I mostri di Tim Burton

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I MOSTRI DI

TIM BURTON

Chiara Sbarbati



a Ludovica



Indice

Introduzione

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Capitolo 1 - Piccoli mostri crescono

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Capitolo 2 - Una filmografia mostruosa

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Capitolo 3 - Un freak di provincia

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Capitolo 4 - A che serve l’amore quando hai il cioccolato?

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Capitolo 5 - Mai dimenticare, mai perdonare

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Capitolo 6 - Tenuto insieme da un filo

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Conclusioni

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Bibliografia

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Sitografia

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Filmografia

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Introduzione Tim Burton è uno dei più importanti cineasti dei nostri giorni, capace più di chiunque altro di districarsi nel fragile equilibrio tra sistema hollywoodiano e libertà espressiva, e di influenzare la cultura visiva contemporanea, al punto che il termine “burtoniano” è ormai universalmente utilizzato per indicare “una precisa connotazione dark, gotica e macabra di un sentimento di malinconia e inquieta esclusione1”. Allo stesso tempo regista di massa e di nicchia, Burton è stato in grado di dotare i suoi film di un’autorialità estremamente pop che lo differenzia, pur possedendo un indiscutibile appeal commerciale, e che ha determinato un vero e proprio trend non solo in campo cinematografico (Lemony Snicket – Una serie di sfortunati eventi, Coraline e la porta magica, 9). Basti pensare a stilisti come Christian Stroble e Sarah Pratt o, soprattutto,

alla mostra personale dedicatagli dal MoMA ( Museum of Modern Art di New York) tra il 22 novembre 2009 e il 26 aprile 2010, in cui il weirddirector per eccellenza emerge come artista visivo a 360°: disegnatore, pittore, scultore e fotografo, oltre che, ovviamente, regista. Per capire quanto centrale sia la figura di Burton nel contesto dell’industria culturale è sufficiente sapere che gli unici tre precedenti di esposizioni temporanee dedicate al cinema dal MoMA, sono George Méliès: A Film Pioneer nel 1939, D. W. Griffith, American Film Master nel 1941, e Pixar: 20 Years of Animation nel 2005. Possiamo dire che il cinema di questo straordinario regista possiede caratteristiche così definite e riconducibili alla sua personalissima poetica, da essere diventate una sorta di marchio, dalla scelta degli attori (l’attore-feticcio Johnny Depp e la moglie Ele-

1- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani,2010. 2- A. De Baecque, Tim Burton, Lindau, Torino, 2007

na Bonham Carter in primis), agli effetti speciali retrò in stile b-movie, di cui, come nota Ken Hanke, Burton è il primo ad avere una concezione autoriale ed espressiva; dalla costante compresenza e compenetrazione dei due piani di realtà e fantasia, ai riferimenti autobiografici, soprattutto relativi alla sua infanzia; dalla citazione continua degli elementi che hanno costituito il suo immaginario (primi fra tutti i mostri del cinema horror), all’assenza di una vera e propria coerenza narrativa, sempre posta in secondo piano rispetto al “tono” e all’aspetto visivo del film. Ma l’aspetto più caratteristico di questo cineasta che “preferisce definitivamente i personaggi alle storie, e la composizione di un universo alla messa in scena2” è la presenza, riproposta con ossessività quasi patologica, di un compatto nucleo tematico riguardante il concetto di di-


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versità all’interno dei suoi film. La sua mente partorisce tenere creature solitarie e stravaganti come lui, deformi, morte, stregate, malinconiche, traumatizzate. Piccoli mostri delicati, con occhi enormi spalancati sul mondo, circondati da un alone di stupore e meraviglia, disarmati nonostante l’aspetto che fa orrore. Ma il “mostro” è tale solo nel momento in cui si presuppone una “normalità” con cui metterlo in relazione, che sia la provincia americana, i valori borghesi, una civiltà di scimmie o il mondo dei vivi. L’altro, il diverso, il bizzarro: la poetica di Burton non è che un’elegia struggente della stranezza, condannata all’emarginazione, ma allo stesso tempo via di fuga dalla gabbia della mediocrità del reale e dell’uomo comune. La visione della realtà è sovvertita: il mondo reale è tetro, statico, incastrato in una fissità che sembra morte, e ad esso si contrappone quello immaginato che è multiforme, colorato, allegro, svincolato dal conformismo dell’ordinario e dalle regole dell’apparenza. È inevitabile chiedersi il perché di tanta attenzione a queste creature. L’atto stesso del fare cinema, per Burton è un’esigenza che ha radici autobiografiche, una sorta di psicoterapia, ma, se da un lato è lecito ricercare le radici e l’ispirazione del suo universo poetico all’interno di situazioni personali, soprattutto legate all’infanzia, bisogna sempre tenere presente che “quando Burton nell’atto creativo si ritrova a pensare a se stesso, lo fa attraverso categorie esclusivamente cinematografiche, fictional o comunque sottoculturali, attraverso gli schemi di pensiero di chi si è imbevuto delle manifestazioni industriali della cultura di massa americana3”. Per questi motivi il primo capitolo racconterà l’amore precoce di Burton verso i mostri, soprattutto quelli cinematografici, esseri inadeguati ed incompresi proprio come è stato lui per molto tempo, senza tralasciare però gli elementi culturali che assorbe e digerisce nel tentativo di soddisfare il suo bisogno di fuga dalla realtà, e che andranno poi a costituire il suo immaginario, spesso espresso all’ennesima potenza da uno o più personaggi all’interno delle singole opere. Si tratta dei Burton-characters, gli 3- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010.


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alterego di turno portatori dello sguardo del regista e per questo imbevuti più che mai di riferimenti e suggestioni. Il primo io-diviso del cinema burtoniano è il protagonista di Vincent (1982), a cui è infatti dedicata una parte del primo capitolo, e che sembra essere, in rapporto all’intera opera di Burton, un prologo ricco di significati ed effetti visivi e narrativi. Il secondo capitolo altro non è che uno sguardo d’insieme sulla filmografia del regista, che, tra alti e bassi, racchiude una strabiliante galleria di personaggi strampalati ed emarginati e di favole dark dal sapore a tratti malinconico, a tratti irriverente. Nel terzo capitolo viene approfondito il discorso su Edward mani di forbice (1990), che ho scelto poiché incarna a pieno il “primo periodo” della produzione burtoniana, quello che va dagli inizi al film spartiacque Big Fish (2003). Si tratta del primo lavoro completamente gestito da Burton e di conseguenza il momento in cui emerge la forza della sua autorialità, finora frenata dalle esigenze del sistema. È la storia di un freak e del suo rapporto con la provincia, che dopo un momentaneo entusiasmo lo emargina, relegandolo, amareggiato e malinconico, ai margini di quel mondo di cui vorrebbe far parte, ma che non può nemmeno toccare. Nel quarto capitolo viene trattato il film La fabbrica di cioccolato (2005), con il suo Burton-character di turno, Willy Wonka, versione adulta, cinica e disincantata del suo predecessore Edward. Ci troviamo nella seconda fase, contraddittoria e variegata, dell’evoluzione della riflessione sul rapporto tra la società e il diverso, e tra il fantastico e il reale, in cui l’antieroe non aspira più all’integrazione, ma disgustato dalla mostruosità di ciò che per tutti è invece normale, sceglie di auto-esiliarsi. Nel quinto capitolo è il momento di Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street

(2007), il punto più estremo e rabbioso toccato dalla poetica burtoniana, in cui lo spazio lasciato all’immaginazione, un tempo necessaria, è quasi del tutto assente e il protagonista, dopo essere trattato ingiustamente come un mostro, lo diventa veramente, proprio come aveva fatto la creatura di Frankenstein. Infine, il sesto capitolo si occupa dell’ultima -almeno per il momento- creazione del cineasta, Frankenweenie (2012), in cui la diversità alla fine trova il suo posto nel mondo grazie ad un ingrediente inaspettato: l’amore, lo stesso che Edward aveva ma non poteva toccare, che Wonka non aveva avuto e che lo disgustava, e che Sweeney Todd aveva perso ed era tornato a vendicare. Siamo di fronte ad un’ulteriore maturazione, che per il momento è possibile solo intravedere, o all’inizio di una crisi creativa? Solo il tempo potrà rispondere. Quello che mi interessa raccontare attraverso la scelta di questi quattro film è l’evoluzione del mostro burtoniano, della sua posizione all’interno del mondo, dei suoi metodi di evasione dalla realtà e, quindi, di salvezza, dagli inizi ad oggi; la storia di un autore che, pur rimanendo se stesso, cresce e attraversa livelli successivi, in una sorta di viaggio spirituale, non sempre facile, che ritorna lì da dove è cominciato: da un bambino solitario, in grado di migliorare la propria realtà con la fantasia, per quanto macabra possa essere.


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CAPITOLO 1

PICCOLI MOSTRI CRESCONO

“Un uomo pallido, dagli occhi tristi e dall’aria fragile, con una capigliatura che non era solo il risultato di una lotta col cuscino, la notte prima. Un pettine con le gambe potrebbe battere Jesse Owens sui cento metri, alla sola vista dei suoi capelli. (…) Ricordo che la prima cosa che ho pensato è stata “Ma perché non dorme un po’ di più?1” Jhonny Depp


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L’outsider di Burbank Il 25 agosto 1958, a Burbank, California, nacque Timothy William Burton. Il signore e la signora Burton vivevano al blocco 2000 di Evergreen Street. Lui, ex giocatore della squadra giovanile dei Los Angeles Cardinals, lavorava da anni per la municipalità nel Dipartimento parchi e campi da gioco, mentre lei dirigeva un negozio di articoli da regalo, Cats Plus, specializzato nella vendita di oggetti a forma di gatto. Burbank era già allora un avamposto di Hollywood: vi si trovavano infatti gli studi della Warner Bross, della Disney, della Columbia e della NBC ma, nonostante questo, rimaneva la tipica zona residenziale anonima per classi medie5 e, con le sue casette tutte uguali e la mentalità immutabile, era specchio del conformismo di

massa made in USA dell’epoca Eisenhower e della grande caccia alle streghe nei confronti dei presunti comunisti. La cosa più importante era mantenere una facciata di stabilità e di “normalità”: essere simili al prototipo di cittadino standard significava essere a posto. D’altronde, era anche un modo per tenere a bada la paura di morire inceneriti da un momento all’altro a causa di un’imminente guerra nucleare, in un momento storico in cui il premier russo Nikita Krushev alle Nazioni Unite, colpendo un tavolo con la scarpa, dichiarava solennemente: “Vi seppelliremo!6”. Nel saggio Him and Me: A Personal Slice of the Dracula Century, David J. Skal7 descrive brillantemente le ansie di un bambino cresciuto durante la guerra fredda e le

4- Jhonny Depp, “Preface” in Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011). 5-“Se non eri di Burbank, pensavi che fosse la capitale mondiale del cinema con tutti gli studi che c’erano, ma era e resta davvero periferia. È buffo, le zone attorno a Burbank sono diventate meno periferiche, mentre per qualche motivo Burbank continua a essere la stessa. Non so né come né perchè, ma ha questo strano scudo attorno. Potrebbe essere ovunque, Anywhere, U.S.A.” (Tim Burton, 1994). 6- Si pensi al film Il giorno dopo la fine del mondo (1962) in cui una bomba cade su Los Angeles e la figlia del protagonista dice: “Mi chiedevo quando sarebbe accaduto...”. È significativo l’utilizzo del quando invece di se.

fascinazioni per l’horror che ne derivavano: “Qualche settimana prima della festa di Halloween del 1962, quando avevo dieci anni, lo scherzo temuto quell’anno non erano le staccionate coperte di carta igienica ma lo spiegamento di testate nucleari puntate da Cuba verso il continente americano. Non vedevo l’ora di crescere ma le deprimenti dichiarazioni televisive del presidente Kennedy indicavano con forza che forse la cosa non era molto probabile. In attesa del mio prematuro incenerimento, andai in biblioteca e studiai attentamente le immagini dei rifugi antiradiazioni pubblicate sui giornali. Quella all’interno sembrava normale gente di periferia, ma più monacale... Il rifugio antiradiazioni somigliava parecchio a una cripta in cui la

7- David J. Skal (1952-) è uno storico della cultura americana, critico, scrittore e commentatore televisivo noto per le sue ricerche e analisi sui film e sulla letteratura dell’orrore. 8- David J. Skal, “Him and Me: A Personal Slice of the Dracula Century”, Scarlet Street - The Magazine of Mystery and Horror #26, gennaio 1998.


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gente conduceva una strana vita precariamente sospesa tra il nirvana consumistico e l’oblio nucleare. Erano, mi resi conto, delle specie di vampiri, la non-morte dell’era atomica che si proteggeva da un brutto sole nucleare8”. In quei giorni negli Stati Uniti i bambini a scuola venivano istruiti su cosa fare in caso di guerra nucleare e i film dell’orrore facevano la loro ricomparsa diventando immensamente popolari tra i ragazzi al punto che nel 1958 (solo un anno dopo la riprogrammazione televisiva dei vecchi classici Universal Picture degli anni ‘30 e ‘40), iniziò ad uscire nelle edicole la rivista

Famous Monsters of Filmland di Forrest J. Ackerman. I cadaveri rianimati, i vampiri e gli zombie creavano a livello fantastico un senso di demistificazione e negazione della morte. Per i bambini dell’epoca diventare un vampiro o una qualche altra creatura immortale era una soluzione più efficace e rassicurante dei metodi di negazione utilizzati dai loro genitori, i quali ebbero soltanto l’effetto di disgustare la generazione successiva spianando la strada all’esplosione di anticonformismo degli anni ‘60. Il piccolo Tim, nato sei anni dopo David J. Skal, aveva solo quattro anni quando negli Sta-

ti Uniti era diffusa la paura di una guerra nucleare contro la Russia e quest’atmosfera fobica, macabra, quasi paranoica, si riflette nei suoi film, in particolare in quelli in cui emerge un forte lato autobiografico. La sua indole timida ed introversa ed il disprezzo per la società di mera apparenza in cui viveva, lo portarono a trascorrere un’infanzia inquieta e solitaria, e a rifugiarsi progressivamente nel proprio mondo di incubi e fantasie. Cercava conforto ed evasione proprio nei film dell’orrore, che ricorda come l’unica grande passione della sua infanzia, in particolare i film del suo idolo Vincent Price, quel-


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li di Roger Corman ispirati ai racconti di Edgar Allan Poe, Godzilla, le pellicole realizzate da Ray Harryhausen con la tecnica dello stop-motion come Gli argonauti e i “trash movies”, da Plan 9 From Outer Space a Blackula. Ispirandosi ai suoi horror preferiti, si dedicò a rivolte solitarie che consistevano in provocazioni di humour macabro e messinscene farsesche: diffondeva per esempio la voce che un disco volante era atterrato nel parco, dove aveva precedentemente costruito una carcassa e tracciato impronte misteriose, o che un evaso sanguinario si aggirava nel quartiere, per poi farsi trovare travestito da assassino per seminare il panico. A Burbank era molto forte l’idea di appartenenza, ragion per cui i suoi abitanti amavano far parte di circoli di ogni tipo. Anche Tim provò a diventare membro di un gruppo, iscrivendosi alla squadra di pallanuoto della Burbank High School al suo secondo anno,

ma la foto di gruppo ritrae un ragazzino fisicamente grande la metà di tutti gli altri, che fissa imbronciato la macchina fotografica, fuori posto come sempre. Strano e solitario, fin da subito si identificò con i mostri cinematografici, visti dalla gente spesso in maniera sbagliata, ma in realtà più sinceri di tutti gli umani che li circondano. I diversi e gli emarginati, proiezioni quasi patologiche dei suoi problemi di comunicazione, sono presenti fin dai primi film girati in casa, incentrati su lupi mannari, scienziati pazzi o cavernicoli. Sarà lui stesso, una volta affermatosi, ad ammettere il carattere terapeutico del proprio lavoro definendolo ironicamente in diverse interviste come una forma di psicoterapia piuttosto costosa. Ma Burton non provò ad intraprendere direttamente la strada del regista, preferendo concentrare le proprie energie nella creazione di uno stile di disegno personale, monocro-

9- Il California Institute of the Arts (o CalArts), aperto nel 1961, fu la prima istituzione in America a rilasciare titoli accademici nelle arti visive e dello spettacolo. Fu fondato da Walt e Roy Disney in seguito alla fusione di due scuole preesistenti, il Los Angeles Conservatory of Music (costituito nel 1883) e il Chouinard Art Institute (costituito nel 1921). Nel 1975, grazie a una donazione di 14 milioni di dollari del patrimonio di Walt Disney (morto nel 1966), venne istituito un programma speciale per la formazione di animatori che sarebbero poi andati a lavorare negli studi Disney. 10- Nel 1993 Tim Burton affidò ad Henry Selick la regia di Nightmare before Christmas e nel 1996 produsse un suo film, James e la Pesca Gigante, basato sul libro omonimo di Roald

matico ma dai forti contrasti chiaroscurali e tonali, molto pop-art e al tempo stesso intriso di vago orrore e di ossessione. È innegabile l’influenza dell’illustratore Edward Gorey (1925-2000), i cui libri cupi e bizzarri diventarono oggetti di culto negli anni ‘60. Grazie al suo talento, a 18 anni il giovane Tim vinse una borsa di studio messa in palio dalla Disney che gli permise di continuare gli studi al CalArts (California Institute of the Arts) di Valencia9. Nello stesso anno entrò alla Disney come assistente e animatore, e qui conobbe Henry Selick. con il quale stabilirà un fertile sodalizio artistico-produttivo10. I primi film Disney ai quali collaborò furono Red e Toby nemici-amici e Taron e la pentola magica, ma i suoi disegni venivano considerati inadeguati11 e puntualmente scartati dalla produzione a causa dell’ispirazione macabra e bizzarra che li caratterizzava. Così gli vennero dapprima assegnate le scene

Dahl. Quest’ultimo film fu però un flop al box office, anche a causa della scarsa promozione del film da parte della produzione, e causò la rottura del rapporto tra i due registi. 11- “Davvero non potevo farlo. Non riuscivo nemmeno ad imitare le volpi Disney. Quelle che disegnavo io sembrano investite da un’auto” (Tim Burton, Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011)).



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più lontane in cui i dettagli non erano importanti, e successivamente gli fu affidato il ruolo di conceptual artist, ma le sue idee continuavano ad essere troppo strane per un uso commerciale. Per Burton questo fu un periodo di totale malessere che lo portò a soffrire di ipersonnia, un meccanismo di fuga che si manifesta in caso di gravi depressioni, e addirittura a cercare rifugio sotto il tavolo o negli sgabuzzini. Ma due dei personaggi più importanti della Disney rimasero colpiti dai suoi schizzi: si tratta della produttrice Julie Hickson (con cui poi il regista ebbe una storia) e del capo del settore sviluppo creativo Tom Wilhite. Quest’ultimo, nel 1982, decise di investire sessantamila dollari in un progetto interamente ideato da Burton: Vincent.


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Un autoritratto in fuga dalla realtà Inizialmente Burton aveva scritto il soggetto di Vincent (che consisteva in una poesia scritta nello stile del Dr. Seuss12, il suo autore preferito di narrazione per l’infanzia) pensando di farne un libro per bambini. Quando gli venne data l’opportunità di renderlo un cortometraggio, con tanto di autorizzazione della Disney ad utilizzare le loro attrezzature, scelse di girarlo combinando insieme due tecniche che solitamente si escludono a vicenda: la prima è quella dell’animazione tradizionale in cui una serie di disegni viene fotografata un fotogramma alla volta per dare l’illusione del movimento; la seconda tecnica è quella dell’animazione tridimensionale a passo uno13, in cui ai modellini articolati viene cambiata la posizione, la quale viene fotografata volta per volta. Per Burton, questo secondo tipo di animazione è più potente e reale rispetto alla tecnica bidimensionale. Girato in un cupo bianco e nero alla maniera dei film espressionisti tedeschi degli anni ‘2014, il cortometraggio è incentrato su Vincet Malloy, un pallido bambino di sette anni, con una massa scomposta di capelli neri, che fugge alla noia della sua ordinaria vita middle-class sognando di 12- “Io sono cresciuto con Dr. Seuss. Il ritmo dei suoi racconti mi colpiva molto. I suoi libri erano perfetti: avevano il numero giusto di parole, il ritmo giusto, erano grandi storie sovversive. É stato incredibile. Il più grande di tutti. Probabilmente ha salvato la vita a un mucchio di ragazzini e nessuno lo verrà mai a sapere.” (Tim Burton, Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011)). Dr. Seuss è conosciuto soprattutto per aver creato il personaggio del Grinch, che ruba il Natale ai bambini, quasi come Jack Skellington in Nightmare Before Christmas. 13- L’animazione a passo uno in inglese è anche chiamata stop-motion, stop-frame o frame by frame animation. 14- Burton non aveva ancora visto il Gabinetto del dottor


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essere Vincent Price. Il rimando autobiografico è mostruosamente palese. Con grande dispiacere della madre che lo esorta ad uscire a giocare, Vincent vive una realtà tutta sua, fatta di incubi e fantasie che iniziano a materializzarsi prendendo via via il sopravvento sulla realtà. Nel suo mondo immaginario Vincent abita in orridi antri con rettili e topi, uccide la zia per farne una statua per il museo delle cere15, legge i racconti di Poe e sente sua moglie chiamarlo dalla tomba. “Non sei né pazzo né tormentato / la vita non ti ha ancora neanche sfiorato” lo rimprovera la madre ma è tutto inutile: il piccolo Vincent viene sopraffatto dall’incubo e tremando si lascia trasportare dalla follia fino ad accasciarsi al suolo, con in sottofondo l’echeggiante nevermore di Il corvo di Poe: “L’anima mia da quell’ombra laggiù / non si solleverà mai più / mai più... mai più”. La voce narrante è proprio quella di Vincent Price, che dopo aver visto lo storyboard accettò immediatamente di collaborare. Capì nel profondo la storia e il talento di Burton, tanto Caligari di Robert Wiene, ma ne conosceva comunque la scenografia e la fotografia tramite le immagini che era possibile trovare in un gran numero di libri sui mostri. 15- Si tratta di un chiaro rimando a La Maschera di Cera (1953) di Andrè De Toth con protagonista Vincent Price. Anche i film cormaniani tratti da Poe e interpretati da Price sono continuamente citati: Il pozzo e il pendolo da cui pro-

che lo definì un amateur, nel senso francese del termine: innamorato di qualcosa. Vincent Price, Edgar Allan Poe, i film di mostri: le cose che più avevano appassionato Burton da ragazzo sono tutte condensate il questo capolavoro di sei minuti. Inoltre vengono già delineati i tratti tipici (anche questi autobiografici) del cinema burtoniano, dalla difficoltà di integrazione provata da individui fuori dalla norma, alla la fuga dalla realtà tramite la creazione di un universo personale; dalla predilezione per l’animazione a passo uno a un certo humor macabro. La mostruosità compare qui sia dal punto di vista estetico/visivo, sia come soggetto dell’immaginazione del protagonista sia come stato sociale di outsider (lo stesso in cui si riconosce Burton). Ma Vincent non è solo l’autoritratto del regista: è anche una delle prime rappresentazioni su schermo della cattiveria innata dei bambini. Ovviamente esistevano già degli esempi di marmocchi pestiferi o addirittura perversi, come le piccole pesti di La Calunnia (1936) e del suo rifacimento Quelle due (1962), o la bambina assassina di Il giglio nero (1956), per non parlare di certi episodi televisivi di “The Twilight Zone” e “Alfred Hitchcock Presents”. Ma mentre questi erano film per adulti, Vincent è a tutti gli effetti un film indirizzato ai minori, in cui tra l’altro il protagonista non è un’aberrante peste, ma un bambino quasi comune della generazione di Burton. Considerando che i film Disney fino ad allora erano stati popolati soltanto da bimbetti bellocci e precoci, la figura di un ragazzino non malvagio e non mostruoso che giocasse fantasticando volontariamenviene la fantasia del bambino di trovare sua moglie sepolta viva, La tomba di Ligeia a cui si rifà il ritratto della moglie, La piccola bottega degli orrori (la storia non è tratta da Poe ma è comunque un film di Corman interpretato da Price) da cui proviene la pianta carnivora che compare insieme alla scatola a manovella in Vincent e soprattutto la figura dello scienziato pazzo.



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te di trovarsi in situazioni così macabre era fin troppo realistica, e quindi inquietante, per un’azienda che aveva sempre e solo venduto sogni a lieto fine. Ed infatti la Disney cercò di convincere Burton a cambiare il finale, sconcertante secondo loro, in cui Vincent si sdraia simulando la proprio morte. Sarebbe stato più appropriato un lieto fine in cui il protagonista viene strappato dalla propria morbosità per il macabro da un invito a giocare a baseball del padre, diventando quindi un “normale” bambino Disney qualunque e ristabilendo lo status quo16. Ma Burton fece resistenza e uscì vittorioso dal suo primo scontro con quella che lui definisce “sindrome del lieto fine”17: in fondo si trattava di un cortometraggio poco costoso e difficilmente commerciabile. Uscì per due settimane in un cinema di Los Angels insieme a un dramma adolescenziale, Tex, per poi essere relegato al circuito dei film-festival più “artistici” dove ricevette critiche lusinghiere e vinse anche alcuni premi, tra cui quello della critica al festival di Annecy in Francia.

16- “Penso che le cose siano più consolanti se le lasci all’immaginazione. Ho sempre pensato che quei lieto fine attaccati con la colla abbiano un tratto di psicosi.” (Tim Burton, Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011). 17- Questa sindrome affligge un po’ tutti i lungometraggi di animazione per bambini, non solo quelli Disney. Basti pensare a La bottega dei sucidi, realizzato da Patrice Leconte e ispirato all’omonimo romanzo, o a Hotel Transilvania, prodotto dalla Sony Pictures Animation per la Columbia Pictures.


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CAPITOLO 2

UNA FILMOGRAFIA MOSTRUOSA

“I mostri sono reali e anche i fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi e a volte, vincono.” Stephen King



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Pee-Wee’s Big Adventure L’esordio di Burton nel lungometraggio avviene nel 1985 grazie all’interessamento di Paul Reubens, attore meglio noto con il nome del suo alterego, Pee-Wee Herman, un personaggio televisivo estremamente popolare, dotato di una comicità surreale ai limiti della stupidità. Così, pettinato e vestito in maniera ridicola, Reubens si decide a fare il grande salto ed approda al cinema con il film Pee-Wee’s Big Adventure. Il protagonista di questo film su commissione non è un prototipo di personaggio burtoniano, eppure si avvicina alla sensibilità del regista nella sua essenza di “bambino troppo cresciuto che indugia nel suo universo infantile18” e osserva quindi il mondo dal punto di vista dell’infanzia. Pee-Wee emerge come personaggio risultante dall’assemblaggio di caratteristiche appartenenti ad altri: il volto e lo sguardo di Harold Lloyd, la comicità di Stan Laurel e Oliver Hardy, la pettinatura di

Jerry Lewis. L’ipertrofia citazionistica è anche uno dei fondamenti del cinema di Burton che infatti colloca il protagonista del suo primo lungometraggio in un universo ricco di rimandi ad altri film (da American Graffiti a I ragazzi della 56a strada, da E.T a Otto e mezzo) e personalità cinematografiche (James Bond, Chuck Jones, Fellini, Roscoe “Fatty” Arbuckle). Inoltre PeeWee’s big Adventure consente a Burton di muovere una critica alla provincia americana19, la cui mentalità, come quella di Pee-Wee, è bloccata ad uno stadio infantile colmo di sessualità repressa, e che, come i vicini del protagonista, gestisce le anomalie semplicemente fingendo che non esistano.

18- A.De Beacque, Tim Burton, Lindau, Torino, 2007. 19- Si tratta di una tematica ricorrente nel suo primo cinema.


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Beetlejuice Spiritello porcello Nel 1988 esce il secondo lungometraggio del regista: Beetlejuice – Spiritello porcello, una commedia surreale imbevuta di topoi del cinema horror (casa infestata, maledizione, mostri, ecc...) che racconta la vicenda di una coppia di giovani sposini morti, i Maitland, la cui casa viene infestata da una famiglia borghese di vivi, i Deetz. Due sono i personaggi degni di nota in questo film: la prima è l’adolescente gotica Lydia Deetz (interpretata da Winona Ryder), appartenente al mondo dei vivi (piano della realtà) ma capace di entrare in contatto con quello dei defunti (piano della fantasia) grazie alla sua particolare sensibilità, carica di inquietudine e tendenze suicide. La ragazza è il Burton-character di turno: non a caso è appassionata di fotografia e riesce a fissare e percepire il mondo solo tramite questa pratica. Il secondo personaggio interessante è Beetlejuice (interpretato da un memorabile Michael Keaton) che per mestiere si occupa di disinfestare le case dalla presenza dei vivi: grottesco, anarchico, irriverente e volgare, il bio-esorcista è uno dei personaggi più ripugnanti messi in scena da Tim Burton.



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Batman Nel 1989 il regista viene chiamato a dirigere un vero e proprio blockbuster: Batman. I fan criticano la scelta del regista e accolgono con disappunto la notizia di una risistemazione dello script di Sam Hamm da parte di Warren Skaaren, uno degli sceneggiatori di Beetlejuice. Addirittura esplodono e bombardano la Warner e la DC Comics di lettere inferocite quando viene scelto Michael Keaton per la parte del protagonista. Nella resa della personalità del cavaliere oscuro, Burton sembra ispirarsi al primo Batman, quello appena creato, nel 1939, dal disegnatore Bob Kane, anche se in realtà il cineasta è interessato al personaggio soprattutto in quanto icona pop. Lo interpreta secondo la propria sensibilità, trascurando un po’ il lato supereroistico per puntare invece sul tema della doppia personalità e delle contraddizioni irrisolte di un uomopipistrello ambiguo, cupo, dallo sguardo folle e disperato, paladino della giustizia ma allo stesso tempo implacabile giustiziere mascherato che persegue un ordine al di fuori della legge. Anche Gotham appare più dark che mai: inquietante, disordinata, postmoderna, la città è stata concepita dal suo stesso creatore, Anton furst “come se l’inferno fosse uscito dal suolo e avesse iniziato a crescere20”. Ma il personaggio su cui Burton concentra maggiormente l’attenzione è il Joker, “creato”, per così dire, proprio da Batman, che spinge involontariamente il malavitoso Jack Napier in una vasca piena di acido verde acceso, nella nera città. Sfigurato in volto da uno sfregio che lo

costringe ad un grottesco sorriso perenne, nasce il “primo artista dell’omicidio a ciclo completo”, come si definisce lui stesso, un sovversivo terrorista truccato da clown “simbolo, forse, di tutte le avanguardie e post avanguardie americane del secondo dopoguerra, quelle che nascono là dove l’arte muore21. Simbolo, soprattutto, della contrapposizione tra spontaneità, irriverenza, vitalità e il conformismo della società, versione “politica” del conflitto fra realtà e fantasia22”, ma anche un vandalo che aderisce ad una “nuova estetica” che tende alla deformità e alla morte. L’attentato di Joker consiste nell’avvelenare i cosmetici della città, smantellando così la facciata dei mezzi di comunicazione di massa (i giornalisti televisivi sono le vittime più evidenti di questo attentato) e della società dell’immagine.

20- Tim Burton, Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011). 21- Con Partyman di Prince in sottofondo, Joker deturpa e distrugge dei capolavori della storia dell’arte figurativa e mimetica, con un balletto in cui i sono evidenti i riferimenti

all’action painting nero di Kline, ai segni di Hartung e ai tagli di Fontana. 22- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010.

Edward mani di forbice Dopo il successo di Batman, Tim Burton è diventato uno dei registi più potenti dell’industria cinematografica mondiale e può realizzare senza compromessi Edward mani di forbice (1990), basato sulla storia agrodolce di un freak (interpretato da Johnny Depp), la cui vicenda drammatica si inserisce accanto a quella di altri “mostri” cinematografici, prima fra tutti la creatura di Frankenstein, ma anche legato alla figura del ribelle che non si uniforma ai dettami della società.


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Batman – Il ritorno Nel 1992 esce il secondo e ultimo capitolo della saga di Batman affidato alla regia di Burton, Batman-Il ritorno23, su cui questa volta il cineasta ha pieno controllo24. Se nel primo film, il regista provava poca empatia per il personaggio principale, sopratutto a causa della “terribile sicurezza fanatica di un boia coscienzioso25” che lo caratterizzava, ora il lato supereroistico del cavaliere oscuro viene attenuato, anche tramite la riduzione delle sequenze d’azione, e Batman, come il suo alterego Bruce Wayne, appare sempre più misantropo e cupo. Viene introdotto un personaggio che era assente nel fumetto, il padrone (almeno economicamente parlando) di mezza Gotham, Max Shreck, alto, pallido, vampiresco26. Ma le new entry principali della saga sono due fantastici freak, nemici storici di Batman a partire dalla prima edizione del fumetto, ma profondamente rivisitati da Burton, o forse potremmo dire burtonizzati. Il primo, il Pinguino, che nella versione di Bob Kane era un raffinato criminale mafioso con tanto di tuba e frac, si trasforma qui in un essere deforme, abbandonato dai genitori nelle fogne per orrore27. Max Shreck e il Pinguino sono due figure speculari: il primo vive ai “piani alti” della società capitalistica e riversa nelle fogne tutto ciò che vuole nascondere ed eliminare, cose che il secondo cerca invece di riportare a galla. “Siamo entrambi considerati mostri, ma per qualche ragione tu sei un mostro rispettato e io...no!” dice il Pinguino a Max prima di ricat-

tarlo. Il secondo feak del film è Selina Kyle (interpretata da Michelle Pfeiffer) con il suo alterego Cat Woman, l’antagonista più storica del fumetto insieme al Joker. Ma nel film di Burton non si tratta più di orfanella che inizia a prostituirsi e poi decide di indossare un costume e diventare ladra; la donna.gatto ora è una segretaria repressa, insoddisfatta e sola che viene uccisa da Max per poi venire resuscitata da un gruppo di gatti. Con la resurrezione, Selina acquista una una carica erotica rarissima nei personaggi di Burton, simboleggiata dalla tuta sadomaso in latex, con tanto di frusta e artigli, oltre che una furia femminista che agisce senza un piano ben preciso, seguendo un istinto incontrollabile e anarchico che la porta a contrastare Batman senza un motivo, se non “perché in lui vede il simbolo di un machismo insopportabile.28” La performance di Michelle Pfeiffer nei panni di Cat-Woman è rimasta memorabile soprattutto grazie alla scena in cui mette in bocca un canarino vivo, considerata da molti come una delle più vere del cinema burtoniano.

23- Il terzo capitolo della saga, Batman & Robin, uscito 1997 viene diretto da Joel Schumacher. 24- Ad es. dopo la prima sceneggiatura di Sam Hamm, Burton decide di affidarla a Daniel Waters. 25- R. Escobar, Batman – Il ritorno, “Il Sole 24 Ore”, 9 settembre 1992. 26- Non a caso il suo nome è quasi identico a quello dell’at-

tore Max Schreck che in Nosferatu il vampiro interpreta il conte Orlok. 27- Nella galleria dei reietti di Morte malinconica del bambino ostrica compare anche un bambino-pinguino). 28- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010.



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Tim Burton’s Nightmare Before Christmas Contemporaneamente a Batman – Il ritorno, il cineasta californiano segue anche la realizzazione del musical in stop-motion Tim Burton’s Nightmare Before Christmas29, di cui, per forza di cose, delega la regia all’ex compagno di scuola Henry Selick. Si tratta di un vecchio progetto, partorito dalla mente di Burton più di dieci anni prima, ma che la Disney accetta di finanziare solo ora che il suo nome è sinonimo di enormi profitti e che è destinato a rimanere, tutt’ora a distanza di anni, il film più identificativo della carriera del regista. La storia è quella di Jack Skellington, re della spettrale Halloweentown, popolata da teneri mostriciattoli di ogni genere, che un giorno per caso si ritrova a Christmastown, colorata, innevata e gioiosa. Afflitto da una sorta di spleen postmoderno, il re decide di rapire Santa Claus (che lui chiama

Babbo Nachele, dalla traduzione poco efficace del gioco di parole con Sandy Claws), e di “rubargli il Natale”. Nonostante i cattivi presentimenti della dolce bambola Sally, creata dal dr. Flinklestein che la usa come serva, Jack inizia a distribuire mostruosi balocchi, terrorizzando involontariamente i bambini. Quando capisce di aver sbagliato accetta la propria diversità rispetto al mondo di Christmastown e si precipita a salvare il vero Babbo Natale. La colonna sonora del musical di Danny Elfmann, oltre ad essere un indubbio capolavoro, si accorda pienamente allo stile visivo, grafico, introspettivo ed emotivo di Burton, differenziandosi da tutte le ultime produzioni Disney, dotate di una connotazione molto più narrativa.

29- Vedere un nome del regista nel titolo non è una cosa a cui siamo molto abituati, eppure non mancano esempi precedenti, basti pensare a Fellini Satyricon. Ma forse il riferimento più scontato in questo caso è il poemetto illustrato per ragazzi Dr. Seuss’The Grinch Who Stole Christmas di Theodor Seuss Geisel (Dr.Seuss). Inoltre il titolo rimanda parodisticamente alla poesia Twas

the night before Christmas (1822), di Clement Clarke Moore (1799 – 1863), nota anche come A Visit from St. Nicholas, uno dei classici natalizi più popolari che viene ancora oggi letto da molte famiglie degli States durante i festeggiamenti natalizi.


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Ed Wood Nel 1994 è la volta di Ed Wood, un film in bianco e nero, incentrato su una biografia, solo parzialmente attinente alla realtà, di un cineasta completamente privo di talento, impersonato da Johnny Depp. Circondato da un gruppo di improbabili amici e collaboratori, il regista amava vestirsi da donna e riuscì a collaborare con il suo idolo cinematografico Bela Lugosi ormai anziano e dimenticato. Burton si occupa in particolare dei sei anni che intercorrono tra la realizzazione di Glen or Glenda – Due vite in una30 (1953) e quella di Plan 9 from Outer Space31” (1959), di cui ci mostra un’anteprima trionfale, che in realtà non è mai avvenuta: come ci raccontano anche dei cartelli posti a fine pellicola, il film è uscito solo tre anni dopo la conclusione delle riprese ed ha fatto “vincere” a Wood il titolo con il quale viene ricordato, quello del “peggior regista di tutti i tempi”. Burton evita di parlare anche dell’alcolismo, della dipendenza da droghe, della depressione e della morte di Wood, regalandogli quella serenità e quel successo che in vita non ha mai avuto. Nonostante le critiche positive e i due Oscar, uno per il trucco e uno a Martin Landau come attore non protagonista per l’interpretazione di Bela Lugosi, il film al box office è un fallimento e inaugura un periodo tutt’altro che fortunato.

30- Si tratta di una narrazione autobiografica incentrato sul tema del travestitismo e dell’accettazione, girato in meno di quattro giorni e con meno di 3000 dollari. 31- Questo film fu completamente ignorato dalla critica fino alla morte di Wood (1978) quando i critici Harry Medved e Randy Dreyfuss lo definirono “Il peggior film di tutti i tempi”. Fu girato in soli cinque giorni con un budget di 20.000.


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Mars Attacks! Nel 1996 è la volta di Mars Attacks!, nato a partire dal suggerimento dello scenografo Jonathan Gems, che aveva scovato in un vechio emporio di Los Angels l’intera collezione, rarissima, delle 55 figurine omonime, messe in vendita nel 1962 dalla casa editrice Topps e ritirate dal mercato in pochi giorni, a causa delle polemiche scatenatesi per la violenza delle scene di distruzione della terra da parte degli alieni32. Si tratta di un film corale caotico e irriverente in cui una popolazione marziana, completamente idiota, distrugge la terra per divertimento, con tanto di foto ricordo davanti ai monumenti in fiamme. I politici e i giornalisti sono le categorie più bersagliate in questa pellicola estremamente politica che non risparmia nessuno, se non la problematica e depressa figlia del presidente, un impacciato venditore di ciambelle e la sua nonnina invalida, la quale distrugge i marziani involontariamente con il “potere” micidiale della sua musica country. Per Burton è il secondo fallimento di fila: il film, infatti, non incassa nemmeno la metà dei soldi investiti dalla Warner. Tuttavia, il regista viene scelto per dirigere Superman e si mette al lavoro, scegliendo gli attori e le location e progettando i costumi di scena, tra cui fa scalpore quello del supereroe, nero invece che blu, con inserti cyberpunk, per non parlare delle scenografie estremamente gotiche e spettrali. La casa di produzione non apprezza e decide improvvisamente di fermare il progetto su cui Burton aveva lavorato per più di un anno.

32- Si tratta di una delle grandi paranoie collettive dell’epoca Eisenhower.


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Il mistero di Sleepy Hollow Verso la fine del 1998, frustrato e arrabbiato, prende in mano la direzione di Il mistero di Sleepy Hollow, libero adattamento del racconto La leggenda della valle addormentata di Washington Irving. Nel film, l’investigatore Ichabod Crane (Johnny Depp) è mandato a investigare in un villaggio sperduto dove stanno avvenendo una serie di omicidi per decapitazione. Siamo nel 1799 e il protagonista, legato al razionalismo e all’illuminismo, non crede alle superstizioni dei popolani, secondo i quali il killer sarebbe un misterioso cavaliere senza testa in cerca di vendetta, ma indagando scopre che effettivamente l’omicida è proprio il fantasma che agisce sotto l’influsso dei poteri di una strega e riesce a ricacciarlo nel mondo delle tenebre consegnandogli la testa. La storia di chiude “nel 1800, anno zero del secolo romantico, quando ormai il viaggio iniziatico del campione dell’illuminismo Ichabod Crane lo ha portato (e con lui gli spettatori) a “credere a ciò che vede, accettando il compromesso con l’imponderabile33”. Nel frattempo era uscito il libro Morte malinconica del bambino ostrica e altre storie (1997), una raccolta di poesie e illustrazioni che prende il nome dall’ultima delle 23 filastrocche che lo compongono, quella, appunto, del bambino Ostrica, che a Natale decide di travestirsi da umano e alla fine muore divorato dal padre. Quasi tutti i personaggi sono 33- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010. 34-Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010. 35- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010.

bambini emarginati dall’aspetto deforme, veri e propri reietti i cui profondi disagi esistenziali rimandano alle ossessioni ricorrenti del loro autore, dal timore della paternità, “esplicitata nella sua forma di surreali nascite teratologiche e mostruose34”, a quello della morte. Sotto l’apparenza di libro per bambini, questa raccolta “trasuda a tratti disperazione e, sotto il sorriso divertito che deriva dalla lieve ironia di alcuni passaggi, nasconde una delle pagine più nere e più commoventi della carriera di Tim Burton.35”.

Il pianeta delle scimmie Nel 2000 la Fox decide di affidare un remake del cult movie Il pianete delle scimmie al regista californiano che, apprezzando lo script di William Broyles Jr., accetta. Ma ben presto la casa di produzione si rende conto che il budget necessario è troppo alto e Burton si ritrova in mano una sceneggiatura completamente diversa da quella che l’aveva spinto a firmare il contratto e con un limite temporale di un anno per l’intero ciclo produttivo, dalla preproduzione all’uscita in sala. Sul set conosce Helena Bonham-Carter, sua attuale compagna e madre dei suoi due figli (il padrino è Johnny Depp), che da questo momento diventerà l’attrice caratterizzante delle pellicole burtoniane assieme a Depp. Il film, ben fatto ma privo di autorialità, sfonda al botteghino ma delude critici e fan del cineasta.



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Big Fish – Le storie di una vita incredibile La rinascita avviene grazie a Big Fish – Le storie di una vita incredibile36 (2004), un film catarchico che inaugura la ripresa creativa. Da poco persi entrambi i genitori, Burton rispolvera una sceneggiatura di John August, consegnatagli anni prima e tratta dal romanzo omonimo37. La storia è quella di un uomo malato di tumore con l’abitudine di mistificare la realtà, e di suo figlio Will che, allontanatosi anni prima dal genitore, torna, determinato a scoprire la vera storia che si cela dietro tutti quei racconti di fantasia. Ma alla fine riesce a comprendere che Edward Bloom aveva ragione quando affermava: “Io sono sempre stato me stesso, dal primo giorno che sono nato”. Infatti i suoi racconti non sono falsi: partono sempre da una base di realtà e, semplicemente, la trasfigurano, la insaporiscono, la colorano, perché non sempre e non per tutti la realtà è sufficiente. In fondo “Tra la realtà e la menzogna c’è sempre una terza via: l’immaginazione.38”. Negli ultimi istanti di vita, l’uomo chiede al figlio di narrargli la storia della propria morte e lui, avendolo finalmente capito, gli racconta una fine serena ed epica in cui dopo l’ultimo bacio della moglie, si tramuta in un grosso pesce e se ne va tra i saluti affettuosi dei suoi amici. Al funerale si presentano i personaggi delle storie di Edward, certo, un po’ diversi, un po’ più “normali”, ma realmente esistenti. Nell’ultima scena vediamo il figlio di Will raccontare agli amici le mitiche

avventure del nonno, che grazie ad esse vivrà per sempre. All’interno di questa storia che potremmo definire “reale”, sono inserite quelle fantastiche raccontate da Edward, dal sapore tipicamente burtoniano e popolate da freaks di ogni genere: il gigante Karl39 considerato da molti un mostro, il direttore del circo licantropo, infelice perché quando si trasforma nessuno vuole giocare con lui, Jenny che cresce nell’attesa malinconica del ritorno del suo amore e la sua immagine nella fantasia che si sovrappone a quella di una strega nel cui occhio è possibile vedere la propria morte. La loro funzione quella di dimostrare che “quasi tutte le creature che consideriamo malvagie o cattive, sono semplicemente sole. E magari mancano un po’ di buone maniere40”.

36- Il titolo originale è Big Fish: A Novel of Mythic Proportion. Inizialmente i produttori Dan Jinks e Bruce Cohen avevano mandato la sceneggiatura a Steven Spielberg, che pur essendo molto interessato, non era riuscito ad occuparsi del film perchè già impegnato il altri progetti: Minority Report (2002), Prova a prendermi (2002), The Terminal (2004). 37- Daniel Wallace, l’autore del libro, è amico di August e

gli mostra il suo romanzo prima ancora della pubblicazione, dopo che lo sceneggiatore aveva perso il padre. 38- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010. 39- La parte è stata interpretata da Matthew McGregory, alto 2 metri e 30 e morto poco dopo la fine delle riprese. 40- È una citazione di Edward Bloom tratta dal film.

La fabbrica di cioccolato Dopo il ritorno al successo sancito da Big Fish, Tim Burton si butta in un nuovo progetto, La fabbrica di cioccolato (2005), rielaborazione del romanzo Charlie and the Chocolate Factory di Rohal Dahl, che narra la storia di un cioccolatiere psicopatico che dopo anni di isolamento apre la fabbrica ad un gruppo di bambini per scegliere il suo erede.


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La sposa cadavere Quasi contemporaneamente41 esce anche La sposa cadavere, film d’animazione in stop-motion, ontologicamente legato a Nightmare Before Christmas42, ispirato a una fiaba popolare ebraico-ucraina del diciannovesimo secolo43. Il protagonista è Victor Van Dort, rampollo di una famiglia nobile decaduta, innamorato della sua promessa sposa Victoria Everglot, ma talmente timido da non riuscire nemmeno a pronunciare correttamente il giuramento durante le prove delle nozze e così goffo da mandare a fuoco l’abito della futura suocera. Quando affranto si rifugia nella foresta per provare in solitudine la formula di rito, mimando la scena conclusiva della cerimonia infila la fede in un ramo secco, che all’improvviso si trasforma in una mano. Dalla terra esce Emily, “la sposa cadavere”, uccisa dal misterioso forestiero con cui avrebbe dovuto fuggire e unirsi in matrimonio e ora finalmente libera dall’incantesimo che la teneva prigioniera. Dopo anni trascorsi sola e ferita, col suo vestito bianco a ricordargli beffardamente l’uccisione da parte del suo amato, finalmente ha trovato uno sposo. Così Victor viene catapultato nel mondo dei defunti, popolato da scheletri festosi e scatenati, che si danno alla pazza gioia “sotto” il mondo Vittoriano, l’epoca ipocrita per antonomasia, con il suo puritanesimo di facciata. Qui incontra anche

il suo cagnolino, ora ridotto a uno scheletro, ma è proprio grazie a lui che Victor supera il senso di terrore misto a disgusto provato inizialmente verso quel mondo libero in via di decomposizione. Nel frattempo, “al piano di sopra” Victoria viene costretta a sposarsi con il viscido e misterioso Lord Barkis, che poi scopriremo essere un ladruncolo interessato soltanto alle doti delle giovani borghesi, nonchè l’assassino di Emily,. Rassegnato, Victor accetta di celebrare le nozze con Emily, secondo un rituale che prevede l’assunzione di veleno. Ma ciò deve avvenire nel mondo dei vivi e cosi i defunti invadono allegri la cittadina vittoriana nella quale erano vissuti; “L’incontro-scontro fra i due mondi, coi loro modi opposti di intendere l’esistenza (calcoli, regole e menzogne nell’aldiqua, danze, amori e bevute nell’aldilà), culmina in un faccia a faccia collettivo che sarebbe macabro se in quei morti viventi grandi e bambini non riconoscessero i loro cari perduti, con incontenibile gioia reciproca”44. Durante la cerimonia, Emily ha un ripensamento e impedisce a Victor di uccidersi con il veleno: sa bene cosa vuol dire essere privata del proprio sogno d’amore e non vuole strappare la felicità anche a Victoria. Lord Barkis non ha però alcuna intenzione di privarsi di sua moglie e cerca di trascinarla

41- Poiché era impegnato sul set di La fabbrica di cioccolato, Burton dovette affidare la regia di La sposa cadavere a Mike Johson. Inoltre Danny Elfman si deve occupare di entrambe le colonne sonore e alcuni attori devono contemporaneamente recitare in un film, e doppiare i pupazzi nell’altro (solo per citare i più importanti: Johnny Depp, Helena Bonham Carter, Deep Roy, Christopher Lee). 42- Nel frattempo sono state introdotte numerose tecniche che hanno raffinato moltissimo l’animazione in stop motion, come la possibilità di usare fotocamere digitali (in questo caso Canon EOS-1D Mark II, Digital Reflex top class) o il gear and paddle, un complesso sistema che permette di

modificare l’espressione del volto e altri dettagli tramite degli ingranaggi posti all’interno del pupazzo, senza dover sostituire le teste dei personaggi per ogni variazione di espressione, come era stato fatto in Nightmare Before Christmas. 43- Più di dieci anni prima questa fiaba viene scovata da Joe Ranft, produttore, disegnatore e doppiatore che Tim Burton aveva conosciuto da studente alla Cal Arts. 44- M. Fadda, “La morte si fa bella / La sposa cadavere di Tim Burton”, Cineforum N.449, Novembre 2005.


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via per un braccio, ma i defunti non possono intervenire a causa delle “regole”, così Victor si trova ad affrontarlo da solo, con l’aiuto marginale della sposa cadavere, e non riesce a farlo soccombere. Prima di andarsene, lo strafottente assassino dedica a Emily un ultimo sgradevole brindisi: “Sempre la damigella e mai la sposa!” e beve ignaro dal calice con il veleno. Ora che è morto, i defunti possono finalmente trascinarlo via e fargli passare “le pene dell’inferno”. Inoltre, poiché il suo

assassino è deceduto e un uomo ha dimostrato amore per lei, Emily è libera da ogni incantesimo e vola via, libera, trasformandosi in una nuvola di farfalle che se ne va verso la luna, mentre Victor e Victoria la guardano abbracciati.


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Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street (tratto dall’omonimo musical scritto da Stephen Sondheim), narra la vendetta di un arrabbiatissimo barbiere contro colui che gli aveva strappato la moglie e la figlia anni prima, ma soprattutto contro l’intera società di ipocriti cannibali che si mangiano a vicenda per raggiungere i propri scopi o per pura cattiveria.

Alice in Wonderland Nel 2010 esce Alice in Wonderland, una sorta di sequel dei famosissimi racconti di Carroll45, ambientato tredici anni dopo nella Londra Vittoriana. Alice è ora una ragazza di vent’anni anticonformista e fuori posto rispetto alla società perbenista in cui vive, ben rappresentata dai grotteschi personaggi che incontra ad un sontuoso ricevimento a casa di Lord Ascot, ex socio del padre defunto. La ragazza conserva il ricordo di un genitore affettuoso e, come lei, fantasioso e fuori dagli schemi, che la rassicurava affermando che sì, lei era matta, ma che tutti i migliori lo sono. Il rampollo di casa Ascot, Hamish, non apprezza le strampalate divagazioni a cui ama abbandonarsi Alice, né il suo anticonformismo, eppure le chiede pubblicamente la mano. Mentre tutti attendono la risposta, Alice, nel panico, fugge all’inseguimento di un coniglio bianco con il panciotto e l’orologio da taschino. Nella corsa 45- Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò.

la ragazza finisce in un buco che la catapulta in un mondo surreale e popolato da personaggi assurdi (tra cui spiccano il Cappellaio Matto, lo Stregatto e il Brucaliffo), strampalato tanto quanto lo era quello di Caroll, ma più gotico, più malinconico. Non stiamo parlando di “Wonderland”, il Paese delle meraviglie, ma di “Underland”, il Sottomondo: l’incoscio e l’immaginazione di questa Alice cresciuta, appesantita da responsabilità e privata dell’affetto del padre, ha sembianze più disturbanti e drammatiche. Anche il tavolo dello spostatissimo, ma malinconico, Cappellaio Matto (Johnny Depp) è devastato, poiché la Regina Rossa (Helena Bonham Carter) è salita al potere con la forza e lo mantiene seminando distruzione e terrore. Arrabbiata col mondo a causa della sua testa eccessivamente sproporzionata e del confronto con la sorella, la Regina Bianca, bella (ma non meno stravagante), proporzionata e soprattutto amata dai sudditi, si circonda a corte di impostori che per rimanere nelle sue grazie si fingono deformi con protesi e travestimenti di ogni genere. Alla fine del film sarà proprio Alice a salvare il Sottomondo dal dominio della Regina Rossa uccidendo il terribile drago Ciciarampa. Questo scontro è la metafora della capacità di affrontare le proprie paure e di autodeterminarsi che Alice acquista nel suo viaggio psichedelico. Una volta tornata nel suo mondo, la ragazza rifiuta la proposta di matrimonio, spara a zero sui partecipanti al ricevimento e si propone addirittura come socia a Lord Ascot. Questi l’accetta e le permette di compiere un viaggio formativo e strabiliante, ma questa volta nel mondo reale, in Oriente.



Dark Shadows Dark Shadows è ispirato alla serie televisiva omonima di cui Tim Burton e Johnny Depp erano grandissimi fan da giovani. Esce nel 2011 e narra le vicende del vampiro Barnabas Collins (interpretato per l’appunto da Depp) e dei suoi discendenti, una “famiglia sbagliata46” in cui il piccolo di casa parla con il fantasma della madre morta ed è per questo considerato pazzo, la sua psicologa (Helena Bonham Carter) usa il sangue di Barnabas per farsi delle trasfusioni aspirando alla giovinezza eterna, e una ragazza adolescente, morsa da un lupo mannaro, non riesce a nascondere i sintomi della sua indole predatoria, che si manifesta con una carica sessuale eccessiva. 46- Tim Burton, Il nuovo mostro di Tim Burton”È Johnny Depp, il vampiro”, la Repubblica, 27 aprile 2012. 47- “Sia per me che per Johnny il 1972 è un anno fondamentale: eravamo nell’età delicata del passaggio dall’infanzia all’adolescenza e ne abbiamo assorbito tutte le contraddizioni e le inquietudini.” (Tim Burton, Il nuovo mostro di Tim Burton”È Johnny Depp, il vampiro”, la Repubblica, 27/04/2012.)

A trasformare Barnabas in vampiro era stata la bella strega Angelicque (Eva Green), che dopo essere stata rifiutata aveva ucciso i suoi genitori e la sua amata, l’aveva trasformato in mostro e gli aveva scagliato contro l’intera città. Tutto questo accadeva alla fine del 1700, ma quando l’uomo riesce finalmente ad uscire dalla bara nel quale l’avevano rinchiuso, siamo negli anni ‘70 del 190047, l’immortale Angelicque è ancora lì, a cercare di distruggergli la vita, nella speranza di essere amata come per ricatto. Alla fine del film, la strega morente dopo una lotta con Barnabas, gli offrirà il suo cuore, spegnendosi per sempre, e il vampiro riuscirà a riunirsi alla sua amata,


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nel frattempo reincarnatasi in una ragazza in grado di vedere oltre l’apparenza delle cose, che dopo essere fuggita dal manicomio in cui i genitori l’avevano fatta rinchiudere da piccola, grazie al suo intuito e al suggerimento di qualche spirito, era giunta a casa Collinsport, attratta da un inspiegabile sentimento.

Frankenweenie Nel 2012 esce Frankenweenie, un lungometraggio in stop motion che riprende la trama e lo stile di un vecchio cortometraggio di Burton. La storia, palesemente ispirata a quella del Dr. Frankentein e della sua creatura, è quella di un bambino appassionato di scienza che riporta il vita il suo cagnolino, accidentalmente investito da un camion.



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CAPITOLO 3

UN FREAK DI PROVINCIA

“Il principe della notte e della neve, forbici al posto delle mani, immortale come il sentimento di esclusione che rappresenta, vivrà per sempre nel suo mondo di solitudine, nel castello stregato che ciascuno immagina fuori dalla finestra.” Simone Spoladori48


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Film d’autore La sensazione tipicamente adolescenziale di non riuscire a comunicare e di essere percepiti esteriormente in maniera sbagliata venne tradotta da un giovane Burton in un’immagine grafica destinata a diventare estremamente pop: quella di un ragazzo con le forbici al posto delle mani e, ovviamente, folti capelli neri. Già anni prima Burton aveva commissionato a sue spese una sceneggiatura basata su questo personaggio a Caroline Thompson49, di cui aveva apprezzato il libro First Born (1983), una sorta di horror ambientato in provincia in cui un bambino abortito torna in vita per dare alle madre una seconda possibilità. Dopo lo straordinario successo di Batman, il regista decide che i tempi sono maturi per proporre il primo progetto interamente gestito da lui con tanto di sceneggiatura definitiva alla Warner, con la quale aveva lavorato nei tre film precedenti. Ma la casa di produzione non si mostra particolarmente entusiasta giudicando il film troppo poco commerciale. È

la Twentieth Century Fox, diretta allora dall’ex attore Joe Roth, a dimostrarsi interessata e a finanziare la realizzazione del film, pur lasciando a Burton la totale libertà artistica da lui rivendicata. Vediamo quindi come il regista non si pieghi ai meccanismi dello studio system, ma riesca a sfruttarli a proprio vantaggio, aspettando l’occasione propizia per ottenere un finanziamento senza dover scendere a compromessi. Dietro all’aspetto stralunato da artista dark e fuori dagli schemi, si cela quindi uno scaltro imprenditore, capace come pochi altri di portare avanti con tanta coerenza un progetto estetico così forte da essere diventato una sorta di brand. Antoine De Baecque dice ironicamente: “il fatto che […] il cineasta cui l’industria cinematografica dei grandi studios affida centinaia di milioni di dollari sia rimasto un punk spettinato rappresenta un allegro sberleffo a tutte le ambizioni di carriera.50”. In fondo Tim Burton sta al cinema come Vivienne Westwood51 sta alla

48- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani ,2010. 49- Caroline Thompson si è occupata anche della sceneggiatura di The Nightmare Before Christmas (1993) assieme a Michael McDowell e di La sposa cadavere (2005) assieme a John August e Pamela Pettler. 50- A. De Baecque, Tim Burton, Lindau, Torino, 2007.

moda: pur restando un abile calcolatore che non dimentica mai il fattore economico e l’importanza del successo, è allo stesso tempo un artista fuori dagli schemi, un “punk spettinato che come un cavallo di Troia corrode il sistema dall’interno”52. Esemplare a questo proposito è l’uso che Burton fa dei loghi delle case di produzione, trasformandoli in una firma d’autore (mediante la sovrapposizione di elementi che richiamano il tema visivo del film) con la stessa maestria con la quale, viceversa, gestisce la propria firma come un marchio. Edward mani di forbice è un film fondamentale per la costruzione della patina dark del cinema burtoniano e fa del regista un’autentica icona gotic, il corrispettivo cinematografico immediato dell’estetica di gruppi come i Bauhaus, i Siuxsie and the Banshees, i The Cure o i Joy Division, o di romanzieri del calibro di Mary Shelley, Bram Stoker o H.P. Lovecraft. Ma è la scelta del protagonista a segnare una svolta nella

51- Stilista britannica che negli anni ‘70 aprì insieme al compagno Malcolm McLaren, futuro manager dei Sex Pistols, il negozio Let it Rock, contribuendo a creare lo stile punk. 52- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010.


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Siouxsie, Siouxsie and the Banshees

Robert

Smith, Cure

Vivienne Westwood


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carriera di Tim Burton. Al regista, ormai tra i più corteggiati di Hollywood, vengono proposti nomi di vere e proprie star (William Hurt, Tom Hanks, Robert Downey jr.) fra cui spicca quello di Tom Cruise, reduce del successo di Rain Man (1988) e di Beauty Levinson e appena liberatosi dalle riprese di Nato il 4 luglio (1990). Il regista sceglie però un sex symbol per teenagers, l’idolo televisivo del pubblico adolescente della serie 21 Jump Street (1987-91), l’attore che oggi tutti riconoscono come l’alter-ego che incarna sullo schermo le ossessioni e le emozioni di Tim Burton: Johnny Depp53. Si crea così un’accoppiata vincente che si radica nell’immaginario collettivo diventando un marchio potentissimo a livello di marketing54. Nella prefazione al libro Burton on Burton a cura di Mark Salisbury, Depp descrive se stesso al tempo del provino come un attore che non riusciva a sfondare, ingabbiato tra spot pubblici-

tari e scenegiature aberranti, “stordito, perso, fatto trangugiare dagli spettatori d’America come giovane repubblicano. Nuovo divo televisivo, rubacuori, idolo dei giovani, bullo. Ingessato, piazzato in un poster, messo in posa col marchio di fabbrica, pitturato e plastificato! Pinzato a una scatola di cereali che viaggiava a tutta velocità verso un thermos e un decrepito cestino da pranzo. Il ragazzo novità, il ragazzo seriale. Spennato e fottuto dentro un incubo da cui era impossibile uscire.”. Finchè un giorno la sua nuova agente gli manda la sceneggiatura di Edward mani di forbice e Johnny Depp scoppia a piangere come un bambino, per sua stessa ammissione scioccato all’idea che ci fosse qualcuno tanto in gamba da immaginare una storia simile. Anche lui si era sentito strano ed ottuso mentre diventava grande! Tim Burton lo sceglie: sono soprattutto i suoi occhi a colpire il regista, la parte più importante nel caso di un

50- A. De Baecque, Tim Burton, Lindau, Torino, 2007. 51- Stilista britannica che negli anni ‘70 aprì insieme al compagno Malcolm McLaren, futuro manager dei Sex Pistols, il negozio Let it Rock, contribuendo a crearelo stile punk. 52- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010. 53- Johnny Depp era già apparso sul grande schermo interpretando piccole parti in Nightmare: dal profondo della notte (1984) e Platoon (1986) e aveva avuto il suo primo ruolo da protagonista in Cry Baby (1990). 54- Johnny Depp è il protagonista di dieci film burtoniani: recita in Edward mani di forbice (1990), Ed Wood (1994), Il

personaggio che quasi non riesce a parlare. Così Depp viene coperto da kili di make-up e sfigurato con finte cicatrici, infilato in una tuta in latex55 e costretto a una camminata goffa, trasformandosi da sex symbol a sensibile reietto, mentre a creare le leggendarie mani di forbice è il creatore di effetti speciali Stan Winston56, star del cinema horror già vincitore di due Oscar per Aliens e Terminator 2. L’attore si dimostra all’altezza del ruolo offrendo una prestazione degna del cinema muto: dovendo indossare i panni di un personaggio i cui gesti incontrollati potrebbero avere conseguenze disastrose, riesce a rendere perfettamente le emozioni senza alcuna gestualità, sfruttando soltanto lo sguardo57. L’importanza degli occhi è un elemento costante in tutta la produzione, anche successiva, del cineasta ed infatti emergono enormi dagli strati di trucco che ricoprono i personaggi, costituendo il loro principale mezzo di co-

mistero di Sleepy Hollow (1999), La fabbrica di cioccolato (2005), Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street (2007), Alice in Wonderland (2010) e Dark Shadow (2012); doppia il personaggio principale in La sposa cadavere (2005). 55- Per truccare e vestire Johnny Depp occorrevano un’ora e 45 minuti. 56- Sarà sempre Stan Winston a confezionare il costume per il Pinguino in Batman – Il ritorno. 57- Nella versione originale Johnny Depp dice solo 169 parole in tutto il film.


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municazione58. La scelta del resto del cast è altrettanto burtoniana: Vincent Price nel ruolo dell’inventore che dà la vita ad Edward59 e Winona Ryder (allora fidanzata con Depp) nel ruolo di Kim, la figlia della presentatrice di cosmetici (interpretata da Dianne West) che trova lo strano ragazzo in un castello abbandonato e lo porta a casa sua. La Ryder è una delle attrici preferite dal regista anche grazie al suo lato oscuro, ma in questo film Burton si è divertito a farle fare la cheerleader, con tanto di parrucca bionda in stile Hayley Mills60. Per la colonna sonora Burton si affida ancora una volta a Danny Elfman, cantante e leader della band new wave Oingo Boingo, con il quale aveva collaborato per la prima volta durante la realizzazione di Pee-Wee’s Big Adventure (1985). La sua musica, ricca di cori eterei, si ispira nel tema principale alla Danza della fata confetto del compositore russo Tchaikovsky di cui è riconoscibile una breve citazione di poche battute. Il riferimento al brano classico è evidente anche per l’utilizzo della celesta, utilizzata abilmente da Elfman per simulare una sorta di magico carillon, che insieme ai cori eterei contribuisce ad amplificare la connotazione fiabesca delle scene. Il risultato è un film pienamente autoriale in cui i tratti distintivi della poetica burtoniana giungono a completa maturazione e commuovono mezzo mondo.

Quasi umano

58- A questo proposito Maria Viteritti osserva che: “Per i diversi burtoniani, gli occhi possono spesso aprire un varco sul mondo esterno, quello della normalità. Il senso visivo offre la prova tangibile del reale”. (Maria Viteritti, La fabbrica dei sogni, ANCCI, Roma, 2006. 59- Diversi mesi dopo le riprese del Film Burton cominciò a girare un documentario su Vincent Price intitolato Conversa-

tion with Vincent che però rimase incompleto a causa della morte dell’anziano attore, avvenuta nel 1993. 60- Hayley Catherine Rose Vivien Mills è un’attrice inglese, conosciuta per aver interpretato negli anni sessanta alcune pellicole prodotte da Walt Disney. 61- Tim Burton gli chiese perfino di scrivere la colonna sonora del film, ma il cantante in quel momento era occupato

Edward mani di forbice non è altro che l’ennesima variazione burtoniana della creatura di Frankenstein. Tenuto insieme da stringhe e fibbie, con il volto coperto da cicatrici che si è autoinflitto senza volerlo e le minacciose forbici, al tempo stesso strumento di creazione e di distruzione, ricorda le creature di H.R. Giger o le suggestioni cyberpunk di William Gibson, mentre i capelli sono pettinati, o meglio spettinati, alla maniera di Tim Burton (che a sua volta imita Robert Smith dei The Cure61). Vive in un grande castello gotico, a metà tra un edificio di Anthony Gaudì e il set di Herman Rosse per Dracula (1931), con un giardino pieno di sculture vegetali62, simbolo di diversità, stravaganza, fantasia, evasione, creatività, ma anche di autoesclusione e rassegnata fuga dal mondo. Le uniche cose che sappiamo sulla creazione di Edward e sull’inventore che lo ha costruito ed animato ci vengono mostrate per mezzo di flashback. Il primo flashback si apre su un robot apriscatole dotato di forbici al posto delle mani, inserito all’interno di una bizzarra catena di montaggio che produce biscotti, costituita da altri automi e strani marchingegni. L’inventore si avvicina ad un robot che sta tagliando l’insalata con le sue mani di forbice e accosta un biscotto sagomato a forma di cuore al corpo artificiale, concependo l’idea di infondere un’anima ad uno dei suoi automi. Un’operazione molto simile a quella del dottor Frankenstein di Mary Shelley o, per rimanere nella


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cinematografia di Burton, del dottor Flinklestein (Nightmare Before Christmas), che si era creato una bambola “da compagnia”con foglie secche ricoperte da stracci cuciti assieme. In un’altra digressione vediamo il vento girare le pagine del quaderno degli appunti dell’inventore, nel quale scorgiamo velocemente cinque bozzetti corrispondenti ad altrettante fasi della costruzione di Edward. Il ragazzo nella con la registrazione di Disintegration. 62- Alcune di esse possono essere ammirate ancora oggi al ristorante di New York “Tavern On the Green”.

forma in cui lo conosciamo, è identico al quarto bozzetto, mentre il quinto, lo raffigura vestito normalmente e con delle mani vere, lasciando intuire che il processo non è giunto a compimento. In un ulteriore flashback capiamo anche il perché. L’inventore apre un grande pacco regalo e ne tira fuori due mani artificiali, ma improvvisamente la sua espressione muta e il


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suo corpo si accascia a terra, mentre gli arti di gomma vengono trapassati dalle forbici del giovane e poi cadono sul pavimento distrutte: l’uomo è morto condannando il ragazzo all’incompletezza perpetua. Nel processo della nascita di Edward è evidente il parallelo con il conseguimento dell’opus alchemico, ossia la creazione di una vita superiore attraverso una successione di fasi che scandiscono il passaggio dalla materia ad uno stato spirituale. Inoltre, nonostante il ruolo dell’alchimista sia quasi sempre associato alla pietra filosofale, spesso si attribuì a questa figura anche la creazione di esseri artificiali, come l’homunculus63 di cui parla Paracelso64. Senza contare che il processo alchemico è frequentemente suddiviso in tre o in cinque fasi (come quelle della creazione di Edward) e che il principale strumento dell’alchimista è un forno65, proprio come la parte finale della complessa macchina fabbrica-biscotti dell’inventore, le cui sembianze sono molto simili a quella dei forni degli alchimisti descritti da numerose stampe antiche, come “La testa infornata come vaso alchimistico” riprodotta in L’alchimia, simbolismo ermetico e pratica filosofale di Eugéne Canseliet. In ultimo, l’incompletezza fisica e la natura artificiale di Edward richiamano la figura dell’androgino, punto chiave ma transitorio di un processo iniziato e non ancora concluso. “Non mi ha finito” dirà il ragazzo alla presentatrice di cosmetici che lo troverà nel maniero “abbandonato, senza un papà, incompleto e tutto solo”66.

63- L’homunculus è una variante della leggenda del Golem. In questo caso non è la magia della parola, bensì la trasformazione degli elementi a infondere vita nella materia. 64- Si tratta dello pseudonimo del celebre svizzero Philippus Theophrastus Von Hohenheim, medico, astrologo, alchimista, nonché primo botanico sistematico. 65- Il forno degli alchimisti è l’athanor, nel quale la materia

viene più volta cotta e perfezionata attraverso le varie fasi identificate dal motto tradizionale “Solve et coagula”. 66- È la descrizione che ne fa Kim da anziana mentre racconta la storia alla nipote.


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Come noi, o contro di noi All’inizio degli anni ‘90 i modelli con cui il cinema americano postmoderno ritrae la provincia sono cambiati già da diversi anni, allontanandosi gradualmente dall’epica-nostalgica all’American Graffiti (1973) e dalla rappresentazione del ribellismo alla Gioventù Bruciata (1955). Un film spartiacque a tal proposito è Velluto Blu (1986) di David Lynch, che condivide con Edward mani di forbice diverse scelte estetiche nella rappresentazione della provincia americana, sebbene Lynch abbia scelto la via del noir e Burton quella del fantastico-realistico. In entrambi i film dietro il conformismo delle villette a schiera con i giardinetti ben curati e le palizzate bianche si nascondono la superficialità, l’ansia di normalità, il desiderio di omologazione e il sospetto per il diverso, ma anche l’orrore e la violenza. Non è un caso che le ambientazioni e le scenografie di entrambi i film rimandino agli anni a cavallo tra i ‘50 e i ‘60, quelli del maccartismo67, della caccia alle streghe e della guerra fredda. Nello specifico, l’impianto scenografico di Edward mani di forbice è stato allestito in uno strambo quartiere dall’aspetto assurdamente asettico alla periferia di Tampa, in Florida, dove Bo Welch ha ridipinto le casette tutte uguali del complesso residenziale con soffici colori pastello, garantendo un’immediata patina di conformismo e di cattivo gusto e contribuendo a creare un’atmosfera irreale e fiabesca. Il castello gotico e tenebroso situato su un’altura nel quale Edward conduce la sua esistenza solitaria prima di essere trovato 67- Il maccartismo è un periodo della storia degli Stati Uniti caratterizzato dall’intenso sospetto anticomunista, che prende il nome da Joseph McCarthy, senatore repubblicano del Wisconsin attivo in politica in quegli anni. 68- Ci troviamo in una topografia dell’immaginario in cui un luogo che sembra uscito da una favola mostra una frontiera comune con la realtà.

da Peg, contrasta con le colorate abitazioni sottostanti ed infatti nel film l’accentuazione dei contrasti cromatici è abilmente utilizzata per sottolineare sul piano visivo la difficoltà di integrazione di chi differisce dalla norma68. L’assenza di colori ancora una volta è associata alla rappresentazione di un personaggio dalla profonda interiorità, mentre i colori del borgo, gli abiti variopinti dei suoi abitanti eterodiretti e gli arredamenti orribilmente vistosi degli interni indicano un’inclinazione all’esteriorità vuota e superficiale. Quando Peg intenerita decide di portare Edward a casa sua, come prima cosa gli dà dei vestiti e cerca di coprire le cicatrici per renderlo il più “normale” possibile, perché nel suo mondo solo conformandosi ci si può integrare ed essere integrati è la cosa più importante. Ma Edward è un freak, un essere incompiuto, un diverso e diventa immediatamente oggetto di curiosità morbosa da parte di una comunità di pettegole sempre in cerca di facili entusiasmi, oggetto di desiderio sessuale per la ninfomane del quartiere o addirittura demonio per la fanatica religiosa Esmeralda che predica invasata: “Il potere di Satana è dentro di lui! Io lo posso sentire!”. Chiuso ed introverso, emblema dell’adolescente sensibile, Edward è un artista geniale e con le sue mani di forbice scolpisce prima splendide sculture toparie, per poi passare a fare il parrucchiere per cani e infine per le desperate housewives, modellando i capelli come opere d’arte contemporanea. Questo suo talento lo



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porta ad un immediato successo che gli assicura non solo la momentanea integrazione all’interno della piccola comunità, ma anche la partecipazione al talk show televisivo diurno di John Davidson, durante il quale una spettatrice si offre di mettere in contatto Edward con un medico che potrebbe aiutarlo a diventare come tutti gli altri. Questo è un momento cruciale della riflessione sulla diversità che Burton fa in questo periodo della sua produzione cinematografica, suggerendo che nonostante le proprie doti creative e l’immagine accuratamente elaborata che lo rende un individuo fuori dal comune, il regista, proprio come le sue creature, preferirebbe essere più simile all’ideale irraggiungibile del “come chiunque altro” e che questo desiderio è la fonte della malinconia che pervade le sue prime opere. La partecipazione televisiva di Edward è un momento importante anche perché è proprio durante lo show che Kim, la figlia di Peg, si rende conto dell’amore che lo strano ragazzo prova per lei. A differenza del fratellino Kevin, la ragazza era rimasta estremamente seccata e sconcertata dalla presenza del freak in casa sua, mostrandosi conformista e superficiale. Ma la sua camera da letto anticipa fin da subito le similarità della cheerleader e del mostro: lo specchio, proprio come lo spazio attorno al letto di Edward, è circondato da fotografie e immagini ritagliate da riviste; la stanza mostra una collezione di sfere di vetro da scuotere per vedere la neve, che non era mai caduta nella cittadina prima che Edward arrivasse a scolpire il ghiaccio con le sue lame; infine alla parete è appeso uno stendar-

do della scuola, in parte coperto in modo da lasciare intravedere solo una parte di scritta: “bland”, insulso, come a suggerire l’insoddisfazione di Kim rispetto al mondo in cui vive. Edward è all’apice del successo quando inizia la discesa e il fenomeno diventa mostro. In fondo era scritto che presto o tardi la sua differenza l’avrebbe portato ad essere respinto e a diventare un capro espiatorio, proprio come la creatura di Frankenstein. La ninfomane Joyce aveva messo in giro voci su delle presunte molestie sessuali da parte del freak, dopo essere stata respinta, la banca gli aveva negato un prestito per aprire un salone di bellezza ed avviare un’attività ed infine Jim (Anthony Michael Hall), il ragazzo di Kim, lo aveva coinvolto in una rapina a casa propria. L’allarme era suonato e la colpa era ovviamente ricaduta su Edward, il ragazzo difficile, introverso, strano ed inquieto, mentre l’atletico e prestante figlio di papà, prototipo del giovane americano sportivo e ben nutrito, l’aveva scampata. Almeno per il momento. Dopo questo fatto Kim apre finalmente gli occhi e si scopre disgustata da quello sgraziato ragazzone che la tratta come se lei fosse una sua proprietà e si innamora invece di Edward, che la fa danzare fra i fiocchi di neve generati dal contatto delle sue lame con un blocco di ghiaccio, in una scena rimasta memorabile. Ma i sentimenti non sempre bastano quando c’è di mezzo una deformità fisica ad impedire un contatto: il freak si sottrae persino all’abbraccio dell’amata, conscio della pericolosità del proprio tocco. Ricorda la morte dell’inventore, il tentativo maldestro di salutarlo con



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un’ultima carezza, lo sfregio che era comparso sul suo volto, le forbici insanguinate... Kim però non ha paura. Si avvicina lo stesso e delicatamente si infila fra le sue lame. Alla fine, inseguito da una folla inferocita, come nella più pura tradizione del cinema classico dell’orrore, torna a nascondersi al castello, dove uccide Jim trapassandone il corpo con le forbici e compiendo così una vendetta a nome di Burton contro i bulli del liceo69. Per proteggere Edward, Kim è costretta a fingere che anche lui sia morto ed il freak accetta di rimanere per sempre nella sua dimora, in un eterno esilio dal mondo degli uomini.

69- Tim Burton, Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011).


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Fiabe dark Edwad mani di forbice è un racconto dall’aspetto fiabesco, introdotto da una voce narrante, quella di Kim ormai anziana che risponde alla domanda della nipotina: “Perché nevica, nonna?”. L’intero film dovrebbe essere quindi un flashback della donna eppure ci sono fatti che solo un narratore onnisciente potrebbe conoscere, addirittura precedenti alla nascita di Edward. Queste ambiguità presenti nella sceneggiatura sono dovute all’amore di Burton per la fiaba e per il fantastico, che si traduce spesso anche nell’esasperazione dei codici espressivi, dai colori alle musiche, dalle scenografie surreali alla deformazione data dal grandangolo. Burton è stato spesso accusato di non saper raccontare storie a causa della trascuratezza dei canoni della consecutio narrativa e temporale, in genere rispettati rigidamente e considerati quasi sacri nel cinema hollywoodiano. Ma il regista rivendica un approccio felliniano istintivo e antiletterario che lo porta a focalizzarsi sulla forza delle emozioni e delle immagini, mettendo in secondo piano l’intreccio narrativo, anche a costo di risultare caotico. Fatto sta che nella cultura pop contemporanea, Burton è percepito come il più importante narratore di fiabe grazie all’uso ricorrente della metanarrazione70 e al senso di stupore generato dai luoghi meravigliosi e dalle strane creature che li popolano (giganti, streghe,

freaks di ogni genere). Bisogna sottolineare però il fatto che il fiabesco di Burton non è ambientato in un mondo irreale come quello di Harry Potter o di Il signore degli anelli, ma al contrario è strettamente ancorato al quotidiano e si lega ad esso senza bisogno di giustificazioni. “Non posso dare una definizione di fantastico perchè quello che mi interessa è un’altra cosa, la contrapposizione tra realtà e fantasia. – spiega il cineasta – Sono più attratto dai confini molto sottili tra le due cose: spesso quello che viene percepito come realtà è fantasia, mentre quello che può sembrare fantasia è realtà. La fantasia è un’esperienza che fai ogni giorno ma a me, ripeto, interessa molto di più la linea di confine tra le due percezioni”71. La semplicità della storia di Edward rende il racconto polisemico, proprio come ogni favola che si rispetti. Si tratta in primo luogo di una parabola contro l’intolleranza, ma anche un autoritratto mascherato senza troppo impegno72, l’illustrazione di uno stato adolescenziale o addirittura una riflessione sull’aids secondo chi ha rivisto nel freak il cliché del parrucchiere omosessuale. Al mito di Frankenstein si affianca anche quello di La bella e la bestia, o quello di King Kong (1933), che come Edward viene trascinato fuori dal suo mondo, prima esibito come fenomeno da baraccone e poi cacciato nel momento in

70- Metanarrazióne s. f. [comp. Di meta- e narrazione]. – Opera letteraria nella quale sono evidenziate, per ragioni stilistiche, le strutture compositive della narrazione. (vocabolario Treccani). Molto spesso è un personaggio a raccontare l’intera vicenda, proprio come in Edward mani di forbice, e questo procedimento lega il cinema burtoniano alla fiaba e al racconto della buonanotte e veicola una rappresentazione del fantastico filtrata, che quindi favorisce la sospensione dell’incredulità di cui parlava Coleridge. 71- Tim Burton, Il mio fantastico, fra Fellini e Mario Bava,

www.cinema.it, 25 febbraio 2004. 72- I rimandi autobiografici di Edward mani di forbice sono troppo evidenti al punto che Pauline Kael del “New Yorker”, dopo aver visto questo film dichiarò: “Tim Burton è troppo personale, troppo teneramente egocentrico”. Per tutta la carriera questa sarà una delle critiche principali che verranno mosse al regista, insieme a quella di “fare sempre lo stesso film” dovuta alle tematiche e all’estetica fortemente caratterizzante della sua intera produzione.


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cui la sua natura si mostra incompatibile nei confronti del contesto sociale. I freak che subiscono questo trattamento sono moltissimi, basti pensare al John C. Merrich di The Elephant Man (1980) o a Freaks (1932). Un’altra possibile fonte di ispirazione è Peter Pan, di

cui Edward sembra una visione post-moderna e pessimistica: come lui dopo aver conosciuto il mondo degli “adulti” e le false convinzioni a cui essi si conformano, non trova altra possibilità che rifugiarsi nel proprio mondo, ma lo fa con malinconica tristezza.



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CAPITOLO 4

A CHE SERVE L’AMORE QUANDO HAI IL CIOCCOLATO? “L’unica libertà possibile, a questo mondo, è la libertà di scegliersi la propria prigione.” Pino Caruso


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Politicamente scorretto Il 26 maggio 2003 Tim Burton riceve una telefonata della Warner Bros in cui gli viene chiesto di occuparsi della regia di un adattamento cinematografico di La Fabbrica di Cioccolato, il secondo romanzo dello scrittore gallese Rohal Dahl dopo James e la pesca gigante73. Inizialmente la Warner aveva posto Gary Ross alla regia e Scott Frank alla sceneggiatura, ma il progetto iniziale (che in questa prima fase vede John C. Reilly e addiritura Marylin Manson come principali candidati per la parte di Wonka) era stato stroncato dalla vedova Felicity Dahl, la quale aveva accettato una nuova versione cinematografica solo a patto di poter avere l’ultima parola sulla scelta del cast tecnico e dell’attore principale74. Pubblicato nel 1964, La fabbrica di cioccolato racconta la storia di Charlie Bucket, un ragazzino povero che vince la possibilità di visitare la più grande e strabiliante fabbrica di dolciumi insieme ad altri quattro bambini, che però fanno una brutta fine a causa dei propri vizi. Charlie invece è abituato ad accontentasi con poco e ad essere umile e proprio grazie a queste sue qualità lo stravagante proprietario, Willy Wonka, lo sceglie come suo erede e lo invita a trasferirsi nella sua fabbrica insieme alla famiglia, per aiutarlo ad inventare nuovi dolci. Burton ama Rohal Dahl e lo considera, alla stregua di Dr. Seuss, una fonte di ispirazione

e uno scrittore “capace di raccontare una favola moderna, piena di luci e ombre, che non tratta i bambini come degli idioti e che possiede quell’umorismo un po’ politicamente scorretto che è tipico dei ragazzini75”. La compagna del regista, Helena Bonham Carter racconta di essere rimasta sorpresa, vedendo un documentario su Dahl, dalle somiglianze fra lo scrittore e suo marito: “Un sacco di cose che diceva Dahl avrebbe potuto dirle anche Tim. E in buona parte credo che me le abbia effettivamente dette. Il suo non essere politically correct e quell’umorismo molto macabro sono assolutamente identici. Un’altra cosa che dice Dahl, e che Tim ripete spesso, è che i bambini sono dei selvaggi. Credo che i bambini siano le persone che capiscono meglio Tim. Magari anche qualche adulto, ma con un cuore da bambino dentro76”. Il libro era già stato portato al cinema dal regista Mel Stuart con il titolo Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (1971) ed era diventato un cult movie, riproposto sistematicamente dalle emittenti televisive durante le festività natalizie. Non avendo mai apprezzato particolarmente questo film, libero da pressioni, Burton accetta di dirigere una nuova versione e si reca addirittura a visitare la casa in cui lo scrittore gallese aveva vissuto a Great Missend, nel Buckinghamshire, per cercare di cogliere a pieno la sua sensibilità. Decide

73- Nelle vesti di produttore Burton aveva portato sul grande schermo anche un adattamento di James e la pesca gigante (1996), con Henry Selick alla regia. 74- Alla morte di Rohal Dahl avvenuta nel 1990 sua moglie aveva ereditato i diritti di tutte le sue opere. 75- Tim Burton, Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011).

76- Tim Burton, Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011).


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inoltre di fare piazza pulita delle sceneggiature fino ad allora elaborate, in cui Charlie sembrava un bambino prodigio e Willy Wonka una figura paterna. Si affida quindi a John August, già sceneggiatore di Big Fish e insieme a lui si concentra soprattutto sulla figura del cioccolatiere, che viene rappresentato matto almeno quanto alcuni dei ragazzini, infantile e terrificante. I due decidono poi di ripristinare la figura del padre di Charlie, presente nel romanzo ma assente dalla prima sceneggiatura di Scott Frank, in modo da frantumare l’idea che Wonka e il bambino siano legati da una sorta di rapporto paterno. Dopo aver scartato nomi del calibro di Jim Carey, Nicholas Cage, Michael Keaton, Christopher Walken, Patrick Stewart e Robert De Niro, Burton propone il ruolo di Willy Wonka a Johnny Depp, disponibile a provare sempre 77- Tim Burton, Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011).

cose diverse e bravissimo a costruire personaggi. L’attore aveva anche appena ricevuto una nomination all’Oscar come Miglior attore protagonista per La maledizione della prima luna (2003), ragion per cui, diversamente da quanto era avvenuto per Edward mani di forbice o Il mistero di Sleepy Hollow, questa volta anche la produzione appoggia la scelta di Burton. Ovviamente Jhonny Depp accetta con entusiasmo e suggerisce il nome del giovanissimo Freddie Highmore per la parte di Charlie. I due avevano recitato insieme sul set di Neverland – Un sogno per la vita e Depp ne era rimasto molto ben impressionato. Burton trova il bambino perfetto per la parte: “Lui è il classico tipo che il 90% dei suoi compagni di scuola finisce per dimenticare. Il compagno poco memorabile, ma non è una cosa che puoi chiedere ad un attore. O ce l’ha di suo o no77”.


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Cinema e cioccolato Facciamo un passo indietro. Dopo vari film di successo, nel 1994 era arrivato il primo vero fallimento di Burton: Ed Wood78. Snobbato dalla giuria del Festival di Cannes e dal pubblico americano, il film è in realtà un capolavoro che ha vinto in totale venticinque premi internazionali tra cui due Oscar (Miglior attore non protagonista a Martin Landau nella parte di Bela Lugosi79 e Miglior trucco). Nel 1996 Burton si era lanciato in un nuovo progetto, Mars Attacks!, una commedia demenziale presentata erroneamente come film d’azione a grosso budget, che apparve al pubblico come un’inutile parodia del blockbuster Indipendence Day, uscito nelle sale solo qualche mese prima. Per il regista era quindi iniziato un periodo piuttosto buio durante il quale non riuscì a portare a compimento nessun progetto, fatta eccezione per la pubblicazione della raccolta di poesie e disegni Morte malinconica del bambino ostrica e altre storie (1998). Dopo il successo di Il mistero di Il mistero di Sleepy Hollow (1999), Burton aveva deluso nuovamente critica, pubblico e soprattutto se stesso con il remake di Il pianeta delle Scimmie80 (2001). Solo con Big Fish(2003) il cineasta era finalmente riuscito a riconciliarsi con Hollywood, tornando ad essere preso sul serio. Ed ora torniamo a Willy Wonka. Sia lui che Burton costruiscono mondi imma-

ginari e meravigliosi, il primo all’interno della sua fabbrica e il secondo nel suo cinema. Entrambi sono personaggi asociali caratterizzati da problemi di comunicazione, che vivono “un po’ all’interno della propria testa, sempre alle prese con problemi familiari che vengono dal passato81”. E soprattutto, entrambi, dopo un periodo di isolamento dovuto a problemi lavorativi si rimettono in gioco, più forti e competitivi che mai. La fabbrica di cioccolato si apre con un digital travelling che ci trasporta all’interno della fabbrica dove una straordinaria catena di montaggio confeziona il cioccolato Wonka in tante copie tutte uguali, ma tutte diverse, come l’arte nell’era della riproducibilità tecnica, pronte per la spedizione in ogni angolo del mondo. Come osserva Massimiliano Spanu, viene rappresentato una sorta di “risveglio” che sembra coincidere con quello del regista stesso e suggerire un’interpretazione metaforica che associa cinema e cioccolato. Emiliano Morreale scrive infatti che “il cioccolato è anche l’arte, o quantomeno il cinema, ossia (nella concezione di Burton) il baraccone, l’artificio, insomma il mass-medium – e può essere dolcissimo e letteralmente mortale”82.

78- Tim Burton si era innamorato di questo personaggio leggendo la biografia Nightmare of Ecstasy di Rudolph Grey, arrivando a battezzare Edward svariati due dei suoi personaggi principali: Edward mani di forbice e Edward Bloom di BigFish. 79- Bela Lugosa è una vecchia star del cinema horror (ma anche di Broadway), l’indimenticabile Dracula del film diretto da Tod Browning (1931), qui raccontato nel periodo più buio della sua vita quando ormai dimenticato da tutti tra anonimato pubblico e demenza senile, si trovò a lavorare col più improbabile degli autori, di cui divenne amico. Attraverso il rapporto tra Ed Wood e Bela Lugosi Tim Burton omaggia quello tra sè e Vincent Price, scomparso l’anno prima.

80- Nel 1963 lo scrittore francese Pierre Boulle ha immaginato una civiltà in cui le scimmie, dotate di parola, hanno preso il sopravvento sugli esseri umani. Il romanzo viene portato con successo sul grande schermo da Franklin J. Shaffner e genera numerosi sequel. 81- Tim Burton, Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011). 82- Emiliano Morreale, La fabbrica della m..., “Cineforum”, N 449, Novembre 2005.


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Costruire realtà fantastiche Le riprese cominciarono nel giugno del 2004 nei Pinewood Studios in Inghilterra83 e durarono sei mesi per via della legge inglese che impedisce ai minori di lavorare per più di quattro ore e mezza al giorno. Il libro di Dahl è piuttosto vago rispetto all’ambientazione così Burton e lo scenografo McDowell decidono di mantenere questa ambiguità sospendendo sul piano visivo ogni riferimento geografico e temporale per quanto riguarda la cittadina monocromatica che si colloca ai piedi dell’imponente fabbrica; al contrario gli altri luoghi (Germania, Inghilterra, India, Giappone, Marocco, New York, Georgia) sono riconoscibili e tristemente reali, seppur filtrati molto spesso attraverso lo sguardo dei media televisivi. La fabbrica, magica e misteriosa, è il cuore pulsante di questo non-spazio immaginario e chi vi giunge dall’esterno, come i quattro bambini con i rispettivi accompagnatori, ne viene espulso. Come riferimenti visivi per alcuni degli interni Burton consigliò a McDOwell di vedere Diabolik di Bava, in particolare per quanto riguarda la stanza della televisione, quella delle noci e quella delle invenzioni. Ma in generale la fabbrica è sovraccarica di riferimenti, citazioni, cifre stilistiche, dal Bauhaus, a Gaudì, dai campi da minigolf, alla Los Angeles di Blade Runner. In fondo, come dice Vladimir Propp, la fiaba si nutre di indeterminatezza geografica e temporale e alimenta la sospensione dell’incredulità mescolando senza soluzione di continuità elementi di varie epoche e stili, suggestioni realistiche e situazioni fanta-

stiche84. Nonostante la tendenza di Hollywood ad utilizzare blue screen e fondali ricreati in computer grafica, Burton continua a preferire l’utilizzo di set realmente costruiti quando possibile, anche a costo di dover usare false prospettive, oggetti macroscopici o miniature, persuaso del fatto che soprattutto i bambini e gli attori più giovani lavorino meglio se calati nel contesto. Tra gli interni che vengono ricostruiti, il più esteso è quello col fiume e la cascata di cioccolato85, realizzato con 120.000 litri di vero cioccolato Nestlè per ottenere la giusta densità. Il regista decide di limitare al massimo l’utilizzo della computer grafica anche nella scena in cui una quarantina di scoiattoli attacca una delle bambine: tutti i primi piani e le scene più importanti vengono ripresi dal vero grazie all’opera dell’addestratore di animali Mike Alexander, che insegna la parte ad un gruppo di scoiattoli, addestrandoli dalla nascita fino all’età di sei mesi. Inoltre, sebbene nel film diretto da Mel Stuart i piccoli aiutanti di Willy Wonka, gli Umpa Lumpa, siano interpretati da nani con parrucche verdi e una pittura arancione sul volto, Burton non vuole usare nani né personaggi creati in computer grafica, così si rivolge a Deep Roy, l’attore alto 1.30 cm che era già apparso in Big Fish e in Il pianeta delle scimmie e che successivamente doppierà il personaggio di Napoleone Bonaparte in La sposa cadavere. Il piccolo attore interpreta le parti di più di cento Umpa Lumpa e le sue interpretazioni vengono poi montate insieme al computer.

83- La fabbrica venne costruita esattamente nel luogo in cui 16 anni prima Anton Furst aveva realizzato Gotham City per Batman. Lo scenografo era stato sostituito da Bo Welch in Batman – Il ritorno a causa delle pessime condizioni di salute di Furst, che si suicida proprio durante le riprese del secondo capitolo della saga. 84- Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino,

2000. 85- Il fiume era talmente grande da occupare per intero lo studio che solitamente veniva usato per i film di 007.


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Elogio della follia Ma chi è Willy Wonka e come è arrivato ad essere il più grande cioccolatiere del mondo? È nonno Joe, che anni prima aveva lavorato nella fabbrica, a raccontarci la storia. All’inizio Wonka aveva cominciato con un solo negozio, ma poiché tutto il mondo voleva i suoi dolci (come il gelato che resta freddo per ore senza bisogno di essere messo nel freezer) dopo non molto tempo aveva aperto la fabbrica più grande della storia, cinquanta volte più grande di qualunque altra. I produttori di cioccolato concorrenti cominciarono ad inviare delle spie per rubare le sue ricette segrete, così Wonka dovette chiudere la fabbrica “per sempre”, o almeno così disse. Invece un giorno il fumo ricominciò ad uscire dalle ciminiere e i dolci ad essere venduti, eppure i cancelli rimasero sempre chiusi e nessuno venne mai visto entrare o uscire da lì, Wonka compreso. Quello che nessuno sa è che dopo aver licenziato gli operai e chiuso la fabbrica, il cioccolatiere si era recato in Lumpalandia in cerca di nuovi sapori per i suoi dolci e là aveva trovato gli Umpa Lumpa, una popolazione di piccoli uomini amanti dei chicci di cacao, rarissimi nelle loro terre. Poichè è dai chicchi di cacao che si estrae la materia per fare il cioccolato, Wonka aveva invitato la tribù a lavorare nella sua fabbrica in cambio di tutti i chicchi di cacao che avessero voluto e gli Umpa Lumpa si erano trasferiti con lui, dimostrandosi degli operai formidabili ma molto dispettosi. Alla comparsa del suo primo capello bianco, il cioccolatiere capisce che è arrivato il momento di cercare un erede e decide di aprire le porte della fabbrica per una visita guidata ad alcuni bambini fortunati, accompagnati da un parente. Per far parte del gruppo occorre tro-

vare uno dei cinque biglietti d’oro che Wonka ha inserito in altrettante tavolette di cioccolata sparse per il mondo: il primo vincitore è l’ingordo Augustus Gloop (Germania); la seconda fortunata è Veruca Salt (Inghilterra), viziatissima dal ricco padre che, per accontentarla, fa scartare enormi quantità di tavolette Wonka alle operaie della sua fabbrica, solitamente addette a sgusciare noci, finchè il biglietto non viene trovato; Violetta Beaudegarde (Georgia) è invece una vanitosa campionessa di gomma da masticare mentre Mike Teavee (Colorado) è un genietto dipendente da televisione e videogiochi violenti, che è riuscito a trovare il biglietto tramite un improbabile algoritmo; infine, l’ultimo bambino a vincere la possibilità di visitare la fabbrica è Charlie Buckett, che vive insieme ai suoi quattro nonni e ai suoi genitori in una casa di legno piccola e diroccata. Il giorno dell’apertura dei cancelli i visitatori sono accolti da uno spettacolo di marionette piuttosto surreale, che si trasforma in breve in un rogo che trasfigura e scioglie i corpi e i volti dei pupazzi. Davanti agli ospiti allibiti, si palesa un Willy Wonka molto pee-weeniano e un po’ demodè nel linguaggio, che cerca di impressionare i bambini ma non ci riesce. Il Charles Foster Kane dei dolciumi vive in un mondo a sé ed il suo abbigliamento a-temporale è il riflesso del suo modo di vivere al di fuori della contemporaneità, con tanto di giacca rossa e cilindro alla Gene Wilder, ma più elegante, psichedecilico, manifestamente sociopatico persino nell’aspetto, con una parrucca alla paggetto in stile Beatles86, denti perfetti, grandi occhiali dietro ai quali nascondersi e guanti di lattice, chiaro riferimento alla sua difficoltà di avere rapporti con le persone, ma anche al fatto che suo padre era un dentista. È questa la novità principale della sceneggiatura di John August:


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“l’attenzione si concentra sul passato di Wonka, nella direzione tipicamente burtoniana di un’adolescenza tormentata come causa della misantropia che caratterizza il protagonista in età adulta87”. Il motivo dell’eccentricità del cioccolatiere è da ricercarsi nei suoi contrasti con la famiglia, in particolare con il padre dentista. Questo dettaglio non c’era nel libro, ma senza un fondamento psicologico, l’originalità del personaggio sarebbe stata impossibile da affrontare per un attore o per un regista. Wonka non è solo un mezzo matto, “è

uno che ha subito un arresto dello sviluppo88”. Volendo dare una profondità al cioccolatiere, Burton inizia a scavare nei suoi traumi infantili e gli vengono in mente gli orribili apparecchi per i denti che era stato obbligato a portare da piccolo e che erano diventati per lui un simbolo della sua incapacità ad entrare in contatto con la gente. Così ci vengono mostrati dei flashback in cui vediamo il dentista Wilbur Wonka imporre al figlio un apparecchio mostruosamente vistoso e, non contento, bruciare anche i suoi dolcetti di Halloween89.

86- Per i capelli Burton e i suoi collaboratori si sono ispirati a personaggi televisivi come Captain Kangaroo o The Pancake Man. 87- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010. 88- Tim Burton, Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury,

UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011).



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Willy si vendicherà andandosene di casa per diventare il cioccolatiere più famoso del mondo, interrompendo ogni rapporto col genitore, ma a causa del trauma di questa separazione non riuscirà mai più nemmeno a pronunciare la parola “parenti” o “famiglia”. Via via nel corso del film i vari bambini si cacciano nei guai a causa dei loro vizi e per una sorta di legge del contrappasso, vengono eliminati, con tanto di chiosa morale sotto forma di accompagnamento musicale degli Umpa Lumpa. L’unico superstite è proprio Charlie, che vince quindi grazie alla sua educazione e alla sua compostezza, o per dirlo con le parole del bizzarro cioccolatiere, vince perchè si dimostra il “meno fastidioso”. Wonka lo nomina suo erede e gli offre la possibilità di trasferirsi con lui fin da subito nella fabbrica, da solo: “Non puoi mandare avanti una fabbrica con una famiglia che ti sta addosso come un peso morto. Un cioccolatiere deve essere del tutto indipendente, deve seguire i suoi sogni e al diavolo le conseguenze. Guarda me, non avevo famiglia e ho avuto un successo gigantesco!” Ma il bambino afferma perentorio che non rinuncerebbe mai alla sua famiglia, nemmeno per tutto il cioccolato del mondo e Wonka, attonito e spaesato, se ne va. In crisi creativa, sfogandosi con l’’Umpa Lumpa psicologo si rende conto di dover risanare il contrasto rimasto irrisolto col padre, così chiede a Charlie di accompagnarlo alla ricerca del genitore e quando finalmente ritrova la casa in una landa desolata, si fa riconoscere sottoponendosi a una visita dentistica. Il signor Wonka, che commosso abbraccia il figlio, 89- Era il 1979 quando un giovanissimo Burton realizzò come saggio di fine corso alla Cal Arts un corto (Stalk of the Celery Monster) il cui protagonista è un dentista pazzo e terrificante. 90- Christopher Lee inizia la sua carriera nel 1948 e da quel giorno continua

è interpretato da Christopher Lee90, un’icona del cinema gotico molto ammirata da Burton e già presente nel cast di Il mistero di Sleepy Hollow (farà anche una breve parte in Dark Shadows). L’attore è conosciuto soprattutto per aver recitato nei panni del Conte Dracula in una serie di film della Hammer ed è quindi ovvio il parallelismo tra il suo ruolo di padre in La fabbrica di cioccolato, e quello che l’altro Dracula storico, Vincent Price, aveva ricoperto in Edward mani di Forbice. Nella sequenza conclusiva Wonka si è evidentemente riconciliato con il concetto di famiglia, infatti lo troviamo a tavola con i Bucket al completo, che con tanto di catapecchia si sono trasferiti all’interno della fabbrica, dolce prigione dell’assurdo cioccolatiere, rendendo così possibile il completo trionfo della sua misantropia. Anche l’assenza del padre di Willy contribuisce a smantellare la positività del finale: infatti non è avvenuta alcuna reale riconciliazione tra genitore e figlio, ma soltanto un superamento del trauma. In ultimo, un movimento di macchina svela che la voice over narrante appartiene a un Umpa Lumpa aumentando ulteriormente la sensazione straniante che dietro l’apparente lieto fine si celi tutt’altro.

ad apparire in moltissimi film interpre- Dracula di una serie di film della Hamtando spesso la parte del cattivo. È en- mer. Si è prestato come voce narrante trato addirittura nel Guinnes dei primati in alcuni cd dei Rhapsody of fire. come l’attore vivente più citato sugli schermi e come l’attore vivente più alto, con i suoi 196 cm (Vincent Price era alto 193 cm). È il leggendario Conte



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CAPITOLO 5

MAI DIMENTICARE, MAI PERDONARE

“Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.” Mt 6,14-15



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Una pallida coppia Sweeney Todd è un barbiere vissuto nel XIX secolo. Tagliava le gole ai clienti per poi buttare i cadaveri, attraverso una botola, nello scantinato, dove la fornaia Nellie Lovett si occupava di tagliarli a pezzetti e utilizzarli come ripieno per i suoi pasticci di carne. O almeno questo è quanto scrive Thomas Peckett Prest nella sua opera The String of Pearls: A Romance (1846). Sebbene alcuni sostengano che il serial killer sia effettivamente esistito, oggi è comunemente riconosciuto che in realtà si tratta di un personaggio di finzione, che deve la sua fama all’opera teatrale The String of Pearls: A Romance, uscita nel 1847. Nel corso del tempo la vicenda ha ispirato altre pièces e adattamenti televisivi e cinematografici evolvendosi. In alcune versioni l’omicida uccide per denaro, in altre per sfogare un bisogno sessuale, e solo nel 1973, con il drammaturgo Christopher Bond, viene intro-

dotto il movente della vendetta che da quel momento diventa una caratteristica fondamentale del killer. Quando ancora era studente alla Cal Arts, Burton si innamorò del personaggio grazie al musical del compositore americano Stephen Sondheim91: Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street. Portata in scena nel 1979, la “black operetta”92 divenne uno dei più grandi successi di Broadway e regalò al barbiere una notorietà tale da competere con l’altro grande serial killer della Londra ottocentesca, Jack lo Squartatore. “Mi aveva colpito l’accostamento tra quella musica così bella e l’atmosfera da horror. – racconta Burton – Ed era interessante vedere qualcosa di così sanguinario su un palcoscenico teatrale. Di fatto mi era piaciuto così tanto che ero tornato a vederlo una seconda volta.93” Così, non appena al cineasta si presentò l’occasione di portare il musical sul gran-

91- Burton non assistì allo spettacolo originale, con Len Cariou nella parte di Sweeney Todd e Angela Lansboury in quella di Nellie Lovett, ma ad una versione dello stesso, a Londra. 92- È lo stesso Sondheim a parlare di black operetta a proposito di Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street. 93- Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited,

1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011).


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de schermo, egli la colse al volo94. Chiese immediatamente a Johnny Depp di indossare i panni del barbiere omicida, sapendo che l’attore negli anni ‘80 era stato chitarrista per una band chiamata The Kids, ma non avendolo mai sentito cantare. Lavorarono insieme sul personaggio, traendo ispirazione da un gran numero di star del cinema horror del passato, come Lon Chaney, Boris Karloff e Peter Lorre, ma anche al Dottor X95 e il risultato fu un interpretazione talmente sentita e spettrale da aggiudicarsi una Nomination all’Oscar. Per quanto riguarda la parte di Nellie Lovett, la compagna del regista, Helena Bonham Carter, voleva a tutti i costi assicurarsi quel ruolo ma Burton inizialmente non se la sentì di scegliere lei, soprattutto per paura di venir accusato di nepotismo. Così, per tre mesi, la Carter prese lezioni di canto tutti i 94- Era stato lo stesso Sondheim a manifestare la volontà di trasporre la sua opera in un film, e inizialmente si era rivolto a Sam Mendes, che però dopo due anni aveva rinunciato al progetto. 95- In particolare si ispirarono a quello interpretato da Lion Atwill in Dottor X (1932) e poi da Humphrey Bogart in Ritorno del Dottor X (1939) 96- Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011).

giorni e si sottopose ad un provino da cui uscì vittoriosa, scelta da Sondheim in persona. La cosa curiosa è che durante la preparazione del film il regista ritrovò un vecchio acquerello, in cui aveva rappresentato l’idea visiva che aveva dei personaggi, e notò una straordinaria somiglianza tra l’immagine e la coppia di attori. Perfetto, perché secondo Burton “il film sta tutto lì, nel loro rapporto. (…) Ciò che più contava era che visivamente si armonizzassero tra loro in una sorta di perversa alleanza, che fossero uniti proprio da quell’aspetto pallido e spento.96”


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Eat or be eaten Benjamin Barker torna a Londra dopo 15 anni di prigionia scontata ingiustamente a causa del giudice Turpin, che lo aveva fatto arrestare allo scopo di sottrargli la moglie. Pallido, stanco, con i folti capelli scuri attraversati da un ciuffo bianco, l’uomo si reca nel suo appartamento in Fleet Street situato sopra il negozio di pasticci di carne di Mrs. Lovett, la quale gli racconta il triste destino che ha avuto la famiglia in sua assenza: la moglie si è tolta la vita dopo essere stata pubblicamente violentata da Turpin e la figlia Johanna è tenuta sotto la crudele tutela del giudice. Qualcosa in Benjamin Barker muore trascinandolo in una spirale di crudeltà. Solo una piccola parte di lui si salva: “c’e Todd ora, Sweeney Todd, colui che avrà la sua vendetta97”. Non appena il barbiere ritrova i suoi rasoi dal manico d’argento cesellato, ne alza uno al cielo esclamando: “Finalmente il mio braccio è nuovamente intero!” e li saluta cantando “My Friends” e brandendo gli attrezzi come se fossero un prolungamento del suo stesso corpo. Impossibile non pensare a Edward mani di forbice, impersonato da Depp 17 anni prima, quasi lo stesso tempo che Barker aveva dovuto passare in esilio prima di tornare avvelenato d’odio da quella stessa società che lo aveva respinto. La prima volta che Sweeney Todd uccide, lo fa per un motivo: eliminare uno scomodo testimone, il barbiere italiano Adolfo Pirelli98, suo ex apprendista, che lo aveva riconosciuto e voleva ricattarlo. Ma da questo momento 97- Sweeney Todd (Johnny Depp), Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street. 98- È interpretato da Sacha Baron Cohen, il creatore di Borat. 99- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani ,2010.

in poi i rasoi non si fermeranno più e il delirio ossessivo del protagonista si concretizzerà nell’eliminazione dei borghesi che transiteranno nella sua bottega, uccisi e lasciati cadere in una botola per poi venir restituiti alla società sotto forma di pasticci di carne. “They all deserve to die” , tutti loro meritano di morire, canta il barbiere. Parafrasando altri stralci della canzone Epiphany, Sweeney Todd prosegue affermando che ci sono soltanto due tipi di uomini nella razza umana: quelli che rimangono al loro posto e quelli che mettono i piedi in faccia al prossimo. I primi meritano di morire perché la vita dei malvagi deve essere resa breve, per gli altri, fra i quali si inserisce egli stesso, la morte sarà un sollievo. Mrs. Lovett lo asseconda nella sua follia, essendo innamorata di lui in maniera malata e quindi disposta a tutto. L’unica persona che sottrae ai rasoi di Todd è Toby, il giovanissimo assistente di Pirelli: per salvarlo lo assume come aiutante al negozio, che grazie alla gran quantità di carne fresca sempre disponibile è diventato affollatissimo, ed instaura con lui un tenero rapporto materno. Quando il bambino intuisce la natura malvagia del barbiere, la donna però non esita a rinchiuderlo nel magazzino dove si trovano anche il forno e il tritacarne, e in cui arrivano i cadaveri per mezzo di una botola. Gli unici momenti concessi al mondo dell’immaginazione in questo film sono i sogni ad occhi aperti della Lovett, che “sembrano però più la manifestazione di un’ossessione che una delicata fantasia di fuga”99. In questi deliri fantasiosi lo


sguardo di Todd è comunque assente, segnato dalle occhiaie scure, fisso sullo squallore del mondo reale, focalizzato su quell’unica cosa che costantemente è nei suoi pensieri: la vendetta. Un altro personaggio caratterizzato da una morbosa fissazione è il giudice Turpin che invaghito di Johanna, nonostante l’enorme differenza d’età, la tiene rinchiusa in casa e addirittura la fa rinchiudere in manicomio, disposto a tutto pur di non farla fuggire col giovane Anthony Hope, un marinaio conoscente di Todd innamoratosi della fanciulla. “Non ho mai avuto sogni, solo incubi” gli dice Johanna, dopo essere stata liberata, come a confermare l’assenza di una dimensione fantastica in cui rifugiarsi. È la prima volta che in un film di Burton la dimensione dell’immagina-

zione è quasi completamente assente; certo, anche Ed Wood era un film calato nel mondo reale, eppure oltre al “regista peggiore di tutti i tempi”, un altro grande protagonista della pellicola era in cinema, con la sua dirompente forza immaginativa e la capacità di creare altri mondi. Il momento più drammatico è il finale, autenticamente disperato, in cui nessuno dei personaggi si salva veramente. Anthony, dopo aver portato via Johanna dal manicomio la porta, travestita da maschio, nella bottega di Todd. Il barbiere aveva infatti promesso aiuto al giovane ma in realtà si trattava solo di uno stratagemma per attirare il giudice Turpin. Mentre la ragazza è nascosta in un baule, arriva una mendicante pazza, apparsa più volte nel corso del film, e Todd in pieno



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delirio le taglia la gola. Nel frattempo giunge anche il giudice, per riprendersi Johanna, e il barbiere omicida riesce abilmente a persuaderlo a lasciarsi fare una bella rasatura prima di chiederle la mano. Ma mentre il viscido uomo è sulla poltrona Todd rivela la sua vera identità e compie finalmente la vendetta che bramava uccidendo, questa volta lentamente, la sua vittima. Un rumore sospetto attira poi il killer verso il baule, dove trova Johanna. I due non si riconoscono a vicenda e l’omicida sta per tagliare la gola anche alla propria figlia, quando un urlo di Mrs. Lovett proveniente dalla cantina lo distrae. Si precipita giù e scopre così il motivo delle grida: il giudice Turpin morente aveva cercato di aggrapparsi alla sua gonna. Grazie alla luce proveniente dal forno, a questo punto Todd vede il viso della mendicante folle che aveva appena ucciso e vi riconosce la moglie. Fuori di sé inizia a danzare con Mrs. Lovett, che gli confessa di avergli mentito per amore, e la rassicura affermando di ricambiarla... prima di gettarla viva nel forno. “I will have vengeance, I will have salvation!100”, aveva cantato il diabolico barbiere di Fleet Street in Ephiphany, eppure ora che la vedetta è compiuta, la salvezza non arriva. La rabbia distruttiva si è placata: al suo posto è tornato il dolore, forte come non mai, e la sensazione di non avere più una ragione di vita. Ma ecco che la morte arriva come una salvezza, per mano di Toby, rimasto tutto il tempo nascosto nelle fogne. Il barbiere non si ribella, al contrario, gli offre la gola, in quello che è il finale più tetro e disperato dell’intera filmo100- Trad. “Avrò la mia vendetta, avrò la mia salvezza!”

grafia di Burton. Per la prima volta il regista priva l’infanzia del suo status di luogo sicuro e ancora incontaminato nella sua potenza immaginativa, opposto alla brutalità del mondo adulto. L’orrore e la tragicità dell’esistenza sono posti davanti agli occhi di tutti, bambini compresi, ed è impossibile nascondersi in una dimensione fantastica. Così, il piccolo Toby è costretto a punire il delirio vendicativo del barbiere ricorrendo egli stesso alla violenza dell’omicidio e adeguandosi quindi alla logica eat or be eaten del contesto. In fondo Sweeney Todd l’aveva detto: “Questi sono tempi disperati, mrs. Lovett, e bisogna ricorrere a disperati rimedi.”


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CAPITOLO 6

TENUTO INSIEME DA UN FILO

“Tendiamo nel vuoto molteplici fili di ragno per formare la tela che possa trattenere la felicità.” Augusta Amiel-Lapeyre


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Un film rianimato Era il 1984 quando Burton presentò alla Disney il suo secondo cortometraggio, Frankenweenie101, incentrato su un ragazzino di periferia, Victor Frankenstein, che riporta in vita il suo amato cane Sparkly con l’elettricità, scatenando nei concittadini ottuse reazioni di paura e violenza. Non a caso l’ambientazione suburbana, trasudante la più monotona normalità, ricorda molto quella di Edward mani di forbice102 o la stessa Burbank in cui crebbe Burton, nella quale gli unici momenti di riunione della collettività erano gli incidenti. La storia, girata in un magnifico bianco e nero e liberamente ispirata al Frankenstein di James Whale (e al sequel La moglie di Frankenstein)103 per motivi di budget e di tempo non poté essere realizzata con la tecnica dello stop motion né diventare un lungometraggio come il regista avrebbe invece voluto. Inoltre il corto , che doveva essere proiettato insieme alla riedizione di Pinocchio, venne classificato

PG rating (Parental Guidance),104 cioè vietato ai minori di 12 anni non accompagnati da un genitore, a causa della generale atmosfera dark: si trattava di un film troppo cupo, troppo morboso, in cui il protagonista è un bambino che, ancora una volta, si prende mortalmente sul serio. Una scelta assurda considerando che non c’è nulla di osceno nel corto e che l’unico accenno di violenza è fuori campo. Senza contare poi che anche in Pinocchio e in numerosi altri classici per l’infanzia i momenti forti abbondano, basti pensare a Dumbo, a Bambi o al Re Leone. Tim Burton a questo proposito dichiarò: “Pinocchio, a quell’età, può essere molto più spaventoso di Frankenweenie, che però ha il difetto di non essere un celebre classico per l’infanzia e di non avere il marchio di approvazione della Perfetta Casalinga Americana.”105. Alla fine, più che i bambini, a spaventarsi

101- Alla lettera “Franken-miserabile”. 102- Edward mani di forbice (1990) è successivo al cortometraggio Frankenweenie (1984) e precedente l’omonimo lungometraggio, Frankenweenie (2013). 103- I film di Frankenstein sono ossessivamente richiamati da Burton in molti dei suoi film, a partire dal 1979, quando presenta come saggio di fine anno al Cal Arts il cortometraggio Stalk of the Celery Monster, grazie al quale si fa notare da John Lasseter, futuro capo della Pixar, che consente a un Burton allora ventunenne di entrare nel team Disney. Il protagonista della pellicola è un dentista pazzo che opera una signora terrorizzata, con tanto di assistente mutante al seguito. Nello stesso anno realizza anche Doctor of Doom nel quale egli stesso impersona un perfido scienziato che dà vita ad un uomo con la faccia da elefante allo scopo di fargli uccidere la figlia di un suo amico. Poi ci sono Vincent che, munito di camice, trasforma il proprio cane Abercrombie in uno zombie; l’inventore interpretato da Vincent Price in Edward mani di forbice che lascia la sua creatura incompleta morendo; e Sally di Nightmere Before Christmas, i cui pezzi sono tenuti insieme da cuciture alla Boris Karloff. 104- L’organizzazione che si occupa di decidere a quali fasce di età indirizzare un film è la MPAA (Motion Picture

Association of America). È formata dall’associazione dei sette principali studi americani: Walt Disney, Sony, Metro-GoldwynMayer, Paramount Pictures, Twentieth Century Fox, Universal Studios e Warner Bros. L’ MPAA film rating system è suddiviso nelle seguenti categorie: G, general audiences (film per tutti); PG, parents cautioned suggested (si consiglia la visione ai minori di 10 anni in compagnia di un adulto o di un genitore); PG-13, parents strongly cautioned (vietato ai minori di 13 anni, non accompagnati dai genitori); R, restricted (vietato ai minori di 17 anni, non accompagnati dai genitori); NC-17, no children under 17 (non è consentito l’ingresso ai minori di 17 anni). 105- Tim Burton, “Hansel and Gretel, Frankenweenie e Aladdin’s Lamp” in Burton on Burton, a cura di Mark Salisbury, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011).


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furono i dirigenti della Disney che decisero di distribuire il corto nel 1985 in Inghilterra assieme al poco interessante Baby. Il segreto della leggenda perduta, per relegarlo poi all’oblio. Ventotto anni dopo un Tim Burton potente e famoso torna alla Disney per rigirare un Frankenweenie ancora più dark della durata di 87 minuti girati in stop-motion. Questa volta la Disney distribuisce il film con l’etichetta di “retrò gotico sentimentale”, incassando 67.100.000 $ nel mondo106.

106- Il budget stimato per il film è di 39.000.000 $. Gli incassi in USA ammontano a 35.292.068 $ e quelli in Italia a 886.589 €. Si tratta, per il 2012, del 91° maggior incasso negli USA e 86° a livello internazionale.



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Ognuno è mostro a modo suo New Holland è una piccola cittadina di periferia con una grande scritta in stile hollywoodiano che ne ricorda il nome, abitata da bambini mostruosi e da adulti mostruosamente conformisti. Ancora una volta Burton mette in scena la Burbank della sua infanzia filtrata dal suo personalissimo modo di vedere le cose e di lasciarsene colpire ma 22 anni dopo Edward mani di forbice, il regista ha maturato un diverso punto di vista sulla propria posizione all’interno di quel contesto. Victor Frankenstein con il suo mento appuntito, i ciuffi neri spettinati e i grandi occhi stanchi ed introversi, è praticamente identico a Vincent Malloy di Vincent e a Victor Van Dort di La sposa cadavere. È un bambino serio, creativo, intelligentissimo, solitario che preferisce rinchiudersi nella soffitta di casa insieme al cagnolino Sparky107 piuttosto che giocare all’aria aperta con i suoi coetanei108. Oltre a Ed Wood, Victor è l’unico personaggio burtoniano a condividere con il suo creatore la passione per il cinema, strumento di salvezza per una personalità affetta da solitudine cronica: Frankenweenie si apre infatti con un film dentro il film, ossia il cortometraggio casalingo “Monsters from below” in cui una città viene distrutta dal mostro Sparkysaurus,

interpretato dal bull-terrier che, travestito e ignaro di tutto, saltella allegro tra la scenografia, pestando i pupazzi e distruggendo ogni cosa109. Il signor Frankenstein è preoccupato e pur amando il figlio, non riesce ad accettare pienamente la sua natura solitaria110, così quando il ragazzino gli chiede di firmargli il permesso per un concorso di scienze glielo concede ma solo a patto che lui provi uno sport, magari il baseball. Ed è proprio durante la partita di baseball che Sparky viene investito da una macchina e muore, lasciando in Victor un vuoto che nessuna parola, nessuna fotografia, nessun filmino può colmare. Il giorno dopo a lezione di scienze il professore, Mr. Rzykrusky, fa una dimostrazione sulla risposta dei muscoli all’elettricità anche dopo il decesso di un organismo, tramite un esperimento di elettro-stimolazione su una rana morta e immediatamente il ragazzino elabora un piano: risvegliare Sparky sfruttando l’energia dei fulmini111. Così appena tornato da scuola raccatta in casa e in garage oggetti metallici o capaci di produrre energia cinetica e li raduna in soffitta, dopodiché si reca a dissotterrare il bull-terrier al New Holland Pet Cemetery, citazione del Pet Sematary (1983) di Stephen

107- Sparky è un bull terrier come Abercrombie, il cane di Vincent Malloy in Vincent. 108- Anche la somiglianza caratteriale con il protagonista di Vincent è evidente. 109- Burton ama l’entusiasmo dei dilettanti che nonostante la scarsità di mezzi o di conoscenze tentano di dare forma alla propria immaginazione. Anche Ed Wood (Ed Wood, 1994), considerato il regista peggiore di tutti i tempi, amava fare cinema, mentre Jack Skellington (Nightmare Before Christmas, 1993), pur ignorando il significato e le origini del Natale, pieno di entusiasmo decide di celebrarlo facendo addirittura le veci di Babbo Natale. 110- All’inizio del film, prima ancora che lo spettatore possa farsi un’idea della personalità del protagonista, il signor Frankenstein si lamenta con la moglie dicendo: “Tutto il tempo

che passa lassù...un bambino della sua età deve stare fuori con gli amici!”. La signora Frankenstein risponde: “Non credo che Victor abbia amici caro...oltre Sparky!” e lui ribatte per niente rincuorato: “É questo il punto, non voglio che diventi... strano!”. “Non c’è niente che non va in Victor, gli spiega dolcemente la moglie – solo vive nel suo mondo!”. 111- Nel momento in cui Victor capisce come riportare in vita Sparky aggiunge dei fulmini intorno al ritratto stilizzato del cane che aveva precedentemente scarabocchiato sul quaderno. Il disegno è molto simile ai disegni del cane Abercrombie realizzati da Burton per Vincent.


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King in cui viene descritto un cimitero di animali di piccola taglia che diventano zombie, nello specifico un gatto, una tartaruga e un criceto, proprio come in Frankenweenie. A New Holland c’è un temporale quasi tutte le notti e i bambini, tremendamente seri, mormorano diverse assurdità a riguardo; che sia colpa della miniera d’oro abbandonata su cui la città è stata costruita, o del cimitero dove hanno 112- La citazione è di Nassor.

seppellito i minatori, o addirittura del mulino che “gira e rigira l’aria finché il cielo stesso non si infuria contro la notte”112, resta il fatto che a New Holland i fulmini sono frequenti, e non è nemmeno raro che colpiscano qualcuno. Così Victor riesce a portare a compimento l’esperimento la sera stessa, ridando la vita a uno Sparky riassemblato con ago e filo e due bulloni ai lati del collo, omaggio al make-up


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creato da Jack Pierce per Boris Karloff nel film di Whale. Il movente che sta alla base di questo esperimento è l’affetto smisurato di un bambino che, ingenuamente e senza porsi alcun tipo di dilemma etico, vuole ancora accanto a sé il suo cane; non c’è nessuna volontà di sfidare le leggi naturali per avvicinarsi al ruolo di creatore di Dio come nel romanzo di Mary Shelley e nel film di Whale. Inoltre mentre nel libro Frankenstein e nei suoi adattamenti cinematografici lo scienziato stesso è spaventato dalla sua creatura deforme e la abbandona (anche Burton affronterà questo tema in Morte malinconica del bambino ostrica e altre storie113), in Frankenweenie Victor è felice del risveglio del suo cane e continua a coprirlo di amore e di attenzioni esattamente come faceva prima, se non di più. Tuttavia si rende conto che la società potrebbe non capire, così cerca di tenerlo nascosto a tutti, genitori compresi. Ma mentre il ragazzino è a scuola, Sparky gironzola per il quartiere combinando guai e seminando il panico, finché viene visto da un compagno di classe di Victor. Si tratta di Edgar “E.” Gore, “un disadattato con tanto bisogno d’affetto che non ha amici”114, che nell’aspetto orripilante ricorda Quasimodo di Il Gobbo di Notre-Dame (1996) e nell’abbi-

gliamento Pugsley Addams. Il suo nome è un chiaro riferimento a Poe, e in modo più velato anche a Ygor, il personaggio interpretato da Bela Lugosi in Il figlio di Frankenstein (1939). Edgar aveva già chiesto in precedenza a Victor di essere il suo compagno nel concorso di scienze e di realizzare insieme un raggio mortale. “Avanti chi altri potrebbe essere il tuo compagno?- gli aveva detto -Tu non hai amici e nemmeno io!”. Ma Victor, per quanto possa risultare “anormale” secondo il punto di vista omologato da adulti perbenisti, in realtà non è un emarginato. Non è oggetto di bullismo da parte degli altri studenti, anzi le sue doti creative e intellettuali sono apprezzate e riconosciute da compagni di classe e professori; semplicemente non è interessato ad avere rapporti di amicizia con gli altri bambini, infatti risponde: “Non mi serve un compagno, io lavoro da solo”. L’unica amica di Victor è Elsa Van Helsing, una ragazza vestita di nero cupa e sensibile che ricorda Winona Ryder115 nel ruolo di Lydia Deetz116 in Beetlejuice – Spiritello porcello (1988) e non a caso a darle la voce nella versione originale è proprio l’attrice, che aveva già lavorato con Tim Burton anche in Edward Mani di Forbice (1990) nel ruolo di Kim e nel videoclip Here With Me dei Killers (2012)117. La Ryder viene scelta sempre dal regista per in-

113- Tim Burton, “Robot boy” e “The Melancholy Death of Oyster Boy “ in The Melancholy Death of Oyster Boy & Other Stories, UK, Harpercollins, 1997 (tr. it. di Nico Orengo, “Quel bidone di bambino” e “Morte malinconica del bambino Ostrica”in Morte malinconica del bambino Ostrica e altre storie, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a, 1998). 114- Www.disney.it/frankenweenie/personaggi 115- Tra il 1989 e il 1993 l’attrice è stata ufficialmente fidanzata con Johnny Depp. 116- Lydia è il più burtoniano fra i personaggi del film, distinguendosi per sensibilità e natura gotica. La ragazza, chiamata dal bio-esorcista Beetlejuice “Edgar Allan Poe’s daughter” si compiace della propria diversità, si crogiola nella sua condizione di solitudine e dolore ed arriva a tentare il suicidio. Grazie alla sua sensibilità macabra è l’unica che riesce a

vedere la famiglia dei Maitland, deceduta in un incidente stradale. 117- Nel video un ragazzo (interpretato da Craig Roberts) è ossessionato dall’amore a senso unico per un’attrice teatrale (Winona Ryder) e non potendola avere ruba una statua di cera con le fattezze della donna, che poi accende come una candela, animandola. Nel 2006 Burton aveva già diretto il video di Bones per i The Killers in cui la modella Devon Aoki era circondata da scheletri animati.


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terpretare il ruolo di chi, unica fra tanti, non percepisce il “mostro” come tale, ma riesce a comprenderlo, a volergli bene, addirittura ad amarlo. Questo è possibile grazie ad una spiccata sensibilità da cui scaturisce anche una profonda malinconia. Elsa (il cui cognome è una citazione aperta al film Van Helsing118 (2004) di Stephen Sommers), ha una barboncina nera con una grande chioma, Persephone. Quando lei e Sparky si rincontrano per la prima volta dopo la rianimazione del bull-terrier, tra i due scatta la scintilla: la cagnetta prende la scossa e nella sua chioma compare una linea ondulata di peli bianchi, che la fa apparire perfettamente acconciata nello stile della moglie di Frankenstein del film di Whale119, in cui l’attrice che impersonava la femmina creata per far compagnia al mostro si chiamava, guarda caso, Elsa Lancaster. Ma torniamo ad Edgar. Dopo aver visto Sparky costringe Victor a mostrargli l’esperimento tramite il quale era riuscito a riportare il cane in vita e a replicarlo su un pesce rosso morto, minacciandolo di spifferare il suo segreto. Questa volta qualcosa va storto e il pesce non solo risorge, ma diventa anche invisibile, tanto che l’unico modo per vederlo è illuminarlo con una torcia proiettando sul muro la sua ombra, che appare distorta e terribile. Victor corre a chiedere spiegazioni a Mr. Rzykrusky, meraviglioso insegnante di scienze e di vita, che nel frattempo è stato cacciato da scuola con ignominia a causa dell’ottusità dei cittadini di New Holland, spaventati dall’apertura mentale e dalla voglia di imparare che l’uo119- La moglie di Frankenstein (1935).

mo aveva infuso nei loro figli. Il sindaco, vicino di casa di Victor e zio di Elsa, aveva indetto una riunione su richiesta di una mamma e i genitori si erano schierati unanimamente contro il professore definendolo “una minaccia” e “un pazzo”. Solo il signore e la signora Frankenstein si erano dimostrati ragionevoli (anche se incapaci di andare contro-corrente a viso aperto) chiedendo di dare a Mr. Rzykrusky la possibilità di difendersi. Ma il professore aveva bruciato questa occasione condannando pubblicamente le “menti microscopiche” della folla dei genitori, spaventati dalla scienza come da tutto ciò che fa nascere domande e desiderio di esplorare, sperimentare e uscire dagli schemi, e li aveva definiti “ignoranti”, “stupidi”, “primitivi”, “non illuminati”. Così Victor riesce ad avere con lui solo un colloquio frettoloso prima della partenza definitiva, durante il quale il professore gli spiega che la scienza non è solo un fattore di cervello, ma anche di cuore; la motivazione che ci spinge a fare un esperimento o quello che proviamo verso di esso sono una variabile fondamentale dell’intero processo e se questa variabile cambia si modifica anche il risultato. Prima di salire in macchina e partire gli dà un’ultima lezione: “La scienza non è né buona né cattiva Victor, ma può essere usata in entrambe le maniere. Ecco perché tu devi fare sempre molta attenzione!”. Possiamo dire che Mr. Rzykrusky è il mentore di Victor e che a volte attraverso il ragazzino, sembra parlare direttamente a Tim Burton e al suo cinema, come quando dice: “Tentare è la cosa importante, non importa se fallisci fin quando


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continui a provare!”. L’uomo, illuminato e di conseguenza emarginato, non ha niente a che fare con la vita di apparenza dei cittadini di Ney Holland, e il suo forte accento dell’est sottolinea la sua condizione di straniero e quindi estraneo e per questo incompreso dalla schiera di borghesi omologati della città. Nel creare un personaggio di questo tipo Tim Burton si è ovviamente ispirato a Vincent Price, lugubre e colossale (era alto 1.93 cm). La voce nell’originale è di Martin Landau, che aveva già collaborato con Tim Burton in più di un’occasione, a partire da Ed Wood dove aveva interpretato la parte di Bela Lugosi, poi in Il mistero di Sleppy Hollow nei panni di Peter Van Garrett, e infine in 9120 dove aveva doppiato 2, la seconda bambola, un inventore vecchio e fragile. Mentre Victor parla con il professore, Edgar nel tentativo di essere accettato mostra il pesce invisibile agli altri compagni di classe. Nel frattempo il signore e la signora Frankenstein trovano Sparky e si spaventano al punto da terrorizzare il cagnolino stesso che, come accortosi di essere ripugnante, fugge via e va a rifugiarsi al cimitero, proprio dietro la sua lapide. Victor si adira con i genitori, che erano stati i primi a dire che se avessero potuto l’avrebbero fatto rivivere e invece poi erano rimasti inorriditi. “Si ma quello era diverso

perché non potevamo.- rispondono ammettendo inconsapevolmente la propria ipocrisia -È facile promettere l’impossibile”. Ma da genitori amorevoli quali sono, aiutano lo stesso il figlio a cercare Sparky, mentre gli altri compagni di classe di Victor, guidati da Edgar, penetrano nella casa rimasta incustodita alla ricerca di appunti e istruzioni per replicare l’esperimento di Victor. Sono tutti adolescenti disagiati o piccoli psicopatici: Toshiaki, un po’ sadico e determinato a livelli inquietanti, e il suo compagno Bob, obeso, influenzabile e mammone, che insieme rispecchiano un po’ la classica accoppiata mente malefica e braccio destro; Nassor, che nei suoi deliri di onnipotenza parla in modo lugubre come se fosse il protagonista di qualche vecchio film horror (non a caso il suo aspetto ricorda quello di Boris Karloff121); infine l’enigmatica Stranella122 dallo sguardo fisso e la voce monotono, col suo gatto chiaroveggente - il soffice Sg. Baffino - i cui escrementi a forma di lettere alfabetiche indicano presagi che nessuno ha voglia di ascoltare. Appena raccolte le informazioni, i piccoli freaks le mettono in pratica, ma come Mr. Rzykrusky aveva già spiegato a Victor, le motivazioni che stanno dietro un esperimento influiscono sull’intero processo. Il risultato in questo caso è un totale disastro che solo Victor con

120- Nonostante questo film sia stato associato a Tim Burton per pubblicizzarlo al meglio, in realtà il regista è solo uno dei sei produttori di 9, la cui direzione è affidata a Shane Acker, il quale si è occupato anche di scrivere il soggetto insieme a Ben Gluck e Pamela Pettler. 121- Boris Karloff (1887 -1969) interpretò il ruolo del mostro nel film Frankenstein(1931) di James Whale e nei sequel La moglie di Frankenstein (1935) e Il figlio di Frankenstein (1939), il ruolo della mummia in La mummia (1932) di Karl Freund e molti altri, affermandosi come uno dei più noti professionisti dell’horror tanto da essere ritenuto il più degno continuatore dell’arte di Lon Chaney (tra i più grandi interpreti di film dell’orrore dell’epoca del cinema muto statunitense). 122- Stranella (Stange Girl nell’originale) è un personaggio che già esisteva in Morte Maliconica del bambino ostrica,

dove si chiamava “La bambina che fissava”: “Una volta conobbi una bambina / che se ne stava impalata / a fissare tutto e tutti / e nient’altro la impressionava. / Fissava la terra / Fissava il cielo / Ti fissava per ore e non sapevi perché. / Ma dopo aver vinto una / gara locale per gente / che fissava tal quale / offrì ai suoi occhi / vacanze e balocchi.” (Tim Burton, The Melancholy Death of Oyster Boy & Other Stories, UK, Harpercollins, 1997 (tr. it. di Nico Orengo, Morte malinconica del bambino Ostrica e altre storie, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a, 1998).



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l’aiuto di Sparky riuscirà a sistemare, in un secondo tempo che sembra una parodia dei disaster-movie alla Godzilla (1954). Nassor e Thoshiaki si recano al New Holland Pet Cemetery per risvegliare le loro creature: il primo, decisamente megalomane, aggancia gli elettrodi direttamente a una cripta gigantesca, all’interno della quale è sepolta la mummia di Colossus, un criceto del tutto innocuo; il secondo dissotterra la tartaruga Shelley, citazione in onore della Mary scrittrice di Fran123- La tartaruga Shelley diventata gigante assomiglia a Gamera, kaiju (mostro misterioso) del cinema giapponese, protagonista di ben 12 film tra il 1965 e il 2006.

kenstein, che una volta risorta cresce fino ad assumere dimensioni da Jurassik Park123. Il viscido Egar frugando nei bidoni trova un ratto stecchito e lo riporta in vita, ma anche in questo caso qualcosa va storto e l’animale cresce fino a raggiungere le dimensioni di un uomo e un atteggiamento da ratto mannaro; Bob sceglie come cavie delle scimmiette di mare, che si trasformano in gremlins, citazione del libro I Gremlins (1943) di Roald Dahl e più in particolare al film Gremlins (1984)


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di Joe Dante in cui i piccoli mostriciattoli invadono la città e poi si rinchiudono in una sorta di pub dove bevono birra e mangiano ogni cosa; ma l’Oscar all’esperimento riuscito peggio va a Stranella, che infonde l’impulso elettrico ad un pipistrello mentre si trova fra le fauci dell’ignaro Sg. Baffino, dando vita a un ibrido terrificante che ricorda un drago. Victor, dopo aver ritrovato Sparky, accorre in aiuto dei suoi compagni riuscendo ad eliminare le bestie non-morte, ma la mutazione del Sg. Baffino riesce a catturare Persefone. Elsa e Victor accorrono in suo soccorso mentre Sparky va ad avvisare i signori Frankenstein dell’accaduto portandogli la parrucca che Elsa indossava durante la festa. Ovviamente i cittadini di New Holland, proprio come i villici di Frankenstein, se la prendono col piccolo “mostro” e pieni di risentimento e pregiudizio gli danno la caccia fino al mulino dove sta avvenendo la lotta tra il gatto-pipistrello e le sue

vittime, con tanto di torce e bastoni. Davanti agli occhi della folla Sparky salva la cagnetta e i due bambini, ma rimane ucciso e arso vivo a causa di un incendio doloso provocato dal sindaco avvicinatosi troppo alla struttura con una torcia in mano. Commossa da tanto coraggio, finalmente l’intera cittadinanza riesce a comprendere che nonostante le cuciture e i bulloni, il piccolo bull-terrier non ha niente di mostruoso. Così, collegando le batterie delle macchine, tutti insieme replicano l’esperimento ridando la vita a Sparky. Il film si chiude così col leitmotiv burtoniano della revocabilità della morte, fonte di dolore solo per chi la considera un punto di non ritorno. Sono l’immaginazione e soprattutto l’amore a trovare un senso e a ridare la speranza laddove tutto è disperato. Ed è proprio la capacità d’amare che distingue chi è mostro da chi non lo è, in un film dove tutti i personaggi sono anormali.


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Conclusioni Abbiamo visto che fin da piccolo Tim Burton si sente diverso rispetto alla società in cui vive, fuori posto tra le persone e a suo agio soltanto con i mostri cinematografici, con i quali si immedesima. Risale a questo periodo il suo amore per il Frankenstein di Whale, che rimarrà una fonte di ispirazione costante, e per Vincet Price, con il quale riuscirà a collaborare ben due volte prima della morte dell’attore. Abbiamo visto anche come le prime collaborazioni con la Disney si rivelino frustranti a causa della divergenza tra lo stile politically correct della casa di produzione e quello molto più macabro e cupo di Burton. Ancora una volta il regista si trova fuori posto, si sente sbagliato, incompreso, solo, al punto di arrivare alla depressione e a comportamenti maniacali. Possiamo quindi affermare, senza timore di sbagliarci, che il primo mostro burtoniano sia Tim Burton stesso, ed infatti è la propria sensibilità che egli infonde alla moltitudine di altereghi di fantasia che popolano i suoi film, impersonati per la maggiore da Johnny Depp, l’attore-feticcio del regista, nonché suo grande amico. Come aveva fatto il Dr. Victor Frankenstain, anche Burton dà vita a creature deformi, sbagliate, destinate ad essere outsiders. Alcune di esse sono condannate all’emarginazione dai propri difetti fisici, altre da traumi soprattutto infantili, altre ancora presentano entrambi i problemi. Molto spesso presentano inoltre caratteristiche di ambiguità che vengono oggettivate tramite maschere, costumi e makeup pesantissimo. Quello che accomuna queste creature è il fatto di essere incomprese dalla

società, al punto che alcune di esse reagiscono con violenza, proprio come aveva fatto il mostro di Frankenstein, non perché cattive, ma perché ferite, portate all’esasperazione, traumatizzate. In Big Fish è Burton che parla attraverso Edward Bloom, quando questi dice: “Quasi tutte le creature che consideriamo malvagie o cattive, sono semplicemente sole”. Il regista californiano, tramite i suoi mostriciattoli, fa un elogio struggente dei diversi e degli esclusi, parteggiando con loro anche a costo di tralasciare a volte personaggi più importanti all’interno del film. È quanto succede ad esempio nel primo Batman, in cui la figura del Joker emerge in maniera sbilanciata rispetto a quella del protagonista. Come già anticipato nell’introduzione, il “mostro” è tale solo nel momento in cui si presuppone una “normalità” con cui metterlo in relazione. Nel primo periodo il termine di paragone con cui confrontare, o meglio, far scontrare, il Burton-character di turno, è soprattutto la provincia americana borghese in cui il regista era cresciuto, rappresentata per lo più da cittadine con villette a schiera e vicini di casa pettegoli (Vincent, Frankenweenie, Pee-Wee’s Big Adventure, Beetlejuice, Edward mani di forbice, Dark Shadows). Nell’ultimo periodo invece la società all’interno della quale vengono inseriti i diversi è molto spesso quella vittoriana, bigotta e conformista per antonomasia (La sposa cadavere, Sweeney Todd. Alice in Wonderland, Dark Shadows124). Ma le varianti sono moltissime: una città priva di mostri dove è sempre Natale (Tim Burton’s Nightmare Before Christmas), il cinema


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ufficiale (Ed Wood), il mondo della politica e della comunicazione (Batman, Mars Attacks!), un pianeta popolato da scimmie (Il pianeta delle scimmie), il pensiero razionale (Il mistero di Sleepy Hollow), il mondo dei vivi (Beetlejuice, La sposa cadavere). I personaggi che si fanno carico in particolar modo della visione politica dell’autore, troppo spesso ignorata dai critici cinematografici, sono quelli sovversivi, anarchici, carnevaleschi, sfrenati e irriverenti, che deridono e rovesciano la realtà, a partire da Beetlejuice, per proseguire poi con il Joker125, gli alieni di Mars Attacks! e i morti di La sposa cadavere. Ci sono anche innumerevoli personaggi che “finiscono in un aldilà che ha il sapore metaforico del confine della nostra società”126, e che dopo esserne stati 124- La vicenda inizia in epoca vittoriana e prosegue con il risveglio di Barnabas Collins, vampiro e dunque immortale, negli anni ‘70 del 1900. 125- Non a caso la prima uscita pubblica di Joker avviene davanti al municipio di Gotham.

espulsi ritornano a contaminare il “normale”, come “rinvigoriti dall’esperienza iniziatica della morte sfiorata o addirittura superata127”. Tutti questi antieroi hanno in comune la non accettazione della morte, la cui esorcizzazione è un elemento ricorrente nella filmografia del regista. Lo humor nero sembra svolgere una funzione apotropaica di scongiuro della precarietà della vita umana, la quale verrà serenamente accettata soltanto con Big Fish. A causa della ricorrenza di tematiche e di personaggi che incarnano la medesima condizione, quella di outsider appunto, Burton viene spesso accusato da critici e bloggers di fare sempre lo stesso film. In realtà, la poetica del regista si evolve e, pur riflettendo sempre sul concetto di diversità, elabora via via rispo-

126- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010. 127- Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010.


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ste diverse, che procedono pari passo con la maturazione personale e professionale del cineasta stesso. La trasformazione dell’io autoriale si riflette nei personaggi, i quali a loro volta sono strettamente collegati alla dicotomia realtà–fantasia, altro cardine del cinema di Burton. Il bambino protagonista di Vincent è il primo alterego del regista, un io-diviso che incarna il topos della mutazione fisica, dell’ambiguità, e della fascinazione per il macabro ricorrente in tutta la filmografia burtoniana. In lui convivono due nature antitetiche: incompreso ed isolato nella vita reale, si sente forte solo nel mondo fantastico. In linea con l’estetica gotic degli anni ‘80, un fattore che contribuisce ad evidenziare il contrasto fra le due dimensioni è il rapporto luci/ombre in quanto l’oscurità avvolge, paradossalmente, la positività dei deliri solipsistici del bambino, macabri ma felici, e la luce accompagna la realtà. Inizialmente, quindi, il mondo vissuto e il mondo immagi-

nato si trovano su piani diversi e inconciliabili tra loro. Edward mani di forbice, figura adolescenziale, è sicuramente il personaggio più rappresentativo di questo primo periodo in cui il piano della realtà è visto come estremamente negativo e conformista e la sua rappresentazione, come già detto, è legata ai ricordi infantili della Burbank in cui il regista era cresciuto. L’immaginazione è una valvola di sfogo, una via di fuga, l’unico luogo in cui i reietti possono rintanarsi dopo aver visto frustrato il loro tentativo di integrazione, per poi limitarsi a contemplare malinconicamente la propria condizione di outsider con una punta di piacere masochistico. La “normalità” rappresenta l’ unico strumento per ottenere l’integrazione, ed è agognata, anche se diventare come tutti gli altri comportala perdita delle proprie peculiarità, ossia quelle caratteristiche che, nel male e nel bene, rendono ciascuno diverso a modo suo e quindi speciale: nel caso di Edward le forbici, fonte di distruzione ma anche di creazione, nel caso di Burton l’animo dark in contraddizione, solo


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apparente, con gli interessi commerciali delle case di produzione. L’oscurità continua a rappresentare visivamente ciò che è fuori dal comune in contrapposizione al coloratissimo mondo della normalità. Ma se pensiamo a La fabbrica di cioccolato le cose sono diverse. A partire da Big Fish infatti un’esplosione di colori invade lo schermo e va a caratterizzare le componenti più strambe e fantasiose, che siano luoghi o personaggi. Questo perché progressivamente la stranezza inizia ad acquisire un valore positivo e di pari passo il ruolo del Burton-character si trasforma da passivo in attivo, mentre la frattura tra realtà e immaginazione si rimargina. Il fantastico diventa parte della vita quotidiana, trasformandosi da strumento di fuga a strumento di sopravviven-

za atto a rendere più tollerabile il reale, ma senza evitarlo. Emerge quindi un atteggiamento più maturo e attivo per stare al mondo e la fantasia e la particolarità diventano i valori positivi che colorano la realtà, la cui considerazione negativa si radicalizza facendo spazio a nuove sconsolate e acide considerazioni di natura politica e sociale, che emergeranno soprattutto in Sweeney Todd – The Demon Barber of Fleet Street. Di fronte all’incomprensione da parte del padre o ai tradimenti dei suoi operai, il cioccolatiere non reagisce con passiva accettazione, ma, a sua volta, con cinico disprezzo verso la famiglia e la società in generale. Si fa scudo della misantropia e della finta certezza di non aver bisogno di un padre, anzi di potersi realizzare più facilmente


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senza di lui, e colpisce l’istituzione familiare, specchio della società, punendo i bambini che arrivano nella sua fabbrica davanti agli occhi dei rispettivi genitori, con una sorta di legge del contrappasso, che anticipa lo spirito vendicativo di Sweeney Todd. La malinconia dell’escluso cede quindi il posto ad una, molto più ironica, autoesclusione da parte di un diverso, che, schifato dal genere umano, ha saputo prendersi la propria rivincita, puntando tutto, con successo, su quelle stesse caratteristiche che gli avevano impedito di essere accettato in un primo tempo. È come se Edward, dopo essere stato cacciato dalla cittadina invece che rimanere nascosto e solo nel suo castello, rassegnandosi ad essere considerato un mostro, si fosse rimboccato le maniche e

avesse ricominciato una vita altrove, aprendo un salone di bellezza e diventando il parrucchiere più famoso del mondo con le proprie forze. Inoltre Willy Wonka non vive solo, ma con altri diversi, gli Umpa Lumpa. L’antieroe burtoniano infatti, pur rimanendo escluso da una certa realtà, a partire da Jack Skellington di Tim Burton’s Nightmare Before Christmas, trova comunque una dimensione dove vivere a proprio agio ed essere amato fra altre creature strane e sgangherate. Sweeney Todd rappresenta un’ evoluzione estrema del Burton-character verso un atteggiamento sempre più cinico e vendicativo verso la società che lo espelle. Con il volto segnato dalla sofferenza, occhiaie profonde, pallore spettrale, ciuffo di grigia stanchezza che attraversa la chioma


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scura, Todd torna a Londra dopo 15 anni di ingiusta prigionia con in mente il pensiero martellante della vendetta contro colui che gli aveva tolto la felicità. Ma la rabbia è troppa per essere incanalata contro una sola persona, così il barbiere inizia ad uccidere indiscriminatamente i suoi clienti, anche quelli che neppure conosce, perché comunque colpevoli di far parte di quella società metaforicamente

cannibale in cui vale la legge dell’eat or be eaten, a cui li restituisce sottofoma di pasticcio di carne. Le armi con le quali uccide sono i rasoi dal manico d’argento cesellato, i suoi unici “amici”, strumento di lavoro e di omicidio e prolungamenti del suo braccio. Sweeney Todd è un Edward diventato adulto che torna dopo anni di esilio nella società che lo aveva respinto considerandolo ingiustamente un


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mostro, comportandosi come tale ed ottenendo così la sua vendetta. Quest’idea, così violenta e in un certo senso anche politica, era già presente nel personaggio del Pinguino di Batman – Il ritorno e verrà impersonata successivamente anche dalla Regina Rossa di

Alice in Wondeland. La realtà, di un grigiore quasi assoluto a tratti spezzato dal rosso sangue degli omicidi, ha avuto la meglio sull’immaginazione. Lo spazio lasciato alla fantasia è minimo ed è riservato solo ai sogni ad occhi aperti, deliranti e coloratissimi, di Mrs. Lovett, che però non possono essere considerati una delicata fantasia di fuga, quanto piuttosto la manifestazione di un’ossessione. Il contatto col mondo è spesso precluso ai personaggi burtoniani, per colpa delle mani di forbice, delle pinne o dei guanti in lattice, tutte metafore di quell’incapacità di entrare in sintonia con la realtà che li caratterizza. Le creature del regista spesso comunicano attraverso gli occhi, che emergono giganti dai volti pallidi, al cinema come nelle illustrazioni. Il demoniaco barbiere di Fleet Street è fra i nuovi personaggi di Burton il più risoluto, quello che più degli altri prende in mano il suo destino e decide di non toccare il mondo, se non per uccidere. Gli occhi sono impenetrabili, non comunicano altro se non una profonda introversione; lo sguardo non è rivolto all’esterno, ma all’interno. Per Todd non c’è salvezza nemmeno con l’immaginazione, al punto che persino nei sogni di Mrs. Lovett lui

mantiene lo stesso identico sguardo spento di sempre, fisso sul desiderio ossessivo della vendetta, che alla fine lo porterà all’autodistruzione. Per la prima volta nel cinema di Burton la morte non viene scongiurata ma invocata. Il mostro burtoniano si è fin qui evoluto, partendo da un atteggiamento passivo in cui l’emarginazione viene accettata a malincuore e l’unica forma di salvezza sta nell’immaginazione, diventando via via più cinico e intraprendente, spinto da un senso di rivalsa che infine sfocia nella vendetta ormai spoglia di ogni ironia, e da una misantropia che in un primo tempo individua nell’isolamento l’unica possibilità di salvezza, arrivando poi a livelli estremi di distruzione e autodistruzione. Se la filmografia di Burton si esaurisse qui il verdetto sarebbe questo: chi è diverso é condannato alla solitudine, alla rabbia e alla disperazione. Ma la riflessione di Burton va avanti. Con Frankenweenie il regista fa un salto nel passato e torna ad ambientare la vicenda in una cittadina di periferia molto simile a quella di Edward mani di forbice, con tanto di vicini ficcanaso, conformismo e chiusura mentale. Tutti i personaggi sono a loro modo strampalati e grotteschi, ma il mostro di turno, inteso come



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creatura che a causa di deformità fisiche diventa soggetto di pregiudizi e viene esiliato, è il cagnolino Sparky. Come nel corto originale, dopo un iniziale rigetto generato dalla paura e dall’ignoranza, la “folla dei villici”, riesce a comprendere che sotto i bulloni e le cuciture del bull-terrier si cela una creatura buona e coraggiosa e quindi, commossa, lo aiuta a risorgere. L’amore che, come in ogni favola firmata Disney, alla fine vince, è un ingrediente atipico nella cinematografia burtoniana, seppur in realtà estremamente banale. Ma il più vistoso Burton-character del film è Victor Frankenstein, bambino creativo ed appassionato di cinema, somigliante al regista e quindi alla maggior parte dei suoi alterego cinematografici, a partire da Vincent e da Victor di La sposa cadavere, di cui è l’esatta copia in versione più giovane, ma anche a Edward mani di forbice e Sweeney Todd, entrambi interpretati da Johnny Depp. La novità è che Victor non è un outsider: non viene escluso dai suoi compagni di classe per la sua diversità, anzi viene stimato per la sua intelligenza e soprattutto non si distingue per stranezza; non è misantropo nè arrabbiato. È semplicemente un ragazzino solitario, molto maturo ed equilibrato, consapevole di sé e del proprio potenziale, che non prova interesse nel fare amicizia con i suoi coetanei, poiché li trova molto meno stimolanti delle sue passioni, ma che sa anche comportarsi a modo e non disdegna l’amicizia di quelle persone che, come Elsa, sente simili a lui. Era stata Alice (Alice in Wonderland) ad inaugurare questa nuova tipologia di personaggi anticonformisti ed orgogliosi di esserlo. Il tormento dell’outsider sembra essere svanito per lasciare il posto a nuove creature, conscie del proprio posto nel mondo e delle proprie peculiarità, capaci di amare e di essere amate, che vivono come un punto di forza la

propria creatività e vengono accettate grazie al proprio valore, nonostante le differenze. Sono passati 22 anni da Edward mani di forbice e Tim Burton è diventato uno dei registi più riconosciuti al mondo. Nel corso del tempo il suo stile è diventato estremamente popolare e imitato, al punto che è stato coniato l’aggettivo “burtoniano”, e lui stesso ha alimentato il culto di sé stesso, o forse potremmo dire, del proprio personaggio, rilasciando interviste su interviste in cui parla di sé, della propria infanzia e dei film che hanno ispirato il suo immaginario. Nel 2007 ha vinto il Leone d’Oro alla carriera, guadagnandosi, erroneamente, la fama del regista più giovane ad aver vinto questo premio (in realtà quando Spielberg ricevette lo stesso premio aveva due anni meno di Burton, ma il popolo di internet, Wikipedia e importanti testate giornalistiche sembrano ignorarlo). Dal 22 novembre 2009 al 26 aprile 2010 il MoMA di New York ha allestito una mostra personale a lui dedicata, in cui il cineasta è emerso come artista a tutto tondo. Nel 2010 inoltre è stato il primo regista proveniente dal mondo dell’animazione a presiedere alla giuria del Festival di Cannes. Alla luce di tutto ciò, può ancora Tim Burton considerarsi ed essere considerato un outsider?





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Bibliografia

Simone Spoladori, Tim Burton – Il paese gotico della meraviglie, Recco (GE), Le Mani, 2010 A cura di Mark Salisbury, Burton on Burton, UK, Faber and Faber Limited, 1995 (tr. it. Di Gualtiero De Marinis, Burton racconta Burton,, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011) Aurélian Ferenczi, Tim Burton, Cahiers du Cinema, 2010 Ken Hanke, Tim Burton: An Unauthorized Biography of the Filmmaker, St. Matin’s Press, 1999 (tr. it. B. Piazzese Tim Burton – Una biografia non autorizzata, Lindau, 2011). Ron Magliozzi e Jenny He, Tim Burton, New York, MoMA, 2009 Mauro di Donato, Tim Burton. Visioni di confine, Bulzoni editore, 1999 Massimiliano Spanu, Tim Burton, Il Castoro, 2007 De Baecque, Tim Burton, Lindau, Torino, 2007 Tim Burton, The Melancholy Death of Oyster Boy & Other Stories, UK, Harpercollins, 1997 (tr. it. di Nico Orengo, Morte malinconica del bambino Ostrica e altre storie, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a, 1998) David J. Skal, “Him and Me: A Personal Slice of the Dracula Century”, Scarlet Street - The Magazine of Mystery and Horror #26, gennaio 1998 Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 2000 Fadda, “La morte si fa bella / La sposa cadavere di Tim Burton”, Cineforum, N.449


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Sitografia

“Tim Burton”, it.wikipedia.org “Tim Burton”, www.mymovies.it Tim Burton, “Il nuovo mostro di Tim Burton è Johnny Depp, il vampiro”, www.repubblica.it Tim Burton, “Il mio fantastico, fra Fellini e Mario Bava”, www.cinema.it “Frankenweenie”, www.disney.it Tim Burton, www.cinema.it


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Filmografia

Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari), Robert Wiene,Germania, 1920 Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens), Friedrich Wilhelm Murnau, Germania, 1922 Dracula, Tod Browning e Karl Freund, USA, 1931 Frankenstein, Kames Whale, USA, 1931 Freaks, Tod Browning, USA, 1932 King Kong, Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, USA, 1933 La moglie di Frankenstein, James Whale, USA, 1935 La calunnia (These Three), William Wyler, USA, 1936 Il figlio di Frankenstein, Rowland V. Lee, USA, 1939 La maschera di cera (House of Wax), Andrè De Toth, USA, 1953 Godzilla (ゴジラ Gojira), Ishirō Honda, Giappone,1954 Gioventù Bruciata (Rebel Without a Cause), Nicholas Ray, USA, 1955 Il giglio nero (The Bad Seed), Mervyn LeRoy, 1956 La piccola bottega degli orrori (The Little Shop of Horrors), Roger Corman, USA, 1960


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Il pozzo e il pendolo (The Pit and the Pendulum), Roger Corman, USA, 1961 Quelle due (The Children’s Hour), William Wyler, USA, 1961 Il giorno dopo la fine del mondo (Panic in Year Zero!), Ray Milland, USA, 1962 8½, Federico Fellini, Italia, Francia, 1963 La tomba di Ligeia (The Tomb of Ligeia), Roger Corman, Regno Unito, 1964 Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes), Franklin J. Schaffner, USA, 1968 Fellini Satyricon, Federico Fellini, Italia, 1969 Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (Willy Wonka & the Chocolate Factory), American Graffiti, George Lucas, USA, 1973 The Elephant Man, David Lynch, USA, Regno Unito, 1980 Vincent, Tim Burton, USA, 1982 E.T, Steven Spielberg, USA, 1982 I ragazzi della 56ª strada (The Outsiders), Francis Ford Coppola, USA, 1983 Gremlins, Joe Dante, USA, 1984 Frankenweenie, Tim Burton, USA, 1984 Pee-wee’s Big Adventure,

Tim Burton, USA, 1985

Velluto blu (Blue Velvet), David Lynch, USA, 1986 Beetlejuice - Spiritello porcello, Tim Burton, USA, 1988 Batman, Tim Burton, USA, Regno Unito, 1989 Edward mani di forbice (Edward Scissorhands), Tim Burton, USA, 1990 Batman - Il ritorno (Batman Returns), Tim Burton, USA, Regno Unito, 1992 Tim Burton’s Nightmare Before Christmas, Henry Selick, USA, 1993

Mel Stuart, USA, 1971


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Ed Wood, Tim Burton, USA, 1994 Mars Attacks!, Tim Burton, USA, 1996 James e la pesca gigante (James and the Giant Peach), USA, Regno Unito, Henry Selick, 1996 Batman & Robin, Joel Schumacher, Usa, Regno Unito, 1997 Il mistero di Sleepy Hollow (Sleepy Hollow), Tim Burton, USA, 1999 Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie, Tim Burton, USA, 2001 Big Fish - Le storie di una vita incredibile (Big Fish: A Novel of Mythic Proportion), Tim Burton, USA, 2003 Lemony Snicket - Una serie di sfortunati eventi (Lemony Snicket’s A Series of Unfortunate Events), Brad Silberling, USA, 2004 Van Helsing, Stephen Sommers, USA, 2004 La fabbrica di cioccolato (Charlie and the Chocolate Factory), Tim Burton, USA, Regno Unito, 2005 La sposa cadavere (Corpse Bride), Tim Burton,

USA, Regno Unito, 2005

Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street (Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street), Tim Burton, USA, Regno Unito, 2007 Coraline e la porta magica (Coraline), Henry Selick, USA, 2009 9, Shane Acker, USA, 2009 Alice in Wonderland, Tim Burton, USA, 2010 Dark Shadows. Tim Burton, USA, 2012 Frankenweenie, Tim Burton, USA, 2012 La bottega dei suicidi (Le Magasin des suicides), Patrice Leconte, Francia, Canada, Belgio, 2012 Hotel Transylvania, Genndy Tartakovsky, USA, 2012


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