Il Paese della Vergogna

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Pamphlet, documenti, storie. REVERSE


Autori e amici di

chiarelettere Avventura Urbana Torino, Andrea Bajani, Gianni Barbacetto, Oliviero Beha, Marco Belpoliti, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Caterina Bonvicini, Alessandra Bortolami, Giovanna Boursier, Carla Buzza, Davide Carlucci, Carla Castellacci, Pino Corrias, Gabriele D’Autilia, Andrea Di Caro, Giovanni Fasanella, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De AndrÊ, Goffredo Fofi, Massimo Fubini, Milena Gabanelli, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi, Salvatore Giannella, Stefano Giovanardi, Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Ferdinando Imposimato, Karenfilm, Marco Lillo, Giuseppe Lo Bianco, Carmelo Lopapa, Vittorio Malagutti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Angelo Miotto, Giorgio Morbello, Alberto Nerazzini, Sandro Orlando, Pietro Palladino (corporate identity), David Pearson (graphic design), Maria Perosino, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Paola Porciello (web editor), Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato, Luca Rastello, Marco Revelli, Gianluigi Ricuperati, Sandra Rizza, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro, Matteo Scanni, Marco Travaglio, Carlo Zanda.


PRETESTO 1

f a pagina 11

“La giustizia e la storia non possono mai cedere il passo a niente e nessuno, mentre ancora i superstiti delle stragi, i parenti delle vittime, io mi auguro tutto il popolo italiano, attendono che le piĂš alte cariche dello Stato... chiedano perdono in nome della nazione che rappresentano.â€? Dalla Prefazione di Franco Giustolisi


PRETESTO 2 f a pagina 92

“Degli assassini, delle loro pistole, di ciò che sarĂ detto negli anni davanti a giudici e magistrati, dei particolari inesatti, delle troppe contraddizioni, restano tracce indelebili... Quelle che solo a leggerle attentamente sarebbero la base accusatoria di un processo mai svolto, di una giustizia mai ottenuta.â€?


f a pagina 81-82 “La notizia dell’omicidio di via Mancinelli fa in breve tempo il giro di Milano. Via Mancinelli è come un fiume in piena. La strada è invasa da persone, non si distingue più il selciato. La metropolitana è come un’enorme arca che porta gente dai quartieri più periferici della città... Ragazzi e ragazze entrano dappertutto, e gridano, e urlano a gran voce: Hanno ucciso Fausto e Iaio, hanno ammazzato due come noi.” f a pagina 66

Com’era avere vent’anni. “Sergio Ramelli è un giovane militante del Fronte della Gioventù... Viene aggredito da alcuni giovani di Avanguardia operaia... Tenta di difendersi... Urla forte ma viene colpito più volte e lasciato a terra esanime. Lo soccorrono alcuni passanti... Muore il 29 aprile 1975.”


Š Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo Editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: Via Guerrazzi, 9 - Milano ISBN

978-88-6190-006-6

Prima edizione: giugno 2007 www.chiarelettere.it BLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA


Daniele Biacchessi

Il paese della vergogna Prefazione di Franco Giustolisi

chiarelettere



Daniele Biacchessi, giornalista e scrittore, è anche autore, regista e interprete di teatro narrativo civile. Dal 2004 porta i suoi spettacoli in tutta Italia, per mantenere viva la memoria delle tante vittime innocenti spesso dimenticate o letteralmente rimosse da chi fa informazione. E da chi amministra la giustizia. È vicecaporedattore di Radio24-Il Sole24ore, dove ha condotto Giallo e Nero, trasmissione dedicata ai misteri d’Italia, e attualmente conduce Storia, una ricognizione sul nostro passato più recente fatta attraverso testimonianze di uomini delle istituzioni, giornalisti, scrittori. Dal 1975 ha lavorato e collaborato con numerose testate, tra cui Radio Popolare, Radio Lombardia, Telemilano 2, Rete A, Antenna3, «l’Unità», «L’Europeo», «Il Mucchio Selvaggio». È stato direttore della sede milanese, inviato e cronista parlamentare di Italia Radio dal 1988 al 1999. Ha pubblicato numerosi libri d’inchiesta. Ricordiamo La fabbrica dei profumi (1995), sul disastro ambientale di Seveso, Fausto e Iaio (1996), Roberto Franceschi: processo di polizia (2004), Walter Tobagi. Morte di un giornalista (2005), Una stella a cinque punte. I poliziotti delle inchieste D’Antona e Biagi (2007) tutti pubblicati da Baldini Castoldi Dalai. E ancora Un attimo... vent’anni (Pendragon 2001), storia dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna, Il delitto D’Antona (2001) e L’ultima bicicletta. Il delitto Biagi (2003), pubblicati dall’editore Mursia.



Sommario

Prefazione di Franco Giustolisi

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IL PAESE DELLA VERGOGNA

Introduzione

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Nota al testo

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Il prezzo dell’ingiustizia

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E pensare che era già tutto scritto e catalogato

Piazza Fontana. E poi...

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Le verità indicibili e il meccano della Giustizia

Senza pietà

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C’è chi semina solo morte

Spari nel buio

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Com’era avere vent’anni

Anni Settanta. In tre storie

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Quando ancora i giovani erano impegnati politicamente

Piovre Una storia che parte da molto lontano

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Prefazione di Franco Giustolisi



Questo libro parla di stragi nazifasciste, degli anni Settanta con terrorismo rosso e nero, di mafia. Retaggi pesantissimi i cui fantasmi, ma non si tratta solo di fantasmi, ci portiamo dietro ben più che da una vita. Ne uscirà un quadro, io credo, veritiero e crudele, verità e crudezza date dai fatti. E ci si domanda, se cerchiamo di uscire dal pettegolezzo, dal chiacchiericcio: in che paese viviamo? La risposta mi è arrivata da una cittadina industriale concreta e bella, Correggio, in provincia di Reggio Emilia. Ero stato invitato lì nei primi mesi del 2006 per la presentazione del mio libro L’armadio della vergogna, in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della locale Camera del Lavoro. Ricordo che la mattina dopo sulla «Gazzetta di Reggio» vidi un titolo, sparato in prima pagina, che mi fece incazzare: «Reggio Emilia deve fare i conti con il suo passato». Motivo: uno dei libri di Pansa sui suoi ripensamenti storici. Ma quali conti? Per le vendette, per qualche vendetta di chi aveva sparato ai criminali che gli avevano ucciso il padre, il fratello, la moglie? Vent’anni di dittatura e venti mesi, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 fecero sgorgare tanto sangue innocente: civili, non partigiani, bambini, vecchi, donne. Un fiume di sangue, partico-


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larmente in Toscana ed Emilia Romagna grazie ai lanzichenecchi di Hitler e del Mussolini di Salò. Fare i conti con il nostro passato? Farli noi che siamo stati le vittime? Si vuole un pari e patta? Eh, già, questo si sarebbe voluto, e ritengo che lo si voglia ancora, come quando un senatore di Alleanza nazionale presentò la proposta per equiparare i repubblichini ai partigiani, riscuotendo persino gli applausi, come riportano gli atti delle cronache parlamentari, dei suoi alleati di coalizione berlusconiana. Ho sempre ripetuto, in ogni occasione che mi si è presentata, e sono state centinaia e centinaia, in giro per l’Italia a presentare L’armadio della vergogna – una necessità dato lo sporco silenzio dell’informazione sul tema delle stragi nazifasciste – i concetti di Italo Calvino e Norberto Bobbio. Sto qui a ripeterli nella loro essenza perché delimitano quel che è stato e quel che è: anche il più feroce, il più ributtante, il più interessato dei partigiani si batteva per la libertà; anche il più dolce, il più idealista, il più mite dei repubblichini si batteva per la dittatura. Reggio deve fare i conti con il suo passato? Mi ero inferocito. Corsi a Carpi, dov’ero già stato in occasione di una ricorrenza che riguardava il lager di Fossoli in cui furono massacrati settantadue antifascisti, parlai con il sindaco, telefonai a quello di Reggio: «Dovete reagire, sono gli altri che hanno un conto con voi...». Mi assicurarono che avrebbero fatto qualcosa. Non fecero niente. Il motivo l’ho compreso qualche tempo dopo, e poi lo spiegherò. Ora voglio raccontare perché ho legato la vicenda di Correggio al libro di Biacchessi. Poco prima del 27 gennaio, Giorno della Memoria, del 2007, Renzo Giannoccolo, uno dei sindacalisti della Cgil, mi chiese per il loro giornale un articolo. Sono stato ben


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felice di farlo e gliel’ho inviato. Qualche giorno dopo me lo ha rinviato, nell’ipotesi che avessi voluto apportare delle correzioni, con il titolo che aveva preparato: «Il paese della vergogna». Questa intestazione gli venne istintivamente leggendo quel che avevo scritto e che in modo meno sintetico e con altro taglio è ciò che sto scrivendo ora. La mancanza di reazione, dunque, di fronte a un’offesa così pesante: è Reggio che deve fare i conti con il suo passato? Perché? La chiave di lettura me la dette l’11 aprile 2006 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Era come si ricorderà il giorno successivo alle elezioni vinte, sia pure per un soffio, dal centrosinistra. Ero andato da lui dopo l’esito sconcertante della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi nazifasciste, alla quale era stato in un certo senso proprio lui a dare il la quando ci ricevette al Quirinale nel febbraio del 2001. Il «ci» si riferisce al fatto che oltre a me c’era l’allora sindaco di Stazzema, Gian Piero Lorenzoni, e pochi altri, a nome del neonato Comitato per la Verità, la Giustizia, la Storia e la Memoria. Allora, quella seconda volta, Ciampi non aveva ancora deciso, o se aveva già deciso non me lo comunicò, se ripresentarsi o meno per la massima carica di Capo dello Stato. Gli illustrai le conclusioni a dir poco gaglioffe di quella che era stata nella precedente legislatura la maggioranza. Addirittura il relatore, che poi era Enzo Raisi di Alleanza nazionale, designato a quel ruolo con assai scarso spirito di eleganza, aveva messo in discussione il carteggio tra i due ministri di un Governo Segni del 1956, Gaetano Martino, liberale, ministro degli Esteri, e Paolo Emilio Taviani, democristiano, ministro della Difesa. Il primo, al quale si era rivolto un magistrato militare per chiedere se si potevano processare i criminali nazisti che avevano ucciso


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a tradimento a Cefalonia dai quattromilacinquecento ai seimilacinquecento militari della divisione Acqui, scriveva al suo collega Taviani che, pur trattandosi di delitti infami, era meglio mettere da parte la giustizia, se si voleva il riarmo della Germania in funzione anti-Urss. E così avvenne, nel nome della Nato, sacro oggetto di desiderio e di genuflessione. Parole chiarissime che bloccarono l’inchiesta, anche se poi, paradossalmente, fu fatto il processo a una trentina di superstiti della divisione Acqui accusati di aver subornato il comandante, generale Antonio Gandin, convincendolo a non consegnare le armi ai nazisti: per una singolare deviazione del «paese della vergogna» verranno assolti. Taviani mi confermò il fatto in una lunga intervista, ma Raisi ha affermato negli atti del Parlamento che si trattava di un carteggio «personale», avvalendosi tra l’altro della testimonianza di Giulio Andreotti. Ricordo a chi non ne fosse a conoscenza che nell’armadio della vergogna sono stati rinchiusi per oltre mezzo secolo seicentonovantacinque fascicoli che raccontavano degli eccidi di cui furono vittime tanti innocenti. E in quattrocentoquindici di questi fascicoli erano già annotati dall’immediato dopoguerra i nomi degli assassini. E allora Martino (padre di Antonio, ministro di Berlusconi) scrive al suo collega per esprimere opinioni private? Sembra che si scambino pareri sulle loro preferenze alimentari. Martino, siciliano, opta per la pasta alla Norma, quella con le melanzane, Taviani, invece, da buon genovese, tifa per le trenette al pesto. Ma questo non spiega perché quei fascicoli rimasero nell’armadio. Ed ecco che cosa afferma, allora, Raisi, con approvazione ben si intende degli altri berlusconidi: rimasero lì, quei fascicoli con decine e decine di migliaia di cadaveri resi tali da centinaia e centinaia di assassini, perché i magistrati mili-


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tari dell’epoca pensavano ad altro: dovevano accompagnare figli o nipotini a scuola, la moglie a far compere o erano impegnati in lunghi tornei di tressette o di bridge. O, sempre a causa di quella benedetta «noncuranza», si erano addirittura dimenticati di quell’onda di delitti. L’ineffabile Raisi se n’è uscito su «QN» (il «Quotidiano Nazionale» che raggruppa «Il Resto del Carlino», «La Nazione», «Il Giorno», purtroppo non più quello dei tempi miei, cioè gli anni Sessanta) con un lungo articolo dal titolo «L’armadio della vergogna? Un’invenzione della sinistra». Questo accadeva il 16 gennaio 2007. Gli ho risposto a ruota il 21 gennaio, concludendo così: «Lui è l’espressione vivente della falsità della svolta di Fiuggi: fascista era e fascista è rimasto». Nella risposta me la prendevo con Arrigo Petacco per il suo commento, insieme a quello, in tandem, di Nicola Caracciolo su «la Repubblica» sulla strage di Marzabotto: è possibile, si sono domandati i due, arrivare a una sentenza dopo così tanto tempo? Una sentenza di condanna dopo sessantadue anni? Se la son presa persino, facendo passare questo messaggio sui due più importanti giornali italiani, con le lentezze croniche della giustizia, che in questo caso proprio nulla c’entrano. E hanno dimenticato, non so se lo sapessero o meno, che certi delitti, quelli contro l’umanità, non cadono mai in prescrizione. Qualche lacrimuccia, poi, potevano pur versarla per un’altra categoria di vecchietti: i superstiti, i familiari delle vittime. E per tutti noi cittadini italiani, vecchietti e no, che hanno, che abbiamo scoperto l’armadio della vergogna e relative stragi dopo oltre mezzo secolo non perché i giudici militari pensavano ad altro, ma perché un governo di centrodestra, io sostengo a guida degasperiana, impedì, per Ragion di Stato ancora ignota, che venisse fatta giustizia. Probabilmente è questo il motivo dell’ignobile conclu-


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sione della relazione, clerical-fascista, di quella vecchia maggioranza: che non venisse neanche sfiorato il sacro nome di De Gasperi e, di questo sono ancora più sicuro, affinché non emergesse il vile ruolo dei repubblichini, concorrenti, in quanto a ferocia, delle SS. Ma non basta: in un aggrovigliato arzigogolare hanno cercato di insinuare che l’armadio fosse la prosecuzione logica dell’amnistia Togliatti. Me ne ero reso conto quando fui sentito in Commissione – la parola esatta è assai più suntuosa: audito. Ero seduto a fianco del presidente, posto riservato a tutti i testimoni, ma tra noi due correva gelo reciproco. Il motivo: durante un’intervista televisiva a una domanda dello sprovveduto giornalista che gli chiedeva di quali partiti fosse la responsabilità della sepoltura della giustizia nell’armadio, rispose: «Tutti i partiti». Per ogni dove, dove ho potuto e dove mi è capitato, a voce o per iscritto, ho contestato quell’affermazione (nonché la passività dello sprovveduto collega che non chiese chiarimenti). Ho sempre sostenuto che si tratta di un falso, come dimostra una lettera del giugno 1947 nella quale si attestava che i processi erano pronti. Ebbene, da un mese e pochi giorni era cambiata la maggioranza di governo, dal centrosinistra al centrodestra. Ergo, per sapere chi sia stato l’affossatore si deve cercare tra i governanti dal giugno 1947 in poi, tutti di centrodestra. In quell’occasione, a parte l’ironia sull’armadio della vergogna del quale tuttavia tutti i testimoni hanno concordemente confermato l’esistenza, un fascista e un democristiano – uno dell’Udc, per essere chiaro – si arrampicarono sullo specchio del parallelismo tra l’amnistia Togliatti e l’armadio della vergogna. Rispondo come avrebbe fatto un qualsiasi ragazzo delle scuole medie che fosse arrivato a certi temi: l’amnistia, discutibile finché si vuole, fu un provvedimento preso alla luce del sole,


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discusso e approvato dal Parlamento. L’armadio, invece, rappresentò e rappresenta una violenta ribalderia politica perché furtivamente si privò della giustizia il popolo italiano. Ciampi, durante il nostro colloquio, mi fece intendere che, tuttavia, la relazione della vecchia minoranza era diversa. Non potei però fare a meno di rilevare che non aveva indicato chi fu l’autore del mastodontico affossamento. Potere o volere? Questione di Ragion di Stato? Del resto la mancanza di vigore, nerbo e possanza secondo il mio punto di vista, proveniva dalla vecchia idea del vecchio Pci, largamente condivisibile in generale, di cercare di unire piuttosto che dividere. Giusto. Non si erano resi conto, quelli dell’opposizione di allora, di chi avevano di fronte? Evidentemente no, se Carlo Carli, non il comico triestino, come informa Internet, bensì il deputato (ora ex) di Viareggio, capogruppo dei ds in Commissione, si propose come relatore di tutti, maggioranza e opposizione. Non si misero a ridere in sua presenza, ma forse tra loro lo fecero, visto quel che avevano in animo di dire e lo dissero con la loro relazione. M’era venuto in mente di denunciarli alla Procura della Repubblica di Roma perché non sono andati a cercare dove dovevano andare o se ci sono andati lo hanno fatto solo come alibi senza approfondire nulla. Ma mi fu ricordato che le opinioni dei politici, e in questo caso, stando ai tecnici del ramo, siamo in tema di opinioni, sono insindacabili. Lo dice la Costituzione, purtroppo, creata in anni in cui la politica, specie quella di sinistra, doveva escogitare tutti i mezzi per difendersi. Comunque, oggi, su questo punto, visto quel che ci è stato sfornato, rimanendo sempre in tema di commissioni, per Telekom-Serbia, per l’affare Mitrokhin e, per ultimo, e affronto più grave, per le stragi nazifasciste, beh, far ca-


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pire che anche le fandonie hanno un limite non sarebbe male. Col Presidente Ciampi parlai anche dello stupore che mi aggredì quando rilevai lo scarso calore della sinistra dopo che affrontai le prime volte quel tema. Lui, a mo’ di spiegazione, mi mostrò il libretto di Alessandro Natta, L’altra resistenza, edito dagli Struzzi. Ebbene, Natta, fatto prigioniero dai nazisti a Lero e rinchiuso in campo di concentramento, nel 1954 portò il manoscritto del suo libro alla casa editrice Editori Riuniti, allora e sino a pochi anni fa di proprietà del Partito comunista. Natta raccontava la sua esperienza durissima, e quella di altri circa settecentomila soldati italiani: gelo, fame, privazioni di ogni tipo, estrema durezza dei guardiani. Ma lui e l’enorme maggioranza degli altri non cedettero alle lusinghe che venivano dai nazisti e dai repubblichini di Salò che promettevano ogni cosa a chi fosse passato dalla loro parte. Fu, insomma, l’altra resistenza, non meno forte, non meno dura, non meno efficace rispetto a quella dei partigiani. Ma quel manoscritto gli fu rifiutato. Lui lo rimise nel cassetto e lì lo tenne anche quando divenne segretario del partito. Lo presenterà a un altro editore solo quando uscirà definitivamente dalla politica. I motivi di quel primo rifiuto? L’ideologia della pacificazione: non fare, non dire, non proporre nulla che possa sapere di provocazione. Idea giustissima, visto il nostro passato, con il fascismo prima e con la sua parziale rinascita sotto forma di repubblichetta forte solo dei suoi sgherri in divisa nera che scesero in campo a fianco delle SS contro coloro che si battevano per la libertà. Idea giustissima, ripeto, specie in quel periodo in cui da destra, non solo fascista, si cercava di attribuire ogni responsabilità (vedi triangolo rosso e simili, in questi tempi ripresi da Giampaolo Pansa), a chi era stato contro il regime e si era battuto


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per la democrazia. Una teoria mai scritta e catalogata, ma che ebbe gran forza e prese il nome di pacificazione. Ma come certe regole, anche opportune, divenne rigida e becera al punto da essere applicata anche contro il futuro segretario del Pci che raccontava solo la realtà, esaltando coloro che non avevano tradito. E ancora più becera quando si trattò di chiedere giustizia, verità, storia e memoria sulle stragi nazifasciste. Si parla tanto di una ricerca di memoria condivisa o da condividere. Su quali basi ciò può accadere? Solo con il pieno riconoscimento della Carta costituzionale che ha messo fuori gioco i fascisti. Se loro la riconosceranno anche su questo punto chiedendo perdono al paese per essersi schierati dalla parte delle dittature, allora sì... ecco la vera svolta, altro che Fiuggi. Si eliminerebbe così anche il timido, ridicolo e, ribatto, becero tentativo da parte della sinistra di ficcare la testa sotto la sabbia, come gli struzzi. Comunque, la giustizia e la storia non possono mai cedere il passo a niente e nessuno, mentre ancora i superstiti delle stragi, i parenti delle vittime, io mi auguro tutto il popolo italiano, attendono che le più alte cariche dello Stato, attente a una miriade di cose, chiedano perdono in nome della nazione che rappresentano: perdono a tutti coloro che hanno subìto la violenza fisica e quella non meno brutale del silenzio cinquantennale. E, a proposito di silenzio, è ora di chiedere ragione all’informazione circa il suo tacere sull’armadio della vergogna. Dico e ho ripetuto più volte, e ancora lo ripeto: gli assassini nazifascisti sono stati fedeli al loro ruolo di criminali; anche la politica lo è stata trovandosi a paravento la Ragion di Stato. Ma i giornalisti? Qual è il loro ruolo se non quello di dar le notizie, senza ometterle per alcuna ragione? Un silenzio se possibile ancor più criminale di quello di


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coloro che hanno ucciso e di quello di coloro che in seguito hanno nascosto quei crimini. Non è, forse, quella dell’armadio, la più drammatica vicenda italiana e, se non altro, la più singolare di qualsiasi Stato occidentale? Sì, lo è. Allora com’è possibile pensare ad altro, passare ad altro? E tutti o quasi, come se fosse passata sotterraneamente una sorta di parola d’ordine. Niente da meravigliarsi per quel che riguarda il periodo berlusconiano, con i fascisti al governo, cioè Mirko Tremaglia, che mai ha rinnegato il suo passato, l’evitare argomenti «caldi» è stato istintivo per una categoria abituata da sempre al servaggio. Ciampi ha sempre ammonito: drizzate la schiena. Io, più pessimista, ne sostengo l’impossibilità dato che i giornalisti italiani sono messi al mondo senza spina dorsale. Ma dopo? Dovrebbe essere intervenuto l’altro tipo di veto, quello degli eredi del vecchio Pci: pacificazione a ogni costo, quindi ancora silenzio. Vi si sono attenuti la gran parte dei giornalisti, e in ciò chi ha ottenuto il massimo fulgore è la mitica stampa scritta, presunta di sinistra. Con chi te la vuoi prendere? Beh, un po’ con tutto il mondo, con questo paese della vergogna che ha il timore di rivelare quel che storicamente è avvenuto appena ieri e cronisticamente sta avvenendo ancora oggi. Comunque alle spalle, si dirà, ci sono le mitiche associazioni i cui gonfaloni sono appesantiti da varie medaglie: l’Anpi (Associazione partigiani d’Italia); l’Anppia (Associazione perseguitati politici antifascisti italiani); l’Aned (Associazione nazionale ex deportati) e tante altre. Dal Congresso nazionale dell’Anpi, tenutosi a Cianciano nel febbraio del 2006, a ridosso delle conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi nazifasciste, giungono una serie di proposte: controbattere in convegni, e tirando in ballo i politici, quelle conclusioni; promuovere


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un’inchiesta a vario raggio per sapere quante furono le vittime militari, come a Cefalonia, e civili, ventimila, venticinquemila, trentamila, forse più dato che si vanno scoprendo eccidi che neanche erano finiti nell’armadio della vergogna; dedicare monumenti alle vittime, uccise da armi nazifasciste e sotterrate dal tacere dei mass-media, nei capoluoghi di regione. La base accolse con entusiasmo le proposte come certificano le numerosissime firme di adesione. Ma la base, come in ogni democrazia che si rispetti, rimane pur sempre la base: va seguita e incoraggiata solo quand’è d’accordo con i vertici. E questo, con tutta evidenza, non era proprio il caso, dato che si sarebbe dovuto contravvenire a un vecchio diktat e specialmente perché tra loro e le cariatidi c’è un acceso e non ancora definito confronto in quanto a immobilismo. Chi vincerà? Ai posteri, come si sa, l’ardua sentenza. Ma nel frattempo c’è da registrare una mossa, anzi una non mossa a favore dell’Anpi. C’è stata quando Marcella De Negri, figlia di un capitano della divisione Acqui ucciso a Cefalonia, si è costituita parte civile nel processo a Monaco di Baviera contro uno degli assassini nazisti ancora in vita, conclusosi in primo grado con quell’orrida sentenza che ha definito i nostri soldati «traditori e disertori»? Diciamo che in questa prima fase le vigili antenne anpiane non avevano funzionato, nel senso che non avevano captato l’esistenza di quel processo. Ma cosa è successo per l’Appello? La signora De Negri era ancora sola, a sue spese si è nuovamente costituita parte civile. Dov’era l’Anpi? Dov’era l’Anppia? Dov’era l’Aned? E, soprattutto, dov’era lo Stato italiano? Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, era rappresentato sul palco a Milano dal vicesindaco Riccardo De Corato, uomo di An acceso e nostalgico. Con lui parlavano cordialmente, come ha notato con un cer-


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to disgusto Daniele Biacchessi, Giovanni Pesce, pluridecorato partigiano, ma che forse non sapeva neanche chi gli avessero messo vicino, e il presidente nazionale dell’Anpi, Tino Casali. Se i fascisti chiederanno perdono, allora abbracci e baci, anche in bocca. Altrimenti che ognuno rimanga dalla sua parte. Ovviamente da quel palco nessuno ha parlato delle stragi nazifasciste, ma solo di Olocausto degli ebrei. Quello degli italiani, non posso dire dei cattolici, è stato dimenticato. Lo si fa da ben sessantadue anni. Vi pare poco? Altrimenti non saremmo il paese della vergogna.



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