L'Agenda Nera

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Pamphlet, documenti, storie REVERSE


Michele Ainis, Avventura Urbana Torino, Andrea Bajani, Bandanas, Gianni Barbacetto, Stefano Bartezzaghi, Oliviero Beha, Marco Belpoliti, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Nicola Biondo, Tito Boeri, Caterina Bonvicini, Beatrice Borromeo, Alessandra Bortolami, Giovanna Boursier, Dario Bressanini, Carla Buzza, Andrea Camilleri, Olindo Canali, Davide Carlucci, Luigi Carrozzo, Andrea Casalegno, Antonio Castaldo, Carla Castellacci, Massimo Cirri, Fernando Coratelli, Carlo Cornaglia, Roberto Corradi, Pino Corrias, Andrea Cortellessa, Riccardo Cremona, Gabriele D’Autilia, Vincenzo de Cecco, Luigi de Magistris, Andrea Di Caro, Franz Di Cioccio, Gianni Dragoni, Giovanni Fasanella, Davide Ferrario, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De André, Goffredo Fofi, Massimo Fubini, Milena Gabanelli, Vania Lucia Gaito, Pietro Garibaldi, Claudio Gatti, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi, Salvatore Giannella, Francesco Giavazzi, Stefano Giovanardi, Franco Giustolisi, Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Dalbert Hallenstein, Ferdinando Imposimato, Karenfilm, Giorgio Lauro, Alessandro Leogrande, Marco Lillo, Felice Lima, Stefania Limiti, Giuseppe Lo Bianco, Saverio Lodato, Carmelo Lopapa, Vittorio Malagutti, Antonella Mascali, Giorgio Meletti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Alain Minc, Angelo Miotto, Letizia Moizzi, Giorgio Morbello, Loretta Napoleoni, Natangelo, Alberto Nerazzini, Gianluigi Nuzzi, Raffaele Oriani, Sandro Orlando, Antonio Padellaro, Pietro Palladino, Gianfranco Pannone, David Pearson (graphic design), Maria Perosino, Simone Perotti, Roberto Petrini, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Paola Porciello (web editor), Mario Portanova, Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato, Sigfrido Ranucci, Luca Rastello, Marco Revelli, Piero Ricca, Gianluigi Ricuperati, Sandra Rizza, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno, Laura Salvai, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro, Roberto Saviano, Matteo Scanni, Roberto Scarpinato, Filippo Solibello, Riccardo Staglianò, Luca Steffenoni, theHand, Bruno Tinti, Marco Travaglio, Elena Valdini, Vauro, Concetto Vecchio, Carlo Zanda, Carlotta Zavattiero.


PRETESTO 1

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“Bisogna che cerchino

i veri mandanti delle stragi. La mafia ha fornito solo la manovalanza.” Giovanna Maggiani Chelli, vicepresidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, Firenze.


PRETESTO 2

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SCARANTINO CONFESSA

“Di tutti gli omicidi che ho fatto quello di Borsellino è stato il più brutto.” (24 maggio 1995) SCARANTINO ALLA MOGLIE

“Rosalia ti giuro, non ne so niente della strage.” (10 ottobre 1995) SCARANTINO RITRATTA

“Sono stato usato come un orsacchiotto con le batterie e costretto a prendere in giro lo Stato.” (24 settembre 1998)

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“Sono stato io a rubare la Fiat 126 usata come autobomba per la strage di via D’Amelio.” Gaspare Spatuzza, 15 ottobre 2008.


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“Scarantino era completamente inattendibile.” Alfonso Sabella, all’epoca pm a Palermo, luglio 1994.

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“Se c’è chi dice che le rivelazioni di Gaspare Spatuzza sulla strage di via D’Amelio significano una sconfitta dei giudici che hanno indagato e fatto condannare il gotha di Cosa nostra, allora questa è disinformazione.” Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo.


PRETESTO 3

f a pagina , , , , 

– Da domani comincia la campagna elettorale. Silvio Berlusconi, 27 gennaio 1994.

– Il Padreterno tifa per Forza Italia. Ambra Angiolini nel corso della trasmissione Non è la Rai, 30 gennaio 1994.

– Faccio gli auguri al mio papà putativo Berlusconi. Spero che tra una settimana potremo festeggiare. Iva Zanicchi nel corso della trasmissione Ok, il prezzo è giusto, 19 marzo 1994.

– Presidente, lei sa quanto le voglio bene e quanto tengo alle sue fortune. Alberto Castagna nel corso della trasmissione Stranamore, 20 marzo 1994.

– Guardatevi intorno e ditemi se non è grandioso, e tutto questo lo ha fatto Silvio Berlusconi. Mike Bongiorno nel corso della trasmissione La ruota della fortuna, 21 marzo 1994.


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“Non credo alla pista mafiosa. È una bomba che ha l’obiettivo di stabilizzare, non destabilizzare.” Così il 21 maggio 1993 Bettino Craxi commenta l’attentato di via Fauro destinato a colpire Maurizio Costanzo.

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“Dopo aver sottoposto le parole di Spatuzza a rigorosissimo vaglio, la Procura di Caltanissetta ritiene che le dichiarazioni in questione siano dotate della necessaria credibilità e siano rimaste ampiamente riscontrate dalle attività di indagine svolte.” Dalla richiesta del programma definitivo di protezione per Gaspare Spatuzza.


Š Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: Via Melzi d’Eril, 44 - Milano ISBN

978-88-6190-099-8

Prima edizione: giugno 2010 www.chiarelettere.it BLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA


Giuseppe Lo Bianco Sandra Rizza

L’agenda nera

chiarelettere


Giuseppe Lo Bianco, 50 anni, cronista giudiziario da venticinque anni a Palermo, ha lavorato al «Giornale di Sicilia» e a «L’Ora» negli anni della guerra di mafia, dal blitz del settembre 1984 dopo le dichiarazioni di Buscetta, che originò il primo maxiprocesso alle cosche, ai misteri delle stragi mafiose, ai processi Andreotti e Contrada. È convinto che sia riduttivo continuare a definire mafia un sistema democraticamente rappresentato, che costituisce la prima, autentica, emergenza del paese. Oggi collabora con «il Fatto Quotidiano» e con «MicroMega». Corrispondente de «L’espresso» dalla Sicilia, ha scritto con Franco Viviano La strage degli eroi (Edizioni Arbor 1996). Con Sandra Rizza, Rita Borsellino. La sfida siciliana (Editori Riuniti 2006), Il gioco grande. Ipotesi su Provenzano (Editori Riuniti 2006), L’agenda rossa di Paolo Borsellino (Chiarelettere 2007) e Profondo nero (Chiarelettere 2009). Sandra Rizza, 47 anni, per un decennio cronista giudiziaria all’Ansa di Palermo, ha imparato il mestiere negli stanzoni de «L’Ora» di Palermo, negli anni caldi della guerra di mafia, passando presto dalle cronache di ordinaria marginalità sociale alla cronaca nera e giudiziaria. Ha collaborato con «il manifesto» seguendo le udienze del maxiprocesso, e firmando servizi di approfondimento sul tema del garantismo, sul pentitismo e sugli aspetti «sociologici» del fenomeno mafia, a partire dal ruolo delle donne all’interno dei clan. Ha collaborato con «La Stampa», ed è stata corrispondente dalla Sicilia del settimanale «Panorama» negli anni delle stragi 1992-93. Oggi collabora con «MicroMega» e scrive su «il Fatto Quotidiano». Ha scritto Rita Atria. Una ragazza contro la mafia (edizioni La Luna, 1993). Con Lo Bianco ha scritto Rita Borsellino. La sfida siciliana (Editori Riuniti 2006), Il gioco grande. Ipotesi su Provenzano (Editori Riuniti 2006), L’agenda rossa di Paolo Borsellino (Chiarelettere 2007) e Profondo nero (Chiarelettere 2009).


Sommario

L’AGENDA NERA

Prologo. Cui prodest?

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Antefatto. La prima trattativa (maggio-luglio 1992)

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Via D’Amelio, il Signor Nessuno e la genesi del depistaggio (luglio-ottobre 1992)

56

Lo stop alle indagini (novembre 1992-febbraio 1993)

85

La nuova trattativa (febbraio-dicembre 1993)

113

La «moratoria» e il trionfo di Forza Italia (gennaio-novembre 1994)

154

Così si fabbrica un pentito: primi indizi del depistaggio (gennaio 1995-dicembre 1999)

197

Sei processi da rifare (gennaio 2000-giugno 2006)

253

Fine della tregua: la partita del 41 bis (gennaio 2000-febbraio 2006)

275


La strategia mediatica di Cosa nostra: piccoli corleonesi crescono (aprile 2006-novembre 2009)

325

Il rebus Spatuzza: la «bomba atomica» che minaccia la credibilità dello Stato (gennaio 2008-aprile 2010)

346

Al di sopra di ogni sospetto: l’indagine sui depistatori (settembre 2008-gennaio 2010)

376

Conclusioni. Un paese al bivio

399

Nota degli autori

403

Fonti e documentazione

405

Cronologia

406

Diciotto anni dopo

407

Intervista a Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta

409

Appendice Dichiarazioni spontanee del generale Mario Mori nell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo

425

Sulla richiesta di ammissione del teste Massimo Ciancimino nel processo d’appello a carico di Marcello Dell’Utri

440


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A Paolo Borsellino, e agli uomini e alle donne in divisa caduti in via D’Amelio, vittime della strategia terroristico-mafiosa e del depistaggio di Stato che ha aperto le porte alla Seconda Repubblica



Illuso chi pensa che lo Stato possa processare se stesso. Leonardo Sciascia Il compito di un dottore è guarire i pazienti, il compito di un cantante è cantare. L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede. Anna Stepanovna Politkovskaja



Prologo Cui prodest?

Questa è la storia del depistaggio che ha «coperto» i mandanti di via D’Amelio, offrendo all’opinione pubblica un falso pentito e una falsa verità sulla strage. È la storia del depistaggio che ha portato alla sbarra, utilizzando pressioni e minacce, tre balordi di borgata con l’accusa di essere i manovali della strage, e poi un pezzo della cupola di Cosa nostra, sulla base di un’indagine «pura» della polizia, nata dal ritrovamento di un blocco motore, un pezzo meccanico che però non compare in nessuna delle videoriprese effettuate sul luogo dell’esplosione nelle ore immediatamente successive alla morte di Borsellino. Ed è proprio questa l’indagine che oggi, sotto i colpi delle nuove rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, si sta sgretolando con il rischio di incrinare la credibilità dello Stato, in una fase delicatissima della lotta alla mafia. L’indagine di Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), e del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, coronata dal pentimento di Vincenzo Scarantino, è stata il pilastro d’argilla che ha retto i primi due processi su via D’Amelio (il Borsellino-uno e il Borsellino-bis) conclusisi, dopo sei gradi di giudizio, con il bollo della Cassazione. Un percorso investigativo che ha promosso le luminose carriere di un pugno di funzionari di polizia, lasciando di fatto nell’ombra i registi del terrorismo mafioso e gli strateghi del ribaltamento istituzionale che ha portato alla nascita della Seconda Repubblica. Ma perché un poliziotto del calibro di Arnaldo La Barbera avrebbe dovuto imbastire un così perverso canovaccio? Due sono le ipotesi principali della Procura di Caltanissetta che oggi sta indagando sulla falsa pista Scarantino e, in particolare, sull’operato di tre funzionari del gruppo Falcone-Borsellino. La prima è la cosiddetta «ra-


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gion di Stato»: la fretta, in un momento di forte offensiva mafiosa, e di concomitante incertezza istituzionale, di trovare un colpevole in tempi brevi, per rassicurare l’opinione pubblica e rafforzare la credibilità dello Stato. Se così è, ipotizzano gli inquirenti, La Barbera e i suoi uomini avrebbero attribuito a un ignaro Scarantino le informazioni sul furto dell’autobomba raccolte sul territorio attraverso una rete di anonimi confidenti: notizie che i poliziotti sapevano essere fondate ma senza possibilità di un rapido sviluppo investigativo. In questo caso, che pure delinea un quadro illegale e mistificatorio, le intenzioni dei depistatori sarebbero state colpevoli, ma di una colpa in un certo senso «veniale»: il falso pentito avrebbe assicurato, infatti, alle patrie galere in tempi brevissimi quelli che i poliziotti ritenevano i veri responsabili della strage, con il vantaggio di aprire brillanti carriere agli autori del successo investigativo. La seconda ipotesi, formulata dai pm nisseni, è il «dolo» con finalità eversive, e apre scenari assai più inquietanti. È un’ipotesi che teorizza la volontà di orientare consapevolmente magistrati e investigatori verso un obiettivo «minimalista», tutto puntato in direzione della manovalanza criminale, per distrarli e allontanarli dalle indagini sui mandanti occulti.1 Non è un’ipotesi da poco. Il buio fitto sui mandanti ha permesso, in quel biennio 1992-94, l’evoluzione di un progetto politico che a suon di bombe ha cambiato il volto del paese. Un piano al quale, secondo gli inquirenti, avrebbero collaborato attivamente, fornendo input decisivi, esponenti «deviati» dei servizi segreti. Per questo motivo, i pm di Caltanissetta, ma anche quelli di Palermo, hanno chiesto all’Aisi e all’Aise, le agenzie di sicurezza rispettivamente civile e militare, di togliere il segreto su alcuni fascicoli riservati, comprese le schede personali dei numerosi agenti che in quegli anni avrebbero lavorato in Sicilia sotto copertura e di quelli presenti sui luoghi delle stragi. L’ipotesi investigativa al vaglio degli inquirenti guarda anche ai settori dell’intelligence oltre i confini nazionali. «La mente di Cosa nostra è sempre stata negli Usa» sostiene il consulente informatico Gioacchino Genchi, che è convinto dell’origine americana delle stragi «Prova ne sono i ripetuti viaggi del boss mafioso Domenico Raccuglia di Altofonte (Palermo) negli Stati Uniti fin dal ’92. Le stragi furono decise in America, non certo a Corleone».2 E Paolo Cirino Pomicino, l’ex ministro andreottiano, in un’intervista, ha


Prologo

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parlato di «manina americana» anche dietro Tangentopoli, alludendo a «collegamenti tra la Cia e alcuni terminali italiani», con l’obiettivo, a partire dal 1992, di smascherare «la corruzione e la mafiosità della Prima Repubblica» per eliminare politicamente Craxi e Andreotti («l’intelligence degli Stati Uniti – ha detto – ce l’aveva con loro dopo i fatti di Sigonella»), e arrivare a un ricambio politico in Italia. Non si può non rilevare, secondo Pomicino, che in quel momento c’è stata una «convergenza di obiettivi» tra Cosa nostra e i servizi segreti atlantici, per provocare in Italia un enorme scossone politico: «Era un disegno completo – ha concluso l’ex Dc – e l’alleanza tra la mafia e gli americani c’era già stata per un ideale più alto: la lotta ai nazifascisti». Si può credere o no all’idea complottista di Pomicino secondo cui «qualcuno aveva interesse a fare dell’Italia un paese di marionette».3 Di concreto c’è che oggi i magistrati palermitani hanno riaperto l’inchiesta sui Sistemi criminali, per ricostruire, d’intesa con i colleghi nisseni – attraverso le testimonianze dei protagonisti dell’epoca (ministri, sottosegretari e persino ex presidenti della Repubblica) –, tutti i passaggi istituzionali che hanno traghettato il paese dalla Prima alla Seconda Repubblica. E che hanno spalancato le porte al trionfo elettorale di Silvio Berlusconi, il tycoon che con il pieno possesso dei media è poi riuscito ad attuare una gran parte di quanto previsto dal Piano di rinascita democratica di Licio Gelli, il patron della P2. Attenzione, perché in questo contesto la strage di via D’Amelio è il mistero dei misteri. Il coinvolgimento ipotizzato di esponenti dei servizi segreti colloca evidentemente l’obiettivo dell’eccidio del 19 luglio su un piano che va ben oltre la semplice vendetta mafiosa scatenata contro un giudice assurto a simbolo dell’antimafia. La morte «spettacolare» di Borsellino, in quel preciso momento, ha un fortissimo significato politico che si riverbera sull’evoluzione del quadro istituzionale. Chi vuole determinare quell’evoluzione? Un’intelligenza atlantica, come suggerisce Genchi? Una mente raffinatissima che ha manovrato e utilizzato la manovalanza mafiosa per poi «scaricarla» e neutralizzarla sotto una montagna di ergastoli? Una cosa è certa: a partire dall’89, con il crollo del muro di Berlino e il dissolversi della minaccia comunista, gli apparati di sicurezza degli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a sbarazzarsi di Cosa nostra (un vero e proprio esercito privato, che dal dopoguerra in poi ha costituito una


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formidabile assicurazione, armata di kalasˇnikov, contro il pericolo di un’invasione delle forze sovietiche), e lanciano il segnale del cambiamento: tolleranza zero con il traffico di droga, politica investigativa spinta al massimo livello. L’Italia si adegua: sono gli anni della «svolta» di Andreotti, presidente del Consiglio, indotto dal diktat americano a sostenere per la prima volta misure severe contro la criminalità organizzata in Italia. Mino Martinazzoli, al processo Andreotti, ha raccontato che, nella sua funzione di ministro della Giustizia, nel 1985 incontrò alcuni rappresentanti del governo americano che gli anticiparono l’imminente crollo del muro di Berlino spiegandogli che, da lì a poco tempo, avrebbero modificato le linee di contrasto al crimine, ponendo al primo posto la lotta alla droga. Gli americani proposero che l’ambasciatore Usa fosse presente alla prima udienza del maxiprocesso, ma Martinazzoli rifiutò la proposta, spiegando che non era opportuno «caricare il dibattimento di una eccessiva valenza politica». Claudio Martelli, nello stesso processo Andreotti, ha detto che dagli Usa venne una forte sollecitazione perché l’Italia si dotasse di uno strumento legislativo che incentivasse il fenomeno del pentitismo, sottolineando che in America una legge analoga si era rivelata fondamentale per combattere la mafia.4 Gli Usa, dunque, dall’89 in poi, ritengono «ingombrante» l’esercito corleonese di Totò Riina che in Sicilia e nel resto d’Italia è stato il braccio armato dei grandi omicidi politici degli anni Ottanta (Dalla Chiesa, La Torre, Mattarella, Rapido 904): un plotone d’esecuzione sempre pronto a imbracciare le armi, agli ordini dei soliti (mandanti) ignoti, per controllare e condizionare le scelte politiche. Ed ecco che nel ’92 accade qualcosa che, di fatto, mette fine all’egemonia dei corleonesi, l’ala sanguinaria di Cosa nostra, e riesce a neutralizzare per sempre i macellai della mafia. Accade qualcosa che ricorda moltissimo quel perfetto meccanismo utilizzato vent’anni prima in Italia dai servizi segreti «deviati» per liberarsi dei sicari neofascisti, prima riforniti di bombe e pistole per alimentare la strategia della tensione, poi «scaricati»,5 ovvero processati e sepolti sotto valanghe di ergastoli. Allo stesso modo, le stragi del ’92, e in particolare la morte di Borsellino, si riveleranno un pessimo affare per Cosa nostra. Per Riina e il suo clan stragista, l’uccisione di Borsellino sarà un boomerang, l’inizio della fine. La risposta repressiva dello Stato scatterà come una molla rapida ed efficace: la legge sui pentiti, le re-


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tate, i sequestri, i processi e gli ergastoli trascineranno in carcere, nell’inferno del 41 bis, tra il 1992 e il 1996, il capo dei capi e tutti i suoi fedelissimi, soldati assetati di sangue. Ma, nello stesso tempo, per chi in quel momento ha interesse a «sbloccare» il sistema politico italiano, via D’Amelio è uno straordinario lasciapassare verso nuovi assetti istituzionali. Perché la morte di Borsellino è il tappo che, con un gran botto, fa saltare definitivamente il vecchio sistema partitocratico italiano. Se, dopo Tangentopoli e dopo la strage di Capaci, il paese è profondamente scosso, dopo la strage di via D’Amelio è pronto a voltare pagina verso una nuova stagione politica. E allora: chi ha voluto a tutti i costi la morte di Borsellino, appena cinquantasei giorni dopo l’eliminazione di Falcone? Chi ha «pressato» Riina, chi lo ha convinto a scatenare la sua manovalanza criminale su una seconda strage così eclatante nel centro di Palermo? In breve, chi sono i mandanti occulti che da diciotto anni si fanno beffe della giustizia? Dietro le bombe c’è un’unica eminenza grigia che in quel momento persegue il duplice obiettivo di ribaltare l’assetto istituzionale dell’Italia e contestualmente «liquidare» i corleonesi? Oppure ci sono attori diversi che, dall’interno e dall’estero, promuovono la sfida terroristico-mafiosa, ciascuno per raggiungere un proprio vantaggio? Quali sono i soggetti che hanno sfruttato quel passaggio di sangue per ricavarne un utile politico? Chi sono quegli esponenti dei partiti tradizionali che dal giugno del 1992 sanno tutto della trattativa tra lo Stato e la mafia e che, essendo ormai consapevoli dell’imminente ribaltone istituzionale, garantiscono il dialogo con Cosa nostra nella speranza di fermare lo stragismo e dunque «riciclarsi» come protagonisti affidabili nel nuovo sistema politico nascente? Pezzi della «sinistra», come accusa il collaboratore Giovanni Brusca, puntando il dito su Mancino (esponente della sinistra Dc, ex ministro dell’Interno, poi transitato al Pd) che definisce il «contatto politico» della trattativa? O i futuri leader della nuova destra, Berlusconi e Dell’Utri, indicati dal pentito Gaspare Spatuzza come i veri profittatori della strategia delle bombe del biennio 1992-94, necessaria premessa del successivo trionfo di Forza Italia? O forse entrambe le parti, con l’identico obiettivo di agguantare il timone della «barca Italia» dopo lo tsunami istituzionale? Sono domande che, a diciotto anni dalle stragi, esigono risposte


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chiare e nette. Se queste risposte arriveranno, allora finalmente sapremo qualcosa di più sullo scenario politico che ha fatto da sfondo al terrorismo mafioso, e forse anche sui misteriosi committenti delle stragi che la falsa pista di Scarantino, confezionata dai poliziotti, è servita, consapevolmente o meno, a «coprire». Ecco perché quella sul depistaggio è oggi un’inchiesta decisiva: forse l’unica in grado di illuminare una stagione fondamentale della nostra storia recente. Tutto comincia il 23 maggio 1992 sotto il sole siciliano, a due passi dal mare.

1

Vedi G. Lo Bianco, S. Rizza, «Via D’Amelio, ombre su La Barbera», in «il Fatto Quotidiano», 29 settembre 2009. 2 Vedi agenzia Ansa del 16 dicembre 2009. 3 Vedi F. D’Esposito, «L’Italia è un paese di marionette. Pomicino e la manina americana», intervista a Paolo Cirino Pomicino, in «Il Riformista», 19 gennaio 2010. Di seguito, il testo completo dell’intervista: Sostiene Geronimo: «Stanno scoprendo l’acqua calda. Si vada a leggere un capitolo del mio ultimo libro». Geronimo alias l’ex ministro andreottiano Paolo Cirino Pomicino, tra i falcidiati illustri di Tangentopoli, liquida come «acqua calda» le recenti rivelazioni su Di Pietro «l’amerikano» e rimanda alla lettura della sua ultima opera: La politica nel cuore. Segreti e bugie della Seconda Repubblica, edito da Cairo. Che cosa c’è scritto? Ho parlato dei rapporti e dei collegamenti tra la Cia e alcuni «terminali» italiani. È una storia che inizia nel 1992, ovviamente. L’alba di Tangentopoli. Quell’anno il capo della Cia, Woolsey, tenne una conferenza in California e spiegò che l’amministrazione Clinton aveva autorizzato lo spionaggio industriale per difendere le imprese americane nel mondo. In realtà successe anche altro. Cioè? Gli americani raccolsero parecchie informazioni sul sistema di finanziamento dei partiti e su atti veri e propri di corruzione. Non è un caso che nel 1992, a Milano, sbarca l’agenzia privata Kroll, con spioni a contratto. Quelle informazioni dove finirono? Woolsey fece presente al governo del suo paese che qualora ce ne fosse stata la necessità avrebbero potuto far scoppiare degli scandali. Solo in Italia? No, in tutta Europa. La Thatcher aveva perso la battaglia sulla moneta unica e


Prologo

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gli americani iniziarono una politica aggressiva per difendere il dollaro. Penso ai guai di Chirac in Francia, a quelli di Kohl in Germania. E le accuse a Craxi e Andreotti da noi. Esatto. La manina americana poggiò il suo intervento su due pilastri: la corruzione e la mafiosità della Prima Repubblica. Ossia Craxi corrotto e Andreotti mafioso. L’intelligence degli Stati Uniti ce l’aveva con loro dopo i fatti di Sigonella. Quindi ci fu un complotto? Attenzione, ho parlato di manina. Da analista non posso che notare una convergenza di obiettivi. E poi i servizi americani vivono in modo autonomo: le amministrazioni politiche passano, loro restano. Ricordo interferenze di tutti i tipi. Per esempio? Quando Veltroni doveva diventare segretario dei Ds, trapelò l’indiscrezione che il suo avversario di sempre, D’Alema, avesse dei conti all’estero. Veltroni non ebbe più alcun problema. E Di Pietro? So per certo che era molto amico di Michael Ledeen, consulente dei servizi americani e che tra l’altro fu anche intermediario tra Reagan e Craxi nella crisi su Sigonella. Ammetto però di non aver mai chiesto nulla in merito a Tonino. In ogni caso, proseguendo il suo ragionamento, il risultato non cambia: la Prima Repubblica morì. Un evento impensabile per noi della Dc. Perché? Alle elezioni del ’92 il pentapartito aveva raggiunto il 53 per cento: nella Seconda Repubblica nessuna coalizione ha ottenuto questo risultato. Eravamo vivi e vegeti. Capii il disegno contro di noi quando ebbi un invito da Carlo De Benedetti. Che cosa voleva l’Ingegnere? Mi disse che la fine dell’egemonia della Dc avrebbe potuto portare a un governo con i postcomunisti e la sinistra democristiana. Ma lei non era della sinistra Dc. Per questo mi meravigliai, ma in fondo sono sempre stato un andreottiano atipico. Invece Tangentopoli segna l’avvento di Berlusconi. Le ripeto, la manina americana non credo agisse di concerto con l’amministrazione pro-tempore del suo paese. Ci fu un’eterogenesi dei fini. Mannino ha detto a Maria Latella per SkyTg24: «Nel settembre 1991 il giudice Falcone, in una conversazione privata mi manifestò la sua grande preoccupazione per una convergenza che temeva tra Cosa nostra e servizi segreti di altri paesi, che avrebbe provocato in Italia uno scossone, un autentico terremoto». Le faccio io una domanda: che cosa voleva dire Riina quando ha parlato di sostituire i vecchi referenti politici coi nuovi? Era un disegno completo e l’alleanza tra mafia e americani c’è già stata per un ideale più alto: la lotta ai nazifascisti. Lei insinua che le stragi del ’93... [...] Questo è il motivo per cui ce l’ho con tutti i presidenti del Senato. Non c’è alcun giornalista serio che faccia un’inchiesta vera, perdio. Non nascondo che sia questo il motivo della mia eliminazione politica.


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Scusi, ma a che cosa si riferisce? Al fatto che gli atti della commissione Stragi dal ’93 al ’98 sono ancora sotto segreto. Qualcuno mi dica il perché. In giro ci sono ancora parecchi traditori della Repubblica. Una Repubblica delle banane. Un paese di marionette, come mi disse preoccupato Parisi. L’ex capo della polizia. Era il ’91 e gli rubarono la pistola dalla sua auto. E Parisi, appunto, era il capo della polizia. Lo incontrai e mi spiegò che qualcuno aveva interesse a fare dell’Italia un paese di marionette. 4 Vedi G. Lo Bianco, S. Rizza, Il gioco grande, Editori Riuniti, Roma 2006. 5 Vedi Atti commissione Stragi, conclusioni del presidente Giovanni Pellegrino, ex senatore Pd.




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