se fosse un solo paese, e per giunta piccolo, quasi insignificante, è ingiusto e


sbagliato. Si generalizza troppo, e gli effetti di questa generalizzazione non possono che essere nocivi. Un esempio: su 58 paesi africani, ce ne sono solo otto con conflitti in corso. Eppure, alla fine, passa la notizia che tutta l’Africa è in preda a guerre e conflitti: si estende, insomma, a tutto il continente la situazione che è propria di alcuni paesi (per esempio, il Sudan o la Somalia). Questo della “generalizzazione” è un punto cui tengo molto. E sa perché? Perché è anche un problema “pedagogico”. In che senso “pedagogico”? 40

Come sanno tutti gli insegnanti, se continui a ripetere a un bambino «Tu sei così…», lui crescendo si convincerà di essere fatto proprio in quel modo. O di essere destinato a essere in quel modo. Ecco, la dinamica che il resto del mondo sta innescando nei confronti dell’Africa è proprio questa. «Tu sei vittima di carestie e conflitti, di povertà e malattie», si ripete. E allora gli africani cominciano a credere che sia proprio così, e che non ci sia nulla da fare. Si tratta di una deriva che lambisce anche noi, nella Chiesa: l’ho notato all’ultimo Sinodo d’Africa, qui a Roma, in cui troppo spesso ho sentito parlare di “Africa” in generale, senza fare attenzione alle sue diversità interne. Anche perché in realtà ci sono esempi positivi, nell’Africa degli ultimi anni…

Sì, e qualcuno potrebbe essere tentato, allora, di fare generaliz-

zazioni inverse. Io che sono ghanese, per esempio, potrei dire che l’Africa è riuscita a instaurare un regime democratico funzionante: noi abbiamo cambiato governo tre volte pacificamente, con elezioni regolari. E lo stesso potrebbe dirsi del Togo, della Costa d’Avorio… Ma sbaglieremmo anche noi, a generalizzare queste esperienze. Insomma, sarebbe giusto iniziare a parlare dell’Africa come si parla dell’Europa, in cui non si confonde la Germania con l’Italia. E sarebbe di aiuto anche a noi africani, per iniziare ad accettare la nostra diversità, per accettare il fatto che non ci sono “destini inevitabili”, ma buoni esempi da seguire e cattivi esempi da evitare. È innegabile, però, che le emergenze siano tante: dalla salute, alla povertà, alla rinascita del fondamentalismo. Ma l’Occidente, soprattutto il suo sistema economico e finanziario, quanto è “colpevole”? Case farmaceutiche, multinazionali, industrie, Stati: fanno abbastanza?

Non amo lanciare accuse, non mi piace scaricare “colpe” sui paesi del mondo. E questa delle colpe dell’Occidente è una questione delicata. Certamente, però, ci sono stati, e ancora ci sono, “avvenimenti” meno piacevoli per l’Africa, mettiamola così. Penso alla schiavitù, ovviamente. Ma anche alle miniere che rendono arido il terreno, allo sfruttamento del suolo, alla distruzione delle foreste. Avvenimenti, questi ultimi, ancora in corso che non aiutano affatto lo sviluppo del


L’INTERVISTA Peter Turkson

continente. E invece si deve capire che lo sviluppo dell’Africa sarebbe un bene per tutti. Ma perché l’Africa si sviluppi serve solidarietà vera. Di solidarietà, di “dono”, ha parlato Benedetto XVI nella Caritas in veritate. Un nuovo modo di intendere l’economia valido anche e soprattutto per i paesi in via di sviluppo?

Sì, il Papa parla, nell’enciclica, di solidarietà, amore, dono, etica. Il punto è questo: senza la nostra solidarietà, il sud del mondo non solo non risolverà i suoi problemi, ma li porterà tutti al nord (cosa che già sta avvenendo in questi anni). Quindi serve una solidarietà che sia rivolta anche alle popolazioni del futuro. Se si sfruttano le terre, se con le miniere si rende arido il suolo, l’effetto resterà per generazioni. E non si può operare uno sfruttamento pensando che, poi, non ci sarà alcuna reazione. Pensare al futuro significa anche formazione. Si fa abbastanza?

Una cosa è chiara: i paese sottosviluppati potranno svilupparsi solo costruendo una “tradizione” tecnologica, un sapere anche tecnico. Perché senza il primo gradino, non si sale nessuna scala. Però si sa che ci sono di mezzo, anche qui, gli interessi del mondo sviluppato. I prodotti hanno bisogno di mercato, e se quel mercato fosse autosufficiente, non sarebbe più un “mercato”. Così si fa di tutto per non permettere a quelle aree del mondo di possedere conoscenze e tecno-

logie per realizzare quei prodotti. Una colpa? Non so. Ma sono certamente dinamiche di una certa economia: se hai qualcosa da vendere, devi avere qualcuno a cui vendere. C’è bisogno di comprensione, per risolvere questi problemi. Serve solidarietà, ripeto. E la solidarietà vera può nascere solo dall’amore. Questa rischia di sembrare una predica, ma non è così: è l’unico modo possibile per realizzare una coesistenza pacifica. Dall’Africa partono imponenti flussi migratori. E l’immigrazione, in Europa e in Italia è un tema entrato prepotentemente nell’agenda politica, a volte con toni “emergenziali” più che strategici. Ecco, quali sarebbero, a suo avviso, le strategie più efficaci per affrontare un tema così complesso e spinoso?

L’immigrazione non è un fenomeno nuovo, nella storia dell’uomo. È un fenomeno che è sempre esistito: tanto per parlare di storia europea (che anche noi abbiamo dovuto studiare!), vengono alla mente i Goti e i Visigoti, o le migrazioni verso il continente americano, oggi abitato prevalentemente dagli eredi di quei migranti europei. Insomma, la migrazione è un fattore direi “costitutivo” dell’esperienza umana. Un fattore problematico, però…

Il problema nasce quando si identifica “migrazione” con “minaccia”. E non è difficile farlo: i nuovi arrivati, d’altronde, sono quasi sempre “bisognosi”. Così oggi in Europa si considera l’im-

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FFWEBMAGAZINE

Per fare sentire forte le voci assordanti dimenticate

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Sulle poltroncine rosse della sala convegni della Camera dei deputati, inusualmente, ci sono soprattutto bambini. I grembiulini blu e gli occhi spalancati a guardarsi attorno, non stanno fermi e zitti per l’eccitazione di trovarsi in quel posto di grandi importanti. Ma appena si spengono le luci e le immagini vengono proiettate sugli schermi, scende di colpo un silenzio immediato e i bambini si fanno serissimi tutto d’un tratto. Come ipnotizzati di fronte a bambini della loro stessa età, o spesso anche più piccoli, con la pelle malata, la pancia gonfia, gli occhi rassegnati. Bambini senza neppure più la forza di scacciare le mosche che si appoggiano loro addosso. Sono i piccoli pigmei e bantù del Congo, martoriati dalla lebbra che divora la loro pelle e dalla frambesia (malattia endemica in quelle zone) che dalle prime virulente lesioni cutanee invade a poco a poco tutto il corpo, consumando gli arti fino a trasformarli in informi moncherini. A volte per trasformare sofferenze lancinanti in normalità, basterebbe una compressa. A volte per garantire buone probabilità di salute al posto di stenti certi, sarebbe sufficiente un’iniezione. Ma questi bambini con la pelle nera, potenzialmente uguali agli altri di tutto il mondo, sono nati nella metà sbagliata del mondo. Per questa circostanza del destino, imparano da subito a convivere con la fame e il dolore, come se fossero normali compagni di viaggio; apprendono presto che riuscire a sopravvivere alle malattie e alla mancanza di tutto non è diritto di tutti, ma fortuna di pochi. Non è un concetto semplice per il senso di giustizia trasparente di un bambino, provoca rabbia, tristezza, domande, ma in questa occasione gli adulti hanno pensato fosse giusto coinvolgere anche i più piccoli, per raccontare anche a loro la storia dolorosa di questi coetanei sfortunati e dell’iniziativa coraggiosa di un gruppo di quaranta italiani che è partito verso l’Afri-

ca per portare aiuto. Una missione condotta dalla organizzazione non governativa Ali per Volare e guidata dal suo presidente Rino Martinez per portare vaccini e medicine nella Repubblica del CongoBrazzavile alla comunità pigmea che rischia l’estinzione nel cuore della foresta tropicale. Là, dove la crisi umanitaria è gravissima ma non è illuminata dai riflettori dell’opinione pubblica, quasi coinvolgesse vittime di serie b. Di fronte agli occhi, un paese dalla natura prepotentemente lussureggiante, soffocato da un intrico di problemi che si presentano da subito come irrisolvibili. Ma il senso di impotenza non deve sopraffare, perché la dignità della vita del singolo non può essere messa in discussione dalla fredda matematica dei numeri. E se tutto non è mai abbastanza, se ciascuno, però, facesse quanto può, già sarebbe molto. Per questo la missione Cuore per la Vita organizzata da Ali per Volare tra il gennaio e il marzo del 2009, in mezzo a tante testimonianze di dolore contenute nel libro e nel documentario reportage Sud chiama Sud presentati oggi, fa filtrare anche la luce della speranza: con soli 45mila euro spesi, sono state vaccinate 23mila persone, soprattutto bambini e donne gravide. E tanto si potrà ancora fare nella prossima missione di cure mediche, in vista della quale si sta anche cercando di dare corpo alla proposta di creare una nuova cooperazione internazionale allo sviluppo, tesa a organizzare programmi umanitari nei luoghi più disagiati della terra, sotto l’egida delle Nazioni Unite e dell’Unione europea. Se le immagini sono forti e le considerazioni dolorose, è giusto, però, che ciascuno sappia che è fondamentale non sottrarsi alla propria responsabilità e tutti sentano forte il dovere di fare. Fin da bambini. di Cecilia Moretti Pubblicato il 25 febbraio 2010 su Ffwebmagazine


L’INTERVISTA Peter Turkson

migrazione soltanto come una minaccia. Minaccia all’integrità europea, minaccia allo sviluppo, minaccia al benessere, minaccia alla sicurezza. Un pericolo, e non un potenziale aiuto allo sviluppo. Per secoli non si è discussa la presenza dei musulmani in Europa, e adesso si fanno i referendum sui minareti. E da cosa nasce questa paura?

Posso sbagliarmi, ma visto che c’è un problema demografico, qui in Europa, queste legislazioni restrittive più recenti sembrano essere non voglio dire “paranoiche”, né “isteriche”, ma certamente preoccupate. Perché se la popolazione non cresce, e arrivano “altri” che invece crescono, ci si domanda “cosa succederà domani”? Cosa succederà all’Italia di domani? Questa è la domanda. E invece di incoraggiare un cambiamento di visione, invece di sostenere lo sviluppo demografico, ci si chiude. Ma il punto è che non si può fare una nazione senza popolazione. E la popolazione – se non si fa in laboratorio – si fa con gli uomini. Anche con gli immigrati. In questa situazione, in cui gli immigrati saranno sempre di più, è ovvio la discussione crescerà. Insomma, la preoccupazione c’è ed è anche giustificata, a suo modo. Ma le migrazioni non si possono fermare, non si possono evitare. E poi, diciamo una cosa: il confine tra legislazioni restrittive e razzismo rischia di farsi sempre più sottile… E sa qual è un altro rischio, poi?

Quale?

Che gli “stranieri” imparino a fare lo stesso. Perché, in questi anni, gli africani tornano troppo spesso in patria con qualche amarezza. E se poi diventano politici, se diventano legislatori? Che leggi scriveranno? Su quali principi baseranno la regolamentazione della convivenza, del confronto con altre popolazioni? E la Chiesa, in tutto questo, che ruolo può avere?

La Chiesa parla di “fraternità umana”, di unica origine, di unico Dio padre. I principi che la ispirano, dunque, sono fraternità e solidarietà. Ma come declinare questi valori nella situazione di cui parlavamo? Ecco la sfida. Una sfida anche “interna” alla Chiesa: se qui non ci fossero più sacerdoti sufficienti, verrebbero accettati quelli stranieri? Negli Stati Uniti il problema si è già posto, e in alcune diocesi ci sono sacerdoti africani o di altri paesi. Però so che ci sono altre realtà in cui, all’interno stesso della Chiesa, c’è chi trova argomenti contro questa presenza: «I preti che vengono dall’Africa non capiscono la cultura americana, non parlano bene la lingua…». Ma se la Chiesa si chiude, come si potrà mai realizzare quella fraternità universale? Insomma, il senso di unità e di fraternità della famiglia umana va riscoperto e sviluppato. Eppure spesso la fede religiosa viene utilizzata – più dai politici che dai reli-

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giosi, va detto – come barriera identitaria più che come collante…

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È un errore che tradisce l’essenza stessa del Cristianesimo. Quando studiavo all’Istituto biblico, analizzai il passo del Vecchio Testamento in cui Salomone consacra il suo tempio, dicendo: Anche lo straniero, che non è del tuo popolo d’Israele, quando verrà da un paese lontano a motivo del tuo nome, quando verrà a pregarti in questa casa, tu esaudiscilo dal cielo, e concedi a questo straniero tutto quello che ti domanderà, affinché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome. La preghiera, la religione, possono abbattere le divisioni. A livello etnico lo straniero è “straniero”, questo è un dato di fatto: io sono nato africano, non c’è nulla da fare! Ma c’è un livello superiore, che permette di superare questa differenza. Ed è il rapporto con Dio. Quindi la religione fornisce i mezzi per superare le divisioni. La Chiesa deve offrire la possibilità di scavalcare queste barriere naturali. Ma se la religione stessa diventa mezzo, o luogo, di separazione, questo sì che sarebbe un bel guaio. E a quel punto, cos’altro mai ci resterebbe?

L’Intervistato

cardinale peter turkson Cardinale e arcivescovo cattolico ghanese. Nato l’11 ottobre 1948, è stato consacrato sacerdote per l’Arcidiocesi di Cape Coast nel 1975, diventandone Arcivescovo dal 6 ottobre 1992. Ha ricevuto la consacrazione episcopale il 27 marzo 1993. Ha inoltre presieduto la Conferenza episcopale ghanese dal 1997 al 2005. Ricopre anche il ruolo onorifico di primate del Ghana. Papa Giovanni Paolo II lo ha innalzato alla dignità cardinalizia nel concistoro del 21 ottobre 2003. Papa Benedetto XVI lo ha nominato presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace il 24 ottobre 2009. Ha sostituito nell’incarico il dimissionario Cardinale Renato Raffaele Martino.

L’Autore federico brusadelli Scrive per Ffwebmagazine e collabora con il Secolo d’Italia. Laureato in Lingue e civiltà orientali, ha seguito il master “Tutela internazionale dei diritti umani” presso l’Università La Sapienza di Roma.



SERVE UN BAGNO DI REALISMO PER CAPIRE UN CONTINENTE PLURALE

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adicalmente diverso da come lo rappresentano i media occidentali, il continente africano va analizzato abbandonando gli opposti pregiudizi ottimisti o pessimisti. Bisogna affrontare una sfida che prima di tutto è culturale e che deve vedere l’Europa protagonista. INTERVISTA A PADRE GIULIO ALBANESE DI DOMENICO NASO

Cinquantuno anni, romano, una vita dedicata all’Africa. Padre Giulio Albanese, comboniano, fondatore dell’agenzia stampa Misna (Missionary Service News Agency), di continente nero se ne intende davvero. Tra aree di crisi, problemi secolari, instabilità politiche e ricchezze culturali, ci racconta le Afriche plurali, piene di sfaccettature e di sfumature che spesso in Occidente non si riescono a cogliere. E il rapporto con l’Africa, nell’era dell’invasione cinese, va ripensato e rimodulato abbandonando l’approccio paternalistico. Con l’Europa che deve svegliarsi e riallacciare i fili

spezzati di una partnership irrinunciabile. Recentemente ha parlato dell’Africa come la metafora delle contraddizioni del mondo. Ci vuole spiegare questo concetto?

La prima considerazione da fare a mio avviso è questa: abbiamo a che fare con una realtà continentale che è tre volte l’Europa. Un vero e proprio pianeta distante anni luce dal nostro immaginario, perché la percezione che abbiamo delle Afriche è quella che ci viene offerta a spizzichi e bocconi dai grandi media. Ma la verità è che sappiamo poco o nien-


L’INTERVISTA Giulio Albanese


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te di quello che succede oggi nelle Afriche. Da questo punto di vista, nelle relazioni nordsud, la sfida prima che essere politica, sociale ed economica è culturale. Deve cambiare il nostro atteggiamento nei confronti dell’alterità. Ci sono dei luoghi comuni che sono fuorvianti e limitanti. Le faccio qualche esempio: solitamente la nostra gente pensa che l’Africa sia povera. Non è assolutamente vero. Semmai è impoverita, e c’è una differenza sostanziale. Galleggia sul petrolio da nord a sud, da est a ovest. Vi sono paesi africani, come la Repubblica democratica del Congo, che sono miniere a cielo aperto. Un altro luogo comune riguarda la nostra convinzione secondo la quale l’Africa ha bisogno di beneficienza, di quella che io definisco “carità pelosa”. No, non sanno che farsene. L’Africa invoca e chiede innanzitutto giustizia. Dobbiamo avere l’onestà intellettuale di staccare la spina del pregiudizio. Dico questo perché, quando parliamo di beneficienza, ci poniamo come benefattori a tutti i costi davanti a tanta umanità dolente. Invece dovremmo cercare di capire i meccanismi che contraddistinguono le Afriche. Di fronte agli enormi problemi africani (riferiti con grande approssimazione da parte dei media) rischiamo sempre di banalizzare. Gli approcci all’Africa sono tendenzialmente due: ci sono i terzomondisti ad oltranza, secondo cui le colpe dei mali dell’Africa è tutta dell’Occidente, delle

nazioni ricche; sul versante opposto abbiamo i reazionari che dicono che se l’Africa sta male è colpa sua, dei suoi governanti. Un’Africa prelogica e primitiva, insomma. Secondo me non dobbiamo essere “afro-ottimisti” o “afropessimisti”. Dobbiamo andare al di là sia di un certo terzomondismo che di un certo conservatorismo. Dobbiamo stare con i piedi per terra. L’Africa è un continente dalle risorse eccezionali con oltre ottocento grandi etnie. È un continente che afferma il riconoscimento della propria dignità che indubbiamente nei secoli, per una serie nota di ragioni storiche, è stata fortemente condizionata dall’esterno. È importante essere “afro-realisti”. Le responsabilità, cioè, sono fondamentalmente condivise: da una parte vi sono classi dirigenti locali che fanno il bello e il cattivo tempo, oligarchie attaccate con bramosia al potere e al denaro; dall’atra parte, gli interessi stranieri (dal colonialismo allo sfruttamento economico di oggi) fanno sì che i problemi delle Afriche continuino a permanere. La cancellazione del debito, che a volte sembra un hobby da rockstar, serve davvero? Cosa rappresenterebbe per l’Africa?

Se dovessimo fare la lista dei mali africani, indubbiamente al primo posto ci sarebbe la questione del debito. Oltre, ovviamente, a nuove regole per il commercio, alla necessità di rilanciare la cooperazione allo sviluppo. L’attuale crisi economica ha penalizzato


L’INTERVISTA Giulio Albanese

fortemente l’Africa, al punto tale che tutti gli sforzi fatti per sanare le economie nazionali sono svaniti come bolle di sapone. La questione del debito è rilevante, anche perché, diciamolo con franchezza, questi paesi non hanno potuto rendere i soldi che hanno ricevuto (dai petrodollari degli anni Settanta a oggi) entro i limiti stabiliti e si sono indebitati a dismisura. Ci sono stati dei governi occidentali che hanno cancellato parte del debito. L’Italia, ad esempio, sotto governi di diverso colore politico e sulla spinta dell’appello di Giovanni Paolo II durante il Giubileo del Duemila, ha cancellato le quote di debito di alcuni paesi (ad esempio il Mozambico o la Repubblica democratica del Congo). Ma la questione rimane aperta, perché il vero problema non è tanto il debito contratto con i governi ma con i privati, gli istituti finanziari e le grandi banche. Con questa crisi, i paesi africani si sono ulteriormente indebitati e sono tornati indietro al livello della fine degli anni Ottanta. La questione del debito va affrontata con tanta buona volontà. Anche da parte dei privati, però. In questi anni i paesi africani sono stati costretti ad applicare i piani di aggiustamento strutturale, che sono consistiti nella svalutazione della moneta locale, facilitando le esportazioni ma rendendo proibitive le importazioni. E poi ci sono stati tagli alla spesa pubblica in due settori strategici: istruzione e salute. Le economie


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africane non ce la faranno a risollevarsi senza cancellazione. È una conditio sine qua non. Però è solo la punta dell’iceberg. Il discorso è molto più profondo. Per quanto concerne, ad esempio, le regole del commercio, l’Europa vorrebbe che l’Africa fosse in grado di competere sui mercati. Ma non ce la può fare. Da parte dei governi europei, poi, in questi anni c’è stata una politica protezionista. I prodotti africani sono sottoposti a severi dazi. In Africa, invece, i prodotti agricoli europei sono paradossalmente più competitivi di quelli locali. E molti contadini hanno gettato la spugna perché non ce la fanno a reggere il confronto. Un’altra considerazione da fare è sul forte deprezzamento delle

materie prime in Africa. Un fatto davvero sconvolgente. I bambini che raschiano a mani nude il coltan nelle miniere vengono pagati un dollaro al giorno, e poi questo prezioso metallo viene rivenduto a peso d’oro sui mercati finanziari dell’Occidente. I governi africani non hanno forme di tutela, anche perché vi è una forte corruzione delle classi dirigenti. Che non è opera solo dei paesi occidentali. Da questo punto di vista, ad esempio, oggi la Cina sta davvero battendo tutti. A proposito di Cina, come giudica l’imponente impegno cinese in Africa? È un rischio o una opportunità?

Sarò molto sincero: ho seguito da vicino il fenomeno “giallo” e se andiamo avanti di questo passo


L’INTERVISTA Giulio Albanese

tra qualche anno l’Africa non sarà più nera ma gialla. I primi a denunciare la presenza e le bramosie di Pechino in Africa sono stati proprio i missionari in riferimento al Sudan. La colonizzazione gialla si è diffusa a macchia d’olio e oggi non c’è un paese africano che non sia “contaminato” dalla presenza cinese. La Cina è riuscita a coniugare un sistema marxista-leninista con le istanze del libero mercato e del capitalismo. È venuto fuori un meccanismo che è un vero e proprio schiacciasassi. I cinesi non stanno aiutando l’Africa, la stanno depredando. Dico questo perché la Cina non ha assolutamente a cuore il tema dei diritti umani, a differenza dei paesi occidentali che almeno idealmente sono esigenti da questo punto di vista. E poi Pechino, che dice di non volere interferire negli affari interni dei paesi africani, per riuscire a essere vincente sta fomentando a dismisura la corruzione. Alcuni presidenti africani sono diventati veri e propri “chierichetti di Pechino”. Il discorso di fondo è che le materie prime dell’Africa vengono svendute, perché di questo si tratta. La metodologia cinese non è dissimile da quella dei famosi conquistadores spagnoli nelle Americhe, che regalavano biglie di vetro e si portavano via oro, pietre preziose e quant’altro. In Africa abbiamo un mare di Chinatowns. I cinesi hanno trovato una soluzione anche al loro problema carcerario. In alcuni paesi come l’Etiopia o l’Angola ci sono

moltissimi ex detenuti cinesi, spesso in galera per reati di opinione e per il dissenso nei confronti del partito. Questi prigionieri sono stati deportati in Africa come forza lavoro e quindi la Cina è competitiva perché ha una sua manodopera praticamente a costo zero. C’è un vero e proprio ponte aereo che collega Pechino alle principali città africane quasi quotidianamente. Sono aspetti inediti che non vengono raccontati dai mass media. E l’Italia invece? Abbiamo fatto tutto quello che c’era da fare per l’Africa?

Nelle relazioni tra il nostro paese e l’Africa vanno distinti due filoni: quello legato fondamentalmente al mondo missionario e alla solidarietà e quello istituzionale. Tantissimi nostri connazionali operano in Africa, e poco importa che siano religiosi, missionari, volontari. Sono persone di buona volontà che fanno il loro dovere, lo fanno bene. È un capitale umano italiano all’estero che fa onore al Tricolore e di cui, a mio avviso, c’è bisogno di prendere maggiore coscienza. Peraltro, e lo dico con schiettezza, quando muore un missionario a nessuno è venuto mai in mente di organizzare un funerale di Stato. Io ho molto rispetto per i nostri militari che cadono sui teatri di guerra e a loro va tutto il nostro riconoscimento per l’impegno a favore della pace. Ogni volta che uno di loro cade è giusto che la nazione pianga. Ma lo stesso ragionamento va fatto an-

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che per i missionari, i quali vanno in giro disarmati e senza garanzie economiche. Hanno scelto di lasciare tutto e prendere la strada degli ultimi, dei poveri. Il secondo filone è quello delle relazioni politiche ed economiche. In questi ultimi anni da parte dei nostri governi c’è stata un’attenzione particolare nei confronti dell’Africa, anche se a volte sono mancate le risorse economiche e finanziarie. Da questo punto di vista in Europa siamo tra gli ultimi e non è certo colpa di questo governo. È un discorso che va avanti da diverso tempo. Comunque abbiamo avuto sempre delle figure politiche che in una maniera o nell’altra hanno manifestato un grande interesse per i problemi africani e per le relazioni con quei paesi. Ne cito alcuni: Rino Serri, Alfredo Mantica, Patrizia Sentinelli, tutti sottosegretari agli Esteri e persone estremamente serie e rispettose, che hanno compreso che l’Italia doveva fare la sua parte. Ora sarebbe auspicabile che venisse nominato un sottosegretario a tempo pieno, per una questione di tempi e regolarità nei rapporti italo-africani. In riferimento alla Somalia, poi, vorrei fare una importante osservazione. L’Italia ha la responsabilità di rilanciare la propria leadership nei rapporti con Somalia, Etiopia ed Eritrea, per ovvie ragioni politiche e storiche. A proposito del Corno d’Africa, come viene percepito l’impegno italiano in quella zona?

Da quelle parti i nostri politici sono stimati e ascoltati. Ci sarebbe davvero un grande bisogno, ad esempio, di un inviato dell’Unione europea nel Corno d’Africa, auspicabilmente italiano, perché il nostro paese ha dimostrato una visione realistica dei problemi e ha indicato con grande coraggio alcune soluzioni, magari non condivise a livello internazionale ma che alla prova dei fatti si sono rivelate corrette. È una regione fondamentale, sia perché è la linea di confine tra Occidente e Oriente in Africa e rischia di essere contaminata dalle influenze jihadiste, e soprattutto perché galleggia letteralmente sul petrolio, una vera e propria “sciagura” che ha contribuito a esasperare le diatribe già esistenti. Come diceva Basquiat, dove non passano le merci, passano gli eserciti. Se questo era vero per l’Europa dell’Ottocento, mi creda che è ancor più vero per l’Africa di oggi. Nel 2008, il prodotto interno lordo dell’Africa subsahariana era di 900 miliardi di dollari, miliardo più, miliardo meno. Praticamente meno della metà del Pil italiano. E la situazione è ancora più grave se togliamo dal totale il Pil del Sudafrica, l’economia forte del continente, con un prodotto che è più o meno quello del Portogallo. C’è evidentemente qualcosa che non funziona del sistema. Mi viene in mente quello che diceva Leopold Ségar Senghor, grande intellettuale, statista e presidente del Senegal: «La storia passata ci ha visto divisi. Nel


L’INTERVISTA Giulio Albanese

nuovo villaggio globale abbiamo un destino comune». La provocazione che viene dalle Afriche è questa: i loro problemi devono essere i nostri problemi. Cosa è nato e cosa può nascere dal rapporto tra Chiesa e tradizioni culturali africane? È davvero un incontro così difficile?

Visto che parliamo di Afriche e non di Africa, dobbiamo distinguere anche qui. La Chiesa etiopica, ad esempio, ha una storia millenaria, che risale al secondo secolo dopo Cristo. Ci sono altre zone dell’Africa, invece, che sono state evangelizzate in coincidenza con la circumnavigazione del continente da parte dei portoghesi. Il grosso impegno è poi avvenuto nell’Ottocento. Oggi le chiese in Africa hanno raggiunto una loro maturità e una loro capacità di sussistenza, pur essendo chiese povere di mezzi e risorse. Ma stanno camminando sulle loro gambe. È chiaro che si confrontano con una serie di problemi dovuti al fatto che il Vangelo è stato annunciato in tempi recenti. Il fatto che vi siano fenomeni di tipo sincretistico, con varie mescolanze tra cristianesimo e animismo, non deve sorprendere. Per certi versi è fisiologico. Detto questo, è chiaro che è molto importante porsi in un atteggiamento di ascolto. Prima del Concilio Vaticano II c’era un’impostazione molto critica e negativa nei confronti delle culture autoctone. Con il magistero venuto fuori dal Concilio ci si è posti in maniera

diversa. Il messaggio evangelico è un messaggio che illumina le culture quindi può, e deve, mettere in risalto gli aspetti positivi di una cultura specifica ma, allo stesso tempo, deve stigmatizzare e combattere quelli negativi e antitetici alla teologica cristiana. Vi sono fenomeno legati alla magia nera, ad esempio, che ovviamente la chiesa condanna; oppure situazioni di sudditanza di tipo culturale della donna nei confronti di una società prettamente maschilista. In casi come questi, nonostante le forti resistenze, la Chiesa dice la sua. È anche vero che molte volte la Chiesa ha saputo valorizzare le culture locali. Tra i popoli Acholi del nord Uganda, ad esempio, ci sono tradizioni di riconciliazione che avvengono attraverso una complessa ritualità. Queste esperienze di fraternità sono ovviamente incoraggiate dalla Chiesa, perché sono perfettamente compatibili con il messaggio evangelico. Il problema è andare al di là delle divisioni tra questi popoli. La questione etnica in Africa c’è, inutile nasconderlo. Ma va affrontata con grande rispetto. Noi parlamo di queste etnie in maniera fuorviante, siamo abituati a parlare di tribù, termine coniato dai colonialisti ai tempi della conquista. Molte volte queste “tribù” sono popolazioni di milioni di persone. Basti pensare ai Baganda in Uganda, che sono circa sedici milioni. Lo sforzo della Chiesa, dunque, deve essere quello di incentivare

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il rispetto e la conoscenza di queste realtà. Ovviamente ci sono aspetti di queste culture che vanno, tra virgolette, evangelizzati, ma non è un’operazione semplice. Tutto ciò richiede l’inculturazione che i missionari possono anche promuovere ma deve essere realizzata dagli africani stessi. Sembra esserci una nuova forma di razzismo in Africa, ad opera degli arabi sui neri. È un problema reale?

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Situazioni di intolleranza tra vari gruppi etnici ci sono sempre state e ci sono tuttora. Non necessariamente hanno una matrice religiosa. L’esempio emblematico è il Sudan. Lì c’è una contrapposizione tra il nord musulmano e il sud animista e cristiano: l’aspetto religioso in questo caso conta, però la questione etnica si innesca anche in gruppi che più o meno hanno la stessa fede. Pensiamo, ad esempio, a due gruppi nilotici del Sudan, i Nuer e i Dinka. La contrapposizione tra questi due gruppi etnici, a volte sfociata in vere e proprie battaglie, è spesso causata dalla povertà, dalle fonti d’acqua, dal bestiame. Sono questioni aperte ma che derivano dal Congresso di Berlino, durante il quale l’Africa venne fatta a fette, suddivisa tra le potenze occidentali secondo logiche geopolitiche, senza considerare le divisioni etniche, i confini naturali. Furono creati Stati, poi rimasti tali e quali con l’indipendenza, all’interno dei quali convivono, bene o male, vere e proprie nazioni differenti.

L’attuale divisione europea, ad esempio, deriva da una lunghissima serie di processi storici e politici durati millenni. L’Africa ha bisogno dei suoi tempi. C’è da augurarsi che la risoluzione dei conflitti avvenga in maniera pacifica, ma la contrapposizione etnica per certi versi è fisiologica. Prendiamo l’Uganda: ha la superficie uguale a quella italiana senza Sicilia e Sardegna. I due terzi dei gruppi etnici ugandesi vivono attualmente dentro i confini dello Stato, il restante terzo nei paesi limitrofi. La geografia


L’INTERVISTA Giulio Albanese

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politica ha determinato delle divisioni che hanno penalizzato la crescita di questi paesi. Molte volte ci si lamenta della scarsa idea dello Stato degli africani. Ma bisogna tenere presenti queste premesse importanti ed essere pazienti: l’Africa deve fare il suo percorso, il suo cammino. L’ex dittatore dello Zaire Mobutu, ad esempio, ha tentato di lanciare una vera e propria campagna di sensibilizzare dell’identità nazionale e per alcuni versi c’è riuscito. Ovviamente non bisogna dimenticare né tacere il

fatto che comunque Mobutu è stato un dittatore sanguinario. Se dovesse scegliere un episodio, una persona, un particolare, un luogo, per raccontarci la sua esperienza africana, quale sarebbe?

Al di là delle esperienze particolari che ho vissuto, come il mio sequestro in Uganda o le guerre dimenticate che ho seguito da vicino, quella più bella è stato il periodo di studio che ho trascorso in Uganda. Ero ragazzo, studiavo teologia all’Università di Kampala, ed ero l’unico bianco


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tra settanta neri. Ero, come dicevano i miei compagni, una white spot, l’unica macchia bianca. Lì ho sperimentato il disagio, forse ancora maggiore, che provano oggi gli immigrati africani in Italia. È stata un’esperienza interessante, mi ha fatto capire cosa significa essere stranieri in un contesto del genere. Ma poi di esperienze ne ho fatte davvero tante. Nel nord della Sierra Leone, ad esempio, sono stato colpito dall’incontro con tanti baby soldiers, i bambini soldato. Mi ha scosso profondamente perché ho capito che questi bambini così violenti e sanguinari sono le prime vittime delle guerre dimenticate. Uno di questi ragazzi, avvicinatosi a me con un mitragliatore in mano, alla fine mi ha chiesto le sigarette o le caramelle. Già il suo nome era significativo: in italiano possiamo tradurlo con “Io uccido senza spargere sangue”. Aveva i capelli alla Bob Marley e sulle braccia aveva tantissime crocette incise: erano i soldati nigeriani che aveva ucciso. Quando mi vengono in mente queste cose, mi viene in mente al contempo un messaggio di speranza. Questo ragazzo, come tanti altri, era algido nei miei confronti, faceva paura. Ma in fondo sono soldatini di piombo, spesso con il kalashnikov più alto di loro. Un altro ragazzo, invece, che sembrava davvero un bambolotto di 1012 anni, quando stavo andando via mi ha chiesto di venire con me, semplicemente perché voleva tornare a scuola: la cattiveria

degli adulti non era riuscita a soffocare la sua voglia di vivere. Vengono arruolati i bambini perché sono facilmente manipolabili e gli adulti la guerra non la vogliono fare. In Sierra Leone combattevano sotto effetto di sostanze stupefacenti e in nord Uganda, invece, la cosa era ancora più sconcertante: erano sotto effetto di una ipnosi collettiva. Ci sono, però, anche paesi africani (Ghana, Zambia e altri) che hanno raggiunto standard socioeconomici di tutto rispetto. E tra pochi mesi il Sudafrica ospiterà un evento importante e globale come i Mondiali di calcio. C’è ancora speranza per l’Africa?

Il calcio gioca un ruolo importante. L’ho notato seguendo alcune partite delle nazionali africane: sortisce un effetto coagulante delle masse. Quando gioca la nazionale camerunense, ad esempio, tutti i gruppi etnici del Camerun si sentono camerunensi. Ma per chi conosce l’Africa il grosso elemento di speranza è rappresentato dalla crescita della società civile. Quando parlo di società civile mi riferisco fondamentalmente a due categorie: giovani e donne. Le donne in Africa producono il 67% del reddito continentale. Lavorano più degli uomini, dunque, e non solo in Africa. Giocano un ruolo notevole nella società civile, nei gruppi per la promozione della democrazia e dei diritti umani, possono ricoprire un ruolo non indifferente. C’è un detto africano che dice: «Quando educhi un bambino in pro-


L’INTERVISTA Giulio Albanese

spettiva educhi un uomo. Quando educhi una bambina, educhi un popolo». Il ruolo dei giovani è altrettanto importante. Internet è arrivato in Africa, seppure con standard tecnici diversi rispetto ai nostri. Ma i giovani africani navigano, eccome. E ascoltano la radio. Si è innescato un meccanismo di contaminazione che ha fatto capire loro quanto contano la democrazia e i diritti. Un certo spirito fatalista e di rassegnazione che ha contraddistinto l’Africa nei decenni passati sta gradualmente sparendo. E poi c’è anche un’Africa che è capace di sorridere, di realizzare operazioni di tipo culturale che magari in Italia non conosciamo perché il giornalismo è provinciale e casareccio. Ci sono eventi che andrebbero seguiti, così come fa la stampa internazionale. Ad esempio il Festival del cinema africano di Ouagadougou (Burkina Faso), che si svolge ogni due anni e rappresenta ormai la Hollywood africana. L’Africa, insomma, può dare tanto sotto tanti punti di vista. Dobbiamo solo cambiare prospettiva. Non dobbiamo credere di essere i benefattori degli africani. Tra debito, privatizzazioni selvagge (che in Africa sono sinonimo di svendita), deprezzamento delle materie prime, sono più i soldi che gli africani danno a noi che quelli che noi diamo a loro. L’Africa ha una sua dignità che va riconosciuta. E, come ha detto recentemente il Sinodo africano, soprattutto dagli stessi africani.

L’Intervistato

padre giulio albanese Membro della Congregazione dei missionari comboniani, ha diretto il New People Media Centre di Nairobi e fondato la Missionary Service News Agency (Misna). Attualmente collabora su temi legati all’Africa e al sud del mondo con varie testate giornalistiche tra cui Avvenire, Vita e il Giornale Radio Rai. Dal febbraio del 2007 insegna giornalismo missionario/giornalismo alternativo presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma ed è direttore delle riviste missionarie delle Pontificie Opere Missionarie. È anche autore di alcuni libri tra cui Ma io che c'entro? – Il bene comune in tempi di crisi" (Ed. Messaggero Padova 2009), Hic sunt leones (Ed. Paoline 2006), Soldatini di Piombo (Feltrinelli, Milano 2005), Il Mondo Capovolto (Einaudi, Torino 2003) e Ibrahim, Amico Mio (Emi, Bologna 1997) e Sudan: solo la speranza non muore (1994).

L’Autore domenico naso Giornalista, si occupa di cinema, televisione e cultura pop. Ha lavorato per la rivista Ideazione. Collabora con Il Secolo d’Italia e Gazzetta del Sud. Cura la rubrica di critica televisiva Television Republic per Ffwebmagazine.

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Al Qaeda è alla ricerca di nuove basi

La sicurezza globale passa dall’Africa DI PAOLO QUERCIA

Da tanti punti di vista l’Africa rappresenta un continente crocevia. Crocevia tra il nord Africa e il Sahara, tra l’Oceano indiano e il Mediterraneo, tra islam e cristianesimo, tra sviluppo e sottosviluppo, tra modernità e tribalismo, tra ricchezza e povertà, ri-

sorse e scarsità, tra guerra e pace, tra regimi autoritari post-coloniali e democrazia. E nel contesto delle problematiche della sicurezza globale l’Africa rappresenta anche un importante crocevia di quella che – a torto o a ragione – è stata chiamata la guerra globale


TERRORISMO Paolo Quercia

al terrorismo. Tuttavia, affrontare vanno dal Sudan al Chad, al Conla questione della sicurezza in go all’Uganda. Ma preoccupanti Africa dallo stretto pertugio delle esplosioni di conflittualità sono infiltrazioni terroristiche rischia avvenute anche in paesi come il di essere fuorviante, o quanto Kenia e l’Etiopia, che pure avevameno non sufficiente a spiegare no conosciuto progressi nei sistela cronica instabilità politica e mi politici. Nel corso degli anni l’impossibilità di costruire mo- Novanta il continente africano ha delli statali minimi efficienti, le- visto affermarsi un proprio tugittimi e sostenibili. La condizio- multuoso ma fragile modello di ne di failing States è difatti una sviluppo, in parte guidato daldelle caratteristiche che sembra l’esterno in funzione dell’ingresso caratterizzare tutt’oggi un nume- nel più ampio sistema di divisioro estremamente ampio di Stati ne del lavoro su scala globale, in del continente e, ad oltre quaran- parte originato dall’aumento di t’anni dall’avvio della decoloniz- valore di scambio nell’economia zazione della regione, rappresen- globale delle materie prime di cui è ricco il contitare la principale nente. Questi pominaccia per la sitivi sviluppi ecostabilità regionale La conflittualità interna nomici non sono e per la sicurezza e regionale è il fattore stati, in buona internazionale. Il parte, il frutto di fallimento nella dominante di un’ampia un efficientamento costruzione di sta- fascia di Stati dei sistemi-paese, bili cornici statali capaci di contene- dell’Africa subsahariana della riduzione della corruzione o re tanto il boom demografico quanto soddisfare i della creazione di infrastrutture crescenti bisogni di good governan- pubbliche efficienti e di moderni ce e di fruizione di beni e servizi, pubblic goods, bensì dei dividendi rappresenta la principale minac- della globalizzazione economica cia alla sicurezza per tutto il con- mondiale (di cui le rimesse degli t i n e n t e . L ’ i n s e r i m e n t o d i emigrati costituiscono una comun’Africa in buona parte pre-mo- ponente particolarmente rilevanderna e pre-statuale nei circuiti te) e della competizione internadella globalizzazione demografica zionale per le risorse africane, che ed economica mondiale ha creato ha visto bussare alla porta dei reil paradosso dell’abbinamento di gimi africani, con notevoli dispouna rapida crescita economica su nibilità economiche, potenze fragilissime basi politiche e so- emergenti come la Cina e il Braciali. La conflittualità interna e sile o potenze di ritorno come la regionale è tutt’oggi il fattore Russia. Questo sviluppo su fragipredominante in un’ampia fascia li basi ha reso possibile il paradi Stati dell’Africa subsahariana dosso di crescite sostenute dei Pil tradizionalmente instabili che in un continente in cui sono an-

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cora presenti drammatiche vul- propri interessi con le reti econonerabilità legate a fenomeni na- miche e militari di Al Qaeda, turali come inondazioni e siccità sempre più alla ricerca di nuove o alla drammatica esplosione del- basi territoriali operative dopo i l’Hiv che in alcuni paesi della re- rovesci militari subiti in Iraq, gione produrrà negli anni a veni- Afghanistan e Pakistan. Movire enormi conseguenze demogra- menti terroristici armati sono fiche. Un paese come il Botswa- sempre esistiti nella storia politina, ad esempio, che è considerato ca dell’Africa del Novecento ma una delle storie di maggior suc- la forma che essi hanno preso a cesso della decolonizzazione afri- partire dagli anni Novanta ha cana, che ha raggiunto un Pil pro rappresentato una peculiare evocapite più alto di quello del Su- luzione del fenomeno. L’Algeria dafrica e viaggia ad un tasso di rappresenta un caso storico di tacrescita economica del 5% ed ha le evoluzione, con una violenta e notevolmente ridotto il suo tasso sanguinosa guerra civile esplosa negli anni Novandi povertà, si trota in seguito alla va oggi ad affron- Al Qaeda è alla ricerca vittoria elettorale tare una caduta del partito islamidella vita media di nuovi santuari ridotta a 40 anni di arretratezza sociale e sta del Fis e al colpo di Stato milita(contro i 65 degli re con cui venne anni Ottanta) a di sottosviluppo statale causa del flagello dove diffondersi meglio sospeso il meccanismo democratico. dell’Hiv. Si stima che l’intera forza lavoro del con- La guerra civile interna ha protinente potrebbe ridursi del 30% gressivamente assunto forme nel prossimo decennio a causa sempre più internazionali; ciò è dell’esplodere di questa malattia. avvenuto inizialmente attraverso È in questo mix di sviluppo e ar- il coinvolgimento di combattenti retratezza, urbanizzazione e neo- reduci dal fronte afgano e da pauperismo rurale, tribalismo e quello bosniaco e successivamenglobalizzazione, modernismo e te con la creazione di gruppi terdestrutturazione dei sistemi so- roristici sempre più orientati a ciali tradizionali che si celano spostare la propria azione dalla molte delle nuove sfide per la si- lotta contingente ad un determicurezza del continente africano nato regime nazionale reputato per i prossimi decenni. Dallo svi- illegittimo ad un disegno di lotluppo di una forte criminalità ta permanente globale ai regimi transfrontaliera africana basata arabi e all’Occidente in generale. sul traffico di armi e di droga al All’interno del panorama dei rischio che i numerosissimi mo- gruppi terroristici algerini è provimenti armati del continente, di gressivamente emerso il “Gruppo stampo etnico, sociale, religioso Salafita per la preghiera e il como territoriale possano saldare i battimento”, divenuto a partire


TERRORISMO Paolo Quercia

dal 2007 “Al Qaeda nella terra del Maghreb islamico” (Aqlim). Negli ultimi anni questo gruppo ha ripreso le proprie operazioni terroristiche in Algeria passando a metodi operativi sempre più “stragisti” facendo un sempre maggiore ricorso alle autobombe suicide che lasciano intendere l’abbandono di una strategia politica in nome di una più globale strategia terrorista dal profilo internazionale. Nonostante i legami reali di questa struttura con la rete quadesita siano tutt’altro che certi, è evidente nelle attività recenti del Aqlim un tentativo di superare i confini algerini, utilizzando la propria predominanza numerica e militare per attrarre nel proprio raggio d’azione le varie cellule islamiste che operano in una vasta area comprendente il Marocco, la Mauritania, il Mali, il Chad e il Niger. Paesi limitrofi in cui la porosità dei confini e la povertà generale delle zone interne forniscono tanto la possi-

bilità di facili spostamenti per i campi d’addestramento quanto una possibilità di reclutamento e di collegamenti con i gruppi dediti ad attività criminali e al brigantaggio. In particolare il sequestro di turisti occidentali si è rivelato essere una facile e lucrosa attività che produce anche un fondamentale ritorno mediatico per il gruppo. Sebbene di proporzioni ancora globalmente modeste e con una dubbia capacità di portare avanti operazioni significative fuori dall’Algeria, il gruppo terroristico Aqlim rappresenta sicuramente un pericolo crescente per il continente, soprattutto in quanto l’area dell’Africa centrale ed occidentale offre un contesto di failed States in cui gli interessi di warlords, gruppi criminali e gruppi terroristici possono saldarsi per la gestione delle attività economiche transnazionali, come per il mercato di diamanti e altre risorse naturali. Infine non può essere

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trascurato il pericolo di un’ulteriore espansione di questi gruppi terroristici verso quelle aree dell’Africa orientale che già sono state in passato interessate da attacchi terroristici negli anni Novanta, come il Kenya e la Tanzania. A questo scenario è necessario aggiungere la situazione di Sudan e Corno d’Africa, Somalia in particolare, aree in cui l’attività di formazioni islamiste radicali, potenzialmente già contigue a gruppi qaedisti provenienti dalla vicina penisola arabica e dallo Yemen, si mescolano a contrasti interni e guerre civili all’interno di uno scenario di dissoluzione statale e di creazione de facto di nuovi soggetti politici. Il rischio che dal dissolvimento statale possano emergere nuove leadership islamiste legate ad Al Qaeda ha portato la comunità internazionale ad intervenire tanto nella situazione interna sudanese quanto in quella somala. Il Sudan già in passato ha dimostrato di poter divenire una porta di ingresso di movimenti quaedisti nell’Africa subsahariana ed in passato ha ospitato lo stesso Osama bin Laden. La Somalia, con alle spalle venti anni di guerra civile, ha visto negli ultimi anni l’emergere del fenomeno delle corti islamiche, lo svilupparsi della pirateria al largo delle coste somale e la creazione del movimento Shabaab, che ha recentemente dichiarato la propria affiliazione qaedista e la volontà di estendere la propria azione all’intera Africa orientale, rappresenta sicuramente il maggiore focolaio

di incubazione di terrorismo in tutta la regione africana, anche a causa delle infiltrazioni di militanti di Al Qaeda dallo Yemen e da altre regioni in cui i movimenti filo qaedisti sono sotto pressione per via dell’intensificarsi della guerra al terrorismo in Pakistan e per i successi registratisi in Iraq e in Afghanistan. Nello scorso decennio l’Africa si sta sviluppando e progredendo come non avveniva da decenni. Tuttavia, il modello di sviluppo è in molti paesi privo di una garanzia di capacità politica di gestione dello sviluppo, a causa della debolezze degli Stati, della diffusa corruzione della pubblica amministrazione e della mancanza di un concetto condiviso di bene comune che trascenda l’identità tribale, etnica, religiosa o semplicemente geografica. In questo contesto nasce la minaccia terroristica africana, che unisce fattori di violenza politica interna con la presenza di movimenti islamisti radicali dediti al proselitismo e con l’infiltrazione di gruppi legati ad Al Qaeda, oggi più che mai alla ricerca di nuovi santuari di arretratezza sociale e di sottosviluppo statale in cui diffondere il proprio messaggio di odio e di rivolta. L’Autore paolo quercia Analista di relazioni internazionali ed esperto di questioni di sicurezza. Consulente del Centro alti studi di difesa, è responsabile degli Affari internazionali della fondazione Farefuturo.



Una strategia italiana al servizio del continente nero Nell’ambito del Piano per l’Africa subsahariana il nostro paese offre strumenti e opportunità per uno sviluppo sostenibile. E per rafforzare la sua presenza in aree e comparti nevralgici. DI ROBERTO PASCA DI MAGLIANO E DANIELE TERRIARCA


ITALIA-AFRICA Roberto Pasca Di Magliano e Daniele Terriarca

L’attenzione del nostro paese nei grazie ai repentini interventi goconfronti dell’Africa subsahariana vernativi di natura fiscale e moè motivata non solo dal dinami- netaria2. La regione presenta pesmo di diversi paesi dell’area in rò una forte sperequazione nei termini di saggio di crescita, ma tassi di sviluppo dovuta alla difanche dal crescente interesse che ferente struttura economica dei mostra la Cina verso quei mercati. numerosi Stati che la compongoLe potenzialità del continente no. Gli effetti della crisi si riperafricano, anche della sua parte cuotono, infatti, sugli esportatori meno sviluppata, sono ampia- di petrolio3 e sui paesi a medio mente note e si inseriscono non reddito perché maggiormente insolo nell’intensificazione dei rap- tegrati nel sistema finanziario e porti economici e commerciali commerciale mondiale. Al connord-sud ma anche nelle interes- trario, quelli a basso reddito risanti potenzialità di crescita dei sultano meno colpiti dalle turboflussi lungo la direttrice sud-sud, lenze economiche e potranno beattraverso cui enneficiare degli intrano in contatto Prima della crisi terventi di ricoeconomie carattestruzione conser i z z a t e d a u n a l’area subsahariana guenti alle varie struttura produtti- aveva registrato guerre civili. va similare. La fase di recessioLe prospettive di un tasso di crescita ne ha permesso di sviluppo dell’Afri- annuo del 6,3% evidenziare alcuni ca subsahariana nel elementi di riflesmedio-lungo periodo sono legate sione. Nonostante il miglioraa due fattori di importanza stra- mento nella gestione politica ed tegica: l’elevata disponibilità di economica4 da parte di alcuni fonti di approvvigionamento paesi, permangono delle vulneraenergetico1 da un lato e le im- bilità legate alla struttura delle portanti opportunità di nuovi in- esportazioni e ai flussi di capitale provenienti dall’estero. Sui flussi vestimenti dall’altro. Prima della bolla finanziaria, tra delle esportazioni hanno contriil 2005 ed il 2008 la regione buito in modo negativo sia la risubsahariana aveva registrato un duzione delle quotazioni dei mitasso di crescita medio annuo del nerali energetici5, sia la forte conPil pari al 6,3%, nettamente su- trazione della domanda nei merperiore alla media mondiale e in- cati di riferimento (l’Unione euferiore solamente a quello degli ropea e l’America settentrionale, “emergenti asiatici” e delle ex re- aree colpite duramente dalla crisi, pubbliche sovietiche. Il rallenta- ricevono circa i due terzi delle mento dell’attività economica merci in uscita). Prendendo invenel 2009 e il previsto rimbalzo ce in considerazione il mercato nel 2010 sono attribuibili alla dei capitali, lo scorso anno la bitenuta della domanda interna lancia dei pagamenti dei singoli

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IL LIBRO

Imprenditoria made in Africa

paesi è stata colpita nettamente dalla contrazione degli aiuti pubblici allo sviluppo, dei flussi di investimenti diretti esteri e delle rimesse degli emigrati6. Il ruolo della Cina

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Con questo libro, l’autore, consulente aziendale nell'area del global business, presenta il continente africano come un mercato straordinario con enormi bisogni e un sorprendente potere d’acquisto. Mahajan illustra le storie degli imprenditori africani, dei manager d'azienda e delle imprese che stanno scoprendo mercati rigogliosi; mostra come le aziende globali si stiano affermando, nonostante l’eccezionalità delle sfide politiche, economiche e in termini di risorse; presenta gli imprenditori locali e gli investitori stranieri che stanno creando una vasta gamma di opportunità di business sostenibili e profittevoli persino nelle località più problematiche; rivela come India e Cina si stiano assicurando posizioni redditizie in tutto il continente e infine dimostra la capacità della diaspora di agire come motore dello sviluppo e degli investimenti. In un’epoca in cui la crescita diventa una meta sempre più difficile da raggiungere, questo libro mostra quale potrebbe essere la più grande opportunità di business non ancora esplorata.

La Cina è la nazione che si è mossa con maggiore attenzione verso l’Africa, fin dagli anni Cinquanta, spinta dalla necessità di creare una sorta di cooperazione sudsud. Nel tempo tali relazioni si sono rafforzate, come testimonia l’istituzione nel 2000 del Forum della cooperazione sino-africana (Focac) con l’obiettivo di individuare punti di interesse comuni tra le due aree e trasformare il continente africano nel principale partner commerciale della Cina7. Le varie attività di investimento nei territori africani sono state accelerate anche dalla presenza delle zone economiche speciali. Si tratta di aree caratterizzate da regimi fiscali e doganali agevolati, nelle quali le imprese cinesi hanno portato avanti attività di insediamento produttivo con ricadute sul territorio locale, quali la creazione di opere infrastrutturali e la diffusione di know how. La Cina si è confermata nei primi cinque mesi del 2009 il principale mercato di origine delle importazioni subsahariane, seguita dagli Stati Uniti e dalla Francia. L’Italia si colloca solamente al 12esimo posto con una quota di mercato particolarmente ridotta (2,4% rispetto al 12% cinese). La maggiore presenza cinese all’interno del territorio è confermata anche dall’orientamento


ITALIA-AFRICA Roberto Pasca Di Magliano e Daniele Terriarca

geografico8 delle sue esportazio- Gli effetti positivi positivi sulle ni: a partire dal 2005, il peso economie africane sono: gli invepercentuale dell’area sulle espor- stimenti cinesi interessano settotazioni della Cina è aumentato ri capital intensive, come quello notevolmente mentre quello de- estrattivo, con rendimenti non gli Stati Uniti e dell’Italia mo- sempre assicurati nel breve periodo. I prodotti a basso costo cistra un’evoluzione più lenta. I motivi di questo crescente inte- nese si adattano ai gusti e alle diresse economico e politico da sponibilità economiche del merparte della Cina possono essere cato locale. così riassunti: necessità di ap- La progressiva attenzione alle inprovvigionamento di materie frastrutture produrrà ricadute prime. La Cina si è trasformata positive nel medio-lungo perioin importatore di materie prime do, in particolare per quanto rienergetiche per poter soddisfare guarda la rete dei trasporti e il in modo adeguato il crescente rafforzamento dei servizi sanitari. Questo, invece, fabbisogno dell’inquelli negativi: dustria nazionale. I flussi di beni italiani possibile ritorno a Sicurezza alimentare: di un certo ri- nell’Africa subsahariana fenomeni di colonialismo. Eccessilievo sono anche le sono molto inferiori vo sfruttamento iniziative di Pechidelle risorse enerno per favorire a quelli dei principali getiche quale l’acquisto di terre- paesi europei ostacolo alla creni agricoli da parte di imprese nazionali9. Il fine ul- scita dell’apparato produttivo lotimo è quello di garantire il co- cale. Pressione competitiva delle stante approvvigionamento di merci cinesi nei mercati nazionabeni agricoli colmando così la li e conseguenti ripercussioni domanda derivante dalla forte sulle aziende africane “nascenti”. crescita demografica. Nuovi mercati di sbocco: con il Il piano per l’Africa rallentamento della domanda subsahariana delle economie avanzate, la Cina La presenza in Africa dei finanha la necessità di insediarsi in ziatori emergenti rappresenta nuovi mercati dove esportare per l’Italia uno stimolo a meglio l’eccesso di produzione. I prodot- finalizzare le proprie azioni per ti tessili (12,6% del totale), gli cogliere le opportunità di un strumenti di precisione (11,2%) graduale accesso delle imprese e i macchinari (10%) rappresen- italiane in aree e comparti, stratano i beni cinesi maggiormente tegici per il nostro paese ma sperichiesti. In alcuni casi si potreb- cialmente per gli stessi paesi be trattare anche di beni assem- della parte meno sviluppata blati in Africa e successivamente dell’Africa che dovrebbe essere indirizzati verso altri mercati. interessata ad uno sviluppo au-

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tonomo, non dominato da inte- miliardi di euro mentre quelle tedesche hanno superato i 10 miressi sovranazionali. Nonostante la vicinanza geogra- liardi. Nel dettaglio settoriale, i fica e le antiche tradizioni, la macchinari e i prodotti alimentapresenza italiana in Africa subsa- ri confermano la loro maggiore hariana è molto limitata. Gli in- penetrazione nel mercato movestimenti italiani hanno un pe- strando, anche nel difficile 2009, so molto marginale, circa lo un tasso di crescita positivo. 0,2% degli Ide (investimenti di- In questo contesto di maggiore retti esteri) in entrata10, così co- attenzione verso l’area, il Piano me sono contenuti al di sotto per l’Africa subsahariana vuole delle potenzialità gli scambi rappresentare uno strumento concommerciali. Le esportazioni ita- creto per rinnovare l’attenzione liane, in crescita dall’inizio del che l’Italia ha sempre mostrato al nuovo millennio, alla fine del continente e presentarlo come un 2009 hanno raggiunto un valore partner alla pari con cui intraprendere attività di busuperiore ai 4 misiness. Il piano ha liardi di euro con L’Italia metterà anche l’obiettivo di un avanzo commerciale per l’Ita- a disposizione il proprio stimolare l’interesse degli operatori lia. Questo legge- know how in settori italiani verso il ro attivo che dericontinente africano va principalmente fondamentali per evidenziando le dalla contrazione la crescita locale opportunità di delle importazioni (-40% rispetto al 2008), netta- commercio e di investimento in mente maggiore del calo regi- una visione di partenariato. strato dalle esportazioni. Sull’an- L’Italia metterà a disposizione il damento al ribasso delle esporta- proprio know how in settori fonzioni italiane ha contribuito in damentali per la crescita locale modo rilevante la flessione della (quali la logistica, le infrastrutdomanda del Sudafrica (primo ture e l’agroindustriale) e sopratmercato di sbocco) che non è sta- tutto la propria esperienza nella ta sufficientemente ammortizza- costruzione e gestione di sistemi ta dai risultati positivi registrati di sviluppo basato sulla crescita in altri paesi quali la Nigeria, delle Pmi. Un modello questo che, tra l’altro, corrisponde piel’Angola e il Congo. I flussi italiani di beni diretti namente all’esigenza di diversifiall’interno di tale area geografica cazione delle economie africane, si collocano comunque su valori ove il settore privato è ancora ponotevolmente inferiori rispetto a co sviluppato per mancanza di quelli dei principali paesi euro- una cultura industriale e di spiripei: nel 2009, l’ammontare delle to associativo laddove, invece, saesportazioni francesi nell’Africa rebbe auspicabile e possibile vasubsahariana è stato di circa 13 lorizzare le opportunità nascoste


ITALIA-AFRICA Roberto Pasca Di Magliano e Daniele Terriarca

in un capitale umano poco for- know how (sopratutto nel campo mato e in risorse fisiche ampia- militare) sia la promozione d’investimenti e l’accesso facilitato a mente sottoutilizzate. Un’attenzione specifica all’inter- determinati mercati. Il ricorso a no del Piano per l’Africa subsa- questa metodologia è auspicabile hariana è riservata alla promozio- anche per far emergere i reali ne di investimenti che non può fabbisogni di opere infrastruttucerto affidarsi ai canali tradizio- rali da parte dei singoli paesi nali di finanziamento internazio- africani intercettando la loro donale a causa delle grandi difficol- manda effettiva senza che questi tà strutturali di questi paesi11. Il siano costretti ad accettare interpiano individua, quindi, nel venti di tipo top-down. Tali inicounter trade la tipologia contrat- ziative hanno spesso il difetto di tuale più appropriata a spianare non trovare adeguate coperture la strada per investimenti in aree finanziarie e, soprattutto, di non particolarmente difficili. Il coun- avere impatti significativi all’interno delle realtà ter trade, più volte considerate. sperimentato da La promozione All’interno del altri paesi per stringere accordi degli investimenti deve piano sono anche presentate iniziadi partnership stra- contare su tipologie tive collegate al tegica, è un conmicrocredito, uno tratto internazio- contrattuali ad hoc nale con cui le par- come il counter trading strumento particolarmente valido ti regolano i termini della fornitura di beni e servi- in quanto non richiede di per sé zi, attribuendo un ruolo margi- sostegno finanziario pubblico ma nale al pagamento in denaro. solamente la messa a punto di un Questa forma contrattuale è nata sistema di regolamentazione per sopperire alla limitata dispo- dell’offerta di credito a piccoli nibilità finanziaria di uno dei produttori fondato sulla fiducia e contraenti, ed è per ciò adatta ai non sulla garanzia reale, che peraltro le popolazioni povere non paesi in via di sviluppo. Diversi sono i sotto-tipi contrat- sarebbero in grado di offrire. Con tuali che possono essere presi in la microfinanza, si capovolge anconsiderazione: il barter, lo switch che la tradizionale impostazione trading, il counter purchase, il buy delle politiche di aiuto, multilaback e l’offset. In particolare, que- terali o bilaterali, che si basano st’ultima rappresenta la tipologia sulla realizzazione di progetti cadi contratto adatta per migliora- lati su realtà locali impreparate, re le relazioni italiane con la re- spesso poco attrezzate sul piano gione subsahariana. Tale accordo professionale e dotate di un basso si utilizza generalmente per l’ap- livello di capitale umano. Per provvigionamento di beni ad al- raggiungere questo obiettivo soto contenuto tecnologico e di no state avviate importanti ini-

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ziative che prevedono la collaborazione tra banche italiane e locali per la creazione di fondi di garanzia ad hoc. Allo stesso modo, l’Italia si impegnerà a organizzare un valido sistema sia legal framework sia di gestione operativa con l’obiettivo di canalizzare in modo efficiente le risorse a disposizione. Assieme ad interventi di natura commerciale e finanziaria, un’altra qualificante dell’iniziativa del governo italiano è quella di favorire lo sviluppo del capitale umano attraverso opportune attività di formazione. Le nuove teorie della crescita endogena, infatti, evidenziano come le capacità professionali degli individui siano uno dei fattori produttivi più importanti per un percorso di crescita sostenibile. Per favorire tale processo, si prevede la realizzazione di una serie di specifici corsi di alta formazione, gestiti dalle principali Università italiane, fruibili anche online. Se da un lato il Piano per l’Africa subsahariana nasce per stimolare le iniziative imprenditoriali italiane dall’altro mira alla realizzazione di iniziative parallele dirette a sorreggere le economie locali attraverso la diffusione di know how e il consolidamento del capitale umano locale. L’Autore roberto pasca di magliano Professore Ordinario all’Università La Sapienza di Roma. daniele terriaca PhD Student Università La Sapienza di Roma

Note e Fonti

1 Nello specifico sia la Cina che gli Stati Uniti necessitano di un accesso diretto a tali risorse, la prima per garantire un processo di crescita sostenuta al proprio apparato industriale, i secondi per ridurre l’eccessiva dipendenza energetica dai paesi medio-orientali. 2 Le stime del Fmi, nel Regional Economic Outlook (ottobre 2009) dedicato all’Africa subsahariana, indicano un peggioramento dei conti pubblici. Si passerà infatti da un avanzo fiscale dell’1,3% del Pil nel 2008 ad un deficit del -4,8% nel 2009 e del -2,4% nel 2010. 3 All’interno di questi paesi si è verificato un duplice impatto negativo. Il crollo delle quotazioni del greggio non solo ha contratto il valore delle esportazioni ma ha prodotto anche una minore disponibilità di risorse economiche nelle mani degli Stati per portare avanti politiche di stabilizzazione. 4 Sono state infatti avviate tempestive misure a sostegno dell’economia reale alle quali deve essere anche aggiunta la progressiva attenzione da parte delle autorità nazionali al fine di eliminare, o ridurre, tutte le inefficienze di mercato. 5 L’elevata disponibilità di materie prime ha infatti impedito lo sviluppo di un apparato produttivo moderno e, di conseguenza, ha aumentato la vulnerabilità della regione alle fluttuazioni dei prezzi delle commodities. 6 P. Draper e G. Biacuana, Africa and the trade crisis, The great Trade Collapse: Causes, Consequences and Prospects (2009).


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7 Nel mese di novembre 2009, in occasione della quarta edizione del Forum, il governo cinese ha affrontato anche la questione del cambiamento climatico lungo due linee di intervento: la prima riguarda la realizzazione, a spese di Pechino, di progetti per lo sviluppo di forme di energia pulita, la seconda invece prevede la realizzazione congiunta di progetti di carattere scientifico-tecnologico. 8 Espresso come il peso percentuale delle esportazioni dirette verso l’Africa subsahariana sul totale dei flussi in uscita. 9 Da segnalare le attività di joint venture in Gabon e Namibia (industria della pesca) e le acquisizioni di terreni coltivabili in Zambia, Tanzania e Zimbawe. 10 Nell’area considerata sono presenti 250 aziende partecipate da imprese italiane con circa 22.000 addetti ed un fatturato di 5,4 miliardi di euro. 11 La maggior parte dei paesi dell’area considerata infatti non ha la capacità economica per poter onorare i finanziamenti ottenuti in ambito internazionale. L’accesso ad ulteriori fondi risulta quindi una strada non più percorribile e, di conseguenza, appare necessario individuare delle soluzione alternative con un basso impatto sulle economie locali.

African Development Bank, Africa and the Global Economic Crisis: Strategies for Preserving the Foundations of Long-term Growth, (May 2009) R. Baldwin, The Great Trade Collapse: Causes, Consequences and Prospects (November 2009) I.Cingottini e E.Mazzeo, Primavera Africana? - Commercio e investimenti nell’Africa sub-sahariana, L’Italia nell’economia internazionale, Rapporto Ice 2007-2008 A. Ferrari, Africa Gialla: l'invasione economica cinese nel continente africano, Utet (2008) S. Gardelli, L’Africa cinese: gli interesse asiatici nel Continente Nero, Egea (2009) L. Iapadre & F. Lucchetti, Trade regionalisation and openness in Africa(2009) Ice-Prometeia, Le opportunità per le imprese italiane sui mercati esteri, Evoluzione del commercio con l’estero per aree e settori (2010) Imf, Regional Outlook, Sub-Saharan Africa. Weathering the Storm (October 2009) R. Rotberg et all., China into Africa: trade, aid and influence, Brooking Institution Press (2008) K. Sen & D.W. Te Velde, State Business Relations and Economic Growth in Sub-Saharan Africa, Journal of Development Studies (Sept. 2009) Unctad, World Investment Report (2009, 2008)

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La rinascita africana passa anche per le imprese L’idea che tra la ricchezza e lo sviluppo umano vi sia un conflitto è falsa e dannosa. In Africa bisogna incentivare gli aiuti pubblici al settore privato. 72

DI GIOVANNANGELO MONTECCHI PALAZZI

Allorché si parla di cooperazione allo sviluppo e settore privato è opportuno richiamare quello che ritengo un postulato: non vi è sviluppo umano sostenibile senza sviluppo economico che lo sostenga e non vi è sviluppo economico autosostenuto e diffuso senza una partecipazione robusta ed attiva delle imprese del settore privato. La stretta correlazione tra sviluppo umano e sviluppo economico risulta evidente dal confronto tra l’indice di sviluppo umano – proposto dall’economista indiano premio Nobel Amartya Sen ed ora calcolato per 177 paesi dall’Undp – e l’indice di sviluppo economico di quegli stessi paesi rappresentato dal Pil. Non solo il con-

fronto evidenzia questa stretta correlazione, ma le cause degli scostamenti maggiori sono facilmente identificabili: il miglioramento delle condizioni di vita favorisce l’apertura, la tolleranza, la democrazia. L’idea pauperista ed estetizzante che vi sia un conflitto tra la ricchezza e lo sviluppo umano nonché tra la ricchezza e la capacità di superare conflitti, difficoltà morali e ristrettezze culturali è un’idea falsa e dannosa. Ciò premesso, va altrettanto francamente ammesso che gli aiuti pubblici allo sviluppo diretti al settore privato dei paesi in via di sviluppo sono stati, e sono, inadeguati e quasi timidi. I motivi di tale inadeguatezza sono di due ordini: ragioni ideo-


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logiche, mai del tutto superate, cui si sommano obiettive difficoltà tecniche. Quanto alle ragioni ideologiche, permettetemi di fare un rapido cenno al caso italiano. La Banca mondiale già nel 1956 si “sdoppiò” creando, accanto alla Ibrd che presta ai governi, la Ifc (International Finance Corp.) destinata a promuovere gli investimenti privati. In Italia un primo timido tentativo in tal senso fu introdotto solo 31 anni dopo all’art. 7 della attuale legge sulla cooperazione allo sviluppo (legge 28.2.1987 n.49). Come se non bastasse, i volumi di investimenti promossi ex art. 7 furono sempre modestissimi (dell’ordine di 15 milioni di dollari annui) per poi cessare del tutto. Solo negli ulti-

mi mesi il Comitato interministeriale per la programmazione economica ha approvato una nuova direttiva, tuttora non operativa, che dovrebbe consentire un certo rilancio. Eppure è molto probabile che allo sviluppo della Tunisia, inteso nel senso più lato, abbiano contribuito più le 672 imprese italiane che vi si sono installate con i loro 54.000 dipendenti degli interventi della Cooperazione italiana che, pure, ha a lungo considerato i paesi della riva sud del Mediterraneo area prioritaria. Le difficoltà tecniche risiedono sostanzialmente nel fatto che è indubbiamente più difficile e assorbe molto più lavoro “fare volumi” con molti interventi frazionati in favore di imprese, specie se Pmi,


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che non mediante interventi in fa- Quasi che la mala gestio dell’ecovore di grandi infrastrutture o nomia e delle finanze pubbliche e programmi statali. La stessa Ifc, la corruzione che stanno a monte l’organizzazione maggiore e “de- delle cancellazioni totali o parziacana” nel sostegno al settore pri- li fossero un fatto inevitabile e, vato che opera quasi esclusiva- tutto sommato, condonabile, mente con grandi imprese, realiz- mentre il fallimento di un’impreza volumi di attività che non arri- sa fosse inaccettabile. Quasi che vano ad un terzo del totale dell’at- cattiva gestione e corruzione, tività del gruppo della Banca purtroppo sempre in agguato, fossero caratteristiche esclusive mondiale. A livello europeo, il decimo pro- del settore privato, mentre l’espegramma Fes, dotato di uno stan- rienza dimostra che allignano ziamento di 22.682 milioni di piuttosto laddove l’invadenza euro, destina al settore privato dello Stato nell’economia è più pervasiva, quando il rischio non è solo il 5% circa di tale importo. di stampo comVi sono poi curiomerciale, ma polisi intrecci di ra- Corruzione e cattiva tico. gioni ideologiche, A tale stortura tecniche e buro- gestione proliferano contribuisce anche cratiche che non dove l’invadenza dello un atteggiamento sono razionalmenStato nell’economia burocratico difente difendibili. sivo: se gli aiuti Mi limito al caso è più pervasiva vengono mal utipiù eclatante. Governi e organismi finanziari in- lizzati o sono oggetto di malverternazionali cancellano regolar- sazioni da parte di enti pubblici mente, e per importi rilevanti, i dei paesi in via di sviluppo, ai crediti concessi a governi. Tali quali sono stati concessi per racancellazioni sono totali se av- gioni essenzialmente politiche, i vengono in un contesto di aiuto funzionari degli enti erogatori allo sviluppo come nel caso del- non potranno essere perseguiti se l’iniziativa Hipc (High Indebted non per negligenze o colpe gravi. Poor Countries1), ma sono so- Viceversa l’investimento diretto stanziali anche nel caso di accor- in un’impresa di un Pvs richiede di di ristrutturazione che riguar- valutazioni economiche non semdano crediti commerciali. Orbe- plici che comportano la responne gli stessi governi ed organi- sabilità diretta di chi le effettua2. smi diventano pavidissimi se non Per i motivi sopra accennati, gli del tutto reticenti quando si trat- enti donatori tendono a preferire ta di affrontare la prospettiva interventi indiretti che aggirano delle inevitabili, ancorché ben l’ostacolo della valutazione del più contenute, perdite risultanti rischio d’impresa. La Cooperazioda interventi diretti in favore del ne italiana, ad esempio, concede settore privato. ad entità pubbliche dei Pvs le li-


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nee di credito a condizioni di difficoltà di valutazione ed i riaiuto destinate a finanziare im- schi connessi. portazioni delle Pmi dei paesi in Tuttavia è proprio sul fronte delquestione, cosicché a suo carico le Pmi e delle microimprese che rimane solo il rischio politico a mio parere si gioca il futuro mentre quello commerciale ri- dello sviluppo economico e somane in capo alle entità pubbli- ciale dei paesi meno avanzati. Ed che intermediarie. Paradossal- è proprio su questo terreno, del mente, nell’esperienza italiana, è capitalismo democratico perché ben più “coraggioso” o, se vo- diffuso, che l’Italia può fornire gliamo, avanzato il ministero un suo contributo originale. dello Sviluppo economico-dipar- L’Italia è, tra i paesi avanzati, timento Commercio estero il quello che ha la maggiore inciquale, nel caso dei fondi di ventu- denza di Pmi: l’80% del totale. re capital da esso dati in ammini- Ma anche in paesi come Giappostrazione alla Simest, Società ita- ne, Danimarca e Irlanda esse rappresentano il liana per le impre60%, la stessa se all’estero (che ha Sul fronte delle Pmi percentuale della per scopo istituCina, ove 30 anni zionale la promo- si gioca il futuro dello fa non potevano zione economica, sviluppo economico neppure legalnon la cooperaziomente esistere ed ne allo sviluppo), e sociale dei paesi ora producono il non richiede le ga- meno avanzati 68% dell’export. ranzie bancarie che di norma Simest assume a fronte L’importanza delle Pmi nei paedegli investimenti effettuati coi si in via di sviluppo è dunque intuitiva. Purtroppo, come ha suoi mezzi propri. Fatta questa lunga premessa, re- evidenziato l’economista zamsta da illustrare perché mai go- biana Dambisa Moyo nel suo beverni ed istituzioni finanziarie in- stseller fortemente critico delternazionali dovrebbero affronta- l’impostazione tradizionale dere il notevole sforzo organizzativo gli aiuti allo sviluppo, significarichiesto da forme più avanzate di tivamente intitolato Dead aid – intervento in favore delle impre- in Zambia le Pmi rappresentano se, specie delle Pmi. Sforzo che solo il 40% del settore formale, comporta l’accumulo di cono- in Camerun il 20%. Come se scenze specifiche, la creazione di non bastasse, un recente rappororganismi di valutazione e di to della Banca mondiale ha evicontrollo e, laddove possibile, denziato come, in relazione al l’assunzione di garanzie aziendali, numero di adulti, in Africa e nel consortili o altre. E, ovviamente, Medio Oriente la creazione di quanto minore è la dimensione nuove imprese sia un decimo di aziendale tanto maggiori sono il quella dei paesi Ocse. frazionamento degli interventi, le Eppure anche chi abbia mini-

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mamente viaggiato in tali paesi si è reso conto che non è certo lo spirito di iniziativa che manca, anzi. Purtroppo esso resta confinato nel settore informale, nel cosiddetto “lavoro nero”. Nei paesi sviluppati il lavoro nero viene biasimato soprattutto per l’evasione fiscale. Sarebbe opportuno ricordarne altri aspetti socialmente ben più deleteri: salari infimi, nessuna sicurezza di impiego, condizioni e sicurezza sul lavoro esecrabili, maggiore esposizione alla concussione da parte dei funzionari pubblici. Far uscire la stragrande maggioranza dei lavoratori dei Pvs dal settore informale, dal lavoro nero, è in primo luogo un imperativo morale a mio avviso non adeguatamente considerato. Né, credo, sia corretto obiettare che, nonostante la crisi, nel 2008

gli investimenti diretti nei Pvs, secondo le stime dell’Unctad, sono addirittura cresciuti del 17% raggiungendo 621 miliardi di dollari e che, pertanto, il settore privato può cavarsela da solo. Il fatto è che tale rispettabilissima cifra comprende realtà molto diversificate: l’insieme dei paesi meno avanzati ha ricevuto investimenti per complessivi 33 miliardi di dollari, contro i 108 della Cina, i 63 di Hong Kong, i 45 del Brasile. Se si considera, poi, che gli investimenti diretti esteri non apportano solo capitali ed occupazione, ma anche nuovi e più avanzati sistemi produttivi e collegamenti a reti internazionali di distribuzione (tra l’altro ormai più di un terzo del commercio internazionale si svolge in house), risulta evidente che, in un mondo sem-


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pre più globalizzato i paesi che non ricevono investimenti diretti esteri rischiano di essere ancor più marginalizzati. Il successo del microcredito in anni recenti dimostra come idee innovative basate su una effettiva conoscenza diretta della realtà verso la quale si indirizzano possono produrre risultati notevoli con mezzi tutto sommato modesti. Il microcredito si fonda, in ultima analisi, sulla felice intuizione del premio Nobel Muhammad Yunus riguardante lo spirito di corresponsabilità dei beneficiari. Ma se si supera la dimensione micro i profili tecnici si fanno più complessi ed articolati. Si possono tuttavia porre in essere intere panoplie di soluzioni: aiuti a banche locali perché finanzino capitale circolante e non solo acquisti al-

l’estero, si può chiedere ai governi che beneficiano di cancellazioni di crediti che il controvalore in moneta locale sia destinato a tal fine (invece di tradursi in un generico sostegno al bilancio statale come, di fatto, finisce sempre per avvenire per ignavia), si possono aumentare i fondi destinati all’assistenza tecnica, si possono favorire non solo gli investimenti diretti, ma anche i cosiddetti non-equity investments, particolarmente adatti all’operatività delle Pmi, si possono costituire fondi di garanzia e simili. Ma soprattutto occorre convincersi che non c’è sviluppo umano senza sviluppo economico né sviluppo economico senza impresa, che sviluppare un tessuto di piccole imprese è un obiettivo umano e sociale prima ancora che economico. Di conseguenza bisogna aumen-

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tare decisamente gli sforzi e gli giunto nel 2008 l’ammontare di stanziamenti a dono e a credito. 305 miliardi, più di tre volte i Nel caso di crediti accettare le flussi netti di aiuti ufficiali allo inevitabili perdite connesse con sviluppo al netto delle cancellai rischi di impresa (che comun- zioni dei debiti. que, in percentuale, saranno in- Nello stesso anno, secondo dati feriori alle cancellazioni dei de- della Banca d’Italia, le rimesse in biti pubblici degli ultimi anni) uscita dal nostro paese verso tutte e di cambio (salvo in caso di le destinazioni sono ammontate a prestiti a grandi imprese espor- 5.979 milioni di euro. Per inciso tatrici). Anche se è frutto di nel 2008 lo stanziamento comestrapolazioni assai complesse, plessivo italiano per aiuti pubblici si può affermare senza timore di allo sviluppo era pari a 4.443,59 smentite sostanziali che la per- milioni di dollari, pressapoco la centuale degli aiuti pubblici al- metà. lo sviluppo destinati al settore Si stima che circa il 70% delle rimesse sia indirizprivato è inferiore zato a fini di pura al 10%. Occorre convincersi assistenza familiaL’accento andrebre, ma che il 30%, be posto sui paesi che non c’è sviluppo circa 100 miliardi meno avanzati, umano senza sviluppo di dollari (pari al intesi come quei totale dei flussi ufpaesi nei quali, economico e nulla può ficiali di aiuto) sia come spesso av- esistere senza impresa investito in piccole viene, bassi livelli di reddito si accompagnano a iniziative produttive agricole, inbassi livelli dell’indice di svi- dustriali e commerciali. luppo umano. Sono i paesi che Ai fini di uno sviluppo capillare rischiano più fortemente di es- e bottom-up sarebbe estremamente sere esclusi ed emarginati dai interessante incentivare tali rifenomeni di globalizzazione messe a fini produttivi. dell’economia. La maggior par- Sarebbe anche un modo di contribuire all’integrazione degli te di essi si trova in Africa. Vi è poi, a livello globale, a ca- immigrati e, in qualche modo, vallo tra le microimprese e le ad un “rientro” non delle loro piccole imprese, un fenomeno persone, ma delle loro capacità non necessariamente nuovo (noi acquisite, contribuendo così al italiani lo abbiamo conosciuto e mitigare anche il grave problema vissuto fino agli anni Sessanta del drenaggio delle migliori ridel secolo scorso) ma che sta as- sorse umane dai Pvs. sumendo dimensioni sempre più Tentativi in tal senso sono allo rilevanti: quello delle rimesse de- studio o in fase incipiente presso istituzioni internazionali (ad gli emigrati. Le rimesse dirette verso i Pvs tra- esempio l’Ifad a Roma), ma nesmite canali formali hanno rag- suno si è ancora affermato. La


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Francia ha avviato un sistema di crediti di imposta che pare troppo farraginoso da gestire. Un’idea, promossa da Assafrica & Mediterraneo e recepita da Farefuturo nella sua recente pubblicazione Fare Italia nel mondo, può essere quella di abbinare le rimesse al microcredito mediante incentivi concessi dalla Cooperazione italiana allo sviluppo. Si tratta di una proposta che riunisce semplicità operativa, bassi costi ed elevati livelli di sicurezza contro abusi. Si consideri che BancoPosta (9.000 sportelli in Italia) ha un accordo con Gramm Transfer (110.000 sportelli al mondo) che prevede rimesse a partire da cifre modestissime a costi minimi. Si consideri altresì che le moderne telecomunicazioni offrono comprovate tecniche di codificazione. Ciò premesso, in termini banali: se un immigrato volesse contribuire con le sue rimesse al rimborso di un microcredito concesso ad un suo famigliare nel paese di origine, invece di indirizzarle al parente in questione potrebbe indirizzarle direttamente all’entità di microcredito concedente ed il codice attribuito alle rimesse potrebbe attivare automaticamente un contributo della nostra Cooperazione allo sviluppo. Escludendo, per ovvi motivi, i paesi maggiori beneficiari come Cina e Romania e limitandosi ai microcrediti dei paesi meno avanzati, le cifre in gioco sarebbero alla portata anche delle scarse risorse della nostra Cooperazione.

In compenso, se l’Italia riuscisse ad avviare per prima un sistema funzionante di tal genere ne ricaverebbe un notevole ritorno di immagine in sede internazionale, mentre all’interno darebbe una prova tangibile della volontà di venire incontro ai bisogni degli immigrati e delle famiglie di provenienza contribuendo all’integrazione di coloro che sono venuti nel nostro paese con un autentico progetto di lavoro e di vita, così come un tempo avveniva per i nostri emigrati.

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Per l’insieme dei paesi Ocse i debiti cancellati in tale contesto nel 2005 hanno superato 20 miliardi di dollari per poi calare sensibilmente. Comunque nel 2008 sono ammontati a 8.687 milioni di dollari, di cui 813 milioni provenienti dalla cooperazione italiana (18% degli stanziamenti disponibili). 2 Questo fattore ha contribuito a che, da Tangentopoli in poi, la Cooperazione italiana tenda a delegare le sue funzioni. Nel 2008 ha affidato il 68% dei suoi fondi al canale multilaterale gestendo, quindi, direttamente solo il rimanente 32%. In media i paesi Ocse indirizzano al canale multilaterale solo il 30% dei fondi. La visibilità internazionale della Cooperazione italiana ne risulta, quindi, fortemente sminuita.

L’Autore giovannangelo montecchi palazzi Vicepresidente Assafrica&Mediterraneo-Confindustria.

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Servono investimenti per diventare adulti

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er riuscire a innescare un meccanismo economico virtuoso, è essenziale che l’Africa sia parte attiva delle decisioni economiche che la riguardano. In un mondo economico globalizzato, se un soggetto non decide saranno altri a farlo per lui. La carità buonista occidentale e lo sfruttamento cinese stanno danneggiando l’intero continente. DI FRANCESCO CROCENZI

La soluzione più efficace per aiutare l’Africa e mostrarle con i fatti il rispetto che merita non è quella delle donazioni a cascata, ma un deciso cambio di approccio verso il Continente nero, che dovremmo smettere una volta per tutte di vezzeggiare come un bambino che non cresce mai, ed in quanto tale sempre bisognoso di aiuti e di carità, ma considerare finalmente un adulto nel concerto dell’economia globale e globalizzata.

L’Africa non deve ricevere elemosine ma attrarre investimenti. Solo i secondi possono infatti garantire uno sviluppo sostenibile1, solido e su larga scala, perché le elemosine, espressione di una attitudine mentale innaturale, pur se lodevole, dell’homo oeconomicus – poiché questi cerca per sua indole il profitto – non potranno che avere una incidenza limitata rispetto ai bisogni di intere popolazioni, che non devono né possono assuefarsi a vivere di ca-


MACROECONOMIA Francesco Crocenzi

rità, mentre iniziative basate su scelte economiche, a loro volta dettate da criteri di mercato e della legge domanda-offerta, possono ottenere quei risultati di allocazione ottimale delle risorse su scala macroeconomica che assicurano il relativo benessere delle società del Primo mondo. In questo contesto è essenziale che l’Africa sia parte attiva delle decisioni economiche che la riguardano e non può restarne fuori perché in un mondo globaliz-

zato, in cui cioè la scelta di dove allocare i fattori della produzione non ha più confini, se un soggetto non decide saranno altri a farlo per lui, volente o nolente, ed è quello che sta succedendo ora con l’Africa: debole, se non inesistente da un punto di vista commerciale e finanziario, ma ricca di risorse, è sempre stata oggetto e mai soggetto delle decisioni su come usare queste ricchezze naturali, per cui non sono gli africani a trarre profitto dalla loro


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terra. Questo processo va sempre situazione dei mercati di molti di più degenerando nello sfrutta- paesi africani di oggi: costretti a mento dell’Africa da parte di po- produrre ciò che non consumano tenze a loro volta emergenti ed e quindi a consumare ciò che non affamate di materie prime, come producono. i cinesi, che non hanno né la sen- Per porre rimedio a questo grave sibilità per i diritti umani né i stato di cose in cui sembrano esisensi di colpa per il passato colo- stere i soli due estremi dell’eleniale di noi europei. E così, se mosina da un lato e del selvaggio noi occidentali ci siamo “limita- sfruttamento dall’altro, occorre ti” negli anni del postcoloniali- un deciso cambio di atteggiasmo a sfruttare e speculare sulle mento verso l’Africa, che poi ririsorse naturali dell’Africa, i neo- flette quanto noi occidentali faccolonialisti del Far east fanno ciamo da sempre e si sintetizza molto di peggio, invadendo fisi- nel sacro principio del do ut des. camente il suolo dell’Africa per Infatti, per quanto strano, carità buonista e sfruttadepredarlo: come mento cinese hannoto infatti molti Serve un approccio no un punto in coStati asiatici hanmune, che è la n o o t t e n u t o e capitalista così mancanza di sinalstanno ottenendo da poter favorire lagma tra quanto in concessione ampie porzioni di l’incontro tra domanda si dà e quanto si riceve dall’Africa, terre coltivabili di e offerta ovviamente in senpaesi africani per coltivarli o sfruttarli in altro mo- so opposto nell’uno e nell’altro do a proprio esclusivo vantaggio. caso. Un approccio sinceramente Essere travolti dalla globalizza- capitalista, invece, comporterebzione senza esserne minimamen- be che, al pari di quanto succede te parte attiva comporta lo sna- in ogni altra parte del mondo, io turamento delle economie nazio- ricavo profitti, ma come ritorno nali che si trovano in questo sta- di quanto ho investito. to di soggezione, perché il fatto Gli investimenti comportano di asservirle a dei meccanismi di movimenti di capitali, e i capitadomanda e offerta su scala plane- li si reperiscono in vario modo taria, che prescindono quindi favorendo l’incontro della docompletamente dalla domanda manda e dell’offerta di risorse finazionale, porterà delle economie nanziarie. Questo incontro di dopiccole ad essere monotematiche manda e di offerta di capitali ha e quindi drammaticamente vul- luogo in due modi principali. nerabili ad oscillazioni dei prezzi Nel primo, vi è uno stesso sogdel solo bene o risorsa che produ- getto che si pone come “prendicono e su cui basano la totalità tore” e “fornitore” di capitali, acdei loro redditi e sostentamento. quisendo da un lato i mezzi fiRisultato di ciò è la sconfortante nanziari da chi intende impiegar-


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li o, più frequentemente, solo depositarli, e, dall’altro lato, mettendoli a disposizione di chi ne ha bisogno. Dare a qualcuno la possibilità di disporre di capitali è un servizio per il quale viene pagato un prezzo, che nel nostro caso si chiama interesse; ciò detto il soggetto di cui sopra, che si pone come intermediario tra chi dispone di capitali e chi intende prenderli in prestito, è evidentemente il sistema bancario, che lucra un aggio fra quanto paga a titolo di retribuzione dei depositi e quanto preleva come interesse sui mezzi finanziari che concede in prestito. Il secondo modo è quello di istituire dei sistemi organizzati di scambi, tra i quali i principali sono detti “borse”, in cui far incontrare senza interposizioni la domanda e l’offerta di strumenti e risorse finanziarie. Nei mercati regolamentati viene trattato tutto ciò che abbia un valore economico, dalle merci ai metalli preziosi ai titoli di debito (le obbligazioni), per finire alla categoria principale, e cioè i titoli di partecipazione al capitale delle imprese, che sono le azioni. La funzione della borsa è quindi molto importante perché offre alle imprese un sistema di finanziamento, alternativo al sistema bancario, che fa direttamente appello al risparmio offrendo in cambio agli investitori una partecipazione al capitale dell’impresa stessa. Dal lato degli investitori, la presenza di una borsa evoluta ed efficiente permette di impiegare il risparmio scommettendo sullo

IL LIBRO

Africa, gli aiuti che fanno male Lo scopo dichiarato di Dambisa Moyo è distruggere il falso mito della efficacia degli aiuti ai paesi poveri. Questa è la tesi della studiosa di economia, già consulente della Banca mondiale e della Goldman Sachs, autrice di Dead Aid. In realtà, sostiene la studiosa nativa dello Zambia, inondare di soldi le fragili nazioni africane serve solo ad arricchire gli speculatori e a tacitare le coscienze dei benefattori. I sempre più numerosi sostenitori della politica degli aiuti ritengono, spesso in assoluta buona fede, che il problema dei paesi sottosviluppati sia la mancanza di denaro, e che, quindi, basti sopperire a tale mancanza per risolvere tutto. per fare un esempio, tra i molti citati dettagliatamente nel libro, il Pil di numerose nazioni africane, tra cui Malawi, Burundi e Burkina Faso, negli anni Ottanta superava quello della Cina. L’autrice mette in discussione anche la nascita dei regimi democratici. Siamo sicuri – si chiede la studiosa africana – che che i regimi democratici siano la soluzione adatta a paesi giovani, fragili e divisi in etnie in continuo contrasto fra loro? No, è la risposta, perché quella che è stata in Occidente una sofferta e lunga conquista durata secoli, non può diventare la panacea per risolvere situazioni totalmente diverse; anzi, parafrasando Karl Kraus su Freud, può addirittura diventare il male di cui pretende di essere la cura. La ricchezza è una maledizione, e se la disponibilità di materie prime è un dato di fatto, che ha fatalmente attirato l’interesse di individui e governi senza scrupoli, l’abbondanza di denaro proveniente dagli aiuti non è altrettanto inevitabile, e può quindi essere messa in discussione. Il problema è che, continua la Moyo, nessuno si è preso la briga di coinvolgere i diretti interessati.

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sviluppo del sistema economico. portare una sezione del capitolo In questo contesto, uno dei me- sui fattori di rischio connessi agli todi con cui il risparmio degli investimenti nei mercati emerinvestitori, soprattutto quelli genti, contenuto nel prospetto di piccoli, viene convogliato nelle uno dei più grandi fondi di inveborse è attraverso i fondi di inve- stimento europei, il Morgan stimento. Questi, come noto, so- Stanley Investment Fund: «In alno degli organismi costituiti sot- cuni Stati vi è la possibilità di to varia forma da un promotore esproprio delle attività, di tassaal fine di accumulare un insieme zioni aventi il carattere di una di risorse (e cioè denaro) da ge- confisca, di instabilità politica stire “in monte”, risorse che sa- e/o sociale, e di sviluppi diploranno impiegate in conformità a matici che potrebbero influenzapolitiche e obiettivi di investi- re gli investimenti in tale Stato. mento preventivamente dichiara- Potrebbe esservi un accesso più ti agli investitori in un docu- limitato di quanto solitamente avviene alle informento che si chiamazioni relative ma prospetto o re- Un corretto sviluppo agli strumenti figolamento di gedelle borse locali nanziari, ed entità stione. finanziarie in alcuUn adeguato svi- permetterebbe ni Stati potrebbero luppo delle borse non essere soggetlocali può quindi alle imprese africane te a certi standard dare modo alle im- di reperire i capitali di contabilità, represe africane di reperire i capitali di cui hanno bi- visione e rapporti finanziari parasogno per sviluppare le loro attivi- gonabili a quelli ai quali alcuni tà, ed agli investitori, tra cui i fon- investitori sono abituati. […] I di ed i risparmiatori che li acqui- sistemi di regolamento nei merstano, di diversificare le opportu- cati emergenti potrebbero non essere organizzati quanto quelli nità di profitto. Investire in azioni comporta tut- dei mercati evoluti. Potrebbe tavia dei rischi perché l’anda- quindi esservi il rischio che un mento del loro prezzo sarà legato pagamento venga ritardato e che alle vicende dell’impresa; inve- la liquidità od i titoli di un comstire in azioni di alcuni paesi parto possano per questo essere comporta poi dei rischi supple- compromessi per le mancanze o i mentari perché oltre al rischio difetti nel sistema dei pagamenrelativo all’impresa – noto come ti. In particolare, la pratica dei rischio “emittente” – vi sarà an- mercati potrebbe richiedere il che il rischio legato alle vicende pagamento prima della ricezione dei valori mobiliari da parte politiche di un certo paese. Per comprendere come tali rischi dell’acquirente o che il valore siano percepiti dai grandi inve- mobiliare venga rilasciato prima stitori internazionali, è utile ri- della riscossione del pagamento.


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[…] Altri rischi potrebbero dovuti ad un eccesso di deregulacomprendere, a titolo di esem- tion: nessun limite all’uso di depio, controlli sugli investimenti rivati sempre più spinti, nessun stranieri e restrizioni sul rimpa- limite alle retribuzioni dei diritrio dei capitali e sul cambio del- genti, nessun limite all’indebitale valute locali con il dollaro sta- mento di grandi conglomerati fitunitense, l’impatto sull’econo- nanziari. Se invece vi fosse stata mia di disordini religiosi o di na- una sorta di “costituzione economica” a guida dei legislatori e tura etnica». I rischi di tipo politico sono a delle autorità di vigilanza, specie tutt’oggi propri di molti Stati dei paesi alfieri della deregulation, africani, nei quali si riscontrano è probabile che le cose sarebbero casi di corruzione e di scarsa tu- andate diversamente. tela degli investitori esteri, ai Anche se i giuristi italiani e quali in casi estremi può essere dell’Ocse hanno elaborato i legal impedito di rimpatriare i profitti standard rivolti a Usa e Regno Unito, nei cui siottenuti nello Stastemi si è incubato to in questione. Per adeguare il virus della crisi, Dal momento che gli stessi principi spingere per l’eli- la legislazione possono essere usaminazione dei ri- finanziaria si deve ti come modello schi politici va a toccare le preroga- partire dai legal standard anche per le legislazioni economitive sovrane del elaborati dall’Italia che dei paesi paese interessato, la materia è molto delicata e de- emergenti, una sorta di “bollino ve essere affidata a processi di blu” di una giurisdizione che atmoral suasion a livello internazio- testi che essa si adopera per creare nale. A tal fine, un ottimo punto condizioni di correttezza e buona di partenza per un percorso di amministrazione a beneficio (anadeguamento della legislazione che) degli investitori. economica e finanziaria dei paesi I legal standard sono i seguenti: emergenti a standard idonei a ras- 1. alla base del mercato vi deve sicurare gli investitori interna- essere integrità e trasparenza; 2. zionali potrebbero essere i legal al centro del sistema, comunque standard elaborati dalla presiden- basato sul mercato, vi devono esza italiana del G8 nel 2009 con sere i bisogni dei cittadini; 3. la collaborazione dell’Ocse. I le- non si deve consentire di ridurre gal standard nascono all’apice le spese per il lavoro e la tutela della crisi finanziaria del dell’ambiente al fine di ridurre i 2008/2009 sulla base di una con- costi delle imprese; 4. l’evasione statazione molto semplice, e cioè fiscale, ma anche l’elusione, sono che i disastri che si sono verifica- dannose per l’intera società; 5. i ti nelle economie di tutto il rapporti tra governi e imprese mondo sono stati in gran parte devono essere bilanciati e traspa-

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renti (si pensi all’attività di lobbying); 6. vi deve essere responsabilità e chiarezza nei rapporti tra amministratori ed azionisti delle imprese; 7. l’informazione sullo stato di salute delle imprese e la loro proprietà e situazione finanziaria deve essere tempestiva; 8. i pagamenti e i compensi (e cioè gli stipendi dei manager) devono essere sostenibili – e cioè non eccessivi per le possibilità economiche dell’impresa – e coerenti con i suoi obiettivi di lungo termine; 9. la corruzione, interna e internazionale, è un crimine e deve essere efficacemente punita; 10. il riciclaggio di denaro va perseguito con decisione; 11. le

pratiche protezionistiche sono incompatibili con il libero mercato e per questo vanno vietate; 12. il segreto bancario non può essere un ostacolo all’applicazione dei principi che precedono. Non sfugge, quindi, che un paese emergente che attuasse in pieno il “dodecalogo” sopra enunciato potrebbe diminuire il rischio di tipo politico descritto nel prospetto di Morgan Stanley sopra citato. Un altro elemento fondamentale per il buon funzionamento di una borsa è la sua liquidità. Liquidità significa in ultima analisi che in un mercato devono circolare abbastanza denaro ed operatori da evitare agli investitori


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di dover svendere pur di trovare un acquirente e, parimenti, che se un’impresa decide di vendere in borsa parte delle sue azioni, possa farlo a condizioni soddisfacienti. Perché il mercato sia frequentato dagli investitori, è necessario che vi siano molteplici possibilità di impiego dei loro capitali, e cioè che il numero di società quotate sia relativamente cospicuo, perché altrimenti il mercato langue. In concreto quindi, saranno ben pochi i frequentatori di un mercato in cui sono quotate meno di dieci società, gli scambi saranno quindi rarefatti e in ultima analisi il prezzo delle azioni di questo

sparuto gruppo di imprese sarà falsato, perché sarà determinato non dal loro valore intrinseco – dato da utili e prospettive di crescita – ma da quanto i rari frequentatori del mercato sono disposti a pagarle, prendere o lasciare in mancanza di una gara tra compratori per acquistare quel titolo, che invece, ove vi fosse, ne aumenterebbe la domanda e quindi il prezzo. Il problema della rarefazione degli scambi e quindi della liquidità è molto concreto per i paesi dell’Africa subsahariana, le cui economie, prese singolarmente, non sono capaci di formare mercati con masse critiche tali da attrarre gli investitori. Per ovviare a questo limite, un gruppo di Stati dell’Africa occidentale ha creato da ormai svariati anni una borsa sovranazionale per avere un unico listino che raggruppasse le loro società quotate: si tratta della Bourse régionale des valeurs mobilières (Brvm), costituita nel 1998 da Benin, Burkina Faso, Guinea Bissau, Costa d’Avorio (nella cui capitale Abidjan è situata la Brvm), Mali, Niger, Senegal e Togo, che conta una quarantina di titoli quotati. Anche se la capitalizzazione della Brvm non è a tutt’oggi molto significativa, l’esperienza potrebbe essere ripetuta in altre regioni dell’Africa con la creazione di ulteriori borse regionali nel caso in cui i mercati nazionali, presi singolarmente, non fossero in grado di assicurare una liquidità sufficiente; nel far ciò aiuta il fatto che le barriere linguistiche sono

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ridotte dato che l’inglese o il o nell’Africa australe. Da parte francese sono di uso corrente in sua la Borsa della Nigeria, che Africa (i paesi membri della potrebbe avere una liquidità Brvm sono tutti francofoni tran- sufficiente, sconta il rischio pone uno). In tale contesto, sono litico di un paese con un forte stati avviati contatti tra Kenya, grado di corruzione – che non Tanzania e Uganda (paesi anglo- garantisce un quadro normativo foni) per la creazione di una Bor- certo per gli investitori internasa regionale dell’Africa orientale, zionali – ed una conflittualità che a tutt’oggi non ha iniziato ad molto forte, che se prima era lioperare, mentre non sono arrivati mitata al movimento del Mend a buon fine i tentativi di costi- si sta ora pericolosamente trasfortuire una borsa centrafricana con mando in un conflitto religioso Camerun, Repubblica Centrafri- tra cristiani e musulmani. cana, Ciad, Repubblica del Con- Considerando l’Africa subsahariana, vi sono quindi delle critigo e Gabon. cità date dal fatto Ad oggi, vi è solo che le borse di una grande borsa Bisogna aumentare paesi relativamenin Africa paragote stabili (Ghana, nabile per dimen- la liquidità dei mercati sioni a quelle dei e renderli attraenti agli Brvm) non hanno livelli di liquidità paesi del nord del adeguati, mentre mondo, quella del occhi degli investitori quelle più grandi Sudafrica, che ha internazionali hanno forti rischi 425 società quotate2 e una capitalizzazione di borsa politici. di 549 miliardi di dollari3. Se- Quali soluzioni? Una la abbiamo guono a grande distanza la Borsa già citata a proposito del rischio egiziana, con 373 società quotate politico, ed è quella di adottare i ed una capitalizzazione di 85 mi- legal standard dove oggi essi sono liardi di dollari, quella della Ni- disattesi, magari facendone certigeria (213 titoli, 80 miliardi di ficare l’effettiva attuazione da dollari di capitalizzazione), quella parte di organismi internazionadella Namibia (29 società per 79 li. La seconda è ovviamente quelmiliardi di dollari di capitalizza- la di cercare di aumentare la lizione) e, distanziata di molto, la quidità dei mercati ancora asfitBorsa del Ghana con quasi quin- tici per renderli attraenti per gli dici miliardi di dollari di capita- investitori internazionali. Ciò può verificarsi quotando non solo lizzazione e 35 società quotate. Da questa classifica delle borse le società locali, ma anche le fidel continente nero si nota che liali africane di società europee o quelle della fascia subsahariana statunitensi ivi costituite per sono decisamente marginali da- “delocalizzare” (e cioè stabilirsi to che le più importanti si tro- dove i fattori della produzione vano o nella parte mediterranea sono meno cari), che in tal modo


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potrebbero reperire altri capitali per le loro operazioni ma dovrebbero impegnarsi a reinvestire almeno una parte degli utili nel paese di quotazione; inoltre, le comunità della diaspora che risiedono fuori dall’Africa potrebbero essere sensibilizzate ad investire i loro risparmi in società della madrepatria per favorirne lo sviluppo tramite, ad esempio, fondi di investimento dedicati. La delocalizzazione, se attuata con delle cautele e senso della misura per evitare il rischio già paventato che un paese debba produrre solo ciò che non consuma (importando quindi ciò che consuma), porta dei benefici perché un accordo di produzione di beni fra un’impresa di un paese emergente e quella di un paese sviluppato dà molta più tranquillità alla prima, che avrà garantiti sbocchi di mercato anche nei paesi più ricchi e non dovrà fare affidamento sulla sola domanda del proprio mercato domestico (e cioè quello emergente), di per sé ancora debole e fortemente ciclica, e ciò si ripercuoterà sul valore della filiale. Una borsa sviluppata aiuta le imprese a trovare mezzi finanziari. Se le imprese sono in buone condizioni, ne risentirà anche l’occupazione, e ciò, specie nei mercati emergenti, significa favorire la pace sociale. Un maggiore benessere economico attenua la spinta a lasciare un paese povero e contribuisce a spegnere focolai di estremismo antioccidentale il cui combustibile molto spesso è la povertà e l’animo-

sità verso un sistema economico e sociale di cui si percepiscono solo gli elementi di iniquità in quanto si è esclusi da ogni beneficio. La formazione di un ceto sociale intermedio che veda soddisfatti per la prima volta in maniera stabile ed irreversibile i suoi bisogni primari è di fondamentale importanza per l’Africa, che potrà quindi vedere l’Occidente non come uno sfruttatore che ogni tanto, graziosamente, elargisce carità, ma come un partner commerciale da trattare e da cui essere trattati alla pari.

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Per evitare equivoci, il termine “sostenibile” è qui usato non nel significato di “compatibile con criteri ambientali”, di per sé determinati in modo affatto soggettivo, ma nel senso di attitudine di un fenomeno a mantenersi nel tempo. 2 Tutti i dati sulle borse africane sono al 2008 – Fonte: African securities exchanges association – Asea. 3 “Capitalizzazione di borsa” indica la somma del valore dei titoli trattati in una certa borsa.

L’Autore francesco crocenzi Avvocato specialista in diritto finanziario, ha insegnato diritto comunitario all’Università Luiss Guido Carli. Collabora con la rivista Imperi. È autore dei libri Onu, la sfida italiana (Nuove idee, 2005) e The Italian Hub (Rubbettino, 2009).

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Il colonialismo del Terzo Millenio La presenza cinese in Africa viene da lontano e ha origine nel Quattrocento. Oggi, però, l’invasività di Pechino negli affari economici e politici del continente preoccupa l’Occidente, che rischia di perdere per sempre un rapporto fondamentale. DI FEDERICO BRUSADELLI

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Nel 1415 l’ammiraglio del Celeste Impero Zheng He sbarcava sulle coste della Somalia. L’ordine di Yongle, terzo sovrano della dinastia Ming, era chiaro: espandere la luce dell’Impero di mezzo, costruire una “sfera d’influenza” globale d’ispirazione confuciana che lambisse quasi tutto il mondo conosciuto, realizzare un anello di civiltà che consacrasse la Cina come fulcro del mondo. La visione ambiziosa di un imperatore ambizioso (per intenderci, fu lo stesso che spostò la capitale a Pechino, avviò la costruzione della Città proibita, riaprì il Canale imperiale, fermò i mongoli alle frontiere e ordinò la compilazione di una delle più straordinarie enciclopedie che la storia umana ricordi), consegnata nelle mani di un uomo altrettanto ambizioso e visionario. Un uomo che, secondo qualche storico “coraggioso”, avrebbe spinto le navi cinesi fino in America, anticipando lo sbarco di Colombo. Al

di là delle ipotesi più o meno fantasiose, è certo che Zheng He compì sette viaggi tra il 1405 e il 1433, tra l’Oceano indiano, la Penisola arabica e l’Africa. Un’impresa interrotta dai successori dell’imperatore “illuminato” per motivi economici. Una scelta, questa, che segnò il destino della Cina: mentre l’Impero di mezzo si chiudeva, orgoglioso, dietro la Grande muraglia, l’Occidente si apriva e gettava le basi per il suo futuro da “conquistatore”. Nel novembre del 2009, in un albergo di lusso sulle rive del Mar Rosso, per l’esattezza a Sharm-elSheik, arriva il chiaro segnale che la Cina, a quasi sei secoli dalla fine del sogno di Yongle, forte ormai di una crescita economica tanto inattesa quanto impetuosa e di una stabilità politica all’apparenza ferrea, ha deciso di riprendere quel filo interrotto. L’immagine parlava da sé: erano in cinquanta, tra capi di Stato e


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di governo africani (più di quanti ne raccolgano, di solito, i vertici dell’Unione africana), ad attendere Wen Jiabao. In cinquanta per stringere la mano al primo ministro cinese, uno degli architetti della crescita economica della Repubblica popolare e della sua espansione. Un appuntamento che ha mostrato definitivamente al mondo (e a chi per troppo tempo ha finto di non accorgerse-

ne) il potere cinese nel continente nero. Perché Pechino considera l’Africa una sua “sfera di influenza”, ormai. E lo fa impostando un nuovo metodo di colonizzazione, una occupazione “da Terzo Millennio”, spregiudicata, rapida, pragmatica. Senza coloriture ideologiche, senza velleità di esportazione della democrazia, senza interesse alcuno per impicci come i “diritti umani” o le “li-


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bertà politiche”. Soldi, scambi, investimenti. Con dittatori o presidenti eletti, fa poca differenza. L’importante è garantirsi le materie prime e ricambiare con infrastrutture costruite da imprese cinesi. Strade e ponti in cambio di petrolio. Ospedali in cambio di rame e cobalto. La Cina si sta comprando l’Africa pezzo a pezzo, e lo sta facendo sotto gli occhi del resto del mondo. Affamata di materie prime e pronta a cucirsi addosso un nuovo ruolo globale, la Cina non compra soltanto. Pechino coltiva l’ambizione, oramai sempre più apertamente, di diventare la nuova portavoce di tutto il mondo in via di sviluppo. Un’operazione che si riallaccia all’intuizione di quella Conferenza di Bandung che nel 1955, in piena Guerra Fredda – grazie alla lungimiranza e al genio politico di Zhou Enlai, uno dei veri padri della Repubblica popolare cinese – aveva dato vita al gruppo dei “non allineati”. Un progetto poi fallito. Ma, come i viaggi di Zheng He, sono storie che si possono riprendere. C’è dunque, nella “neocolonizzazione” africana, un doppio beneficio per Pechino. C’è uno sfogo potenzialmente enorme per il suo flusso crescente di produzioni (dai vestiti ai telefonini). Ma c’è, quel che più conta, una fonte preziosa e quasi vergine di fonti di energia: cibo necessario per un gigante in marcia sulla strada di uno sviluppo che, a lungo termine, pare insostenibile. Un’occasione da non farsi sfuggire, insomma. E i capi

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La Somalia libera fa sentire la sua voce Erano gli anni Sessanta e dal mare Radio Rock lottava con l’austero (e bacchettone) governo britannico per far suonare il rock and roll. Un po’ pirati e un po’ rivoluzionari, un po’ ribelli e un po’ dj, i protagonisti del film I love Radio Rock di Richard Curtis salpano pur di non farsi imbavagliare e infiammano gli animi degli spettatori. Giri l’angolo e poco lontano da dove chiunque può dire più o meno tutto quello che vuole scopri che esiste chi quotidianamente lotta per non fare morire la libertà, in trincea per far sopravvivere l’informazione. Non è un film. Accade in Somalia che ogni giorno l’ultima radio libera del paese rimasta in piedi lotti per restare in vita. Giornalisti autoctoni vestiti all’occidentale (già questo dettaglio sarebbe sufficiente per far rischiare loro la pelle qualora si avventurassero per le vie della città) trasmettono le notizie tra le macerie di un angolo della città raso al suolo e diventato il loro quartier generale. Il presidente Sheik Sharif che predica la riconciliazione in una moschea, studiosi islamici che parlano del gruppo di guerriglieri Shabab responsabile di mutilazioni alle mani, il prezzo delle capre sul mercato: i giornalisti raccontano quello che c’è da dire e da far sapere. Senza partigianeria, ci tengono a ribadire: «Se il governo fa qualcosa di sbagliato, noi lo raccontiamo», afferma orgogliosamente Abdi Aziz Mahamoud Africa, corrispondente politico della radio. Il New York Times, ripreso da Repubblica, racconta la giornata tipo di questi coraggiosi operatori


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della comunicazione che hanno abdicato dalla propria esistenza per fare il loro lavoro. I ribelli li considerano vicini al governo e la loro vita è minacciata costantemente. Dagli anni Settanta il territorio somalo non trova pace ed è cannibalizzato a morte: dal ’91 non ha governo ed è lacerato da una guerra civile connotata da logiche di clan, estremismo islamico e interessi nazionali. Appena nell’ottobre scorso una radio islamica somala prometteva ai vincitori di un suo quiz come premio bombe a mano, fucili automatici, esplosivi. Ma lo stillicidio non si può raccontare e chiunque cerchi di denunciarlo al mondo o informarne i protagonisti deve essere disposto a pagare con la vita. Solo dal 2007 in Somalia sono stati uccisi oltre venti giornalisti, gravemente colpevoli di aver fatto il loro mestiere. «I reporter che lavorano a Mogadiscio vivono in uno stato di allerta continuo. Spesso non sospettano di essere stati condannati a morte fino a quando la sentenza non viene eseguita. Bisogna imparare a essere paranoici» spiegava Abdi Rahman, editor-in-chief di Radio Shabelle, all’indomani dell’uccisione di Mokhtar Mohamed Hirabe, direttore della stessa emittente freddato con cinque colpi di pistola nel mercato cittadino. Nell’ultima settimana gli Shabaab (il braccio armato di Al Qaeda in Somalia) hanno preso il controllo delle stazioni radio nelle città che presidiano, come le due sud-occidentali di Chisimaio e Baydhaba. «Un giro di vite per la libertà di espressione e di stampa», riferisce Omar Faruk Osman, segretario generale dell’Unione nazionale dei giornalisti somali, che denuncia anche il rapimento di almeno sei giornalisti solo negli ultimi

giorni. Ma da questo mattatoio a cielo aperto le antenne alte trenta metri di Radio Mogadiscio resistono. E continuano a trasmettere e a difendere la loro libertà di farlo, oltre la paura e il pericolo. Dal loro edificio segnato dai bombardamenti, con i mezzi appena indispensabili per fare di una radio una radio, i 100 dipendenti circa dell’ultima emittente libera di Mogadiscio lavorano blindati. E per questo lavoro hanno dovuto praticamente posticipare la loro vita a tempi migliori (se arriveranno): un plotone di soldati ugandesi della missione di pace dell’African union a proteggerli un po’, materassini spessi pochi centimetri di gommapiuma per farli dormire, l’ombra scura della morte per chi di loro voglia azzardarsi ad avventurarsi per le strade della città. In cosa si rischia di incorrere lo mima con spaventosa semplicità Musa Osman, giornalista dell’emittente che il suo nome vero spiega di averlo dimenticato da un pezzo: un dito che scorre sulla gola e poi silenzio. Tra le piastre vecchie e gli altoparlanti rotti con i cavi che fuoriescono non è leggero il clima che si respira, ma gli scaffali di oltre tre metri pieni di registrazioni ordinatamente etichettate lasciano un po’ di speranza. Vecchi discorsi, canti popolari, canzoni patriottiche, interviste con nomadi: chilometri e chilometri di storia e cultura somala sottratta alla distruzione dei fondamentalisti. Un angolo spoglio di democrazia che resiste, tenendo in vita ancora un po’ di speranza per questo paese martoriato. Almeno finché anche questa voce libera non verrà soffocata. di Cecila Moretti ripreso da Ffwebmagazine

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del Partito comunista cinese lo “stranieri”. Terra di conquista, frontiera da occupare. Così si presanno benissimo. Meno evidenti sono le ricadute senta l’Africa agli occhi dei cinesi. positive per l’Africa. Certo, baste- Così la stanno trasformando. rebbero i grattacieli di Luanda, la C’è un termine sempre più usato capitale dell’Angola (che è il prin- per definire questo nuovo animale cipale partner cinese nel continen- mitologico, protagonista presente te), a testimoniare la concretezza ma soprattutto futuro della storia degli aiuti di Pechino. Ma il pun- globale: Cinafrica. Ed è anche il to, in sostanza, è se il gioco valga titolo di un reportage di Serge Mila candela. Conviene avere uno chel e Michel Beuret che, accomstadio all’avanguardia, sapendo pagnati dal fotografo Paolo Woche le merci a basso costo prodot- ods, hanno percorso quindici paete in Cina inondano il paese e sof- si di questo “Far west del ventufocano le produzioni locali? Vale nesimo secolo”. Un’altra testimola pena farsi costruire un’autostra- nianza che non lascia molto spazio alla speranza, che da nel deserto, e intanto farsi pro- Nella neocolonizzazione assottiglia le illusioni di chi consisciugare le miniere dera quello cinese per dare lo sprint a cinese c’è un doppio un modello possiun’economia stra- beneficio per Pechino: bile per l’Africa. niera? Provando a Sono immagini di sfuggire dagli op- esportazioni e fonti un’epopea il cui posti estremi del preziose di energia epilogo pare essere, cinismo e del terzomondismo di maniera, se lo è sempre e comunque, quello della chiesto di recente anche Angelo povertà: un destino scritto, per Ferrari, giornalista dell’Agenzia chi proviene dalle remote campaItalia, con Africa gialla. Un libro gne (o dalle prigioni) cinesi come in cui racconta il suo viaggio in per chi nasce nelle bidonville delle Angola, paese uscito da vent’anni metropoli africane. Il racconto di di guerra civile per imboccare la un Far west che però non ha nesstrada di questa nuova forma di suna libertà da regalare, nessuna colonizzazione. E quello che esce opportunità da sognare. dalle pagine del libro, è un rac- Nel 2007 il presidente cinese, conto da incubo. Bambini mina- Hu Jintao, progettò un ambiziotori che grattano il cobalto a mani so grand tour africano. Come il nude. Città in cui i pochi ricchi più recente vertice di Sharm el sono separati, da un abisso sempre Sheik, e come l’elefantiaco sumpiù profondo, dall’assoluta mise- mit sino-africano organizzato nel ria. Detenuti cinesi esportati co- cuore della Città proibita pochi me operai, non pagati e poi lascia- mesi prima, doveva essere un ti lì, con una nuova casa e un po’ modo simbolico (e pienamente di terra regalata dalle autorità lo- cinese, dunque) di mostrare al cali, per farsi una nuova vita da mondo il nuovo ruolo di grande


CINA E AFRICA Federico Brusadelli

sponsor, protettore e alleato dell’Africa. Doveva essere un viaggio condito dagli applausi di un continente grato. Ma Hu, dopo essere passato in Sudan – firmando fascicoli di accordi e tacendo sugli orrori che si consumavano intanto in Darfur – ad attenderlo in Zambia trovò, più che gli applausi sperati, fischi e proteste. Voci di lavoratori lasciati senza garanzie di sicurezza (decine e decine di morti in pochi mesi), indignazione per i sindacati disciolti, rabbia per gli spari su chi aveva provato a chiedere qualcosa in più di due dollari al giorno (perché “non ci considerano neanche esseri umani”). Un incidente di percorso, certamente. La penetrazione cinese in Africa non può ridursi a questo. E l’Occidente ha colpe storiche, più o meno recenti, di portata enorme nei confronti dell’intero continente. Eppure la via cinese non pare promettere miracoli. O almeno non permette il silenzio. L’Occidente, l’Europa in particolare, ha fondati motivi di preoccupazione, in effetti. E non solo per motivi strategici e geopolitici, perché l’Africa ce l’abbiamo di fronte. Non solo per evidenti ragioni commerciali ed economiche. Ma anche per un altro aspetto, culturale e forse ancora più fondamentale. I diritti umani, per i cinesi, sono un intralcio in patria, figuriamoci in un altro continente. E fare affari con tutti, come fa Pechino, finisce per vanificare il pur minimo effetto delle (sempre troppo flebili) voci che da Occidente tal-

volta si alzano contro i tiranni grandi e piccoli – da Mugabe ad Al Bashir – che hanno infestato o ancora infestano l’Africa. Chi difende Pechino, accusa l’Europa e l’America di “ipocrisia”, rispolvera le tragedie del colonialismo e sottolinea le colpe del capitalismo, del mercatismo e della globalizzazione. Ci sono buone ragioni per farlo, certo. Ma non è un argomento convincente. La Cina, forse, è molto peggio. E gli africani probabilmente lo hanno capito più di noi. Ma intanto le università di Pechino sono piene di ragazzi africani che vogliono imparare il cinese. Gli ideogrammi invece dell’inglese. Il modello capital-comunista invece delle liberaldemocrazie classiche. È un dato, questo, che vale più di mille statistiche, che pesa più di tante percentuali di import/export. È un’immagine che ci racconta che l’Occidente non solo non ha saputo risolvere i nodi dell’Africa, ma non ha saputo guadagnarsi la fiducia e la stima di un continente “chiave” per il futuro del mondo. E davanti a una Cina affamata di riscossa e intenzionata a chiudere i conti con gli errori della storia, è una disattenzione che potrebbe costarci molto.

L’Autore federico brusadelli Scrive per Ffwebmagazine e collabora con il Secolo d’Italia. Laureato in Lingue e civiltà orientali.

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Storia calcistica di un continente

Quando il calcio fa miracoli Tra geopolitica e sport, speranze e disillusioni, in un viaggio tra deserti e savane a rincorrere quel pallone che muove le montagne e abbatte le frontiere. DI ITALO CUCCI

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Sono sceso con un vecchio turboelica a Tamanrasset, la capitale del mondo Tuareg, nel sud dell’Algeria, verso mezzanotte; mi aspettavano due guide, un nero alto e forte e un vecchio magrebino dalla barbetta bianca. Poche parole in bel francese: «Benvenuto, adesso possiamo andare», come se il ritardo fosse colpa mia. «Dove andiamo?». «All’Hotel des Etoiles», risposero all’unisono con un sorriso ambiguo. Salimmo su una vecchia polverosa Toyota, vroom e via ver-

so il deserto del Sahara. Un’ora di viaggio in un buio profondo che si aprì alla luce delle stelle. Stop davanti a un’acacia gigantesca, scaricarono dall’auto tende e sacchi a pelo: «Siamo arrivati all’Hotel des Etoiles, monsieur. È fortunato, le stelle ci sono». Due padelle, un tegame e una teiera di ferro, quattro legnetti per far fuoco, un piatto di indefinibili crepes, un denso tè verde e buonanotte. Si fa per dire: l’assoluto silenzio era opprimente, pauroso, mi cresceva in petto il pentimen-


SPORT Italo Cucci

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to. Mi risvegliai nell’alba assolata ma fresca, l’acacia popolata di uccelli, tutto il contrario di quel che m’aspettavo dal Sahara sinonimo di sabbia e calore. Mistero presto risolto: eravamo a millequattrocento metri e fummo presto ai piedi del massiccio dell’Hoggar, nel deserto di pietra tagliato da canyon, da rughe scure di basalto, da rugginose montagne rocciose già viste in un altro mondo, fra l’Arizona e il Nevada. Piccoli roditori correvano senza tregua per sfuggire alle picchiate

dei falchi. Una natura integra e amica, serena come i miei accompagnatori coi quali le poche parole in francese diventarono presto fluenti chiacchiere per soddisfare vicendevoli curiosità. Mi allontanai per salire su un masso affondato nella sabbia per la prima foto. E recitai il primo titolo: La mia Africa. Pardon, dovete sapere che a girare il mondo si fa strage di luoghi comuni, scoprendo quel che già tanti hanno scoperto, rivisitando antichi saperi (e sapori), rileggendo glorio-


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se pagine; e quando ti trovi in sportiva contro il calcio e gli sport luoghi selvaggi – deserti o fore- “seduti”. Nel frattempo, come mi ste non importa – t’aspetti sem- era successo nella Cina rossa nel pre l’apparizione di un baffuto 1981, mi si chiedevano lumi Stanley: «Dr. Cucci, I presume». sull’organizzazione calcistica itaMa era davvero il mio primo liana, una delle migliori al monviaggio nel cuore dell’Africa pro- do. E infatti nel 1982 vi tornai fonda dopo anni di Africa medi- con Enzo Bearzot per spiare il Caterranea, Egitto, Libia, Tunisia, merun impegnato nella focosissiAlgeria, Senegal, paesi già calci- ma Coppa d’Africa poi vinta dal stizzati dagli europei e nei quali, Ghana nella stadio di Tripoli apdi volta in volta, son finito rego- pena edificato dai bulgari e dotato larmente in chiacchiere da bar di un innovativo tappeto d’erba sport, senza sapere che un giorno sintetica. Fui fortunato perché nel avrei addirittura fatto il visto per suk di Tripoli trovai un anziano un Mondiale in Sudafrica. Il mio pilota di taxi (le evoluzioni erano decimo Mondiale, dopo Germa- quasi aeree) che parlava un bell’italiano, rimnia, Argentina, Spapiangeva il mio gna, Messico, Italia, Il gioco del pallone vecchio amico Stati Uniti, Corea e muove le montagne, Medeo Biavati Giappone, Germa(“mondiale” del nia. Con due titoli abbatte le frontiere, ’38, inventore del riportati a casa, mortifica i regimi doppio passo) già nell’82 e nel 2006, allenatore della e la voglia del terzo, assolutisti nazionale di re per fare il bis che riuscì al grande Vittorio Pozzo Idris, e mi portò a visitare Sabrata nel ’34 e nel ’38. Il gioco del pal- e Leptis Magna, le più belle e inlone muove le montagne, abbatte tegre città romane. le frontiere, mortifica i regimi Arrivai in Tunisia dal mare con assolutisti, appiana contrasti an- un vecchio aliscafo che partiva da tichi, raffredda gli estremismi e Pantelleria, e a Kelibia, sotto un ferma le guerriglie. Violenti e sole assassino, i gendarmi mi fedementi a parte – e in quote as- cero transitare da un passaggio solutamente minoritarie – è que- riservato alle autorità inchinandosi al frequentatore del “prosto il vero Partito dell’amore. Entrai in Libia la prima volta nel ciessò du lunedì”. Di Biscardì, ’79 invitato da Gheddafi – non naturalmente. All’Hilton di Tusapevo perché – ai festeggiamenti nisi si parlava solo di Inter e Judel primo decennale della rivolu- ve. E per fortuna non c’era ancora zione: non incontrai la Guida su- Berlusconì. Ad Algeri sbarcai inprema ma Abdel Salaam Jalloud vece dal cielo con l’amatissima che mi consegnò una copia del Li- Alitalia (l’unica azienda occidenbro verde, vangelo gheddafiano, tale rimasta in Algeria negli anni che conteneva anche una predica della sanguinosa rivoluzione gra-


SPORT Italo Cucci

FOCUS

Le curiosità del mondiale 2010 GRUPPO A: il Sudafrica era una delle due teste di serie “di diritto” e non per ranking Fifa. Francia e Sudafrica si sono fin’ora incontrate in un primo turno mondiale solamente quando una delle due nazionali era padrona di casa. L’unica e ultima volta fu infatti nel 1998, con i bleus padroni di casa e vincitori per 3-0. Al campionato mondiale nippo-coreano del 2002, Francia e Uruguay erano nello stesso gruppo e s’incontrarono nella seconda giornata pareggiando per zero a zero. Curiosamente in quel gruppo sia la Francia che l’Uruguay furono poi eliminate. Francia e Messico invece si sono incrociate in una delle due partite d’esordio del primo campionato mondiale in assoluto, con la Francia vincente per 4-1. GRUPPO B: nella sua unica partecipazione a un campionato mondiale (1994), la Grecia si è trovata anche allora in un gruppo con Argentina e Nigeria. In tale occasione Maradona fece la sua ultima partecipazione da calciatore mentre in questa edizione sarà alla sua prima volta da Commissario Tecnico. Oltre a essersi incrociate a Usa 1994, Argentina e Nigeria condividevano lo stesso gruppo anche nel 2002, dove furono poi entrambe eliminate. GRUPPO C: lo scontro tra i due Paesi anglofoni per eccellenza (Inghilterra e Stati Uniti d’America) si verificò solo nel 1950 con la vittoria degli Stati Uniti per uno a zero. A parte quest’unica partita, le quattro squadre del gruppo non si sono mai affrontate in un campionato mondiale. GRUPPO D: il destino dell’Australia come squadra qualificata s’intreccia sempre con la Germania: nel 1974 il campionato mondiale si giocò in Germania Ovest e nel proprio gruppo i “canguri” si trovarono a fronteggiare sia Germania Ovest che Germania Est; nel 2006 il campionato mondiale si disputò nuovamente in Germania

e ora invece che non si svolgeranno in terra tedesca, gli australiani si trovano la Germania come avversaria. Questo è inoltre l’unico degli otto gruppi che è composto interamente da squadre che hanno partecipato anche alla precedente edizione del campionato mondiale. GRUPPO E: queste quattro squadre non si sono mai incontrate in un campionato mondiale e, più in generale, tra di loro, escludendo le numerose partite disputate tra Olanda e Danimarca nei campionati europei e in qualificazioni varie. GRUPPO F: in questo gruppo c’è l’esordiente Slovacchia e ritorna la Nuova Zelanda dopo la manifestazione del 1982. Le quattro squadre non si sono mai affrontate in un campionato mondiale salvo che in un incontro tra Italia e Paraguay del 1950 finito due a zero. GRUPPO G: l’unica altra apparizione della Corea del Nord a un campionato mondiale è avvenuta nel 1966. Il Portogallo ha incontrato Brasile e Corea del Nord in un campionato mondiale unicamente in quella stessa edizione. Per quanto riguarda la Costa d’Avorio, vi è da sottolineare come anche nel 2006 questa compagine si sia trovata nel proprio gruppo una testa di serie sudamericana, una “seconda fascia” europea di alto livello e una nazione “scissa”. Di questo gruppo, tre nazionali su quattro erano presenti anche al campionato mondiale del 2006. GRUPPO H: l’Honduras torna al campionato mondiale dopo ventotto anni di assenza. Il gruppo conta tre nazioni su quattro di madrelingua spagnola, cosa già avvenuta solo nel campionato mondiale del 1930 organizzato in Uruguay e che comprendeva sette squadre americane e ispanofone sulle tredici partecipanti complessive.

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zie all’amico Enrico Mattei) invi- «Pessotto, si vedeva negli occhi tato al Balon d’Or d’Afrique or- che voleva dar la sveglia alla ganizzato da El Heddaf, il Guerin porta olandese, lo spazio di un Sportivo locale: l’idolo calcistico baleno...» era Zinedine Zidane, algerino, «Ha segnato? Dimmi, ha segnama il Santo Pedatore era Robi to?» Baggio, il cui coraggio, esibito «Sì, anche Totti, ha messo a senel combattere la sfortuna che lo gno la terza rete. Gli striscioni perseguitava, veniva reclamizzato italiani sventolavano in tutto lo in tivù per incoraggiare i ragazzi stadio, i tifosi si ringalluzzivascampati fortunosamente alle no...» stragi dei fondamentalisti islami- «E Maldini? Ha tirato Maldini? ci. In Senegal la giovane e affer- Dimmelo» mata scrittrice Fatou Diom ha «Sì, ha tirato, un capitano degno avuto grande successo con il ro- di esserlo non può mandare al manzo Sognando Maldini ambien- fronte le truppe senza di lui. Antato in un villaggio di Niodior, che se avesse impartito direttive che poi si erano isoletta senegalese: rivelate giudizioil protagonista, il In Senegal la giovane se, lo stesso Malpiccolo Madickè, si scrittrice Fatou Diom dini doveva metproietta verso un terle in pratica e futuro europeo sce- ha avuto grande gliendo come guida successo con il romanzo provare così...» «Ha segnato? il capitano della Dimmelo!» Nazionale azzurra Sognando Maldini «Ma smettila Paolo Maldini, il più ammirato nella partita Ita- d’interrompermi...» lia-Olanda agli Europei del «Sì, scusami! Allora, ha segna2000, finita ai rigori, lasciapas- to?» sare per la finale poi vinta dalla «No, ha sbagliato il rigore!» Francia con l’amaro golden gol di «Oh cazzo! Ma abbiamo vinto? Trezeguet. Ne leggiamo una pa- Dimmi, hanno vinto?» «Se mi avessi lasciato dire nello gina esemplare. «Ha segnato? Dimmi, ha segna- stesso tempo i rigori dei giocatori olandesi, lo avresti già saputo, to?» ma sei così impaziente che...» «Sì, ha segnato e...» «Dimmi, hanno vinto lo stesso?» «E poi, forza, poi?» «Poi ha tirato il capitano olande- «Sì!» se, ma per fortuna Toldo ha de- «Quanto? Che punteggio? Per favore!» collato come se avesse le ali...» «Tre a uno» «Toldo ha parato. Poi?» «Un giocatore dell’Olanda, sai, il Pensate un po’ a come il popolo sublima il gioco del pallone a rinumero...» «No, dimmi solo dei giocatori sorsa sociologica. Lo stesso annuncio del Mondiale in Sudafriitaliani»


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ca – dopo le rivoluzionaria escur- togliere il mondiale ai sudafricasione in Giappone e Corea – è ni per trasferirlo, guarda un po’, stato accolto come un passo in Europa, precisamente in Geravanti del continente nero verso mania, già designata paese di ril’integrazione globale, un pre- serva dalla Fifa per la sua imporzioso dono dell’abile Sepp Blat- tante attrezzatura sportiva. Tanter, presidente della Fifa, a Nel- to per cambiare, si denuncia non son Mandela, il presidente dei solo lo strapotere malavitoso ma presidenti, oggi immortalato da soprattutto la piaga della prostiMorgan Freeman nel film Invic- tuzione e dell’Aids, come se là si tus prodotto e diretto da Clint organizzassero non i Mondiali di Eastwood. E pazienza se l’erede calcio ma i Mondiali del sesso. di Mandela, il primo ministro Nelle pagine del cosiddetto dissudafricano Jacob Zuma, visto in senso si legge fin troppo facilprima linea ai sorteggi mondiali, mente, in fondo, lo sfruttamento è un potente nababbo che ha ap- ideologico (e non solo) dell’Africa, cantata dai sipena festeggiato il gnori del rock, quinto sontuoso I mondiali sudafricani della cultura, delmatrimonio in un la politica (ehm, paese sconvolto rappresentano ehm) che la sodalle imprese della un passo avanti del gnano, la invocamalavita che si no, son pronti a spera sconfitta dal- continente nero verso tuffarsi nella sua la nazionale dei l’integrazione globale spesso dolorosa gialloverdi, i “Bafana Bafana” che nella recente realtà eppoi se la squagliano, Confederation Cup hanno osato magari tuffandosi nelle oasi felimettere in crisi Brasile e Spagna. ci del Kenia, della Tanzania e Ho atteso lunghi anni, da quan- delle Seychelles. La loro Africa. do conobbi i campioni e le im- Ritorno nella “mia Africa”, nel prese del Camerun e della Nige- Sahara algerino, per un ulteriore ria, duri avversari dell’Italia approfondimento della realtà calnell’82 in Spagna e nel ’94 negli cistica. Ho viaggiato per un giorStati Uniti, che il calcio portasse no – attraversando la suggestiva i suoi campioni in Africa dopo catena montuosa dell’Hoggar, averle rapito decine di fuoriclas- più estesa dell’Italia – fino al rise ormai punti di forza delle mi- fugio dell’Assekrem, a 2700 megliori squadre d’Europa. Eppure tri, dove sorge l’eremo di Père c’è chi fa del catastrofismo e ad- Charles de Foucauld, studioso dirittura chiede – dopo il tragico della civiltà tuareg. Grazie ai incidente che ha costretto il To- miei sempre più amichevoli go a rinunciare alla Coppa compagni di viaggio ho approd’Africa per la mortale aggres- fondito i temi dell’eterna sfida sione subìta l’8 gennaio nell’en- fra nord e sud, fra l’Africa mediclave angolana di Cabinda – di terranea di cultura araba e l’Afri-

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ca nera subsahariana sulla cui mappa i due algerini avrebbero potuto scrivere “Hic sunt leones”. Gli stessi tuareg – popolo nobile – son considerati meridionali arretrati che godono di una formale presenza nel Parlamento algerino dominato, guarda un po’, dai berberi e dai “leghisti” dell’ovest. Anche Anche calcisticamente il calcio è diverso, fra le due l’Africa mediterranea Afriche: i paesi e quella subsahariana sono due mondi diversi della costa mediterranea – come dicevo – son di cultura europea, anche se la recente guerra diplomatica fra Egitto e Algeria alla Coppa d’Africa ha rivelato forti divisioni tribali. Mi confermarono le varie sfaccettature po-

litiche, sociali e sportive dei Due Mondi alcuni italiani giunti all’improvviso nel rifugio di Assekrem e più tardi compagni d’avventura in un’altra passeggiata sahariana prima del ritorno a Tamanrasset. Italiani speciali, tutti con una cert’aria da Harrison Ford alla ricerca dell’Arca Perduta: erano, in realtà, sterminatori di cavallette provenienti dai confinanti Mali e Nigeria dove provvedevano alle disinfestazioni aeree per conto di un’azienda veneta. Un paio di giorni di riposo assoluto nel silenzio, poi l’aereo da Tamanrasset a Algeri, da Algeri a Roma, fine della festa. E anche loro a dirmi peste e corna dell’Africa verde, nido di dittatori, guerriglieri e predatori. Il di-


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scorso finì presto sul calcio di casa nostra: chiedevano aggiornamenti di mercato, gossip pallonaro da aggiungere alle poche notizie che avevano, risultati e niente più. E sui predatori di calciatori, nuova forma di colonialismo e schiavismo escogitata da europei senza scrupoli fin dai primi Settanta. La tecnica d’abbordaggio, molto semplice, e basata sulle ambizioni dei dittatorelli via via succedutesi nei numerosi Stati di un’Africa politicamente frammentata dopo l’estromissione dei colonialisti: la Nazionale di calcio spesso è il primo soggetto di propaganda e, in attesa di far crescere in patria soggetti tecnici adeguati, ci si rivolge ad allenatori europei possibilmente di lin-

gua coloniale, dunque spesso francesi, pochi inglesi, molti slavi che parlano bene tutte le lingue e qualche tedesco. I nuovi selezionatori aprono delle vere e proprie scuole, addestrano predatori indigeni, li portano alle I predatori di calciatori sono un nuova forma prime manifedi colonialismo stazioni calciescogitata dagli europei stiche continentali, addirittura alla Coppa d’Africa e ai Mondiali, prima segnalandoli ai mercanti d’Italia, Spagna, Germania, Inghilterra e Francia poi lucrando sulle loro “scoperte” e avviando un fiorente mercato di potenziali campioni e di bufale. Si arriva addirittura alla tratta di 103 giovanissimi calciatori africani fino a quando non intervengono prima le autorità dei singoli paesi d’importazione, poi le istituzioni calcistiche. Un rapido giro nei paesi dell’Africa centrale e sudorientale permette di abbozzare un elenco di campioni adottati dall’Italia e da altri paesi europei in tempi in cui stanno modificandosi i costumi ladreschi dei maneggioni, forse anche per il maggior rispetto ottenuto dai paesi africani La Nazionale di calcio dall’Uefa e dalin Africa è spesso la Fifa. ll Mali il primo soggetto di è rappresentato dallo juventino propaganda per i regimi Sissoko, la Guinea da Karamoko Cissè appena passato dall’Atalanta all’Albino Leffe bergamasco; il Ghana da Essien del Chelsea, il migliore, da Appiah del Bologna, Asamoah dell’Udinese e Muntari del-


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l’Inter; il Togo da Adebayor del Manchester City , il Camerun dall’interista Eto’o, la Nigeria da Makinwa della Lazio e Obodo dell’Udinese; è del Kenya il neo interista Mariga, del Congo Mudingayi del Bologna, dell’Angola Pedro Montorras del Benfica; lo Zambia ha dovuto ricostruire la nazionale dopo averla perduta in un disastro aereo; del Mozambico ricordo gli interisti Martins e Obinna e – ovviamente – Eusebio, la mitica Pantera nera del Benfica; ha giocato nel Milan, con poca gloria, il più noto calciatore del Gabon, Catilina Aubameyang, così come il grande George Weah, oggi politico di primo piano in Liberia. La Costa d’Avorio è rappresentata da campionissimi come Didier Drogba del Chelsea, Yaya Touré del Barcellona, Bakayoko già di Livorno e Messina, oggi in Grecia, e Marco André Zoro Kpolo che oggi gioca in Portogallo ma ha lasciato un segno preciso in Italia: quando giocava nel Messina ebbe il coraggio – unico fra tanti calciatori neri – di minacciare l’autoespulsione perché i tifosi interisti lo insultavano per il colore della pelle; l’Inter allora minimizzò, mentre oggi conduce una forte battaglia antirazzista in difesa di Balotelli. Forse perchè è italiano, nato a Palermo e cresciuto nel bresciano, non ganese come i genitori naturali. E tuttavia, nonostante appena ventenne sia già diventato un campione di livello internazionale, il Supermario difficilmente metterà piede negli stadi sudafricani. Perché

il Ct azzurro non lo vuole, paradossalmente in sintonia con Josè Mourinho (i due si detestano) che non sopporta la geniale ma irritante giovinezza di Balotelli, un classico, anarchico “poeta del gol”. Chiudo l’elenco – per curiosità – con un buon giocatore della Tanzania, Nadir Haroub, che nel suo paese è fra i più forti difensori: e infatti ha un nome d’arte significativo, lo chiamano Cannavaro. Questi ragazzi d’Africa saranno sicuramente protagonisti del prossimo Mondiale: difficilmente li vedremo nella finale di Johannesburg – che personalmente m’auguro fra Italia e Inghilterra, fra Marcello Lippi e Fabio Capello – ma saranno tutti e comunque vincitori per un continente che deve alzare la testa e aprirsi al benessere e alla pace. Io ci credo. Il calcio fa miracoli.

L’Autore italo cucci Direttore editoriale dell’agenzia di stampa Italpress. È anche curatore delle pagine sportive del quotidiano Il Roma di Napoli e editorialista della Gazzetta di Parma, di Avvenire e del settimanale Napolissimo.



SUDAFRICA: UNO


SUDAFRICA Eric Molle

STATO A DUE FACCE

A

quindici anni dall’esordio del nuovo Stato democratico voluto da Mandela, non tutti i problemi sono stati risolti. E oggi, alla vigilia dei mondiali di calcio, si può provare a tirare le somme di una esperienza complessa, tra luci e ombre. DI ERIC MOLLE

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Nel corso del mese di febbraio è uscito nelle sale cinematografiche italiane un bel film, Invictus, diretto ottimamente dalla saggia mano dell’immortale Clint Eastwood ed interpretato dai premi Oscar Morgan Freeman e Matt Damon. Il film narra la storia dei mondiali di rugby del 1995 che si giocarono in Sudafrica e ripropone quindi quel momento storico che quei mondiali hanno rappresentato, ovvero le attese relative alla fine dell’apartheid nel paese. Nel 1995, Nelson Mandela era appena stato eletto presidente e la volontà era quella di realizzare in quella terra africana, martoriata da anni di separazione e di violenza razziale, il sogno di Martin Luther King: un mondo senza odio razziale e senza divisioni. Il Sudafrica voleva essere un’isola felice in un continente devastato da violenze etniche e

guerre civili. Ecco, il film in sé mette in risalto quel momento storico dove una squadra da sempre forte in campo rugbystico, composta unicamente da bianchi, è riuscita a unire tutto il popolo sudafricano nella vittoria, nonostante le difficoltà e le distanze legate ovviamente agli anni di divisioni precedenti. A distanza di quindici anni da quella vittoria non solo rugbystica, la situazione nella Repubblica del Sudafrica si è evoluta, ma di sicuro non nel senso che ci si aspettava nel 1994. Le differenze dell’epoca sono mutate e, anzi, si sono moltiplicate. All’approccio del prossimo grande evento mondiale che avrà luogo quest’estate in Sudafrica (i mondiali di calcio), si possono tirare le somme per quanto riguarda la situazione politica, economica e della sicurezza nel paese.


FOCUS

LE ORIGINI DELL’APARTHEID

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Il termine apartheid è stato usato in senso politico per la prima volta nel 1917 dal primo ministro sudafricano Jan Smuts, ma, solo dopo la vittoria del National Party alle elezioni del 1948, l’idea venne trasformata in un sistema legislativo compiuto. I principali ideologi dell’apartheid furono i primi ministri Daniel François Malan, Johannes Gerhardus Strijdom e Hendrik Frensch Verwoerd (vero e proprio “architetto dell’apartheid”, in carica dal 1958 fino al suo assassinio nel 1966). Quest’ultimo, definiva l’apartheid come “una politica di buon vicinato”. L’apartheid aveva due manifestazioni: la separazione dei bianchi dai neri nelle zone abitate da entrambi; l’istituzione dei bantustan, i territori semi-indipendenti in cui molti neri furono costretti a trasferirsi. In Sudafrica, mentre i neri e i meticci costituivano l’80% circa della popolazione, i bianchi si dividevano in coloni di origine inglese ed afrikaner. Gli afrikaner, che costituivano la maggioranza della popolazione bianca, erano da sempre favorevoli ad una politica razzista; mentre i sudafricani di origine inglese, malgrado il sostanziale appoggio dell’apartheid, erano più concilianti nei confronti dei connazionali neri. Durante la seconda guerra mondiale un gruppo di intellettuali afrikaner influenzati dal nazismo completò la teorizzazione del progetto dell’apartheid. La filosofia dell’apartheid affermava di voler dare ai vari gruppi razziali la possibilità di condurre il proprio sviluppo sociale in armonia con le proprie tradizioni.

L’African National Congress (Anc), lo storico partito di cui Mandela è stato il leader nel periodo post apartheid, è sin dal 1994 al potere e ha sempre avuto dei risultati elettorali al di sopra del 60%. Ciò ha garantito all’Anc di governare per più di quindici anni, ma negli ultimi tempi ha anche suscitato nei suoi ranghi del malcontento. Queste difficoltà, di cui si discuterà in maniera più specifica in seguito, sono legate essenzialmente all’incapacità di realizzare riforme concrete in diversi campi, alle lotte interne al partito e a una difficile situazione economica e di sicurezza. C’è di certo però che il Sudafrica gode di un’esperienza democratica consolidata rispetto al resto del continente africano, visto che l’Anc governa sì il paese da ormai quindici anni (come spesso avviene in Africa), ma a seguito di elezioni libere, pacifiche e democratiche. Secondo la costituzione approvata nel 1996, il Parlamento, liberamente eletto, elegge al suo interno il presidente della Repubblica, generalmente il leader dello schieramento vincente alle elezioni, posto egli stesso a capo del governo. Così, a seguito delle prime elezioni del 1994, Madiba (il titolo onorifico di Nelson Mandela) fu eletto primo presidente nero in Sudafrica e rimase in carica fino al 1999. Le elezioni del 1999 furono vinte nuovamente dall’Anc, capeggiato questa volta da Thabo Mbeki, già segretario e poi presidente dell’Anc dal 1993, che è stato la vo-


SUDAFRICA Eric Molle

ce del partito all’estero durante 2009, l’Anc è stato confermato al gran parte del periodo di prigio- governo con una maggioranza di nia del Madiba. Mbeki in effetti è oltre il 65% e il suo leader Jacob dovuto fuggire dal Sudafrica a Zuma è stato eletto presidente. causa della sua attività politica Questo ha sollevato alcune pernell’Anc al momento dell’arresto plessità negli ambiti politologidi Mandela ed è rimasto soprat- ci, poiché, se nel passato si è già tutto nel Regno Unito. Mbeki è parlato di un partito al potere da stato poi rieletto a seguito delle più di quindici anni senza gridaelezioni del 2004 e nel corso di re allo scandalo, questa volta il questo suo secondo mandato sono presidente uscito dalle elezioni nate le divergenze, poi duri con- suscita alcune perplessità. I partiti di opposizione hanno sottolitrasti, con Jacob Zuma. Jacob Zuma è un altro politico neato come Zuma abbia avuto sudafricano, eletto presidente sulle spalle diverse accuse di cordell’Anc nel 2007, quindi presi- ruzione e di avere alcune macchie di moralità (ad dente del Sudafrica esempio: Zuma, nel 2009 dopo le Il Sudafrica gode sieropositivo, ha elezioni. Il contradichiarato di aver sto tra Zuma e di un’esperienza fatto sesso con Mbeki è stato sen- democratica giovani donne za esclusione di senza protezione, colpi, su un piano consolidata rispetto quando nel paese e s s e n z i a l m e n t e al resto del continente dilaga l’Aids, angiuridico. Secondo Zuma, Mbeki ha fatto pressioni dando contro tutte le politiche sulle autorità giuridiche al fine del governo). di screditarlo e intaccare la sua Bisogna però sottolineare che leadership in seno all’Anc tramite nelle ultime elezioni si sono novari processi. Secondo Mbeki, tate alcune differenze rispetto alqueste sarebbero tutte invenzioni le precedenti tornate elettorali. di Zuma per arrivare a capo del Se lo score dell’Anc è rimasto primo partito del paese, anche se pressoché invariato, è cambiato di fatto Zuma ha avuto problemi lo scenario politico attorno a giudiziari che la sua elezione ha questo gigante. Il New National in un certo senso annullato. Per Party, il partito dei bianchi nato questo motivo e a causa della for- dal National Party che aveva inza politica di Zuma, i vertici del- trodotto l’apartheid, si è sciolto l’Anc hanno richiesto le dimis- nel 2005 ed è confluito nell’Anc. sioni di Thabo Mbeki, che si è Il principale oppositore dell’Anc dimesso da presidente nel 2008. è la Democratic Alliance di HeKgalema Motlanthe è stato elet- len Zille, che ha ricevuto il to presidente ad interim sino alle 16,66% delle preferenze alle ultime elezioni. Gli altri partiti elezioni del gennaio 2009. Di fatto, alle ultime elezioni del maggiori sono l’Inkhata Freedom

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Party, che rappresenta in gran sviluppati, la forza economica del parte l’etnia Zulu (4,55% dei vo- Sudafrica si concentra nel settore ti), e il Congress of the People, dei servizi, mantenendo, seppur Cope (7,42%), nato dalla volontà con difficoltà, una certa presenza politica di Thabo Mbeki nel nel settore industriale (soprattut2008 e il cui presidente è Mo- to nel settore minerario) e, in siuoa Lekota, ex ministro della minima parte, agricolo. Ci sono Difesa di Mbeki e imprigionato alcuni dati (della fine del 2009) anche lui durante gli anni del- che indicano qualche difficoltà in l’apartheid. Nelle prossime com- ambito economico i cui riflessi petizioni elettorali, quest’ultimo sociali sono importanti e che il partito potrà essere uno dei mag- governo dovrà risolvere: negli ulgiori contendenti dell’Anc poi- timi anni la disoccupazione è arché gran parte dei suoi quadri e rivata al 24% (22% nel 2008); il dei suoi componenti provengono debito pubblico è salito al proprio dallo storico partito su- 35,7% del Pil rispetto al 31% del 2008 ed è stidafricano. Basti mato in crescita; pensare al risulta- Da quando Zuma ma soprattutto, to che questo parcirca metà della tito ha avuto alle è presidente, il debito popolazione si troultime elezioni, pubblico del Sudafrica va al di sotto della che si sono svolte pochi mesi dopo è cresciuto ad un ritmo soglia di povertà. Una gran parte del la sua creazione. del 5% annuo debito pubblico Questa situazione politica fa da scenario ad una si- sudafricano è legato alla riforma tuazione contrastata nel paese. In sanitaria che è stata impostata effetti, se da una parte il Sudafri- agli inizi del decennio scorso. Taca ha un’economia stabile (mal- le riforma doveva arginare almegrado la crisi) e gode di una posi- no in parte il dilagare del virus zione di leader regionale sotto di- dell’Aids e migliorare le condiversi punti di vista, dall’altra lo zioni sanitarie dei cittadini in geStato deve risolvere delle proble- nerale. Però, in poco meno di matiche non di poco conto, quali dieci anni di gestione del paese il dilagare dell’Aids, i difetti del- da parte di Mbeki, del suo goverla riforma sanitaria, la riforma no, ma soprattutto del suo partidell’agricoltura e i problemi di to, la piaga dell’Aids è aumentata. Bisogna inoltre sottolineare razzismo e di sicurezza. L’economia sudafricana è di sicu- che dalla presa di potere di Zuro l’economia più sviluppata e ma, formalmente nel 2007, la sistabile dell’Africa, nonostante il tuazione è peggiorata e negli ulcalo del 1,9% del Pil nel corso timi anni non solo il virus ha ridel 2009 quale conseguenza en- preso la sua marcia mortale, ma il demica della crisi internazionale. debito pubblico ha continuato a Come ogni economia dei paesi salire ad un ritmo del 5% annuo.


SUDAFRICA Eric Molle

Questo aumento è dovuto essenzialmente all’aumento della spesa sanitaria, che di fatto non ha portato i risultati attesi. La crisi sanitaria va di pari passo con la crisi della sicurezza nel paese. Disoccupazione al 24%, forte immigrazione dagli altri paesi, microcriminalità dilagante e bidonville che a volte sono abitate da milioni di persone: questi sono i criteri posti alla base del problema della sicurezza. A questi criteri si aggiungono poi il razzismo interno e il risentimento dei bianchi che si vedono tolte le terre che coltivano da secoli per poi vederle bruciate. In effetti, negli ultimi anni è stata posta in avanzato stato di rea-

lizzazione una politica agricola per la redistribuzione del 30% delle terre. Spesso e volentieri molte delle terre agricole sono coltivate dai bianche, ma l’Anc ha dichiarato di voler sottrarre e distribuire ai neri queste terre coltivabili. Alcuni specialisti internazionali del settore sono rimasti perplessi per un certo numero di ragioni. In primo luogo, a differenza delle grandi città, la popolazione agricola rimane in gran parte di etnia afrikaner, quindi ridistribuire le terre significherebbe spostare gran parte delle popolazioni che già lavorano su quelle terre. In secondo luogo, nonostante il governo abbia assicurato un mantenimento


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della produzione, gran parte della popolazione nera è stata esclusa dall’apartheid dall’agricoltura e manca quindi completamente di capacità produttive, di esperienza in materia. Questa riforma ha già dato i suoi primi frutti: la produzione è calata sensibilmente. Inoltre molti contadini bianchi sono perseMolti contadini bianchi guitati e a volte devono fare delsono perseguitati e devono fare le ronde le ronde per difendere le proper difendere le terre prie terre. Di fronte alle espropriazioni forzate che il governo vuole realizzare, molti contadini bianchi stanno ritirando investimenti dal Sudafrica per andare a comprare terre coltivabili in altri paesi africani.

Il governo sudafricano non sembra aver preso in considerazione i drammatici risultati politici della riforma agricola in Zimbabwe degli inizi del secolo. Certo, la Repubblica del Sudafrica gode di una situazione economica di gran lunga più stabile rispetto al vicino Zimbabwe, ma il governo di Zuma non deve sottovalutare le conseguenze sociali di una tale politica. Il paese deve altresì risolvere ulteriori problematiche sociali che già da diversi anni si sviluppano in Sudafrica. La problematica principale riguarda il razzismo dei sudafricani nei confronti degli altri africani presenti sul proprio territorio, che si ripercuote in diverse maniere: violenze raz-


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ziali, criminalità e situazioni di degrado sociale. In Sudafrica sono presenti diverse migliaia di rifugiati provenienti essenzialmente dal vicino Zimbabwe, dalla Repubblica Democratica del Congo, dalla Somalia o dal Burundi. Queste persone generalmente si raggruppano nelle già citate bidonville la cui popolazione a volte sale a diversi milioni (nei dintorni di Johannesburg la bidonville concentra più di dieci milioni di abitanti). Generalmente gli immigrati in Sudafrica, quando non si dedicano ad attività di microcriminalità, si offrono come mano d’opera a basso costo rispetto agli stessi sudafricani. Visto l’alto tasso di disoccupazione, i sudafricani hanno dimostra-

to, anche con violenza, la propria contrarietà alla presenza degli immigrati che in tal modo prenderebbero i loro posti di lavoro. Nel 2008 queste rivendicazioni sociali sono esplose in settimane di violenze interetniche: da parte dei sudafricani nei confronti degli immigrati e da parte degli immigrati in Oltre 2mila rifugiati g e n e ra le p e r dello Zimbabwe sono protestare confuggiti dal Sudafrica tro la situazione nelle barac- per paura delle violenze copoli. La polizia dovette richiedere l’intervento dell’esercito per sedare, dopo diverse settimane, le violenze. Inoltre, alla fine del 2009, circa 2mila rifugiati dello Zimbabwe sono fuggiti dal paese per paura


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delle violenze dei sudafricani. Le forze di sicurezza hanno dimostrato la propria incapacità nel gestire questo tipo di problema. Nonostante le dichiarazioni del governo, la sicurezza in generale è una problematica non di poco conto poiché le frange più giovani della popolazione, disoccupate malgrado le continue promesse di lavoro del governo, generalmente si dedicano anch’esse ad attività di microcriminalità. Un dato su tutti permette di comprendere quanto sia delicata la situazione: cinquanta morti al giorno nell’area di Johannesburg. Solo a partire dal 2009 i governanti sudafricani hanno deciso di prendere di petto la situazione nel paese, addestrando nuove forze di polizia. In vista dei Mondiali di calcio 2010, e a seguito delle diverse preoccupazioni indicate dai paesi che hanno partecipato alla Confederation Cup, il governo sudafricano ha aumentato notevolmente le proprie unità di sicurezza e ha chiamato agenti esteri, in particolare israeliani, ad addestrarli. Alcune perplessità però permangono. Il Sudafrica ha alcune difficoltà sociali e di sicurezza legate alla sua frammentazione etnica e alcune problematiche economiche, come tutto il pianeta da alcuni anni a questa parte. Se ci si astrae dal contesto nel quale il Sudafrica è inserito, di certo la situazione è tutt’altro che rosea e il paese sarebbe classificato quale un paese a rischio crisi interna. In realtà, si coglie nel Sudafrica una sorta di eccezione ri-

spetto al resto del continente: è un paese democratico, integrato e leader nel suo contesto regionale tramite diverse organizzazioni regionali che ha creato (come la South African Development Countries) e con una sua stabilità economica interna. Di fatto il Sudafrica ha bisogno dei suoi vicini per continuare a crescere economicamente e i suoi vicini sono aggrappati al Sudafrica perché non hanno nessun altro appiglio. Peraltro, la comunità economica mondiale ha sottolineato l’importanza del Sudafrica invitando il paese a far parte del G20 in quanto rappresentante del continente africano nell’organizzazione. Il Sudafrica continua quindi ad impersonare le due facce di una stessa medaglia: da una parte una democrazia, economicamente stabile, inserita nel G20, ovvero una solida realtà a guida della regione; dall’altra un paese con diverse difficoltà interne che in quindici anni il governo sudafricano non è riuscito a risolvere.

L’Autore eric molle Dottore in Relazioni internazionali, è analista specializzato in geopolitica, in particolare dell’Africa e della difesa.



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Viaggio nel cuore malato del Sudafrica

Un giorno a Kayalitcha, l’inferno alle porte di Città del Capo In una città ultramoderna, che si prepara ad ospitare i Mondiali di calcio, una vera e propria bidonville ospita poveri, emarginati e malati. Solo la presenza di Medici senza frontiere è riuscita a ridare speranza a centinaia di migliaia di persone, ai margini di una società caratterizzata ancora da troppe contraddizioni. DI SILVIA ANTONIOLI


REPORTAGE Silvia Antonioli

All’ombra della costa assolata e degli alti palazzi dalle pareti specchiate stile anni Sessanta, palpita una comunità inaspettata, distante anni luce dalle comodità e dalla spensieratezza di Città del Capo. A pochi chilometri dallo sfavillante stadio nuovo di zecca che si appresta a ospitare per i prossimi mondiali migliaia di tifosi ingordi di calcio e di allegria, brulicano centinaia di migliaia di persone. Camminano, passeggiano, corrono, si affannano per le stradine e i vicoli intrecciati ed insidiosi della township di Kayalitcha. È allegra, Kayalitcha, ma povera. È animata ma violenta. È viva ma malata, afflitta dalle malattie. Le township sono bidonville limitro-

fe alle aree metropolitane, costruite negli anni non troppo lontani dell’apartheid, per ospitare i lavoratori non bianchi, o meglio per tenerli ad una certa distanza dalla città “bianca”. Sono tutt’altro che abbandonate, ora che regna almeno formalmente una certa democrazia. Sono tuttora piene zeppe di persone che non possono permettersi un altro tipo di residenza. Kayalitcha è la più grande delle township nelle vicinanze dell’assolata Città del Capo e raccoglie centinaia di migliaia di persone. Più di un milione, secondo alcune stime non ufficiali. Molti tra loro sono immigrati. Arrivano dal capo est del paese con la speranza di trovare un mezzo di sussistenza. Vivono a pochi chilometri da spiagge, turisti, palazzi e sfarzo, eppure il mare non lo vedono mai. I più fortunati, pochi considerando il tasso di occupazione spaventosamente basso, viaggiano un’ora o più, ogni giorno, per arrivare in città, dove svolgono i mestieri più umili. Essere un autista o una colf è un privilegio non da poco nella comunità di Kayalitcha. L’autista che mi accompagna da Città del Capo vive lì anche lui, e mi racconta che il figlio si sta ribellando alla scuola: «Mi dice che non serve a nulla andare a scuola per poi lavorare come autista. Ed io non so cosa rispondergli», mi spiega allargando le braccia e sospirando. «La speranza di trovare un lavoro per i ragazzi di Kayalitcha è molto bassa». Partendo dal centro della città per la mia “avventura”, scorgo dal fi-

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nestrino della macchina da un lato il nuovo stadio e dall’altro il mare, blu, sereno e profondo. Mi viene da pensare alle belle riprese che verranno trasmesse in tutto il mondo la prossima estate. Cosa vedrà invece Kayalitcha? Difficile saperlo, e per questo ho deciso di andare perlomeno a dare un’occhiata di persona. Il mio amico Nathan lavora da dieci anni per Medici senza frontiere, l’associazione umanitaria per medici e paramedici che opera in paesi del Terzo mondo. È di base in Sudafrica, tra Città del Capo e Johannesburg, due città estremamente diverse ma ugualmente afflitte da problemi. Uno dei più gravi è l’Hiv. I medici di Msf a Kayalitcha curano i malati di Hiv e tubercolosi. Una persona su tre, lì, è affetta dal virus, uno dei tassi più alti al mondo. Non so cosa aspettarmi. Non ne ho conosciuta neanche una di persona sieropositiva fino ad ora. Dopo un lungo viaggio tra le strade asciutte e polverose che conducono alla township, capisco di essere quasi arrivata. La prima cosa che stupisce è la dimensione. Sembra una vera e propria città. Con migliaia di case, tutte diverse, tutte raccolte in differenti quartieri. E poi i colori, brillanti, violenti, sfrontati. Danno allegria ad abitazioni tutt’altro che invidiabili. E poi le persone, tante, e tanti giovani che camminano ai bordi delle strade. Chissà dove vanno. Tanti ragazzini con le divise delle scuole camminano in gruppetti. Ogni gruppo una divisa differente. Arrivata nella piazza dove c’è l’uf-

ficio di Medici senza frontiere, c’è ancora più movimento: musica alta, gente che vende gli oggetti e i cibi più disparati. Per un momento, un intenso e pesante odore di frittura si mischia all’aria calda estiva. Nell’ufficio tutti sono amici anche se si sono appena conosciuti. Ma dopo qualche chiacchiera, giusto il tempo di un caffè, si torna tutti a lavoro. Ognuno al proprio posto: medici, infermieri, staff dell’amministrazione, autisti. «Pronti a salvare il mondo?», dice una ragazza carina e magra, forse una dottoressa speranzosa. Il suo tono, in realtà, ha un pizzico di sarcasmo perché, come mi comunicano i medici di Kayalitcha, i casi da trattare aumentano e le risorse scarseggiano. Gilles, giovane direttore della missione, mi fa una sorta di briefing. Mi spiega che il governo sudafricano ha iniziato ad affrontare l’Hiv solo da pochissimo. E comunque ancora ci sono poca convinzione e pochi mezzi. «Uno dei ministri del governo ha continuare a dichiarare fino a qualche tempo fa che l’Aids non esiste», mi spiega. «Altri consigliavano delle erbe per curare il virus». Ascolto incredula le parole dell’attuale presidente Zuma. Accusato e processato per violenza sessuale nei confronti di una giovane, a qualcuno che gli ricordava che la ragazza in questione era sieropositiva, avrebbe risposto: «Mi sono fatto una doccia subito dopo il rapporto». E così, con mezzi e personale che scarseggiano, i medici senza frontiere cercano di barcamenarsi come meglio possono.


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Mataka: «Aids, bisogna fare molto di più» Scelta da Ban Ki Moon nel 2007 per ricoprire il delicato ruolo di inviato speciale delle Nazioni Unite per l’Aids in Africa, Elizabeth Makata racconta i problemi, i passi avanti, le speranze e le difficoltà incontrati in quasi due anni di operato. Mataka critica duramente i prezzi proibitivi imposti dalle case farmaceutiche, sottolinea l’immoralità di un differente accesso alle cure mediche per i pazienti in Africa rispetto a chi risiede nei paesi industrializzati e invita i leader occidentali a mantenere gli impegni presi: «I nuovi contagi sono in calo, ma i farmaci sono ancora troppo cari. Poi, i pazienti in Africa vengono trattati diversamente da quelli europei». Insomma, secondo Mataka, il Global Fund deve fare di più. Quali risultati raggiunti sinora nella lotta contro l’Aids? Il numero dei nuovi contagi è in diminuzione. Questo dato è incoraggiante ma non è abbastanza. Uno degli obiettivi

principali in Africa al momento, per esempio, è eliminare il contagio da madre a figlio. Il Botswana rappresenta un esempio positivo in questo senso. Ma bisogna estendere questo successo agli altri paesi. È fattibile. Abbiamo la conoscenza, i mezzi e i farmaci per farlo. Ora manca solo una volontà forte, e la cooperazione dei governanti per raggiungere questo e altri traguardi. A livello di cure mediche disponibili, quali sono le differenze per un paziente sieropositivo in Europa e uno affetto dal virus in Africa? Esistono attualmente 25 antiretrovirali per tenere sotto controllo il virus e altri 15 sono in fase di sviluppo. In Occidente è possibile avere accesso a molti di questi medicinali, ma in Africa i governi possono permettersi di acquistare solo due o tre tra questi medicinali, quelli più datati, più tossici e più economici. La mancanza di varietà nel mix di farmaci pre-

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L’intervista scritto ai pazienti causa alti tassi di resistenza ai farmaci, con gravi conseguenze per la vita dei pazienti. Accumuli di grasso in zone inusuali e guance incavate sono solo i sintomi esteriori del danno provocato da un mix di farmaci non adatto. È profondamente immorale che ci sia diverso accesso a cure mediche in base al lato dell’oceano in cui si ha la fortuna, o sfortuna, di nascere.

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Chi dovrebbe intervenire per metter pressione sull’industria farmaceutica? Le agenzie quali il Global Fund e Pepfar (United States President’s Emergency Plan of Aids Relief). Queste agenzie devono negoziare prezzi migliori per i farmaci. Questi fondi acquistano i medicinali e dovrebbero far pesare il loro potere di negoziazione per spingere le case farmaceutiche ad abbassare i prezzi. So che il Global Fund sta tentando di fare qualcosa in questo senso. C’è uno sforzo in quella direzione ma non è ancora stato raggiunto alcun risultato. Con l’attenzione dei media puntata su temi quali l’ambiente e il riscaldamento globale, crede che alcuni dei finanziamenti promessi per la lotta contro l’Aids possano venire meno? Temi quali il riscaldamento globale e l’ambiente, sebbene fondamentali, non possono e non devono risucchiare i fondi previamente promessi per altri cause, come l’Hiv. Capisco anche che la crisi finanziaria sta mettendo a dura prova le economie di molti paesi, ma mi aspetto che gli impegni presi vengano rispettati. Senza fondi non si va avanti. Mi aspetto che i leader dei paesi sviluppati rispettino ogni impegno preso. Alcuni mesi fa, i risultati di uno studio effettuato in Thailandia su un vaccino contro l’Hiv hanno fatto sussultare la comunità internazionale. Medici e virologi di livello internazionale ne hanno però in seguito contestato i risultati. Che valore ha

esattamente questa sperimentazione? Sono stata una delle prime a sobbalzare al sentire i primi risultati di quello studio. Ho pensato davvero si fosse vicini alla scoperta di un vaccino. Effettivamente però l’eco della stampa internazionale è stata eccessiva e prematura. Pareri di eminenti studiosi hanno ridimensionato fortemente i valori dello studio. Il vaccino testato ha provato di avere effetto solo sul 30% dei pazienti e statisticamente i numeri del campione sono troppo piccoli, hanno detto gli esperti. Le critiche sono fondate, ma penso comunque che sia un importante passo avanti su cui basare le future ricerche. Tre obiettivi che vorrebbe vedere centrati entro il l’Hiv-day 2010. Primo: vorrei l’implementazione di strategie che rafforzino l’indipendenza economica e sociale della donna. Soprattutto nei paesi in via di sviluppo, la donna è spesso dipendente dal suo/suoi partner e per questo non in grado di negoziare l’uso di preservativi e sesso sicuro. Maggiori sforzi per garantire l’accesso agli studi per le donne, per esempio, aumenterebbero la loro indipendenza e possibilità di scelta. Secondo: vorrei vedere cambiare alcuni aspetti tipici di culture come quelle africane. Tra le maggiori cause di trasmissioni del virus ci sono il mancato uso di preservativi, sesso con molteplici partner e il mancato potere di scelta della donna. Vorrei che noi africani diventassimo coraggiosi abbastanza da affrontare e cambiare questi aspetti radicati nella nostra cultura che ci stanno causando immenso danno. Terzo: vorrei maggiore prevenzione soprattutto tra i giovani. Vorrei che l’Hiv diventasse non solo materia di studio, ma anche tema esaminabile, con relativi voti. *Inviato speciale delle Nazioni Unite per l’Aids in Africa di S.A.


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E lo fanno da anni, ben prima che chi, persino bambini. Vanno lì il governo riconoscesse l’esistenza mensilmente per visite di controldi un problema da affrontare. Lo lo e per ritirare i loro antivirali fanno cercando di istruire il perso- (purtroppo pochi a disposizione nale paramedico (i medici scarseg- in Sudafrica) che tengono a bada giano) e investire in piccole unità il virus. Constato la mia ignorandecentralizzate, così che un nu- za in materia quando mi dicono mero maggiore di pazienti possa che gli individui affetti da Hiv, essere trattato. Visito due ospedali se sotto trattamento, non possospecializzati nella cura di Hiv e no trasmetterlo. L’atmosfera è tubercolosi. I miei “Virgilio” sono cordiale e di massimo rispetto. I Saed e Carolina, entrambi medici. medici sono vestiti come i paSaed è sudafricano, di chiare ori- zienti, li trattano da pari. Molti gini islamiche, ma nato e cresciu- tra i paramedici e tra i membri to a Città del Capo. Da decenni dello staff erano e sono pazienti, lavora a Kayalitcha. Cura pazien- ed hanno imparato a convivere con la malattia. ti, organizza il perAnzi, a vivere una sonale ed i rappor- Medici senza frontiere vita normale. ti con il governo. L’autista mi porta «Questa parte del- vive con i soldi elargiti verso il secondo l’ospedale è stata dai privati perché ospedale, venti o costruita grazie ai forse trenta minuti soldi di un donato- si vogliono evitare di macchina. Epre italiano», mi di- le pressioni politiche pure siamo ancora ce. «Dopo aver visitato Kayalitcha la famiglia ha dentro Kayalitcha. L’ospedale è deciso di fare qualcosa per aiuta- piccolo e colorato. C’è un giardire». Un altro medico, invece, mi netto ed i bambini in attesa si didice che anche Angelina Jolie e vertono lì. La struttura sembra Brad Pitt hanno aiutato genero- una piccola scuola fuori città. Aspetto Carolina, che sta visitansamente Msf. L’organizzazione vive con i soldi do un paziente. Mi siedo e ne elargiti da privati. Accettare fondi scruto alcuni: mi chiedo se hanno da un governo piuttosto che da contratto tutti il virus e quanti di un altro metterebbe pressioni po- loro hanno anche la tubercolosi. litiche che si cercano di evitare: Tre fratellini giocano e ridono e, lavorando in zone politicamente come scopro poco dopo, sì, sono calde, essere visti come vicini ad tutti sieropositivi e uno di loro è una fazione piuttosto che a un’al- anche affetto da una serissima fortra sarebbe deleterio. L’ospedale è ma di tubercolosi. Ridono, scherpieno di persone ma ordinato. zano e ho voglia di scattare qualTante piccole stanze, una piccola che foto. La mamma mi dà il perfarmacia. Non mi capacito del messo con un sorriso ed uno di lofatto che tutte quelle persone sia- ro gioca con la mia macchina fono affette dal virus. Giovani, vec- tografica. I segni sul volto della

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madre sono chiari: le guance sono scavate e ha dei rigonfiamenti sul collo. Sono proprio i sintomi dei pazienti che sviluppano resistenza agli antivirali di prima linea. Peccato che per il Sudafrica gli antivirali di seconda linea siano troppo costosi. Non siamo mica in Europa o negli Stati Uniti! Un signore inizia a prendermi in giro per richiamare la mia attenzione. È incuriosito un po’ dal colore della pelle, un po’ perché sono straniera. Dei ragazzi sui vent’anni ridacchiano e allora mi avvicino a loro per cercare alleati contro le attenzioni dell’uomo. Iniziamo a parlare. Musica, calcio e siamo subito amici. Mostro le foto che ho in memoria sulla mia macchina fotografica. In alcune ci sono anche io. «Sei bella», mi dice uno di loro. «Una volta ero bello anch’io». Gli chiedo cosa intende dire e mi mostra il capo e poi scopre il torace. È pieno di cicatrici, di sfregi. Ferite profonde e lunghe che fanno rabbia. La vista è disgustosa e irritante, non tanto per la deformazione fisica quanto per il pensiero dell’orrenda violenza dietro quelle cicatrici. Mi spiega che Kayalitcha di sera è un posto violento; puoi fare brutti incontri per i vicoli. I suoi occhi e le sue parole sono senza speranza: «Sai, basta uscire di casa per andare a comprare il latte per tua madre per essere aggrediti con coltelli», mi racconta, «per pochi spiccioli o per uno stupido cellulare». Di colpo Kayalitcha mi sembra meno allegra e più spietata. Non so che dire ma cerco di non tradire lo stupore. Incontro

Carolina. È giovane, brasiliana e bella. Assisto ad alcune delle sue visite e scopro che è anche appassionata al suo lavoro. Indossa una maschera per evitare il contagio da tubercolosi. Finite le visite la invito a mangiare qualcosa, ma dice che non ha fame; sta prendendo degli antivirali che riducono l’appetito: «Sai, ho avuto un problema durante una visita». E così mi avvio ad incontrare l’autista, pronta a tornare a Città del Capo. Penso alla gente di Kayalitcha che ho conosciuto e con cui ho parlato. Conosco così poco eppure mi ha stupito la grandissima dignità di queste persone. Sono lì, aspettano. Vogliono essere aiutati. Si mettono in fila per ricevere cure. Do un ultimo sguardo alla confusione, ai colori e alla polvere di Kayalitcha e penso che ci tornerò prima o poi, magari a visitare quell’ostello che hanno costruito da poco e di cui mi parlava il mio amico. Che bella idea, almeno è un mezzo per portare un po’ di ricchezza (materiale e mentale) e un po’ di lavoro. Magari tanti tra giornalisti e viaggiatori vorranno sperimentare un’esperienza così diversa dalla Città del Capo che ti aspetti, ma probabilmente più reale. L’Autore silvia antonioli Esperta di politica e cultura dell’America Latina, attualmente lavora come commodities’ markets reporter per la casa editrice Euromoney.


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Quel pezzo di Africa che parlava italiano

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opo più di un secolo di rapporti strettissimi, di errori, conquiste e incomprensioni, l’Italia sta riconquistando il proprio ruolo naturale di interlocutore privilegiato con i paesi del Corno d’Africa. Dal regno axumita alle tensioni postcoloniali, questa zona ha sempre occupato un ruolo fondamentale negli equilibri continentali. Ecco come il nostro paese può operare in una regione dalle potenzialità immense, ma soffocate da guerre intestine e infiltrazioni integraliste. DI ALFREDO MANTICA


CORNO D’AFRICA Alfredo Mantica

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II Corno d’Africa, quella punta orientale dell’Africa che sembra abbracciare la penisola arabica, è storicamente una delle aree geopolitiche più delicate del mondo. Si trova sulla rotta marittima tra Asia ed Africa e verso il Capo di Buona Speranza, si affaccia sul Mar Rosso e, quindi, controlla il Canale di Suez, vitale per l’economia europea, pe-

trolio compreso. È un territorio povero di materie prime, con un’agricoltura di sopravvivenza, ampie aree di sottosviluppo e di povertà, aree desertiche come la depressione dancala, ma vede anche zone ricche di acqua sulla faglia della Rift Valley. La collocazione geografica della regione del Corno d’Africa, che attualmente comprende gli Stati


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di Etiopia, Eritrea, Somalia e Gibuti, ha fatto sì che abbia sempre avuto un ruolo da protagonista nella storia dell’Africa. In Etiopia, il regno di Axum al massimo della sua potenza si era esteso sino allo Yemen e alla penisola arabica e, tranne che nel brevissimo periodo della presenza coloniale italiana, questo Stato è sempre rimasto L’Italia entrò nel Corno indipendente. d’Africa nel 1882, L’area del Corquando acquistò no d’Africa è la città di Assab un’area con una millenaria presenza cristiana, tale da renderla una specificità rispetto al resto dell’Africa anche dal punto di vista sociale e politico; la diffusione della religione copta, soprattutto nei territori dell’Eritrea e

dell’Etiopia, ha visto la conseguente adozione non solo dell’alfabeto e della lingua ma anche del calendario copto. L’Italia entrò con decisione nella storia del Corno d’Africa nel 1882, quando il governo acquistò la città portuale di Assab, in Eritrea, punto di partenza della nuova politica espansionista dell’Italia unita, determinata a cercare uno spazio coloniale che la mettesse al pari delle altre potenze europee, con le quali si sarebbe poi incontrata a Berlino nel 1884-85 per dividere le zone di influenza in Africa. In Eritrea arrivammo con l’accordo degli inglesi, che volevano impedire alla Francia e alla Germania di allargare le loro aree; ci arrivammo con la solita generosità e im-


CORNO D’AFRICA Alfredo Mantica

provvisazione che costò lutti e disastri militari ma la costruimmo, dandole nome e confini, città, strade, porti, ferrovie, un tessuto economico e sociale, lingua e cultura. L’Italia in Eritrea non fu mai potenza coloniale in senso stretto. Fu nel nord dell’Africa, in un’area geopoliticamente più sensibile, contesa fra Francia e Inghilterra per il controllo del Mediterraneo, che diventammo una potenza coloniale, usando i metodi e i sistemi allora in voga: approfittammo del crollo dell’Impero Ottomano, occupammo Cirenaica e Tripolitania e ne facemmo la Libia, che come tale non era mai esistita. Siamo diventati potenza coloniale nel 1911, con “Tripoli bel suol d’amore’’.

Dopo la prima guerra mondiale riprendemmo il controllo del territorio libico stroncando in Cirenaica la rivolta guidata da Ornar El Muktar, l’eroe della rivolta anti-italiana. Un’Italia che per anni ha Il nostro paese pervicacemenin Eritrea non fu mai te ignorato e potenza coloniale nascosto i lati in senso stretto oscuri della sua avventura coloniale, senza assumersi le proprie responsabilità e finendo, fatta pace con la Libia, per offendere ed umiliare solo quegli italiani che andarono in Libia per lavorare, che furono cacciati dal colonnello Gheddafi e che ancora oggi aspettano dall’Italia un 127 risarcimento morale, prima ancora che economico. La differenza si misura ancora oggi incontrando gli “asmarini”, gli italiani di Eritrea, che sono stati anch’essi costretti dagli eventi a lasciare quella terra, ma che si sentono ancora “eritrei”. Esattamente come gli eritrei che, invece, parlano italiano e conservano gelosamente tutto ciò che l’Italia ha lasciato; crea un certo imbarazzo ancora oggi andare ad Asmara, prenGli eritrei parlano dere una bibita italiano e conservano ai caffè Roma o al bar Naziona- gelosamente tutto ciò che l’Italia ha lasciato le, magari con un vecchio eritreo orgoglioso di essere stato un carabiniere. Un legame talmente profondo che ha conosciuto solo un momento veramente difficile nel rapporto tra i due popoli: durante la lotta per l’indipendenza


RAPPORTI BILATERALI

La Somalia è sempre sotto osservazione

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Il nostro paese è fortemente impegnato a favore della pace in Somalia sotto il triplice profilo del sostegno alle attuali istituzioni federali transitorie ed al processo politico di riconciliazione nazionale, sotto quello del miglioramento delle condizioni di sicurezza e sotto quello umanitario. L’impegno su questi tre fonti è valso negli ultimi anni oltre trenta milioni di euro, tredici dei quali nel 20091. Il processo politico di pacificazione deve essere inclusivo, aperto cioè a tutte quelle forze disposte a collaborare con il governo legittimo ed a rinunciare alla violenza ed al terrorismo. Una politica iniziata alla Conferenza di Eldoret e proseguita per anni con il nostro rappresentante speciale per la Somalia, l’onorevole Mario Raffaelli, l’appoggio dell’Ue e infine anche degli Stati Uniti. Il sostegno al legittimo governo transitorio deve condurre a sostanziali progressi nello scenario somalo in termini di stabilità e di consolidamento dello stesso anche al fine di evitare che i gruppi armati dell’estremismo islamico possano trasformare la Somalia in un santuario del terrorismo internazionale. Sotto il profilo della sicurezza l’Italia ritiene necessario il rafforzamento della missione di peace supporter Amisom2 e delle strutture di sicurezza somale, non solo attraverso l’addestramento delle truppe somale, ma anche attraverso la fornitura di mezzi ed equipaggiamenti ed il pagamento dei salari delle truppe addestrate. L’Italia mantiene la Somalia all’attenzione dei competenti forum internazionali. A New York, ad una sessione straordinaria del Gruppo internazionale di contatto (Icg), l’Italia ha presentato un Position

paper sulla Somalia, che ribadisce la nostra convinzione dell’urgenza di sostenere concretamente il governo di Mogadiscio. In ambito europeo, come altri partners, siamo pienamente favorevoli ad uno sforzo accresciuto dell’Unione europea per la stabilizzazione della Somalia. La nostra presenza in fora internazionali si sostanzia inoltre nella partecipazione al Gruppo internazionale di contatto sulla Somalia ed allo specifico Gruppo di contatto sulla pirateria al largo delle coste somale. Partecipiamo altresì all’operazione navale anti-pirateria “Atalanta”, di cui abbiamo assunto il comando di turno. Tutto ciò nel quadro di un rilancio della politica italiana verso la Somalia, che lo stesso governo somalo ha riconosciuto con numerosi incontri e contatti bilaterali degli ultimi mesi e con la riapertura dell’Ambasciata a Roma.


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Dal 2008 il nostro impegno finanziario è valso a sostenere: il processo politico di riconciliazione, il consolidamento dell’apparato istituzionale e la governance (circa € 8 milioni); il settore della sicurezza, d’intesa e tramite l’Unione africana, sia per la sua missione di pace Amisom e la sua componente civile che per le forze di sicurezza somale (circa € 12 milioni); e il settore umanitario e dell’emergenza (quasi € 14 milioni). 2 Tuttora composta da 3 battaglioni dell’Uganda e 3 del Burundi, Amisom continua a contare solo su 5.200 unità, rispetto alle 8mila previste in origine per un suo completo spiegamento e per una sua efficace operatività.

dall’Etiopia, condotta dal Fple (forze popolari di liberazione eritrea) guidato da Isayas Afterworki, attuale presidente eritreo, quando l’Italia democristiana non sostenne gli eritrei, appiattendosi sulle posizioni etiopi di Menghistu, dittatore filo-sovietico. La Somalia, per definizione, era di area socialista. Se il popolo eritreo era e resta italofono, la politica italiana degli anni Ottanta ha creato una classe dirigente eritrea in gran parte italofoba: da qui i difficili rapporti politici dopo l’indipendenza, sancita nel 1993, che ha visto l’allontanamento dal paese di un ambasciatore e di un diplomatico italiani, nonostante l’aiuto e la cooperazione che l’Italia, impegnata a non isolare l’Eritrea dal contesto internazionale, ha sempre fornito. Un’azione di sostegno che continua, dopo lo stallo dal 2006 al 2009 delle relazioni bilaterali, ma con un’Eritrea che sta scivolando sempre più nell’area degli interessi iraniani e non certo per problemi religiosi, visto che la maggioranza della popolazione è cristiana. Il grande leader della lotta per l’indipendenza, Isayas Afterworki, che si alleò con gli anticomunisti etiopi di Meles Zenawi, l’attuale primo ministro etiope, e che liberò Addis Abeba dal comando delle forze rivoluzionarie, ha scelto dopo la vittoria la strada dello scontro con gli ex alleati, che pure avevano mantenuto i patti e, cioè, la concessione dell’indipendenza all’Eritrea. In una prima fase lo scontro fu di tipo

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militare, e l’Eritrea fu salvata lità politica del Corno d’Africa, e dall’intervento della comunità segue una logica politica al di internazionale con truppe Onu, fuori dalle regole dettate dalla che ancora oggi stazionano ai comunità internazionale, che ne confini tra Eritrea ed Etiopia. In ha comportato l’isolamento alseguito, lo scontro si trasferì sul l’interno delle stesse organizzapiano politico per la definizione zioni africane, dall’Igad all’Uniodei confini dopo gli accordi di ne africana, e che ha fatto venir Algeri, definizione mai realizzata meno anche l’appoggio della Lisul territorio, ed ancora oggi lo bia, la quale aveva sorretto per scontro vede l’Eritrea appoggiare anni l’economia eritrea fornendo palesemente tutti i movimenti petrolio a prezzo politico. antietiopi del Corno d’Africa, Tuttavia, all’interno dell’area del nella speranza che la destabiliz- Corno d’Africa, se pure è certo zazione dell’area porti all’implo- che l’Eritrea costituisce il primo sione della Repubblica federale e piu gravoso elemento d’instabidell’Etiopia. L’Eritrea oggi sup- lità politica, l’attenzione dell’opinione pubporta i somali inteblica internaziogralisti islamici L’Eritrea costituisce nale è concentracontro il governo un fattore di forte ta sulla Somalia, transitorio di Mogache vive una sidiscio, i ribelli del instabilità politica sud del Sudan per ed è isolata dalle stesse tuazione da “Stato fallito” da alrendere instabili i confini etiopi-suda- organizzazioni africane meno 20 anni. La Somalia, per nesi e i guerriglieri Oromo all’interno dell’Etiopia, verità storica, non è mai stata ed è diventata il terminale in unita se non all’epoca “italiana”, Africa delle forniture di armi ira- fino al periodo della nostra amniane a tutti i movimenti inte- ministrazione negli anni Cingralisti islamici fino ad Hamas, quanta, o forse fu unita solo nel ‘36, quando la colonna Graziani nella striscia di Gaza. Un’Eritrea dove non si vota da marciò su Addis Abeba alla testa più di dieci anni, con un regime delle truppe coloniali somale. Indittatoriale poliziesco che vede fatti, l’unico elemento di unità in carcere, o scomparsi, alcuni dei somali, oltre alla religione dei capi della lotta per l’indipen- islamica, è l’odio feroce verso gli denza, ove sono calpestati quoti- etiopi. E proprio di questo apdianamente i diritti umani, dove profittò anche Siad Barre quando la leva è obbligatoria fino a 40 decise di intraprendere l’avvenanni e dove la maggioranza della tura della “grande Somalia”, scapopolazione vive con meno di un tenando la guerra nell’Ogaden dollaro al giorno in un regime di contro l’Etiopia. La frantumaziofame e di miseria. L’Eritrea costi- ne in clan è l’unica realtà della tuisce un fattore di forte instabi- società somala, ed ogni tentativo


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di pacificazione e di unità della smo e gli Shabaab, giovani viciSomalia che non rispetti questo no ad Al Qaeda, hanno introdotprincipio appare uno sforzo vano. to la Sharia in un paese da semQuando alla Conferenza di Eldo- pre islamico, ma da sempre laico. ret si decise la costituzione di un Occorreva in quel momento, coParlamento somalo non vi furono me capirono le strutture diploelezioni, ma l’assegnazione pro- matiche e politiche italiane, coporzionale dei seggi del parla- gliere il “nuovo” che si presenmento in base alla forza numeri- tava con le corti islamiche (uno ca dei clan e dei sottoclan. Quel dei primi atti a Mogadiscio fu la Parlamento rimane l’unica legit- ripresa del servizio raccolta ritima istituzione somala; riuscì ad fiuti, segno di una volontà preeleggere un presidente della Re- cisa di riportare l’ordine e i serpubblica, e rimane ancora oggi, vizi alla popolazione nel caos nel caos, un punto di riferimen- degli scontri tra clan). Bisognato. Non è certo un modello di va puntare sulla nuova classe didemocrazia occidentale, ma va rigente che stava emergendo seguendo un prinaccettato per quelcipio di inclusiolo che rappresenta: L’opinione pubblica ne, imponendo la il clan come legit- è concentrata pace con le truptimo elemento di pe di Amisom rappresentazione sulla Somalia che vive dell’Unione afridella popolazione una situazione cana di cui non somala. avrebbero dovuto Per anni il proces- di “Stato fallito” far parte truppe so di pace in questo paese è continuato, con qual- dei paesi confinanti. che timido successo, ma con la Tutto poi è avvenuto, ma con un debolezza di una classe dirigente ritardo che ha favorito il mantevecchia ed usurata, coinvolta nel- nimento dell’instabilità profonla guerra civile del dopo Siad da: oggi il capo del governo tranBarre, nello scontro con le forze sitorio è Sheik Sharif Sheik Ahdi Restore Hope, e condizionata med, ex portavoce delle corti dagli affari economici che i busi- islamiche, mentre sul piano milinessmen somali controllano dagli tare Amisom è presente con seiEmirati e che abbisognano di mila uomini, ma solo dopo che miliziani per difenderne i flussi. per due anni quel compito è staLe corti islamiche hanno spazza- to affidato alle truppe etiopi, poto via il vecchio e sono state in- liticamente lasciate sole ad afnanzitutto una rivolta contro i frontare lo scontro in Somalia, fisignori della guerra somali, che no a costringerle al ritiro. gli americani hanno difeso e ali- Ma tant’è, la strada è segnata, ocmentato fino all’ultimo. Il prezzo corre rinforzare la capacità milipolitico è stato pesantissimo: è tare del governo provvisorio, la arrivato in Somalia l’integrali- sua capacità di risposta ai bisogni

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di una popolazione con grandis- maturino una comune convinziosimi problemi umanitari, e cerca- ne e un comune progetto di pace re di aumentare le truppe di e di stabilità, ricordando un vecAmisom almeno fino agli otto- chio motto di chi conosce bene i mila uomini promessi. Con que- somali: «Non credere mai a quelsti obiettivi va, tuttavia, prestata lo che dice un somalo, ma sopratgrande attenzione ai due fenome- tutto non credere mai al contrario ni che stanno emergendo nella di quello che dice». Oppure guarrealtà somala: la pirateria da un dando alle realtà claniche esclusilato e gli Shabaab dall’altro. La ve, cioè nelle quali vi è la netta tecnica somala è sempre quella di prevalenza di un clan sugli altri, affidare a terzi la soluzione dei come nel Puntland, nel Somaliproblemi del proprio paese, e land o nella stessa Gibuti; tutte l’estremizzazione dei due feno- aree, o Stati, abitati e governati da meni sopra indicati può anche somali, ma che conoscono da anni evidenziare un tentativo di coin- una stabilità sconosciuta al sud volgere in maniera diretta gli della Somalia e a Mogadiscio. Soprattutto nella Stati Uniti o la cocapitale, città di munità internazio- Per la Somalia serve grandi migrazion a l e , i n q u a n t o un comune progetto ni, l’unica urbal’estremismo islanizzata, si regimico, se non accop- di pace di Unione strano continui piato ad una lotta europea, Lega araba, scontri, quartiere contro un nemico per quartiere, via comune, può esauri- Unione africana e Usa per via, tra clan e re la sua spinta, come è già avvenuto nelle aree con- sottoclan, per il controllo del portrollate dal sufismo somalo e dal- to e degli aeroporti e dei traffici le recenti dimostrazioni in piazza da questi controllati. a Mogadiscio. E il fenomeno del- L’altro grande porto abitato e gela pirateria potrebbe non essere stito da clan somali è Gibuti, citsolo un fenomeno somalo ma di tà-Stato di antica indipendenza grande criminalità organizzata, rispetto alla Somalia, il più granall’interno della quale i somali de porto del Corno d’Africa, gecostituiscono una sorta di braccio stito dalla Dubai Port Aurthorioperativo, senza che questo abbia ty, e, in qualche modo, il porto alcun significato politico, ma dell’Etiopia, che non ha sbocchi rappresenti unicamente lo sfrut- al mare e vive nell’incubo deltamento su vasta scala di un fe- l’accerchiamento e del soffocanomeno criminale purtroppo ca- mento della sua economia. Gibuti costituisce ormai una ratteristico delle coste somale. La Somalia potrà trovare una solu- grande realtà portuale internaziozione alla sola condizione che nale, collegata al sistema logistil’Unione europea, la Lega araba, co arabo, ma è anche sede di l’Unione africana e gli Stati Uniti qualche migliaio di uomini della


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RAPPORTI BILATERALI

Quel legame forte tra Roma e Asmara Italia ed Eritrea condividono un legame che affonda le proprie radici nella storia e che risulta tuttora evidente e vivo in diversi ambiti: dal patrimonio artistico e culturale eritreo (di chiara impronta italiana) al primato del nostro paese tra i partner economici di Asmara (siamo il naturale mercato di approvvigionamento eritreo); dall’eccellenza delle istituzioni scolastiche italiane presenti in loco al ruolo di punto di riferimento nell’Occidente riconosciutoci da Asmara. I rapporti politici con l’Eritrea sono, dall’indipendenza, molto difficili anche se l’Italia mantiene un alto livello di cooperazione nel tentativo di non accentuare l’isolamento dell’Eritrea, con l’obiettivo di un aiuto costante alla popolazione che nella maggioranza vive sotto la soglia della povertà. L’Italia è fra i principali partners commerciali del paese – primo fra i paesi Ue. Benché modesto, l’interscambio ha mostrato sensibili segnali di ripresa nel primo semestre del 2009: confrontate con lo stesso periodo dell’anno precedente, le nostre esportazioni hanno registrato un incremento del 20% (oltre 13 milioni di euro contro i 10 del 2008). In leggero aumento anche le importazioni dall’Eritrea. L’interscambio aveva registrato, nel 2008, un leggero calo rispetto al 2007, passando da poco più di 30 milioni di euro a circa 28 milioni di euro (con un netto avanzo per parte italiana). Nel campo della Cooperazione allo sviluppo sono attive alcune regioni italiane – soprattutto, Toscana, Marche e Lombardia – con progetti di cooperazione decen-

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trata. Inoltre, nel settembre 2009, la delegazione della Commissione europea ha firmato con la controparte eritrea il Country Strategy Paper relativo al decimo Fondo europeo per lo sviluppo (quinquennio 2009-2013). A favore dell’Eritrea, sono stati stanziati 122 milioni di euro. A fine ottobre, i competenti organismi europei hanno approvato il Pianoannuale Eritrea 2009 con un portafoglio di 53,7 milioni. Nel paese vivono circa 900 connazionali, di cui oltre 300 con doppia cittadinanza. Ventidue sono i religiosi italiani, principalmente comboniani, operanti nell’area della capitale. Una delle sette Ong straniere attive nel paese è italiana (Gruppo missione Asmara). Ad Asmara esiste una scuola italiana (elementare, media e liceo) che conta all’incirca 1100 alunni. La scuola materna, che conta circa 300 alunni, invece, non è pubblica, ma “con presa d’atto”, comporta, cioè, per lo Stato italiano un potere-dovere di vigilanza.


RAPPORTI BILATERALI

Etiopia, un partner indispensabile per l’Italia

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L’Etiopia è un partner prioritario dell’Italia nell’Africa subsahariana, per la sua rilevanza demografica (circa 80 milioni di abitanti), per i tassi di crescita considerevoli (intorno all’11% negli ultimi 5 anni, ridottisi al 7% in seguito alla crisi economica globale), e per il ruolo preminente che il paese gioca in ambito africano (è sede dell’Ua e dell’Uneca) e nell’area per noi prioritaria del Corno d’Africa. Le relazioni bilaterali sono di alto livello, come testimonia la frequenza degli incontri tra i rappresentanti politici dei due Stati e si sono rafforzate dopo il riposizionamento dell’obelisco ad Axum da parte dell’Italia e per opera di tecnici e maestranze italiane. Un atto dovuto in base ai trattati internazionali,

ma fortemente voluto dal governo Berlusconi secondo il principio che il rafforzamento delle identità nazionali è elemento di stabilità e i simboli della storia politica e religiosa dei popoli sono elementi fondanti delle identità La collettività italiana conta oggi 1.594 iscritti all’anagrafe consolare, 400 dei quali nati in Italia, cui si aggiungono altri 600/700 italiani solo temporaneamente residenti. Il numero dei missionari italiani si aggira attorno alle 130 unità. Si tratta soprattutto di comboniani e salesiani dislocati principalmente nell’area della capitale. Una cinquantina sono i cooperanti e volontari italiani. Tre sono le missioni archeologiche che ricevono finanziamenti. Ad Addis Abeba hanno sede l’Istituto


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di cultura e la scuola italiana, operante fin dal 1956 e costituita da una scuola materna (privata), da una scuola elementare e media e da due scuole superiori (istituto tecnico-commerciale e per geometri e liceo scientifico sperimentale). Essa conta circa 700 alunni, l’80% dei quali cittadini etiopi. L’Etiopia è fra i primi beneficiari dell’aiuto italiano in Africa e, in termini assoluti, siamo il quarto donatore del paese. Lo scorso aprile abbiamo firmato un nuovo programma di cooperazione bilaterale per il triennio 2009-2011, che ci impegna per 46 milioni di euro. Abbiamo inoltre cancellato totalmente il debito etiopico e finanziato la realizzazione dell’impianto idroelettrico Gilgel Gibe II, con un credito d’aiuto di 220 milioni di euro.

Legione straniera e di 1800 marines di Africom, il comando americano per l’Africa, una base determinante nel sistema strategico per il controllo del Corno d’Africa che gli Usa ritengono sufficiente per controllare il territorio, soprattutto somalo. Gli “Stati falliti”, come la Somalia, o in fallimento, come l’Eritrea, non sono mai di grande aiuto nella lotta al terrorismo internazionale e i grandi territori non controllati o di difficile controllo – si pensi al Sahara – sono oggi l’incubo di tutti i sistemi di intelligence. Proprio da una valutazione sul ruolo di Gibuti può ripartire una più attenta analisi di presenza dei sistemi di sicurezza europei ed americani, escludendo a priori che quell’area sia solo un problema militare o da affidare a qualche generale in pensione. Un atteggiamento coerente solo da parte di chi non ha da anni una strategia per l’Africa e al massimo pensa di delegare il ruolo a qualche paese della regione, come avviene, a corrente alternata, con l’Etiopia, salvo poi portarla sul banco degli imputati per presunto mancato rispetto di diritti umani di minoranze etniche, o di standard elettorali non adeguati agli standard “norvegesi”. L’Italia conosce molto bene l’Etiopia, da 150 anni, e non è mai stato un rapporto né facile, né pacifico. Abbiamo subito le più grandi sconfitte militari per mano etiope, si pensi ad Adua; abbiamo mobilitato il più grande e il più moderno esercito coloniale che si sia mai visto in

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Africa nel 1936, per arrivare ad Addis Abeba ed imporre l’impero di Roma. Abbiamo traccheggiato cinquant’anni per rispettare il trattato di pace che avevamo firmato, pensando, forse, che l’Etiopia fosse ancora una colonia comunque importante, tanto che fu delegata alla competenza democristiana. Solo il governo Berlusconi trattò alla pari con l’Etiopia, capendo che l’Italia aveva avuto comunque un ruolo positivo, riconosciuto dall’imperatore e dai suoi eredi politici: era stato il meccanismo di avvio della modernizzazione del paese. Avevamo vinto con un esercito moderno e con un’altissima tecnologia; avevamo costruito strade e ferrovie, che sono ancora oggi le infrastrutture principali in Etiopia; avevamo aperto scuole e ospedali, lasciato una struttura e un tessuto di piccola e media impresa e non grandi latifondi da sfruttamento o multinazionali. L’Etiopia post imperiale e post dittatura che si è rifondata in una Repubblica federale con un sistema elettorale di standard europeo, aveva bisogno innanzitutto di una partnership con l’Italia per riprendere sulla strada della modernizzazione. Fu Axum, poi la visita del presidente etiope in Italia, furono gli accordi sottoscritti, politici, economici e culturali; fu la grande attenzione posta sull’Etiopia da parte del mondo imprenditoriale italiano. Non sufficiente, certo, di fronte alla presenza cinese, ma è un dato

che l’Etiopia sta cambiando, si sta modernizzando, può diventare esportatrice di energia, può arrivare all’autosufficienza alimentare. La stabilità ai confini, la carenza di un accesso al mare, non si sa per quanto basteranno Gibuti e Bosaso, l’equilibrio fra le aree regionali, che è anche un equilibrio etnico, il rispetto delle regole democratiche che gli etiopi si sono dati, sono le sfide politicostrategiche dell’Etiopia, nelle quali il paese deve essere accompagnato perché da sfide diventino vittorie, a garanzia di una stabilità dell’area che dell’Etiopia ha assoluta necessità. Sudan, Kenya, Uganda e i grandi laghi hanno bisogno che il Corno d’Africa conosca una nuova epoca di stabilità e di pace. Ed è inutile illudersi che siano solo problemi umanitari o di aiuto nella lotta alle malattie: quando guardi negli occhi un bambino africano non ti chiede solo del pane. Vuole vivere come tutti gli altri bambini del mondo. E la risposta a questo bisogno essenziale la può dare solo la politica e nel Corno d’Africa anche un po’ di politica italiana.

L’Autore alfredo mantica Sottosegretario di Stato per gli Affari esteri e senatore.



La stele venuta da lontano Dopo una contesa pluridecennale tra Roma e Addis Abeba, l’obelisco è finalmente tornato ad Axum, città sacra del cristianesimo copto e culla di una civiltà millenaria. 138 DI BARBARA MENNITTI

Nel novembre del 1970 Hailè Selassié, ultimo negus etiopico, secondo la tradizione duecentoventicinquesimo discendente di Menelik, il figlio leggendario della regina di Saba e di re Salomone, venne finalmente in visita ufficiale in Italia, invitato dall’allora ministro degli Esteri, Aldo Moro. Il negus neghesti, il re dei re, era ospite al Quirinale, dove allora risiedeva Giuseppe Saragat. Il percorso che dall’aeroporto di Ciampino, luogo di arrivo di Selassié, porta alla presidenza della Repubblica, passa quasi necessariamente da piazza di Porta Capena, l’attuale sede della Fao, dove fino a vent’anni prima c’era il ministero delle Colonie. Proprio in quella piazza, fra il Circo Massimo e le Terme


AXUM Barbara Mennitti


IL LIBRO

La storia coloniale vista dall’Etiopia 140

Debre Zeit, cinquanta chilometri da Addis Abeba, 1987: una grande famiglia patriarcale; un legame speciale tra il vecchio Yacob e Mahlet, la più piccola di casa. Lui la conosce meglio di chiunque altro: la guarda negli occhi, mentre lei divora le storie che lui le narra. Così, un giorno si mette a raccontarle del tempo degli italiani, venuti ad occupare quella terra, e degli arbegnà, i fieri guerrieri che li hanno combattuti. Quel giorno, Mahlet fa una promessa: da grande andrà nella terra degli italiani e si metterà a raccontare... Un lungo viaggio nel tempo e nello spazio, in cui scorrono la vita e le vicissitudini di una famiglia etiope nel periodo della dittatura di Menghistu, e nel decennio successivo dell’emigrazione. Un romanzo che percorre oltre cento anni di storia, dal tempo di Menelik ai giorni nostri. Una narrazione che, come scrive Cristina LombardiDiop nella postfazione, «non riguarda solo la dimensione del passato etiopico, ma è anche un modo di interrogarsi sull’identità della memoria coloniale italiana». Regina di fiori e di perle Gabriella Ghermandi Donzelli Editore, 2007

di Caracalla, si stagliavano i 23 metri e mezzo dell’obelisco di Axum, la stele portata a Roma nel 1937 per volere di Benito Mussolini, quando l’Etiopia era colonia italiana. Per riguardo al negus, il percorso del corteo reale fu deviato e fatto passare dall’Aventino, in modo da evitare piazza di Porta Capena, giungendo direttamente al Quirinale, dove si svolse una solenne cerimonia di ricevimento dell’ospite. Hailé Selassiè assolse diligentemente a tutti i doveri previsti dal cerimoniale, ma alla fine della lunga serata espresse un desiderio: chiese di essere portato a vedere la stele di Axum. Si racconta che, arrivato al cospetto del monumento dei suoi avi, il negus scese dall’auto, si raccolse in preghiera e pianse a lungo e in silenzio, avvolto dal buio della notte romana. È un aneddoto, forse anche un po’ romanzato, che rivela l’importanza della lunga vicenda dell’obelisco di Axum, che – come ricordato – arrivò a Roma come “bottino di guerra” nel 1937 e vi rimase per 65 anni, per poi essere smontato fra mille polemiche nel 2002 e infine rieretto ad Axum, nel suo luogo originario, il 4 settembre del 2008 al cospetto del primo ministro etiopico Meles Zenawi e del sottosegretario italiano agli Esteri, Alfredo Mantica. Uno che aveva militato nell’Msi, la forza politica dell’Italia repubblicana in qualche modo più vicina al fascismo. La storia di questa porzione d’Africa si perde nelle origini


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dell’umanità. Qui, infatti, nel 1972 vennero alla luce i resti dell’Australopithecus afarensis Lucy e sempre qui, nella valle del fiume Awash, nel 1992, il paleontologo giapponese Gen Suwa trovo i resti dell’Australopitecus ramidus, ritenuto l’anello di congiunzione fra la scimmia e l’uomo, vissuto circa 4 milioni e mezzo di anni fa. Tracce dell’Etiopia, crocevia di migrazioni fra Mediterraneo, Africa nera e Penisola arabica, si trovano già nei classici dei greci e nei geroglifici egiziani. Il regno axumita crebbe a partire dal VI secolo a.C. e nel III secolo d.C. iniziò a battere moneta tanto da essere considerato il terzo impero più potente del mondo, dopo Roma e la Persia. Anche le origini della stirpe reale dei negus si intrecciano con il mito e la leggenda. Il Corano, il Vecchio e il Nuovo Testamento raccontano di come la regina di Saba organizzò un viaggio alla corte di re Salomone, incuriosita dai racconti sulla magnificenza del regno. Salomone accolse trionfalmente la regina che, al suo ritorno ad Axum, partorì Menelik, figlio dell’amore con il re di Israele. Da lui, secondo la tradizione etiope, discendono i negus etiopici. Diventato adulto, Menelik si recò dal padre Salomone e conobbe i rappresentanti delle dodici tribù di Israele e così nacque in lui il sogno di fondare ad Axum una nuova Sion. Per questo Menelik trafugò l’Arca dell’Alleanza, la cassa contenente le Tavole della

IL LIBRO

Un viaggio nell’Africa inattesa Tra il gennaio e l’aprile del 1939 Curzio Malaparte attraversò l’Etiopia per conto del Corriere della Sera. Sbarcato a Massaua, visitò l’Eritrea e puntò verso Addis Abeba, attraversando il territorio Amara e il Goggiam. Nel corso del lungo viaggio ebbe anche modo di partecipare alle operazioni militari contro la resistenza anti-italiana, guadagnandosi, nella caccia ad Abebè Aregai, il più celebre patriota dell’Etiopia centrale, una croce di guerra al valor militare. Nei progetti dello scrittore il viaggio avrebbe dovuto documentare la creazione di un “impero bianco” in un “paese nero”, gli straordinari effetti, cioè, dell’imperialismo fascista in Etiopia. In realtà il piano di lavoro ipotizzato fu ben presto abbandonato e l’attenzione del giornalista-scrittore, superate “le frontiere della tradizione bianca”, fu catturata dalla scoperta di un’Africa inattesa e inedita e dalle vicende militari di cui fu testimone e protagonista. Cinque articoli di argomento africano accompagnano il reportage malapartiano, corredato da un ampio saggio introduttivo. Viaggio in Etiopia e altri scritti africani Curzio Malaparte Vallecchi, 2006

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Legge su cui sono scritti i dieci comandamenti dettati da Dio a Mosè, e la portò con sé ad Axum. Secondo la chiesa ortodossa etiopica, l’Arca si trova tuttora custodita nella Chiesa di Santa Maria di Sion, nei pressi del parco archeologico degli obelischi. Nessuno può vederla, nemmeno i suoi custodi, che infatti per svolgere questo sacro ruolo devono essere ciechi. Il primo sovrano axumita a convertirsi al cristianesimo fu Ezana, che nel IV secolo si fece battezzare con il nome di Abriha, segnando il momento ufficiale della cristianizzazione del regno. Questa è l’origine della città di Axum, capitale di un regno anti-

chissimo. Curzio Malaparte, che nel 1939 attraversò l’Etiopia per conto del Corriere della Sera, la descrive con queste parole poetiche: «Una città più antica di Parigi, di Londra, di Berlino, di Vienna, di Madrid, di Mosca: la “madre delle città”, la patria d’elezione dei Nove Santi di Rom, la Gerusalemme dell’Africa, la sedia di Maria, la nuova Nazaret, la nuova Betlemme, dov’è nato il Cristo dei popoli “rossi”, il Dio della Nubia Christianorum, il Cristo etiopico dal viso scarlatto, dai capelli neri e crespi, dai piedi punteggiati di pulci penetranti, esperto di magie, di decotti, di unzioni, che i preti nel deserto delle chiese nutrono


AXUM Barbara Mennitti

di angera e zighinì. Il Cristo dalla fronte purpurea, cui le sciarmutte recano in dono mascal d’argento, vasi di miele, corni di bue colmi di tellà, bottiglie di latte fermentato e sacchetti di berberè. Il Cristo degli Amara, il Cristo della nuova Bisanzio, dove il Vangelo dei primi secoli sopravvive sotto la crosta delle immondizie, dello sterco di vacca, della muffa nerastra odorosa d’incenso». E non si potrebbero trovare parole migliori. Qui, nella città santa della cristianità copta dell’Etiopia, si trovano le gigantesche steli axumite, decorate con porte e finestre, imponenti testimoni di antica magnificenza. Qui si trovano la

Grande stele, 33 metri di pietra basaltica crollati al suolo probabilmente già durante la costruzione, e la stele di re Ezana, ancora eretta invece nei suoi 24 metri. Qui si trovava anche la “nostra” stele, quella che trovarono i soldati italiani, venuti in Etiopia a combattere una sanguinosa guerra di occupazione e ai piedi della quale piangeva, a Roma, una notte del novembre del 1970, Hailè Selassié. Riportarla ad Axum è stata un’impresa tutt’altro che facile. Finalmente, dopo alcuni traccheggiamenti e polemiche, nel 2002 la stele viene prima restaurata e poi smontata in previsione del trasferimento. Che fu una ve-

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ra sfida visto che passare per la Somalia non era pensabile e l’Etiopia aveva espressamente richiesto di non attraversare l’Eritrea. Insomma, la via terrestre non era praticabile e non rimaneva che la via aerea che, per un monolite di 152 tonnellate, presenta qualche difficoltà. L’unico aereo al mondo in grado di trasportare l’obelisco, sebbene diviso in quattro pezzi, è l’Antonov 124, un colosso volante. Alla cloche c’era un pilota ucraino, un ex dell’Armata rossa, che effettuò quattro voli (e, si racconta, quattro rocamboleschi atterraggi) per l’aeroporto di Axum, che esisteva perché i sovietici lo usavano per portare le armi a Menghistu. Anche i lavori di ricostruzione della stele, finanziati grazie a un fondo italiano, sono stati difficili. La stele, quando i soldati italiani la trovarono, era crollata – probabilmente in seguito a un terremoto accaduto molti secoli prima – e la sua struttura era stata rinforzata con cunei di metallo. Per smontarla senza causare danni sono state usate tecniche sofisticatissime, mentre in fase di ricostruzione, ad Axum, è stato necessario costruire una torre in acciaio per impilare i blocchi e poi collegarli fra loro con barre di fibre di carbonio per rendere l’obelisco antisismico e poi restaurarne la superficie esterna. È bene ricordare che l’Italia è stato il primo paese a cercare di porre in qualche modo rimedio al suo passato coloniale, anche se Alfredo Mantica, che si è impegnato molto perché si compisse

questo passo e ha rappresentato il nostro governo alla cerimonia di inaugurazione della stele, non vuole metterla in termini di restituzione, ma parla di riallocazione. «Noi siamo una destra attenta – ci ha detto – che vuole il rispetto della sua identità nazionale e si rende conto che deve rispettare anche quella degli altri. L’Etiopia è stato un paese indipendente per un sacco di tempo e noi abbiamo contribuito a rafforzare questa identità nazionale e quindi la stabilità e la pace in Etiopia attraverso la riallocazione dell’obelisco di Axum». E come un dono degli italiani è stato, infatti, accolto dalle autorità etiopiche il monumento, che durante la cerimonia di inaugurazione era coperto appunto dalla bandiera italiana, mentre i bambini sventolavano le bandiere italiane ed etiopi e un grande striscionerecitava “I popoli di Italia e Etiopia vivranno sempre in amicizia”. Un degno epilogo per il lungo viaggio della stele di Axum.

L’Autore barbara menniti Direttore responsabile di Charta minuta. Giornalista, è stata direttore del quotidiano online Ideazione.com, collabora con Ffwebmagazine.


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Servono soluzioni a lungo termine

Il business delle navi pirata In molti Stati del Corno d’Africa mancano le leggi per contrastare questo fenomeno e quindi si preferisce pagare il riscatto. In questo modo le organizzazioni criminali guadagnano milioni di dollari utili a reclutare nuovi pirati. DI PIERO BONADEO

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PIRATERIA Piero Bonadeo

L’Africa dell’est è un mosaico complesso nel quale estrema povertà, guerre, governi corrotti, mancanza di governance, in due parole instabilità e crisi, hanno lasciato molti paesi dell’area, 180 milioni di persone circa, in una condizione di costante lotta per la sopravvivenza. Incastrata tra la regione dell’Africa, orientale – idealmente composta da Kenya, Tanzania, Uganda, Burundi e Ruanda –, e le isole dell’Oceano indiano (Seychelles, Comore, Mauritius e Madagascar), il Corno d’Africa (Gibuti, Eritrea, Etiopia e Somalia) versa nella situazione peggiore. Non stupisce che in quest’ambiente di diffusa debolezza istituzionale, sociale ed economica, trovino facile terreno organizzazioni criminali con respiro transnazionale, come sono quelle che alimentano e praticano la pirateria. Che si concentra nel paese costiero più debole della regione: la Somalia. Divisa in una pletora di autorità locali, tra due principali territori – Somaliland e Puntland –, è lungo i suoi 3000 chilometri di coste che i pirati hanno le loro basi. Nessuna forza militare navale sarebbe capace di controllare la linea costiera più lunga del continente, caratterizzate da piccoli porti, villaggi di pescatori ed insenature. Lo scoppio della guerra civile nel 1991 ha lasciato molti giovani somali nella disperazione. Negli ultimi 18 anni le cose sono andate ancor peggio: il paese ha conosciuto l’alternarsi di livelli più o meno gravi di anarchia. Un’intera generazione di somali è

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stata educata alla violenza in nome di una fittizia libertà assicurata dai signori della guerra locali, pirati, criminali ed estremisti. Invece la comunità internazionale ha guardato questi avvenimenti cercando il minimo coinvolgimento possibile garantendo, cioé, la dovuta assistenza umanitaria. Il più recente conflitto interno, durato dal 2006 al 2009, ha visto il ruolo attivo dell’Etiopia, dell’Eritrea nonché degli Usa. Ed è terminato con un fragile patto nazionale tra il governo federale somalo di transizione e parte delle forze islamiste che sono entrate in parlamento. Mentre la fazione islamista Shabab attiva nel sud del paese ha scelto di continuare la lotta armata. La crescita delle azioni di pirateria ha riportato l’attenzione

del mondo sul Corno d’Africa, e sulla Somalia in particolare, aprendo una nuova prospettiva di stabilità per la regione. Come contrastare e vincere il fenomeno della pirateria? Vi sono misure di breve periodo necessarie a ridurre il pericolo e possibilmente stabilizzare la sicurezza delle rotte marine, delle acque territoriali e misure ben più importanti, più impegnative e di lungo periodo che vanno prese a terra. La sicurezza marittima richiede mezzi e capacità di farli funzionare, presenza di leggi adatte e certezza del dirirtto. Bisogna, quindi, colmare il vuoto legislativo in Somalia come in altri paesi della regione che non hanno leggi sulla pirateria. Poi è necessario far funzionare in maniera

IL LIBRO

I pirati del Terzo Millennio La pirateria sta vivendo una nuova e sorprendente fase di vitalità in alcuni snodi marittimi cruciali, dal Golfo di Aden allo Stretto di Malacca, dal Mare cinese meridionale al Golfo di Guinea. La battaglia per contrastarla è ancora lontana dall’essere vinta, i pirati hanno vita facile nei troppi paesi del mondo la cui instabilità interna influenza le vicende del mare. Eppure oggi le prospettive sono migliori rispetto al recente passato. Le missioni internazionali di pattugliamento al largo della Somalia indicano come la pirateria sia un fenomeno ormai stabilmente al centro dell’agenda mondiale. Con un attento sguardo alla pirateria caraibica e asiatica dei secoli scorsi e con i contributi di esperti della Marina italiana, questo libro fa il punto della situazione fornendo i dati più aggiornati, e inquadra il contesto in cui la pirateria contemporanea è rifiorita. Infine, nel delineare i possibili scenari futuri, analizza le contromosse messe in campo dall’Onu, dall'Organizzazione marittima internazionale, dalla Nato, dall’Ue e dai maggiori paesi mediorientali e asiatici. I nuovi pirati Raffaele Cazzola Hofmann Mursia editore, 2009


PIRATERIA Piero Bonadeo

efficace i principali strumenti giuridici internazionali che regolano i principi e le azioni per la cooperazione internazionale contro la pirateria, ovvero la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, la Convenzione per la repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima, integrati dalla Convezione delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale organizzato e la Convenzione sulla presa degli ostaggi. Come? Superando i limiti per l’applicazione delle convenzioni. Non tutti i paesi della regione li hanno fatti propri mentre persistono anche differenze legislative negli ordinamenti interni dei paesi costieri. Insomma le larghe maglie della rete di accordi internazionali, seppure il tentativo di

stringerle sia in atto, finiscono per prediligere misure di mera prevenzione della pirateria, lasciando ancora alto l’indice di impunità dei cosiddetti pirati. Le misure di prevenzione sono state rese realtà grazie al superamento dei limiti giuridici legati alla possibilità di operare nelle acque territoriali della Somalia tramite la Risoluzione 1816 (e successive) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che estende la legge contro la pirateria alle acque territoriali della Somalia. Tale legge, può essere invocata solo dai paesi che hanno accordi di cooperazione con il governo federale di transizione somalo (Canada, Stati Uniti, Danimarca, Francia, Federazione russa e Spagna) e per una durata di tempo limitata. Poi ci sono stati gli accordi cosidetti di shipriders che prevedevano di imbarcare elementi della polizia o della guardia costiera di un paese della regione che avesse nel proprio ordinamento una legge antipirateria, su navi militari di paesi occidentali che provvedevano al fermo della nave pirata. Mentre l’arresto dei sospetti pirati veniva realizzato dalla polizia del paese della regione applicando la legge del proprio Stato. In questo modo si sono rese possibili operazioni di pattugliamento e protezione dei navigli nelle acque territoriali somale, assicurate da forze navali internazionali (nell’area operano la marina statunitense, quella russa, quella giapponese, quella coreana, quella cinese, quella indiana)

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in coordinamento con quelle dell’Unione europea – sette paesi membri dell’Unione europea vi partecipano attivamente con mezzi, altri con personale – raccolte nell’opeSolo il Kenya razione Ataha acconsentito lanta. A livello ad arrestare regionale, le e processare i pirati iniziative previste dall’accordo di Gibuti e relativo codice di condotta prevedono una maggiore cooperazione tra i paesi per la prevenzione e la risposta agli attacchi dei pirati, attraverso la formazione di guardie costiere preparate, la creazione di un centro di sorveglianza ed allerta marittima regionale sul modello creato nello stretto 150 di Malacca che ha debellato la pirateria in Asia. Nonostante gli accordi sopramenzionati, gli ostacoli giuridici relativi, al processo ed all’eventuale incarcerazione dei sospetti pirati permangono. Spesso vi è la difficoltà di raccogliere e produrre prove da usare in fase processuale. Solo il Kenya ha acconsentito tramite accordi bilaterali con paesi occidentali e con l’Unione europea ad arrestare, processare Molti paesi ed eventualnon vogliono essere coinvolti perché i costi mente detenere sono troppo alti sospetti pirati (sette condannati nel 2010). Mentre le Seychelles, hanno firmato accordi con l’Unione europea e alcuni paesi occidentali per consentire alle forze navali straniere di fermare ed arrestare presunti pirati

nelle proprie acque territoriali. Le diplomazie, le organizzazioni regionali, ma soprattutto a livello multilaterale le Nazioni Unite, sono al lavoro per portare Tanzania, Mauritius, Oman, Gibuti sulla stessa linea di cooperazione del Kenya. La realtà è ancora diversa: anche quando vengono colti in flagrante, molti pirati non vengono trattenuti. La volontà politica di molte nazioni è ancora orientata verso il non coinvolgimento nella fase di giudizio: troppo complicato, troppo costoso ed inoltre c’è il forte timore che, anche se condannati, molti pirati possano appellarsi al sacrosanto diritto di asilo. Naufragati anche i tentativi di avviare procedimenti negli Stati di bandiera del vascello che ha proceduto all’arresto. I dati parlano chiaro: le misure di prevenzione qualche risultato


PIRATERIA Piero Bonadeo

lo hanno sortito. Nonostante l’aumento del numero di attacchi passati da 111 nel 2008 a 217 nel 2009, la percentuale di navi sequestrate è calata. Solo un attacco su 20 va a segno – la ratio era 1 a 3 nel 2008 – totalizzando 42 navi sequestrate nel 2009. Come risposta i pirati, messi alle strette nelle acque territoriali somale, hanno allargato la zona delle operazioni all’Oceano Indiano arrivando anche a 1300 chilometri dalla costa somala ed anticipando il bisogno di una controrisposta basata sulla cooperazione regionale che, seppur prevista, ancora manca. Secondo alcune stime che si basano sui pagamenti fatti alla luce del sole, il business della pirateria – riscatti tra 1 e 3 milioni di dollari a sequestro – porta nelle casse delle organizzazioni criminali più di 100 milioni di dollari all’anno

(30 volte il bilancio annuale dello Stato–regione del Puntland dove i pirati prendono il mare ed ancorano le navi sequestrate in attesa del riscatto). Altre stime riportano cifre ben più alte, fino ai 600 milioni di dollari La pirateria porta statunitensi nelle casse dei criminali l’anno (2008). oltre 100 milioni Sulle coste sodi dollari all’anno male, accanto alla dignitosa povertà dei pescatori, sfilano piccole colonne di Suv, spuntano parabole satellitari. I soldi per pagare gli equipaggi passano di mano in mano o sono distribuiti con il meccanismo “hawala”, che consente di trasferire denaro – senza spostarlo – attraverso una rete di 151 intermediari, normalmente membri della stessa famiglia, fuori da ogni circuito bancario o finanziario legale. Ma il resto dei proventi, le cifre grosse, vengono trattate da intermediari fuori dalla Somalia, basati, cioè, in paesi non molto lontani che negoziano anche il valore del riscatto e le condizioni del rilascio. Interessante notare come il mercato immobiliare di alcuni paesi limitrofi sia improvvisamente cresciuto negli scorsi anFino a quando ni. La comunità i sequestri internazionale “pagheranno” sarà dovrebbe anche seguire le trac- facile reclutare i giovani ce di questo denaro, provvedere a sequestrarlo. Perché fino a quando i sequestri “pagheranno”, ci sarà un incentivo per giovani disperati e sarà facile il loro reclutamento. Intanto si conoscono i luoghi


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della pirateria, città come Haadheere, ma i governi occidentali – e non solo – non intervengono per il timore che i loro attacchi rinforzino la milizia islamista Shabab che controlla il centrosud della Somalia ed i suoi legami con Al Qaeda. Inoltre c’è chi calcola il potenziale valore antiShabab giocato dai pirati. E poi c’è la corruzione – Transparency International segnala la Somalia come il paese più corrotto al mondo – a tutti i livelli. Si calcola che un membro di un equipaggio pirata riceva almeno 20mila dollari come compenso annuale. Tanto da consentirgli di comprare l’impunità. Il maggior vantaggio per i pirati, rimane l’assoluta debolezza delle istituzioni somale. In questo contesto sono necessarie misure di lungo periodo volte a creare un solido Stato somalo capace di creare sviluppo economico, sociale e garantire sicurezza. La comunità internazionale si è movimentata mettendo a disposizione della Somalia, tramite le Nazioni Unite, circa 250 milioni di dollari. Serviranno a mettere in moto ambiziosi progetti per creare e sostenere lo Stato somalo in tutto il suo funzionamento, formarne la polizia, formare giudici, aprire e rinforzare carceri, creare una guardia costiera, avviare progetti di sviluppo economico delle zone costiere creando un mercato per la pesca ed incentivando l’educazione. Ma la strada è lunga ed è minata dal continuo stato di guerriglia in cui versa il paese a cui cerca di rimediare una mis-

sione di peacekeeping composta in maggioranza da truppe ugandesi in rappresentanza dell’Unione africana. E le grandi società marittime, gli armatori? Pagano. Conviene ancora affrontare l’aumento dei premi di assicurazione piuttosto che pagare i costi aggiuntivi per passare al largo del Capo di Buona Speranza. Secondo l’Ufficio marittimo internazionale di Londra sono 22mila le navi transitate nelle acque infestate dai pirati nel 2009. Molti armatori si sono organizzati: chi può permetterselo ingaggia ed imbarca contractor di società di sicurezza privata, altri formano convogli che navigano di notte a tutta forza. Occorre quindi lasciare soluzioni di breve periodo, seppur necessarie, per impegnarsi nella costruzione di un forte e sano Stato somalo. Sviluppo, governance e sicurezza qui, vanno di pari passo e non possono essere disgiunte in approcci separati. Le Nazioni Unite devono trovare maggior coordinamento tra le tre realtà con cui operano in Somalia: la parte politica, quella di sviluppo e quella di peacekeeping. Questa è la vera sfida della Somalia, delle Nazioni Unite e della comunità internazionale.

L’Autore piero bonadeo Rappresentante dell’Ufficio delle Nazioni Unite sulla droga e il crimine presso l’Unione europea.


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La linea rossa che squarcia l’area subsahariana Dal Darfur allo Zimbabwe, passando per la regione dei Grandi Laghi, la spina dorsale del continente nero è percorsa da guerre pluridecennali, crisi umanitarie e governi autoritari DI DOMENICO NASO


SUDAN, GRANDI LAGHI E ZIMBABWE Domenico Naso

abitata da animisti e da una radicata minoranza cristiana, ovviamente non ha mai riconosciuto l’imposizione della maggioranza musulmana, dando vita a una cinquantennale guerra di liberazione che avrebbe dovuto condurre il Sudan del sud verso l’indipendenza da Khartoum. In prima fila, ieri come oggi, l’Splm, il Movimento di liberazione del Sudan. Nel 1989, con il colpo di Stato di Omar al-Bashir, se possibile la situazione divenne ancora più difficile. All’Splm, infatti, si unirono anche le opposizioni nord-sudanesi, creando un corto SUDAN La guerra del Darfur circuito militare, Il Sudan, da qualetnico e religioso che anno, è il pro- risale agli scontri che ancora oggi ritagonista incon- fra le popolazioni schia di non trovatrastato delle crore soluzione. Il nache internazio- nomadi arabe e quelle mondo si accorse nali dall’Africa. stanziali africane della vicenda con Giornalisti di ogni nazionalità hanno raccontato il molto ritardo, come sempre accagenocidio peggiore dai tempi di de. E solo la risonanza mediatica quelli bosniaco e ruandese, peral- della crisi del Darfur (regione octro contemporanei e ugualmente cidentale al confine con il Ciad), raccapriccianti. Eppure in Sudan dal 2004 in poi, è riuscita a porla pace non l’hanno mai cono- re l’attenzione della comunità insciuta da quando, nel 1955, ven- ternazionale sulla situazione sune proclamata l’indipendenza danese. Quella che Kofi Annan dall’Impero britannico. Trenta- ha definito “la più grande tragequattro lunghi anni di conflitti dia umanitaria esistente”, infatti, interni e carestie, di giunte mili- ha origini remote e risale agli tari ed eserciti ribelli, intervallati scontri fra le popolazioni nomada accordi di pace frequenti di arabe e le popolazioni stanziali quanto inutili. Il problema era africane per le risorse vitali come ed è di semplice comprensione: il terra e acqua. Una guerra tra poSudan del nord, musulmano, ha veri, dunque, per l’approvvigiodi fatto creato fin dalla nascita namento di risorse che a noi una nazione fortemente islamica, sembrano essenziali e per quelle anche e soprattutto nelle leggi. popolazioni rappresentano quasi La parte meridionale del paese, un miraggio. Ci sono molte delle C’è una linea rossa, nemmeno troppo sottile, che percorre verticalmente quasi tutto il continente, una linea di sangue e dispute pluridecennali che ha bloccato lo sviluppo africano in zone potenzialmente ricchissime, vere e propri forzieri a cielo aperto di un’Africa che potrebbe volare alto e invece è sempre lì, china su se stessa, in balia di guerre etniche, governi autoritari e dispute di confine. Parte dal martoriato Sudan, questa linea, attraversa la zona dei Grandi Laghi e si conclude in Zimbabwe.

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IL PERSONAGGIO

Miriam Makeba, il simbolo dell’Africa libera

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È morta come è vissuta: sul palco e lottando contro ingiustizie e soprusi. Quando, il 9 novembre 2008, Miriam Makeba è stata stroncata da un infarto dopo essersi esibita a Castel Volturno contro la camorra e a favore di Roberto Saviano, il commento più sentito è stato questo. Perché Miriam Makeba, classe 1932, ha sempre incarnato il simbolo dell’Africa coraggiosa e ribelle, oltre che incredibilmente talentuosa. Una vita spesa a combattere il regime dell’apartheid in Sudafrica. Un impegno che viene da lontano, già dal 1960, quando la Makeba partecipò al documentario anti-apartheid Come back, Africa, presentato a Venezia, e che diede l’opportunità alla cantante di rimanere in Europa e non tornare nel suo paese. È da quel momento che inizia la fama mondiale, che arrivano i Grammy è un impegno politico sempre più convinto e costante. Nel 1963 viene ascoltata dalla commissione anti-apartheid delle Nazioni Unite e il regime di Johannesburg risponde con l’unica arma che ha: la censura e l’anatema. Vengono banditi tutti i suoi dischi, come nella peggiore tradizione dei regimi autoritari, e la cantante viene condannata all’esislio. Poi l’importante ruolo di delegata alle Nazioni Unite per conto della Guinea, le tournée mondiali che toccavano ogni angolo del globo. Il fenomeno Makeba era ormai globale. Tutto il mondo la venerava tranne, scherzi del destino, il suo Sudafrica, sebbene a Soweto le sue canzoni erano inni di libertà e ribellione da cantare a squarciagola. Quando il regime segregazionista crolla sotto i colpi del riformismo illuminato di Frederik De Klerk e con la spinta decisiva dell’eroe nazionale Nelson Mandela, la Makeba torna in patria, convinta proprio

dal nuovo presidente. Gli ultimi anni della sua vita sono stati costellati da premi, riconoscimenti internazionali, altre tournée da tutto esaurito. E finalmente nella vita di Miriam Makeba non mancava nessun tassello, non si sentiva più esule, poteva finalmnete assistere alla rinascita, pur difficile e piena di ostacoli, della sua nazione. E quella sera di novembre, quando nella difficile provincia dell’Italia meridionale si cantava contro la camorra, Miriam Makeba c’era, perché non si era domenticata di quanto sia importante lottare per cambiare il mondo. O almeno provarci. È morta lì, enon poteva essere altrimenti.


SUDAN, GRANDI LAGHI E ZIMBABWE Domenico Naso

contraddizioni africane nella a vivere uniti, con presupposti guerra in Darfur, a cominciare decisamente diversi dal passato, dallo scontro millenario tra le o se separarsi definitivamente, due anime principali del conti- chiudendo una pagina sanguinonente: quella araba e quella più sa che, come spesso accade, è avspiccatamente africana. Razzismo venuta nel silenzio a volte colpetra disperati, con gli arabi filogo- vole del mondo cosiddetto civivernativi (i terribili Janjawid, lizzato. La posizione italiana sulletteralmente “demoni a caval- la guerra civile sudanese è chiara: lo”) che hanno massacrato mi- pieno appoggio al negoziatore gliaia di Fur, l’etnia prevalente congiunto Bassolé e fiducia nelnella regione. Una guerra polve- l’intervento diplomatico di imrosa e affamata che ha causato portanti attori globali (Usa) e re400mila vittime e una situazione gionali (Libia e Qatar). Con un di indigenza alimentare che forse occhio attento rivolto anche alle non ha eguali nella storia recente implicazioni del terrorismo islamico nel regime del mondo. Negli di Bashir. ultimi anni qual- Entro il 2011 il Sudan cosa si è mosso, alRUANDA cuni movimenti dovrà decidere ribelli hanno de- se separarsi E GRANDI LAGHI posto le armi e la C’ha pensato il situazione bellica definitivamente film Hotel Rwanè decisamente mi- o restare unito da, pochi anni fa, gliorata. Non è a ricordarci l’orroper niente finita, però, l’emer- re che quindici anni fa ha inongenza umanitaria. Ancora centi- dato i teleschermi di tutto il naia di migliaia di persone non mondo. La furia degli Hutu conhanno di che sfamarsi, mentre al- tro i Tutsi (almeno 800mila le Bashir, presidente del Sudan e vittime in soli sei mesi di massaaccusato di genocidio dalla Corte cri nel 1994) ha fatto il paio, penale internazionale, ha da poco all’epoca, con il martirio dei bofesteggiato i vent’anni di domi- sniaci e di Sarajevo. Poi tutto si nio incontrastato. risolse, almeno formalmente, e Per quanto riguarda lo status del- dal 1997 cominciarono i procesla parte meridionale del paese, si, la rabbiosa caccia al genocida invece, le prime elezioni libere di e i regolamenti di conti. Una aprile 2010 e il successivo refe- reazione che avrebbe potuto prorendum per l’autodeterminazio- vocare danni di ben altra portata, ne fissato per il 2011 dovrebbero se i Tutsi avessero scelto la strada trovare una via d’uscita. Il Com- di una vendetta cieca e umanaprehensive peace agreement del 2005 mente quasi comprensibile. Inscade il primo gennaio 2011. Da vece nel 2002 il nuovo Ruanda quel momento in poi i sudanesi ha firmato un accordo di pace dovranno decidere se continuare con la Repubblica democratica

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del Congo, paese entro i cui confini continuano ad operare frange di Hutu ribelli che non hanno smesso di combattere contro il governo legittimo di Kigali, installatosi dopo il genocidio. La volontà di smobilitare le truppe ribelli presenti nel territorio dell’ex Zaire pare sempre più solida. Pochi mesi fa si sono incontrati a Goma i presidenti di Repubblica democratica del Congo e Ruanda, dopo ben undici anni dalla rottura ufficiale dei rapporti diplomatici. Ma il problema, anche nell’area dei Grandi Laghi, è soprattutto economico. Si tratta di una delle zone africane più ricche di risorse naturali, che se coscientemente e pacificamente sfruttate rappresenterebbero un volano di incredibile rilevanza per l’intero continente. Proprio contro l’utilizzo illegale di queste risorse si sta muovendo con decisione la comunità internazionale, conscia che solo in questo modo si potrà mettere fine a uno stato di perenne tensione tra i paesi dell’area. Solo Kenya e Tanzania, economicamente e istituzionalmente più solide, sembrano aver sofferto poco di questo quindicennio di instabilità. Il resto della zona attende di poter ripartire, mentre gli orribili stupri etnici continuano e gli eserciti di Repubblica democratica del Congo e Uganda hanno iniziato una campagna congiunta contro le milizie ribelli Hutu. ZIMBABWE Uno dei paesi africani che più preoccupano la comunità inter-

nazionale è senza dubbio lo Zimbabwe di Robert Mugabe, padre padrone di una nazione storicamente difficile e protagonista di una delle pagine più nere della presenza bianca in Africa. Un vero e proprio regime di apartheid, simile in tutto e per tutto al “modello” sudafricano, venne infatti instaurato nel 1965, quando la minoranza anglosassone dichiarò l’indipendenza da Londra di quella che allora era chiamata Rhodesia. Più di dieci anni di segregazionismo spinto, dunque, per uno Stato che non venne mai riconosciuto dalla comunità internazionale (ad eccezione di Portogallo e ovviamente Sudafrica) e che ciononostante era riuscito a raggiungere standard economici così alti da essere definito la “Svizzera d’Africa”. Ma la popolazione di etnia shona aveva iniziato una vera e propria guerra civile a partire dalla fine degli anni Sessanta, fino a quando, nel 1980, dopo gli accordi di pace stimolati da un proficuo intervento diplomatico inglese, le prime elezioni libere portarono al governo i neri e la nuova nazione, lo Zimbabwe, venne riconosciuta a livello internazionale. È in quell’anno che inizia l’era Mugabe, con un rovescio della medaglia che si dimostrerà nefasto quanto il periodo di apartheid voluto dai bianchi. Il nuovo governo Mugabe era di stampo marxista-leninista e si impegnò soprattutto in una guerra senza quartiere (e senza motivi, ci sarebbe da aggiungere) ai neri di etnica ndebele. Il conflitto civile


SUDAN, GRANDI LAGHI E ZIMBABWE Domenico Naso

del 1983, con migliaia di vittime, ha segnato la vittoria di Mugabe e l’accentramento totale e totalitario del potere nelle sue mani. Oggi esiste una opposizione organizzata e unita sotto le insegne del Movement for democratic change. Morgan Tsvangirai, leader della coalizione che si oppone a Mugabe, è stato battuto alle ultime elezioni del 2008, provocando una serie di violenze dovute ai consueti brogli utilizzati dal presidente per assicurarsi la vittoria elettorale. Grazie anche a una notevole risonanza mediatica internazionale, Mugabe si è visto successivamente costretto a scendere a patti con il rivale, promettendo di ripristinare la carica di capo del governo e di affidarla proprio a Tsvangirai. L’accordo di power sharing ha visto la sua realizzazione concreta nel febbraio 2009 e il nuovo primo ministro si è speso, nell’ultimo anno, in un difficile cammino di riconciliazione con i paesi occidentali (Usa e Unione europea in primis). Compito piuttosto difficile, vista la vicinanza ormai tradizionale tra Mugabe e la Cina, interessata alle materie prime del paese africano e quindi supporter convinto del presidentedittatore. Restano molte questioni aperte tra Mugabe e l’opposizione, prima fra tutte la gestione congiunta delle Forze armate, richiesta principale del Mdc e mai accolta dal presidente. E continuano anche i soprusi e le violenze nei confronti della minoranza bianca, ormai quasi completamente privata con la forza dei

terreni agricoli che possedeva. La situazione non pare poter avere uno sbocco completamente democratico nel breve periodo, ragione per la quale l’Unione europea si appresta a rinnovare le sanzioni economiche a danno dello Zimbabwe approvate per la prima volta nel 2002.

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L’Autore domenico naso Giornalista, si occupa di cinema, televisione e cultura pop. Ha lavorato per la rivista Ideazione. Collabora con il Secolo d’Italia e Gazzetta del Sud. Cura la rubrica di critica televisiva Television Republic per Ffwebmagazine.


Tra petrolio e colpi di Stato

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alla grande Nigeria agli Stati del Sahel, questa zona dell’Africa vive da sempre tra sommovimenti, ribellioni e guerre per la conquista dell’oro nero. DI PIETRO URSO

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Dal deserto del Sahel ha fisicamente inzio la cosiddetta Africa subsahariana. Il territorio del Sahel, infatti, taglia l’Africa in due parti e si estende dall’Oceano Atlantico fino al Corno d’Africa, passando dagli Stati dell’Africa centrosettentrionale quali: Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad, Sudan. E in questa impervia zona che Al Qaeda, negli ultimi anni, si sta ramificando con lo scopo di unire in una sola linea immaginaria l’Afghanistan al golfo di Guinea, dove ci sono paesi che convivono quotidianamente con i colpi di Stato e quindi sono facile preda delle organizzazioni criminali. Dall’Asia islamica all’Africa. Senza dimenticare che alcuni Stati del Sahel confinano con la ricca Nigeria, il più grande Stato africano per popolazione e per risorse energetiche come il petrolio, ma è anche il paese dell’interminabile conflitto tra religione cristiana e religione mussulmana.

NIGERIA La Nigeria divenne una repubblica nel 1963 con una costituzione i cui fondamenti si basavano su quella britannica, garantendo, almeno sulla carta, eguali diritti anche ai gruppi etnici minori. Nonostante l’indipendenza, le divisioni tribali e la pesante eredità coloniale fecero piombare la nascente democrazia in un continuo di colpi di Stato, rivolte locali e devastanti carestie. Il primo rivolgimento politico si ebbe il 15 gennaio 1966, quando un gruppo di ufficiali Ibo uccise il primo ministro, Abubakar Tafawa Balewa. Capo della nazione divenne Aguiyi-Ironsi, spodestato dopo solo sei mesi dal generale maggiore Yakubu Gowon. Durante il regime di Gowon vennero massacrati centinaia di migliaia di Ibo che, in risposta, si organizzarono in gruppi paramilitari. Un anno dopo, il 6 luglio 1967, infatti, la regione Ibo del Biafra si proclamò repubblica


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indipendente, facendo precipitare il paese nell’ennesima guerra civile, durata fino al 13 gennaio 1970. Gli anni di guerriglia tra l’esercito nigeriano e i secessionisti portarono il paese alla rovina, causando epidemie e carestie nelle quali morirono circa 3 milioni di persone. Nonostante la fine del conflitto in Biafra, la pace e la stabilità politica non durano a lungo, anzi, dal 1975 si susseguirono altri due colpi di Stato, interrotti da un breve spiraglio di democrazia con le elezioni del 1979, e poi di nuovo, nel 1983 un ennesimo colpo di Stato, nel quale salì al potere il generale Sani Abacha. Gli anni di Abacha furono durissimi. Tanto che nel 1995 la Nigeria fu espulsa dal Commonwealth, a causa della condanna a morte inflitta al famoso commediografo Ken Saro-Wiwa, colpevole di aver denunciato la corruzione dell’industria petrolifera. Solo alla morte di Abacha, nel

1998, il paese poté riprendere il faticoso cammino verso la democrazia. Un anno dopo, furono indette le elezioni vinte da Olusegun Obasanjo, ex capo militare Yoruba, che governò la Nigeria fino al 2007, ponendo fine a trent’anni di sanguinosi regimi militare. Le elezioni del 2007, duramente criticate dagli osservatori internazionali per sospetto di brogli, sono state vinte da Umaru Yar’Adua, attuale presidente nigeriano. Yar’Adua è il leader del Partito democratico del popolo, con tre quarti dei seggi sia nel governo centrale che nelle amministrazioni federali. Sebbene molti dei principi della costituzione nigeriana derivino da quella britannica, la strada verso la democrazia è ancora lunga. Infatti, come sottolinea il settimanale inglese Economist, il largo consenso del Pdp «in parte riflette la mancanza di distinzione ideologica fra i tre

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maggiori partiti nigeriani, i qua- L’economia nigeriana, ricca grali vennero formati nel 1998, per zie al petrolio ma dipendente da lo più per creare alleanze tra po- esso, per lungo tempo intralciata litici influenti al fine di assicu- dall’instabilità politica e dalla rarsi una posizione di potere». Il corruzione, sta ora subendo soPdp mette assieme veterani della stanziali riforme da parte della politica, che hanno ricoperto nuova amministrazione civile soruoli importanti durante la Se- stituitasi ai governi militari. I conda Repubblica (1979-83) e precedenti governanti (militari) nella fallita Terza Repubblica della Nigeria non hanno perse(1989-93), e alcuni ufficiali mi- guito la via della diversificazione dell’economia che resta, quindi, liari in pensione. Nonostante da dieci anni la Nige- dipendente dal settore petroliferia non sia più sotto un regime ro, che fornisce il 30% del Pil e militare e pare finita la tragica al- l’85% delle esportazioni. talena dei colpi di Stato, la stabi- Sull’economia nigeriana gravava un pesante debito lità è costantemente minacciata Pochi anni fa la Nigeria estero che, grazie al lavoro diplomadalla guerriglia intico, nel 2005, fu terna e dai movi- è riuscita a onorare ridotto del 60%. menti paramilita- interamente il debito Un anno dopo, atri. Nel 2000, vi fu tingendo ai profituna violenta rea- estero che ammontava ti del settore pezione all’introdu- a 30 miliardi di dollari trolifero, la Nigezione della Sharia, la legge islamica, sfociata anche ria è stata la prima nazione afriquesta volta in un bagno di san- cana a onorare interamente il gue con migliaia di vittime. In ef- debito, stimato attorno ai 30 fetti, l’apparato militare nigeriano miliardi di dollari. gode di uno status particolare. Grazie alla ricchezza del suolo, Dopo aver governato per trent’an- nonostante le altalenanti vicissini, l’esercito può essere ancora tudini politiche, la Nigeria ha considerato la maggiore forza po- sempre goduto di una certa atlitica del paese, anche se qualcosa tenzione da parte dei paesi esteri, sta cambiando. Dopo le numerose in particolar modo dagli Stati guerre intestine e i ripetuti colpi Uniti mentre negli ultimi anni di Stato (spesso culminati in cla- anche la Cina si sta avvicinando morosi insuccessi), le forze armate al governo di Abuja in cerca di stanno perdendo sempre più con- nuovi accordi commerciali. La Nigeria entrò a far parte senso, soprattutto tra i giovani. In tal senso, il governo di Ya- dell’Opec nel 1971, mantenenr’Adua sta intraprendendo la via do, anche negli anni bui delle ridelle riforme anche in materia volte militari, lo status di uno militare, cercando di diminuirne dei maggiori produttori al mondo di oro nero. Pochi riescono a la valenza politica.


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Le popolazioni che abitano il Sahel si trovano a fronteggiare le emergenze alimentari connesse all’approvvigionamento idrico della zona, molto carente a causa della perenne siccità. La principale causa dell’elevato rischio di desertificazione è la costante mancanza d’acqua, per cui la terra, completamente secca, erosa e mossa dal vento, si trasforma in sabbia, ma anche l’opera dell’uomo con le sue coltivazioni intensive ha contribuito al fenomeno. Da anni però studiosi, analisti e governi guardano con crescente preoccupazione a quanto accade in Il territorio del Sahel questa zona delSAHEL Il termine Sahel si estende dall’Atlantico l’Africa centrale, non per motivi clitrae origine dalla al Corno d’Africa e ha matici o economiparola araba, s hil, ci, ma perché è qui che indica la “riva ospitato alcuni dei più che si teme che Al del mare”, ed è avanzati regni africani Qaeda possa esserpertanto stato usato per designare regioni costiere, si infiltrata o possa ancora infilsoprattutto soprattutto nell’Afri- trarsi. Complici il deserto, territoca settentrionale e permane anco- ri vastissimi e spesso difficilmente ra oggi. Da qui ebbe origine raggiungibili, lontani dai centri l’uso, da parte delle popolazioni di potere ma confinanti con i paedell’interno, di definire sahel una si nordafricani (Marocco, Algeria, “direzione”, di solito corrispon- Egitto) che già sono stati colpiti dal terrorismo islamico, confini dente grosso modo al nord. Il territorio del Sahel consiste, estremamente porosi e rotte caroprevalentemente, in deserto e si vaniere transnazionali, potrebbe estende dall’Oceano atlantico fi- non essere difficile per le cellule no al Corno d’Africa, passando di Al Qaida trovare rifugio nelle dagli stati quali: Mauritania, regioni settentrionali di MauritaMali, Burkina Faso, Niger, Ciad, nia, Mali, Niger e Ciad. Sudan. Il Sahel, nel corso della A fare da trait d’union tra queste storia, è stata la terra in cui si so- tre regioni, c’è il Sudan, il paese no sviluppati alcuni dei più più grande dell’Africa, durante avanzati e potenti regni del con- tutti gli anni Novanta sponsor ritinente africano, indicati spesso conosciuto del terrorismo internazionale e rifugio ufficiale, fino come regni saheliani. beneficiare delle molteplici risorse naturali del paese (oltre al petrolio, sono presenti miniere di carbone e stagno), mentre il 60% dei nigeriani è ancora impiegato nel settore agricolo. Dal 2006 nella zone a maggior concentrazione di giacimenti, il Movimento per l’emancipazione del delta del Niger (Mend) ha compiuto diversi attacchi terroristici, distruggendo oleodotti e sequestrando tecnici stranieri (in particolar modo italiani). Scopo del Mend è ottenere un’equa distribuzione delle ricchezze derivate dal petrolio.

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al 1996 e al suo trasferimento in ta terroristi sono rimasti sul terAfghanistan, di Osama bin La- reno. Tra questi, cittadini di Alden. Più recente è invece la paura geria, Mali, Niger e Nigeria, a che Al Qaeda sia penetrata anche conferma della potenziale dimennel Sahel. È stato dopo l’11 set- sione regionale del Gspc. tembre e nel quadro della guerra Al Qaeda nel Maghreb islamico è globale al terrorismo che anche di fatto l’unico gruppo che pare Mauritania, Mali, Niger e Ciad essersi effettivamente affiliato al sono diventati terreno di scontro network di bin Laden. con la rete di bin Laden. Ad alza- Sempre nel 2003 era stata avviata re la soglia di allarme sono state l’Iniziativa pan-saheliana (Psi), un soprattutto le attività dell’algeri- programma rivolto a Mauritania, no gruppo salafita per la predica- Mali, Niger e Ciad che, con un zione e il combattimento (Gspc), budget di soli 8 milioni di dollari, che alla fine del gennaio 2007 ha forniva a governi saheliani assiannunciato di aver cambiato il stenza e addestramento. Addestratori delle forze suo nome in “Al Qaida nel Ma- La Guinea Bissau, sesto speciali Usa, dipendenti dall’Eughreb islamico”. com, il Comando Pur essendo essen- paese più povero z i a l m e n t e u n al mondo, rappresenta europeo dell’esercito statunitense, gruppo nazionale, hanno affiancato le negli anni passati il tipico esempio il Gspc ha cercato di emergenza silenziosa forze di sicurezza dei paesi interessadi estendere il proprio raggio d’azione nei paesi che ti, partecipando anche a operazioconfinano a sud con l’Algeria, in ni dirette essenzialmente contro il primis Mauritania e Mali. Le atti- Gspc. Visto il successo del provità del Gspc nel Sahara e nella gramma, nel 2005 la Psi è stata regione saheliana si sono intensifi- trasformata in Iniziativa antiterroristica transahariana (Tscti), con cate dal 2003 in poi. Particolarmente degno di nota e un finanziamento di 500 milioni di copertura mediatica è stato il di dollari su cinque anni e l’inclurapimento, a inizio 2003, di 32 sione di Algeria e Senegal e, come turisti europei, in larga parte te- osservatori, di Tunisia, Marocco e deschi, spariti nel sud dell’Alge- Nigeria. L’attenzione sempre ria e ricomparsi dopo mesi e il maggiore che gli Stati Uniti prepagamento di un riscatto da sei stano all’Africa come possibile milioni di dollari. Qualche mese terreno di prossimo scontro con il dopo il rilascio dei turisti, un terrorismo internazionale islamico gruppo di membri del Gspc ha è confermata anche dalla decisioavuto uno scontro a fuoco entro i ne di Bush, ribadita a inizio febconfini del Ciad con truppe nige- braio 2007, di creare un comando riane e ciadiane sostenute dalle africano che abbia la responsabiliforze speciali Usa. Più di quaran- tà per tutto il continente.


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GUINEA BISSAU La Guinea Bissau rappresenta il tipico esempio di “emergenza silenziosa”. È il sesto paese più povero del mondo, l’88% della popolazione vive con meno di 1 dollaro al giorno, la mortalità infantile è intorno al 203 per mille, la mortalità da parto è altissima. Alta è anche la diffusione di malattie contagiose come diarrea batterica e protozoica, epatite, febbre tifoide, malaria, febbre gialla ed Aids. La qualità dell’istruzione è scarsa e poco accessibile alle bambine. Situata nell’Africa occidentale tra Senegal e Guinea, con i suoi 1,5 milioni di abitanti è uno dei paesi africani meno popolosi. Nel XVIII secolo la Guinea Bissau, col regno di Gabù, era parte del grande Impero del Mali. La colonizzazione portoghese si insediò per secoli solo nelle aree costiere, e solo nel XIX secolo fu colonizzato anche l’interno del paese. Ottenuta l’indipendenza il 24 settembre 1973, al termine di

una devastante guerra durata undici anni, sotto la guida di Amilcar Cabral, fino al 1991 il paese è guidato dal Paigc, il Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde, storico promotore del processo di indipendenza. Con il Paigc al potere le tensioni non diminuiscono e gli ultimi tre decenni sono caratterizzati da una sequela di colpi di Stato, riusciti e falliti. Nel novembre del 1980, João Bernardo Vieira guida una rivolta militare che lo porta al potere per 19 anni, caratterizzati da una gestione spregiudicata dell’economia nazionale e da un elevato tasso di corruzione. Un alternarsi di governi militari e civili innesca nel 1998 una sanguinosa guerra civile che porta alla caduta del presidente Vieira. Dopo un periodo di governo militare e vari passaggi di potere, nel 2005 si sono svolte delle libere elezioni che hanno riportato al potere Vieira, elezioni contestate dai candidati sconfitti ma giudicate regolari dagli osserva-

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tori internazionali. Ma negli ultimi anni la situazione, nel piccolo Stato africano, è precipitata, infatti il 2 marzo 2009 il presidente Vieira è stato ucciso in un attentato da militari vicini al capo di Stato maggiore dell’esercito Tagmè Na Waiè, precedentemente morto in un attentato dinamitardo che i militari avevano imputato allo stesso presidente. Infine, è notizia di poche settimane fa, esattamente il primo aprile 2010, dell’ennesimo colpo di Stato nel quale è stato deposto il primo ministro Carlos Gomes Junior e ha portato all’arresto del capo di Stato maggiore dell’esercito, il generale Jose Zamora Induta, oltre a una quarantina di ufficiali a lui fedeli. In molti ritengono che dietro a questo ennesimo golpe ci sia il ricchissimo mercato della droga, infatti la Guinea Bissau negli ultimi decenni è diventato il cen-

tro dello smistamento della cocaina proveniente dal Sud America e diretta in Europa. Nei mesi precedenti al colpo di Stato, Carlos Gomes Junior si era impegnato con l’Unione europea a fermare il continuo flusso di droga dalla Colombia e dal Venezuela e diretta in Europa. In questa operazione era supportato dal generale José Zamora Induta e da diversi altri ufficiali. In poche settimane furono intercettati diversi carichi di droga mettendo a serio rischio l’approvvigionamento delle cosche e infliggendo pesantissime perdite in denaro ai cartelli colombiani e venezuelani. Carlos Gomes Junior era anche riuscito ad avere importanti aiuti economici per rilanciare la produzione e la commercializzazione degli anacardi, principale fonte di guadagno per gli abitanti delle zone rurali. Oltre a questo stava contrattando con diverse compagnie petrolifere alcune prospezioni per individuare i ricchissimi giacimenti di petrolio di cui, si dice, sia ricco il sottosuolo della Guinea Bissau. Aveva anche rilanciato l’idea di sfruttare i ricchi giacimenti di bauxite e di solfati, il tutto per rilanciare l’economia locale e svincolare il paese proprio dal giogo dei cartelli sudamericani. GUINEA La Repubblica di Guinea, detta anche Guinea-Conakry per distinguerla dalla vicina GuineaBissau, ottenne l’indipendenza dalla Francia con il referendum indetto da de Gaulle nel 1958.


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Il nuovo capo dello Stato, Ahmed Sékou Tourè, mise immediatamente fine al pluralismo politico, alle libertà civili e al rispetto per i diritti umani. Alla morte di Tourè nel 1984 un colpo di Stato militare portò al potere Lansana Contè, che per i successivi venticinque anni governò la Guinea-Conakry con lo stesso stile dittatoriale del suo predecessore. Gli oltre cinquant’anni di governo autoritario non hanno certo aiutato la popolazione guineana a sollevarsi dalla povertà. Nonostante le vaste risorse mineraie – la Guinea è il maggior esportatore di bauxite al mondo – e l’enorme potenziale idroelettrico i guineiani sono estremamente poveri: quasi nove persone su dieci vivono con meno di due dollari al giorno, oltre il 70% della popolazione è analfabeta e solo il 18% ha accesso a strutture sanitarie adeguate. E purtroppo il futuro è molto incerto. Due anni fa la storia si è ripetuta: a poche ore dalla morte del presidente Contè i militari hanno attuato un altro golpe, ponendo a capo dello Stato il capitano Moussa Dadis Camara. La speranza che Camara guidasse un governo meno violento del precedente si è infranta a settembre del 2009, quando nella capitale Conakry una manifestazione dell’opposizione è stata soffocata nel sangue: la notizia delle circa 110 donne violentate e degli oltre 150 uomini uccisi dalla polizia e dai soldati ha fatto il giro del mondo, provocando l’imme-

diata reazione della comunità internazionale. Camara stesso è stato vittima di un attentato lo scorso 3 dicembre, che lo ha costretto a lasciare il paese e a recarsi in Marocco per un mese di convalescenza. Attualmente si trova in Burkina Faso, dove ha preso parte ai negoziati con l’opposizione sul futuro della Guinea: il piano ha portato a nominare un governo di transizione di trentaquattro elementi. I nuovi membri sono stati scelti tra dirigenti civili e militari dal veterano dell’opposizione e nuovo primo ministro ad interim Jean Marie Dore. Il Dore, nominato dal generale in carica Sékouba Konate nel gennaio 2010, ha il compito di organizzare le elezioni presidenziali entro luglio. La prossima tornata elettorale sarà quindi la prima democratica nel paese dopo decenni di travaglio politico e governo dei militari. Al termine di questo periodo di transizione si cercherà di riformare le forze armate e spingere la nazione alla ripresa economica.

L’Autore pietro urso Redattore di Charta minuta. È esperto di comunicazione e storia del giornalismo italiano ed europeo.

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Quando l’Africa FUNZIONA Nonostante grandi sacche di arretratezza e povertà , una parte del continente sta riuscendo, attraverso riforme mirate ed efficaci, a raggiungere standard socioeconomici che fanno ben sperare per il futuro. DI DANIELE CRISTALLINI

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“Africa works” – l’Africa lavora – ma macroeconomica. Erano gli era lo slogan di una campagna di anni della nuova “corsa all’Africomunicazione lanciata dal grup- ca”; quelli in cui l’equazione po italiano Benetton per sostene- classica Africa=marginalizzaziore un progetto di microcredito ne+dipendenza veniva sostituita promosso dal cantante senegalese da quella, di miglior auspicio, Youssou N’Dour. Era l’inizio del Africa=crescita, che sembrava 2008 e l’Africa subsahariana vi- tracciare una parabola ascendente veva da oltre un decennio la sua che avrebbe finalmente portato il fase migliore dall’epoca della co- continente fuori dal quadrante siddetta “decolonizzazione”. Gli del sottosviluppo, facendolo ingredienti: una crescita media emergere nel gruppo dei players del 5,5% l’anno (dietro cui si na- che contano, quelli che decidono scondevano alcuni casi di crescita la governance mondiale. a due cifre, come l’Angola), un Erano, insomma, gli anni prececostante afflusso di investimenti denti alla crisi economica globale. Prima che la bomdiretti esteri e una generale stabilizza- Prima della crisi globale ba a orologeria dei mutui subprime zione politica, deflagrasse in Ocorientata in senso l’Africa aveva vissuto cidente investendemocratico. un boom economico do con la sua onda Erano gli anni, è d’urto tutte le vero, in cui il mon- trainato dal prezzo economie del piado – o almeno delle materie prime neta. Prima, cioè, quella parte di mondo cui interessava qualcosa – che un ennesimo virus – quello assisteva sgomento allo scoppio finanziario – dilagasse, contadi una guerra da cinque milioni giando anche il continente nero. di vittime proprio nella “demo- Un virus inoculato nel sistema cratica” Repubblica del Congo circolatorio dell’economia africa(Kinshasa), alla devastazione – na attraverso almeno quattro vetpresto degenerata in catastrofe tori: innanzitutto l’improvvisa umanitaria – dei signori della flessione dei flussi di capitali priguerra e delle corti islamiche in vati, che nel 2007 per la prima Somalia, alla tremenda crisi del volta erano riusciti a superare gli Darfur in Sudan, alla tragedia aiuti allo sviluppo (Aps); in sedello Zimbabwe di Mugabe, per condo luogo la drammatica riducitare solo alcuni dei maggiori fo- zione degli stessi Aps, soprattutto sul canale bilaterale; in terzo colai di tensione nel continente. Ma erano anche – anzi soprattut- luogo la drastica diminuzione to – gli anni del grande boom delle rimesse degli emigranti; inafricano, trainato dall’aumento fine – elemento forse più grave del prezzo delle materie prime e di tutti – il crollo dei prezzi deldagli investimenti esteri, oltre le materie prime indotto dalla che da efficaci politiche di rifor- recessione globale.

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IL LIBRO

La resistenza dei vinti

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Le classi dirigenti dell’Africa subsahariana postcoloniale hanno tenacemente perseguito la modernizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento. Il programma comune, al di là delle differenze tra i regimi politici, è stato quello di spazzare via l’economia di sussistenza e di far passare rapidamente contadini e pastori all’economia di mercato o pianificata. La cooperazione internazionale allo sviluppo ha alimentato, finanziato e sostenuto questa visione con progetti costosi e a volte inutili, che hanno contribuito alla disgregazione degli equilibri delle società tradizionali e al mantenimento di una classe politica e burocratica parassitaria. Il mondo agricolo-pastorale è stato quindi oggetto di un nuovo sfruttamento, al quale ha cercato di resistere come ha potuto, per poi rassegnarsi all’emigrazione all’estero o nelle città africane. Sivini ripercorre i processi storici precedenti il colonialismo collegati al bisogno di modernizzazione implicito nel rapporto di sfruttamento instaurato dal colonialismo e diventato, dopo l’indipendenza, funzionale alla rendita dei ceti urbani. Affronta il problema del rapporto tra sviluppo e sottosviluppo e quello della cooperazione allo sviluppo, delle sue carenze e delle malefatte che ha prodotto. Il libro è costruito come un grande viaggio sulle rotte di Senegal, Mali, Burkina Faso, Etiopia, Tanzania e Angola. Giordano Sivini, La resistenza dei vinti. Percorsi nell’Africa contadina, Feltrinelli (2008)

Questo elenco di fattori esogeni della crisi ha prodotto nel continente risultati diversi, a seconda dei modi in cui si è combinato con le debolezze strutturali che ciascuno Stato africano continuava a scontare, nonostante la generale ripresa degli ultimi anni. Una miscela talvolta esplosiva che ha ridisegnato, almeno in parte, la mappa geoeconomica dell’Africa. Ad avvertire per primi i contraccolpi della crisi nel breve periodo sono stati i paesi esportatori di petrolio, insieme a quelli a medio reddito, come il Sudafrica, e quelli maggiormente integrati nel mercato finanziario globale, come il Ghana, il Kenya e la Nigeria. Tuttavia la ripresa africana è iniziata più in fretta di quanto non fosse avvenuto in passato. Forti delle riforme macroeconomiche degli ultimi anni, i governi hanno potuto implementare politiche fiscali e monetarie anticicliche senza rischiare di far schizzare alle stelle l’inflazione. La mappa geoeconomica dell’Africa, dunque, è stata solo in parte ridisegnata dalla crisi, perché i paesi che oggi reagiscono meglio sono spesso gli stessi che ieri avevano saputo investire nei processi di riforma, con l’obiettivo di garantire la libertà dei mercati in un clima di stabilità politica. Prendiamo Mauritius ad esempio, dove è possibile registrare una società in soli tre giorni e avviare un’attività con meno di 10mila dollari. Il paese si colloca oggi al dodicesimo posto nell’indice di libertà economica1,


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e dopo la crisi ha varato un pac- nuta dei settori del turismo e chetto di stimoli fiscali che com- dell’agricoltura. prendono la sospensione tempo- Proseguendo verso sud lungo lo ranea della tassazione in alcuni stesso meridiano, tra i paesi che settori strategici, come il turi- godono di buona salute va certasmo e il tessile, e una formula di mente incluso il Mozambico che, sussidi alle imprese che integra i grazie ad una pesante iniezione prestiti delle banche con finan- di capitali – perlopiù sotto forma ziamenti pubblici. Nell’Indice di di investimenti diretti esteri nei Heritage, davanti all’Italia settori del carbone e delle costru(74esimo posto) si trovano anche zioni – e ad un’ottima performance altri tre paesi dell’Africa subsa- agricola, continuerà a crescere hariana: Botswana (28esimo), del 6% nel 2010. Madagascar (69esimo) e Sudafri- Nella mappa dell’“Africa che funziona”, troviamo infine quei ca (72esimo). Africa works, dunque: “l’Africa la- paesi che negli anni del boom economico avevano vora”. Ma anche iniziato a investire “l’Africa funziona”, Molti paesi che hanno nelle infrastruttunonostante la recesre – vero nodo sione mondiale. investito sulle riforme centrale per lo sviPer certi versi, an- e sulle infrastrutture luppo del contizi, la crisi sembra nente –, e ad avoperare come un non risentono viare quei processi catalizzatore dello della crisi economica di diversificazione sviluppo. Se non altro perché costituisce per alcuni che oggi gli consentono di digoverni lo stimolo a proseguire pendere un po’ di meno dai prezsulla strada delle riforme interne e zi delle materie prime, drasticasu quella dell’integrazione regio- mente crollati nei mesi caldi delnale. Un esempio: ad aprile sarà la crisi. È questo il caso dell’Anfirmato il Protocollo di mercato gola, il cui Pil è cresciuto tra il comune per i paesi dell’East Afri- 2004 e il 2008 ad un tasso meca Community (Eac), su cui i pre- dio del 17,4%; il che significa, sidenti di Ruanda, Uganda, Bu- in termini reali, che la ricchezza rundi, Tanzania e Kenya hanno fi- del paese è raddoppiata in soli nalmente raggiunto un accordo lo cinque anni. Tutto merito delle scorso novembre ad Arusha, dopo entrate petrolifere, certo. Ma anmesi di trattative. Tra questi pae- che delle imprese cinesi, che in si, danneggiati dal calo dell’export, Angola sono sbarcate un istante ve ne sono alcuni, come il Kenya dopo la riconciliazione nazionale, e la Tanzania, che promettono di intercettando le opportunità ofmantenere una buona performance ferte dall’enorme fabbisogno indi crescita anche nel 2010 (rispet- frastrutturale di un paese che tivamente il 4 e il 5,5% secondo usciva da quasi tre decenni di il Fondo monetario) grazie alla te- guerra civile.

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I cinesi hanno in sostanza ricostruito l’Angola, almeno dal punto di vista delle infrastrutture, spesso in cambio di un accesso privilegiato alle risorse del paese. Pechino ha accordato a Luanda una linea di credito, garantita dal petrolio, di oltre 6 miliardi di dollari, utilizzata per la riabilitazione di gran parte della rete ferroviaria angolana. Con modalità simili il governo angolano ha potuto costruire o ricostruire migliaia di chilometri di strade e realizzare una rete di produzione e distribuzione di

energia elettrica, innescando una dinamica di sviluppo non priva, per la verità, di alcune singolari asimmetrie. Luanda è oggi la città più costosa al mondo per i lavoratori stranieri: un appartamento nella capitale può costare fino a 15 mila dollari al mese e un pasto sfiora i 100 dollari, mentre due terzi della popolazione locale vive ancora sotto la soglia di povertà assoluta, cioè con meno di 2 dollari al giorno. Il caso angolano è comunque un esempio eloquente di come il problema delle infrastrutture


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rappresenti la priorità numero gendo la cifra record di 59 miuno in Africa. È un fatto che i liardi di dollari. Tuttavia, a paesi con i migliori collegamenti fronte di questo aumento, l’imrealizzano migliori performance pegno della banca in Africa è economiche. Il Camerun – che è cresciuto soltanto del 45% conuno dei pochi Stati africani ad tro il 201% in America Latina e aver elaborato una visione di svi- il 124% in Europa. luppo a lungo termine con La sfida delle infrastrutture in l’obiettivo di diventare, entro il Africa ricade, quindi, quasi 2035, un paese emergente – pre- esclusivamente sulle spalle dei senta un enorme potenziale nel singoli governi. La situazione posettore del legno (non a caso trebbe rappresentare una grande l’Italia ne è il principale importa- opportunità per le imprese italiatore) e tuttavia non riesce ad ne ed europee alla ricerca di nuoesportare nel grande mercato ni- vi mercati in cui approdare per geriano che si trova appena die- salvarsi dal naufragio dopo la tempesta finanziatro l’angolo, a cauria. Ma la lentezza sa dei collegamen- In Africa la sfida dei nostri tempi ti disagiati e delle di reazione, la strade pressoché delle infrastrutture inesistenti. ricade esclusivamente scarsa propensione delle nostre imAl contrario, i voprese al rischio, lumi di commer- sulle spalle dei singoli specialmente in cio dell’Uganda governi nazionali tempi di ristretcon i paesi limitrofi sono tornati negli ultimi mesi tezze economiche come quello ai livelli di prima della crisi. E che stiamo attraversando, e la questo solo perchè il presidente poca conoscenza delle opportuniMuseveni ha una vera e propria tà e dei mercati, finiscono per fissazione per la costruzione di spingere gli Stati africani dritti tra le braccia degli investitori cistrade, autostrade e ponti. La Banca africana di sviluppo nesi, indiani e brasiliani. (Afdb) ha stimato che l’attuale Nel corso di una tavola rotonda fabbisogno d’infrastrutture del dedicata alle infrastrutture, nelcontinente africano richiedereb- l’ambito di un Forum sull’Africa be una spesa di circa 380 mi- organizzato dal governo italiano liardi di dollari per i prossimi lo scorso giugno, il ministro ghanese dell’Industria e del comdieci anni. Un impegno tanto gravoso diffi- mercio Hannah Tetteh rispondecilmente potrà prescindere dal va così alla domanda se nel suo sostegno delle istituzioni finan- paese fossero già presenti investiziarie internazionali. La Banca tori cinesi: «Sì, in Ghana ci sono mondiale nel 2009 ha incre- investitori cinesi: per prendere mentato il volume complessivo decisioni non impiegano anni ma dei prestiti del 54%, raggiun- a volte mesi o addirittura poche

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settimane. Hanno le risorse per investire nei progetti infrastrutturali. Non ci chiedono se rispettiamo i diritti umani, se stiamo combattendo la povertà o cosa stiamo facendo per affrontare questo o quel problema. Considerano l’Africa come un partner commerciale, valutando di volta in volta cosa è meglio per loro fare, valutando il loro utile sul capitale investito. Se vedono che esiste una possibilità di guadagno non si pongono troppi problemi e decidono di procedere. L’atteggiamento che negli ultimi anni l’Europa ha avuto riguardo allo sviluppo dell’Africa è, con grande rispetto, paternalistico»2. Certamente nessun paese europeo potrebbe operare in Africa restando completamente indifferente a come nel continente vengono gestiti il tema dei diritti umani e il problema della povertà. Ma è anche vero che la cooperazione allo sviluppo, che per troppi anni ha rappresentato l’unica lente attraverso cui l’Europa guardava all’Africa, spesso ha finito per incoraggiare proprio quei meccanismi perversi che cercava di scardinare. L’economista zambiana Dambisa Moyo, nel suo libro Dead Aid, denuncia gli aiuti stranieri come causa del malgoverno in Africa. Fa notare che durante la Guerra Fredda si è prestato incondizionatamente aiuto a personaggi come Mobutu nello Zaire, che accompagnò la figlia alle nozze volando su un Concorde proprio mentre i donatori occidentali acconsentivano a rinegoziare un

prestito. Troppo spesso gli Aps non hanno fatto altro che alimentare la macchina clientelare e contribuito alla permanenza al potere di leader corrotti in paesi come la Somalia e la Guinea Equatoriale. La sensazione, difficile da ignorare, è quindi che dietro le parole del ministro Tetteh si nasconda un’importante lezione di pragmatismo per l’Italia e per l’Europa. Se riuscissimo ad impararla e a farne tesoro, forse saremmo noi, non solo l’Africa, i primi a trarne qualche vantaggio. 1

Cfr. 2010 Index of Economic Freedom, una classifica stilata da Heritage Foundation e Wall Street Journal: www.heritage.org/Index/ 2 Forum “Italy & Africa Partners in Business”, Atti del convegno, dicembre 2009.

L’Autore daniele cristallini Specializzato in studi arabi e dottorando in studi sul Vicino Oriente e il Maghreb presso l’Università degli studi di Napoli L’Orientale, collabora con alcune riviste di attualità politica. Attualmente svolge l’attività di consulente esperto di Africa e Medio Oriente presso il ministero dello Sviluppo economico.


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Alla ricerca della stabilità

I difficili equilibri del Maghreb DI ANTONIO PICASSO

In questi ultimi anni il Maghreb è stato unicamente ed esclusivamente associato alla presenza del gruppo terroristico Al Qaeda per il Maghreb islamico (Aqmi), sorto nel 2007 dalla unificazione delle cellule jihadiste attive da lungo tempo in Algeria, Marocco e Tunisia. Superando questo problema, che resta comunque aper-

to, è necessario sottolineare come questi tre paesi rappresentino insieme all’Egitto i partner più importanti nelle attività di cooperazione e partnership economiche tra l’Unione europea, il Nord Africa e quindi l’intero bacino del Mediterraneo. Si tratta di una politica di obiettivi comuni che ha mosso i primi passi con il Processo di


Barcellona, il cui accordo è stato firmato nel 1995, fra gli Stati membri dell’Ue e tutti i paesi mediorientali e nordafricani, fatta eccezione per la Libia, che in quegli anni era ancora soggetta al regime di sanzioni internazionaLa stabilità politica ha li e di isolapermesso alla regione mento diploun proficuo e solido matico. L’obietdialogo con l’Europa tivo del summit di 15 anni fa era chiudere positivamente il capitolo dei fraintendimenti e degli scontri che avevano caratterizzato le relazioni intergovernative del Mediterraneo nei decenni passati. Oggi quella dichiarazione di intenti si è concretizzata in una partnership poli176 tica, economica, di sicurezza e in uno scambio culturale costante. Un passo importante è stato raggiunto il 14 luglio 2008 a Parigi, con la firma del trattato per l’Unione per il Mediterraneo, che ha visti coinvolti 43 paesi. Nella fattispecie l’Italia si presenta come uno degli interlocutori privilegiati di fronte a tutti i governi nordafricani, insieme ovviamente alla Francia e alla Spagna, grazie alla loro posizione geografica. L’assetto strategico e la stabilità istituzionale Marocco, Tunisia hanno permesso e Algeria sono agli Stati del indispensabili per Maghreb il conil commercio dell’Ue solidamento dei loro rapporti con l’Ue, la definizione di un dialogo politico amichevole e l’incremento degli scambi commerciali navali all’interno del Mediterraneo. Il caso particolare

del Marocco permette una proiezione di questi sulle rotte dell’Oceano atlantico. Algeria e Tunisia a loro volta costituiscono l’approdo dei prodotti europei sulla terraferma africana, per poi penetrare all’interno del continente. L’Algeria inoltre offre una vastità di risorse energetiche, in termini di petrolio e gas, che finora non ha trovato paragoni nel quadrante africano. Rispetto al paese maghrebino, infatti, i suoi due maggiori competitor del settore, Libia e Nigeria, non hanno ancora raggiunto uno sviluppo infrastrutturale sufficientemente avanzato. Questi elementi positivi fanno da contrasto con il mancato accordo per il controllo dei flussi migratori. A questo viene associata la difficoltà di convivenza multirazziale e multireligiosa in Europa. Sulla base di vecchi pregiudizi, le comunità algerine, marocchine e tunisine presenti nelle grandi città europee, soprattutto di Francia, Spagna e del nostro paese, non possono definirsi pienamente integrate nei singoli tessuti sociali nazionali. I casi di razzismo, violenza e sfruttamento restano troppo elevati. Spesso inoltre non si tratta di gruppi di persone che raggiungono le coste europee che siano originarie unicamente dal nord Africa in generale e dal Maghreb in particolare. Anzi, i paesi in questione, ma nel fenomeno meritano di essere inclusi Libia ed Egitto, sono divenuti l’ultima tappa di una traversata del deserto del Sahara da parte di cittadini


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provenienti da altre aree, dove le situazioni di instabilità inducono alla fuga, per esempio la Somalia. In tutti i casi, lo sfruttamento criminale dei flussi migratori ha raggiunto condizioni di vera propria disumanità. Si tratta di L’Algeria offre un punto debouna vastità di risorse le su cui tutti i energetiche che non ha governi sono nessun paese africano impegnati, ma gli accordi concreti per debellarlo e per facilitare lo sviluppo delle società locali non sono ancora stati raggiunti. Proprio in relazione alla necessità di intervenire su questo problema, si è recentemente espresso il presidente della Camera dei de177 putati, Gianfranco Fini. In occasione di una sua visita a Malta all’inizio di febbraio, Fini ha sottolineato come troppo spesso il problema dell’immigrazione clandestina venga affrontato in sede bilaterale, per esempio fra Italia e Libia oppure tra Marocco e Spagna, senza la partecipazione delle organizzazioni transnazionali, quali l’Ue e l’Unione per il Mediterraneo. Con l’inizio di marzo, l’Italia ha assunto la presidenza di turno dell’Assemblea Lo sfruttamento parlamentare criminale dei flussi euro-mediterra- migratori ha raggiunto nea. «In questa condizioni disumane sede – ha detto ancora Fini – chiederemo a tutti i paesi idee e progetti per evitare che quelle riunioni si riducano a nobili dichiarazioni di intenti a cui poi non fanno seguito i fatti concreti che sono indispensabili».


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A questo problema si aggiunge di alcune tribù tuareg che abitail “caso Aqmi”. Da una parte gli no nel cuore del Sahara. sforzi dei governi locali hanno Osservando il quadrante maghreportato a un suo contenimento. bino, è possibile ragionare sulla Dall’altra il fenomeno, nel ri- base di una metodologia “dei spetto delle modalità operative e cerchi concentrici”. Algeria, Madi intervento dei gruppi terrori- rocco e Tunisia sono tutti paesi stici affiliati ad Al Queda, si ri- africani, membri della Lega araba presenta a fasi alterne e nei mo- e abitati da una società a magmenti meno attesi. Nel 2009 il gioranza musulmana. Elementi numero di attentati nei tre paesi comuni, questi, che rappresentamaghrebini è diminuito signifi- no una potenziale concertazione cativamente. Lo stesso non si tra i governi della regione. Di può dire però dei casi di seque- fatto però gli attriti interni e i stri, le cui vittime sono spesso problemi di ogni singolo Stato tecnici stranieri impegnati nel impediscono al Maghreb il passaggio da una zona settore energetico. esclusivamente I numeri, in que- I problemi di ogni geografica a un atsto senso, appaiotore politico unino in controten- singolo Stato denza. Aqmi in- impediscono al Maghreb co, capace di confrontarsi come tale fatti risulta essere con l’Ue e in sede operativa non sol- di diventare un attore dell’Unione per il t a n t o n e l M a - politico affidabile Mediterraneo. ghreb, ma anche negli Stati del Sahel, principal- In questo senso, probabilmente il mente in Mali, Mauritania e Ni- “caso algerino” presenta le magger. Nei primi giorni di febbra- giori criticità, sia interne sia relaio, la cellula algerina dell’orga- tive ai rapporti con i suoi potennizzazione si è rivolta “ai musul- ziali partner locali. Le risorse di mani della Nigeria”, con l’evi- gas e petrolio costituiscono dente scopo di coinvolgerli un’opportunità di concreto svinell’attività jihadista in corso. luppo economico. L’Algeria è Gli schemi operativi dell’orga- membro dell’Opec e vanta parnizzazione sono stati messi alla tnership consolidate nei campi scoperto grazie alla cooperazione della ricerca, dell’estrazione e deltra tutte le forze di sicurezza e di la fornitura sia con l’Unione euintelligence dei governi che rien- ropea sia con la Russia. È inoltre trano nell’Unione per il Medi- l’ottavo paese al mondo in termiterraneo. Il traffico di droga, ar- ni di risorse di gas naturale e il mi e immigrati clandestini co- quarto nella classifica degli esporstituiscono le fonti di guadagno tatori. Nel 2009, il settore degli più rilevanti nel “bilancio” idrocarburi ha prodotto un income dell’organizzazione, che agisce nazionale pari a circa 150 miliargrazie anche alla collaborazione di di dollari. Questo costituisce


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un punto di forza per la politica Gheddafi, anch’egli da decenni al locale del governo presieduto da potere. Tuttavia se questa coinciAbdelaziz Bouteflika. L’Algeria denza di vedute è riscontrabile in si considera infatti una potenza ambito nordafricano, non si può regionale a tutti gli effetti, capace affermare lo stesso in seno alla Ledi confrontarsi sullo stesso piano ga araba. Dalla fine della guerra con l’Egitto e la Libia, suoi primi civile l’Algeria preferisce mantecompetitor nordafricani e in seno nere un atteggiamento di basso all’organizzazione degli Stati ara- profilo, rispetto al protagonismo bo-islamici. Un esempio recente che il governo del Cairo assume di questa ambizione è la pressio- nelle tante criticità che coinvolne che il governo Bouteflika ha gono paesi arabi. Per quanto riesercitato in seno all’Unione afri- guarda il processo di pace israelocana per un intervento di peacekee- palestinese, l’instabilità libanese i ping in Somalia. L’Algeria vorreb- problemi del Golfo persico, l’Albe che l’instabilità del Corno geria ha scelto di non esporsi in iniziative individ’Africa fosse risolduali, bensì di atta con le sole risor- L’Algeria si considera tenersi alle decise economiche e sioni adottate in militari continen- una potenza regionale seno all’organizzatali, escludendo capace di confrontarsi zione. quindi le Nazioni Le debolezze del Unite. Il progetto con l’Egitto e la Libia, governo di Algeri però si scontra con i suoi veri competitor coinvolgono diretla mancanza di una visione comune e di una vo- tamente il presidente Bouteflika, lontà di cooperazione tra tutti i al potere dal 1999, la cui salute malferma e la mancanza di un governi africani. Si è spesso parlato inoltre della “erede”, come c’é invece in Egitto partnership tra Algeri e Il Cairo. e in Libia, lascia aperto il discorso Questa avrebbe obiettivi pura- sulla continuità politica nel futumente tattici. I due paesi appaio- ro prossimo del paese. L’Algeria no somiglianti per evidenti ra- in questo senso non presenta angioni di establishment nazionale. Il cora una struttura democratica presidente Bouteflika, e quello consolidata. Nel rapporto del egiziano, Hosni Mubarak – ri- 2009 l’organizzazione umanitaria spettivamente 73 e 82 anni – so- Human Right Watch (Hrw) ha no due “grandi vecchi” che de- parlato di una situazione “molto tengono la leadership saldamente grave” in relazione alla libertà di nelle proprie mani. Soprattutto stampa. L’osservatorio internaziosembra che non intendano lascia- nale non nasconde i progressi acre lo scettro del potere a sistemi quisiti proprio grazie all’attuale democratici più trasparenti. Al capo di Stato. Un risultato contempo stesso si muoverebbero al- creto è riscontrabile nella lotta all’unisono per isolare la Libia di l’analfabetismo, il quale è sceso

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dal 43,6% del 1990 al 22% at- coinvolgimento degli altri gotuale. Il governo Bouteflika ha verni del Maghreb e del Sahel, presentato un piano di scolarizza- con i quali Algeri ha maturato zione per il 2010 che prevede lo spesso frizioni, e soprattutto il stanziamento di 500 milioni di dialogo con i tuareg per percepieuro. Hrw sottolinea però quanto re la loro eventuale disponibilità sia ancora lungo il percorso da fa- con le istituzioni locali, abbanre e si domanda cosa potrebbe ac- donando così l’alleanza con Aqcadere se Bouteflika fosse costret- mi. to ad abbandonare la leadership Se ne deduce che, in ambito maghrebino, il Marocco sia il solo per impedimenti fisici. Un altro motivo di preoccupa- paese dotato degli strumenti pozione emerge dal fatto che l’Al- litici sufficientemente consigeria è l’epicentro di attività di stenti per fronteggiare le ambiAqmi, che ha saputo trovare il zioni egemoniche di Algeri. sostegno di molte tribù tuareg Non è un caso che proprio fra i due governi innel sud del paese, tercorrano attriti lungo gli instabili Il Marocco è l’unico di diversa tipoloe disomogenei gia. La posizione c o n f i n i c o n l a paese dotato degli geografica del M a u r i t a n i a , i l strumenti politici per Marocco, all’imMali e il Niger. boccatura delPer contrastare il arginare le ambizioni l’Oceano atlantifenomeno, le forze egemoniche di Algeri co costituisce un di sicurezza di Algeri dispongono dell’appoggio evidente impedimento per una dell’intera comunità internazio- proiezione atlantica dell’Algenale. Alla fine di gennaio, è ria. La questione del Sahara ocgiunta da Washington la dispo- cidentale, l’ex colonia spagnola nibilità per definire una piena abitata dal popolo Saharawi che collaborazione con il paese nor- rivendica una propria indipendafricano, ma anche con Maroc- denza e per il quale vent’anni fa co e Tunisia. «Gli Usa apprezza- le Nazioni Unite indissero un no il ruolo da leader regionale referendum che mai si è svolto. che l’Algeria ha assunto in mate- Il caso appare oggi strumentaria di sicurezza e lotta al terrori- lizzato sia dal governo di Algeri smo», ha detto il comandante sia da quello di Rabat. Quest’uldelle forze aeree Usa dislocate timo non sembra voler cedere e sul continente africano, il gene- quindi paga le spese della sua rale Ronald Ladnier, sottolinean- intransigenza di fronte a tutti i do che il suo paese «è pronto a governi africani. Il Marocco inlavorare con Algeri per garantire fatti è l’unico paese del contila stabilità e affrontare queste nente che non è membro delminacce». In questo senso tutta- l’Unione africana. L’Algeria vevia manca ancora un efficace de nella popolazione Saharawi


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un motivo tattico per mantenere alta la tensione e giustificare la scarsità di dialogo con la monarchia marocchina. L’atteggiamento dell’Onu, la cui missione di peacekeeping Minurso è operativa dal 1991, induce a favorire uno staus quo precario, onde evitare la messa in discusssione dei delicati equilibri regionali. L’inoperosità politica internazionale e l’assoluta chiusura al

dialogo tra le parti non ha permesso di trovare una soluzione accettabile da tutti. A farne le spese è prima di tutto il popolo Saharawi, vittima della presenza marocchina e della strumentalizzazione algerina dall’altra parte della frontiera. Il problema tuttavia si pone di traverso affinché l’intero Maghreb possa immettersi su una strada di pieno sviluppo.


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Preso nella sua individualità, il Marocco si presenta come uno dei paesi politicamente più stabili dell’intero contesto africano. Il passaggio da Hassan II al figlio Mohammed VI, avvenuto ormai 11 anni fa, è stato portato avanti all’insegna della più chiara continuità. Anzi, sul lungo periodo si può rilevare l’innesto di un sistema di riforme volute fermamente dall’attuale sovrano, che hanno permesso al paese di vantare uno sviluppo sociale ed economico riconosciuto a livello internazionale. Durante la presentazione a Rabat del rapporto 2009 sui diritti umani in Marocco di Human Right Watch è emersa la dinamicità della società civile nazionale, che si esprime nella conquistata liberà di stampa. «La sfida che si trova di fronte il governo di Rabat – ha detto la responsabile di Hrw, Sarah Leah Whitson – riguarda la riforma della giustizia». Il settore infatti si presenta ancora eccessivamente arretrato, rispetto ai parametri degli interlocutori europei. La condizione carceraria in generale, ma soprattutto la pena di morte tuttora in vigore, non permettono ai ministri della Giustizia degli Stati membri dell’Ue di interfacciarsi con un sistema giudiziario avanzato. La stabilità politica, i buoni rapporti con l’Europa e la crescita economica sono caratteristiche proprie anche della Tunisia. Questi tre elementi fanno del piccolo paese maghrebino l’interlocutore più affidabile nella continuità delle relazioni all’interno

dell’Unione per il Mediterraneo. D’altra parte, la mancanza di un’alternativa al presidente Ben Ali, 74 anni e al potere ormai da 23 anni, costituisce una fonte di preoccupazione pari a quella relativa al futuro dell’Algeria senza Bouteflika. La Tunisia in questo senso non è ancora riuscita a esprimere una classe dirigente nazionale di stampo democratico, capace di effettuare un turn over interno, ma al tempo stesso garantire la continuità nelle relazioni diplomatiche ed economiche. Il processo di riforme avviato dal governo tunisino non è stato portato ancora a termine. Ciò significa che l’Ue deve fare affidamento su una figura carismatica com’è Ben Ali, ma al tempo stesso egli resta un leader senza erede.

L’Autore antonio picasso Giornalista di politica estera, sicurezza e risorse energetiche. Segue le vicende internazionali in presa diretta, negli “scenari caldi”. Scrive per Liberal, Avvenire, Risk e la Rivista Militare. È curatore del blog World on focus (http://worldonfocus.wordpress.com).


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Una galassia di organizzazioni

Verso l’unità africana DI BRUNO TIOZZO

In Africa si parlano oltre mille lingue diverse e i confini tra i diversi paesi sono spesso stati disegnati in modo arbitrario durante il periodo coloniale. Non c’è quindi da meravigliarsi se gli sforzi per arrivare a una maggiore unità economica e politica tra gli Stati africani hanno accompagnato la storia del continente fin dalla prima ondata di dichiarazioni di indipendenza dalle potenze co-

loniali nel 1960. Intorno al presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, grande fautore del panafricanismo, s’era formato il “gruppo di Casablanca” (Ghana, il Mali di Modibo Keita, la Guinea di Ahmed Sékou Touré, l’Egitto di Gamal Abdel Nasser, Algeria, Libia e inizialmente il Marocco). Questi Stati puntavano ad arrivare in tempi brevi a una federazione politica, gli Stati Uniti d’Africa.


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Dall’altro lato c’era il più pragmatico “blocco di Monrovia” (il Senegal di Léopold Senghor, la Liberia di William Tubman, la Costa d’Avorio di Félix HouphouëtBoigny, la Tunisia di Habib Bourguiba, Nigeria, Etiopia, Somalia, Sierra Leone, Togo e l’ex Congo belga) secondo cui il cammino verso una maggiore unità sarebbe dovuto partire da una graduale cooperazione economica e continuare ad avere stretti rapporti con l’Europa. Vicine a questa posizione erano anche la maggior parte delle ex colonie francesi riunite nel gruppo di Brazzaville, composto da 12 Stati. L’Imperatore d’Etiopia, Hailé Se-

lassié, si fece mediatore tra le due costellazioni panafricane e sulla sua iniziativa fu convocata una conferenza ad Addis Abeba, che il 25 maggio del 1963 diede vita all’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua). L’Oua si poneva come obiettivi di liberare il continente dal colonialismo e dall’apartheid, di promuovere l’unità e la solidarietà tra gli Stati africani, di coordinare ed intensificare la cooperazione per lo sviluppo, di salvaguardare la sovranità e l’integrità territoriale degli Stati membri e di promuovere la cooperazione internazionale in seno alle Nazioni Unite. All’organizzazione, che aveva la


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propria sede nella capitale etiope, aderivano inizialmente 32 Stati. Arrivò a comprendere 53 su 54 Stati africani. Il Marocco uscì infatti nel 1984 per protesta contro l’ammissione all’Oua della Repubblica Sahrawi (il Sahara Occidentale). La presidenza dell’Oua era a rotazione su base annua, tra i capi di Stato dei paesi aderenti. Braccio esecutivo era invece il Segretario generale, incarico di solito ricoperto da un diplomatico. Benché l’Oua abbia svolto un ruolo positivo nel coordinamento dell’azione degli Stati africani contro le ultime sacche di governo minoritario bianco (le colonie portoghesi e spagnole, Rhodesia, Namibia, Sud Africa) e contribuito a creare la Banca africana di sviluppo (Bafs) con sede ad Abidjan, deluse la maggior parte delle aspettative che erano state riposte in essa. Il principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati membri si rivelò infatti un impedimento insormontabile per creare una posizione comune sui tanti conflitti armati, colpi di Stato ed emergenze umanitarie che hanno tormentato il continente africano. La scarsa democraticità di gran parte dei governanti fece inoltre definire l’organizzazione come “il club dei dittatori”. L’Unione africana

La rifondazione dell’Oua prese il via con la dichiarazione di Sirte (in Libia) il 9 settembre del 1999, quando i leader africani decisero di sostituirla con un organismo intergovernativo più

integrato ed efficace denominato Unione africana. Tra i massimi promotori della svolta c’erano il leader libico Muammar Gheddafi e il presidente sudafricano Thabo Mbeki. L’Unione africana (Ua) vide finalmente la luce il 9 luglio del 2002 con un vertice a Durban in Sudafrica. La sede è ad Addis Abeba (come ai tempi dell’Oua) e inizialmente aderivano al nuovo organismo tutti gli Stati membri dell’Oua. Il modello è quello dell’Unione europea (Ue), ma con poteri ridotti. L’Ua si pone come obiettivo lo sviluppo dell’Africa attraverso il rafforzamento della pace, della sicurezza e della stabilità e la promozione del buon governo e dei diritti umani. In questo senso si differenzia dal predecessore e Stati come Guinea, Mauritania e Madagascar sono stati sospesi dall’Unione a causa del rovesciamento dei governi costituzionali. L’Eritrea ha invece deciso di non partecipare più ai lavori, in seguito al conflitto con l’Etiopia. (Sito: http://www.africaunion.org). Gli organi principali dell’Ua sono i seguenti: l’Assemblea dei capi di Stato e di governo è il supremo organo decisionale dell’Unione e si riunisce almeno una volta l’anno. Il presidente dell’Assemblea ha un ruolo prevalentemente rappresentativo e viene scelto per un anno tra i leader degli Stati membri. Il 31 gennaio, il presidente del Malawi, Bingu wa Mutharika, è stato eletto presidente dell’Assemblea per il

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2010. L’Assemblea determina le priorità dell’Unione e approva l’annuale programma di lavoro. Le risoluzioni necessitano di una maggioranza di almeno due terzi. L’Assemblea ricorda quindi il Consiglio europeo dell’Ue. Il Consiglio esecutivo è formato dai ministri degli Stati membri competenti per un determinato argomento. Attualmente il Consiglio si riunisce in cinque commissioni diverse ed è responsabile dinnanzi all’Assemblea. È paragonabile ai diversi Consigli dei ministri dell’Ue. La Commissione è il braccio esecutivo dell’Ua. È formata da un presidente, un vicepresidente e otto commissari con determinate responsabilità tecniche. Presidente della Commissione dal primo febbraio 2008 è il diplomatico Jean Ping del Gabon. Resterà in carica per cinque anni fino al 2013. Ping è di padre cinese e viene considerato un importante interlocutore di Pechino sullo scacchiere africano. Il Parlamento panafricano è stato inaugurato il 18 marzo 2004 e ha la propria sede a Midrand, fuori Johannesburg, in Sudafrica. Al momento il Parlamento ha solo un ruolo consultivo e i 265 deputati vengono eletti dai parlamenti nazionali. L’obiettivo è comunque di coinvolgere anche i popoli degli Stati membri nella governance panafricana. La legislatura dura cinque anni e presidente, dal maggio 2009, è Idriss Ndele Moussa del Ciad. (Sito:http://www.pan-africanparliament.org/).

Il Consiglio per la pace e la sicurezza, entrato in vigore nel 2004, ha il compito di gestire conflitti e situazioni di crisi. Sovraintende alla creazione di forze permanenti di intervento rapido. L’Ua ha attualmente in corso due missioni di peacekeeping: una in Somalia, l’altra, congiunta con l’Onu, in Darfur. Si prevede anche la creazione di una Corte di giustizia, dei diritti umani e dei popoli, e l’avvio di un mercato comune africano con una singola valuta entro il 2023. Nel campo economico è stata lanciata la New partnership for Africa’s development (Nepad), un programma per lo sviluppo economico del continente. (Sito: http://www.nepad.org/home/lang/en). Le Comunità economiche regionali

Esistono anche diverse organizzazioni che lavorano per l’integrazione economica tra gli Stati aderenti su base regionale. Otto di queste sono riconosciute dall’Ua con il nome di Comunità economiche regionali (Cer). Il Trattato di Abuja del 1991, che gettò le basi per una Comunità economica africana (progetto che adesso viene portato avanti dall’Ua) riconosceva l’importanza delle organizzazioni regionali nel cammino verso un futuro mercato comune. La contemporanea appartenenza a più organismi subregionali ha però reso necessaria una razionalizzazione del quadro e l’argomento fu oggetto di discussione al vertice Ua nel luglio 2006 a Banjul in Gambia.


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Le otto comunità economiche regionali riconosciute dall’Ua sono: Ecowas, Sadc, Igad, Eac, Uma, Comesa, Cen-Sad e Ceeac. La Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas)

L’Ecowas è stata costituita nel 1975, ha la propria sede ad Abuja (capitale della Nigeria) e comprende 15 Stati: Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra

Leone e Togo. Fino al 2000 aderiva anche la Mauritania. L’anno scorso sono stati sospesi Guinea e Niger. L’obiettivo primario è di promuovere l’integrazione in tutti i campi dell’attività economica, in particolare nei settori industria, trasporti, telecomunicazioni, energia, agricoltura, risorse sociali, questioni monetarie e finanziarie e problemi di natura sociale. Il ruolo dominante è svolto dalla Nigeria e intercorrono stretti rapporti con il Regno Unito e la Francia.

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Il presidente nigeriano Umaru Yar’Adua ricopre attualmente la presidenza di turno. A partire dal 2007 il segretariato esecutivo Ecowas si chiama Commissione e alla sua presidenza è stato eletto, per un mandato di quattro anni, il diplomatico Mohamed Ibn Chambas del Ghana. Cinque degli Stati membri anglofoni, tra cui la Nigeria, progettano di introdurre una moneta comune (Eco) entro il 2015. L’Ecowas dispone inoltre di una propria Banca, una Corte di giustizia e una forza militare a sostegno di operazioni di pace con un apposito fondo di finanziamento. (Sito: http://www.ecowas.int/). 188

La Comunità di sviluppo dell’Africa Meridionale (Sadc)

La Sadc è stata istituita il 17 agosto 1992 a Windhoek (Namibia) in sostituzione della Conferenza di coordinamento per lo sviluppo dell’Africa meridionale (Sadcc) che era stata creata nel 1981. La Sadcc, a sua volta, traeva origine dalla cooperazione, in corso fin dagli anni Settanta, tra i cosiddetti “Stati di prima linea” intorno al Sudafrica governato dai suprematisti bianchi. Ne fanno parte 15 Stati: Angola, Botswana, Lesotho, Malawi, Mauritius, Madagascar (al momento sospeso), Mozambico, Namibia, Repubblica democratica del Congo, Seychelles, Sudafrica (dal 1994), Swaziland, Tanzania, Zambia e Zimbabwe. Lo scopo della Sadc è l’integrazione economica attraverso la

creazione di un mercato unico regionale. Nell’ottobre del 2008 è stata avviata un’area di libero scambio (Aftz) con due altri organismi sub-regionali (Comesa ed Eac). Si prevede inoltre la creazione di un’unione doganale e di una tariffa comune esterna (dal 2012); un mercato comune (a partire dal 2015); una banca centrale ed una moneta unica (dal 2016). Il Sudafrica, principale esportatore di beni e servizi nell’area, detiene de facto la leadership dell’organizzazione. La presidenza della Sadc è esercitata a rotazione annuale, dal settembre 2009 viene ricoperta da Joseph Kabila, presidente della Repubblica democratica del Congo. Segretario esecutivo, eletto nel 2005, è Tomaz Salomão, economista mozambicano. La sede della Sadc si trova a Gaborone, capitale del Botswana. (Sito: http://www.sadc.int/). L’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad)

L’Igad, nata nel 1986 come Autorità intergovernativa sulla siccità e lo sviluppo (Igadd), raggruppa gli Stati intorno al Corno d’Africa: Etiopia, Gibuti, Kenya, Somalia, Sudan, Uganda ed Eritrea. Quest’ultima ha sospeso la propria partecipazione nel 2007, in seguito all’ennesimo conflitto con l’Etiopia, di fatto egemone in seno all’organizzazione. L’obiettivo iniziale dell’Igad era di affrontare insieme la siccità e la desertificazione a cui è soggetta la regione. Nel 1996, grazie anche


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all’impulso dell’Italia, l’organizzazione è stata rifondata sotto l’attuale nome con l’ambizione di estendere la cooperazione anche ad altri settori. Il rilancio è tuttavia stato ostacolato dalle forti rivalità tra molti degli Stati aderenti insieme alla mancanza di un funzionante governo centrale in Somalia. L’Igad è comunque riuscita a svolgere un importante ruolo per la conclusione dell’accordo di pace in Sudan nel 2005 ed è attualmente membro del Gruppo internazionale di contatto sulla Somalia. La sede dell’Igad si trova a Gibuti. Il primo ministro etiope Meles Zenawi è presidente di turno dell’organizzazione dal giugno 2008. Nella stessa occasione è stato eletto segretario esecutivo, per un mandato di quattro anni, Mahboub Maalim, alto funzionario del ministero dell’Acqua e dell’irrigazione del Kenya. L’Italia è sempre molto presente nel sostegno, anche economico, alle azioni dell’Igad. (Sito: http: //www.igad.org/) La Comunità dell’Africa orientale (Eac)

La cooperazione economica tra Kenya, Tanzania ed Uganda, tutte all’epoca sotto dominio britannico, risale al 1917. Nel 1967 vide la luce la prima Eac, ma si frantumò già nel 1977 in seguito a una serie di incomprensioni tra gli Stati aderenti. Il progetto di una comunità economica dell’Africa orientale fu ripreso con un vertice nel novembre 1993 tra i presidenti dei

tre Stati. Il trattato istitutivo dell’attuale Eac risale al 7 luglio 2000, e nel 2007 hanno aderito alla nuova comunità anche Ruanda e Burundi. L’obiettivo principale dell’Eac è di approfondire ed ampliare la cooperazione fra i paesi membri in molteplici campi (politica, economia, affari sociali, cultura, sanità, educazione, difesa, cooperazione giudiziaria, ricerca e tecnologia). Dal primo gennaio 2005 è entrata in vigore un’unione doganale tra gli Stati membri che, dall’ottobre del 2008, fa parte, insieme a Sadc e Comesa, dell’Area di libero scambio africana (Aftz). I progetti futuri comprendono un visto turistico comune, una singola valuta e – infine – un’unione politica. Gli organi principali dell’Eac sono: il summit dei capi di Stato e di governo, che si riunisce una volta l’anno, il Consiglio dei ministri, composto dal ministro responsabile per la cooperazione in ogni paese, la Corte di giustizia, con competenza in materia di applicazione del Trattato istitutivo e l’Assemblea legislativa. L’Eac ha la sede ad Arusha in Tanzania, paese che attualmente detiene una notevole influenza all’interno dell’organizzazione. Segretario generale, scelto nel 2006 per un mandato di cinque anni, è il diplomatico Juma Volter Mwapachu della Tanzania. Dal novembre 2009 il summit dei capi di Stato e di governo viene presieduto da Jakaya Mrisho Kikwete, presidente della Tanzania. (Sito: http://www.eac.int).

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L’Unione del Maghreb arabo (Uma)

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Il 17 febbraio 1989, con il Trattato di Marrakech, è nata l’Uma con l’adesione di Algeria, Libia, Marocco, Tunisia e Mauritania. La richiesta d’ingresso da parte dell’Egitto non è ancora stata accolta, anche perché il Consiglio dei capi di Stato non si riunisce dal 1994. Le forti rivalità tra alcuni degli Stati membri (per esempio tra Marocco e Algeria sul Sahara occidentale) ha impedito all’organismo di decollare. L’Uma ha la propria sede a Rabat in Marocco e l’ex ministro degli Esteri tunisino Habib Ben Yahia ne è segretario dal febbraio 2006. (Sito: http://www.maghrebarabe.org). Il Mercato comune dell’Africa orientale e meridionale (Comesa)

Il Comesa è un’area di commercio preferenziale creata nel dicembre 1994 che sostituisce una cooperazione formalizzata nel 1981. Le origini risalgono a un incontro ministeriale convocato a Lusaka nel 1965, su iniziativa dell’Onu con l’obiettivo di far decollare un mercato comune africano. Attualmente aderiscono 19 Stati: Burundi, Comore, Repubblica democratica del Congo, Egitto (dal 1999), Eritrea, Etiopia, Gibuti, Kenya, Libia (dal 2005), Madagascar, Malawi, Mauritius, Ruanda, Seychelles, Sudan, Swaziland, Uganda, Zambia e Zimbabwe. In passato hanno fatto parte dell’organizzazione anche Angola, Lesotho, Mozambico, Namibia e Tanzania.

Il trattato istitutivo prevede anche un patto di non aggressione tra gli Stati membri. Dall’ottobre del 2008 il Comesa aderisce all’Aftz insieme a Sadc ed Eac. La sede del Comesa è a Lusaka, capitale dello Zambia. Sindiso Ndema Ngwenya dello Zimbabwe, con una lunga esperienza all’interno dell’organizzazione, riveste l’incarico di segretario generale dal 2008. L’autorità suprema del Comesa, composta dai capi di Stato e di governo, è dal 2007 presieduta da Mwai Kibaki, Presidente del Kenya. (Sito: http://www.comesa.int). La Comunità degli Stati del Sahel e del Sahara (Cen-Sad)

La Cen-Sad nacque il 4 febbraio 1998 in un vertice a Tripoli su iniziativa del leader libico Muammar Gheddafi. Gli Stati fondatori, oltre alla Libia, furono Burkina Faso, Ciad, Mali, Niger e Sudan. In seguito, l’organizzazione è diventata la più numerosa delle comunità economiche regionali con l’adesione di 22 altri Stati (Repubblica Centrafricana, Eritrea, Gambia, Gibuti, Senegal, Egitto, Marocco, Nigeria, Somalia, Tunisia, Benin, Togo, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Liberia, Ghana, Sierra Leone, Comore, Guinea, Kenya, Mauritania e São Tomé e Príncipe). L’obiettivo è di arrivare a un’area di libero scambio, ma la cooperazione finora non è molto strutturata. Nel febbraio del 2009 sono tuttavia state organizzate delle olimpiadi della comunità a Niamey, capitale del Niger, con la


ORGANIZZAZIONI Bruno Tiozzo

partecipazione di atleti provenienti da 13 dei paesi membri. La sede del Cen-Sad è a Tripoli. Segretario generale è il libico Mohamed Al-Madani Al-Azhari. La presidenza dell’organizzazione viene attualmente ricoperta dal presidente del Benin, Yayi Boni. La comunità dispone anche di un braccio finanziario: la Banca sahelo-saharaiana per l’investimento e il commercio, finanziata quasi interamente dalla Libia. In molti vedono infatti nella stessa Cen-Sad innanzitutto uno strumento di Gheddafi per estendere la propria influenza nel resto del continente. (Sito: http://www.cen-sad.org). La Comunità economica degli Stati dell’Africa centrale (Ceeac)

Successore dell’Unione doganale ed economica dell’Africa centrale (Udeac) istituita con il Trattato di Brazzaville nel 1966. Si trattava di un’area di libero scambio prevalentemente tra Stati francofoni dell’Africa centrale. Già nei primi anni Ottanta fu deciso di passare a una cooperazione ancora più stretta tra i paesi aderenti, ma l’organismo subì un durissimo colpo negli anni Novanta a causa del conflitto nell’area dei Grandi Laghi. Il rilancio avvenne nel giugno 1999 e l’attuale Ceeac ha individuato nel mantenimento della pace e nell’integrazione economica, monetaria ed umanitaria alcune delle sue priorità. Oltre a un patto di non aggressione, è stato creato un Consiglio per la pace e la sicurezza nell’Africa centrale, dotato di una forza d’intervento multinazionale.

Aderiscono al Ceeac: Angola, Burundi, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo, Repubblica democratica del Congo, Gabon, Guinea Equatoriale e São Tomé e Príncipe. La sede si trova a Libreville, capitale del Gabon. Segretario generale dal 1999 è Louis SylvainGoma, già primo ministro del Congo. Idriss Déby Itno, presidente del Ciad, detiene la presidenza di turno dall’ottobre 2009. (Sito: http://www.ceeac-eccas.org) Collaborazione tra partiti politici

Anche alcune delle organizzazioni per la collaborazione internazionale tra partiti politici si sono dotate di strutture regionali africane. L’Unione democratica internazionale (Idu) che raggruppa partiti conservatori e di centrodestra ha dato vita all’Unione democratica africana (Dua). Freeman Mbowe, del partito Chadema del Tanzania, è segretario generale dal 2006 mentre Peter Mac Manu, del Nnp ghanese, ne è presidente. Tra membri a titolo pieno e osservatori aderiscono 14 partiti di 13 Stati (Costa d’Avorio, Ghana, Mozambico, Namibia, Seychelles, Sierra Leone, Tanzania, Uganda, Angola, Repubblica democratica del Congo, Lesotho, Liberia e Niger). Tutti i partiti sono all’opposizione tranne i movimenti aderenti di Niger (Mnsd), Liberia (Up) e Sierra Leone (Apc). Fino a qualche tempo fa erano al governo anche i partiti membri di Ghana (Nnp) e Costa d’Avorio (Pdci-Rda). (Sito: http://www.du-africa.org)

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L’Internazionale liberale (Li) contiene fin dal 2003 al suo interno una Rete liberale africana (Aln). Presidente del network dall’agosto del 2008 è Mamadou Lamine Bâ del Partito democratico del Senegal. Aderiscono 24 partiti di 19 Stati (Angola, Burkina Faso, Burundi, Repubblica democratica del Congo, Costa d’Avorio, Guinea, Guinea Equatoriale, Madagascar, Malawi, Mali, Marocco, Mozambico, Senegal, Seychelles, Sud Africa, Sudan, Tanzania, Tunisia e Zambia). L’unico partito che governa da solo è il Pd del Senegal, mentre Arc (Repubblica democratica del Congo) e Pcr (Mali) fanno parte delle coalizioni di governo nei rispettivi paesi. (Sito: http://www.africaliberalnetwork.org). Anche l’Internazionale di centro (Idc) e l’Internazionale socialista (Si) contano dei partiti africani tra i propri aderenti, ma non hanno delle apposite strutture regionali. All’Idc, l’ex Internazionale cristiano democratica, aderiscono partiti politici di 12 Stati africani (Capo Verde, Congo, Repubblica democratica del Congo, Guinea Equatoriale, Mauritania, Mauritius, Marocco, Mozambico, Nigeria, Uganda, Camerun e Madagascar). Governativi i partiti del Marocco (Istiqlal) e della Nigeria (Pdp). Ai lavori dell’Internazionale socialista partecipano, a diverso titolo, partiti politici di ben 29 Stati (Algeria, Angola, Benin, Burkina Faso, Camerun, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Ghana, Guinea, Guinea Equato-

riale, Mali, Marocco, Mauritania, Mauritius, Mozambico, Namibia, Niger, Senegal, Sud Africa, Tunisia, Zimbabwe, Burundi, Gabon, Togo, Botswana, Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo e Sahara Occidentale). Molto alta la frequenza di partiti al potere nei rispettivi paesi e in questi gruppi si ritrovano alcune delle sigle più conosciute nella lotta contro il colonialismo: Mpla (Angola), Paicv (Capo Verde), Fpi (Costa d’Avorio), Ndp (Egitto), Ndc (Ghana), Adema-Pasj (Mali), Pt (Mauritius), Usfp (Marocco), Frelimo (Mozambico), Swapo (Namibia), Anc (Sud Africa), Rcd (Tunisia) e Mdc (Zimbabwe). Gli argomenti sull’agenda politica non sono tuttavia gli stessi di Europa o America e ciò viene evidenziato dal fatto che il movimento d’opposizione Udps guidato da Étienne Tshisekedi (ex premier della Repubblica democratica del Congo, quando si chiamava Zaire), aderisce in veste di osservatore contemporaneamente all’Internazionale socialista e all’Idu di centrodestra.

L’Autore bruno tiozzo Socio della fondazione Farefuturo. Autore di numerosi articoli per riviste come Charta minuta, Con, Imperi e Millennio. Già collaboratore parlamentare, dal 2008 lavora come esperto per il ministro per le Politiche europee.


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