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sono un uomo morto
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Al mio nonno Gianni F. M. Al procuratore Bruno Caccia ucciso dalla ’ndrangheta a Torino. Al procuratore Giancarlo Caselli che ha piegato la ’ndrangheta a Torino R. V.
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«Voglio che tutti sappiano» Nel marzo del 2010, quando ancora lavoravo per il quotidiano torinese «La Stampa», ho cominciato a raccogliere con un collega, Niccolò Zancan, le confidenze di Rocco Varacalli, pentito di ’ndrangheta, su un argomento che per molti anni è rimasto un tabù: l’infiltrazione della criminalità organizzata calabrese al Nord, e in particolare in Piemonte. Di Varacalli i giornali parlavano ormai da qualche mese. La sua decisione di collaborare con la giustizia aveva fatto molto rumore, a Torino come in Calabria. Era diventato un testimone chiave in molti processi. Le sue confessioni sarebbero diventate l’architrave dell’inchiesta Minotauro, che avrebbe svelato la geografia, gli affari e le infiltrazioni della ’ndrangheta nel Nord-ovest d’Italia e i contatti con le cosche della provincia di Reggio Calabria. Era stato lui a cercarmi in redazione nel novembre del 2009. «Lei è un piemontese che ha lavorato in Calabria, dove si è anche occupato della mia onorata società. Un avvocato che non vuole comparire mi ha fatto il suo nome. Mi ha detto che mi posso fidare di lei. Voglio scrivere un libro. Voglio che tutti sappiano che cosa è diventata la ’ndrangheta. Ormai si è infiltrata in mezzo mondo. È l’organizzazione criminale più potente e ricca.» In quel periodo Varacalli era nell’occhio del ciclone. Attraverso pressioni sui familiari, uomini molto potenti della
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’ndrangheta stavano tentando in tutti i modi di convincerlo a ritrattare le sue clamorose dichiarazioni. Sapevo che i carabinieri del nucleo operativo di Torino, coordinati dal colonnello Antonio De Vita, stavano conducendo da tempo un’indagine top secret. Nelle stanze del comando avevo potuto sbirciare una grande mappa geografica con decine di nomi dislocati in Piemonte, Liguria e Lombardia. Non volevo compromettere le indagini, che erano complesse e ancora da concludere. Dopo una lunga serie di trattative con l’avvocato di Varacalli, Ugo Colonna, e le forze dell’ordine, avevo ottenuto un parziale via libera per l’intervista, a patto di non scendere troppo nei particolari e soprattutto di non divulgare i nomi degli indagati. Il primo appuntamento con Varacalli Il 20 marzo 2010 ero andato con Zancan al primo incontro con Varacalli in un albergo della prima cintura di Torino. «Vi aspetto all’entrata dell’hotel» ci aveva assicurato. «Non vi preoccupate, mi faccio riconoscere io.» L’appuntamento era fissato per le quattro del pomeriggio, ma dopo mezz’ora nessuno si era fatto vivo. Quando l’avevo richiamato al telefono, Varacalli mi aveva dato indicazioni per raggiungerlo in un altro albergo: «Scusate, ma devo prendere le mie precauzioni e devo farvi girare un po’ prima dell’incontro». Il viaggio era durato una ventina di minuti in direzione Ivrea. Arrivati nel luogo indicato, ci eravamo accanto vicino al bancone del bar. Dopo pochi minuti una donna, che si sarebbe poi rivelata come la nuova compagna di Varacalli, si era avvicinata per avvertirci che Rocco ci attendeva in un angolo in fondo alla sala principale. Varacalli − un uomo sulla quarantina con i capelli ossigenati e la carnagione chiara, vestito con abiti casual ma griffati – era seduto su un divanetto vicino a un’uscita di sicurezza da dove poteva controllare tutti i movimenti.
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Ci siamo presentati. Il mio collega era molto più sciolto. Io invece ero ancora molto teso: continuavo a guardarmi ansiosamente intorno. Varacalli ha capito subito che non mi sentivo a mio agio: «State tranquilli, questo albergo è un luogo sicuro, ormai sono abituato a muovermi solo in posti blindati. Da quando sono uscito dal programma di protezione mi devo spostare da solo. La scorta ormai mi accompagna soltanto ai processi e agli interrogatori in procura». Anche i colloqui successivi sono avvenuti in alberghi anonimi vicini alle tangenziali e agli svincoli autostradali. Solo una volta ci siamo incontrati in città, a Torino, in un bar vicino a Porta Palazzo. Un testimone attendibile «Sono stato affiliato per dodici anni, dal novembre del 1994 al novembre del 2006, quando ho deciso di collaborare» ci ha detto la prima volta. «Alcune inchieste hanno cominciato a fare luce sulla mafia calabrese al Nord, ma sono stato io ad aprire agli inquirenti il libro della ’ndrangheta. Ho vissuto in prima persona, ho conosciuto i personaggi di spicco. Posso raccontare in presa diretta, da dentro.» Il colloquio è durato due ore, quasi tutte filmate. Varacalli ci ha raccontato in anteprima la trama dell’inchiesta che nel giugno del 2011, più di un anno dopo, avrebbe portato a 150 arresti. In effetti Varacalli, come rilevato nell’introduzione dell’inchiesta Minotauro, «in dodici anni di militanza nella ’ndrangheta ha avuto la possibilità di conoscere numerosissimi affiliati alla compagine e ha intrattenuto con loro in via continuativa contatti e relazioni, anche nei periodi di detenzione carceraria. Ha appreso grado, ruolo, attitudini e aspetti caratteriali degli affiliati con cui è venuto in contatto. Con molti di loro ha trattato droga e per tale motivo ha incontrato persone affiliate a “locali” [articolazioni territoriali dell’organizzazione criminale, nda] diverse dalla sua ma tutte facenti parte dell’onorata società».
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