Pamphlet, documenti, storie REVERSE
Autori e amici di
chiarelettere Michele Ainis, Avventura Urbana Torino, Andrea Bajani, Bandanas, Gianni Barbacetto, Stefano Bartezzaghi, Oliviero Beha, Marco Belpoliti, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Nicola Biondo, Tito Boeri, Caterina Bonvicini, Beatrice Borromeo, Alessandra Bortolami, Giovanna Boursier, Carla Buzza, Andrea Camilleri, Olindo Canali, Davide Carlucci, Luigi Carrozzo, Andrea Casalegno, Antonio Castaldo, Carla Castellacci, Massimo Cirri, Fernando Coratelli, Carlo Cornaglia, Roberto Corradi, Pino Corrias, Andrea Cortellessa, Riccardo Cremona, Gabriele D’Autilia, Vincenzo de Cecco, Andrea Di Caro, Franz Di Cioccio, Gianni Dragoni, Giovanni Fasanella, Davide Ferrario, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De André, Goffredo Fofi, Massimo Fubini, Milena Gabanelli, Vania Lucia Gaito, Pietro Garibaldi, Claudio Gatti, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi, Salvatore Giannella, Francesco Giavazzi, Stefano Giovanardi, Franco Giustolisi, Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Dalbert Hallenstein, Ferdinando Imposimato, Karenfilm, Giorgio Lauro, Alessandro Leogrande, Marco Lillo, Felice Lima, Stefania Limiti, Giuseppe Lo Bianco, Saverio Lodato, Carmelo Lopapa, Vittorio Malagutti, Antonella Mascali, Giorgio Meletti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Alain Minc, Angelo Miotto, Letizia Moizzi, Giorgio Morbello, Loretta Napoleoni, Natangelo, Alberto Nerazzini, Gianluigi Nuzzi, Raffaele Oriani, Sandro Orlando, Antonio Padellaro, Pietro Palladino, Gianfranco Pannone, David Pearson (graphic design), Maria Perosino, Simone Perotti, Roberto Petrini, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Paola Porciello (web editor), Mario Portanova, Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato, Sigfrido Ranucci, Luca Rastello, Marco Revelli, Piero Ricca, Gianluigi Ricuperati, Sandra Rizza, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno, Laura Salvai, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro, Roberto Saviano, Matteo Scanni, Roberto Scarpinato, Filippo Solibello, Riccardo Staglianò, Luca Steffenoni, theHand, Bruno Tinti, Marco Travaglio, Elena Valdini, Vauro, Concetto Vecchio, Carlo Zanda, Carlotta Zavattiero.
PRETESTO 1
f a pagina 77
“Pensa ai tuoi affari.” Slogan dei Ds (ora Pd) alle elezioni regionali del 2005.
f a pagina 77
“Gente capace di fare. Che cosa fare? Per chi? In nome di cosa?” In relazione allo slogan della candidata del centrosinistra alle elezioni regionali del 2005 a Torino.
PRETESTO 2
f a pagina 15
“Sono Berlusconi e Corona, ognuno a modo suo, a dirci ... la verità sull’Italia reale. A disvelarne la più profonda, e inconfessabile, autobiografia collettiva.”
f a pagina 19
“Non ho timore di decidere. Altrimenti non avremmo chiuso 28 campi rom spostando 15mila persone.” Walter Veltroni, 28 agosto 2007, “Corriere della Sera”.
f a pagina 140
“Se devo dare un giudizio sintetico dico che ciò che si è consumato in questi mesi è la fine dell’Altra Italia, in un paese che ha scelto unanimemente di riconciliarsi con la propria parte peggiore.” Dopo le elezioni del 14 aprile 2008 e il trionfo del centrodestra.
PRETESTO 3
f a pagina 52
“Bisognerà lavorare a lunga scadenza, senza illusioni, senza speranze né scorciatoie né espedienti tattici. Sapendo il perché, senza più chiedersi quando.” f a pagina 62
“Se una resistenza può nascere oggi, credo che non possa che costituirsi su un fronte per così dire impolitico ... Occorre mettere insieme chi continua a non voler rinunciare alla propria residua umanità.”
f a pagina 221-222
“In Italia la crescita del Pil per ogni punto di aumento dei profitti è pari a 0,15 ... (in Inghilterra è di 1,4), a prova, infamante, dell’avarizia e della miopia di quella stessa classe imprenditoriale che pretenderebbe di dettare le leggi della convivenza comune e della buona amministrazione.”
Š Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: Via Guerrazzi, 9 - Milano ISBN
978-88-6190-100-1
Prima edizione: marzo 2010 www.chiarelettere.it BLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA
Marco Revelli
Controcanto
chiarelettere
Marco Revelli è nato a Cuneo il 3 dicembre 1947. Allievo di Norberto Bobbio, laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Torino, è professore ordinario di Scienza della politica presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università del Piemonte Orientale «A. Avogadro». Tra i suoi interessi di studio, la ricerca sul rapporto tra forme della politica e strutture socio-produttive, nel cui ambito si collocano le numerose analisi sulle dinamiche novecentesche tra totalitarismi e democrazia e sul passaggio tra fordismo e postfordismo. Rientrano in questo ambito i lavori sulla Fiat, sulla realtà torinese e sulla sua transizione, sulle caratteristiche del conflitto sociale tra società industriale e società postindustriale, e più di recente sulle trasformazioni del Welfare e sulle attività cosiddette di «terzo settore», sull’area dell’«economia solidale» e dell’«impresa sociale» con particolare attenzione al ruolo del volontariato. Un secondo filone di studio è rappresentato dalla riflessione sulle culture politiche – in particolare sulla coppia antitetica «destra-sinistra» – e sulle loro trasformazioni nel corso del «secolo breve» e nella transizione in corso, con particolare attenzione alla vicenda italiana ma anche con uno sguardo sempre focalizzato sul fenomeno «epocale» della globalizzazione. Ha dedicato anche ampia attenzione alla ricostruzione della cultura liberal-democratica di derivazione gobettiana. Si è occupato, in modo non accademico, degli aspetti contemporanei della xenofobia, dell’esclusione e del pregiudizio razziale, concentrandosi soprattutto sulla discriminazione nei confronti dei Rom e sulla scandalosa realtà dei «campi nomadi». Contemporaneamente partecipa, con la Fondazione Nuto Revelli Onlus, al progetto di ricupero di una borgata abbandonata in Valle Stura, Paralup, il primo rifugio partigiano dove nel settembre del 1943 nacque la banda Italia libera, sotto il comando di Duccio Galimberti e Dante Livio Bianco. Attualmente presiede la Commissione d’indagine sull’Esclusione sociale (CIES) e dirige il Centro interdipartimentale per il Volontariato e l’Impresa Sociale (CIVIS), costituito presso l’Università del Piemonte Orientale. Tra le sue opere principali: Lavorare in Fiat, Garzanti 1989; Le due destre, Bollati Boringhieri 1996; La sinistra sociale, Bollati Boringhieri 1998; Fuori luogo, Bollati Boringhieri 1999; Oltre il Novecento, Einaudi 2001 e 2006; La politica perduta, Einaudi 2003; Sinistra Destra, Laterza 2007 e 2009. Ha inoltre curato e introdotto il Meridiano dedicato a Norberto Bobbio, Etica e politica, Mondadori 2009.
Sommario
co n t ro c a n to Introduzione
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Il berlusconismo come racconto totale 5 - Un paese in preda a una crisi di nervi 2007-2009 19
Rapsodia italiana La Repubblica in pezzi
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Il dispotismo della realtà 37 - Le nuove «leggi contro i vagabondi» 39 - La fine dell’umanesimo sociale. Firenze contro i lavavetri 41 - Giocare col fuoco 45 - Secessione morale. Tortura a Bolzaneto 47 - Piano inclinato. Il decreto legge sulla sicurezza (giugno 2008) 50 - Uomini e topi. La segregazione razziale 53 - Assolto l’imperdonabile. Le responsabilità dei giudici di Genova 57 - Retoriche disumane. «Salvati» o «sommersi» 60 - Piazze rubate. Un «altro» 25 aprile 63
Il melodramma della sinistra Il berlusconismo oltre Berlusconi
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Rappresentanza e rappresentazione. Ovvero la deriva pornografica del berlusconismo 69 - Plebiscitarismo e plebe. Da che parte sta l’antipolitica 76 - Mutazione antropologica. Prodi 2. Un governo senza popolo 85 - Vicenza e gli altri. La rottura del patto 90 - Lettera a Bertinotti. Nonviolenza, rappresentanza in crisi e cultura di
governo 93 - Lettera a Rina Gagliardi. Io resto fuori 106 - Politico e impolitico. Dove sta davvero il qualunquismo? 109 - Laicità vo cercando... L’articolo 7 della Costituzione 117 - Il piede nella porta. L’ultima occasione a sinistra 127 - A due passi dalla fine di Prodi. La nascita del Pd 130 - La caduta dell’«Altra Italia». Le elezioni del 14 aprile 2008 137 - «Democrazia», parola a rischio. Da cittadini a spettatori 146
Dies irae Ponticelli, Opera, Tor de’ Cenci prima di Rosarno
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Dorian Gray di periferia. Il campo nomadi parla di noi 153 - Opera, ovvero dell’invidia sociale. La logica del linciaggio 156 - Quaderni nel fango. Quando il pregiudizio si ammanta di ragioni «umanitarie» 159 - Gli «spazi maledetti» della vita nuda. La metropoli biopolitica al lavoro 162 - La «banalità del bene». Ovvero della ferocia dei «troppo buoni» 172 - Luoghi comuni. «Gli zingari non hanno Storia» 193 - A forza di essere vento. De André, gli zingari e gli anarchici 197
Silenzio fuori ordinanza La crisi della società del lavoro dalla Fiat all’Italia
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La cerimonia degli addii. Il funerale di Gianni Agnelli e la fine dell’industrialismo 205 - Che ne è del «lavoro», oggi? Più profitti, meno investimenti 215 - Leonia e le altre. Una citta postfordista 226 - Torino-Sofronia 2000. Lo svuotamento della democrazia 236 - Dal fordismo compiuto al postfordismo. Il lavoro merce 245 - Lo spettacolo come produzione. Torino, città biopolitica 258 - Amici. La rivoluzione silenziosa di tre operai Fiat 263
co n t ro c a n to
Avvertenza I testi senza indicazione di nota sono inediti o pubblicati su testate on line. Si ringraziano «Liberazione», «Alias», «il manifesto», «Micromega», «Carta», «Communitas», «La Stampa», «Valori, Formazione e Lavoro», «Laicità» per aver concesso il diritto di pubblicazione dei testi qui riprodotti.
Introduzione
La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione. Rain in Mariti e mogli di Woody Allen
Il berlusconismo come racconto totale
Fingiamo che sia tutto normale Normale che il capo del governo attacchi in forma esplicita e addirittura «violenta» – anche in significativi ambiti internazionali – altri fondamentali poteri dello Stato, rompendo quel minimo di coesione istituzionale essenziale in ogni ordinamento democratico. E che il capo dello Stato debba intervenire a giorni alterni per correggere, mitigare, tentare di contenere l’opera di destabilizzazione istituzionale del capo del governo. Normale che i presidenti dei due rami del Parlamento usino le rispettive cariche per regolare i conti interni al medesimo partito di maggioranza, come è avvenuto clamorosamente nello scorso mese di dicembre. Normale persino che l’unico ostacolo visibile alla politica personale del presidente del Consiglio in Parlamento sia apparsa negli ultimi mesi una figura come Gianfranco Fini, cioè l’altro cofondatore del Partito delle libertà, come accade solo nei regimi a partito unico. E che ci tocchi sentire in televisione uno come Edward Luttwak, che certamente non è né un comunista né un giustizialista, spiegarci che l’anomalia italiana, vista dagli Stati Uniti, è l’assenza di opposizione. Normale, ancora, che – in forma sostanzialmente bipartisan – l’intero mondo politico possa tessere coralmente le lodi
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di un pluricondannato, con fior di sentenze passate in giudicato, come Bettino Craxi, senza che si levi niente di più che qualche timido vagito dal mondo dell’informazione e da chi dovrebbe rappresentare un’opinione pubblica vigilante. Normale che nel paese di Cesare Beccaria si sia potuta praticare, impunemente e diffusamente, la tortura (dichiarata e accertata in sede giudiziaria a Genova) senza che ne sia seguita alcuna conseguenza significativa per i principali responsabili della legalità istituzionale. E che, nell’epoca in cui, in nome dei diritti universali dell’uomo si giustificano persino le guerre, si possano compiere veri e propri pogrom, senza che la cosa lasci uno strascico di disagio o di malessere nelle coscienze più lungo della durata della carta dei giornali che l’hanno descritto e archiviato con la stessa effimera frettolosità. L’elenco potrebbe continuare a lungo, fino alla noia o alla disperazione...
Liquefazione istituzionale Si tratta, come si può ben vedere, di paradossi. Di una lunga, regolare serie di paradossi, cioè di situazioni che – come recita il De Mauro sulla base dell’etimologia (da parà = contro e doksa = opinione) – «si verificano in modo anomalo e contrario alle aspettative». O di «fatti, circostanze o comportamenti assurdi, fuori dalla logica comune». I quali tuttavia, quando si presentano come «normalità», e come tali sono accettati, rivelano una patologia grave del «comune sentire». Una forma di schizofrenia sociale preoccupante. O, nel nostro caso, di marasma, nel senso medico del termine,1 il cui contesto genetico si configura, appunto, quando l’anomalia 1 Il Dizionario medico così lo definisce: «Condizione di grave e progressivo decadimento anatomico e funzionale dell’organismo, che lentamente va incontro a processi degenerativi. Le cause più frequenti sono malattie a lungo decorso non curate efficacemente [...] e la senilità».
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prende il posto della norma. Quando la trasgressione, tollerata e insistita, diventa regola. E determina la destituzione di senso di ogni «forma» consolidata. Il fatto è che non da ieri, e neppure dal 16 aprile 2008, quando Berlusconi stravinse le elezioni politiche, ma per effetto di un processo che si origina ben prima, l’Italia vive – accanto alla del tutto evidente situazione di degrado morale – una parallela situazione di liquefazione istituzionale. Non trovo un termine migliore di questo, tratto dalla fisica dei solidi e dei liquidi, per esprimere la condizione di relativizzazione e precarizzazione delle architetture portanti del nostro sistema politico. Come il celebre orologio di Dalí, anche il profilo del nostro assetto istituzionale sembra sciogliersi, farsi fluido, gelatinoso, e colare lungo piani inclinati mutevoli aderendo alle superfici mobili «decise», giorno per giorno, in base al rapporto di forza del momento. All’arbitrio di questo o quel ras della «volontà generale» proclamata mediaticamente e al gioco degli accordi contingenti tra i signori del Palazzo e quelli dell’informazione. Le geometrie prima rettilinee tracciate a suo tempo dal Costituente per collocare poteri e diritti, limiti e rapporti, sembrano piegarsi al vento della contingenza. Farsi incerte e, appunto, precarie. Così è per quel fondamentale rapporto tra potere Legislativo e potere Esecutivo (tra Parlamento e governo) che la Costituzione del 1948 regolò sulla base di una netta prevalenza del primo sul secondo, e che invece – con l’incauta affermazione del principio maggioritario, con la conseguente forte personalizzazione della politica e l’enfatizzazione della figura del premier, oltre che con l’uso smodato della legislazione per decreto – viene sempre più rovesciato, sotto la spinta di sempre nuove e diverse «emergenze». Così è, in misura ancor più devastante, per il rapporto tra potere Esecutivo e potere Giudiziario – uno dei pilastri di quella separazione dei poteri affermatasi fin dai tempi di Montesquieu – con la delegittimazione sistematica del fon-
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damentale ruolo di controllo giurisdizionale della magistratura (i «violenti attacchi alle istituzioni di garanzia» di cui parla Napolitano). È l’affermazione spudorata della irresponsabilità del Capo di fronte alla legge: un ritorno alla figura del sovrano legibus solutus, propria dell’ancien régime, invocato in nome del principio pseudodemocratico, in realtà plebiscitario, del conquistato consenso elettorale. E lo stesso processo di relativizzazione delle norme fondamentali avviene – cosa, se possibile, ancora più grave – per i diritti fondamentali, divenuti «disponibili» e «discrezionali» (da indisponibili e universali che erano): il principio di eguaglianza, in primo luogo, travolto dai privilegi di «casta», dalla onnipotenza del mercato e dalla discriminazione xenofoba e razziale che assegna al giudizio delle maggioranze più o meno locali la decisione su «chi» sia eguale, e «in che cosa». La lunga serie dei diritti sociali – i diritti di «terza generazione», frutto del migliore Novecento – ritornati a essere considerati una incerta e variabile «concessione» da parte del titolare del potere di turno. Gli stessi fondamentali «diritti umani», sacrificati ormai, senza più pudore, al principio di cittadinanza, e talvolta alle mere ragioni di opportunità: riconosciuti agli «inclusi», negati agli «esclusi», quale che sia il possibile fondamento dell’esclusione (la razza, la provenienza, l’ideologia, il credo religioso, il gruppo di appartenenza: Rom, migranti, no global, comunisti, negri, islamici, lavavetri, clochard...). L’involucro istituzionale del sistema politico italiano – quello che avrebbe dovuto garantire la stabilità e la tenuta del «contesto» entro cui si svolge il «gioco politico» – da rigido che era, e certo, si è fatto mobile e instabile. Flessibile e incerto, come d’altra parte il resto della società. Da contenitore stabile, si è trasformato, senza che ce ne accorgessimo, in contenuto del sistema di relazioni a geometria variabile tra le forze politiche che dovrebbe invece regolare. Si può anche identificare, con una certa precisione, il punto geometrico in cui, sul piano inclinato che da tempo caratte-
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rizzava lo stato del paese, si è registrata la brusca accelerazione che ha portato le diverse linee di crisi a incrociarsi, e a generare la reazione chimica della liquefazione. Lo possiamo collocare intorno alla metà del 2007, a poco più di un anno da quella risicatissima vittoria del centrosinistra prodiano destinato a subire, dopo la caduta, un’accanita e in buona parte volgare damnatio memoriae, ma che oggi, col senno di poi, sappiamo essere stata una sorta di miracolo; un’occasione eccezionale, che sembrò offrire, a quel poco che restava della dispersa Italia civile, un momento di pausa. Un’insperata tregua. Fu allora che le due principali forze del sistema politico italiano, i Ds e Forza Italia, i due nuclei centrali dell’imbastardito bipolarismo italiano – l’uno all’inizio di un’avventurosa campagna congressuale, l’altro, per tutta risposta, dal predellino di un’auto –, decisero, con scelte simmetriche e improvvise, di destabilizzare violentemente l’equilibrio politico dando vita a processi di «fusione fredda» e a una metamorfosi integrale del proprio assetto, in una forma – e con una velocità – tale da far saltare tutti gli equilibri istituzionali. Da modificare, sulla base di decisioni istantanee e di processi esclusivamente mediatici, la struttura stessa del nostro sistema dei partiti. Così i Ds, nel tentativo disperato di superare l’impasse che logorava il proprio vertice, hanno tagliato con la spada il nodo gordiano dell’eterogeneità culturale che li separava dai cattolici della Margherita, accelerando parossisticamente il processo di assemblaggio intorno al fragile supporto – l’unico – della più o meno condivisa scelta di un leader. Così, dall’altra parte, il «partito-azienda» di Berlusconi si è annesso, in quattro e quattr’otto, il «partito-comunità» di Fini, con l’unica motivazione che occorreva rispondere alla mossa del polo avversario. Due partiti ipotetici – due «non-partiti», per meglio dire – destinati a rivelare la loro effettiva natura e ragion d’essere solo a posteriori, dopo il «varo», e tuttavia chiamati a ridisegnare il profilo di quegli assetti istituzionali che con la loro nascita avevano liquefatto, per non
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dire «liquidato». Due entità virtuali, autocandidate alla rifondazione dell’Italia politica reale. Si trattava di un progetto egemonico incrociato destinato a produrre una drastica semplificazione nei rispettivi campi, col superamento della logica di coalizione (ultimo residuo del carattere ampiamente pluralistico del nostro sistema politico voluto dal Costituente e compromesso estremo con l’emergente «spirito maggioritario») e la realizzazione di un compiuto bipartitismo a vocazione insieme verticistica e plebiscitaria. Ricordo ancora con sofferenza il disagio con cui, nell’incipiente autunno del 2007, assistetti alla «marcia trionfale» di Walter Veltroni verso la proclamazione a leader in quelle assurde primarie in cui più di tre milioni di disarmati pellegrini del voto furono chiamati a proclamare il Capo di un partito che non c’era ancora (ancora un paradosso!), il cui destino di leader era stato deciso a priori dai maggiorenti di due diverse organizzazioni politiche (Ds e Margherita) coniugando tra loro, in apparente ossimoro, verticismo e populismo. Tradizione burocratica e vocazione plebiscitaria. Nel centrodestra – con maggior sobrietà – fu sufficiente un atto notarile. Quel progetto – come si poteva immaginare – è fallito. La netta sconfitta elettorale (una delle più rovinose nella storia della sinistra italiana) subita dal partito di Veltroni alla metà di aprile del 2008 ha rivelato la fitta rete di crepe e fratture che attraversano il corpo della nuova formazione politica e ha aperto una fase di conflittualità permanente tra le sue diverse anime e culture politiche nonché tra i notabili di troppe storie esaurite, a cui corrisponde una sostanziale paralisi nell’azione politica. Mentre, sul fronte opposto, l’attenuarsi delle ragioni che avevano portato all’assemblaggio affrettato dei vecchi membri della Casa delle libertà, ha favorito l’inevitabile riemergere del dualismo tra il Padrone di casa e il Politico di servizio, alimentato dalle grane giudiziarie del primo e dalle ambizioni politiche del secondo. E quel fallimento ha lasciato, per così dire, il sistema politico italiano
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sospeso nel vuoto. Come la celebre creazione di Giacometti, Fiore in pericolo, anche l’apparentemente compatto quadro politico sembra attendere solo che un esile filo si spezzi per andare in frantumi. E assumere la natura caotica che di fatto caratterizza il vuoto di prospettiva e di progettualità formatosi nel sottosuolo della vita politica italiana.
Il volto del Capo Era in fondo inevitabile che in quel vuoto lasciato dalla generale liquefazione del sistema politico e istituzionale italiano, venisse a dilatarsi fuori misura la funzione del carisma: dell’ingrediente tipico delle fasi di sfaldamento e di dissoluzione di un ordine. E che su quella massa fluida finisse per galleggiare, come unico punto di riferimento «solido», il corpo del Capo. Perché quello è stato, nel bene e nel male, per i critici come per i fedeli, per i nemici più giurati come per gli amici più servili, il protagonista incontrastato della nuova stagione politica apertasi con l’estate 2008: quel «corpo» e quel «Capo». Quella Figura normalmente impresentabile, sintesi di tutti i vizi etici, di tutte le spregiudicatezze politiche e di tutte le trasgressioni giudiziarie – Berlusconi, appunto, anzi, famigliarmente, «Silvio» –, in cui d’un colpo è sembrata precipitare e rappresentarsi, totalitariamente, l’intera «autobiografia della nazione». È stato lui, in questa fase crepuscolare della Repubblica, a raccontare l’Italia. A fare il racconto prevalente – anzi, l’unico racconto legittimo dotato di «corso effettivo» – su chi siamo e cosa siamo diventati. Suo è lo stile narrativo dell’esistente (l’unico esistente ammesso). Suo il linguaggio. Suo l’intreccio e la trama, per sé e per gli altri. Per una sorta di préstige – di ipnosi collettiva – l’intero universo politico italiano, alleati e avversari, sodali e competitors, è stato risucchiato nell’ordine di quel discorso e nelle spire di quel racconto, assumendone disciplinatamente i ruoli e le parole,
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recitando ognuno la propria parte da brava comparsa, lasciandosi dettare, in forma (quasi) unanime, il lessico e il plot, la grammatica e la sintassi. Potremmo dire, addirittura, che questa si viene rivelando come la vera natura – l’altrimenti inspiegabile fattore di potenza – del «berlusconismo»: il suo carattere di «racconto totale». O meglio, di iper-racconto. Di grande narrazione capace di sostituirsi al reale e di sussumerlo senza residui. Di assorbirlo e trasfigurarlo senza lasciare spazio ad altre forme del racconto stesso. Ad altre varianti della narrazione, che sfuggano ai suoi codici standardizzati, alle sue figure retoriche, e per questa via destinato a presentare il proprio racconto virtuale come realtà reale. Più reale di ogni altro possibile reale. È una struttura narrativa – non sarà sfuggito – inedita. Radicalmente diversa da ogni altra forma razionale del discorso pubblico, anzi a esse del tutto contrapposta: intessuta di iperboli, di ossimori, di paradossi, destrutturata e fratta. Costruita sulla rottura di tutti i nessi, di causalità e di consequenzialità, e sulla tecnica del rovesciamento. Soprattutto giocata sulla sistematica metamorfosi della voce narrante, inafferrabile e incollocabile in un qualche stabile ruolo, e anzi costantemente mutante secondo una successione di piani e di personalità diverse, in cui si passa repentinamente dall’invettiva alla seduzione, dall’esibizione alla lamentazione, dall’amabilità all’aggressività – civetteria da pin up e cipiglio da avventuriero, è stato detto – senza soluzione di continuità, anzi giocando sull’effetto-ascolto offerto dal mutamento e ripercorrendo tutti i topoi caratteriali del reality show e della soap opera. In un agile volume dedicato a Il corpo del capo, Marco Belpoliti ha ben colto la chiave dell’efficacia «narrativa» berlusconiana, indicandola proprio nel polimorfismo del soggetto narrante. E nella sua intrinseca ambiguità, intesa – sulla scorta della riflessione di Simona Argentieri – come quella pratica psicologica che «consente a livello individuale e col-
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lettivo di eludere la fatica delle proprie responsabilità e delle proprie scelte», attraverso il passaggio a un altro sé. In forza di una silenziosa deiezione nell’identità. Confrontando la tecnica comunicativa del Cavaliere con quella di altre figure «carismatiche» del Novecento, Belpoliti ha sottolineato la forte consonanza col modello mussoliniano, fondato anch’esso sulla potenza semantica del Corpo destinato – a differenza da Hitler, il cui potere persuasivo stava invece nella Voce – a emanare un vigoroso senso d’identificazione collettiva, sottolineando tuttavia uno scostamento significativo, relativo specificamente al volto (e, appunto, all’identità). A differenza infatti dalla complessa natura «carnale» e insieme «petrosa» del volto del Duce – sorta di maschera duale, mobile e romantica nella parte superiore, rigida e classica in quella inferiore: ambigua anch’essa, ma stabile –, l’immagine di Berlusconi sembra priva di volto. O meglio, sembra possedere in luogo del viso una maschera mobile, intercambiabile, effimera e cangiante... Una sorta di schermo bianco sotto lo strato di cerone o il velo di nylon, che non rinvia a nessun «interno» in cui possa disvelarsi la traccia di un qualche «bel sogno interiore», ma su cui può sfilare, come su uno specchio – o meglio su uno «schermo» – l’intera fantasmagoria delle soggettività esteriori e delle identità. E in cui ogni spettatore può leggere la proiezione dei propri desideri. Un volto da Jocker, offerto all’eterogeneità di un pubblico unificato ormai solo dalla irriducibilità del desiderio. Ambiguità assoluta, in una qualche frazione della quale ognuno può «riconoscersi» e assolversi. Questa è la forma della comunicazione corporea nell’epoca della neotelevisione: nel solo tempo in cui la finzione può sostituire la realtà e pretenderne un grado più alto di autenticità. Neotelevisivo è il trionfo della «politica dell’intimità» sostituitasi, in una lotta rivelatasi impari, alla vecchia «esteriorità della politica» (al suo carattere pubblico): la tracimazione nella sfera pubblica delle più intime relazioni famigliari o, indifferentemente, di quelle amoro-
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se (politica del focolare e politica del boudoir mescolate inestricabilmente); il trionfo del gossip come primo fattore d’interesse per le «cose pubbliche»; il «disvelamento totale» della pseudovita affettiva come risarcimento di massa per il diffondersi pervasivo degli arcana imperii in ogni ambito dell’esistenza reale. Neotelevisiva è la frammentarietà – la segmentazione, la frantumazione – della rappresentazione politica e del discorso pubblico, ridotto – secondo la logica dello zapping – a successione di immagini separate, di segmenti irrelati, scena per scena, show per show, performance per performance, ogni giorno un «numero» nuovo, non importa quanto coerente con quelli precedenti, purché sostenga l’audience... Neotelevisiva è persino – e forse soprattutto – l’artificializzazione della corporeità del protagonista: la sua riduzione a oggetto di plastica, ad assemblaggio di protesi, a «effetto speciale» vivente, in un gioco in cui l’artificialità del corpo del leader appare come l’unica forma concepibile di naturalità. L’ultimo frammento «vero» (capace di comunicare la propria inautenticità) in un mondo ipocritamente falso. Per questo Berlusconi assomiglia così tanto ad altre figure dark dell’universo mediatico italiano, rivelatesi – in forza della loro stessa negatività – neomiti preminenti nella società dello spettacolo, da Flavio Briatore a Lele Mora a Fabrizio Corona... Chi ha visto quell’illuminante documento sulla nostra contemporaneità che è Videocracy, non può non aver colto le evidenti assonanze. Hanno tutti, in comune, la spavalda spregiudicatezza di chi sa perfettamente che l’immagine è tutto, la responsabilità niente; che a chi rimane nel cerchio magico dell’immagine tutto è lecito. Ostentano, coralmente, un senso di impunità che deriva da una nuova forma di sovranità, antica e inedita insieme, fondata sulla presenza intrusiva anche se evanescente della propria icona al centro dello sguardo pubblico. Tutti, d’altra parte, hanno rovesciato il rapporto tra interno ed esterno: fanno dell’esteriorità la propria interiorità, offrono i visceri
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della propria vita privata come sostanza pubblica da consumare. Così come tutti, indistintamente, mettono in scena – incarnazione fisica dell’ossimoro – una trasgressività conformista. O un conformismo trasgressivo, che routinizza l’eccesso. Che lo riduce a quotidianità, spettacolarizzando la banalità. Sono loro i nuovi cantori del racconto italiano. Sono Berlusconi e Corona, ognuno a modo suo, a dirci – nella sequela di menzogne che ci propinano – la «verità» sull’Italia reale. A disvelarne la più profonda, e inconfessabile, autobiografia collettiva.
Chi può spezzare l’incantesimo? Per questo il loro racconto è così irresistibile. Perché destituendo di senso ogni antico «fondamento» – praticando lo sfondamento sistematico di ogni struttura di realtà dell’esistente e trasferendo il potere di produrre senso alla nuda potenza dell’immagine e di chi la controlla – esso entra segretamente in contatto e stabilisce un rapporto intimo (e torbido) di complicità con un «comune sentire» profondo, prerazionale e prepolitico. Con un’anima opaca del paese, irriflessiva e desiderante, che rifiuta la pesantezza dell’essere e del consistere, la fatica del giudicare ed essere giudicati, fuggendo come la peste la dolorosa scissione tra l’essere e il dover essere, tra il qui e ora della pulsione e l’orizzonte più ampio della responsabilità. Come ogni pratica autoassolutoria, e ogni rituale psichico di «rimozione», esso non ammette repliche. Né contraddittorio. Né altre ragioni, formulate in forma di argomentazione. È, per l’appunto, un universo comunicativo «totale», le cui infinite varianti portano, tutte, nella stessa direzione, senza possibilità di scostamento. O uscite di sicurezza. Chi ne accetta il codice comunicativo, e ne subisce le premesse semantiche – chi, in sostanza, si lascia sedurre dalla potenza del suo linguaggio – ne viene irrimediabilmente incorporato. Finisce, in qualche modo, per «es-
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sere raccontato». Nell’illusione di affiancare la voce narrante ne viene, all’inverso, narrato. Così è accaduto al povero Veltroni, quando preferì la kermesse mediatica e la tournée circense (novello Castagna di Stranamore) al più faticoso lavoro di radicamento territoriale nel processo (istantaneo) di genesi del Pd. O quando antepose la scelta dello scenario di sfondo (le geometrie del Lingotto per comunicare l’opzione produttivista, i profili medievali di Spello per il fascino della tradizione...) a far da velo alla propria storia, imbastendo la favola bella del partito «di tutti gli italiani» – il racconto edificante dei buoni sentimenti del fare e dell’amare – e avvolgendosi nella bolla del «ma-anchismo» (patetica emulazione del «totalitarismo» retorico del racconto dominante), per schiantarsi infine, quando il repertorio dei calembour terminò, e si passò alla conta dei voti. Così avviene, d’altra parte, per l’apparentemente più solido Bersani, finito a far la parte in commedia nella telenovela picaresca del Cavaliere, ieri confinato nel «partito dell’odio», oggi reclutato nel «partito dell’amore», comunque comparsa, mai padrone della propria immagine (e della propria identità). Occorrerebbe forse, per spezzare l’incantesimo, un gesto estremo di secessione estetica ed etica, prima che politica. Una rottura linguistica, che si ponesse radicalmente fuori dalla neolingua dominante e invadente che ha sostituito il lessico esploso del Novecento: un’altra forma del racconto, che lasciasse la parola a un’altra modalità del comportamento oggi cancellata. Insomma un «Gran Rifiuto». Per compiere il quale, tuttavia, occorrerebbe gente che non c’è, oggi, nell’universo politico. Qualcuno capace di fare il proprio «giuramento di Pontida» nei confronti di un proprio «popolo» , per esiguo che esso sia (anche fossero poche decine di refrattari, antitesi antropologica dell’orrenda rappresentazione del popolo padano, ma con la sua stessa ispida determinazione), e di una propria «causa»: di un valore, di un progetto, soprattutto di un modo di essere. Gente di un «altro mondo» rispetto a quello esistente, in grado di guardare ol-
Il berlusconismo come racconto totale
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tre l’orizzonte chiuso del presente, di non lasciarsi affascinare dal pragmatismo arreso del risultato immediato, dell’esserci pur che sia nel circo mediatico che assilla i tanti «uomini di mondo» della politica e dei giornali. E dunque di parlare la lingua franca di qualcosa che esiste «fuori» dal racconto virtuale e totale prevalente. Questo libro non dice dove siano costoro. E neppure se esistano. O se esista ancora qualcosa «fuori» dal circolo chiuso di quel racconto. Credere che la potenza non sia diventata – come invece vaticinò Nietzsche – l’unica misura della verità, e che lo «sfondamento» del reale non sia ancora così totale da impedirne un qualche rimbalzo, un colpo di coda, una qualche «nemesi», significa, comunque, scommettere. Al buio. Può darsi che i giochi siano fatti una volta per tutte. E che siamo finiti davvero «fuori dal mondo» (fuori da ogni mondo). O che, al contrario, una qualche «resa dei conti» sia dietro l’angolo, invisibile e inaspettata, come spesso è accaduto... Come che sia, qui si tenta di dire, piuttosto, come siamo giunti a questo bout de la nuit. Ci si sforza di offrire una ricostruzione diversa della «irresistibile discesa» italiana, esterna e laterale rispetto a quella che si legge e si vede ogni giorno su gran parte dei giornali e in televisione. Un controcanto, appunto, cui manca, irreparabilmente, il coro. Il lettore si troverà a muoversi su tre piani differenti. Avendo a disposizione tre diversi «registri» di lettura. Il primo focalizzato sulla vicenda specificamente politica. Su quanto si è mosso sulla superficie della vicenda italiana, dove si è consumata quella che, con felice espressione, Riccardo Barenghi ha definito l’«eutanasia della sinistra». E che, a vicenda conclusa, possiamo considerare – con giudizio, se possibile ancor più pessimistico – come la fine storica dell’«Altra Italia». L’estinzione di quell’aggregato di culture critiche che, per lo meno dall’avvento del fascismo in poi, avevano esercitato una sorta di balance of values, di antidoto intellettuale, nel processo di strutturazione dell’autocoscienza nazionale.
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Il secondo è condotto un po’ più in profondità, sul livello antropologico-culturale, chiamiamolo così. Degli atteggiamenti, dei comportamenti collettivi, della relazionalità col Sé e con l’Altro. Muove, insomma, sul piano dell’Ethos, dove la traccia più visibile è quella della perdita e dell’evaporazione di quel fragile patrimonio di civiltà che, dopo la caduta fascista, in forza di una crudele pedagogia delle catastrofi, sembrava aver riscattato l’Italia dal suo cattivo passato. In esso si racconta il processo di spogliazione morale del comune sentire nel primo vero confronto con il flusso delle «alterità reali» (di coloro che sono l’emblema della più radicale spogliazione materiale: i migranti, i Rom, i senza dimora...); e il dilagare di una velenosa «retorica del disumano» che sembra uscita da altri tempi e da altri luoghi. Il terzo registro, infine, raggiunge il sottosuolo sociale. Scava in un passato prossimo che appare già archeologia, nel tentativo di leggere le dinamiche dissolutive degli antichi soggetti: il «lavoro», quello di cui parla l’articolo 1 della Costituzione, la «classe operaia», materialmente ancora «al lavoro», ma priva di parola e di rappresentazione, i «ceti produttivi»..., quelli che apparivano gli incontrastati eredi della «filosofia classica tedesca» e che si sono ridotti, oggi, a residui solidi da stoccare in qualche capitolo di spesa welfaristica, o da mettere a tacere con qualche ammortizzatore sociale octroyé. Il «livello» in cui è maturata la repentina virtualizzazione del reale, quella smaterializzazione dell’universo nella cui atmosfera rarefatta l’onnipotenza del racconto ha fatto irruzione ed è dilagata... Letti tutti insieme, nella loro sincronica sovrapposizione, dovrebbero offrire una visione stereoscopica dell’esistente. E, forse, costituire l’occasione per costruirsi un brandello in più di senso, se non di speranza... Torino, gennaio 2010