Š 2013 Chiarelettere editore srl
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Pamphlet, documenti, storie REVERSE
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Š Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo Editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: Via Guerrazzi, 9 - Milano isbn 978-88-6190-476-7 Prima edizione: novembre 2013 www.chiarelettere.it blog / interviste / libri in uscita Foto di copertina: si ringrazia l'Associazione tra i familiari delle vittime della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980
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Rosetta Loy
Gli anni fra cane e lupo
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Rosetta Loy è nata a Roma nel 1931, ultima di quattro figli. Dopo l’esordio con il romanzo La bicicletta del 1974, che gli è valso il premio Viareggio Opera prima, ha scritto vari romanzi, tra i quali il più importante è Le strade di polvere, che narra la storia di una famiglia monferrina dalla fine dell’età napoleonica ai primi anni dell’Italia unita. Pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1987 e ripubblicato nel 2007, ha conseguito numerosi premi letterari, come il premio Campiello, il Super Campiello, il premio Viareggio, il premio Città di Catanzaro, il premio Rapallo e il premio Montalcino. Nel 2005 la Loy ha vinto il premio Bagutta con Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria. Tra le altre sue opere sono da annoverare anche quelle giovanili scritte dopo La bicicletta: La porta dell’acqua (Einaudi 1976), L’estate di Letuchè (Rizzoli 1982), All’insaputa della notte (Garzanti 1984), cui sono seguite le opere più mature come Sogni d’inverno (Mondadori 1992), Cioccolata da Hanselmann (Rizzoli 1995), Ahi, Paloma (Einaudi 2000), La prima mano (Rizzoli 2009). Nel 2010 ha pubblicato anche il racconto Cuori infranti per l’editore Nottetempo. Un posto a sé nella sua produzione ha il libro a metà tra il saggio e la narrativa La parola ebreo (Einaudi 1997), la storia di una famiglia romana nel periodo delle leggi razziali, che ha vinto i premi Fregene e Rapallo-Carige. Ha tradotto per la collana «Scrittori tradotti da scrittori» di Einaudi Dominique di Fromentin e La principessa di Clèves di Madame de La Fayette. Le sue opere sono state tradotte in tutte le lingue principali.
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Sommario
gli a n n i fra ca n e e lup o Prima di tutto
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1969 11 1970 17 1971 29 1972 41 1973 49 1974 55 1975 67 1976 73 1977 77 1978 83 1979 95 1980 113 1981 125 1982 131 1983 147
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1984 157 1985 169 1986 179 1987 185 1988 191 1989 199 1990 209 1991 221 1992 233 1993 257 1994 285
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gli anni fra cane e lupo
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Dopo il gelo degli anni di piombo, teniamoci il calduccio di questi anni di merda. Su un muro di Palermo, luglio 1999
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Prima di tutto
Ho pensato a lungo da dove iniziare e la scelta migliore mi è sembrata una data in apparenza irrilevante, che rasenta il «dopo» avendo gran parte del «prima» alle spalle. O forse perché semplicemente questo libro è nato da una notizia in apparenza trascurabile ma che, mentre mi addentravo nel suo percorso, diventava una foresta sempre più intricata. Questa data è il 26 dicembre 1990. È la sera di Santo Stefano quando il corso principale di Cortina d’Ampezzo, affollato di uomini e donne con colbacchi, pellicce e morbidi giacconi di montone, è improvvisamente trafitto dai lampeggianti di un’autoambulanza che mentre la sirena lancia i suoi urli da sciacallo passa con il semaforo rosso. E una volta svicolata dal lento andare degli stivali di pelliccia, sparisce dal palpitare delle luci natalizie per inoltrarsi nell’aria ovattata di neve. L’uomo steso all’interno ha sessantatré anni, accanto a lui un infermiere cerca di praticargli il massaggio cardiaco: l’uomo è cianotico, la pelle tirata agli zigomi, rantola. L’autoambulanza ha intanto imboccato la strada che sale fino al Codivilla, l’istituto elioterapico inaugurato nel 1923 e diventato in seguito un ospedale specializzato in traumatologia. La luce dei fari scivola adesso spettrale sugli abeti che fiancheggiano la carreggiata mentre l’edificio si disegna in alto, le finestre come tanti
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Gli anni fra cane e lupo
quadratini a punteggiare la notte. Davanti all’ingresso sono già pronti un medico e una lettiga, e appena l’autoambulanza si arresta gli infermieri si affrettano a spalancare la portiera. Ma è tardi, troppo tardi: l’uomo ha smesso di rantolare, bolle di bava tremano in bilico sulle labbra e il viso è contratto nell’ultimo spasimo. E intanto che la barella inizia la sua corsa insensata sotto la luce verdastra dell’androne, quel viso ritrova lentamente i suoi tratti. L’uomo è morto. Franco Piga ha l’età di mio fratello, e quattro anni più di me. Io vivo un momento molto importante della mia vita: dopo anni di passione e di impegno ho raggiunto la meta che mi ero prefissa con infrangibile cocciutaggine. Sono come un atleta che ha superato il traguardo, accecato dall’effimero della vittoria. Al contrario di me, l’uomo che è appena morto è arrivato giovane al successo. Figlio di un giudice costituzionale, Franco Piga è nato a Roma nel 1927 e non appena si è laureato in Legge alla Sapienza con il massimo dei voti, ha partecipato al concorso in magistratura, vincendolo al primo turno. E a soli trentun anni è diventato caposezione del Consiglio di Stato (organo supremo della magistratura), grazie anche a un personaggio-monumento della politica italiana che lo ha introdotto e seguito nell’approfondimento delle leggi in vigore: Enrico De Nicola. Fino a diventare, nel luglio di questo 1990, ministro delle Partecipazioni statali, il più importante dicastero italiano che regola l’afflusso e il deflusso dei soldi dalle casse dello Stato. Una carriera brillante, la sua, che ha l’imprimatur della Democrazia cristiana, il maggiore partito politico italiano ininterrottamente al governo dal 1946. Ma il traguardo raggiunto dall’uomo che medici e infermieri stanno invano cercando di resuscitare, di natura certo più sostanziale del mio, si è rivelato inaspettatamente più effimero: quattro mesi
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e ventinove giorni. Dal 27 luglio, quando Giulio Andreotti lo ha nominato ministro delle Partecipazioni statali, al 26 dicembre di questo 1990 denso di avvenimenti per la giovane Repubblica italiana, quando la morte è piombata su di lui simile a una pietra scivolata giù dalle pareti delle Dolomiti che si rizzano nel blu della notte. Lontane e inaccessibili, hanno nomi quasi da gnomi: Antelao, Lavaredo, Pomagagnon, Tofane... Come se le rocce potessero essere maschio e poi a un tratto femmina, ricordare Pantagruel e poi ancora Tartufo... La sera del 27 dicembre 1992 sono con Cesare a cena da «Giorgio» a Viareggio. È sempre divertente fermarsi da questo vecchio e incazzato comunista che non sente ragioni e fra un piatto e l’altro – serviti dal figlio Guido o dal cameriere Luigi, lui mai si abbasserebbe a portare soltanto un bicchiere – si mette a discutere con Cesare. Ha molto rispetto per il figlio di un illustre sindaco di Viareggio (Antonio Garboli lo è stato nei primi anni Cinquanta, un sindaco famoso e generoso) e soprattutto ha un’ammirazione sconfinata per Cesare, ma la discussione lo infiamma. Il Pci è stato la sua vita, e mentre il figlio Guido passa come un saltimbanco fra i tavoli e ride e scherza sul padre di imperitura fede togliattiana, lui prosegue imperterrito, alterandosi alle contestazioni di Cesare. Ma il cibo è più che buono e tutto alla fine ritorna e si concilia fra gamberi e seppioline, antipasti crudi di rughetta e finocchi, spigole mirabolanti; e, per finire, la crostata di pere e cioccolato. «È morto Franco Piga» ci annuncia mostrandoci «l’Unità» che ha sempre in mano. «E chi è Franco Piga?» chiedo. «Un ministro» dice Cesare. «Ministro delle Partecipazioni statali» specifica Giorgio ripiegando il giornale. A me che sia morto Franco Piga mi lascia del tutto indifferente. Neanche so cosa siano le «partecipazioni statali».
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Gli anni fra cane e lupo
Questa scena che sembrava essere passata via inavvertibile è tornata anni dopo con una tale intensità che quasi ne sentivo il respiro sul collo insieme al freddo del cielo stellato di Vado, ultima propaggine di Camaiore prima che la provinciale inizi la sua ascesa al Matanna, quando la casa compariva all’improvviso sulla destra: un grande cubo costruito alla fine del Settecento per ospitare un alto prelato, come indicava lo stemma in pietra con cappello e cordone cardinalizio sopra l’ingresso principale. L’odore inconfondibile quando si rientrava la sera, di legno e di mele, di libri ordinati come mattoni lungo i muri. La scala in pietra e le stanze dove si accumulavano fotografie e armadi cigolanti, e ancora letti di bambini, ritratti a olio e uno stralunato Cesare poco più che ventenne dipinto da Morlotti. La canaletta d’acqua che alimentava un tempo la grande ruota del frantoio e scorreva ormai inutile e silenziosa, di magica trasparenza lungo l’intero incolto di quello che un tempo era un giardino e adesso era erba e gatti e alberi di mele, tanti, in filari ordinati, contorti e vecchi, anzi vecchissimi, che ancora offrivano d’estate i loro frutti verdolini in cui i denti tentavano invano di arrivare alla polpa, e lasciavano, sconfitti, l’impronta sulla buccia immancabilmente tenace. I due platani che allargavano i loro rami da un lato all’altro della casa dove penzolava ancora una vecchia altalena rotta. Contro una finestra al secondo piano l’ultimo anno veniva a sbattere di continuo un passerotto con un’ostinazione ripetuta giorno dopo giorno, come se volesse mandare un messaggio. O forse, soltanto illuso dal riflesso del platano nel vetro. Ma per tornare a Franco Piga meriterebbe alcune righe anche il suo primo mentore, Enrico De Nicola, per quanto appare oggi anomalo il suo comportamento. Nato a Napoli nel 1877, di area liberale giolittiana, De Nicola era stato eletto deputato la prima volta nel 1909, a trentadue anni.
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Ma nel 1924, per non ricandidarsi insieme ai fascisti, aveva abbandonato la vita politica diventando uno dei più brillanti avvocati penalisti di Napoli. E nel 1943, al momento dell’armistizio, quando le truppe angloamericane erano entrate nel capoluogo campano, era stato chiamato a mediare fra gli Alleati e la monarchia italiana in vista di un futuro passaggio di poteri. Sua era stata l’idea, nel 1944, di creare la figura del «luogotenente» per sostituire con il figlio Umberto il padre Vittorio Emanuele III, pesantemente compromesso durante il ventennio fascista. Un luogotenente che, nell’attesa delle prime elezioni libere degli italiani, era diventato re per quarantacinque giorni con il nome di Umberto II. Ma sarebbe rimasto nella storia come «il re di maggio», tanto breve era stato il suo regno. Il 2 giugno infatti, al momento del referendum, gli italiani chiamati a scegliere fra monarchia e repubblica, anche se con uno scarto di pochi voti, avevano optato per la seconda. E il 28 di quello stesso giugno, al momento del primo vagito della neonata Repubblica, la poltrona di presidente era stata offerta a Enrico De Nicola. Che era rimasto a lungo incerto se accettare o meno, tanto che il giornalista Manlio Lupinacci aveva scritto sul «Giornale d’Italia»: «Onorevole De Nicola, decida di decidere se accetta di accettare». E quando finalmente De Nicola aveva deciso di decidere, era partito dalla sua casa di Torre del Greco sulla sua auto privata. Ma soprattutto aveva rifiutato lo stipendio previsto per la carica di presidente della Repubblica: dodici milioni di lire. Resta famoso il suo cappotto voltato e rivoltato, dignitoso coprotagonista di innumerevoli riunioni ufficiali. (Era stato ancora presidente del Senato dal 1951 al 1952, poi giudice e presidente della rinata Corte costituzionale, carica che aveva ricoperto dal 23 gennaio 1956 al 26 marzo 1957. Morirà a Torre del Greco il 1° ottobre 1959.)