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« Il motivo principale per cui sono venuto fin qui ha un nome e un cognome: Vlad Teichberg. Ieri era trader di Borsa, oggi è il capo di Global Revolution Tv, la Cnn degli indignati. La miglior metafora vivente per raccontare questo movimento all’insegna dei paradossi.» continua a pagina 17
Il racconto di una settimana tra i militanti della protesta simbolo contro una diseguaglianza economica ormai insostenibile. Chi sono i protagonisti, com’è nato il movimento, l’importanza della rete, l’onda d’urto della rivolta egiziana, miti, letture e riti di una ribellione necessaria.
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© Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: Via Melzi d’Eril, 44 - Milano ISBN
978-88-6190-292-3
Prima edizione: marzo 2012 www.chiarelettere.it blog / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA
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Riccardo Staglianò
Occupy Wall Street
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Riccardo Staglianò è giornalista de «la Repubblica». Ha iniziato la sua carriera come corrispondente da New York per il mensile «Reset», ha poi lavorato al «Corriere della Sera» e oggi scrive inchieste e reportage dall’Italia e dall’estero per «il Venerdì». Da dieci anni insegna nuovi media alla Terza università di Roma. Nel 2001 ha vinto il Premio Ischia di Giornalismo, sezione giovani. Nell’ottobre 2011 ha portato in Italia (Reggio Emilia) le Ted Conference, format americano nel quale le migliori intelligenze internazionali sono invitate a tenere discorsi della durata di 18 minuti sui temi più diversi, dall’astronomia all’agricoltura, dal clima alle più sorprendenti innovazioni tecnologiche. È autore di vari libri, tra i quali ricordiamo Bill Gates. Una biografia non autorizzata (Feltrinelli, 2000), Cattive azioni. Come analisti e banche d’affari hanno creato e fatto sparire il tesoro della new economy (Editori Riuniti, 2002) e L’impero dei falsi (Laterza, 2006) sul traffico di merci contraffatte dalla Cina all’Europa. Per Chiarelettere ha pubblicato con Raffaele Oriani I cinesi non muoiono mai (2008), Miss Little China, che accompagna l’omonimo documentario di Riccardo Cremona e Vincenzo de Cecco (2009), Grazie (2010). Il suo libro più recente, Toglietevelo dalla testa (Chiarelettere 2012), è un’inchiesta sul potere e gli interessi delle lobby dei produttori di cellulari, e sul rapporto tra uso del telefonino e tumori alla testa.
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Sommario
occupy wall street Noi siamo il 99 per cento
5
La protesta più importante d’America da cinquant’anni a questa parte
Vlad Teichberg, l’uomo che visse due volte
17
Ieri trader di derivati, oggi capo di Global Revolution Tv
L’estinzione della classe media
27
Tagli, miseria, disuguaglianza: così salta il patto sociale
La scintilla «Adbusters», un po’ di bit e molti atomi
38
Dove nasce la protesta
Lo scaffale del ribelle Dal libello L’insurrezione che viene ai libri di Naomi Klein, Slavoj Žižek e Gene Sharp
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Occupy Wall Street
Il popolo di Occupy
69
Ritratti dal fronte: la normalità della rivoluzione
Un movimento orizzontale, senza leader né richieste
86
Prove tecniche di democrazia diretta
Il futuro della protesta, tra duropurismo ed elezioni
113
Occupy esiste e fa paura. Anche Obama se ne è accorto
Epilogo «Non si può sfrattare un’idea il cui tempo è arrivato»
140
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occupy wall street
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A causa di recenti tagli al budget, la luce alla fine del tunnel è stata spenta. Un cartello a Zuccotti Park
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Noi siamo il 99 per cento
Se dovessimo fidarci delle apparenze, Zuccotti Park ha l’aria di uno zoo triste, solitario e finale. Il perimetro di quello che è stato l’epicentro della protesta più importante d’America da cinquant’anni a questa parte è sigillato da transenne di metallo e da un nastro giallo con scritte nere, gemello di quello che la polizia usa per isolare il teatro di un crimine, ma che stavolta dice solo «Attenzione» in inglese e spagnolo. La recinzione e l’avvertimento sono stati messi dagli uomini con la pettorina fosforescente che assicurano la sicurezza per la Brookfield Properties, il colosso immobiliare a cui appartiene lo spiazzo di granito con i suoi cinquantacinque esili spini di Giuda (Gleditsia triacanthos), e che adesso presidiano i varchi. Si può entrare e uscire a piacimento dalla gabbia, ma l’impressione di cattività rimane. Al suo interno, alle dieci di mattina di un
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Occupy Wall Street
lunedì della fine di novembre 2011, ci sarà una cinquantina scarsa di persone. Per la maggior parte parlano tra di loro, in piccoli capannelli sferzati dal vento gelido, nell’impiantito che si trova qualche scalino sotto il livello della strada. I più determinati invece sfidano il freddo tagliente sul limitare di Broadway, abbarbicati alle transenne, mostrando ai passanti i loro cartelli. C’è un signore identico all’attore Peter Ustinov, coppola bianca in testa, che regge un grosso cartone vermiglio che dice: «Le banche ci hanno rapinato. E i politici guidavano l’auto per la fuga. Leggete Griftopia. Guardate Inside Job». Rispettivamente un libro sulla crisi scritto da un giornalista di «Rolling Stone» e un documentario sullo stesso tema che ha vinto l’Oscar. Una cinquantenne biondo platino, con occhiali da sole del tutto pretestuosi per il tempo che fa e una pelliccia tigrata sintetica, sceglie la satira: «Wall Street assume!!! Requisiti: aver rovinato milioni di vite. Aumentato il debito nazionale. Ricevuto ingenti aiuti statali. Ignorato la legge. Stipendio tra i 50 e 100 milioni di dollari». Un’asiatica che ricorda terribilmente Yoko Ono da giovane con la sensibilità per gli animali di Brigitte Bardot da vecchia si inventa un nesso rocambolesco per non andare fuori tema («Smettiamo di essere
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schiavi dell’1 per cento. E non trattiamo neanche gli animali come schiavi»). Una donna accanto, che potrebbe essere sua madre, innalza un cartone bilingue nippo-americano che dice, almeno nella parte intellegibile, «No al nucleare». Un ispanico distribuisce copie di «Occupy Wall Street Journal», la gazzetta del movimento, accettando donazioni che però non si sogna neppure di sollecitare. È un esercito di facce miti e pensose. Con qualche nostalgico che fa tenerezza. E degli homeless che finalmente hanno trovato compagnia. Ho fatto una specie di seduta di training autogeno prima di partire. Riempito la valigia di tutta la calma zen che sono riuscito a rimediare. Ma il primo pensiero che sfugge alla mia volontà è: «Dove può arrivare un’armata Brancaleone del genere?».
Metabolizzare lo sgombero E pensare che solo una settimana prima questo era il ribollente quartier generale dell’indignazione a stelle e strisce. Qualche centinaio di persone dormiva qui ogni notte in altrettante tende. Un’efficientissima cucina da campo serviva sino a 3000 pasti al giorno a chiunque avesse fame. Una
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Occupy Wall Street
biblioteca popolare aveva raccolto e catalogato quasi 5000 volumi donati da simpatizzanti, dalla Bibbia a Paura e delirio a Las Vegas, dal Bhagavad Gita a Poor People’s Movements, dal Manifesto di Marx ed Engels a He’s Just Not That Into You. C’era una postazione di mediattivisti che documentavano in diretta tutto ciò che accadeva. Una falange di bonghisti che, con capolavoro bipartisan che ricorda una canzone di Elio e le Storie Tese, a forza di suonare si era prima alienata i residenti, inizialmente simpatetici, per poi esasperare anche i militanti. Soprattutto qui si teneva l’assemblea generale, massimo organo deliberativo del movimento, nonché i gruppi di lavoro che ne istruivano la discussione. Nella notte del 15 novembre, su ordine del sindaco, Michael Bloomberg, che aveva motivato l’intervento adducendo presunte preoccupazioni di ordine sanitario, la polizia era intervenuta con gli idranti. Aveva ripulito la piazza di tutto il suo contenuto, umano e inanimato. Arrestato chi aveva fatto resistenza. Distrutto i computer e vari altri macchinari. Infradiciato irreversibilmente i libri. Ma soprattutto abbattuto il morale della truppa, quell’incongruo esercito di sognatori, marxisti moderati e anarchici imbelli, ambientalisti preoc-
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cupati, femministe born again, protettori di tutte le minoranze, oltre al grosso di normalissimi cittadini con l’unica sventura di nascere nella generazione sbagliata, ovvero la prima che – con formula abusata, ma non per questo meno vera – deve solo aspettarsi di stare peggio dei propri genitori. Le ordinarie vittime non della «fine della storia», come l’aveva sbrigativamente ed erroneamente intesa Francis Fukuyama alludendo al trionfo a mani basse del capitalismo su ogni ideologia alternativa, ma della sua marcia indietro a tutta velocità. Del brusco stop alle «magnifiche sorti e progressive». Della disperante rottura nella grande narrazione al suono della quale l’Occidente ha preso sonno in tutti questi anni. Ovvero il «99 per cento» degli americani, per dirla con il sapiente mantello semantico con cui il movimento si è coperto. Vale a dire tutti quelli che non appartengono alla minuscola e onnipotente oligarchia che da sola incassa un quinto degli stipendi e detiene poco meno di metà della ricchezza del paese.1 C’è chi fa rientrare in questa categoria demografico-economica tutti quelli che guadagnano meno di 250.000 dollari all’anno. Ma il servizio statistico dell’Internal Revenue Service per il 2009 fissava la soglia a 343.927 dollari. 1
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