Lo Stato siamo noi

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“Chiamare i deputati e i senatori ‘rappresentanti del popolo’ non vuol più dire oggi quello che voleva dire in altri tempi: si dovrebbero chiamare ‘impiegati del loro partito’.”

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€ , Progetto grafico: David Pearson

Piero Calamandrei Lo Stato siamo noi

         Piero Calamandrei (‒)

Piero Calamandrei

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instant book Discorsi e testimonianze di pensiero libero, piccoli saggi, articoli, lettere. Contro censure e condizionamenti. Libri politici per cercare un’altra politica e ritrovare un pensiero forte. Libri del passato pensati per il futuro. Usiamoli.

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piero calamandrei (Firenze, 1889 - 1956)

Giurista e professore universitario, nel 1925 aderisce al Manifesto degli intellettuali antifascisti e collabora con la testata «Non Mollare» insieme a Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Carlo e Nello Rosselli. Durante il Ventennio fu uno dei pochissimi professori e avvocati che non chiese la tessera del Partito nazionale fascista, continuando sempre a far parte di una rete di opposizione al regime. Nel 1941 aderisce al movimento Giustizia e Libertà e un anno dopo è tra i fondatori del Partito d’Azione. Nel 1945 è nominato membro della Consulta nazionale e nel 1946 è eletto all’Assemblea costituente. Nell’aprile del 1945 fonda il mensile «Il Ponte». Tra le sue opere principali Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Uomini e città della Resistenza, Inventario della casa di campagna, Fede nel diritto.

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Piero Calamandrei

Lo Stato siamo noi

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© Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: via Melzi d’Eril, 44 – Milano ISBN 978-88-6190-229-9 Prima edizione: novembre 2011 www.chiarelettere.it BLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA

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Sommario

Nota editoriale Perché oggi di Giovanni De Luna

VII IX

lo stato siamo noi

Prima di tutto

3

Discorso ai giovani sulla Costituzione 3 - Scuola e democrazia 10 - Cinquantacinque milioni 13 - Ragioni di un no 18 - «Lo avrai, camerata Kesselring...» 24

La nuova Italia

27

Leggi chiare, stabili, oneste 27 - La festa dell’Incompiuta 29 - Repubblica pontificia 32 - Costituente e questione sociale 47

Resistenza e guerra

55

Desistenza 55 - Passato e avvenire della Resistenza 58 - Nessuno sarà innocente 76

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Politica

79

Maggioranza e opposizione 79 - Appunti sul professionismo parlamentare 88

SocietĂ e giustizia

97

In difesa di Danilo Dolci 97 - Bisogna aver visto 116 - La disgrazia di essere innocenti 121

Appendice

129

In nome di Dio o della Costituzione 129

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Nota editoriale

Gli scritti e i discorsi di Piero Calamandrei qui pubblicati coprono un arco temporale che va dal 1946 al 1956. La maggior parte dei testi raccolti sono ripresi da «Il Ponte», rivista fondata dallo stesso Calamandrei nel 1945, nel clima difficile del secondo dopoguerra, per difendere e indirizzare la nascente democrazia contro tutte quelle forze, politiche e non, che contrastavano il passaggio verso un’Italia diversa. Progetto di Calamandrei è quello di «defascistizzare gli italiani»; fondare una nuova, forte, coinvolgente religione civile capace di trovare nel senso dello Stato il suo valore essenziale e riscoprire l’importanza della cittadinanza attiva. Oltre ai testi de «Il Ponte», riportiamo vari discorsi, tra cui il Discorso ai giovani sulla Costituzione (1955), il discorso tenuto durante la votazione per l’ingresso dell’Italia nel Patto atlantico (1949), in cui l’Autore argomenta le ragioni del suo convinto No, e ancora l’arringa in difesa di Danilo Dolci, che Calamandrei difese nel processo intentatogli per manifestazione sediziosa e turbamento dell’ordine pubblico. Ancora, Scuola e democrazia (1956) e Appunti sul professionismo parlamentare (1956) sono tratti rispettivamente da una raccolta postuma di scritti di Giovanni Ferretti e dalla rivista «Critica sociale». I testi qui raccolti sono preceduti da un’introduzione di Giovanni De Luna. Ringraziamo Silvia Calamandrei per i consigli e la collaborazione, e la Biblioteca e Archivio storico «Piero Calamandrei».

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Perché oggi

di Giovanni De Luna

Una rinascita morale L’Italia passò dal fascismo alla repubblica, dalla dittatura alla democrazia, attraversando le macerie di una guerra drammaticamente rovinosa. Si trattò di una di quelle «fratture» che segnano irreversibilmente la storia di un paese, fasi convulse in cui affiorano i «padri fondatori», personaggi-enzimi che aiutano una nazione a metabolizzare il brusco passaggio alla «terra di nessuno» di una nuova stagione politica e istituzionale, a interpretare le coordinate al cui interno vengono vissute esperienze collettive mai sperimentate prima. Piero Calamandrei fu uno di questi. Lo fu come giurista, per il ruolo autorevole che assunse nell’elaborazione della nostra carta costituzionale. Ma lo fu anche nel suo impegno complessivo, negli scritti, nei comizi, nelle epigrafi, in tutti i segmenti di un «discorso» ininterrotto, di una tempesta oratoria che puntava a restituire una religione civile all’Italia repubblicana, fondandola sulla Resistenza e sull’antifascismo. I contorni di questo progetto si ritrovano nitidamente, già subito, nell’aprile 1945, nell’editoriale di presentazione al primo numero de «Il Ponte». «Nessu© 2011 Chiarelettere editore srl


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Lo Stato siamo noi

na vittoria militare, per quanto schiacciante, nessuna epurazione, per quanto inesorabile, potrà essere sufficiente a liberare il mondo da questa pestilenza [il fascismo, ndr], se prima non si rifaranno nelle coscienze le premesse morali, la cui mancanza ha consentito a tante persone [...] di associarsi senza ribellione a questi orrori, di adattarsi senza protesta a questa belluina concezione del mondo.» Alla discontinuità politica e istituzionale sancita dal referendum del 2 giugno 1946 doveva accompagnarsi una complessiva rigenerazione morale. Il fascismo era morto, ma il «costume» fascista sopravviveva in tutti gli interstizi degli apparati statali e della società civile. Non bastava quindi all’antifascismo averlo sconfitto militarmente. Si trattava ora di sgominare «quell’atmosfera di prepotenza e viltà, di compromesso e di corruzione in cui era immerso l’ordine fascista». Calamandrei non sottovalutava la pervasività e l’ampiezza del progetto fascista di «fare gli italiani». Sapeva benissimo che quel progetto aveva goduto di larghi consensi, che in quel «costume» si erano rispecchiati i comportamenti e le scelte collettive della larga maggioranza degli italiani. Si era trattato, diceva, di «un arido ventennio di diseducazione, passato sulle menti come una carestia morale». Bisognava impedire che gli elementi essenziali di questa carestia transitassero intatti nella nuova Italia repubblicana.

Il nemico da battere Il primo passo in questa direzione era precisare quale fosse il nemico da battere. Il progetto di domi© 2011 Chiarelettere editore srl


Perché oggi

XI

nio mussoliniano aveva infatti dimensioni non tutte immediatamente riconducibili al potere politico, affidando le proprie mire totalitarie a un massiccio intervento nei confronti della società con iniziative volte a destrutturare le identità e le appartenenze sedimentatesi in precedenza attraverso la creazione di un nuovo spazio pubblico compiutamente militarizzato e ideologizzato. Non si trattava più di «fare gli italiani», ma di «fascistizzare gli italiani» attraverso il culto del duce, il partito unico, gli apparati repressivi, lo strangolamento delle libertà civili, l’asservimento della cultura, ricorrendo a un’accozzaglia di materiali eterogenei, i riti (teschi e camicie nere), le beffe punitive, le uniformi, lo stile marziale e romano, l’atletismo, le adunate oceaniche, la cultura del gruppo dirigente, la stampa, i giornali, il teatro, la scuola, la propaganda (Eiar, scritte murali), la fascistizzazione della lingua, l’università, la campagna demografica, il clero, la musica fascista, l’urbanesimo, gli scrittori, l’esercito, le barzellette, il buon costume, il razzismo, la burocrazia,1 che precipitavano in un «costume» che serpeggiava, fermentava, circolava, «alimentando altre ruberie, incoraggiando altre tracotanze, suscitando altre oppressioni».

Il coraggio di ricominciare Bisognava quindi ricominciare da capo e non limitarsi a ricostruire un sistema politico. Calamandrei era alla 1

«Il Ponte», n. 10, 1952.

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XII

Lo Stato siamo noi

ricerca di antidoti possenti, in grado di neutralizzare le tossine introdotte nei comportamenti degli italiani dal «costume» fascista (un termine significativo, non a caso utilizzato senza mai riferirsi a una qualche forma di «religione civile»). La Resistenza poteva essere il luogo storico in cui questi antidoti dovevano essere rintracciati. Una Resistenza vista come un movimento di popolo, spontaneo, cresciuto dal basso; la scelta della lotta partigiana era stata individuale e ognuno ne aveva attinto le motivazioni solo alla propria coscienza; era stata una guerra civile che aveva contrapposto due diversi tipi di italiani e due visioni del mondo. Una interpretazione che si opponeva frontalmente a quella comunista, così come fu, ad esempio, allora proposta da Pietro Secchia, tesa invece a valorizzarne gli aspetti più dell’«organizzazione» che della «spontaneità», insistendo sull’efficacia dell’azione dei partiti, (in particolare del Pci), sul ruolo decisivo non «del popolo indifferenziato» ma della classe operaia, sui suoi caratteri patriottici che ne facevano una guerra di liberazione nazionale piuttosto che una guerra civile.

Torniamo a credere nello Stato Proprio partendo da questa concezione spontaneistica della Resistenza, Calamandrei cercava di sottrarre il paradigma di fondazione della nostra Repubblica all’ipoteca (che gli appariva effimera) dei partiti antifascisti per riconsegnarla direttamente al vissuto e all’esperienza collettiva di tutti gli italiani. Di qui la © 2011 Chiarelettere editore srl


Perché oggi

XIII

sua insistenza sul «carattere religioso» della lotta partigiana, non solo nei suoi aspetti legati al sacro e al divino, che pure affiorano da alcune lettere dei condannati a morte della Resistenza («l’estrema preghiera del credente che spera la salvazione dalla religione tradizionale sinceramente professata»), ma soprattutto in quelli più marcatamente laici che avevano portato molti a sacrificare la propria vita per il bene degli altri, in una disposizione morale al cui interno si era preferita la morte al «tradimento lucroso di un’idea».2 In questo senso, la Resistenza veniva vista come il momento in cui «il senso del dovere» si era sostituito a ogni altro impulso, anche a quello della sopravvivenza; era stata quella l’ora in cui si era stati chiamati a testimoniare il bisogno di non avere niente da rimproverarsi, di essere in pace con la propria coscienza, presentabile di fronte a qualsiasi istanza giudicante. «Vincere la morte mediante il fare» aveva scritto Eugenio Colorni. «Non dare né ricevere, ma fare... E per fare intendo creare qualcosa che stia da sé, e che sia però nello stesso tempo un prolungamento di me che mi appartenga, in cui mi riconosca, ma che non abbia bisogno della mia presenza per continuare a esistere.» Era la riaffermazione di un culto tutto laico dell’immortalità, l’impegno ad attivare le energie più riposte nei singoli individui per vincere, nella storia e per la storia, la sfida con la morte. A fondamento di un nuovo spazio pubblico in cui Piero Calamandrei, Passato e avvenire della Resistenza, discorso del 28 febbraio 1954. 2

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XIV

Lo Stato siamo noi

ci si potesse riconoscere come cittadini di uno stesso Stato nel nome di valori condivisi, Calamandrei chiamava così «il popolo dei morti» («di quei morti che noi conosciamo uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e sulle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti...»), presentato non nella dimensione «vittimaria» dell’innocenza e della inconsapevolezza, ma come fonte attiva di una «nuova legittimazione dello Stato». Quali che fossero state le scelte politiche e ideologiche degli italiani, che ci si fosse schierati con la Resistenza o con Salò, o che si fos­se confluiti nel magma indistinto della zona grigia della «non scelta», per tutti era stato «tempo di guerra», in un’esistenza collettiva scandita dalla paura, le privazioni, la fame, il ripetersi ciclico di giorni senza speranza, un senso di precarietà carico di angoscia. Nella Resistenza, però, il «tempo di guerra» smarriva i suoi caratteri di passività, si svincolava dalle tentazioni di quell’auspicio consolatorio che risuonava nell’invocazione della Napoli milionaria di Eduardo De Filippo (adda passà ’a nuttata), per assumere i tratti del protagonismo e dell’attivismo consapevole. Nella sua spontaneità la Resistenza era stata soprattutto questo: «Distruzione e morte ci hanno visitati. Ma ora c’è una speranza nell’aria»; termina con queste parole il Diario di Iris Origo di cui Calamandrei si appropria in questa riflessione: «La Liberazione fu veramente come la crisi acuta di un morbo che finalmente si spezzava dentro il nostro petto, come lo strappo risoluto con cui il popolo italiano riuscì con © 2011 Chiarelettere editore srl


Perché oggi

XV

le sue stesse mani a svellere dal suo cuore un groviglio di serpi che per venti anni lo aveva soffocato».3 Questo senso di liberazione interiore scaturiva direttamente dalle caratteristiche della guerra partigiana, «diversa da tutte le guerre conosciute prima: una guerra in cui non c’erano più combattenti: una guerra in cui non vi erano più azioni militari, perché i gesti della normale vita quotidiana erano guerra, perché ormai il dovere militare aveva lo stesso volto del dovere civile, perché ormai l’unico modo di essere civili era quello di una guerra all’ultimo sangue alla bestialità e alla barbarie».4 I morti invocati da Calamandrei rappresentavano l’eredità più viva di quella guerra e sul loro culto doveva costruirsi un nuovo Pantheon in cui ospitare gli eroi di una religione civile in grado di azzerare ogni traccia del «culto del duce» e dei suoi orpelli; un Pantheon in cui far confluire i fratelli Cervi («nessuno si immaginava la possibilità di tanta grandezza in quella famiglia di gente semplice e oscura»), Luciano Bolis («che in prigionia, temendo di non resistere alla tortura, si tagliò le corde vocali per non parlare; e non parlò»), ma anche «l’adolescente che, condotto alla fucilazione, si rivolse all’improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo e lo baciò con un sorriso fraterno, dicendogli: “Muoio anche per te, viva la Germania libera”».5

Piero Calamandrei, Passato e avvenire della Resistenza, cit. Ibidem. 5 Ibidem. 3 4

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“Chiamare i deputati e i senatori ‘rappresentanti del popolo’ non vuol più dire oggi quello che voleva dire in altri tempi: si dovrebbero chiamare ‘impiegati del loro partito’.”

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