TRANSUMANZE cirella andata e ritorno

TRANSUMANZE c i r e l l aa n da t aer i t or n o

TRANSUMANZE cirella andata e ritorno

Relatore: Prof. Arch. GIOVANNI GALLI Candidate: ELISA FASCE, CHIARA FEDELE

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA Scuola Politecnica - Dipartimento di Scienze per l’Architettura Corso di Laurea Magistrale in Architettura Anno Accademico 2014/2015

transumanza s. f. [dal fr. transhumance, der. di transhumer «transumare», comp. di trans- «trans-» e lat. humus «terra»]. – Complesso delle migrazioni stagionali su largo raggio territoriale, e con accentuato dislivello verticale, con cui animali di grossa o media taglia si spostano dalle regioni di pianura alle regioni di montagna e viceversa, spontaneamente o condottivi dall’uomo, percorrendo particolari vie naturali (tratturi) nelle regioni a economia poco sviluppata, trasportate su strade ordinarie con appositi autocarri nelle regioni più sviluppate.

INDICE

Introduzione...........................................................................................................15 ANDATA Storia ......................................................................................................................23 Leggenda ...............................................................................................................27 Superstizione ........................................................................................................ 33 In-finito .................................................................................................................35 Fantasmi ................................................................................................................47 RITORNO Kintsugi .................................................................................................................57 Conservare..............................................................................................................61 Invecchiare ............................................................................................................69 Vita d’artista ..........................................................................................................79 Progetto .................................................................................................................95 DISEGNI SCENE Bibliografia...........................................................................................................125

Cirella, Ruderi

Cirella

Comune di Diamante, CS

INTRODUZIONE

“Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario.

Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita.”

Louis-Ferdinand Céline

Ci sono viaggi che restano anche quando scompaiono i viaggiatori. Restano nei muti sentieri di pietra, parlano al procedere del passo, raccontano storie lontane. Non hanno orari né coincidenze, solo immagini. Strade d’erba gonfie di rugiada, foglie stanche, solitudini, autunni: è tempo di andare.

Settembre è sempre l’inizio di un nuovo viaggio, fatto di terreni impervi e lunghe notti. Isciacquío, calpestío, dolci romori1. Dalla montagna al mare, le greggi seguono il pastore verso pascoli verdi, voltano le spalle all’inverno, percorrono un continuo ciclo stagionale di andata e ritorno. Nessuna domanda, una sola regola: migrare.

La transumanza ha caratterizzato per millenni le civiltà basate sulla pastorizia, incidendo sul paesaggio, il territorio e la comunicazione tra popoli e culture.

Ha disegnato tratturi e stazzi, ha scritto storie di poveri e imprecato contro la «malidetta» e «discrata» montagna, gioito per il prossimo ritorno, curato le angosce e i dubbi nati nella lontananza. Ma transumanza è anche metafora del destino di tanti luoghi. Molti uomini non hanno avuto sorte diversa dalle greggi radunate e condotte altrove. Raccolte le speranze, i desideri, le paure in bagagli più o meno pesanti, a volte invisibili, spinti dal dovere o da cause ostili, si allontanano dai luoghi di origine lasciandoli inerti, congelati, ansiosi di un ritorno alla vita o alla morte.

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Le case spente, i muri nudi. Finestre come orbite vuote2 che non hanno più un dentro e un fuori. Restano gli sguardi a popolare l’assenza, a condurre l’occhio verso scorci immortali, immutati, infiniti. Il tempo infligge le sue pene alla materia, ma non consuma mai l’essenza dei luoghi, la loro anima.

La Calabria è il luogo dell’abbandono, dettato da una sorte infausta, un destino antico. E’ una terra in fuga, fatta di paesi grevi e solitari che guardano al mare sognanti, in attesa. La vita si svolge altrove, popola le marine, si trasferisce dai paesi dell’interno in città nuove, gemelle, che tengono le vecchie come cadaveri alle proprie spalle. E’ una morte di cui non ci si riesce a disfare e che genera un continuo rimando nostalgico a tempi lontani, vissuti o immaginati, a un’idea di vita forse migliore, ma fantasma.

«Per chi prende il treno, Cirella appare come una porta della Calabria, di uscita o di entrata, secondo la direzione».3 Aggrappata a un promontorio e ricostruita al mare, l’antica città ha l’immagine di un relitto, si maschera della collina che la genera, e i vecchi muri non sembrano opera dell’uomo ma propaggini della roccia.

I resti di un paese che raccontano bellezza e rovina, cantano storie di distruzione e ricostruzione. Ruderi imponenti ma quasi invisibili, mescolati in un ibrido di pietra e vegetazione che si scambiano le parti in un continuo sparire e manifestarsi.

L’analogia tra l’antico cammino dei pastori e l’intermittente storia dell’insediamento di Cirella, spostatosi dal mare alla rupe e da questa ancora al mare, si carica del significato dell’abbandono di un luogo e del ritorno nello stesso, quando questo è ormai un teatro di rovine, in cui i muri sono quinte e le strade racconti. Dal latino trans, oltre, e humus, terra, la transumanza che qui si propone allude all’essere trasportati in un cammino “oltre terra”, verso la ricerca del senso di rovina, quando questa è quasi ridotta a geografia.

La distruzione, causa o effetto dell’abbandono, esercita anch’essa un fascino e a volte nobilita i luoghi, evocando passati gloriosi, forse mai realmente esistiti, in un gioco di composizione e ricostruzione mentale che lega il frammento all’immaginazione. Il disegno incompleto delle forme induce a ridisporre le figure quasi in modo consapevole, ma sempre diverso.

Se l’andata ha seminato spettri, il ritorno in un mondo che sembra finito, in un’epoca di “eterno nuovo”che non lascia spazio alla vecchiaia e la guarda come una malattia, si interroga sul possibile valore delle rovine dei luoghi “comuni” e sorpassati, rimaste in ombra perché di poco pregio, ma necessa- 16 -

rie alla costruzione di quell’immagine del territorio che chiamiamo paesaggio.

Questo lavoro è anch’esso una transumanza e si propone di accompagnare il lettore nell’andata e ritorno di un viaggio au bout de la nuit4.

Ora lungh’esso il litoral cammina / la greggia. Senza mutamento è l’aria. / Il sole imbionda sì la viva lana / che quasi dalla sabbia non divaria. / Iscìacquo, calpestio, dolci romori. ( Gabriele D’Annunzio, I pastori, in Alcyone ) 2 La casa, il semplice assetto della tenuta, le mura fredde, le finestre simili a orbite vuote, i pochi giunchi fetidi, i radi tronchi d’albero bianchi per il marciume; contemplai ogni cosa con tale depressione d’animo ch’io non saprei paragonarla ad altra sensazione terrena se non al risveglio dal sonno dell’oppio, l’amaro ritorno alla realtà quotidiana, il tragico cadere del velo. (Edgar Allan Poe, Il crollo della casa Usher, p. 11) 3 Vito Teti, Il senso dei luoghi, p.544.

4 Voyage au bout de la nuit - Viaggio al termine della notte (L.F. Céline).

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Sul retro Vibo Valenzia foto di Bruno Stefani

ANDATA

Cirella, Chiesa di S.Maria dei Fiori. Resti dell’antico tempio romano.

STORIA

“Cirella lo vedo scappare a strapiombo su duecento metri di burrone, aggrappato come un serpente lungo tutta la cima dentellata.

Il cielo brilla sulle sue finestre”.

Maria Brandon-Albini

Cirella ha origini antichissime e remote che si perdono tra preistoria e archeologia. Abitata fin dal paleolitico superiore, diviene fissa dimora per gli Ausoni, il popolo osco che abita il centro-sud della penisola italiana. Tra il X e il IX secolo a.C. viene fondata la prima città, che si sviluppa sulla stretta e frastagliata piana della fascia costiera, incastonata tra la scogliera e il promontorio.

Tra l’VIII e il VI secolo giungono a Cirella i Focesi, greci scappati dalla loro madre patria a causa delle persecuzioni di Ciro II il Grande, re di Persia.

Sbarcati alla foce del fiume Adamantium, l’attuale Corvino, stabiliscono qui la loro nuova patria, che diviene così colonia greca. Sono proprio i Focesi a costruire il porto, denominato Parthenium1, situato a sud della città. Esso fronteggia l’Isola di Cirella, la quale diviene avamposto di guardia fondamentale per l’insediamento di terraferma.

Grazie alla vivace attività portuale, Cerillae conosce grandi fasti e diviene un potente centro commerciale, ove si scambiano vini, oli, cedri e legname fino a Roma e per tutta la Magna Grecia.

«Il Partenio, comechè cerchiato e difeso dalle punte di Cerella e di Diamante e dalla vicina isola, era un porto ampio, profondo, comodo ed opportuno, e buono per difendere triremi e quadriremi, e legni di altobordo dall’impeto de’ venti e dalle furie del mare tempestoso».2 - 23 -

Ma è proprio la presenza del porto a fare di Cirella una città sempre al centro delle vicissitudini storiche.

Durante la seconda guerra punica, nel 216 a.C., Annibale la distrugge per la prima volta, poiché la fanteria cirellese si schiera al fianco di Roma durante la battaglia di Canne. Ce lo testimonia Silio Italico, che canta con accorata tristezza: “Exaustate mox Poeno Marte Cerillae”.3 Cirella è maceria, e rimane tale fino al termine delle guerre puniche, quando verrà riedificata grazie al sostegno di Roma.

E’ il cinquanta dopo Cristo e il cristianesimo inizia a permeare l’Occidente.

Cirella è una delle prime città ad abbracciarne la confessione e diviene sede vescovile della Calabria: Romanus Episcopus Cerellitanus, partecipa al Sinodo indetto da Papa Martino I nel 649.4 Nel mentre, le incursioni e gli arrembaggi Saraceni increspano il Mediterraneo. La costa tirrenica della Calabria è devastata dai corsari e anche Cirella è insidiata più di una volta. Nell’850 d.C. la città conosce la seconda totale distruzione. Ricostruire a mare non è più pensabile. La popolazione abbandona la costa e si rifugia in posizione più sicura e difendibile. Viene fondata una nuova città, ma al contempo la stessa città, erta sulle pendici occidentali del Monte Carpinoso, addossata a un ripido promontorio, 170 metri sopra il livello del mare. Qui, a proteggere le abitazioni, vengono erette due cinta murarie e un castello turrito.

Il maniero, posto in sommità dell’altura, domina l’intera piana di Scalea, veglia sulle valli assieme a Grisolia e Maierà, allunga il suo sguardo ben oltre l’Isola di Cirella. Viene significativamente modificato durante i secoli, con l’aggiunta di una doppia cinta muraria di epoca Sveva e ulteriori adattamenti in periodo angioino. Eppure, tutte queste fortificazioni non bastano: Cirella viene assalita e data alle fiamme ancora diverse volte.

Il Medioevo è un’epoca di relativa pace e prosperità. Tra normanni e svevi si intensificano gli scambi commerciali e l’attività del porto. Il Chiarello, vino pregiato prodotto sui dolci e assolati pendii cirellesi, diviene famoso e apprezzato in tutto il Tirreno.

Nel corso del XVI secolo il ducato di Cirella è oggetto delle scorrerie dei pirati ottomani, prima con Dragut Rays, corsaro seguace di Kair ‘el Din, detto Barbarossa, e successivamente con Sinam Cicala Pascià, e Uluccialì. Il più famoso sacco avviene nell’agosto del 1567, per mano della flotta di Solimano il Magnifico. A fronte dei continui attacchi, i Viceré di Napoli costruiscono una torre di difesa a pianta quadra sulla parte più alta dell’Isola di Cirella, ma Dragut sarà abile a eliderne la difesa.

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Non mancano le calamità naturali che inginocchiano il feudo tra il Seicento e il Settecento: sono la pestilenza del 1656 e i terremoti del 1638 e 1738.

Tra saccheggi e calamità, Cirella passa di mano in mano a molteplici famiglie feudatarie, che ne amministrano le terre e segnano il destino. Passando per i Fasanella e i Cosentino, poi per gli Stocchi e gli Scaglione, ancora con i Del Nero e gli Amendrano, fino ai Gonzaga di San Marco, con i quali si giunge all’eversione della feudalità.

Tra il 1806 e il 1807 un contingente di truppe napoleoniche pone il suo quartier generale presso il promontorio di Cirella, al fine di sedare la ribellione messa in atto dal duca del momento. Nel 1810 la flotta britannica bombarda le truppe napoleoniche qui stanziate, e, con esse, la cittadina di Cirella. E’ la terza completa ed irrimediabile distruzione. Non resta altra via che l’abbandono. Le strutture superstiti vengono utilizzate come cava di pietra e spogliate di tutti i manufatti di pregio. Cirella è una città senza requie.

Si posta nuovamente verso il basso, alla marina, e rimane comune autonomo fino a che, nel 1876 viene annessa a Diamante.

Ab eo Bruttium litus, oppidum Blanda, flumen Balentum, portus Parthenius Phocensium et sinus Vibonensis, locus Clampetiae, oppidum Tempsa, a Graecis Temese dictum, et Crotoniensium Terina sinusque ingens Terinaeus. (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Libro III, 73) 2 Leopoldo Pagano, Studi sulla Calabria 3 Qui socias vires atque indiscreta maniplis /arma recensebat: nunc sese ostendere miles / Leucosiae e scopulis, nunc, quem Picentia Paesto /misit et exhaustae mox Poeno Marte Cerillae, / nunc Silarus quos nutrit aquis, quo gurgite tradunt / duritiem lapidum mersis inolescere ramis. (Silius Italicus, Punica, libro VIII, 576-581) 4 Ferdinando Ughelli, Italia Sacra, Vol VIII, parte II 1

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Nelle pagine successive Fumetto di Francesco Cirillo

LEGGENDA

Una distruzione della città è attribuita al pirata turco Dragut Rays. Sarebbe avvenuta il 2 agosto del 1569. Secondo una tradizione orale, ripresa e riproposta da diversi studiosi locali, i saraceni rapirono la figlia del torreggiano dell’isola, costringendolo a non segnalare il loro arrivo. La bellissima donna fece voto alla Madonna dei Fiori di Cirella e venne risparmiata, ma la città fu invece distrutta, devastata; uomini e donne, in tutto settantadue persone, rapiti. I superstiti si rifugiarono a Maierà, nel territorio dove poi – in un periodo in cui scompaiono molti paesi e ne vengono fondati di nuovi – sarebbe sorta Diamante, fondata nel 1638 da Tiberio Carafa.

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Rafael GomezBarros, Ants.

SUPERSTIZIONE

«Quann’erimu piccininni ni cuntavanu ca si l’anavia mangiat’i furmicule giganni».

Quando eravamo piccoli ci raccontavano che era stata divorata da formiche giganti.

Si narra di un presunto assalto di Cirella per mano dei Francesi, sotto la guida del generale La Fourmique che ne avrebbe ordinato la distruzione. Non esiste tuttavia testimonianza storica che accenni a un generale chiamato La Fourmique, mentre è provata l’esistenza di dorylus fabricius, formiche giganti.

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Stefano Zeni, Le stagioni della necessitĂ . Rovine I

IN-FINITO

“Qui è tutto l’uomo, la sua collaborazione intelligente con l’universo, la sua lotta contro di esso, e la disfatta finale ove lo spirito e la materia che gli fa da sostegno periscono pressappoco insieme.

Il suo disegno si afferma sin in fondo nella rovina delle cose.”

Marguerite Yourcenar

Il tema della rovina offre uno spettro di spunti e di campi di applicazione talmente ampio da provocare quasi la vertigine. Esso porta con sé una serie di concetti di grande complessità e vastità semantica, quali le idee di Tempo, Durata, Frammento, Memoria, Morte e molte altre ancora. Sarebbe un’impresa titanica anche soltanto sfiorare le molteplici facce del “poliedro rovina”. Qui abbiamo propositi molto più circoscritti, e aspiriamo semplicemente a dare un’idea circa la percezione che ha l’uomo contemporaneo della rovina. Precisiamolo subito: rovina intesa in senso architettonico, nella sua fisicità di oggetto materiale che si confronta con il pensiero, il sentimento e i sensi dell’osservatore.

L’interesse nei confronti delle rovine risale all’alba dei tempi: possiamo definirlo una costante storica che accompagna la cultura occidentale fin dall’antichità - «beati gli antichi che non avevano antichità!» diceva Diderot. Senza andare troppo indietro, possiamo accennare a come l’architettura in rovina sia rappresentata in tutta quell’arte figurativa che, dal Trecento in poi, voglia rappresentare la caduta del paganesimo e l’avvento del Cristo. L’Umanesimo riscopre successivamente le rovine dell’antichità attraverso la volontà di emulare la civiltà classica, pone su di esse un’attenzione maggiormente didattica e meno fantastica di quella di epoca medioevale. Ma un interesse così feb- 35 -

Stefano Zeni, Le stagioni della necessitĂ . Rovine II

brile verso l’antico porta ben presto ad un’inevitabile malinconia: la fiducia si trasforma in disincanto, la perfezione è persa, irraggiungibile, e la rovina si frammenta in ambito pittorico tra vari timbri e stili, passando per manierismi, capricci, e ricostruzioni oniriche, fino a che Piranesi imprimerà al tema la definitiva svolta visionaria.

«Il sentimento delle rovine nel XVIII secolo è incalzato dal risveglio del pensiero storico che spoetizza i documenti del passato con il progredire del metodo scientifico»1. Le rovine classiche divengono oggetto di scienza, e tocca a quelle gotiche prenderne il posto sulle tele. Le atmosfere si fanno desolate e romantiche, poi inquietanti e surrealiste, infine brulicanti e profetiche, come nei contemporanei dipinti di Beksiński. Sempre durante il Settecento si manifesta un fenomeno nuovo nel campo delle rovine: esse escono dalle tele e si concretizzano nello spazio dei giardini. Sono rovine artificiali collocate entro una natura che ha perso l’incanto creazionista. La fruizione del paesaggio e degli elementi naturali diviene estetica e le false rovine vi trovano posto in quanto elementi ornamentali. Il loro scopo è quello di stimolare l’immaginazione a completare il frammento, ma il tutto all’interno di una totale e letterale contraddizione. La rovina artificiale è il primo sintomo dell’avvento di un’epoca in cui i concetti di passato e futuro si fanno illusori. Oltre a testimoniare la svolta nella percezione temporale, la falsa rovina solleva anche il problema dell’autenticità materica del manufatto.

Fino all’Età dei Lumi l’interesse nei confronti della rovina è centrato su problemi di rappresentazione, poiché è la vista ad esser l’unico senso coinvolto nella percezione delle rovine: il tramite attraverso il quale la rovina si fa concetto nei pensieri dell’uomo e diviene oggetto di riflessione. Osservare i resti del passato fa affiorare alla coscienza i più disparati sentimenti. Dal memento mori alla nostalgia verso un passato irraggiungibile, finanche a una certa consolazione «vedendo che popoli interi, uomini talvolta così famosi, non hanno potuto vivere oltre quei pochi giorni che sono stati assegnati alla nostra oscurità. […] E per quale motivo le opere degli uomini non passerebbero, quando il sole che le rischiara è destinato a cadere a sua volta?»2.

E sempre Chateaubriand, poche righe dopo, ci illumina con un’altra riflessione fondamentale: «Vi sono due specie di rovine: una, opera dei tempi; l’altra, opera degli uomini. Le prime non hanno nulla di sgradevole, perché la natura opera attraverso gli anni. […] Le seconde rovine sono più devastazioni che rovine; offrono solo l’immagine del niente, senza una potenza riparatrice. […] Quando Dio, - 37 -

Stefano Zeni, Le stagioni della necessitĂ . Rovine III

per ragioni a noi sconosciute, vuole affrettare le rovine del mondo, ordina al Tempo di prestare la sua falce all’uomo; e il Tempo deve in un colpo d’occhio devastare ciò che avrebbe impiegato secoli a distruggere»3.

Sulla stessa linea di pensiero del romantico francese troviamo anche il filosofo tedesco Georg Simmel, più radicale nelle sue affermazioni, per il quale «a talune rovine romane, per quanto interessanti, manca l’attrattiva specifica della rovina, nella misura in cui appunto in loro si percepisce la distruzione ad opera dell’uomo; ciò contraddice infatti l’antitesi fra opera dell’uomo e azione della natura sulla quale riposa il significato della rovina in quanto tale».4 Entra in gioco, a cavallo tra Sette e Ottocento, una nuova categoria di rovine.

L’uomo, distruggendo un manufatto, crea una rovina. La sua mano cala violentemente ad abbattere e rovinare5 ciò che una diversa e nemica mano aveva costruito prima della sua. Distruggere, creare, abbattere, rovinare: sono azioni per lo più tattili quelle che descrivono la nuova valenza della rovina. Il tatto entra a far parte dei sensi tramite i quali si può spiegare e percepire la rovina. Le nuove problematiche sulle quali riflette l’uomo ottocentesco virano al come e al se toccare le rovine, e tali argomenti si trascineranno attraverso tutto il Novecento, aggiungendo alle rovine ad opera dei tempi e dell’uomo, le rovine per restauro.6 La questione dello status materico della rovina e della sua valenza storica e testimoniale alimenta il dibattito attorno il restauro per tutto l’Ottocento. I maggiori portavoce della querelle sono Viollet-le-Duc e John Ruskin, ai quali vanno attribuite le più influenti e contrapposte teorie ottocentesche del restauro. Non è un caso che il questionare sulla fisicità delle rovine sia figlio del XIX secolo. Nell’epoca della Rivoluzione Industriale l’accelerazione improvvisa della produzione, la velocizzazione dei mezzi di trasporto e le spinte incalzanti verso il progresso, cambiano radicalmente la nozione di tempo e il modus vivendi dell’uomo occidentale. Un cambiamento di ritmo così improvviso da scatenare il timore di perdere i valori del “vecchio mondo”. È in questo contesto che «la rovina diventa un’àncora culturale, la custode delle memorie, perciò essa stessa memoria da custodire e conservare, nel tentativo di opporsi all’accelerazione del tempo e della fine imminente»7. Lo scarto fondamentale tra il sentire pre e post-industriale, sta nel restringimento del lasso temporale che separa il presente dal passato. Il ritmo regolare e lento della natura, che lascia spazio all’assimilazione e alla presa di coscienza, - 39 -

è rimpiazzato dal tempo incalzante e spasmodico della fabbrica, nel quale tutto è contemporaneo, rimpiazzabile, mai antico, solo vecchio. Da questi presupposti viene la necessità di conservare la materia del passato, i dissapori nasceranno sul come conservare tale materia. Dopo più di un secolo di disquisizioni attorno al fatidico come, la maggior parte degli esperti di restauro, a meno di interessanti voci fuori dal coro8, è ormai concorde nell’appoggiare un atteggiamento conservativo, nel quale ogni nuovo intervento sia chiaramente riconoscibile e affatto invasivo. Il tutto nel rispetto assoluto per il dato materico che la realtà storica offre e nel riconoscimento dell’unicità e specificità del manufatto, insegnamenti, questi, che hanno origine dalle riflessioni fondamentali sui concetti di Valore, Tempo e Monumento di Alois Riegl9.

Tutto il dibattito sul restauro svoltosi nell’Ottocento, tutte le descrizioni, le suggestioni e le teorie sul tema della rovina dei secoli passati, sono accomunate dal presupposto fondamentale che il soggetto delle disquisizioni sia chiaro e condiviso. Fino al XIX secolo il problema si basa sugli attributi da dare alla rovina: si parla di cosa essa simboleggi, ma non di cosa essa sia. La sua sostanza infatti è un concetto di univoca definizione. Ogni storico, artista o studioso che avesse deciso di cimentarsi con questo tema era in grado, prima di tutto, di riconoscere la rovina come tale. Cosa accade però quando la storia si restringe, le epoche si accorciano fino a perdere di distinguibilità, gli stili si riducono a mode, i fatti si appiattiscono a immagini?

Simmel inizia ad insinuare nei suoi contemporanei il dubbio che la rovina prodotta dall’uomo non possa essere considerata tale, poiché la condizione necessaria alla sua definizione è che il Tempo agisca indisturbato su di essa e che la Natura entri in gioco a costituire «un nuovo intero, una unità caratteristica»10. L’accelerazione della storia, se da un lato rende urgente risolvere il problema della conservazione delle rovine, dall’altro pone la questione in termini semantici: il sostantivo “rovina” sembra non bastare più a contenere un ambito che si allarga esponenzialmente e che ingloba nuove forme e declinazioni. Altri termini si insinuano prepotentemente a scalzare la rovina: si parla ora di macerie, ora di dismissioni. Sotto questi termini si trovano oggetti che hanno perso parte dei connotati fondamentali che per secoli avevano definito la rovina, e che richiedono una nuova attenzione: prima ancora di parlare di come conservarli, bisogna decidere se conservarli. Il dubbio sul loro diritto alla conservazione viene dall’insicurezza nel riconoscerli come rovine.

E’ questo il problema della società contemporanea: accettare di dover, volenti o nolenti, allargare il concetto di rovina, e assegnare una dignità storica ed estetica a nuove tipologie di manufatto. I fattori che rendono complesso - 40 -

questo processo sono soprattutto due: il sopraggiungere dell’eterno presente e l’introduzione di nuovi materiali a soppiantare quelli usati tradizionalmente e consolidati da un uso millenario.

La rovina in cemento armato è il “grande scandalo” del XX secolo. Il Novecento si apre a questo nuovo e ibrido materiale, che poi materiale non può essere propriamente definito, più un composto forse, un’entità già difficilmente definibile nella sua essenza, figurarsi nel suo degrado. Al suo ingresso in architettura il grido all’innovazione e al progresso è facile e quasi spontaneo. Fomentati dal Movimento Moderno e dal Futurismo, nemmeno ci si accorge di trovarsi sulla scia entusiasta che approva e addirittura consacra questo nuovo sistema costruttivo. Il cemento armato è il must del secolo.

All’entusiasmo si affianca però ben presto il disamore nel vederlo degradare, rovinare in fretta, troppo in fretta. Si storcono i nasi, ci si amareggia e allibisce: così seducente nuovo, quanto presto sgradevole e deprecabile! Ma il progresso non può essere arrestato, il funzionalismo decreta rapidi abbandoni, la crescita demografica rapide espansioni. Questo processo lascia dietro sé una coda di edifici in cemento armato dismessi e abbandonati. Coda che si allarga a dismisura fomentata dagli eventi bellici del Novecento. C’è una nuova ed enorme mole di rovine con cui fare i conti, troppo vistosa per essere evitata.

Si cerca di prendere una distanza storica sufficientemente ampia dal cemento armato per poterlo guardare con occhio meno parziale e decidere delle sue sorti: è degno di essere riconosciuto e dichiarato rovina?

La fotografia viene in aiuto all’interno di questo dibattito. La sua capacità di fermare l’istante coadiuva a prendere le necessarie distanze da rovine tanto scottanti e attuali. Gabriele Basilico e i coniugi Becher immortalano decine e decine di edifici in cemento armato, e la loro opera possiede un qualcosa di catartico ed esorcizzante: attraverso i loro scatti percepiamo un cemento armato degno di essere conservato, con chiari valori estetici e storici. Benché non abbia il fascino pittoresco della rovina antica e il suo valore testimoniale nei confronti del passato, esso è portatore di un diverso tipo di fascino: quello della rovina traumatica11. Il cemento armato è testimone di un tempo ancora presente, e ne testimonia gli eventi e le responsabilità. E’ accompagnato da una strana forma di Sublime, che viene dallo sgomento che si prova davanti all’annullamento della distanza storica e alle enormi e violente distruzioni prodotte dall’uomo. Rimanendo in ambito fotografico, sono ad esempio gli scatti di Robert Capa a sviscerare questo inedito valore della rovina in cemento armato.

Se il cemento armato testimonia il tempo presente attraverso le rovine belli- 41 -

che e industriali, lo fa anche con le rovine civili. In queste possiamo ritrovare tutti gli edifici residenziali in stato di abbandono per molteplici motivi, alcuni con caratteristiche più peculiari di altri, come ad esempio gli edifici mai finiti.

La seconda metà del Novecento si presenta in Italia come quella del recupero post-bellico, del “boom economico”, delle migrazioni dal Sud verso il Nord Italia in cerca di lavoro e speranza. Sono innumerevoli le famiglie che in cerca di fortuna lasciano le loro abitazioni in Sicilia, Puglia, Calabria. Alcune avranno un destino più favorevole delle altre, c’è chi riuscirà a far fortuna, chi rimarrà un semplice operaio Fiat, tutti però sono uniti dal desiderio di migliorare la propria situazione economica e magari, un giorno, poter tornare nel mai dimenticato Sud, poiché rimane quella l’unica e indiscussa patria.

La speranza fondamentale è quella di poter racimolare una fortuna sufficientemente grande da poter costruire nella terra natia una nuova casa per la propria famiglia e per le generazioni future. Nessuno però ha la pretesa di costruire un nuovo edificio dal nulla e velocemente: la pazienza e la lentezza sono tratti caratteristici della gente del Sud, che sa accontentarsi di ritornare a casa una volta all’anno, magari per le feste natalizie, e in quei momenti iniziare le fondazioni della nuova casa. La speranza nel futuro basterà ad accettare di lasciare i lavori fermi a questo punto fino all’anno successivo. La proiezione nel futuro di un modesto capitale disponibile lascia immaginare un benessere raggiungibile secondo progressione lineare, e nel frattempo ci si accontenta del godimento che viene dall’essere riusciti ad appropriarsi di un frammento di paesaggio, marchiandolo con una platea di fondazione sulla quale si impiantano i nudi pilastri in cemento, zampillanti di ferri di armatura.

Appena ultimato il piano terra esso viene subito abitato, e l’ulteriore sforzo finanziario è dedicato alla costruzione dei pilastri del piano superiore, per “occupare l’aria” e manifestare l’ambizione del proprio progetto spaziale familiare.

Il futuro è l’elemento legante che tiene insieme questi gesti edilizi. Un’aspettativa indefinita che rende il presente una condizione transitoria, non meritevole di attenzione o preoccupazione proprio perché destinata a cambiare e ad evolvere rapidamente verso uno stato migliore e finito.

La dimensione dell’in-finito o del mai finito12 è la caratteristica pregnante di tutto questo processo, ma porta con sé le premesse di un precoce disfacimento fisico, e viene spesso accompagnata da uno stato di progressivo abbandono, che è in primis abbandono nelle speranze riposte in un futuro poi non così prosperoso. Quando la fortuna cercata al Nord non arriva, il progetto della casa di famiglia viene abbandonato assieme ai pilastri di calcestruzzo.

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Rimangono disseminate nel paesaggio mezze-costruzioni «edificate talvolta come palafitte da moderni selvaggi»13, manifestazioni dell’in-finito, divenute rovine ancor prima di essere ultimate, sogni infranti di un futuro migliore, e talmente abbondanti sul territorio del sud Italia, da essere diventati parte dell’identità di quei luoghi.

«Le coste calabresi con le abitazioni nuove, senza intonaco, con i pilastri nudi di cemento, sono il luogo esemplare del non finito dei nostri giorni, delle rovine di una particolare modernità»14

Marcello Barbanera, Relitti riletti, p. 40.

François-René de Chateaubriand, Genio del Cristianesimo, p. 819.

3 Idem, p. 821.

4 Georg Simmel , Die Ruine, in Rivista di Estetica, n. 8, 1981, pp. 121-127.

5 Dal dizionario Treccani: rovinare (ant. o letter. ruinare, ant. raro ruvinare) v. intr. e tr. [der. di rovina]. intr. Cadere giù crollando, franando, disfacendosi con violenza, riferito a edifici, a strutture e costruzioni edilizie: il palazzo,colpito da una bomba, rovinò con fragore; il pavimento rovinò nella stanza sottostante; il soffitto, il tetto, l’impalcatura, il muro, il ponte minaccia di r.; che rovinare possa questa casa infino ai fondamenti (Sacchetti); riferito a elementi naturali del terreno: durante la mareggiata un gran tratto di costa è rovinato a mare; in usi fig.: dalle somme vette Roma antica ruina (Leopardi).

6 Marco Dezzi Bardeschi, La rovina per restauro, in Le rovine nell’immagine del territorio calabrese, pp. 291-303.

7 Marcello Barbanera, Op. cit., p. 16.

8 Come ad esempio la teoria del restauro di Paolo Marconi, ben esplicata nel volume Materia e Significato. La questione del restauro architettonico.

9 Alois Riegl, Il culto moderno dei monumenti.

10 Georg Simmel, Op. cit., pp. 121-127.

11 Maria Grazia Ercolino, Il trauma delle rovine. Dal monito al restauro, in Semantica delle rovine pp. 137-162.

12 Federico Zanfi, Città latenti, p. 69.

13 Vito Teti, Il senso dei luoghi, p. 41.

14 Idem, p. 42.

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FANTASMI

“Non so quando il mio sguardo incrociò quello dei fantasmi che mi sembrava continuassero a vivere tra le rovine ma, dall’istante in cui mi accorsi dell’esistenza di Cirella, tutte le volte che mi avvicinavo, partendo o tornando, affacciato dal finestrino del treno in corsa, cercavo le sue immagini, le sue ombre”.

Vito Teti

I luoghi abbandonati disegnano lo spazio vuoto del territorio italiano. Le case sono scatole che non contengono più la vita del quotidiano, ma custodiscono gelosamente un segreto, uno spirito. I piccoli borghi ormai spenti e silenziosi richiamano passati lontani e rappresentano la memoria storica di un mondo che è ormai scomparso. Il fenomeno dei «paesi fantasma» interessa principalmente il Centro-Sud e le zone appenniniche. Lo spopolamento dei borghi ha avuto inizio nel secondo dopoguerra, negli anni della ricostruzione, quando la vita doveva ricominciare e poteva farlo soltanto altrove, lontano dalle montagne e dai piccoli centri rurali. Si modifica il rapporto tra popolazione e territorio, e questo determinerà l’allontanamento dalle campagne e un generale processo di urbanizzazione concentrata. Lo sviluppo ferroviario costituirà inoltre il preludio alla nascita dei nuovi e grandi centri urbani, con conseguente avvicinamento degli aggregati più isolati alle zone meglio collegate. Ne consegue una sorta di duplicazione degli insediamenti: parte della popolazione si sposta a valle e parte resta ancora nei borghi.

Ma le cause dell’abbandono dei luoghi sono molteplici. Molti paesi sono stati abbandonati in seguito a guerre e distruzioni, altri perché troppo lontani dalle nascenti città, alcuni per essere quasi irraggiungibili. I terremoti e le alluvioni che hanno reso impossibile la ricostruzione dei centri distrutti hanno - 47 -

innescato la nascita di nuovi nuclei in cui abitare e il conseguente spostamento di intere popolazioni. Sarebbe quasi possibile tracciare delle mappe, delle geografie dell’abbandono, in grado di collegare la storia e il destino di tutti quei luoghi definiti “minori” ma che sono parte integrante dell’immagine del nostro Paese.

La Calabria mostra un’immagine peculiare dell’abbandono. Profondamente segnata da continue invasioni, distruzioni e ricostruzioni, questa terra è piena di paesi in cui il tempo si è fermato. Sembrano antiche fotografie messe a far da sfondo alle spiagge. La forte e continua emigrazione ha spento le case, qualcuna con la speranza di un ritorno, altre con la consapevolezza dell’abbandono. Ma nonostante le continue partenze, l’idea della fine dei paesi è sempre stata lontana, finché tanti sono rimasti vuoti e in silenzio. Ancora oggi, nonostante la fine dell’emigrazione, la Calabria sembra vivere due vite: una di andata e una di ritorno. I paesi sono pieni di gente in estate e nelle festività, quando tutti tornano dalle grandi città, mentre restano solitari e spopolati in inverno.

Il destino di questi paesi sembra quello di essere quinte teatrali di eventi o avvenimenti sporadici, e questo è probabilmente gran parte del loro fascino.

Alcuni si fanno scoprire, altri vogliono darci la certezza che resteranno lì, a ricordo dei luoghi che gli uomini sembrano aver perduto. Sono metafora «di una storia di dissoluzione e contemporaneamente della voglia di presenza e resistenza delle popolazioni».1 Negli ultimi anni si è sviluppato un grande interesse per i paesi abbandonati, che ha posto molti interrogativi sulla gestione di questi luoghi, sul loro significato e sul loro futuro2. Le proposte e le iniziative che si sono attuate vanno dalla semplice e scontata promozione turistica alle soluzioni più alternative come l’albergo diffuso. Molti borghi sono stati addirittura messi in vendita nella speranza di salvarli, altri sono rinati attraverso comunità di artisti. E’ noto il caso ligure del borgo di Bussana Vecchia, abbandonato per decenni sul promontorio imperiese in seguito a un violento terremoto3 e ultimamente restituito al territorio non più come fantasma ma come luogo di produzione dell’arte.

E’ impossibile tuttavia arrivare a definire una soluzione univoca per la gestione dei paesi abbandonati, in quanto ogni luogo ha le sue peculiarità, un diverso grado di pregio architettonico e un diverso stato di abbandono.

Ci sono borghi facilmente recuperabili perché si sono solo svuotati ma che non sono ancora in rovina; altri ostici in cui è difficoltoso ipotizzare un ritorno alla vita; altri ancora che presentano solo ruderi come tracce di una - 48 -

precedente esistenza. Ogni luogo necessita perciò di essere analizzato nelle sue caratteristiche specifiche, per arrivare a definire la migliore strategia di intervento, o di non intervento.

Ogni luogo ha una storia, anche quando non è sempre facilmente decifrabile, e tutti i luoghi hanno una vita: nascono, cambiano. Possono morire, essere abbandonati o entrambe le cose. A volte possono rinascere.

Vito Teti, Il senso dei luoghi, p.9 Si veda ad esempio l’interessante pubblicazione Conservation-Reconstruction, Small Historic Centers. Conservation in the midst of change a cura di Rodica Crisan, Donatella Fiorani, Loughlin Kealy, Stefano Francesco Musso.

3 Il caso di Bussana è molto analogo a quello di Cirella, sia per l’abbandono del vecchio insediamento, sia per avere ricostruito un suo doppio a mare.

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Sul retro Mileto, foto di Bruno Stefani

RITORNO

Piatti realizzati con la tecnica del Kintsugi

KINTSUGI

“Il frammento è ciò che è colmo di una interezza potenziale che aspira alla totalità come trascendimento di sé”.

Franco Purini

Le cose rotte, frantumate, non hanno più l’immagine della bellezza. Esse diventano immediatamente un rifiuto da scartare, in attesa di qualcosa di nuovamente utilizzabile, perché perfetto.

Oggi “bello” sembra essere sinonimo di intero: si scarta l’imperfezione, si getta, si sostituisce. Sentiamo il continuo bisogno del nuovo, e quando questo ci stanca, passiamo ad un altro nuovo, rifugiandoci in una dimensione atemporale, un’illusione che ci fa credere che niente invecchierà più. Inorridiamo alla vista degli oggetti arrugginiti, le cose sorpassate ci fanno sentire a disagio.

Non ripariamo più niente perché tutto è intercambiabile. Non accettiamo di essere succubi del tempo, vogliamo esserne artefici, cancellando qualunque traccia di invecchiamento. La malattia e la vecchiaia non sono fatte per un presente in continuo movimento, in costante rigenerazione e sostituzione.

Nella cultura orientale, dove il tempo è ancora considerato come un flusso spontaneo e indomabile, buttare via qualcosa di rotto è un sacrilegio.

La concezione estetica giapponese esula dalla pratica “usa e getta” che tanto governa il modo di vivere occidentale. La rottura acquista un alto significato, che racchiude in sé l’essenza del mondo.

Tra le cose e gli eventi esiste un intervallo, un vuoto chiamato «Ma» che è una zona neutra, densa di possibilità. La patina e l’usura dettate dal tempo si - 57 -

legano a un’idea di eleganza austera, raffinata ma ruvida, fatta di tagli e frammenti. Il taglio, «Kire», è metafora del passaggio e di una mancanza di attaccamento alle cose materiali, che sono “dense” ma transitorie. In questo sistema di elementi che sembrano essere vere e proprie entità spirituali, i luoghi, i corpi e le cose racchiudono un’ineffabile grazia, una bellezza segreta che non scompare se viene intaccata da una crepa, ma ne esce impreziosita. Intrecciati lungo un indissolubile unicum spazio-temporale, questi elementi si declinano in diverse forme: dal teatro all’arte dei giardini, dalla poesia alla pratica architettonica, passando anche per le semplici azioni quotidiane, come la cerimonia del tè. Tutto influisce sullo stile di vita e la maniera di intendere e sentire gli oggetti. I manufatti, di qualunque genere, hanno, per i giapponesi, la potenza dell’effimero e dunque il senso ciclico del divenire; hanno un peso, una presenza drammatica, persino un sensibilità. Sono testimoni, come e più degli esseri umani, di una bellezza fatta di grazia e di consunzione.

Di tutto questo si nutre l’antichissima arte del Kintsugi, nata intorno al XVI secolo e tramandata di generazione in generazione, coltivata oggi da moltissimi designer e artigiani, anziani o giovanissimi.

Kintsugi è una tecnica con cui si riparano stoviglie di ceramica rotte, esaltandone le crepe e le fratture. I cocci, fissati tra loro con un impasto di cera e colla di riso, evidenziano naturalmente le linee di sutura che diventano, insieme alle piccole scheggiature, delle decorazioni spontanee. Qui, lungo le sottili ferite, i maestri di Kintsugi distendono della polvere d’oro, così da riempire e impreziosire le “cicatrici”. Ed ecco che la sostanza malandata di un piatto o una scodella, i segni della loro fragilità e impermanenza, diventano una storia da raccontare, un insegnamento da conservare, una scrittura aurea in cui trovare il senso delle cose. La pratica del rattoppo è allora un modo per produrre bellezza nuova a partire dal vecchio, dall’unicità degli oggetti e dal loro insistere nel solco di un tempo sacro, circolare, non cronologico.

Gli intrecci luminosi e malinconici dei keshiki1 sono come paesaggi. Linee irregolari, ruvide, imperfette, consunte, in cui si disegnano la grazia, l’eleganza e la nobile pienezza del vuoto. Alla distruzione non corrisponde perciò la sostituzione, bensì la rigenerazione, che alimenta il concetto di un’infinita narrazione. Non c’è alcun tentativo di nascondere il danno. L’imperfetto diventa sinonimo di reale, naturale, umano.

Allo stesso modo di un piatto, un bicchiere o un vaso ridotto in pezzi, il ritorno in un luogo abbandonato e distrutto, ci interroga su come i suoi frammenti debbano essere gestiti.

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Si associano sovente la rottura e l’incompletezza soltanto alle cose antiche e sembriamo spesso perdere la consapevolezza che anche ciò che adesso è nuovo sarà, prima o poi, rovinato, vecchio e forse rotto. E’ necessario ridare valore all’imperfezione e questo «significa accettare la presenza di una variabile non controllabile che spesso cambia il finale del racconto»2.

Ritornare vuol dire ricomporre i pezzi, reinterpretarli: apprezzare la bellezza delle cose mutevoli e guardare la rottura come un nuovo inizio, capace di aprire altri scenari.

In giapponese «crepe, venature».

Francesca Ostuzzi, Giuseppe Salvia, Il valore dell’imperfezione. L’approccio wabi sabi al design, p.4

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Santurario di Ise, Giappone

CONSERVARE

“Fu proprio il carattere delle antiche opere manuali la durevolezza e la solidità, delle moderne la caducità e brevità.

Nei tempi intermedi fra l’antico e il moderno, osservando i monumenti materiali che si avanzano, si trovano evidenti segni e dell’antiche illusioni e del sopravveggente disinganno”.

Giacomo Leopardi

Il problema della tutela dei monumenti è sempre stato motivo di scontro tra due principali correnti di pensiero: il restauro e la conservazione. La cultura architettonica storicista, sviluppatasi a partire dai restauri scientifici di Viollet-le-Duc, ha sempre privilegiato interventi ricostruttivi, interpretando il patrimonio architettonico come fatto morale ed educativo. I manufatti architettonici hanno in questa concezione un forte valore di testimonianza da trasmettere alle generazioni future, e diventano quindi fondamentali la tutela e la ricostruzione a scapito della loro autenticità. Autenticità che è invece la linea guida del nucleo sempre maggiore di specialisti e appassionati guidati da John Ruskin che sostengono il secondo e più moderno punto di vista: la conservazione.

Il trascorrere del tempo e il diritto di morire sono gli elementi essenziali che definiscono la fisionomia di un’architettura compiuta che doveva avere la possibilità di concludere il suo ciclo: divenire rovina, tornare natura.

Oggi viene però da chiedersi se la conservazione rappresenti effettivamente il momento conclusivo nella definizione di una risposta alla querelle o se non costituisca invece, attraverso l’imbalsamazione, un limite al ciclo vitale proprio degli edifici.

Nel panorama europeo l’Italia si è contraddistinta per gli scrupoli, talora - 61 -

eccessivi, nei confronti della storia, in particolare assumendo verso l’architettura criteri formalmente simili a quelli adottati per le opere pittoriche, scultoree o le pagine scritte. Ma è fondamentale ricordare la natura dell’oggetto architettonico, che è «un organismo strutturale vivente che fa parte inscindibile di un organismo urbano o territoriale anch’esso vivente, di ordine superiore, dal quale è impossibile fare astrazione»1 mentre l’oggetto d’arte «abbisogna di cure che riguardano più la sua epidermide che la sua struttura»2.

Inoltre in pittura e nelle arti figurative le operazioni di restauro incontrano spesso fasi e momenti interpretativi mentre l’architettura sembra essere ancorata a una forma di feticismo conservativo. Infatti mentre si accetta la reinterpretazione degli affreschi della Cappella Sistina che ha eliminato le aggiunte del Braghettone, o l’interpretazione di un testo musicale antico proposta da direttori e orchestre, il restauro architettonico è stato troppo spesso congelato entro i confini della rigorosa conservazione evitando ogni manomissione della materia.

Consapevoli che l’architettura costituisce una parte importante della memoria solida dell’umanità, il recupero dell’esistente patrimonio architettonico, oltre che per la trasmissione dei valori da una generazione all’altra, diventa centrale nei processi di rigenerazione e riqualificazione del tessuto urbano, o del territorio che fino ad oggi ha pagato lo scotto della mancanza di un’attenta pianificazione.

Succubi della necessità di “conservare per le generazioni future” priviamo della possibilità di rinascita qualsiasi manufatto classificato come Bene culturale. Tra le opere tutelate dal patrimonio storico-artistico, quelle architettoniche subiscono spesso la sorte peggiore. L’architettura non è infatti nata per essere contemplata o ascoltata, bensì per essere vissuta. E’ nel suo destino l’essere rinnovabile e deperibile.

Sarebbe forse quindi utile aggiornare i canoni che dalle sue origini determinano la scienza della conservazione.

A differenza del mondo Occidentale, quello Orientale ad esempio, non ponendosi nei confronti del recupero del patrimonio storico il problema dell’autenticità dei monumenti, utilizza la ricostruzione come mezzo di conservazione. E’ interessante il caso del Santuario di Ise, in Giappone, ogni venti anni ricostruito esattamente identico a sé stesso.

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Dal riuso sarebbe dovuta partire la pratica della conservazione, se nel frattempo non si fosse sempre più allargata la forbice tra un’attività passiva finalizzata al mero recupero fisico delle architetture ed il loro reinserimento nella vita attuale, con il risultato da un lato di congelare ogni energia creativa e dall’altro di portare a credere i contenitori storici scarsamente inidonei ad ogni possibile ruolo attivo nella società attuale.

L’azione sul campo è spesso costretta tra una analisi storica esclusivamente documentaria ed astratta, ed una ricerca archeologica più attenta al reperto, che al destino dei ruderi architettonici. Questi, una volta depauperati del relativo corredo di oggetti e di informazioni, vengono spesso abbandonati, secondo una prassi in cui il restauro archeologico in situ ha finora trovato posto soltanto per i grandi siti internazionali.

Il restauro dell’opera architettonica, sia esso innovativo o conservativo, non può e non deve ignorare le scoperte concettuali e le ansie del nostro tempo, come l’azzeramento della dimensione spazio temporale (mai esistito prima).

Bisogna evitare quindi di confondere il passato con il presente e quest’ultimo con il futuro. Infatti, ricordando come anche le architetture abbiano un loro ciclo vitale, che il tempo sottopone a continue trasformazioni, sarebbe del tutto equivoco tentare di arrestare questo processo attraverso operazioni mimetiche, secondo un linguaggio ormai lontano dal nostro tempo.

Lo svolgersi della storia in architettura è evidente nelle sue stratificazioni successive, ognuna delle quali è autentica in quanto concorre all’immagine complessiva. L’utilizzazione dell’oggetto architettonico da parte dell’odierna società costituisce un ulteriore tassello in questo processo di sovrapposizione, ed è anche l’unico modo per trasmettere alle generazioni future sia il manufatto in se che la sua valenza storica3.

Pertanto la domanda di fondo è un’altra e può essere così proposta: quale rapporto esiste tra conservazione e creatività?

Trovare per un monumento o un sito urbano antico l’uso più conveniente è operazione delicata che dovrebbe derivare, oltre che dalla serie delle analisi tecniche, anche da quella del ciclo dei bisogni reali della nostra società. L’esigenza di fruizione, l’adeguamento normativo, l’abbattimento delle barriere architettoniche, la sicurezza attiva e passiva sono i vincoli, talora anche pesanti, di cui la conservazione ed il restauro delle architetture storiche devono tener conto. L’uso diffuso a museo o centro culturale, come troppo spesso proposto, è soluzione facile (nonostante tutto, talora anche sconvolgente) che però sposta il problema senza risolverlo. Riutilizzare non significa salvaguardare. E’ necessario comunque fare appello alle tecniche di conservazione - 63 -

e di mantenimento dell’edificio, poiché senza la sinergia di un atteggiamento innovativo con uno conservativo è impossibile arrivare a soluzioni di qualità. La scelta della soluzione architettonica e dei mezzi tecnici adeguati può non essere sufficiente ad assicurare la continuità della vita dell’edificio, che resta anche legata alla creatività, alla sensibilità ed all’intelligenza di chi l’ha costruito, cui si aggiungono, arricchendolo, le stratificazioni successive, la cui conservazione è certamente uno dei limiti più difficili da osservare in ogni lavoro di recupero.

Questo metodo di lavoro dovrebbe essere applicato tanto agli edifici storici quanto, in prospettiva, alle realizzazioni architettoniche recenti. Tale applicazione però si fa ardua dal momento in cui la tendenza generazionale è quella di produrre edifici non pensati per durare oltre la nostra fruizione contemporanea. Ne consegue un attaccamento morboso verso le tracce del passato, al quale si guarda come l’unico passato possibile, che non potrà essere né alimentato né sostituito dai ruderi dell’architettura contemporanea. Quello della qualità dell’architettura attuale nel suo complesso è uno dei punti più controversi del nostro sviluppo. La fragilità del patrimonio di nostra produzione, brutalmente sottomesso alle turbolenze speculative del mercato, ha oramai tolto alla creazione architettonica la speranza di una lunga sopravvivenza, relegandola nello spazio del provvisorio e come tale svincolato pertanto dalla responsabilità di essere termine di paragone per le generazioni future.

Paolo Marconi, Materia e significato, p.7.

Ibidem.

3 Carta del Restauro di Venezia (1964), ), Art. 4: La conservazione dei monumenti impone innanzi tutto una manutenzione sistematica 1 2

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PRESERVATION IS OVERTAKING US

We were lucky in 2002 to receive a commission from the Beijing government that enabled us to try to investigate and define for China a specific form of preservation. This is one of those unique moments in which we come closer, and maybe I should say in this case that I come closer, to one of my most intimate utopian dreams, which is to find an architecture that does nothing.

I’ve always been appalled that abstinence is the one part of the architectural repertoire that is never considered. Perhaps in architecture, a profession that fundamentally is supposed to change things it encounters (usually before reflection), there ought to be an equally important arm of it which is concerned with not doing anything. To the extent that this may sound like I am coveting an appointment in [Columbia’s] historic preservation department, it may not be far off.

What we started to do is look at preservation in general and look at a little bit at the history of preservation. Now, the first law of preservation ever defined was in 1790, just a few years after the French Revolution. That is already an interesting idea, that at the moment in France when the past was basically being prepared for the rubbish dump, the issue of preserving monuments was raised for the first time. Another equally important moment was in 1877 where, in Victorian England in the most intense moment of civilization, - 65 -

there was the second preservation condition. If you look at inventions that were taking place between these two moments - cement, the spinning frame, the stethoscope, anesthesia, photography, blueprint, etc. - you slowly realize that preservation is not the enemy of modernity but actually one of its inventions. That makes perfect sense because clearly the whole idea of modernization raises either latently or overtly the issue of what to keep.

We then looked at the history of preservation in terms of what was being preserved, and it started logically enough with ancient monuments, then religious buildings, etc. Later, structures with more and more (and also less and less) sacred substance and more and more sociological substance were preserved, to the point that we now preserve concentration camps, department stores, factories and amusement rides. In other words, everything we inhabit is potentially susceptible to preservation. That was another important discovery: the scale of preservation escalates relentlessly to include entire landscapes, and there is now even a campaign to preserve part of the moon as our most important site.

Then, we started looking at the interval or the distance between the present and what was preserved. In 1818, that was 2,000 years. In 1900, it was only 200 years. And now, near the 1960s, it became twenty years. We are living in an incredibly exciting and slightly absurd moment, namely that preservation is overtaking us. Maybe we can be the first to actually experience the moment that preservation is no longer a retroactive activity but becomes a prospective activity. This makes perfect sense because it is clear that we built so much mediocrity that it is literally threatening our lives. Therefore, we will have to decide in advance what we are going to build for posterity sooner or later.

Actually, this seems an absurd hypothesis, but it has happened, for instance, in the cases of some houses that were preserved at the moment they were finished, putting the inhabitants in a very complex conundrum.

We then started to look how to apply this to the issue of preservation. Of course, preservation is also dominated by the lobby of authenticity, ancientness, and beauty, but that is, of course, a very limited conception of preservation. We started to conceive and imagine that you could perhaps impose upon the entire center of Beijing a kind of bar code and declare that the bands in the bar code could either be preserved forever or systematically scraped. In such a case, you would have the certainty that you preserved everything in a very democratic, dispassionate way - highways, Chinese monuments, bad things, good things, ugly things, mediocre things - and therefore really maintained an authentic condition. Also, you could begin to plan - 66 -

the city in terms of a kind of phasing. In all the cities that now are almost suffocatingly stable in the center and alarmingly unstable in the periphery, you could introduce a new condition of phasing where sooner or later any part of the city would be eliminated to be replaced by other stuff. You could project and plan over almost millennia to generate a situation in which each part of the city would always confront its opposite in a kind of complementary condition.

Rem Koolhaas, 2014

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RenĂŠ Burri, Ville Savoye

INVECCHIARE

“Le cose che noi crediamo essere durature son in quanto tali pure finzioni.

Se tutto scorre, la transitorietà è una qualità e la durata e l’immortalità sono solo un’illusione”.

Friedrich Nietzsche

La machine à habiter invecchia male, il Moderno invecchia male, il cemento armato invecchia male. Questi “tormentoni”, nati nella seconda metà del XX secolo, ci inseguono nel XXI e si fanno forti di ogni copri ferro caduto, ogni armatura arrugginita, ogni demolizione di edificio industriale.

Certo è quasi sconcertante, dopo aver ammirato una intonsa e scintillante Ville Savoye sui libri di architettura, alzare lo sguardo alla realtà e ritrovarla imbrattata di graffiti, scostata negli intonaci, con serramenti inservibili e impianti tecnici obsoleti. Bisogna però chiedersi da dove provenga lo sconcerto che proviamo nel guardare i moderni edifici invecchiati, se esso sia un’autentica e spontanea constatazione di “bruttezza”, o si insinui in noi attraverso meccanismi culturali e concezioni pregresse, sobillato da decenni di denigrazioni contro il cemento armato.

Innanzitutto bisogna riconoscere come non tutto il cemento armato sia stato usato in architettura all’interno del movimento Moderno, e che quindi non tutta l’architettura residenziale del XXI secolo sia assimilabile a una machine à habiter. Questo aiuta a circoscrivere e a dare una prima origine al nostro sconcerto.

Riferirsi a un edificio come a una macchina, porta la nostra mente a creare una catena di idee che vira verso i meccanismi della produzione industria- 69 -

le, dell’alienazione e spersonalizzazione della produzione, della perdita dei valori di artigianalità, sacrificio, lentezza e unicità. Assimilare l’edificio a un meccanismo si è rivelato per il Moderno un’arma a doppio taglio: se da un lato tale definizione ha aiutato enormemente la “pubblicizzazione” del movimento architettonico, puntando sui concetti di innovazione tecnologica, progresso, evoluzione futuristica, qualità abitativa, soddisfacimento delle nuove esigenze della società industriale e post industriale; dall’altro ha fatto sì che si potessero assegnare all’architettura Moderna dei nuovi attributi, sempre derivanti dal settore industriale, ma di accezione negativa. In quest’ottica un edificio Moderno non è altro che un oggetto di uso e consumo, il quale può, anzi deve, essere “aggiustato” se presenta problemi di mal funzionamento e, in ultima istanza, essere demolito e sostituito se troppo degradato. Tutto ciò si inserisce nel meccanismo che ci porta a considerare il cemento armato incapace di invecchiare. Come ogni prodotto tecnologico la sua “bruttezza” si accompagna alla sua usura, e la mancanza di eccessive cure conservative nei suoi confronti alla certezza della sua sostituibilità. Per questi motivi quando si affronta il tema del restauro del moderno, è difficile sentir parlare di conservazione, mentre le parole chiave sono demolizione e ripristino.

«Nel caso, non raro, in cui questi edifici sono proposti per la demolizione è sempre difficile sostenere le ragioni di una loro conservazione: molti sono i difetti apparentemente insanabili, scarse le esperienze di cantiere, limitato a pochi addetti ai lavori l’apprezzamento».1 Spesso riescono a salvarsi dalla demolizione solo le opere più celebri, conosciute dal grande pubblico, che vengono risparmiante più per il loro valore testimoniale che per una valenza estetica realmente riconosciuta. Anche in questo caso, tuttavia, parlare di conservazione non è corretto, poiché gli interventi di restauro mirano perlopiù a preservare i caratteri formali dell’edificio, mentre vengono totalmente trascurati i materiali e le tecniche costruttive originali, quasi che per gli edifici del moderno l’unica alternativa alla demolizione sia il «ripristino a uno stato originario mitizzato nelle sue forme, ma misconosciuto nei sui caratteri materici».2 In questo senso, si veda per tutti l’esempio del Weissenhofsiedlung, realizzato nel 1927, posto a vincolo nel 1958 e da quel momento oggetto di pesanti opere di ripristino e restauro che hanno portato a un adeguamento tecnologico (come per ogni oggetto meccanico che si rispetti) di tutto il suo apparato costruttivo, annullando l’ampio spettro di soluzioni sperimentali adottate, - 70 -

in nome dell’arresto del degrado fisico e funzionale, che non si è evidentemente riusciti ad accettare come parte di un processo di invecchiamento fisiologico degno di rispetto. Nessuno nega che il restauro dell’architettura moderna presenti delle difficoltà notevoli rispetto a quello dell’architettura storica, proprio a causa del carattere sperimentale delle sue tecniche costruttive, che a volte si sono rivelate addirittura fallimentari, ma tali difficoltà non possono frenare da un confronto serio e competente con il problema. Quando l’atteggiamento prevalente è quello del ripristino, all’immagine dell’edificio moderno nuovo di zecca e abbagliante nei suoi lindi intonaci bianchi, si sostituisce quella dell’edificio restaurato identico nella pulizia delle superfici a quello appena realizzato. Questo meccanismo, ripetuto per innumerevoli casi e attraverso i decenni, elimina dall’immaginario collettivo la possibilità di concepire un edificio moderno spogliato dei suoi attributi di macchina.

Le colature, i distacchi, l’umidità e l’usura sono tutti segni di una vecchiaia inconcepibile ed evitata a priori. Se la machine à habiter si inceppa, è proprio il suo statuto di macchina ad autorizzare un approccio migliorista3 nei suoi confronti. Ci si sente quasi obbligati ad intervenire per modificare e migliorare ciò che ha dimostrato non funzionare, sostituendo i pezzi “obsoleti” con altri tecnologicamente all’avanguardia.

Benché non tutta l’architettura del XXI secolo possa ovviamente essere fatta rientrare nel Movimento Moderno, e sia altresì frettoloso e impreciso parlare dello stesso Moderno come di una corrente di sole machines à habiter; la grande risonanza di tale “stile” rispetto agli altri ha fatto sì che l’idea che abbiamo dell’architettura in cemento armato sia inevitabilmente connessa ai concetti appena esplicati, anche quando ci troviamo di fronte ad architetture del tutto dissimili da quelle del Weissenhoff.

Un altro elemento che va a costituire il nostro sconcerto rispetto al degrado del cemento armato è collegabile al boom edilizio degli anni Sessanta e Settanta. I confini delle grandi città sono spezzati e frammentati dai nuovi quartieri di espansione residenziale; nasce l’interland nel quale proliferano macchie confuse di grigio insediamento sparse per la campagna; in ogni cittadina si eleva almeno un palazzone sopra i dieci piani che si erge prepotente sull’edilizia tradizionale. Tutte queste repentine espansioni, sia orizzontali che verticali, sono connesse da un fattore comune: il cemento armato è il materiale che le costituisce. Grandi progettisti sono impegnati nella realizzazione dei nuovi quartieri di periferia, costruiti tutti in una volta e già solo per questo atipici rispetto all’idea consolidata di città, che si fa un po’ per volta, edificio per edificio. Questi quartieri periferici, benché pensati come altamente fun- 71 -

zionali, manifestano ben presto la loro inadeguatezza e il fallimento dello zoning. Il cemento armato assorbe inevitabilmente parte del disagio che si vive in questi quartieri, uno tra i tanti capri espiatori ai quali attribuire parte delle colpe. Le città sono sempre più grigie e invivibili, e tutto il loro grigiore è “colpa” di questo cemento sovrabbondante, che non conosce limiti di forma e di espansione. Tale cementificazione è pensata inoltre più in termini di quantità che di qualità: per molti anni si è privilegiato uno atteggiamento che prevedesse una durata programmata degli edifici. L’idea del prodotto edilizio si fa sempre più simile a quella del prodotto di consumo, per il quale deve essere considerata anche la variabile temporale della durata. Così le città si riempiono frettolosamente di edifici in cemento armato che vanno a comporre una massa di dimensioni enormi rispetto a quella dell’edilizia tradizionale e che, per di più, sono tutte prodotte nell’arco di un tempo brevissimo. Le architetture storiche, già prodotte in quantità non paragonabili a quelle moderne, sono state a loro volta selezionate nel corso dei secoli dal degrado e dalla distruzione per cause naturali o belliche, senza contare che per il solo fatto di essere antiche, appaiono agli occhi di tutti rare e degne di essere conservate. Quelle moderne, invece, sono sovrabbondanti e non hanno avuto il tempo di essere selezionate dal passare del tempo. E’ una massa indistinta di edifici costruiti tutti semi-contemporaneamente, che invecchierà nello stesso arco di temporale, e che crea agli occhi degli abitanti delle città un attrito visivo nuovo e spaesante. Tale sovrabbondanza genera una sorta di rifiuto del materiale e quindi del suo degrado, poiché esso si pone sotto gli occhi dello spettatore troppo frequentemente e abbondantemente per essere accettato. Non nasce una sensibilità riguardo questi edifici sia perché troppo contemporanei, sia perché troppo diffusi.

Tuttavia non si esauriscono qui i motivi che inibiscono l’accettazione dell’invecchiamento del cemento armato. Un altro fattore fondamentale è l’accelerazione temporale nella quale siamo immersi. Ogni aspetto della vita dell’uomo è succube di un’incessante4 evoluzione che progredisce a velocità esponenziale e fa sì che, per quanto riguarda nello specifico i materiali da costruzione, essi possano «apparire, ai nostri occhi, obsoleti prima ancora che storici»5.

A disturbare la nostra vista, è anche la velocità con la quale alcuni edifici si sono degradati, una velocità inusuale abituati come si era fino all’Ottocento a riferirsi a edifici per lo più in murature portanti, che presentano dinamiche di invecchiamento molto diverse da quelle del cemento. Oggi la normale durata di vita di un edificio può essere calcolata, o più semplicemente, può essere previsto che a un certo momento un altro immobile lo sostituirà.

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«L’architettura contemporanea non mira all’eternità, ma al presente: un presente, tuttavia, insuperabile. Essa non anela all’eternità di un sogno di pietra, ma a un presente sostituibile all’infinito. […] La città attuale è così l’eterno presente»6.

L’accelerazione temporale si fa talmente intensa da dissolvere la materia del tempo e proiettarci in un’epoca in cui lo scorrere del tempo e i concetti di passato e futuro non sono applicabili, mentre l’unica esperienza temporale praticabile è quella del presente. L’architettura contemporanea, in quanto segno di quest’epoca, non può essere concepita come le architetture in pietra: essa è figlia del suo tempo, e l’eterno presente non prevede la possibilità dell’invecchiamento. Se ci manteniamo in quest’ottica, il cemento armato non potrà mai né durare, né invecchiare, né tanto meno assumere il fascino della rovina, poiché il suo scopo è quello di produrre architetture che abbiano un’incessante funzionalità presente nella quale non c’è posto per la dimensione storica e nella quale il passato viene eliminato.

Questi sono, in sintesi, alcuni dei fattori che rendono l’invecchiamento del cemento armato deprecabile agli occhi di molti. Cerchiamo ora di sfatare i tormentoni iniziali, e fare un passo propositivo verso l’accettazione delle alterazioni sul calcestruzzo armato.

Va innanzitutto abbandonato il preconcetto che lega il cemento armato alle machines à habiter, riconoscendo come ci sia tutto un ramo di architettura in béton brut che ha ben poco da spartire con la linda perfezione di Ville Savoye. Tutta l’architettura brutalista, le opere di Louis Kahn e di Carlo Scarpa, testimoniano come la vista del cemento armato non sia poi così deprecabile.

Ma rinunciare a identificare il cemento con il concetto di prodotto industriale significa soprattutto ammetterlo tra i materiali da costruzione che prevedono una durata, e che devono essere lasciati “liberi” di mostrare su di essi i segni del tempo. Insomma avere la possibilità, se ritenuti oggetti di un qualche valore storico, artistico o estetico, di essere conservati con gli stessi criteri morali che vengono applicati ai materiali lapidei.

Per quale motivo il «“mezzo pollice” consumato può costituire il valore per le architetture in muratura del passato, mentre non può essere percepito come tale per le architetture in cemento armato»7? E’ ormai più di un secolo che il cemento armato viene usato in architettura, e non è più applicabile nei confronti della sua salvaguardia il solo criterio valore di novità, ma è ormai indispensabile riconoscergli un valore storico. I tempi sono maturi in tal senso, poi- 73 -

ché la maggior parte delle norme di tutela in vigore impone a cinquant’anni la soglia oltre la quale poter riconoscere a un opera tale valore.

«Ciò che manca alla rovina moderna è in un certo senso la tempistica: da opere concepite di recente ci aspetteremmo una compiutezza che vada oltre i pochi decenni trascorsi […] perché i metodi costruttivi tradizionali ci avevano abituato a una diversa durata. Il cemento armato e le tecniche innovative ci hanno dunque spiazzato».8 Probabilmente, come accenna Cassani, la chiave per definire la difficoltà di questo processo, sta nel concetto di abitudine.

Siamo abituati da secoli a veder rovinare edifici lapidei e a leggere numerosissime opere che affrontano il tema delle rovine antiche. Tutto ciò ci ha appunto abituato, tramite una sovrastruttura culturale, ad assegnare dei valori alle rovine antiche, ma tale sovrastruttura ci vincola altresì a rifiutare che tali valori possano essere applicati anche al cemento armato. Per svincolarsi da tali schemi culturali, che ormai si sono fatti pregiudizi, ci viene in aiuto il filosofo scozzese David Hume. Secondo Hume causa ed effetto sono due fatti interamente diversi, e non necessariamente correlati come siamo soliti pensare. In tal senso l’esperienza che acquisiamo durante la vita ci illumina intorno al passato ma non ci dice nulla riguardo al futuro: ogni relazione causa-effetto rimane arbitraria e il corso della natura può sempre cambiare.

L’uomo tuttavia, si ostina a credere nella necessità di tale rapporto e fonda su di esso la sua intera vita. Così il concetto di abitudine spiega perché ci venga “naturale” considerare “bella” una rovina antica e non una moderna, ma non giustifica la necessità di tali connessioni.

Associare un valore estetico alle rovine antiche è una credenza essa stessa risultato dell’abitudine, esattamente come lo è non associarla al degrado del cemento armato. Un’abitudine fortemente radicata nei secoli, che ci ha indotti a immaginare un suo andamento continuo e immutabile, ma che invece, può essere, ed è già, modificabile. Liberarsi da questi preconcetti ci aiuta a fondare un’estetica del cemento armato che comprenda non solo i manufatti in buono stato, ma anche quelli che manifestano i segni del passaggio del tempo.

Se è vero che il tempo necessario a degradare il cemento è di molto inferiore a quello necessario a usurare la pietra, perché questo fatto dovrebbe scandalizzarci fino al punto di considerare il calcestruzzo incapace di invecchiare?

Del resto viviamo in un momento storico in cui tutto si accorcia. Le epoche - 74 -

prima di tutto e la storia con esse. In questo senso le “nuove generazioni” nate e cresciute, possiamo dire abituate, a queste epoche brevi, si trovano maggiormente a loro agio rispetto alle generazioni passate nell’attribuire una valenza estetica al cemento armato. In parte perché, vivendo da sempre immerse nell’accelerazione della storia, hanno meno difficoltà a prendere una distanza storica e temporale da manufatti anche relativamente recenti; in parte perché per loro il cemento armato non è un materiale nuovo, ma già consolidato e in parte storico: non aver partecipato alla sua nascita elimina il problema di un valore di novità ormai difficilmente applicabile.

Tutto ciò ci fa sperare che negli anni futuri le occhiate di disappunto si addolciscano, e che quelle che per ora sono poche voci fuori dal coro diventino invece una parte consistente dell’opinione pubblica, partendo ovviamente dagli “addetti ai lavori” come ad esempio la professoressa Bianca Marino che afferma: «Un edificio in cemento armato non ritorna “alla natura” come, nella prospettiva simmeliana, può tornare un edificio in muratura, o, probabilmente, possiamo anche ammettere che uno scheletro in cemento armato può tornare ad essa, ma dopo un processo di storicizzazione che deve trovare la sua espressione in una mutata, e mutante, visione estetica sia delle realtà materiche che del paesaggio estensivamente inteso. […] La conservazione non può che essere l’accettazione dell’alterazione della materia, ma anche del cambiamento delle condizioni della sua interpretazione»9.

Ovviamente questo atteggiamento non manleva l’architetto da alcuna responsabilità: non basta il buon materiale a fare la buona costruzione.

Oltre a riconoscergli la dignità che merita, bisogna essere in grado di guadagnarsi tale merito, curando la matericità e la finitura del cemento armato.

Possiamo assumere ad esempio le architetture di Carlo Scarpa che indagano la qualità tessiturale delle superfici in cemento armato a vista, sperimentando una vastissima gamma di soluzioni, spingendosi fino all’uso di «getti a contatto con continui bagnasciuga, in diretto rapporto con terreni e manti erbosi, che hanno addirittura accentuato i fenomeni di degrado, con effetti di grande interesse in una sorta di singolare processo di naturalizzazione degli elementi costruttivi. […] Il tempo ha lasciato tracce e segni che moltiplicano la disomogeneità, rendendo visibile in modo eclatante il senso del trascorrere della storia»10.

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Carlo Scarpa, Tomba Brion

O anche la fiduciosa affermazione di Tadao Ando che dichiara: «Sono attratto dai materiali che invecchiano come gli uomini, segnandosi e decadendo col tempo. Le buone costruzioni del passato presentano questa caratteristica, e da questo punto di vista il modo in cui il calcestruzzo a vista di deteriora è stimolante»11.

In conclusione, se ormai è diventato eccessivo continuare a declamare una bruttezza aprioristica del degrado del cemento, non vogliamo d’altro canto esasperare il discorso nella direzione opposta, e proclamare una valenza estetica ad ogni costo. Probabilmente in medio stat virtus, ma non tocca a noi esprimere l’ultimo parere in merito. Per quanto non si faccia altro che parlare di eterno presente e di fine della storia, non dobbiamo dimenticare come questi concetti siano anch’essi figli del loro tempo e transitori come molti di quelli venuti prima di loro. Solo la storia e il tempo, non poi così morti, ma solo mutati nella forma, sentenzieranno sulla disputa. Fino ad allora, quello che possiamo fare è portare avanti un’idea di architettura coerente con sé stessa, che non si nasconde dietro facili giudizi e non ha paura del cambiamento.

Maurizio Boriani, Obsoleto prima ancora che storico. Conservare il “moderno”?, in La sfida del «moderno», p. 7.

2 Ibidem.

3 Alberto Giorgio Cassani, Moderno, troppo Moderno. Restauro o conservazione di un passato (troppo) prossimo, in La sfida del «moderno».

4 Vittorio Gregotti, L’architettura nell’epoca dell’incessante.

5 Maurizio Boriani, op. cit., p.16 6 Marc Augè, Rovine e macerie, p. 92 7 Bianca Gioia Marino, Degrado e/o valore di antichità delle architetture. Ragioni e confini della conservazione delle opere in cemento armato, In Architetture in cemento armato, p. 350 8 Alberto Giorgio Cassani, op. cit., p. 26 9 Bianca Gioia Marino, op. cit., p. 352 10 Paolo Faccio, Il calcestruzzo storico: conservazione o ripristino?, in Architetture in cemento armato, pp. 199-200 11 Tadao Ando, I materiali e la loro patina: una nuova esperienza, Casabella, n. 637, 1996, p. 28.

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Carrigogunnell Castle, Irlanda, foto d’epoca.

VITA D’ARTISTA

“Serais-je au comble de mon art?

Je vis. Et je ne fais que vivre.

Voilà une œvre.”

Paul Valéry

Sangue, flemma, bile gialla e atra. Questi gli ingredienti per creare l’infinita varietà dei caratteri umani, un composto derivante dalla mescolanza di quattro «umori» fondamentali. La diversa quantità in cui questi fattori sono dosati e amalgamati tra loro definisce il temperamento umano, e la possibile prevalenza di un elemento sull’altro caratterizza gli individui in «sanguigni», «flemmatici», «collerici» o «atrabiliari».

Convinzione già presente nella Grecia antica e teorizzata da Ippocrate, il grande medico del V secolo a.C., questa classificazione dell’uomo in base agli umori che lo costituiscono, miscelati insieme alla psiche per creare innumerevoli varianti dell’individuo, attribuiva al corretto equilibrio dei quattro elementi lo stato di salute, mentre la malattia si doveva all’eccesso di un particolare umore.

La dottrina classica dei temperamenti era inoltre influenzata dalle credenze astrologiche, secondo cui esisteva un rapporto causale tra gli uomini e le stelle in grado di agire sulla vita e gli eventi terrestri. Il carattere di un uomo era perciò determinato anche da un suo pianeta, e questo influsso si credeva talmente forte da agire non soltanto sul temperamento, ma anche sulle inclinazioni, gli interessi e i talenti professionali. Così i «sanguigni» appartenevano a Giove, i «collerici» a Marte, i «flemmatici» a Venere, mentre tutti i nati sotto - 79 -

Saturno facevano parte della categoria degli «atrabiliari» , meglio conosciuti come malinconici.

Con il suo incedere lento nell’itinerario celeste intorno al Sole, questo pianeta solitario abbracciava tutti quegli individui di animo cogitabondo, di atteggiamento pensieroso, astratti dalla realtà quotidiana ed era immagine e simbolo della loro inquieta forma del vivere1.

La tipologia del carattere saturnino, in cui l’atra pare essere eccezionalmente sviluppato, talvolta squilibrato, era considerata già da Aristotele come quella in cui attecchiva meglio la creatività, accompagnata da una serie di attributi quali l’eccentricità, l’estraneazione, la tendenza alla depressione o l’ossessività per il proprio lavoro, tutte manifestazioni che connotavano la personalità, più o meno esibita, attribuita a chi praticava l’attività artistica.

Di carattere ciclotimico, la predisposizione a operare nel campo artistico è costituita da un’alternanza di stati di euforia ed esaltazione a momenti di malinconia o in alcuni casi, depressione. Questo ha spesso portato a descrivere gli artisti come pigri, ma in un’accezione diversa dalla svogliatezza, più vicina al concetto di “ozio creativo”. Gli artisti nutrono un forte bisogno di introspezione, legato alla necessità di silenzi, pause a volte piuttosto lunghe.

L’artista non cerca né sforza l’ispirazione: aspetta. Quando questa arriva, sotto forma di furor creativo, egli agisce senza inibizione, in un atto che lega l’anima al gesto e bypassa la ragione.

Non esiste tuttavia nella creazione artistica un “how to”, un processo di azione univoco, né è possibile indagare a fondo come l’atto creativo venga concepito, in che modo questo prenda forma e si traduca in opera. Durante l’atto di creazione, l’artista va dall’intenzione alla realizzazione, passando per una catena di reazioni totalmente soggettive e incoscienti. Quale sia la vera genesi dell’arte resta perciò un intimo segreto tra ideazione ed esecuzione.

Oggi più che mai svincolata dalle cornici e dal tempo, l’arte si evolve così in fretta da essere ora immagine, ora oggetto, ora evento, ma conserva quell’intento che sembra essere il fil-rouge dell’arte contemporanea2: mostrare l’invisibile, creare atmosfere.

«Fortemente attratto da tutte quelle vibrazioni che vivono all’interno di ogni esistenza e da tutto ciò che non si può esprimere con le parole»3, l’artista contemporaneo crea mondi per la dimensione interiore, coinvolgendo anche l’anima dello spettatore, che diventa parte attiva dell’opera.

Una particolare “categoria” d’arte, sviluppatasi a partire dagli anni Settanta - 80 -

e che sembra attecchire molto bene nella frenetica vita dell’oggi è l’installazione artistica. Diversa dall’happening o dalla performance, l’installazione artistica è forse il tentativo di rappresentazione più visibile e tangibile della mente creativa. Già anticipata da Kurt Schwitters nel suo Merzbau, uno spazio interno astratto invaso da svariati oggetti e costruzioni, essa costituiva una sorta di autobiografia dell’artista, una riproduzione labirintica della sua mente. A differenza del dipinto, che cattura l’occhio dell’osservatore ma lo pone dinanzi a sé, l’installazione non solo cattura l’occhio, ma lo accompagna in un universo parallelo, quello dell’arte, creando una circostanza in cui siamo dentro l’opera, e possiamo osservarla, percorrerla, toccarla.

Sebbene la performance avvicini lo spettatore all’ideatore, questa ci pone comunque davanti al “fatto compiuto”, mostrando già l’idea rappresentata e non l’idea stessa. Sarebbe impossibile elencare secondo una sequenza ordinata i meccanismi che portano alla creazione. L’infinita quantità di opere e forme è dimostrazione di quanti modi di concepire l’arte possano esistere, ciascuno subordinato alla singola personalità di ogni artista.

C’è tuttavia una sorta di «morbo comune» particolarmente affezionato agli artisti, che ne alimenta e muove l’interiorità, e che ha contribuito a delineare la loro immagine nel tempo: la malinconia.

Vicina compagna dell’artista Rinascimentale e spesso tarlo dell’artista moderno, quest’amante fedele che arriva senza invito sembra essere sua intima confidente. Albrecht Dürer ci dà forse la più celebre e discussa rappresentazione di questa “dolce malattia”. Nell’incisione del 1514, la Melencolia acquista autonomia come allegoria a sé stante, diventando una sorta di dea del fare artistico. Derivata probabilmente dalla rappresentazione del mito di Penelope, afflitta e inconsolabile per il non ritorno di Ulisse da Troia, questa donna assorta nei pensieri siede in terra, con la mano a sorreggere il viso e lo sguardo altrove. Nonostante l’incisione mostri una personificazione, dando un volto e fattezze umane a uno stato d’animo, la sua forza non è in quello che è rappresentato, ma in ciò che non è rappresentato. Noi vediamo infatti una semplice donna seduta e circondata da enigmatici attributi, ma percepiamo la malinconia.

Questa atmosfera di distacco e alienazione sarà ripresa in tutte quelle opere che rielaborano l’immagine della malinconia seduta a sorreggere una mente forse troppo pesante, pensante.

La ritroviamo alienata e angosciata in riva al fiume nelle tele di Munch4, ghiacciata negli spazi urbani e metafisici di De Chirico5, o in Escursione nella filosofia di Hopper, dove la malinconia è diffusa. Poco importa di quali pensieri - 81 -

A destra: Albrecht D端rer, Melencolia Sopra: Ludwig van Beethoven, An die Freude, manoscritto

attraversino la mente dell’uomo: distante dalla donna alle sue spalle, anziché guardare la natura oltre la finestra, osserva il suo riflesso sul pavimento. Egli è molto lontano dalla stanza.

Non meno presente in poesia, dalla dichiarata Ode to Melancholy di John Keats a L’infinito di Leopardi, la malinconia è stata anche il leitmotiv di molti compositori. Pulsioni di gioia, impeto, slancio si alternano al «bemolle»6 della malinconia nelle brevi composizioni di Chopin, pianista segnato da un’esistenza fatta di stati d’animo forti e altalenanti. Il suo Scherzo op.39, nasce dalla contemplazione delle rovine della Certosa di Valldemosa e l’immagine di un passato distrutto è occasione per esprimere la sua condizione esistenziale: «siam vecchi cembali, su cui il tempo e le circostanze hanno suonato i loro piccoli trilli infelici».7 Con il famoso An die freude, l’Inno alla gioia a tutti noto, Beethoven chiude la sua ultima sinfonia, la rivoluzionaria “Nona”, e dopo dieci anni di silenzi e solitudine invita gli uomini a godere della bellezza della vita. C’è qualcosa di paradossale in questo, e di sublime: l’ode è dedicata alla gioia ma esprime tutta la malinconia e la tristezza di una vita turbata, il limite di un uomo affranto che della spensieratezza non ha mai potuto godere.

La malinconia come stato d’animo, come Stimmung, questa «bile nera» che plasma gli uomini e li getta nei laghi ora limpidi ora oscuri dell’anima8, è emozione sorella della nostalgia, ed entrambe sembrano vivere in un tempo che poteva essere e non è, o che è già stato ma tende ancora pesanti reti al presente.

Questa perdita di contatto con il tempo del reale genera un senso di angoscia e inadeguatezza, incrina il rapporto con la dimensione naturale del vivere e spesso si traduce in una forma particolare di disagio esistenziale, in grado di oggettivizzare9 le sensazioni attraverso lo strumento espressivo dell’arte.

Quando come un coperchio il cielo pesa grave e basso sull’anima gemente 10, questa cerca di difendersi, plasmando gli stimoli del reale in quelle “forme” che chiamiamo opere d’arte. Che sia lo spleen baudelairiano o «la cosa» che assale il personaggio sartriano di Antoin Roquentin, tanto da aggrapparsi allo stomaco e portarlo alla Nausea11, questo sentimento di malinconia, ora delicato ora penetrante, sembra inscindibile da quel momento ermetico che precede l’atto creativo. Certo, non tutti sono angosciati, malinconici o depressi, ma la sensibilità che connota alcuni uomini come artisti li trasporta sovente in una dimensione lontana da quella reale, profondamente intima e trasognata, - 84 -

continuando ad alimentare questo modello di artista “strano”, malinconico o talvolta “pazzo”.

«Possiamo apprezzare la bella musica, i bei quadri, migliaia di splendide cose senza però sapere quanto sono costate in termini di insonnia, lacrime, risate spasmodiche, eczemi, asma, epilessia e un terrore della morte ben peggiore di ogni altra cosa» 12 ma non riflettiamo molto sul fatto che le opere più belle ci sono spesso arrivate da personaggi nevrotici. Nei suoi diari, Virginia Woolf, consapevole di quanto la depressione fosse sempre in agguato nella sua vita, si interroga spesso sulla tristezza e si chiede se questa non faccia addirittura parte integrante dello sguardo «moderno» sulla realtà. Un eccesso di umor nero porta a quell’incrinazione della malinconia che riversa nella profonda angoscia e nella depressione o, nei casi estremi, nella malattia mentale e nel suicidio.

Il presunto legame tra genio e follia, forse una delle nozioni caratteristiche della nostra cultura, è stato più volte indagato da ricerche psichiatriche. Sebbene le vite delle persone di talento abbondino di stati di isolamento, inibizione o irritabilità, alternati a episodi di sciolta produttività, non è assolutamente verificato che ogni persona che presenti un particolare estro creativo sia soggetta a squilibri psichici. Questi infatti non appartengono solo agli artisti, ma sono riscontrabili in qualunque individuo, indipendentemente dalla professione che svolge.

Eppure l’immagine dell’ “artista pazzo” è talmente radicata e spontanea, che risulta di difficile liquidazione. C’è da precisare che questo stereotipo sorge nel Rinascimento, quando gli artisti riescono a emanciparsi, e che fino all’Ottocento, la parola “pazzo” ha varie accezioni, lontane dalla terminologia tecnica utilizzata dagli psicologi moderni. “Pazzo” era (ed è, nel linguaggio comune) sinonimo di stravaganza, eccentricità, irascibilità, quindi non alludeva solo allo squilibrio mentale o emotivo. Questo ha contribuito a formare nel tempo un’immagine dell’uomo che crea, estraniato e altresì nevrotico.

L’idea dell’artista pazzo è quindi una realtà storica, e liquidandola come errata si nega l’esistenza di un simbolo generico e profondamente significativo13.

Anche se non tutti i malinconici sono soggetti creativi, anche se la malinconia non è necessariamente l’anticamera dell’arte, questo umore di fondo sembra alimentare il fare artistico.

«Da qualche parte, lo sento, ci deve essere un’idea straordinaria, ma ogni - 85 -

volta che cerco di raggiungerla, mi prende uno strano senso di apatia e mi vien voglia di sdraiarmi e dormire. Certi pittori non si curano di sapere su che genere di sedia stanno seduti. Non occorre neppure che sia comoda. Siamo tutti troppo inquieti per preoccuparci di dove si dovrebbe star seduti». 14 La vita d’artista è spesso solitaria, talvolta essenziale. Ritirarsi dalla vita pubblica è stato per molti il prezzo da pagare in cambio di un’estrema intelligenza e sensibilità. «Non sono l’usignolo, ma la capinera con il suo grido acre che si nasconde nel profondo del bosco per non essere sentita che da se stessa» scrive Flaubert a Louise Colet, mentre la vita si svolge a Parigi e lui, nella sua umida Croisset, ha interesse solo per le frasi di Madame Bovary.

«Attorno all’artista c’è un elemento misterioso che lo pone in grado di afferrare l’ambiente circostante con forza incomparabilmente maggiore di qualsiasi altra persona, ma che al tempo stesso lo isola più implacabilmente di quanto farebbe la muraglia più massiccia» 15.

E la «retraite», lo stare soli con se stessi, non è un vezzo, ma una necessità interiore. L’artista costruisce su una base quasi puramente spirituale, per cui è necessario che coltivi anche la sua anima. Stare lontano “dal mondo” per un periodo di tempo dà spazio a quei pensieri profondamente intimi che si odono solo nel silenzio.

In una foto dell’atelier Morandi, l’occhio attento di Ghirri riesce a cogliere il sottile tratto essenziale e spirituale della vita e delle riflessioni di un artista.

Un muro bianco, una finestra, il profilo di un cuscino. Tutto è luce, tutto è tela in questo gioco di interno esterno che rivela l’intimità del genio.

Esiste qualcosa nell’architettura che pare essere particolarmente assimilabile alla personalità dell’artista: la rovina. Come nell’animo dell’uomo che crea, l’incompletezza di cui la rovina è immagine riflette quel senso di incompiutezza interiore dell’animo artistico, che spinge alla ricomposizione dei pezzi mancanti.

In fondo è uno stato di «mancanza» a mettere in moto quell’arte che ha, oggi più che mai, poco da rappresentare e tanto da esprimere.

Secondo l’ideologia romantica, la grandezza delle rovine consiste nel loro essere simbolo della decadenza e metafora della caducità delle cose terrene. In Disperazione dell’artista di fronte alle rovine, un uomo nudo piange sui frammenti di una scultura antica ed esprime il forte sentimento di inferiorità e perdita di un passato irricreabile. Per l’artista contemporaneo, invece, la rovina acquista - 88 -

spesso il significato di occasione, di rinascita. Nell’immensa tavola Osiris und Isis di Kiefer, ad esempio, le rovine raccontano una storia di resurrezione: Isis ricompone e rigenera il corpo del marito Osiris, dio dell’oltretomba, straziato dal fratello Seth. Pur essendo avvolte da un pesante velo di malinconia, queste rovine sono preludio di nuove creazioni. Trovarsi davanti alle macerie significa che si è anche davanti a un nuovo inizio.

Le rovine sono vittime del tempo eppure sembrano essere senza tempo, proprio come gli artisti. Succubi del momento che vivono, malinconici, immortali. Crollano e rinascono.

Amedeo Quondam, Il gentiluomo malinconico, in Arcipelago Malinconia, p.93 Si intenda qui per “contemporaneo” il periodo che va dal XX secolo ai giorni nostri.

3 Urs Luthi in The new american painting.

4 Edward Munch, Malinconia, 1892 5 Giorgio De Chirico, Melancolia, 1912, Mistero e malinconia di una strada, 1914, e Piazza d’Italia, 1961 6 In musica, il bemolle è l’alterazione che rappresenta l’instabilità e il movimento.

7 Fryderyk Chopin nella lettera a Julian Fontana del 18 agosto 1848 8 Eugenio Borgna, Di armonia risuona e di follia, p. 105 9 Esprimere sentimenti e stati d’animo in forma concreta e materiale.

10 Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle / sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis / et que de l’horizon embrassant tout le cercle / II nous verse un jour noir plus triste que les nuits; (Charles Baudelaire, Spleen, in Les fleurs du mal, 1857) 11 La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa. (Jean Paul Sartre, La Nausea, p. 31) 12 Marcel Proust, I Guermantes 13 Rudolf e Margot Wittkover, Nati sotto Saturno, p. 115 14 Willem de Kooning in The new american painting, p.53 15 Arthur Schnitzler, Il libro dei motti e delle riflessioni.

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Nelle pagine precedenti, Anselm Kiefer, Osiris and Isis. Olio su tela - 89 -

Luigi Ghirri, Atelier Morandi n.414

LUOGHI PER SCRIVERE

Dall’alto dei ruderi di Cirella, a fianco dei resti della chiesa di S.Nicola, guardavo i paesi lungo la costa, le palafitte sul mare, vuote d’inverno, strapiene d’estate, la riviera dei cedri, come oggi viene denominata questa parte di Calabria. Camminavo da molto tempo ormai in mezzo alle pietre, alle erbe più forti delle pietre, a quelle nuove strade che si sono formate con la caduta dei muri. Ogni passo mi sembrava durasse un secolo, ogni tratto era lungo quanto un giorno d’inverno, ogni pietra che scansavo era una storia di vita che immaginavo, ogni sguardo che attraversava le pareti squarciate delle cinte murarie del paese e del castello, e che s’insinuava su quel mare che parlava di vita, mi sembrava un’ulteriore ferita che infliggevo a quelle rovine che avevano resistito agli uomini e alle formiche. Non so bene dire come, in quel luogo segnato dai tempi mi sono improvvisamente sentito senza tempo, senza passato, senza futuro, addirittura senza altro luogo. Tutta la mia vita, il mio passato, i miei rapporti, i volti delle persone amate e conosciute mi sono tornati indietro come immagini di un mondo lungamente posseduto e perduto senza rimpianto. Non so nemmeno dire se era benessere quello che provavo. Certo, in quei luoghi che sembravano obbligati alla melanconia del “tutto è accaduto”, la mia abituale melanconia si trasformava nella sensazione o nell’illusione che niente sarebbe potuto accadere.

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Durò un attimo quel senso di eternità. Poi apparvero i fantasmi e i dolori che in quel periodo mi stavano sovrastando. Mi sono seduto su una pietra lunga e rotonda, con una certa soggezione quasi per evitare di disturbare le persone che quella pietra avevano trasportato e abitato. Per un bisogno di dare ordine ai pensieri che sembravano giungere incontrollabili da troppi luoghi ho estratto dalla tasca il mio taccuino. Ho cominciato a prendere appunti sul paesaggio e sui ruderi, poi ho trascritto alcune leggende popolari su quel luogo, appena ascoltate dalla gente, e mi sono messo a scrivere l’inizio di quel racconto che non ho mai finito. Ho pensato che ormai il mio viaggio nei paesi abbandonati stava diventando, lentamente, ma forse lo è stato fin dall’inizio anche se non me n’ero reso conto, una ricerca di senso. Quel tentativo di ripensare un universo scomparso era difficilmente separabile dal tentativo di riconoscere il mio mondo perduto, di decifrare una sorta di morte che da lungo tempo mi portavo dentro. Quelle rovine parlavano anche delle mie rovine. O potrei dire che proiettavo il sentimento delle mie rovine su quel paesaggio di rovine. E quel paese abbandonato con un suo doppio, come gli altri paesi, abbandonati e non, con i loro doppi, che sorgeva ai suoi piedi mi parlava di altre doppiezze, di quelle della mia storia personale che lentamente inserivo in storie più grandi, più comuni. Le immagini caduche e resistenti, melanconiche e vitali di Cirella mi parlavano di me e dei miei, della loro malattia. In fondo è stato il desiderio di non morire che mi ha portato alla ricerca della vita anche nei paesi morti. Ho continuato a scrivere.

Vito Teti, Il senso dei luoghi

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PROGETTO

Cirella è una frazione del comune di Diamante (CS) situata nell’alto Tirreno cosentino. L’insediamento moderno si dipana lungo la fascia costiera pianeggiante, arrampicandosi appena sulle pendici del promontorio che la delimita a est. Le sue vicende storiche hanno fatto sì che l’insediamento si sia mosso più volte dalla costa alla collina e viceversa. Diversamente da altri comuni italiani però, nell’Ottocento ha definitivamente abbandonato l’insediamento collinare, e durante gli anni sessanta e settanta del Novecento ha conosciuto un’espansione residenziale imponente, che si dipana parallela alla linea ferroviaria e alla statale SS18. Il totale abbandono e disinteresse verso le strutture che compongono il borgo di collina ha provocato un progressivo e incontrollato degrado delle stesse, oggi comunemente conosciute con il nome di “ruderi di Cirella”.

Cirella antica, dai suoi 175 metri s.l.m., domina la cittadina sottostante e si staglia ben visibile per un ampio raggio della fascia costiera. Il promontorio sul quale è posata scende a valle ripidamente e si tuffa in mare in corrispondenza della Punta di Cirella, culmine di una passeggiata panoramica a mare.

Il promontorio dei ruderi è la punta di un sistema di crinale che si dipana verso oriente e comprende oltre alle rovine altri due poli: un anfiteatro costruito nei primi anni Novanta, ampiamente utilizzato soprattutto nella stagione - 95 -

estiva per concerti ed eventi culturali in genere; e il convento abbandonato dei Frati Minimi di San Francesco di Paola, edificato nel Cinquecento. Tale struttura è oggi in corso di recupero e restauro, e il progetto del Comune di Diamante prevede di riadattarla a centro culturale. E’ chiaro dunque come i ruderi di Cirella siano il punto debole di tutto il sistema, e sia necessario pensare ad un intervento che restituisca loro una vita attiva e di scambio con gli altri nodi.

Tutta la zona del comune di Diamante presenta una spiccata vocazione artistica, che si manifesta in primis nei famosi murales che colorano gran parte delle sue case, poi anche nei numerosi e seguiti festival musicali, nonchè nel celebre festival del peperoncino. Tale vocazione, unita al fatto che i ruderi fanno parte di un sistema di poli artistico-culturali, ha offerto lo spunto per ripensare al paese abbandonato come un luogo idoneo all’inserimento di un’ulteriore funzione artistica e residenziale. In tale ottica ci è venuto in aiuto il circuito di Art in Residence, una piattaforma online che raccoglie e diffonde tutti i bandi di concorso per l’attribuzione di borse che permettano agli interessanti di svolgere un progetto artistico. Tali borse vengono assegnate tramite vari tipi di bando, alcuni dei quali prevedono l’assegnazione di una residenza gratuita per un periodo di tempo prefissato, in cambio della realizzazione di un determinato progetto artistico. Da qui l’idea di ripensare i ruderi di Cirella come un nuovo tipo di villaggio composto da residenze artistiche, che dialoghino con le rovine del passato e le idee del presente.

Il primo ostacolo all’attuazione di tale progetto è dato dall’orografia del sito che, a cause delle forti pendenze, richiede in primo luogo una sistemazione generale tale da permettere un accesso non eccessivamente difficoltoso. A tale proposito abbiamo ridisegnato un presunto ma plausibile impianto urbano, usando come base le preesistenze e alcuni documenti di rilievo fornitici dal Comune di Diamante. Questo processo re-interpretativo è stato portato avanti parallelamente allo studio di tipologie di impianto simili a quella di Cirella, trovando un riferimento più che calzante del vicino comune di Fuscaldo. Tale borgo, esattamente come Cirella, presenta un impianto medioevale con il castello fortificato in sommità, attorno al quale si diramano le altre costruzioni, lungo percorsi radiali e concentrici. Complessivamente l’impianto presenta una forma triangolare con ai vertici rispettivamente il castello a oriente e due porte di ingresso a sud-est e nord-ovest.

Su queste basi abbiamo potuto ricostruire un impianto viario e ridare accesso a tutti gli edifici che compongono il borgo. Tra tali edifici poi, abbiamo stabilito una gerarchia sulla base dell’importanza testimoniale e materica che - 96 -

essi assumono all’interno del luogo. Questa gerarchia è stata esplicata tramite diversi tipi di pavimentazione. Per il castello e le due chiese si è scelta una pavimentazione in marmo; per gli ambienti ancora identificati da tutte e quattro le mura perimetrali un pavimento in cementine decorate, sullo stile della maiolica tradizionale calabrese; infine per la ricostruzione generale del tessuto una pavimentazione a lastre di porfido. Per ovvi motivi di drenaggio e permeabilità del terreno, non è stato pavimentato però tutto il sito, ma gran parte delle aree sono state lasciate a verde, segnalando tramite le lastre di porfido esclusivamente il perimetro degli isolati.

Questo insieme di pavimentazioni definisce per sottrazione le aree destinate alla costruzione delle nuove residenze per artisti. Tali residenze non si inseriscono mai all’interno dei ruderi, ma vi si affiancano complementariamente, di modo da contribuire con il loro volume a ridefinire l’impianto del paese.

Così facendo, il dialogo tra preesistenza e progetto si ripete sempre nuovo, cambiando forma e intensità per ogni residenza, in un gioco di rimandi tettonici e temporali.

Oltre a ridefinire in maniera più efficace il tessuto, questo sistema permette di creare degli ambienti a cielo aperto delimitati dai setti murari delle rovine.

Tali “stanze”, poichè pavimentate, sono potenzialmente predisposte ad ogni funzione e, prima di tutto, permettono di ritrovare un contatto vitale con le rovine, che in tal modo escono dal torpore dell’abbandono e tornano ad essere architettura.

Sono diciassette le residenze progettate per riattivare il borgo abbandonato, e sono disseminate per l’intera area del paese. Ognuna di essere prevede a piano terra un laboratorio per svolgere l’attività artistica e al piano superiore lo spazio abitativo. Questo schema deriva, oltre che da motivi funzionali, dalla suggestione tratta dalle tradizionali abitazioni rurali calabresi, che presentavano a piano a terra la bottega o la stalla e al piano superiore la casa, spesso composta di un unico ambiente. Lo sviluppo su due piani permette inoltre di mantenere un ridotto ingombro in pianta, che rimane così dimensionalmente uniforme rispetto alle preesistenze. Anche le altezze e le bucature dei nuovi volumi sono pensate per dialogare con le rovine. Le dimensioni delle bucature sono mantenute di tipologie standard e di forme allungante verticalmente a richiamare quelle già presenti nei setti in rovina. Inoltre il notevole spessore conferito alle pareti aiuta a crea un’ombra profonda, esattamente come accade per gli edifici tradizionali in muratura. Aperture di maggiore dimensione sono realizzate soprattutto ai piani inferiori per permettere un’adeguata illuminazione naturale degli spazi di lavoro.

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Per ottenere muri di spessore notevole e poter così modulare gli ombreggiamenti, abbiamo pensato una combinazione di due sistemi: un infisso a raso muro unito a una struttura a doppio guscio, di spessore complessivo di cinquanta centrimetri. ll guscio interno è composto di pareti autoportanti che perimetralmente isolano termicamente gli ambienti e sorreggono gli infissi, mentre internamente fungono da diaframmi di separazione degli ambienti.

Il guscio esterno coincide con la struttura portante ed è realizzato tramite un getto di cemento armato, che rigira in corrispondenza degli infissi di modo da avvolgerli su ogni lato. Il calcestruzzo è mantenuto a facciavista in modo da ottenere un confronto materico diretto e autentico tra le murature tradizionali preesistenti e le nuove realizzazioni. Tale sincerità di materiale è ricercata nell’ottica di sostenere la possibilità del cemento di poter essere apprezzato esso stesso un giorno come rovina.

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DISEGNI

SCENE

3

CASA PER U

3

UN PITTORE

4

CASA PER U

4

UN GRAFICO

1

CASA PER UN

11

NO SCRITTORE

1

CASA PER UN

13

NA PIANISTA

1

CASA PER UN

17

N FOTOGRAFO

BIBLIOGRAFIA

Augé Marc, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004 Barbanera Marcello (a cura di), Relitti riletti. Metamorfosi delle rovine e identità culturale, Bollati Boringhieri, Torino 2011 Berardinelli Alfonso, Arcipelago malinconia: scenari e parole dell’interiorità, Donzelli Editore, Roma 2001 Borgna Eugenio, Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, Milano 2012 Boriani Maurizio, La sfida del «moderno». L’architettura del XX secolo tra conservazione e innovazione, Unicopli, Milano 2004 Brandon-Albini Maria, Calabria, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2008 Cirillo Francesco, Diamante e Cirella, Monaco Editore, Cosenza 1993 - 125 -

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121-127 Giangregorio Guido (a cura di), Quarantacinque domande a Eduardo Souto de Moura, Clean Edizioni, Napoli 2002 Gregotti Vittorio, L’architettura nell’epoca dell’incessante, Editori Laterza, Bari 2006 Ientile Rosalba (a cura di), Architetture in cemento armato – Orientamenti per la conservazione, FrancoAngeli, Milano 2008 Koolhaas Rem, Preservation is Overtaking Us, Columbia GSAPP Books on Architecture, 2014 Maniaci Alessandra, Menozzi Luciana, Le rovine nell’immagine del territorio calabrese. Per comprendere un significato storico, Gangemi, Roma 1992 Marconi Paolo, Materia e significato. La questione del restauro architettonico, Editori Laterza, Bari 2003 Pagano Leopoldo, Studi sulla Calabria, Edizioni Cronaca di Calabria, Cosenza 1992 Pinelli Antonio, La storia dell’arte istruzioni per l’uso, Editori Laterza, Bari-Roma 2009 - 126 -

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RINGRAZIAMENTI

ELISA

Ringrazio il Relatore Giovanni Galli, per averci guidato con impegno e discrezione lungo tutto il percorso di realizzazione della tesi. il Comune di Diamante, per la disponibilità con la quale ha accettato e soddisfatto, nei limiti del possibile, ogni nostra richiesta.

Chiara, per aver condiviso con me il percorso della tesi e ogni esperienza di questi sei anni.

Grazie per ogni risata, pianto, abbraccio, spintone, confessione, sfogo, pranzo e viaggio nel quale sei stata con me. Ma soprattutto grazie di essere, ora e per sempre, la sorella che non ho mai avuto. le mie nonne e i miei genitori senza i quali, ovviamente, nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile. Grazie di aver sopportato e perfino soddisfatto tutte le miei isterie e insicurezze, mostrandomi ogni giorno cosa significa Amore.

Alessio, per essere il compagno e il sostegno di ogni mia lotta. Grazie di esserci, di spronarmi, di farti trovare ogni giorno qui per me.

Barbara, Carlo, Fabio e Marzia, i migliori disegnatori di pietre che avessimo mai potuto desiderare. Senza il vostro sostegno e l’amorevole disponibilità questo lavoro sarebbe molto meno efficace... diciamo pure non finito...!

Valentina, per esserci da una vita e capirmi meglio di me stessa. Grazie perchè so che sei con me, anche da migliaia di chilometri di distanza.

Elisabetta, per avermi sopportato con pazienza e ironia nei miei peggiori momenti. Grazie di aver percorso con me tutti gli anni della nostra crescita.

Martina, perchè sarai per sempre la mia compagna di banco, ovvero l’amica che mi sa tenere con i piedi per terra, che mi aiuta a dare la giusta dimensione a ogni cosa e che sa farmi ridere come nessun’altra.

Michelle, Laura, Gabri, il Meno, Lollo e Marco, per essermi amici nonostante i miei ripetuti e lunghi “erasmus”!

Infine, tutti coloro che direttamente o indirettamente, hanno contribuito al mia formazione e alla realizzazione di questo progetto

CHIARA

Ringrazio il Relatore Giovanni Galli, per aver dato forma alle nostre idee e per la passione che mi ha trasmesso in questi anni il Comune di Diamante, per aver condiviso il poco materiale esistente su Cirella Elisa, grande amica e sorella, per il nostro amore a prima vista, le notti insonni, le soddisfazioni e la reciproca e infinita sopportazione i miei genitori, per la loro costanza nell’essere presenti, nonostante la distanza la «mia famiglia qui al Nord» - zia Maria, zio Giò, Andre, Massi, Vale ed Esme- per l’allegria e l’unicità di ognuno i miei nonni, ormai in viaggio da molto tempo Mino e Pina, per avermi adottato e coccolata Andre, per la sua pazienza e la capacità di farmi ridere anche nei momenti più difficili Barbara, Carlo, Fabio e Marzia, i migliori disegnatori di pietre che avessimo mai potuto desiderare. Senza il vostro sostegno e l’amorevole disponibilità questo lavoro sarebbe molto meno efficace... diciamo pure non finito...!

Marzia, insostituibile mostro, per l’affinità e la spensieratezza della nostra amicizia Agnese, per la sua testa più dura della mia e i bellissimi momenti passati insieme Flavia, coinquilina e amica, per aver preparato i dolci più buoni di sempre Martina, per aver condiviso il cielo in una stanza Vanessa, Mariachiara e il Mister, perché sparsi per il mondo continueremo a ritrovarci al Black la Calabria, per essere sempre il posto in cui tornare