La borsa di Calvi

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principio attivo Inchieste e reportage


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Legenda delle immagini sul retro di copertina 1

Lettera di Roberto Calvi sullo scontro tra lui e lo Ior, scritta con ogni probabilità alla fine di maggio del 1982, destinatario ignoto.

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Lettera di Calvi a Flavio Carboni sui rapporti dare-avere tra il banchiere e il faccendiere sardo.

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Lettera di Giulio Lena al cardinal Casaroli del 14 dicembre 1987, con cui il pregiudicato legato alla banda della Magliana sollecita il rimborso dei soldi anticipati per l’acquisto dei documenti della borsa di Calvi da Flavio Carboni e minaccia di pubblicizzare la vicenda alla stampa.

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Altra lettera di Giulio Lena al cardinal Casaroli, del 24 aprile 1987, con cui il pregiudicato rivendica i soldi anticipati, e ricevuta di ritorno con il timbro della Città del Vaticano.

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Minuta di una lettera di Flavio Carboni al papa, con cui il faccendiere rivendica l’importanza della sua attività di recupero dei documenti della borsa di Calvi.

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Minuta di una lettera densa di errori presumibilmente scritta da padre Hnilica e destinata forse a monsignor Hilary.

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Lettera di monsignor Paolo Hnilica del 25 agosto 1986 al cardinal Casaroli contenente la richiesta di 14 miliardi e 500 milioni per l’acquisto della borsa di Calvi da Flavio Carboni.

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Uno dei due assegni da 600 milioni di lire emessi da monsignor Hnilica in favore di Giulio Lena come garanzia del pagamento dei primi documenti della borsa di Calvi venduti al vescovo da Flavio Carboni.


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III

“Mi siano restituite tutte le somme da me devolute per i progetti riguardanti l’espansione politica ed economica della Chiesa; mi siano restituiti i mille milioni di dollari che, per espressa volontà del Vaticano, ho devoluto in favore di Solidarnos´c´; mi siano restituite le somme che ho impegnato per organizzare centri finanziari e di potere politico in cinque paesi dell’America del Sud, somme che ammontano a oltre 1,75 milioni di dollari.” Lettera di Roberto Calvi, priva di data e destinatario, consegnata dall’avvocato di padre Hnilica, Roberto De Felice, al giudice Mario Almerighi.

pretesto 1 f pagina 32


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La borsa di Calvi

– Sua Eminenza, io mi sono un po’ stancato, io ho anticipato per quello che lei sa… – Lo so, lo so, deve pazientare ancora un po’. – Sì, io ho già dimostrato di averla la pazienza, si tratta di svariati milioni di dollari… Lo Ior… – Be’, be’, non esageriamo, comunque, stia tranquillo… ma non faccia più quel nome. Conversazione telefonica tra il boss Giulio Lena e un alto prelato del Vaticano in relazione all’acquisto delle lettere contenute nella borsa di Calvi.

pretesto 2 f pagina 11


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V

“Nel mese di aprile del 1985 Flavio Carboni mi disse di sapere dove si trovava la borsa di Calvi e di essere in grado di recuperarla dietro pagamento di circa 3 miliardi di lire... Carboni mi disse anche che il Vaticano, per ottenere la borsa, avrebbe poi pagato 41 miliardi tramite la Pro Fratribus, che faceva capo a monsignor Hnilica.”

20 maggio 1988. Dichiarazione di Giulio Lena a Mario Almerighi.

“Questi assegni dovevano servire come garanzia morale... Lo scopo era quello di trattenere la documentazione che riguardava Calvi e lo Ior in modo da evitare che andasse in mani avverse.” Il 24 febbraio 1987 padre Hnilica parla con il boss Giulio Lena dell’acquisto dei documenti della borsa di Calvi.

pretesto 3 f pagine 194, 193


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La borsa di Calvi

“Noi sapevamo dove accorrere per ottenere le carte mancanti e ci parve non esserci altro partito ragionevole che acquisire quelle carte, subito, prima che altri vi mettessero le mani!... Mi limito a dire a Vostra Eminenza che gli impegni urgenti, anzi urgentissimi, ammontano oggi a circa L. 14.500.000.000.� Lettera del 25 agosto 1986 inviata da padre Hnilica al cardinale di Stato vaticano, Agostino Casaroli.

pretesto 4 f pagine 206-207


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VII

“Flavio Carboni aveva ricevuto da Giulio Lena un ingente prestito… mi disse che questi finanziamenti dovevano servire sia per incrementare una campagna di stampa in favore della Chiesa sia per il recupero dei documenti che restituissero credibilità allo Ior e al Vaticano stesso, dopo le note vicende.”

pretesto 5 f pagina 190


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Š Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: Via Guerrazzi, 9 - Milano isbn

978-88-6190-624-2

Prima edizione: febbraio 2015 www.chiarelettere.it / interviste / libri in uscita

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Mario Almerighi

La borsa di Calvi Prefazione di Marco Travaglio

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Sommario

Prefazione di Marco Travaglio

XIII

Avvertenza XXII la borsa di calvi

Questo libro

3

L’inizio della storia

9

Le prime lettere della borsa nelle mani del Vaticano

16

Le minacce di Calvi alla Santa sede

28

In fuga verso la morte

42

La scelta del Chelsea Cloisters a Londra

67

Il complice Ugo Flavoni

75

L’ultimo giorno di Calvi

82

Gerard Coomer: un testimone chiave

88

Come Roberto Calvi andò a morire

100

L’arresto di Carboni

116

La cassaforte della Ultrafin e quella di Klagenfurt

126

A Montreal con Clara e Carlo Calvi

134


Š 2015 Chiarelettere editore srl Il mio viaggio a Cape Town

143

La mungitura del banchiere prima del macello

150

Le dichiarazioni dei pentiti

157

PerchĂŠ Gelli non pianse la morte di Calvi

173

La trattativa tra Carboni e il Vaticano

177

Hnilica il negoziatore

190

Le lettere di minaccia di Luigi Cavallo

210

La rottura tra il faccendiere e il vescovo

214

Le sentenze

227

Appendice 263 I processi 265 I documenti 267


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Prefazione di Marco Travaglio

Almerighi e la borsa di Calvi È l’8 aprile 1997 quando il gip capitolino Mario Almerighi emette un’ordinanza di custodia cautelare, su richiesta del pubblico ministero Giovanni Salvi, a carico dei presunti mandanti del delitto Calvi: il boss mafioso Giuseppe Calò, palermitano, classe 1931, già condannato a numerosi ergastoli (compreso quello per la strage del Rapido 904) e il faccendiere plurinquisito e pluriarrestato Flavio Carboni, nato a Sassari nel 1932, uomo dalle mille relazioni politiche, finanziarie e malavitose. I due – secondo l’accusa – avrebbero architettato «in concorso tra loro e con altri» l’assassinio del banchiere, «avvalendosi dell’organizzazione mafiosa denominata Cosa nostra, al fine di conseguire l’impunità e conservare il profitto del delitto di concorso in bancarotta fraudolenta»: Calò «dando disposizioni ad altri associati per delinquere, i quali agivano materialmente, strangolando il Calvi e simulandone il suicidio»; Carboni «consegnando il Calvi nelle stesse mani degli esecutori materiali, dopo averlo ridotto in suo potere». Il movente: Calvi si sarebbe impossessato, come aveva fatto prima di lui Michele Sindona, di una parte del tesoro di Cosa nostra, promettendo di investirlo e farlo fruttare, ma alla fine, travolto dai debiti, non sarebbe più stato in grado di restituirlo. Non è nuovo, il magistrato Almerighi, a occuparsi di misteri italiani. È uno dei primi «pretori d’assalto» (come allora vengono chiamati quelli che indagano a trecentosessanta gradi) a


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La borsa di Calvi

Genova. Si occupa soprattutto degli spaventosi casi di avvelenamento delle acque, e riesce a mandare alla sbarra qualcosa come 140 industrie inquinanti e i cosiddetti «controllori» del Comune di Genova, che naturalmente non controllavano un bel nulla. Nel 1973 s’imbatte poi in un caso che, per le sue dimensioni, occuperà per mesi le cronache nazionali: lo scandalo dei petroli, cioè la prima grande «Tangentopoli» d’Italia. Leggi fiscali approvate dal parlamento su commissione dell’Unione petrolifera italiana in cambio di laute tangenti. Ministri e politici di tutti i partiti di governo coinvolti. Almerighi arriva alla morte di Calvi nella maniera più casuale e rocambolesca che si possa immaginare. Nel 1988 il magistrato sta svolgendo indagini su una vera e propria multinazionale del crimine, dedita al traffico d’armi e di droga. Uno degli arrestati è Giulio Lena, considerato il cervello italiano della supergang, legato alla banda della Magliana. Nella sua villa vengono rinvenute due lettere indirizzate al cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato vaticano. Lena chiede all’illustre porporato di restituirgli un miliardo e 200 milioni di lire, da lui a suo tempo anticipati al Vaticano per l’acquisto dei documenti contenuti nella borsa di Roberto Calvi. Si tratta della borsa che il banchiere portava sempre con sé, ma che non fu più ritrovata né quando fu scoperto il suo cadavere, né al residence di Londra, né sotto il ponte dei Frati neri. Salvo ricomparire il 1° aprile 1986 fra le mani di un informatissimo giornalista missino, Giorgio Pisanò, direttore del «Candido», che la consegnò – ormai pressoché vuota – in diretta televisiva su Rai1 a Enzo Biagi. La borsa fu aperta dinanzi a milioni di telespettatori e alla presenza di Carboni che certificò: «Sì, la riconosco, è proprio la borsa di Calvi». Ma che fine hanno fatto le carte sparite dalla borsa? E chi l’ha trafugata, quattro anni prima, la sera della morte del banchiere a Londra? A Roma il giudice istruttore Almerighi incrimina e rinvia a giudizio, sempre per ricettazione, Carboni, Lena e un prete molto vicino al papa, monsignor Hnilica. Per ricostruire il tortuoso itinerario della borsa in giro per l’Europa, ripercorre


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XV

gli ultimi giorni di vita di Calvi e i suoi spostamenti dall’Italia alla Svizzera, dall’Austria all’Inghilterra. Così, seguendo il banchiere e la sua borsa, Almerighi non può non imbattersi nella domanda delle domande: come morì Calvi? E si convince che l’ipotesi di gran lunga più probabile è quella dell’omicidio. Ma chi era Roberto Calvi? Nasce a Milano nel 1920, figlio di un funzionario della Banca commerciale italiana (Comit). Dopo il diploma di ragioneria, si iscrive alla facoltà di Economia e commercio dell’Università Bocconi. E qui dirige l’ufficio stampa e propaganda dei Gruppi universitari fascisti (i Guf ) fino all’entrata in guerra dell’Italia. Arruolato nella cavalleria (e più precisamente nei lancieri di Novara), partecipa alla campagna di Russia. Poi, caduto il regime, grazie al padre e agli ottimi studi, trova un posto alla Comit. Dove rimane soltanto due anni. È il tipico ragiunatt milanese, sgobbone e anonimo, grigio e taciturno, tutto il contrario dell’altro «banchiere di Dio» che diverrà famoso e poi famigerato nell’olimpo della finanza ambrosiana, Michele Sindona. Ma è anche un giovane pieno di ambizioni. Nel 1947, a ventisette anni, entra, sempre come impiegato semplice, al Banco ambrosiano: il salto non è da poco, essendo la Comit il simbolo della finanza laica e massonica e l’Ambrosiano una minuscola banca senza pretese, per giunta nota come «la banca dei preti» (fondata nel 1896 da monsignor Giuseppe Tovini per incarico del cardinale arcivescovo Andrea Ferrari e da allora controllata per decenni dalla curia milanese). Non che Calvi sia un fervente cattolico, anzi. Ma per entrare all’Ambrosiano occorre una lettera di presentazione del parroco, con allegato il certificato di battesimo. E lui si procura senza problemi l’una e l’altro. Ai pochi eletti cui riserva le sue confidenze, spiega di voler trasformare l’istituto da banca regionale di beneficenza in colosso della finanza internazionale. E giura, fra l’incredulità generale, che un giorno l’Ambrosiano sarà suo. Progetti più grandi


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La borsa di Calvi

di lui, infatti non sono suoi, come non saranno suoi i mezzi impiegati per realizzarli. Calvi – come emergerà più tardi, e non solo nelle inchieste dei giudici – è un «uomo di paglia», una «testa di legno», la pedina di un gioco enorme inventato da altri: Sindona, Licio Gelli, il suo braccio destro Umberto Ortolani, i prelati vaticani, e altri uomini a mezzadria fra la finanza e la malavita organizzata. Intanto però nessuno lo sa, e questo omino schivo e sepolcrale comincia a scalare i gradini che portano ai piani alti dell’Ambrosiano fino a raggiungere, alla fine degli anni Sessanta, il ruolo di segretario generale, cioè di assistente e braccio destro del direttore centrale Alessandro Canesi. Subentrandogli dal 1969, quando ascende alla direzione centrale. Nel frattempo intreccia amicizie e rapporti altolocati, e acquista in Svizzera la Banca del Gottardo. Nel 1968 stringe i rapporti con il finanziere siciliano Michele Sindona, diventandone anche socio. Alcuni sostengono che la sera di Natale del 1969 si tenga, a Roma, un vertice segretissimo fra Calvi, Sindona e Ortolani per siglare un patto di collaborazione e di azione, mettendo in comune gli appoggi di cui ciascuno gode per la carriera di tutti. Sta di fatto che poco più di un anno dopo, nel febbraio del 1971, Calvi diventa direttore generale dell’Ambrosiano. Dopodiché Sindona lo mette in contatto prima con monsignor Paul Marcinkus e poi con il Venerabile Licio Gelli. Marcinkus è un corpulento vescovo americano di origini baltiche, che papa Paolo VI ha chiamato a presiedere l’Istituto per le opere di religione (Ior, la banca vaticana), e che non va troppo per il sottile: «La Chiesa – ripete spesso – non si amministra con le avemarie». Sindona, Calvi e Marcinkus entrano subito in società, fondando alle Bahamas la Cisalpine Overseas Bank e inaugurando una turbinosa attività nei paradisi fiscali di mezzo mondo, spesso in tandem con Ortolani (titolare di una banca a Montevideo, la Bafisud, di cui ben presto la Cisalpine diventerà socia). Nel 1975 Calvi è pronto per conoscere Licio Gelli. Li presenta Michele Sindona, ormai latitante negli Stati Uniti, con una




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