Tesi Martina Chiarini

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Docente di indirizzo e Relatore Cesare Viel Correlatore Emilia Marasco

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focus

Arte relazionale

Dipartimento di Comunicazione e Didattica dell’Arte Corso di Didattica dell’Arte

Martina Chiarini AA 2019/2020

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Cari amici, so che siete tanti, una moltitudine eterogenea di ogni età ed estrazione sociale con la stessa indomabile curiosità, la stessa atavica fame di conoscenza, l’inesauribile amore per l’arte che contraddistingue le nostre vite. È a voi, e non solo, che mi rivolgo e a cui mi onoro di presentare il primo numero della rivista MUSA. L’idea di realizzare una rivista che racconta e analizza l’arte contemporanea nasce dal mio desiderio di diffondere conoscenza, attraverso collegamenti trasversali, sia con altre discipline sia con differenti movimenti artistici. L’arte esiste da quando l’uomo ha cominciato a incidere i primi grafϐiti sulle pareti delle caverne entro le quali si rifugiavano i nostri antenati. Sebbene appartenga al proprio momento storico, l’arte, sin dall’età del fuoco è conseguenza dell’evoluzione umana. È stata ed è testimonianza, per esempio, dell’industrializzazione o condanna senza appelli a tutte le guerre. Continua ad essere strumento di espressione dei movimenti a sostegno e difesa dei diritti umani, anti razzisti, anti sessisti, contro l’omofobia. L’arte si è trasformata nei secoli e da mero strumento di ostentazione della ricchezza dei possessori dell’opera, attraverso la contemplazione di una superϐicie bidimensionale, si è evoluta perseguendo un ϐine “altro”, con l’impiego di nuovi mezzi, supporti e materiali. Il Novecento ha segnato il cambio paradigmatico, dando luogo a una moltitudine di avvenimenti, così caratterizzanti e incisivi da renderlo il secolo della velocità. Talmente veloce che sembra sia volato, anche grazie al desiderio dell’uomo di avventurarsi senza più tentennamenti oltre i limiti conosciuti, sperimentare nuove frontiere di espressione. Venendo all’attualità, il 2020 è stato un anno particolare, siamo stati, e siamo tutt’ora, “minacciati” da una pandemia mondiale chiamata “Covid-19”. Ogni settore ha subito dei cambiamenti e delle perdite di fatturato, alcuni sono stati costretti a chiudere deϐinitivamente l’attività, altri hanno escogitato delle strategie per sopravvivere. Per circa tre mesi siamo stati obbligati a rimanere nelle nostre case, gli studenti hanno seguito le lezioni online, molti lavoratori hanno esercitato la professione in smart working, mentre altri, facenti parte di beni di prima necessità, hanno continuato a operare. La relazione tra le persone è stata messa a dura prova, il distanziamento sociale ci ha allontanato dai nostri affetti. Andare semplicemente a fare la spesa

sembrava un percorso ad ostacoli nel quale gli individui a malapena avevano il coraggio di guardarsi negli occhi, o una realtà parallela dove il tempo era sospeso. La paura dell’altro è diventata palpabile, ha reso sgomenti e ha oppresso tutti noi. Oramai siamo abituati a non abbracciare più chi incontriamo: gli amici, i vicini di casa, addirittura i congiunti. Ci guardiamo bene dallo stringere la mano a uno sconosciuto. Abbiamo represso un istinto insito in modo spiccatamente marcato in noi italiani, così bisognosi del contatto ϐisico per relazionarci. Abbiamo passato momenti bui e, pur essendo usciti dal periodo peggiore, ancora non intravediamo la luce in fondo al tunnel. Chi può dimenticare quando “usavamo” la scusa di dover portare a spasso il cane per poter uscire dalle nostre case diventate gabbie? Chi dimentica che i nonni hanno imparato a videochiamare attraverso le app di messaggistica, per parlare con ϐigli e nipoti? E i concerti solitari sui tetti? I karaoke improvvisati sui balconi? Addirittura c’è chi organizzava aperitivi virtuali pur di ritrovarsi con gli amici e brindare pixel con pixel. Ecco, capirete come non sia un caso l’argomento della prima edizione. L’arte relazionale, trattata nel primo numero assoluto della nostra, vostra, rivista, è un movimento nato negli anni ‘90 con l’obiettivo di creare “situazioni”, di coinvolgere il pubblico nell’opera e di esserne parte integrante ϐino a darne un signiϐicato. Ciò che conta non è il punto di arrivo ma il percorso e le relazioni che i partecipanti instaurano tra loro generando energia ϐisica e mentale. Chissà se Rirkrit Tiravanija, artista relazionale tailandese, ha mai pensato di organizzare un aperitivo online di portata mondiale? Con l’avanzare della tecnologia i rapporti umani sono andati via via sfumando come un vecchio disegno a carboncino, non sono più chiari e tangibili. Sarei curiosa di sapere cosa hanno in mente questi “ attivatori” di relazioni. Voi non siete curiosi di saperlo? Nel frattempo vi auguro un piacevole viaggio alla scoperta dell’arte con MUSA. La Direttrice Martina Chiarini

Editoriale

editoriale 3


sommario sommario

Macchie

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Nicolas Bourriaud

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Estetica Relazionale Nicolas Bourriaud e l’arte della postproduzione

Arte relazionale

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L’opera d’arte come interstizio sociale Siamo noi a costruire l’opera!

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Il contributo di Joseph Beuys

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Premesse storiche

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Opera Aperta

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Michelangelo Pistoletto: praticare lo spazio

Dominique Gonzalez-Fœrster

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p.32

l Muro del Vuoto “Con il vuoto pieni poteri”

Félix González-Torres

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p.40

Il peso della perdita L’eredità di Félix González-Torres

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Docente di indirizzo e Relatore Cesare Viel Correlatore Emilia Marasco Martina Chiarini AA 2019/2020

Sophie Calle

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L’arte di narrare Passeggiando con Janet Cardiff

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In viaggio con

Rirkrit Tiravanija La Paura mangia l’anima

Maria Lai Da vicino, vicinissimo, da lontano, in assenza.

Arte Relazionale in Italia Progetto Oreste

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p.56 59

p.60 62

p.64 p.66

NO, ORESTE, NO. Diari da un archivio impossibile

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dAPERTutto – Oreste a Venezia

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Cesare Viel

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Emozioni che prendono forma extrarte

sommario

Acc Accademia cccad ad mia ade ia a Ligustica Ligus Li gu g u tic tic ica di di Belle Arti A Dipartimento di Comunicazione e Didattica dell’Arte Corso di Didattica dell’Arte Rivista MUSA, Arte Relazionale

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COLLETTIVO APINA

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Le componenti del collettivo sono due studentesse del terzo anno dell’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. Frequentano il corso di Comunicazione e Didattica dell’Arte con l’obiettivo di sperimentare le molteplicità dei diversi ambiti artistici, sia pratici che teorici. Apina è l’incontro di due percorsi formativi derivanti l’uno dalla graϐica e le arti visive, l’altro da attività performative, quali danza e teatro. Il collettivo nasce dalla necessità di rendere professionale e concreta l’idea di fondere tre ϐigure: didattica, curatela e progettualità artistica, in un unico modus operandi. L’esigenza di mettere da parte le individualità, in nome di un’unica

identità che non sia dettagliata ma comune, ha permesso innanzitutto un primo confronto tra i componenti del collettivo. Alla base risiede il desiderio di ampliare le conoscenze artistiche, con la possibilità di entrare in un circuito che offre occasioni di crescita e scambio con altre realtà. L’opera “Envelope” (un progetto maturato nel corso dei primi mesi di questo stesso anno) è stata selezionata per partecipare alla settima tappa di Jaguart Genova. Il vincitore del bando avrà l’occasione di esporre presso la Galleria Pinksummer di Genova e la ϐiera Artissima di Torino.

Apina, “Envelope”, 2020 stampa digitale su tessuto cotone voilé e struttura in metallo. Apina, “Animalier”, 2019, performance e videoinstallazione


Il provvedimento di lockdown e il regime di quarantena, imposto per vincere la battaglia contro il coronavirus, hanno comportato problemi psicologici non di poco conto: ansia e stress. Sbalzi di

umore e perϐino crisi di panico in persone emotivamente stabili sono conseguenza di questo improvviso cambio di stile di vita. Rifugiarsi in hobby come la cucina, la letteratura, la pratica di un’attività ϐisica è stato fondamentale per scoprire nuove risorse e ϐinalizzare l’energia verso qualcosa di costruttivo.

Una via di fuga particolarmente efϐicace è la pittura in tutte le sue espressioni: dare un’immagine a pensieri ed emozioni aiuta a prendere consapevolezza delle proprie debolezze. Raccontare la forza

distruttiva di questo virus serve ad esorcizzare la paura e consente di lasciare una testimonianza ai posteri, ma anche ai contemporanei, di come il mondo possa ritrovare unità nella lotta contro questo male invisibile. Artisti di tutto il mondo provano a rappresentare il virus in diversi

modi: nel campo della StreetArt a Miami l’artista Sean Yoro ha dipinto un murale in cui appare il batterio del Covid-19 come una palla da demolizione, mentre a Los Angeles, Hijack Art ha dipinto due soldati che cercano riparo dal virus come se stessero combattendo una vera e propria guerra. In Italia d’altro canto, i murales di TVBoy, pseudonimo del palermitano Salvatore Bernintende, sono di grande impatto emotivo: sui muri di Milano troneggia una delle sue opere più celebri: “L’amore ai tempi del Covid-19”, ispirato al famoso “Bacio” di Hayez, dove i due innamorati si scambiano effusioni indossando una mascherina e tenendo in mano l’amuchina. Tra le innumerevoli vignette che circolano sui social media famose sono quelle di Gianluca Costantini, noto fumettista di Ravenna, che nei suoi disegni racchiude le note più tristi di questa tragedia immane. “Creare un’immagine che crei memoria” è l’intento che porta il fumettista a rafϐigurare medici stremati, ϐile di bare, pazienti sulle fatidiche barelle: immagini toccanti che consegnano alla storia l’emergenza di questi mesi.

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Arte in pandemia

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Nicolas Bourriaud

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Nicolas Bourriaud Estetica Relazionale Come nascono i fraintendimenti sull’arte degli anni ‘90, se non da un deϐicit del discorso teorico? Nella stragrande maggioranza dei casi, critici e ϐilosoϐi sono restii a fare i conti con le pratiche contemporanee, che restano dunque praticamente illeggibili, perché non si può cogliere la loro originalità e importanza analizzandole a partire da problemi risolti o lasciati in sospeso dalle generazioni precedenti. Bisogna accettare il fatto, assai doloroso, che alcune domande non vengono più poste e, per estensione, rintracciare quelle che si pongono oggi gli artisti. Quali sono le vere sϐide dell’arte contemporanea? Quali sono i suoi rapporti con la società, la storia, la cultura? Troppo spesso ci si accontenta di far l’inventario delle preoccupazioni di un tempo, al ϐine di meglio afϐliggersi per il fatto di non ricevere risposte. Ora, la prima domanda, a proposito di questi nuovi approcci, riguarda evidentemente la forma materiale delle opere. Come decodiϐicare queste produzioni apparentemente sfuggenti, che siano processuali o comportamentali, smettendola di nascondersi dietro la storia dell’arte degli anni ‘60? Oggi la comunicazione inabissa i contatti umani in spazi di controllo che tagliano il legame sociale in prodotti distinti. Da parte sua, l’attività artistica si sforza di stabilire modeste connessioni, di aprire qualche passaggio ostruito, di mettere in contatto livelli di realtà tenuti separati gli uni dagli altri. Le famose “autostrade della comunicazione”, con i loro pedaggi e le loro aree di sosta, minacciano di imporsi come gli unici tragitti possibili da un punto all’altro del mondo umano. Se l’autostrada permette effettivamente di viaggiare più rapidamente ed efϐicacemente, ha però il difetto di trasformare i suoi utilizzatori in consumatori

di chilometri e prodotti derivati. Di fronte ai media elettronici, ai parchi tematici, agli spazi conviviali, alla proliferazione dei formati compatibili della partecipazione sociale, ci troviamo poveri e indifesi, come il topo da laboratorio condannato a un percorso immutabile nella sua gabbia disseminata di pezzi di formaggio. Il soggetto ideale della società delle comparse è così ridotto alla condizione di consumatore di tempo e spazio. Ciò che non può essere commercializzato è destinato a sparire. Fra poco le relazioni interpersonali non si potranno tenere al di fuori di questi spazi mercantili: eccoci costretti a discutere intorno a una bibita debitamente tariffata, forma simbolica dei rapporti umani contemporanei. Il legame sociale è diventato un artefatto standardizzato. In un mondo regolato dalla divisione del lavoro e dall’ultra-specializzazione, dal divenire-macchina e dalla legge del proϐitto, ai governanti interessa che le relazioni umane siano canalizzate verso vie di fuga deputate a questo ϐine, e che si stabiliscano secondo uno o due principi semplici, controllabili e ripetibili. La deϐinizione di Arte relazionale si afferma con il libro del 1998 “Esthétique Rélationelle”, del critico francese Nicolas Bourriaud, fondatore e direttore tra il 1992 e il 2000 della rivista “Documents sur l’Art”, grazie alla quale inizia a riϐlettere sulle recenti trasformazioni delle ricerche artistiche e a diffondere riconsiderazioni già a metà del decennio. Grazie alla diretta collaborazione con vari artisti, Bourriaud, è stato in grado di riconoscere ed evidenziare i caratteri peculiari che accomunano le loro opere senza deϐinirne uno stile univoco ma piuttosto un orizzonte teorico nuovo rispetto al passato.


Nicolas Bourriaud

Il termine Arte relazionale fu originariamente usato dal critico d’arte francese Nicolas Bourriaud che deϐinì questo approccio come “un insieme di pratiche artistiche che considerano il loro punto di partenza teorico e pratico l’insieme delle relazioni umane e del loro contesto sociale, piuttosto che uno spazio privato e indipendente…In cui l’artista può essere visto più accuratamente come il “catalizzatore” nell’arte relazionale, piuttosto che essere al centro”. Oltre a osservare le pratiche di numerosi artisti contemporanei (tra i quali Félix González-Torres, Rirkrit Tiravanija, Philippe Parreno, Liam Gillick, Carsten Höller), il critico dedica l’ultimo capitolo del suo saggio alla riϐlessione ϐilosoϐica del francese Félix Guattari sull’estetica e sull’arte. Guattari, partendo dalla sua pratica professionale di psicoanalista, riconosce il ruolo dell’opera artistica “come elemento terapeutico, utile a stimolare positivamente la soggettività per liberarla dall’alienazione e omologazione tipiche della realtà capitalistica”. Il punto principale è che si esca veramente nutriti da questa esperienza tramite l’unione arte e vita, musei e introspezione. Bourriaud parla di “arte il cui progetto riguarda le condizioni di lavoro e di produzione degli oggetti culturali nonché delle forme mutanti della vita sociale”. É un’interpretazione a fronte delle forme artistiche apparse di recente: incontri, meeting, manifestazioni occasionali, giochi, progetti efϐimeri, occupazioni temporanee, tutte esperienze contrassegnate da un’idea di relazione e di incontro, quasi comunitaria, micropolitiche o microutopie quotidiane che prendono il posto delle idee rivoluzionarie o utopiche che contraddistinguono i decenni artistici precedenti.

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Nicolas Bourriaud

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Nicolas Bourriaud e l’arte della postproduzione Per Nicolas Bourriaud l’arte della “postproduzione” è la pratica artistica più adatta per reagire al caos della cultura globale nell’era dell’informazione. Così l’opera contemporanea non è più il punto terminale del “processo creativo” (non è un “prodotto ϐinito” da contemplare), ma un sito di navigazione, un portale, un generatore di attività. Si manipola a cominciare dalla produzione, navighiamo in un network di segni, inseriamo le nostre forme su linee esistenti. Le varie conϐigurazioni di un uso artistico del mondo (raccolto sotto il nome di postproduzione) vengono unite dalla rottura delle barriere tra produzione e consumo. Come afferma Dominique Gonzalez-Fœrster: “Per quanto illusorio e utopista, ciò che conta è introdurre una specie di uguaglianza, le stesse capacità tra me stessa (che sono all’origine di un dispositivo, di un sistema) e gli altri, la possibilità di un rapporto egualitario che permetta di organizzare la loro storia come risposta a ciò che hanno appena visto, e ai suoi riferimenti”. Con questa nuova forma di cultura, che si potrebbe deϐinire cultura d’uso o dell’attività, l’opera d’arte funziona come terminazione temporanea di una rete di elementi interconnessi, come narrativa che si estende ϐino a reinterpretare le narrative che l’hanno preceduta. Ogni mostra racchiude la storia di un’altra mostra; ogni opera può servire scenari multipli ed es-

sere inserita in programmi diversi. Non è più un punto terminale, dunque, ma un momento in una catena inϐinita di contributi. Questa cultura dell’uso implica una profonda mutazione dello statuto dell’opera d’arte. Ormai, oltre al suo ruolo tradizionale di ricettacolo della visione dell’artista, l’opera funziona come agente attivo, risultato musicale, scenario rivelatorio, contesto che possiede autonomia e materialità ad ogni livello, e la sua forma può oscillare dalla semplice idea alla scultura o al quadro. L’arte contraddice la cultura “passiva”, quella composta da merci e mercanti, diventando generatrice di comportamenti e riutilizzi potenziali, fa funzionare le forme all’interno delle quali si svolge la nostra esistenza quotidiana e gli oggetti culturali proposti alla nostra attenzione, e tende a dare forma e peso ai processi più invisibili. Quando interi settori della nostra esistenza diventano invisibili per effetto del cambiamento di scala della globalizzazione economica, quando le funzioni base della nostra vita quotidiana si vedono a poco a poco trasformate in elementi di consumo (ivi comprese le relazioni umane che stanno diventando un vero e proprio interesse industriale), sembra logico che gli artisti cerchino di rimaterializzare queste funzioni e questi processi, di ridare forma a ciò che sta scomparendo davanti ai nostri occhi. Non tanto in quanto oggetti, perché


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Carsten Höller, installazione presso la mostra “Doubt”, 2016

questo vorrebbe dire ricadere nella trappola della reiϐicazione, ma in quanto strumento d’esperienza: l’arte, cercando di frantumare la logica dello spettacolo, ci restituisce il mondo come esperienza da vivere. Una mostra d’arte non è più il risultato ϐinale di un processo, il suo “happy ending”, ma un luogo di produzione nel quale l’artista mette a disposizione del pubblico degli strumenti, come accadeva negli eventi d’arte concettuale organizzati da Seth Siegelaub negli anni ‘60 quando lo spettatore veniva semplicemente informato di ciò che stava accadendo. Mettendo alla prova le forme accademiche dell’esposizione, gli artisti degli anni ‘90 considerano il luogo d’esposizione come spazio della coabitazione, una scena a metà strada tra la scenograϐia, il set cinematograϐico e un centro di informazioni. Nel 1989 Dominique Gonzalez-Fœrster, Bernard Joinsten, Pierre Joseph e Philippe Parreno proposero con “Ozone” una mostra sotto forma di “livelli di informazione” sull’ecologia politica. Lo spazio doveva essere attraversato dal visitatore in maniera tale che lui stesso realizzasse un proprio montaggio visivo. Ozone si presentava, dunque, come spazio cinegenico dove il visitatore diventava attore dell’informazione. Sta a noi spettatori mettere in evidenza queste relazioni, giudicare le opere d’arte in funzione dei rapporti che producono all’interno del contesto speciϐico nel

quale si manifestano. Perché l’arte è un’attività che consiste nel produrre rapporti con il mondo, e materializzare – in una forma o nell’altra – le sue relazioni con lo spazio e col tempo. Si potrebbe proporre a questo punto un’idea fondante dell’uomo moderno: il “corpo costruttore”, cioè un corpo che attraversa un nuovo ambiente che lui stesso costruisce, che spesso ricostruisce a sua immagine e somiglianza, e che pensa di poter (ri)ediϐicare attraverso il suo sguardo singolo e individuale. È fondamentale introdurre la scoperta di un uomo che solamente con l’attraversamento, quindi con il solo sguardo, sa di poter modiϐicare il proprio ambiente, non più tramite la fuga verso l’onirico simbolista, ma semmai attraverso la scelta anarchica e sovvertitrice che porterà al surreale. Non è un caso che l’affermarsi della metropoli corra parallela alla liberazione del corpo, e alla coscienza di un suo uso fortemente individuale e perturbante. L’uomo nuovo attraversa ϐisicamente la metropoli di notte e di giorno, la possiede, la fa sua, la violenta, e ingaggia con lei una battaglia quotidiana nella quale si sente al pari.


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Arte relazionale L’opera d’arte come interstizio sociale Tra le conseguenze più contraddittorie della globalizzazione e per certi versi più eclatante e che manifesta, al tempo stesso, un rafforzamento del nazionalismo reazionario, è la tendenza sempre più massiva all’esclusione sociale. Il feticcio paradigmatico di questo progressivo “sovranismo” è la proliferazione di barriere e muri sui conϐini nazionali. Ma se l’arte può trascendere da essi, il soggetto comunitario ne soccombe: l’arte è sublimante, mentre la realtà è alienante. Così la politica globale, attonita e disattenta alle trasformazioni dei bisogni e degli immaginari collettivi si inchina al suo stesso fallimento. Quella dicotomia a cui Pierre Bourdieu accennava tra campo del potere e campo intellettuale tende ad ampliϐicarsi inesorabilmente nelle società contemporanee, sempre più sϐibrate e balcanizzate da autonomismi nazionalisti, separatismi locali, differenziazioni religiose e identitarie. Questa fenditura che attraversa la società e che rivela la sua inconciliabilità con la realtà, ha nel soggetto il suo enigma. Un soggetto sempre più de-soggettivato, sempre più alienato dal suo immaginario. Ed è sul terreno della soggettività politica, della sua costruzione e della sua potenza, che una metodologia politica sovversiva nel tempo dell’Interregno (gramsciano) dovrebbe necessariamente esercitarsi poiché esso è ancora disatteso, disaffezionato, semplicemente ancora non c’è. È dalla sua emancipazione ancora da determinarsi che bisogna ripartire, dalla ricategorizzazione di “moltitudine” che bisogna rigenerarsi, altrimenti c’è lo schianto e il rimpianto. Ed è perϐino stucchevole insistere ancora sulla biforcazione che distanzia l’immaginazione dalla materialità del mondo e che traspone su piani di disaccordo semantico la

stessa produzione di realtà. Così come è intimamente sconcertante dover invocare la letterarietà dell’esistente piuttosto che l’esistente stesso per interpretare l’enigma che si nasconde nella criticità del mondo, trovarne una giustiϐicazione, assolverne gli eventuali errori. Nel frattempo, viviamo nell’eccesso, tra archivi saturi, prodotti sempre più deperibili, junk food e ingorghi stradali, mentre il capitalismo sogna orgogliosamente un universo di scambi “senza attrito” in cui le merci, comprendenti esseri e cose, circolino senza ostacoli. La nostra epoca è anche quella dello spreco energetico, del sovraccarico delle aree di stoccaggio, degli effetti domino provocati dai riϐiuti industriali nell’atmosfera e negli oceani. Abbiamo visto ampliarsi considerevolmente la sfera del riϐiuto: vi rientra ormai l’insieme del non-assimilabile, tutto ciò che è bandito, inutilizzabile o inutile. Lo scarto, ci insegna il dizionario, è ciò che cade quando si fabbrica qualcosa. Il proletario, la classe sociale di cui il capitale può disporre liberamente, non si trova più unicamente nelle fabbriche: attraversa l’insieme del corpo sociale e designa un popolo di deprivati di cui le ϐigure emblematiche sono l’immigrato, il clandestino e il senzatetto. E se un tempo deϐinivamo il proletario come l’operaio privato della sua forza lavoro, la nostra epoca ha ampliato questa deϐinizione a tutti coloro ormai privati della loro esperienza, quale che sia, e costretti a sostituire nella vita quotidiana l’essere con l’avere. Uno degli elementi essenziali del programma politico dell’arte contemporanea consiste nel portare il mondo allo stato precario, vale a dire sottolineare senza sosta la natura transitoria e circostanziale delle istituzioni che sfruttano la vita sociale e


molteplicità: le relazioni predominano sugli oggetti, l’arborescenza sui punti, il passaggio sulla presenza, i vari percorsi sembrano più importanti delle stazioni che si incontrano lungo la strada. In un contesto dinamico, le forme tendono naturalmente a produrre (secernere) delle narrazioni, cominciando da quella della loro stessa produzione e diffusione. L’opera si presenta, quindi, come una struttura complessa capace di generare delle forme prima, durante e dopo la sua realizzazione. La predominanza della molteplicità va di pari passo con una concezione eterocronica del tempo: al di là della “pura presenza” e dell’istantaneità che costituivano gli attributi dell’opera totale modernista, l’arte contemporanea postula temporalità molteplici, una rappresentazione del tempo che rimanda alle costellazioni. Nella volta celeste, la supernova di cui constatiamo la presenza è morta da milioni di anni; la luce visibile non è che un ricordo così che guardandola contempliamo il tempo, più che lo spazio.

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delle regole che reggono i comportamenti individuali e collettivi, proprio perché gli apparati ideologici del capitalismo proclamano il contrario. Essi sostengono che il quadro politico ed economico nel quale viviamo sia immutabile e deϐinitivo, uno scenario unico di cui soltanto decorazioni e accessori sono oggetto di una perpetua (e superϐiciale) trasformazione. Il compito politico fondamentale dell’arte contemporanea non consiste nel denunciare questo o quel fatto “politico” appartenente all’attualità, ma nel portare la precarietà nelle menti, nel mantenere vivo il concetto di intervento sul mondo, nell’estendere il potenziale creativo dell’essere umano in tutte le sue forme. Dato che la realtà sociale costituisce un artefatto, possiamo decidere di cambiarla. L’arte espone il carattere non-deϐinitivo del mondo, lo smembra, lo taglia a pezzi, lo rende al disordine e alla poesia. Produttrice di rappresentazioni e contro-modelli che evidenziano la fragilità intrinseca dell’ordine esistente, l’arte si rivela portatrice di un progetto politico molto più efϐicace (nel senso che genera degli effetti concreti) e molto più ambizioso (nella misura in cui concerne ogni aspetto della realtà politica) della diffusione di uno slogan o della trasmissione di un’ideologia. Dal momento che il nostro mondo non è altro che pura costruzione, una struttura ideologica (o “una fantasmagoria”, nel lessico benjaminiano), diventa teatro di una lotta tra diverse narrazioni e ϐinzioni. Jacques Rancière sembra arrivare ad una conclusione analoga quando scrive che “il rapporto dell’arte con la politica [non è] un passaggio dalla ϐinzione al reale, ma un rapporto tra due modi di fare ϐinzione”. Nell’era di Internet, della comunicazione in tempo reale e dell’iper-mobilità globale, sembra logico si insedino nuovi modelli di percezione e rappresentazione dello spazio-tempo, che portano gli artisti a intrecciarsi l’un l’altro, come “nastri di Moebius”, catene semiotiche in cui si mescolano le caratteristiche dei diversi mezzi e formati, sotto l’egida dello schermo e delle possibilità offerte dagli strumenti digitali. Immersi in questo universo di “shock visivi” continui di cui Walter Benjamin aveva un tempo descritto le premesse, la sensibilità dell’individuo del Ventunesimo secolo evolve verso un immaginario del multiplo e verso forme reticolari. Certamente, sarebbe eccessivo pretendere che l’arte di oggi, nella sua profusione formale e concettuale, sia dominata da una forma speciϐica; in compenso, la forte presenza di una struttura a rete e dei suoi derivati si rivela troppo evidente nella produzione artistica per essere ridotta ad una semplice “tendenza”: l’orizzonte contemporaneo, concettuale come visivo, sembra dominato dalla polverizzazione, dalla dispersione e dal concatenamento. Cespugli, nuvole, arborescenze, costellazioni, ragnatele, arcipelaghi, in ognuna di queste forme il pixel non è mai troppo lontano, a ricordarci la struttura scomponibile dell’universo, uguale a quella precaria dei nostri sistemi politici. La priorità dell’estetica contemporanea, la sua problematica centrale è l’organizzazione della

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Carsten Höller e Stefano Mancuso, ‘The Florence Experiment’, 2018


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Maurizio Cattelan, “Stadium”, 1991


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Siamo noi a costruire l’opera! L’Arte Relazionale, forma d’arte che si sviluppa negli anni ‘90, considera l’uomo come un essere creativo inserito nell’universo delle proprie relazioni e del contesto sociale in cui si svolgono. Richiede la partecipazione del pubblico alla costruzione dell’opera fruita o partecipata: ha pertanto caratteristiche politiche e sociali. L’arte relazionale ripensa in modo nuovo le ϐigure dell’artista, dell’opera e del pubblico fruitore, andando alla ricerca dell’origine di una sorta di creatività collettiva che si esprime attraverso pratiche nuove nei modi, nelle tecniche e nelle ϐinalità. L’artista relazionale non produce oggetti estetici, ma crea situazioni capaci di stimolare la creatività dei soggetti coinvolti rendendo momento artistico il dialogo, il confronto e la relazione tra loro. Trascurando la produzione di opere artistiche, si concentra sulle possibilità di intervento sui soggetti coinvolti in un rapporto di reciproche inϐluenze e interrelazioni. L’opera ϐinale è subalterna al processo della sua costruzione. Diventa preminente la motivazione dell’opera, il processo attraverso il quale si compie, in un’area comune, ove il conϐine tra io autoriale e noi sfuma, ove il carattere di relazionalità determina la necessità della presenza del fruitore, stabilendo una, non necessariamente dichiarata ma evidente, collaborazione artista-fruitore. Tema fondamentale della ricerca dell’arte relazionale è il rapporto tra arte e vita, intesa sul piano ϐilosoϐico-esistenziale individuale e sociale. Forme espressive privilegiate sono installazioni, ϐilm, video, progetti collettivi, performance, o qualunque altro strumento capace di far emergere signiϐicati inconsci,

nuove realtà o nuove interpretazioni della realtà, proponendo un percorso di crescita e di presa di coscienza delle dinamiche della vita quotidiana e dell’azione individuale all’interno di un contesto sociale collettivo. Scopo di quest’arte è sostenere modelli di esistenza aggreganti e creare nuovi luoghi di socialità. Rispetto all’opera d’arte tradizionale che è osservabile in qualsiasi momento da un pubblico generale e universale, l’opera d’arte relazionale è fruibile nel momento preciso in cui si realizza e da un pubblico raccolto, magari casualmente, per l’occasione. Come già detto, l’arte relazionale produce incontri intersoggettivi attraverso cui il signiϐicato viene elaborato collettivamente, situazioni che interagiscono con il partecipante, piuttosto che essere “viste” da uno “spettatore”. L’ipertroϐia tecnologica ha scatenato una reazione da parte degli artisti dell’arte relazionale/ partecipata, per loro la tecnologia ha messo in ombra la relazione. Questi artisti non vogliono tornare nel passato, non hanno nostalgia, si trovano in questo tempo, sono nel ϐlusso della società liquida. Accettano questa componente dichiarando che più che l’opera è importante vedere le relazioni che si creano. Pongono una domanda, cercano di mettere al centro le relazioni sociali, il linguaggio di queste e il dispositivo che fa accadere qualcosa alle persone: se non sei “attrezzato” non riesci a cogliere. A partire dagli anni ‘90 la presenza dello spettacolo, del glamour e della tecnologia ha creato un muro tra l’uno e l’altro. Anche la produzione artistica ha preso la dimensione della concretezza, sino alla perdita del contatto con il reale e la relazione privata, ma anche pubblica/collettiva, è entrata in crisi. Tutto è basato sul


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modello americano del “centro commerciale”: non è più un centro nel quale l’energia si coagula in un ϐlusso di relazioni, ma luogo di attraversamento più che di incontro. Ci troviamo in un decennio in cui è più importante il consumismo della produzione, vi è una smaterializzazione e il prodotto diventa sfuggente, si fa liquido. Questi artisti pongono al centro energie, la relazione con il pubblico, con chi fruisce, siamo noi che contribuiamo a far resistere il lavoro e gli artisti ci chiedono di osservare il non ϐinito. Il pubblico deve attivare anche l’energia mentale in una sorta di calore che scalda e rende viva la comunicazione, mentre questi anni tendono a raggelare tutto.

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Sul ϐinire degli anni ‘90 ci si porrà un problema che diventerà lo spartiacque negli anni 2000: l’interpretazione della realtà, un dispositivo spaziale-relazionale dove il pubblico assiste, guarda, legge ed è di fronte al tentativo di comprensione dell’installazione e dell’accaduto. L’arte relazionale e post-moderna comincia già negli anni ‘80 attraverso numerosi temi, come la caduta delle grandi ideologie emancipatorie, che hanno percorso tutto il Novecento, la caduta dell’eredità del pensiero forte: illuminismo, psicanalisi (questione dell’io), marxismo (pensiero collettivo del consumismo e capitalismo). Nella società avviene una crisi interna, una sorta di implosione; crollano tutte le costruzioni createsi, avviene uno scongelamento. Lo sguardo post-moderno è ciclico, l’arte non è più la punta del diamante di un movimento ma è un ritorno su se stessi, a volte perdendosi e trasformandosi. L’arte relazionale mette in crisi l’autocentratura dell’artista e dell’opera come oggetto da contemplare, andando ad affrontare lo spazio pubblico e l’appropriazione di altri linguaggi, quindi immagini e mondi già esistenti. Passato e presente convivono, è una sorta di “melting pot”. L’arte diviene così luogo di incontro, dialogo e confronto in cui l’artista gestisce con metodologie proprie il compiersi della ϐinalità dell’opera. Non è difϐicile individuare gli avi di questo tipo di arte in correnti quale ad esempio Fluxus, il GRAV o il Gruppo T o in linguaggi espressivi come la Body Art, l’Happening, la Performance ed in genere in tutti i movimenti concettuali dagli anni ‘60 in poi, come conferma Angela Vettese nel suo “Fuga dal quadro”, nei quali lo spettatore viene chiamato alla collaborazione, divenendo esso stesso parte dell’opera attraverso la sua partecipazione attiva. Quando ad esempio Jens Haaning diffonde tramite un altoparlante delle barzellette in lingua turca in una piazza di Copenhagen (“Turkish Jokes”, 1994), si produce immediatamente una micro-comunità, quella degli immigrati turchi in terra danese, uniti da una risata collettiva, ϐinalmente liberi dagli obblighi convenzionali dell’ospitalità. Non c’è uno stile omogeneo per questa nuova generazione, né un’iconograϐia dominante o una

tematica precisa. In “Untitled (Blue mirror)”, 1990, e in “Untitled (Public Opinion)”, 1991, l’artista Félix González-Torres dispone per terra nel primo caso una pila di fogli, nel secondo delle barrette di liquirizia nera avvolte nel cellophane e invita il visitatore a servirsene, contribuendo così alla scomparsa dell’opera stessa. Per la serie di “Camere” allestite all’inizio della sua carriera (“Chambres atomiques”, 1994, “Une chambre en ville”, 1996) o in “Hotel Color” (1996), Dominique Gonzalez-Fœrster parla di un montaggio di situazioni, di emozioni, di inϐluenze, di percezioni, di tutto ciò che costituisce la sua cultura interiore. Di fronte all’aumento di spazi commerciali e di luoghi del divertimento precostituiti che hanno reso l’incontro sociale un momento standardizzato, l’Arte Relazionale cerca oggi di creare uno spazio protetto dalla omogeneizzazione dei comportamenti e al tempo stesso mira a preservare la nostra esistenza da una meccanizzazione sempre più invadente che riduce il contatto tra individui a voci sintetiche, a sportelli automatici o a incontri virtuali in rete. Di fronte ai media elettronici, ai parchi tematici, agli spazi conviviali, alla proliferazione dei formati compatibili della partecipazione sociale, ci troviamo poveri e indifesi, come un topo da laboratorio. Il soggetto ideale della società delle comparse è così ridotto alla condizione di consumatore di spazio e tempo, in cui tutto è destinato a sparire. Oggi la comunicazione inabissa i contatti umani in spazi di controllo che tagliano il legame sociale in prodotti distinti. Da parte sua, l’attività artistica si sforza di stabilire modeste connessioni, di aprire qualche passaggio ostruito, di mettere in contatto livelli di realtà tenuti separati gli uni dagli altri. Le famose “autostrade della comunicazione”, minacciano di imporsi come gli unici tragitti possibili da un punto all’altro del mondo umano. La “separazione suprema”, quella che condiziona i canali relazionali, costituisce l’ultimo stadio della mutazione verso la “società dello spettacolo” descritta da Guy Debord. Si tratta di una società nella quale le relazioni umane non sono più “vissute direttamente”, ma cominciano ad essere confuse a causa della loro rappresentazione “spettacolare”. È qui che troviamo la problematica più attuale dell’arte di oggi: è possibile generare ancora rapporti con il mondo, in un campo pratico – la storia dell’arte – tradizionalmente destinato alla loro “rappresentazione”? Contrariamente a quello che pensava Debord, il quale vedeva il mondo dell’arte come un serbatoio di esempi di ciò che si doveva “realizzare” nella vita quotidiana, la pratica artistica sembra oggi un ricco terreno di sperimentazioni sociali, una riserva, in parte preservato dall’uniformità dei modelli di comportamento. Invece di sfociare nell’auspicata emancipazione, il progresso permise lo sfruttamento del sud del pianeta, la sostituzione dell’uomo con le macchine, si sostitui-


transitorio”. La possibilità di un’arte relazionale (un’arte che assuma come orizzonte teorico la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale, piuttosto che l’affermazione di uno spazio simbolico autonomo e privato) testimonia di un rivolgimento radicale degli obiettivi estetici, culturali e politici messi in gioco dall’arte moderna. Volendo abbozzare una sociologia, quest’evoluzione proviene essenzialmente dalla nascita di una cultura urbana mondiale, e dall’estensione di tale modello cittadino alla quasi totalità dei fenomeni culturali. L’urbanizzazione generalizzata, che prende slancio alla ϐine della Seconda Guerra Mondiale, ha permesso una straordinaria crescita degli scambi sociali, così come un’accresciuta modalità degli individui (attraverso lo sviluppo delle reti e delle strade, delle telecomunicazioni e la progressiva rottura dell’isolamento dei siti isolati, che va di pari passo con quello delle mentalità). In ragione dell’angustia degli spazi abitabili in quest’universo urbano, parallelamente si assiste a una riduzione di scala dei mobili e degli oggetti, che si orientano verso una maggior maneggevolezza: se per lungo tempo l’opera d’arte ha potuto ϐigurare come un lusso signorile in questo contesto cittadino (le dimensioni dell’opera, come quelle dell’appartamento, servivano a distinguere il loro proprietario dalla persona qualunque), l’evoluzione della funzione dell’opera e della sua presentazione

Philippe Parreno, “A Time Coloured Space”, 2017

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rono così forme di melanconia. L’arte di oggi prosegue la battaglia proponendo modelli percettivi, sperimentali, critici e partecipativi. L’arte attuale non propone opere che hanno come ϐinalità quella di formare realtà immaginarie o utopiche, ma di costruire modi d’esistenza o modelli d’azione all’interno del reale esistente, quale che sia la scala scelta dall’artista. Deleuze diceva che “l’erba cresce dal mezzo”: l’artista abita le circostanze che il presente gli offre, al ϐine di trasformare il contesto della sua vita in un universo durevole. L’opera si presenta ormai come una durata da sperimentare, come un’apertura verso una discussione illimitata. L’arte contemporanea si presenta come “non-disponibile” rispetto all’arte del passato, dandosi a vedere in un tempo determinato. L’opera d’arte non si può dunque più consumare nel quadro di una temporalità “monumentale” e aperta a un pubblico universale, ma si svolge nel tempo reale per un’audience convocata dall’artista. L’arte relazionale non è il “revival” di alcun movimento, non è il ritorno ad alcuno stile; nasce dall’osservazione del presente e da una riϐlessione sul destino dell’attività artistica. L’arte non cerca più di ϐigurare utopie, ma di costruire spazi concreti. La sϐida della modernità è quella di “trarre l’eterno dal

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testimonia la crescente urbanizzazione dell’esperienza artistica. Ciò che crolla di fronte ai nostri occhi non è altro che questa concezione falsamente aristocratica della disposizione delle opere d’arte, legata alla sensazione dell’acquisizione di un territorio. In altri termini, non si può più considerare l’opera contemporanea come uno spazio da percorrere. La città ha permesso e generalizzato l’esperienza della prossimità: è il simbolo tangibile e il quadro storico dello stato della società, quello “stato d’incontro imposto agli uomini”, secondo l’espressione di Louis Althusser, all’opposto della “giungla densa e senza storie” che era lo stato della natura secondo Jean-Jacques Rousseau, una giungla che impediva ogni incontro durevole. L’arte è sempre stata relazionale a diversi gradi, cioè fattore di partecipazione sociale e fondatrice di dialogo. Si rivela particolarmente propizia all’espressione di questa civiltà delle prossimità, poiché rinserra lo spazio delle relazioni, contrariamente alla televisione o alla letteratura, che rinviano al proprio spazio di consumo privato; contrariamente, ancora, al teatro e al cinema, che raggruppano piccole collettività di fronte a immagini univoche: in effetti non si commenta in diretta ciò che si vede (il tempo della discussione è rinviato al dopo-spettacolo). All’inverso, durante una mostra, anche se si tratta di forme inerti, si stabilisce la possibilità d’una discussione immediata, nei due sensi del termine: percepisco, commento, mi sposto in un unico e medesimo spazio-tempo. L’arte è il luogo di produzione di una partecipazione sociale speciϐica; resta da vedere qual è lo statuto di questo spazio nell’insieme degli “stati d’incontro” proposti dalla Città. È importante riconsiderare il ruolo delle opere nel sistema globale dell’economia, simbolica e materiale, che regge la società contemporanea: per noi, al di là del suo carattere commerciale e del suo valore semantico, l’opera d’arte rappresenta un interstizio sociale. Il termine “interstizio” fu utilizzato da Karl Marx per qualiϐicare quelle comunità di scambio che sfuggono al quadro dell’economia capitalista, poiché sottratte alla legge del proϐitto: baratti, vendite in perdita, produzioni autarchiche. L’interstizio è uno spazio di relazioni umane che, pur inserendosi più o meno armoniosamente e apertamente nel sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio rispetto a quelle in vigore nel sistema stesso. Questa è precisamente la natura dell’esposizione d’arte contemporanea nel campo del commercio delle rappresentazioni: creare spazi liberi e durate il cui ritmo si oppone a quelle che ordinano la vita quotidiana; favorisce un commercio interpersonale differente dalle “zone di comunicazione” che ci sono imposte. Il contesto sociale attuale limita le possibilità di relazioni interpersonali quanto più crea spazi a ciò deputati. La meccanizzazione generale delle funzioni sociali riduce progressivamente lo spazio relazionale e l’arte contemporanea sviluppa apertamente un progetto politico quando si sforza d’investire la sfera relazionale, problematizzandola. Quando Gabriel Orozco mette un’arancia sui banchi di un mercato

Il contributo di Joseph Beuys Probabilmente l’unico performer che è riuscito a generare un rapporto empatico con il pubblico è stato il tedesco Joseph Beuys, il cui lavoro peraltro sfugge a qualsiasi catalogazione precisa: la sua pratica non a caso è stata assorbita anche da Fluxus e dal settore degli happening inteso in senso lato e decisamente personale. Meno crudo nelle immagini generate rispetto agli austriaci, ma mosso da una simile volontà di sottolineare l’aspetto rituale e addirittura sciamanico delle azioni artistiche, ha comunque rappresentato il massimo punto di riferimento per l’ambito performativo in area tedesca e probabilmente europea. L’artista ha trasformato la sua vita, la sua arte e la sua stessa maschera in un messaggio salviϔico ricco di spunti cristologici. Salvato da una tribù di tartari dopo un incidente aereo, mentre prestava servizio militare in guerra, Beuys elevò i mezzi con cui venne guarito dal principio di congelamento a elementi simbolici universali del curare, non solo la persona ma anche l’umanità, la civiltà, la natura. Il feltro della sua coperta e il grasso con cui era stato protetto ricompaiono in decine di sue azioni. Le sue azioni più note ebbero una preparazione quasi teatrale: in “Come spiegare la pittura a una lepre morta” (1965, Galleria Schmela, Düsseldorf), l’artista, con il volto ricoperto d’oro, faceva toccare all’animale con la zampa quei quadri che, diceva, avrebbe potuto capire con il tatto meglio degli uomini attraverso la vista, spesso distorta da preconcetti; in “I Like America and America Likes Me” (1974, Galleria René Block, New York), Beuys, quasi fosse un novello San Francesco, visse per cinque giorni con un coyote, cercando di comunicare con esso assumendolo come simbolo sia dell’America selvaggia, sia del suo sogno capitalista. In buona parte della produzione matura, l’insistenza sul sé, sul soggetto-poeta nei termini di mediatore tra realtà e assoluto, tende a lasciare spazio ad azioni che coinvolgano il pubblico in modo sempre più accorato e soprattutto corale, come nella poderosa azione senza ϔine denominata “7000 Querce” (1982, Documenta 7, Kassel). brasiliano deserto (“Crazy Tourist”, 1991) o installa un’amaca nel giardino del Museo d’arte moderna di New York (“Hamoc en el MoMA”, 1993), opera al cuore dell’“infra-sottigliezza sociale”, di quel minuscolo spazio di gesti quotidiani determinato da quella sovrastruttura costituita dai grandi scambi. La mostra è il luogo privilegiato in cui si instaurano tali collettività istantanee, rette da principi diversi: secondo il grado di partecipazione dello spettatore richiesto dall’artista, la natura delle opere, i modelli di partecipazione sociale proposti o rappresentati, un’esposizione genererà un particolare “ambito di scambi”. Quest’ambito di scambi va giudicato con criteri estetici, cioè analizzando la coerenza della sua forma, poi il valore simbolico del


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“mondo” che propone, dell’immagine delle relazioni umane che riϐlette. All’interno di quest’interstizio sociale l’artista ha il dovere di assumere i modelli simbolici che espone: ogni rappresentazione (ma l’arte contemporanea modellizza piuttosto che rappresentare, s’inserisce nel tessuto sociale piuttosto che ispirarsene) rinvia a valori trasponibili nella società. L’estetica relazionale s’inscrive in una tradizione materialista. Essere “materialista” non signiϐica attenersi alla banalità dei fatti, e non implica nemmeno quella ristrettezza di vedute che consiste nel leggere le opere in termini puramente economici. La tradizione ϐilosoϐica sulla quale si basa quest’estetica relazionale fu egregiamente deϐinita da Louis Althusser, in uno dei suoi ultimi testi, come “materialismo dell’incontro”

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o materialismo aleatorio. Tale materialismo assume come punto di partenza la contingenza del mondo, che non ha origine né senso che gli preesista, né ragione che gli assegnerebbe un ϐine. Così, l’essenza dell’umanità è puramente transindividuale, costituita dai legami che uniscono gli individui tra loro in forme sociali che sono sempre storiche. Non esistono possibili “ϐine della storia” né “ϐine dell’arte”, poiché la partita si riavvia in permanenza, in funzione del contesto, cioè in funzione dei giocatori e del sistema che essi costruiscono o criticano. Osservando le pratiche artistiche contemporanee, più che di “forme” si dovrebbe parlare di “formazioni”: all’opposto di un oggetto chiuso su se stesso per l’intervento di uno stile e di una ϐirma, l’arte attuale mostra che non v’è forma se non nell’incontro.


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L’essenza della pratica artistica risiede così nell’invenzione di relazioni fra soggetti; ogni opera d’arte sarebbe la proposta di abitare un mondo in comune, e il lavoro di ciascun artista una trama di rapporti col mondo che genererebbe altri rapporti, e così via, all’inϐinito. Jean-Luc Godard disse che “bisogna essere in due per fare un’immagine”, e Duchamp sosteneva che “sono gli spettatori a fare i quadri”; ipotizzando quindi che il dialogo è alla base del processo di costruzione di un’immagine. Ogni opera d’arte può essere così deϐinita come oggetto relazionale.

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Jeppe Hein, “Mirror Labyrinth”, 2015


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Premesse storiche Nella pioggia di nuove attitudini tecniche che ha caratterizzato il XX secolo, uno degli aspetti di maggiore impatto è stato ciò che, con termine generico, deϐiniremo “pratiche performative”. In realtà, si tratta di una galassia di procedimenti la cui base è generalmente il coinvolgimento del corpo dell’autore, dello spettatore o di entrambe le parti: un effetto di deϐlagrazione del quadro nello spazio e nel tempo, caratteristica di tutto il Novecento. La si potrebbe fare già risalire a “Il Grande Vetro” di Duchamp e ai suoi ready made ma, ancor più indietro, a “Les Demoiselles d’Avignon” di Picasso che, trasformando chi le guarda in un cliente, inglobano virtualmente lo spettatore. Dalla medesima linea portante hanno preso corpo lo sviluppo dell’arte ambientale e quello dell’installazione, nonché quell’attenzione al processo, all’arte vista nel suo farsi più che al risultato ϐinito, che è stata una delle sue costanti soprattutto nel secondo dopoguerra: in questo senso possono essere considerati afferenti a una pratica performativa anche tutti quegli interventi sulla natura, dagli impacchettamenti di Christo alle passeggiate solitarie di Amish Fulton. Un “esserci” che crea una relazione diretta tra artista e spettatore, dal momento che si ritiene questo aspetto il lato innovativo delle nuove pratiche. La fuga dalla forma quadro era avvenuta negli Stati Uniti appena dopo che il dripping di Pollock e tutta l’action painting ebbero mostrato l’importanza del processo esecutivo dell’opera; nacque però anche in opposizione a questa stessa pittura, concepita per condurre a un prodotto ϐinale da esporsi all’interno di “white box”, gallerie asettiche in cui la presenza umana era quasi un disturbo. Già nel 1952 Robert Rauschen-

berg aveva partecipato, con i suoi monocromi bianchi che fungevano da schermo per la luce, a un evento collettivo che può essere considerato il primo happening ante litteram, organizzato da John Cage al Black Mountain College in North Carolina: l’azione nacque come una composizione musicale, cioè all’interno di un lasso di tempo preciso che fungeva da cornice. In questo tempo stabilito ciascuno degli intervenuti faceva la propria parte, suonando il piano, danzando, recitando poesie, offrendo bevande. In un contesto diverso ma a quello connesso per ϐiliazioni culturali e amicizie, la scuola newyorkese di Hans Hofmann, si formò colui che per primo avrebbe dato una teoria a ciò che egli stesso deϐinì “happening”, Allan Kaprow. Il termine è connesso alle idee musicali di John Cage, in quanto implica l’accettazione di quanto accade (to happen) all’interno di un tempo e un luogo preϐissati. Kaprow teorizzò e mise in pratica eventi in cui una parte era stata decisa dall’autore, lasciando libero il pubblico di dare forma compiuta all’operazione. La prima sua realizzazione pratica rilevante furono i “18 happenings in six parts”, presentati alla Reuben Gallery di New York nel 1959. Lo spazio venne diviso in tre sale usando fogli di plastica traslucida, su cui erano state dipinte parole e incollati gli oggetti più disparati tra cui grappoli di frutta di plastica. I muri erano animati da proiezioni di ϐilm e diapositive; la colonna sonora erano dischi, strumenti giocattolo e poesie. Gli intervenuti erano invitati a svolgere le attività più diverse, a seguire istruzioni su cosa fare, quando spostarsi, quando applaudire: fu in sostanza la prima opera con il pubblico, da semplice spettatore, diventa anche autore, e in cui l’aspetto estetico dell’opera


matiche meno direttamente esistenziali e riguardanti il ruolo dell’individuo nell’epoca della massa; in questo quadro incontriamo pratiche tese a mostrare il lato patologico delle relazioni interpersonali quali il sadismo, il masochismo, l’indifferenza e il voyerismo. Dal ceppo delle serate futuriste e dadaiste nasce invece l’assunzione in quanto opera di manifestazioni di gruppo rivolte – con sfumature più o meno rilevanti sul piano politico – a stupire i borghesi e a creare un processo in cui il singolo autore stimola la partecipazione collettiva e consente che la propria opera abbia margini indeϐiniti, su cui appunto è il pubblico a decidere. Nel codice genetico del XX secolo sta una nuova deϐinizione dell’individuo come soggetto principale del vivere comune, ben chiara nell’evoluzione politica che ha condotto alla democrazia rappresentativa e al sistema

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cedeva il passo all’importanza dell’interazione umana. Il nuovo corso nasce in un clima di entusiasmo ed è mosso anche dal desiderio di valorizzare la vita così com’è, ogni giorno. I tempi degli irascibili, la generazione scontenta dell’immediato dopoguerra, cedette il posto almeno per qualche anno a un nuovo spirito vitale. Questa via si contamina con un’altra, la manipolazione del proprio corpo che vediamo negli autoritratti fotograϐici en travesti di autori come Marcel Duchamp, Claude Cahun, Salvador Dalì. L’esposizione di sé segue intenti diversi, ora tesi a sottolineare il narcisismo dell’autore, tematizzato come motore dell’arte almeno nella sua accezione occidentale, ora diretti a rideϐinire i conϐini dell’identità personale e il suo possibile disperdersi; talvolta, ancora, rivolti a proble-

Fluxus e dintorni

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Fluido per deϔinizione e avvolto in un polverone storiograϔico, questo fenomeno è dubbio persino quanto all’atto di nascita: qualcuno lo pone nel 1962 anno del festival musicale di Wiesbaden, altri lo anticipano di un anno e lo spostano a New York, dove il gruppo era già composto anche da Yoko Ono, Alison Knowles, Ay-O, Bob Watts. L’inϔluenza di Cage si estese anche a coloro che frequentarono la New School of Social Research di New York, dove un gruppo di giovani seguì il corso di musica elettronica tenuto da Richard Maxϐield: tra gli allievi Georges Maciunas, George Brecht, La Monte Young, Al Hansen, Dick Higgins, Jackson Mac Low, ovvero il nucleo americano di Fluxus. Molti ricordano tuttavia come la componente europea, che comprendeva Ben Vautier, Ben Patterson, Daniel Spoerri, Wolf Vostell, gli italiani Walter Marchetti, Giuseppe Chiari e Gianni Emilio Simonetti, sia stata in fondo la più attiva sebbene non sul piano teorico, quasi tutto afϔidato a Maciunas e Brecht. Qualunque sia stata e dovunque sia nata, ciò che chiamiamo Fluxus ha inventato gli events o concept events – il termine è di George Brecht – che assumevano dal linguaggio musicale l’idea di uno spartito minimo di base. Un’altra nozione importante nata nell’ambito di Fluxus è quella di Intermedia: nulla a che fare con il mondo dei computer, considerando che siamo nei primi anni ‘60. Il punto era, ed è rimasto a lungo, quello di non considerare cogenti le barriere tra musica, teatro, danza, pittura e quant’altro si manifesti come azione creativa. Secondo la nozione di Intermedia formulata da Eric Anderson, “l’opera è aperta e sottoposta a un cambiamento continuo, perché include lo spettatore. Non si può fare a meno di partecipare a tale opera, anche solo attraverso la semplice osservazione”. Il loro ϔiglio diretto fu l’happening. Questa espressione, le cui coordinate sono state date sia in pratica sia in teoria da Allan Kaprow, consiste nell’accogliere l’accadere, con tutte le componenti temporali in esso im-

plicite. L’artista fornisce la situazione, gli eventi fanno il resto, come quando, nel 1961, egli sistemò nel cortile di un’ex chiesa di New York centinaia di copertoni ammassati. Il pubblico avrebbe dovuto camminarci sopra, muoverli, farne ciò che credeva. L’opera consisteva nella partecipazione di questa scultura ambientale dai toni fortemente urbani, nonché nella possibilità lasciata ai visitatori di variarne la forma e di sentire il proprio corpo mentre vi si arrampicava. Una parte dell’operazione era determinata, l’altra era aperta alle eventualità. In un articolo apparso su “Art News” nel 1958 Kaprow aveva raccontato, guarda caso, l’esperienza di essersi trovato davanti alle tele di Pollock e di averle trovate così esaurienti da riuscire ad andare oltre la pittura per diventare esse stesse degli ambienti e dei suggerimenti per opere in cui l’azione predomina sul risultato estetico. Proprio John Cage rappresentò uno snodo fondamentale per l’affermarsi dell’opera in progress. Nel 1952, presso il Black Mountain College, questi era riuscito a fondere in una stessa azione musicale tante discipline: un quadro di Robert Rauschenberg, un balletto di Merce Cunningham, un poema recitato da Richards e Olson e un pezzo suonato al piano da David Tudor. Questa famosa prima azione collettiva fu, per eccellenza, l’happening ante litteram, anche se non prevedeva il coinvolgimento del pubblico. Poco dopo avere conosciuto personalmente Cage, nel 1957-58, Kaprow iniziò a creare lavori ambientali che includevano la partecipazione del pubblico; l’integrazione di spazio, materiali, tempo e persone portò Kaprow in contatto con l’ambito Fluxus. Da quel tempo, l’-ing progressivo è diventato dunque un modo di parlare del transitorio come elemento fondante, del ϔluttuare di situazioni e valori, di un progressivo incidere delle cose che non implica progresso o miglioramento, del nostro modo di concepire il tempo come ciò che ci sfugge, più come un contenitore dentro al quale possiamo ediϔicare cose stabili.


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economico liberista: documenti come la Costituzione americana e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo ne sono state prove e propellenti. Un effetto collaterale di questo nuovo valore attribuito alla persona è il bisogno di ripensarne i rapporti con la corporeità, propria e altrui. Un aspetto da tenere presente, su cui ha riϐlettuto una vasta gamma di sociologi a partire da Marshall McLuhan, è la mutazione di consuetudini che per secoli avevano regolato i rapporti umani, in massima parte conseguente ai cambiamenti in ambito tecnologico: ferrovia, telegrafo, telefono, automobile, collegamenti aerei, ϐino a giungere allo sviluppo di Internet, hanno intensiϐicato e accelerato le relazioni con una ricaduta evidente sulle modalità dei contatti ϐisici. Tutto ciò va connesso alle condizioni che hanno reso possibile l’emancipazione femminile, favorita dalla rivoluzione industriale e destinata a sconvolgere la concezione del matrimonio e dell’economia familiare, ma anche del semplice contatto quotidiano tra maschi e femmine. Negli artisti statunitensi, la relazione tra individui viene letta, a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, in connessione a un fenomeno più pressante in quel paese che altrove: quanto stiano mutando le relazioni tra le persone non solo di classi, ma anche di razze, etnie, continenti diversi. Se immigrazione e contaminazione erano sempre stati aspetti presenti nella cultura del Novecento, solo ora si inizia a porre veramente il

problema di come “integrare” neri, ispanici, italiani, irlandesi, asiatici, all’interno di una compagine che non li isola più ma li agglomera. Nel lavoro di Vito Acconci, le azioni si sono svolte all’insegna del rapporto tra la persona e il pudore, dei limiti invalicabili oltre i quali una relazione tra individui si trasforma in fastidio o insulto. Non a caso, naturale sviluppo del suo primo percorso, Acconci si è spostato negli anni Novanta verso i territori dell’architettura, ovvero là dove la convivenza ha la sua sede naturale. Notoria la sua performance “Seedbed” del 1972 (Galleria Ileana Sonnabend, New York). L’artista aveva fatto costruire una piattaforma di legno sotto cui poteva nascondere il suo corpo e nel frattempo muoversi strisciando, inseguendo così i visitatori che gli camminavano sopra. Ancora, Acconci ha seguito persone per la strada come un fastidioso detective, o cercato di avvicinarsi al pubblico così tanto da superare quella barriera di sicurezza tra gli individui, che varia secondo le culture, ϐino al punto da suscitare una reazione di difesa e aggressività.

Jeppe Hein, “Blue Modiϐied Social Bench”, 2013


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Opera Aperta Coinvolgere il pubblico è stata una maniera di superare la barriera tra opera e osservatore, sovvertendo l’idea del “non toccare” e criticando implicitamente i suoi aspetti sacrali. Per farla scendere dal suo piedistallo è stato usato qualsiasi mezzo, se necessario anche lo scandalo. La sera del 29 novembre 1916 fu presentato al Cabaret Voltaire di Zurigo un poème simultané (ciò che oggi deϐiniremmo un happening o una performance) in cui tre o più voci contemporaneamente cantavano, parlavano, mormoravano, in modo tale che le combinazioni risultanti fossero continuamente diverse e passassero dal registro del tragico a quello del divertente e del bizzarro. Suoni di sirene, tonϐi e altri rumori subitanei pervadevano tutta la situazione. Lo stesso principio resse tutti i maggiori eventi dada di Zurigo ϐino al grandioso ultimo atto, la serata del 9 aprile 1919, con la regia di Tristan Tzara: Hans Richter e Jean Arp dipinsero le scenograϐie per le danze coreografate da Sophie Taeuber con strisce di piantagioni di cocomeri; Viking Eggeling tenne una lezione molto forbita sull’arte astratta e la struttura della percezione; Suzanne Perrotet danzò sulle musiche di Arnold Schönberg ed Erik Satie con una maschera realizzata da Marcel Janco; un coro di venti persone recitò poème simultané di Tristan Tzara con ritmi sfalsati e vennero declamate poesie di Hülsenbeck e Kandinskij. La serata terminò con enorme fragore: a suo modo, era stata realizzata un’opera d’arte totale con pittura, scultura, musica, danza, e nella quale la partecipazione attiva del pubblico, insulti inclusi, fu preordinata come un completamento necessario. L’estetica dada introdusse l’idea che qualsiasi accorpamento di elementi potesse

essere assunto come opera: la “composizione” poteva includere aspetti formali e oggettuali, ma anche fatti, movimenti, tempo, azioni, purché frutto di un progetto. Per questo vennero riconosciute come opere anche azioni che svincolavano dalla stretta appartenenza al campo dell’arte e che entravano in quello della politica o degli eventi più disparati. L’assunzione dell’azione che coinvolge il pubblico in quanto opera, al di là del suo residuo materiale e della sua possibilità di dar luogo a un oggetto che duri, è derivata probabilmente dall’idea di unione arte/vita di matrice romantica e grata al ϐilosofo vitalista quale fu Nietzsche: la sua inϐluenza nelle arti visive fu pervasiva, ha toccato più movimenti e ne giustiϐica alcune rassomiglianze. Ridurre la distanza tra l’opera e chi la vede è sempre stata una componente linguistica forte dell’avanguardia, stretta conseguenza della sua utopia, nel tentativo di fare delle arti degli agenti di trasformazione sociale. Walter Benjamin vide nel cinema, nella fotograϐia, e in generale nella riproducibilità tecnica dell’opera, la capacità di coinvolgere e di educare. Un’origine di questo coinvolgimento sta anche in molte pratiche teatrali che si sono manifestate nel XX secolo, a partire dal teatro di Bertold Brecht, che allo spettatore chiedeva al contempo di essere pienamente preso dall’azione ma anche di sviluppare una freddezza emotiva e una distanza critica. Fattori come questi si fecero ulteriormente avanti negli anni ‘50, da quelle tematiche prese spunto l’attività di gruppi artistici centrata sull’idea di partecipazione, di opera capace di proporsi, eventualmente, come ludica, di abbandono dell’idea di un rapporto tra l’interiorità di due soggetti speciϐici, l’autore e lo spettatore. Fu negli anni ‘60 che


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Ai Weiwei, “Forever bycicles”, 2013

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si manifestò il concetto di Opera Aperta. Nelle mostre internazionali si vedono sempre più stand che offrono vari servizi, da opere che propongono all’osservatore un contratto a modelli di partecipazione sociale più o meno concreti. Quanto allo spazio di riϐlessione aperto dal “coefϐiciente d’arte” di Marcel Duchamp, che tentava di delimitare il campo d’intervento del ricettore nell’opera d’arte, oggi si risolve in una cultura dell’interattività che pone la transitività dell’oggetto culturale come fatto compiuto. In tal senso, questi elementi confermano un’evoluzione che supera l’ambito dell’arte: è nell’insieme dei vettori di comunicazione che la parte dell’interattività cresce di volume. D’altro canto, l’emergere di nuove tecniche, come Internet, la multimedialità, indica un desiderio collettivo di creare nuovi spazi di convivialità, nuove transazioni nei confronti dell’oggetto culturale: alla “società dello spettacolo” succederebbe dunque la società delle comparse, in cui ciascuno troverebbe in canali di comunicazione più o meno incompleti, l’illusione d’una democrazia interattiva. Il mondo dell’arte, come ogni altro campo sociale, è per sua natura relazionale, nella misura in cui presenta un “sistema di posizioni differenziali” che ne permette la lettura. La funzione sovversiva e critica dell’arte contemporanea si realizza ormai nell’invenzione di linee di fuga individuali o collettive, in quelle costruzioni provvisorie e nomadi attraverso le quali l’artista modella e diffonde situazioni disturbanti. Da qui deriva l’attuale infatuazione per gli spazi di convivialità rivisitati, crogioli dove si elaborano modelli di partecipazione sociale eterogenei. La forma della festa ispira Philippe Parreno, la cui personale di Consortium

di Digione (1995) consisteva nell’“occupare due ore di tempo piuttosto che dei metri quadrati di spazio”, organizzando una festa di cui tutte le componenti portavano alla produzione di forme relazionali. Gli artisti che propongono in quanto opere d’arte: momenti di partecipazione sociale e oggetti produttori di partecipazione sociale, talvolta utilizzano un quadro relazionale deϐinito precedentemente, al ϐine di trarne dei principi di produzione. Ad esempio l’esplorazione delle relazioni esistenti fra l’artista e il suo gallerista può determinare delle forme e un progetto. A Nizza, nell’agosto del 1990, Pierre Joseph, Philippe Parreno e Philippe Perrin vanno ad “abitare” la galleria Air de Paris, in senso proprio e ϐigurato, con la mostra “Les ateliers du paradise”, per farne un atelier di produzione, uno “spazio fotogenico” cogestito dall’osservatore, secondo giochi di ruolo ben precisi. Durante il vernissage di “Les ateliers du paradise” tutti indossano una t-shirt personalizzata, le relazioni intessute fra i visitatori si trasformavano in una sceneggiatura istantanea. Molte delle persone intervenute contribuivano così a costruire uno spazio di relazioni. Questo lavoro in tempo reale, dove creazione ed esposizione tendono a confondersi, lo ritroviamo nella mostra “Work? Work in progress?” alla galleria Andrea Rosen (New York, 1992), con Félix González-Torres, Matthew McCaslin e Liz Larner, e poi da “This is the show and the show is many things”, tenutasi a Ghent nell’ottobre del 1994, prima di trovare una forma più teorica con la mostra “Trafϔic” nel 1996. Nei due casi, ogni artista era libero d’intervenire lungo tutto il periodo della mostra per modiϐicare il proprio lavoro, sostituirlo o proporre performance ed


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eventi. A ogni modiϐica, evolvendo il contesto generale, l’esposizione riveste il ruolo di una materia duttile, “informata” dal lavoro dell’artista. Il visitatore ha un posto preponderante, poiché la sua interazione con le opere contribuisce a deϐinire la struttura della mostra. Ogni artista il cui lavoro rientra nell’ambito dell’estetica relazionale possiede un universo di forme, una problematica e un percorso che gli appartengono: nessuno stile, tematica o iconograϐia li accomuna. Ciò che condividono è ben più determinante, ossia è il fatto di operare in seno al medesimo orizzonte pratico e teorico: la sfera dei rapporti interumani. Le loro opere mettono in gioco i modi di scambio sociali, l’interattività con l’osservatore all’interno dell’esperienza estetica che si vede proporre, e i processi di comunicazione, nella loro dimensione concreta di utensili che servono a collegare gli individui e i gruppi

umani fra loro. Tutti operano dunque in seno a ciò che si potrebbe chiamare la sfera relazionale, che sta all’arte di oggi come la produzione di massa stava alla pop art e all’arte minimal. L’opera d’arte degli anni ‘90 trasforma l’osservatore in “vicino”, in interlocutore diretto. È proprio l’attitudine di questa generazione alla comunicazione che permette di rideϐinirla rispetto alle precedenti. Il suo postulato di base – la sfera delle relazioni umane come luogo dell’opera d’arte – non ha esempi nella storia dell’arte, anche se a posteriori appare come evidente lo sfondo d’ogni pratica estetica e come tema modernista per eccellenza. Lo spazio in cui le sue opere si dispiegano è interamente quello dell’interazione, dell’apertura che inaugura ogni dialogo (Georges Bataille avrebbe scritto “lacerazione”). Ciò che esse producono sono spazi-tempo relazionali, esperienze interpersonali che tentano di liberarsi

Michelangelo Pistoletto: praticare lo spazio

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Pistoletto a metà anni ‘60 inizia la sua serie dei “Quadri specchianti”, imponendo una svolta decisiva alla localizzazione concettuale e ϔisica del corpo dell’utente/fruitore davanti all’opera. Le superϔici d’acciaio riϔlettenti di Pistoletto contengono sempre una o più ϔigure, in un primo momento dipinte su carta velina e poi incollate, in seguito serigrafate, che compiono diverse azioni. I “quadri” sono quindi composti dall’immagine ϔissa che l’artista “impone”, e da tutto quanto accade di assolutamente incontrollabile, casuale, provvisorio e precario, nel riϔlesso dentro la superϔicie specchiante. In altre parole l’opera in sé, ϔinita e deϔinita, secondo i canoni ϔin qui applicati a qualsiasi opera d’arte visiva bidimensionale, non esiste più. L’opera si muove, muta, si evolve in continuazione e si contamina necessariamente con l’ambiente in cui viene installata. Il contesto dell’azione, dinamico e mutevole, non varia solo in relazione all’ambiente architettonico, allo spazio ϔisico che riproduce e riϔlette, ma si modiϔica anche grazie a tutti i movimenti umani che attraversano quello stesso ambiente. Così il fruitore entra a far parte a pieno titolo dell’opera, ne diviene concretamente un elemento ϔisico e visibile. E in più, variando il suo punto di vista, spostandosi davanti alla superϔicie, non solo sceglie l’angolazione della visione, ma modiϔica completamente l’opera stessa, apparendo e scomparendo alla visione degli altri e alla sua. Tutto questo elimina almeno tre elementi cardine della codiϔicazione delle opere precedenti a questi lavori: la ϔinitezza temporale dell’opera, che invece continua a mutare incessantemente; l’assoluta “autorità autoriale” dell’artista, che lascia agli stessi utenti la possibilità di creare continuamente con lui lo spazio dell’opera; la relazione tra opera e spazio espositivo, ϔin qui vincolata al limitato concetto di oggetto contenitore. Oltre all’evidente possibilità del fruitore, persino ludica, di giocare a modiϔicare, e

quindi in qualche misura ϔinalmente a desacralizzare, lo spazio deϔinito dell’opera, a questi è anche data la possibilità di esserne parte determinante, di sentirsene pienamente soggetto/oggetto. In una sorta di autorappresentazione etica/estetica l’utente non è più deresponsabilizzato dalla sua richiesta passività, ma è coinvolto ϔino a essere elemento essenziale per l’esistenza stessa dell’opera, dell’immagine artistica. Ma lo sdoganamento visivo dello spettatore riguarda anche molto ϔisicamente, materialmente, il suo corpo e quindi la sua relazione con il tempo e con lo spazio. Quando l’uomo, davanti a un “Quadro specchiante” di Pistoletto, vede se stesso accanto a un’altra ϔigura dipinta in superϔicie, quanto mai reale. Osserva in verità tre cose: se stesso, una rappresentazione illusoria e lo spazio che lo contiene, che è allo stesso tempo lo spazio contenitore dell’opera. In altre parole lo spazio che egli vede davanti a sé è in realtà lo spazio dietro di sé, e lo spazio proiettato è anche lo spazio reale. Il suo futuro, cioè quello che gli sta davanti, riϔlette ottusamente il suo passato, cioè quello che è alle sue spalle. Così il fruitore si trova in una strana sottile linea di presente, di eterno contingente, che gli mostra futuro e passato nello stesso luogo. Uno spazio simultaneo che si autocontamina, che pone la sua visione, la sua soggettiva osservazione come fulcro di tutto. La possibile divisione tra esterno e interno si ϔluidiϔica e si inverte: l’esterno dove il fruitore muove il suo corpo è in realtà l’interno dell’opera. La ϔigura dipinta diviene il simulacro corporeo posto sulla stessa frontiera, sulla stessa linea di conϔine della persona vera, nel reale. L’immagine dipinta rivive continuamente attivata dall’interazione con ciò che le cambia intorno. Si guardi in proposito l’esempio di “Vietnam” (1962-1965) nel quale appaiono alcune ϔigure che portano parte di uno striscione sul quale si intravedono le ultime lettere della parola Vietnam, al-


soggetto e oggetto dell’opera d’arte. Ancora più sarcastico, ironico e trasgressivo è il lavoro di Maurizio Cattelan. L’artista crea sculture e mette in scena azioni davanti alle quali lo spettatore rimane sorpreso, allibito o perplesso. Il debutto espositivo è nel 1991, alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, dove presenta un lunghissimo tavolo da calcetto, con undici giocatori senegalesi e altrettanti scelti tra le riserve del Cesena. Da allora tutti i suoi interventi in campo artistico (e non solo) sono spesso stati all’insegna dell’insubordinazione e della provocazione. Il risultato è che queste opere sfuggono a qualsiasi deϐinizione: né performance, né installazioni, esse vogliono scuotere nel bene e nel male la coscienza dello spettatore. Come lo stesso Tiravanija dice: “non è importante ciò che si vede, ma ciò che avviene tra le persone e nelle persone”. E questo vale anche e soprattutto per l’arte di Cattelan.

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dalle costrizioni dell’ideologia della comunicazione di massa; in qualche modo, producono luoghi in cui si elaborano modelli di partecipazione sociale alternativi, modelli critici, momenti di convivialità costruita. Provocanti sono gli artisti Vanessa Beecroft, con le sue modelle nude, Thomas Hirschhorn che non risparmia gli orrori della guerra, Carsten Höller e Maurizio Cattelan. Höller mira a sovvertire la sensibilità individuale, attraverso l’estraniamento dal reale e la perdita della dimensione naturale, infondendo uno stato di spaesamento ϐisico e psicologico. Le alterazioni che crea sono causate da luminosità intermittenti, da dispositivi che mutano le sensazioni del corpo, da luoghi oscuri e disorientanti, da ambienti che provocano un effetto allucinatorio. Nell’opera si postula evidentemente il coinvolgimento del pubblico, la partecipazione attiva dello spettatore che diventa

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lusiva alle manifestazioni sull’invasione americana di quegli anni. Le ϔigure che sϔilano sono rivolte verso chi guarda e il fruitore, riϔlettendosi dentro l’opera, può confondersi tra i manifestanti, sϔilare con loro, mettersi sotto quello stesso striscione. La sottile allusione al concetto di partecipazione, che proponeva molta cultura di sinistra di quegli anni, è simbolizzata in ϔiligrana ma con una forza signiϔicativa. La sua liberazione del ruolo dello spettatore, come ogni atto estetico vero, ha prima di tutto un valore etico e politico, in quanto esalta e rende tangibile la necessità della complicità allargata per la rappresentazione del mondo. La soggettivazione dello spazio percettivo, l’allargamento del concetto di autorialità, la visione dell’opera come spazio aperto all’interazione libera, fanno di questi lavori di Pistoletto una premessa davvero essenziale all’attivismo urbano. Bisogna forse ricordare a questo punto che il lavoro di partenza di questa fondamentale serie di opere di Pistoletto è segnato da alcune tele, su fondo nero, talmente lucido da essere in parte riϔlettente, che ritraevano al centro l’autoritratto in sagoma dell’artista (“Uomo di schiena” – “Il presente”, 1960-1961). La prima messa in gioco quindi della relazione con lo spazio dell’opera passa proprio dalla sua presa in carico personale, individuale, espressa nell’autoritratto. Le prime forme di rispecchiamento tra fruitore e opera, prevedevano dunque la presenza cosciente dell’artista, coinvolto ϔisicamente in prima persona. Il percorso artistico di Pistoletto in seguito, testimonia incessantemente la sua costante applicazione ad allargare e attualizzare questa sua idea di opera partecipata.


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L’opera va assumendo ciò che Claire Bishop deϐinisce un’“identità instabile”: come chiarisce Nicholas Bourriaud, gli artisti “si muovono volentieri da una disciplina all’altra, da un supporto all’altro, senza introdurre la benché minima gerarchia tra un’azione efϔimera e una scultura, un video, un’installazione o un intervento gestuale”. Questa polifonia nei modi di operare è connaturata al venir meno di convinzioni univoche sulla vita ben più che riguardo all’arte. Può arrivare a comunicare lo stupore di un ragazzino con la faccia di Maurizio Cattelan che riesce a entrare in un museo da un buco del pavimento, cioè da un pertugio imprevisto, credendo di essere un ladro imbranato come quelli del ϐilm “I soliti ignoti” (ma ricordiamoci che il buco nel pavimento occorre farlo davvero, con tanto di permessi e progetti statici). Può parlarci d’amore e di gloria, com’è sempre accaduto. Può dire come la fede sposti le montagne, per citare il titolo della performance di Francis Alÿs, che ha mosso in Perù, nel 2002, centinaia di persone, ciascuna delle quali portò in avanti il pugno di sabbia che aveva in

mano e generò, con le sue testimonianze, una mitologia collettiva (e qui l’artista ha dovuto organizzare l’azione come fosse la scena di un ϐilm, raccogliendo e pagando le comparse, scegliendo il luogo, selezionando le immagini destinate a testimoniare un evento che pochissimi hanno visto). Un’opera può essere costruita mettendo insieme migliaia di persone che contribuiscono, in un lasso di oltre vent’anni, a impacchettare il Reichstag di Berlino, com’è accaduto a Christo, che ha coinvolto politici, manovali, sponsor, aziende di riciclo e così via, con un processo che è stato documentato da un ϐilm che abbraccia un arco di venticinque anni e rende opera ogni singola scelta, compreso il riciclaggio dei materiali. L’opera può farci saltare di paura per una mitragliata che attraversa i timpani mentre camminiamo al buio, come accade per Tania Bruguera alla Documenta X del 2002: la difϐicoltà stava nell’organizzare una messa in scena che fosse davvero in grado di spaventare lo spettatore, creando un buio nel quale non era possibile vedere la persona armata e collocandola al di sopra del pubblico. Nell’epoca del culto


mente umana, insomma, ci consente di dire che l’arte pare non sopportare deϐinizioni a priori; non si può dire “prima” cos’è l’arte e “poi” andarla a cercare per il mondo; l’arte è una categoria di oggetti, suoni comportamenti, progetti e così via, che si deϐinisce soltanto a posteriori. Se sapessimo qual è la ricetta per fare arte così come sappiamo la ricetta per fare un plumcake, sarebbe molto facile per gli artisti trovare la propria strada. L’indicazione più importante l’hanno data gli artisti rivoluzionari del passato, da Giotto a Michelangelo a Manet: la regola sta nel cambiare le regole in relazione ai tempi, la ricetta sta nel cambiare la ricetta quando gli eventi e l’evoluzione del sapere lo rendono necessario. E di conseguenza, questo vale anche per la bellezza.

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del nuovo, come in passato, l’opera è un generatore di senso che richiede una realizzazione adeguata, proprio come un romanzo è tanto più efϐicace quanto più è scritto seguendo un plot precisissimo. Ma un tempo c’erano regole più stabili e meno ansiogene. Hans-Georg Gadamer scrisse che il compito che ci propone l’arte è “imparare ad ascoltare ciò che vuole parlare, e noi dovremmo confessare che l’imparare ad ascoltare vuol dire anzitutto elevarsi al di sopra della livellante sordità e miopia che una civiltà sempre più ricca di stimoli è intenta a diffondere ovunque”. In un quadro specchiante di Pistoletto noi vediamo al contempo ciò che ci sta davanti e ciò che è dietro di noi. L’artista fa proprio questo: guarda il futuro ma sente e vede il passato. L’arte cambia perché parla di noi, siamo noi che mutiamo. L’arte non è legata a un certo modo di parlare, ma al parlare in un modo efϐicace. Un grande artista interpreta il canone a partire da cui lavora ma al tempo stesso lo sovverte. La mancanza di opinioni precise o univoche da parte di antropologi, psicologi e altri studiosi del comportamento e della

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Lygia Pape, “Divisor”, 1968


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Dominique Gonzalez-Fœrster Il Muro del Vuoto Le chambres, gli home-movies e gli ambienti impressionisti di Dominique Gonzalez-Fœrster dividono a volte la critica perché troppo “intimisti” o “d’atmosfera”. L’artista esplora la sfera domestica mettendola in relazione con le problematiche sociali più attuali: il fatto è che lei lavora sulla grana dell’immagine più che sulla composizione. Con l’aiuto di un repertorio d’immagini poco deϐinite e prive del contesto originale, le sue installazioni danno vita ad atmosfere, ambienti, sensazioni artistiche inesprimibili. Davanti a un suo lavoro è lo spettatore che deve combinare le diverse sensazioni, allo stesso modo in cui il suo occhio organizza i puntini di un dipinto di Seurat. Con il cortometraggio “Riyo” (1998), lo spettatore deve immaginare anche i volti dei protagonisti, visto che può solo ascoltare una loro conversazione telefonica e le immagini mostrano una gita in barca sul ϐiume che attraversa la città di Kyoto. Le facciate dei palazzi che fanno da contorno al tutto forniscono il quadro dell’azione. Come sempre nel suo lavoro la sfera dell’intimo viene proiettata letteralmente su oggetti comuni, camere, immagini-souvenir, piante di case. Gonzalez-Fœrster non si accontenta di mostrare l’individuo alle prese con le sue ossessioni, ma cerca di rivelare le strutture più complesse di quel cinema della mente grazie al quale lui o lei danno forma alle proprie ossessioni. L’artista deϐinisce tale pratica automontage, e comincia con l’osservazione dell’evoluzione dei nostri modi di vivere. “La tecnologizzazione delle nostre intimità – scrive l’artista – trasforma il rapporto con i suoni e le immagini” spingendo l’individuo a diventare un montatore, il programmatore di un home cinema, abitante di una

zona di ripresa permanente che altro non è se non la propria esistenza. Ci troviamo di nuovo davanti a una problematica che mette a confronto l’universo del quotidiano e quello della tecnologia, considerata come fonte di reincantamento del quotidiano e modo di produzione a sé stante. Il suo lavoro è un paesaggio nel quale le macchine sono diventate oggetti appropriabili, addomesticabili. Dominique Gonzalez-Fœrster mostra la ϐine della tecnologia come apparato istituzionale, la sua diffusione quotidiana sotto forma di computer-diari, radio-sveglie, penne con macchina fotograϐica inclusa. Lo spazio domestico non è il simbolo di una replica del sé, ma un luogo di confronto tra scenari sociali e desideri privati, tra le immagini ricevute e quelle desiderate, uno spazio dove proiettare il desiderio. Ogni interno domestico funziona sulla base di una narrativa del sé, costituisce una messinscena della vita quotidiana e di una psiche: ricostruire l’appartamento di Rainer Werner Fassbinder (“RWF”, 1993), gli spazi vissuti, ambienti anni ‘70 oppure un parco attraversato al calare del sole. In molti progetti Gonzalez-Fœrster utilizza la psicanalisi come tecnica che permette l’emergere di nuovi scenari: di fronte a una personalità bloccata, l’analista ricostruisce il racconto della sua vita a un livello inconscio, permettendo al paziente di riappropriarsi di immagini, comportamenti e forme che ϐino ad allora gli erano sfuggiti. L’artista chiede quindi allo spettatore di tracciare la mappa della casa dove abitava da bambino, o alla gallerista Esther Schipper di parlargli degli oggetti della sua infanzia. Il luogo principale delle esperienze di Gonzalez-Fœrster è la camera da letto, ridotta a pochi oggetti e colori di carattere affettivo. Lei materializza l’atto della memo-


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Dominique Gonzalez-Fœrster, “Splendid Hotel”, 2014

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ria in termini estetici, non solo a livello emotivo, visto che le sue installazioni rimandano all’arte minimalista. Il suo universo, composto da oggetti affettivi e mappe colorate, si avvicina al cinema sperimentale, agli home movies alla Jonas Mekas. Il suo lavoro colpisce per la coerenza e genera una pellicola di forme domestiche sulle quali si proiettano le immagini, delle strutture in cui inserire souvenir, luoghi e fatti quotidiani. Questa pellicola mentale diventa l’oggetto di un trattamento più elaborato della trama narrativa, ma abbastanza aperto da accogliere il vissuto dello spettatore la cui memoria viene stimolata come in una seduta psicanalitica. Davanti a questo lavoro dovremmo, quindi, praticare uno sguardo ϐluttuante, analogo all’ascolto ϐluttuante grazie al quale l’analista trasforma in materia sensibile il ϐlusso dei ricordi? L’universo di Dominique Gonzalez-Fœrster è caratterizzato da questo aspetto ambiguo, a volte intimo, a volte impersonale, austero e libero, che forma tutte le narrative della vita quotidiana. Dominique Gonzalez-Fœrster nasce nel 1965 a Strasburgo, Francia. All’età di 17 anni ha lavorato come guardia museale a Grenoble mentre studiava all’École du Magasin del Centro Nazionale di Arte Contemporanea di Grenoble. “Ricordo di essermi sentita scioccata dal poco tempo che le persone trascorrevano davanti a ogni opera d’arte. Quindi oggi voglio convincere le persone a impegnarsi con la mia arte, nello stesso modo in cui uno scrittore potrebbe invogliare le persone a leggere un libro”. Mentre i giovani artisti britannici stavano facendo un salto spettacolare all’inizio degli anni ‘90, Gon-

zalez-Fœrster e altri “jeunes artistes français”, tra cui Philippe Parreno e Pierre Huyghe, stavano producendo un’opera meno centrata sull’oggetto per interessarsi alla costruzione di scenari e all’evocazione di atmosfere suggestive, riformulando le dinamiche su cui si basa generalmente un’esposizione. Ispirata al cinema, alla letteratura, all’architettura modernista e alla storia dell’arte, Gonzalez-Fœrster ha iniziato a usare il suono e la luce per costruire ambienti coinvolgenti che evocano un senso squisitamente sottile di atmosfera. La sua ricerca si concentra inoltre sulla trasformazione di spazi pubblici e privati in luoghi di aggregazione sociale, attraverso installazioni site-speciϐic: l’artista osserva come gli spazi modiϐicano i comportamenti, alterano la memoria collettiva e la percezione personale. La sua fama si è estesa negli anni ’90, grazie alla partecipazione ad alcune importanti biennali (Venezia, Berlino, Lione, Tirana, Busan), mostre di rilievo (tra cui Documenta XII e ManifestaII) ed il conseguimento, nel 2002, del Prix Marcel Duchamp. A partire dal 1997 comincia a dedicarsi a video e cinema con una particolare attenzione all’immagine della città, aprendo il suo sguardo dagli interni verso l’esterno e concentrandosi su di una personale idea di “exoturisme” e di modernità tropicale. I ϐilm di Dominique Gonzalez-Fœrster sono giochi di costruzione nei quali intervengono “sensazioni di cinema” e dove lo spettatore personaggio gioca un ruolo centrale, con la sua memoria, la sua esperienza e il suo passato. Fra i ϐilm si segnalano “Riyo”, “Central”, “Plages”, “Atomic park”, “Ile de Beauté” e “Gold”.


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La pratica di Gonzalez-Fœrster è irrefrenabilmente interdisciplinare, prendendo spunti da ϐilm, letteratura, architettura, ϐilosoϐia e teoria critica. Attraverso installazioni immersive che includono ϐilm o che suggeriscono ϐilm, Gonzalez-Fœrster usa il mezzo dell’esperienza come un modo per mettere in discussione le essenze degli oggetti e il signiϐicato del contesto. Gonzalez-Fœrster crea mondi eterogenei che prosperano sulla tensione tra ϐinito e inϐinito, empirico e drammaturgico. “L’arte è più intensa come esperienza che come immagine” secondo Dominique Gonzalez-Fœrster. Il suo lavoro viene normalmente deϐinito come un’interrogazione silenziosa e intima della vita urbana contemporanea. Spesso l’artista utilizza frammenti dei suoi viaggi nel suo lavoro e crea, a partire da questi, qualcosa nuovo. È conosciuta per la sua grande varietà di lavori nell’ambito della videoproiezione, della fotograϐia e delle installazioni spaziali. “Cerco sempre processi sperimentali. Mi piace il fatto che all’inizio non so come fare le cose e poi, lentamente, inizio ad imparare. Spesso le mostre non mi danno più questa possibilità di apprendimento.” “Il mio approccio all’arte è abbastanza radicale. Ha più a che fare con il teatro e la messa in scena che con la creazione di oggetti come dipinti o sculture. A volte penso che il feticismo degli oggetti sia patetico.” L’attività di Dominique Gonzalez-Fœrster negli anni più recenti ha sviluppato (in sintonia con personalità quali Pierre Huyghe o Philippe Parreno) un’inedita capacità di lettura e analisi delle relazioni e delle interazioni fra dimensioni reali e ϐittizie, attraverso i legami che s’intrecciano fra architettura, urbanistica e sedimentazione di “vissuti” personali. Questa triade di artisti amici ha sviluppato un progetto multimediale sulle potenzialità legate alle afϐinità e interferenze tra industria dello spettacolo e ricerca artistica, indagando un territorio nuovo e ambiguo legato alle possibili deϐinizioni di cosa rappresenta un’identità. Il progetto nato da queste riϐlessioni, “No Ghost Just a Shell”, è stato innanzitutto sviluppato lungo l’arco di alcuni anni. Un personaggio di nome Annlee, regolarmente acquistato da una casa di produzione giapponese di animazioni commerciali, è stato offerto a una serie d’altri artisti, cui è stato “commissionato” dagli iniziatori di occuparsene per sviluppare una serie di possibili narrazioni. Ogni progetto realizzato con Annlee è così diventato un “capitolo nella storia d’un segno”, che ha una “vita” in rapporto alle attività dei singoli artisti (Liam Gillick, Rirkrit Tiravanija, Melik Ohanian, Pierre Joseph, Francois Curlet, Richard Phillips, Joe Scanlan e il team di graϐici M/M) e allo stesso tempo all’interno del progetto comune condiviso. Le misure di “prolungamento della vita” , elaborate per il progetto “No Ghost Just a Shell”, per un’esistenza a tempo, virtuale e predeterminata commercialmente, ironizzano su pensieri di carattere quasi umanitario, verrebbe da dire

“di principio”, ma al contempo testano i meccanismi economici coinvolti, permettendo a un semplice prodotto di consumo, grazie alle autonome condizioni di produzione artistica, una serie di possibilità d’esistenza al di fuori delle regole commerciali che l’avevano visto nascere. Dominique Gonzalez-Fœrster allestisce veri e propri ambienti, fatti di oggetti e arredi legati alla memoria di particolari momenti della propria esistenza, o di quella delle persone che coinvolge nella concezione dell’opera, che possono essere vissuti come paradigmatici di una generazione o di un ambiente sociale. Spesso la narrazione che l’artista intraprende, o che innesta prende spunto dal cinema, si pone come reinvenzione del già detto. A lei interessa che il pubblico si trovi faccia a faccia col muro e con il vuoto. Nei suoi lavori è spesso presente la camera d’albergo, è un punto ossessivo, quando non è ancora “riscaldata”, come nelle sue “Chambres” (1993). Esperienze spaesanti, le “camere” rappresentano spazi intimi e dimensioni oniriche, sospese fra narrazioni potenziali e trasformazioni date da una tecnica occulta che tutto tocca e coinvolge. A volte succede a casa propria, quando lasci tutto acceso, luci e tv ma sei presente solo tu: in scena “anoressia dei sentimenti e delle relazioni”. Dominique Gonzalez-Fœrster si ispira al mondo della narrazione fantastica, strumento che usa per immaginare passati, presenti e futuri diversi, ed è attratta soprattutto dal concetto di fuga. Spesso crea mondi simulati e immersivi all’interno di gallerie, musei e spazi pubblici. In un’epoca in cui l’imminente crisi globale legata al clima minaccia la vita sulla Terra, l’artista rivolge l’attenzione su Marte. La raccolta di racconti di Ray Bradbury “Cronache marziane” (1950), in cui illustra la conquista del pianeta da parte degli americani, che vi atterrano nel 1999, la sottomissione dela popolazione indigena la distruggono, hanno ispirato il diorama “Cosmorama” (2018) di Gonzalez-Fœrster. Il progetto, nato da una collaborazione con l’artista Joi Bittle (1975, Stati Uniti), unisce uno sfondo dipinto ed elementi scultorei del paesaggio di Marte, come rocce e sabbia, tutti accuratamente colorati. Il diorama si trova all’interno di una teca di vetro e i visitatori sono invitati a immaginare se stessi in quello scenario. All’Arsenale, della Biennale di Venezia, con “Endodrome”, l’artista apre nuove dimensioni temporali, spaziali e mentali: il progetto sfrutta la realtà virtuale per coinvolgere gli spettatori in incontri simili a stati di trance in cui possono modiϐicare se stessi e ciò che li circonda. Utilizzando la tecnologia per creare sia un’esperienza interna sia una “seduzione”, Endodrome bagna gli spettatori in un ambiente ϐluido e ipnotico. Come descrive l’artista: “A differenza del pensare alla VR come strumento di fuga o di costruzione di un mondo artiϔiciale, è più emozionante per me immaginarlo come una specie di spazio organico e mentale in cui l’astrazione e la coscienza possono essere messe in discussione“.


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Endodrome è la prima opera d’arte in realtà virtuale, il titolo dell’opera d’arte deriva dalla parola greca endon, che signiϐica “interno”, e dromos, che signiϐica “corsa, pista”, e continua l’esplorazione di Gonzalez-Fœrster delle nozioni di spazio, stati alternativi di coscienza e interiorità. Presentato in un ambiente in scena, può essere l’esperienza di un massimo di cinque persone contemporaneamente, con la sua impostazione teatrale che suggerisce l’esperienza di una seduta, che incorpora suono, luce e proiezioni delle visioni che gli spettatori sperimentano attraverso le cufϐie VR. L’esperienza di otto minuti inizia immergendo gli spettatori in un ambiente ipnotico e monocromatico, prima di spostarsi in uno spazio visivo astratto, in cui i campi di colori luminosi si spostano in risposta allo sguardo e al respiro. L’opera si basa sull’esperienza dell’artista di trance cognitiva indotta dal suono con il musicista e autore Corine Sombrun, che ha collaborato con l’artista per creare un paesaggio sonoro di accompagnamento. La sua pratica interdisciplinare che sϐida il genere si Dominique Gonzalez-Fœrster, “Une chambre en ville”, 1996

è estesa anche alla fotograϐia, al design e alle esibizioni dal vivo. Le essenziali, talvolta quasi rarefatte, installazioni ambientali sono fatte di pochi elementi che compongono precisi quadri di riferimenti rivolti a un pubblico che non è mai soltanto spettatore, ma che deve visitarle, viverle e viviϐicarle con la propria immaginazione. Come nel caso di “À rebours”, le linee essenziali dello spazio suggerito, niente più, né meno di due pareti dipinte con diversi colori, unite alla presenza di tappezzerie (alcuni oggetti poco appariscenti, una radio e un monitor acceso) mettono assieme messa in scena che sembra racchiudere il ciclo vitale e giornaliero della nostra esistenza. Gli sviluppi del suo lavoro, a partire da “Une chambre en ville” del 1996, mostrano il suo interesse per la città. Ma non si tratta della città consueta, anzi al contrario, sul modello delle metropoli d’Estremo Oriente (per le quali l’artista nutre una grande fascinazione) la città si fa reimmaginata, come ricostruita, un crocevia di mille storie e umanità. L’interesse sviluppato proprio nei medesimi anni


ci viene detto che siamo nel 2058, che una pioggia battente e irrefrenabile ha fatto ingigantire alcune opere d’arte di altri autori – dal grande Ragno di Louise Bourgeois al Fenicottero di Alexander Calder – che hanno trovato un riparo in quell’asilo e delle quali, qui dentro, si cerca di arrestare il processo di degenerazione. In effetti, ci vengono incontro riproduzioni di quelle opere ingrandite del 25%, diventate per l’occasione quasi animali malati e vagamente antropomorϐi. Accanto a quei bestioni ci accolgono duecento letti a castello senza materassi, sulle cui reti siamo invitati ad adagiarci e a prendere eventualmente in mano un libro di fantascienza catastroϐica: dal “Mondo sommerso” di J.G. Ballard, in cui Londra viene vista come una desolata palude medievale, alla prima storia di incontro/scontro con gli alieni, raccontata da H.G. Wells nella “Guerra dei mondi”. Sul grande schermo a fondo sala scorrono spezzoni della storia del cinema in cui si immagina un futuro pestifero. L’installazione è nel complesso praticabile: lo spettatore può passeggiare, riposare, guardare ϐilm e costruire da sé le parti mancanti della storia in cui era letteralmente entrato. L’artista, nel 2018, ha assunto il ruolo di produttrice del video “Cerveau” di Perez. Semplicità, persino stripping, sfondo nero, gesti esplorativi e ansia, disponibilità a proporre qualcosa radicalmente diverso nel mondo della clip, troppo spesso usato come semplice supporto visivo. La clip è sobria ma estremamente potente: uno scatto ϐisso, una donna inquadrata in ritratto su uno sfondo nero e basta. Tutta l’intensità della clip verrà riprodotta e suonata in questa donna, con i capelli corti di un biondo perossidato, nei suoi occhi, nel suo viso, nella sua espressione, nei suoi gesti. È impegnata in una vera performance video, che troverebbe benissimo il suo posto al Centre Pompidou o in un museo di arte contemporanea. Si muove al suono della musica, con un’aria leggermente illuminata, giocando con le mani e le dita davanti a sé, senza quasi mai toccarsi il viso. E quando lo fa, lascia cadere piccoli glitter dorati sulla pelle. Sembra in qualche modo posseduta o in trance, come una marionetta sconnessa che non controlla necessariamente i suoi movimenti, con qualche piccola occhiata alla telecamera, come un’occhiata allo spettatore. I libri si nascondono spesso nei suoi lavori, e in qualche modo sembrano sempre essere avvolti nell’ombra, mutevoli e onirici, anche quando sono al centro della scena, come fanno nell’opera “Chronotopes & Dioramas” (2009) realizzata per la meravigliosamente suggestiva Hispanic Society of America. Ha arruolato esperti dell’American Museum of Natural History (che è rinomato per i suoi abili diorami) per creare un trio di habitat in cui volumi di quasi 40 autori sostituiscono la fauna tassidermica. Anziché iniziare con qualcosa di materiale, come una pianta, Gonzalez-Fœrster ha iniziato con il concetto di “cronotopo” di Mikhail Bakhtin, che ha descritto come “il mezzo principale

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(seconda metà degli anni ‘90) per il cinema e il video porta l’artista a ϐilmare luoghi lontani che accosta a ϐlussi di pensieri e un’immaginazione proiettata sulle potenzialità quasi utopiche del futuro. Orientata verso la dimensione di una autentica multipercezione, l’artista non si limita più soltanto a lavorare sul “visivo”, ma a cercare di reintegrare tutte le altre dimensioni (suono, tatto, gusto) per arrivare a familiarizzare con un arco allargato di percezioni. “Dominique Gonzalez – Fœrster 1887-2058”, nel titolo della mostra spiccano due date a marcare un arco temporale assai ampio, indicando l’inizio e la ϐine del percorso artistico di Gonzales-Fœrster, o quanto meno delle sue inϐluenze. Il 1887 è infatti l’anno dell’apertura dello Splendid Hotel e della costruzione del Palazzo di Cristallo a Madrid, mentre 2058 è il titolo della sua installazione alla Turbine Hall della Tate Modern di Londra. In mostra ci sono una trentina di opere che ripercorrono la carriera dell’artista: video, installazioni, libri, suoni. La retrospettiva si articola come un labirinto di sale, struttura cara all’artista in quanto luogo privato e intimo, ricco di storia e memoria, ma anche ambiente di spazio democratico dove chiunque entri si sente a proprio agio. La mostra prosegue con installazioni immersive e spazi emergenti, dove l’indagine sul luogo e la sensazione di interno o esterno permette allo spettatore di optare per una lettura personale delle opere oppure per aderire a quella biograϐica dell’artista. Gonzalez-Fœrster considera infatti da sempre l’esposizione come medium espressivo, al punto che talvolta il suo ruolo sfuma in quello del curatore. All’interno di questa timeline, come la deϐinisce la curatrice, l’artista ha modo di spaziare geograϐicamente e temporalmente, nonché di toccare tematiche diverse. In questo quadro eterogeneo e multiforme si respira una preoccupazione nei confronti del futuro, che affonda radici nel presente, con uno sguardo distopico. Il titolo della mostra si riferisce a un lasso di tempo immaginario, che connette 30 “realtà parallele” localizzate idealmente in tempi e luoghi differenti; un ϐilo di Arianna che lega fra loro opere realizzate sia all’interno che all’esterno del Centro Pompidou, e che mette in luce uno dei tratti distintivi dell’artista francese, ovvero la capacità di esprimersi attraverso una grande varietà di mezzi di comunicazione artistica. Le opere hanno spesso la forma di ambienti immersivi formati da un’insieme multiforme di oggetti, diorami, immagini, suoni, performance, narrazioni, riferimenti all’architettura, alla scienza, al cinema, alla musica e alla letteratura. La mostra mette in scena una sorta di ediϐicio immaginario, le cui stanze sono rappresentate dalle visioni personali di Dominique Gonzalez-Fœrster, spesso connotate da una forte impronta autobiograϐica. Attraversando metà della Turbine Hall e penetrando un sipario che sembrava la serranda di un rifugio, ci si trova in una penombra impaurita. Prima di aprire quel sesamo, al di sopra di esso, un testo in cui si narra una storia fantastica, al contempo allarmante e attuale:

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per materializzare il tempo nello spazio” all’interno del romanzo. Entrando, si vede il calligramma, composto da nomi, citazioni e immagini o simboli sparsi, e liberamente diviso in tre sezioni: si evoca acqua e verticalità; un altro, aridità e piattezza; il terzo, piante rampicanti. Gonzalez-Fœrster ha immaginato tre zone: il “Nord Atlantico”, il “Deserto” e i “Tropici”. A parte i libri, ogni diorama contiene un’unica traccia muta della presenza umana: nella scena oceanica sottomarina c’è quello che sembra essere un barile di petrolio; nella vista del deserto sono le rovine di una struttura in cemento simile ad un bunker; e nell’ambiente tropicale si erge una casa di vetro dall’aspetto desolato intravista in un groviglio di vegetazione. Questi diorami si discostano dalla norma in quanto non evocano un “regalo senza tempo”, molti dei libri sono logori o ammufϐiti, con copertine e caratteri tipograϐici obsoleti, mentre ogni diorama evoca un possibile scenario di distruzione che ricorda le narrative di fantascienza a cui gravita Gonzalez-Fœrster.

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Dominique Gonzalez-Fœrster trasforma l’Opera di Vienna in omaggio a Helen Frankenthaler, per l’apertura della stagione 2015/2016. Il progetto “Safety Curtain” è stato avviato dall’organizzazione artistica pubblica nella speranza di rivitalizzare il teatro dell’opera. Montato sulla cortina di sicurezza del teatro ai piedi del palcoscenico, il consistente churn di opere contemporanee ha lo scopo di attivare lo spazio con idee nuove, creando un netto contrasto con l’architettura neorinascimentale circostante costruita nel 1869. “L’obiettivo è quello di trovare luoghi dove collocare l’arte contemporanea e dove le persone non se lo aspettano”, afferma il direttore generale del museo. L’opera di Gonzalez-Fœrster intitolata “Helen & Gordon” (2015) è una ricreazione fotograϐica del famoso ritratto dell’inϐluente espressionista astratto Helen Frankenthaler, realizzato dal fotografo della rivista “Life” Gordon Parks nel 1957.

Posso scegliere uno spazio vuoto qualsiasi e decidere che è un palcoscenico spoglio. Un uomo lo attraversa e un altro osserva: è sufϔiciente a dare inizio a un’azione teatrale... (“Lo spazio vuoto”, Peter Brook)

“Con il vuoto pieni poteri” Parigi 1958, mostra di Yves Klein da Iris Clert. La galleria è vuota, bianca, come prima di ogni inaugurazione o alla ϔine di ogni mostra. Eppure la “mostra” era proprio quello: andava in scena il Vuoto. Klein spiegherà che solo così poteva emanare la propria energia creativa: egli era il centro irradiatore e la presenza delle opere non vi avrebbe aggiunto nulla. La sua intuizione straordinaria dell’essere comunque pittore anche senza fare il pittore, per pura partenogenesi poietica, è forse la massima ambizione umana e si colloca in una zona “ai conϔini della realtà” nella quale vige l’equazione essere=fare, dove l’essere è intrinsecamente libero e capace di produrre arte o energia artistica anche senza che essa si concretizzi in manufatti visibili. Klein non tenta di smascherare l’insensatezza della vita, come avevano fatto gli esistenzialisti ponendo l’accento sul disagio creato da uno iato profondo fra l’uomo e le cose e così stigmatizzando la vacuità semantica del mondo, ma al contrario c’è in lui e nella sua “mostra-in-cui-non-si-mostra-nulla” il senso di una pienezza sottile, totale, inϔinita. La vera mostra del Pieno non sarà quindi quella allestita da Arman, ma proprio la “nostra”. Di qui una serie di conseguenze paradossali: se neghi, in realtà affermi; se fai, in realtà non sei; se parli, in realtà non sai; se togli, in realtà aggiungi; non facendo nulla, non c’è nulla che tu non faccia, e via di seguito. Così se fai il Vuoto, in realtà fai il Pieno. L’artista nizzardo coglie la profondità che emana dal Vuoto e la fa sua, la introietta per sancire che la creazione è un dato intrinseco, non ha bisogno di manifestarsi perché proprio manifestandosi si annulla. Era già l’idea del “monocromo”, dove il colore offrendosi si cela e lascia respiro al Vuoto. In realtà l’intuizione di Klein pone un problema, e una domanda. Che cos’è il Vuoto nell’arte occidentale? Del Vuoto se ne percepisce la presenza nell’arte contemporanea, ma sembra più un insieme di episodi felici che non una trama sottocutanea in grado di fornire le prove per una lettura precisa. Nella prima metà del Novecento la dimensione del Vuoto raccoglie un’interessante adesione nella fascia poetica delle metaϔisiche, sia nell’originale, ossia la produzione di de Chirico, sia nelle varie derivazioni, in Italia e all’estero. Il clima culturale degli anni ‘20, in generale, è incline all’idea di Vuoto, come condizione di riϔlessione e sensibilità che porta più ai lidi dell’astrazione che non a quelli della concretezza. Negli anni ‘60 un contributo fondamentale alla problematica del Vuoto viene da Segal, che si ricollega a Hopper e lo tridimensionalizza. Il Vuoto inteso come quotidiano trova il suo apogeo in Gilbert&George. La loro giornata, assolutamente vuota e banale, il loro atteggiarsi a stoccaϔissi, belle statuine, sagome di cera, la loro inconsistenza operativa speciϔica che toglie ogni residuo di artisticità alla creatività, sono la forma smagliante del trionfo del


ragionare sul senso della vita, e dell’arte che la scandaglia. L’arte parla a tutti noi perché parla con noi e di noi. Nulla vi è di un distacco elitario in essa: l’arte è nella realtà poiché la modiϔica e ne è modiϔicata. Fenomeni come il mercato o la critica, lo scandalo e l’estasi sono propri dell’arte e della vita: sentire il peso dell’arte vuol dire viverlo allo stesso modo di come si conduce una vita. Questa necessaria speciϔicazione è utile per aggiustare il tiro sulla metafora ϐinestra-arte: l’arte è ϔinestra nel mondo, più che sul mondo. Essa si incide nella carne, a tratti viva e pulsante a tratti putrefatta, del reale. Il Vuoto non è lì, è tutto intorno a quella ϔinestra. Ed è un Vuoto angosciante, tenebroso, eminentemente occidentale. È il vuoto della stanza. La ϔinestra è lì a ricordarcelo.

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Vuoto. I due sono consapevoli che per il fatto stesso di essere artisti hanno diritto a esprimere una condizione di digiuno totale rispetto alla produttività abituale: alla maniera di Wilde, anche per loro le opere sono i giorni. Questo porta la temperatura creativa al grado più basso mai registrato in Occidente: nemmeno i ready made di Duchamp o la “Merda d’artista” di Manzoni avevano raggiunto una simile bassezza geniale. Ora la scultura è davvero vivente, per riprendere il tentativo di Manzoni espresso attraverso la ϔirma sulla pelle di persone esistenti; ora la scultura c’è già e non bisogna fare altro che assecondarla, ma afϔinché qualcuno se ne accorga occorre bloccarla in una specie di incantesimo. Il Vuoto è il burattinaio che muove i ϐili della non rappresentazione allestita con grande sobrietà e precisione da Gilbert&George. E poi il Vuoto scompare, ma non del tutto. Se si guarda infatti alla produzione artistica più recente, tentativi in tal senso non mancano, ma ciò che li caratterizza è un desiderio di superare la problematica del Vuoto a vantaggio di quella che potremmo chiamare una fenomenologia dei vuoti. Al di là di queste operazioni interessanti, non c’è tuttavia più la volontà di esprimere la tensione cosmica che agita la ricerca artistica verso lidi non raggiungibili o che al contrario stimola lo spirito a farsi energia pura per condividere il destino che ci caratterizza; sembra invece che siano rimasti, dopo i fatidici anni ‘60, solo pochi spiragli per vedere ancora, e come da molto lontano, il Vuoto. Il mondo si è nel frattempo riempito di oggetti, la tecnologia ha saturato l’esistenza, rendendo più facile e immediato il percorso interpersonale e intercomunicativo, ma abolendo le distanze sino al contatto ha ϔinito per segnare l’estinguersi delle differenze. Il rapporto Pieno-Vuoto, dopo la ϔine della Guerra Fredda, il venire meno agli equilibri contrapposti, la caduta del muro di Berlino appare come un’alternativa troppo netta e paradigmatica. Oggi viviamo nell’epoca dell’Ossimoro e tutto si con-fonde. D’altro canto, e in particolare nel millennio iniziato, si è concretizzato il triste spettacolo che già Adorno e Horkheimer avevano battezzato “mondo amministrato”: nel Tutto-Pieno della società massiϔicata, tecnologizzata e sempre più decerebrata, nell’era dello show continuo, della rappresentazione indecorosa offerta dalla politica, della ϔine dei grandi ideali, del tramonto delle ideologie (l’aggettivo “ideologico” è addirittura usato con signiϔicato negativo) non resta che guardarsi intorno e raccogliere i modesti vuoti che non potremo mai riempire perché fanno parte delle nostre piccole esistenze quotidiane. L’arte è partecipe di questo clima da “saldi”, quello che ϔino agli anni ‘60 poteva essere un tema affascinante, col passare del tempo ha perso ogni richiamo: gli artisti oggi, pur in un orizzonte ricco e inϔinitamente complesso, mirano al sodo, non perdono più tempo a

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Yves Klein,“Le saut dans le vide”, 1960


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Il peso della perdita Nel 1996 lo spirito degli anni ‘90 è ormai dispiegato, si distingue già decisamente dall’epoca precedente, e prelude agli sviluppi futuri. Nello stesso anno Félix González-Torres muore di AIDS, e il decennio perde la sua ϐigura più emblematica, quella che da sola basterebbe a far comprendere un rivolgimento epocale, le nuove necessità in campo culturale, sociale e di costume. González-Torres è stato un personaggio chiave per come ha saputo parlare dell’esistenza attraverso un linguaggio nuovo, o per lo meno mai tentato in arte. E la novità dipende dalla semplicità dei mezzi, dalla loro vicinanza ai luoghi e ai tempi della vita quotidiana. Un mucchio di caramelle, o di Baci Perugina, collocati in un angolo in una quantità pari al peso del corpo del suo compagno, o di se stesso, costituiscono un fatto scultoreo minimo, su cui può intervenire nel modo più diretto e gratiϐicante che esista, mangiando le caramelle o i cioccolatini. In questo semplice atto di socializzazione c’è un phatos quasi religioso (“prendete e mangiate, questo è il mio corpo”), che appare quanto mai appropriato per accompagnare il pensiero della morte, un pensiero che si fa non tragico, ma fonte di atti di affettività verso l’altro. L’affettività attraversa come una corrente psicologica fortissima tutto il lavoro di González-Torres. L’artista è stato un maestro nel far assumere agli oggetti più comuni signiϐicati nuovi e toccanti, come la coppia di orologi da muro che, l’uno accanto all’altro, marciano in perfetto accordo, segnando la stessa ora, gli stessi minuti e secondi. Immagine della perfetta concordia amorosa. Eppure, uno dei due orologi è destinato, presto o tardi, a rallentare, a sfasare la sincronia, e poi a fermarsi, come succede a tutti i meccanismi, e a ogni esistenza.

Attraverso l’affettività, negli anni ‘90 l’arte contemporanea smette di sognare e si rivolge di nuovo alla realtà per come essa viene colta dall’esistenza di ciascuno, la descrive e ne produce una critica. Gli anni ‘90 cominciano a metà del decennio precedente, quando nel mondo occidentale entra in crisi l’estetica postmoderna, il pensiero performativo, che teorizza l’impossibilità per il lavoro culturale di una presa diretta sul mondo poiché questo si era detto scomparso, eclissato dietro la precessione dei simulacri. Tale rivolgimento in arte signiϐica l’allontanamento dai presupposti teorici e dalle scelte linguistiche del cosiddetto neoespressionismo (italiano, tedesco, statunitense, un vero nuovo International Style), che poneva al centro dell’operatore artistico il soggetto creatore e il suo mondo interiore (unico referente,se quello esterno non c’è più...). Dalla metà degli anni ‘80 vengono alla ribalta ricerche ϐino a quel momento considerate minori, o si affacciano protagonisti affatto nuovi, che pongono al centro dell’operare non l’eroismo del soggetto espressivo ma la sua dialettica di lotta con le realtà che lo condizionano. Essendo questi condizionamenti, per prima cosa, di ordine linguistico, non stupisce che gli artisti adottino ogni tipo di mezzo espressivo, dalla fotograϐia all’installazione oggettuale, a scapito della centralità della pittura, protagonista degli anni ‘80. Félix González-Torres (26 novembre 1957 – 9 gennaio 1996) è stato un artista americano di origine cubana ed il suo orientamento sessuale, apertamente gay, è spesso considerato inϐluente nel suo lavoro di artista. González-Torres era noto per le sue installazioni e sculture silenziose e minimali in cui utilizzava


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materiali come corde di lampadine, orologi, pile di carta o confezioni di caramelle dure. Lo straordinario contributo di González-Torres all’arte contemporanea è stato quello di portare la storia e la politica personali alle forme familiari di Minimalismo e Concettualismo. Pile di carta simili a cubi, ϐili di luce, frammenti di testo e le semplici forme di orologi, caramelle di cellophane e nuvole erano intrisi di riferimenti agli eventi attuali, inclusi i diritti degli omosessuali, la violenza armata e la crisi dell’AIDS. Nel 1987 entra a far parte di Group Material, un collettivo fondato nel 1980 a New York composto da artisti come Doug Ashford, Julie Ault, Karen Ramspacher e González-Torres che aderivano ai principi di attivismo culturale ed educazione della comunità, richiamando l’attenzione su questioni sociali come i senzatetto, l’intervento degli Stati Uniti in America Latina, la disuguaglianza di genere e la sessualità. Nel 1989, il Berkeley Art Museum e il Paciϐic Film Archive hanno chiesto a Group Material di partecipare a una mostra presso la MATRIX Gallery di Berkeley, in California, incentrata sull’epidemia di AIDS. Inoltre, nel 1989, Gonzalez-Torres ha eretto un cartellone a Sheridan Square, New York City, per commemorare il 20 °anniversario della Stonewall Rebellion, la rivolta dei membri della comunità LGBTQ contro l’oppressione della polizia considerato un evento fondamentale nel movimento per i diritti dei gay. González-Torres ha usato un sistema di titoli parentetici per opere altrimenti “senza titolo” che puntano lo spettatore verso le associazioni ϐisiche o personali che l’artista aveva con i suoi vari soggetti. Dei diciannove pezzi di caramelle, solo sei, con i loro titoli parentali e pesi ideali, possono essere prontamente interpretati come ritratti. L’idea delle sue installazioni come ritratti astratti sottolinea l’intimità complessiva della sua arte enfatizzando le sue relazioni personali con le persone o i luoghi che hanno ispirato ogni particolare opera. Di questi, due sono i doppi ritratti dell’artista e del suo amante, Ross Laycock: una delle ispirazioni più signiϐicative di González-Torres, tra cui “Untitled (Perfect Lovers)” (1991) e “Untitled (Placebo)” (1991). Con la morte di Ross nel 1991, Gonzalez-Torres, ha creato opere che potrebbero aiutarlo a far fronte alla perdita del suo compagno e spesso comportano episodi che lentamente scompaiono o scadono nel tempo; una metafora del passaggio di Ross a causa di malattie legate all’AIDS. Man mano che una persona mangia le caramelle e la butta via, la pila diminuisce di dimensioni, il che rappresenta il modo in cui la società ha ignorato l’esistenza di questa epidemia, che poi ha portato alla morte di molte persone gay. Molte delle sue installazioni invitano lo spettatore a portare con sé un pezzo di lavoro: una serie di opere consente agli spettatori di prendere caramelle confezionate da una pila nell’angolo di uno spazio espositivo e, così facendo, contribuire alla lenta scomparsa del scultura nel corso della mostra.

“Senza il pubblico queste opere non sono niente ... Chiedo al pubblico di aiutarmi, di assumermi la responsabilità, di entrare a far parte del mio lavoro, di unirmi a loro”. Sebbene la sua carriera sia stata breve, la sua eredità permane, in particolare nell’arte politica e nell’estetica relazionale, in cui il pubblico è una componente necessaria, attivando il lavoro e realizzandone il signiϐicato. Generoso, austero e spesso destinato a essere inϐinitamente riproducibile, la sua opera continua a inϐluenzare il pubblico in modi sottili ma persistenti. González-Torres voleva che il suo lavoro fosse ampiamente divulgato e credeva che non fosse stato pienamente realizzato senza la partecipazione dello spettatore. Sebbene alcune di queste idee fossero emerse nei manifesti di movimenti come Dada, Surrealismo e Happenings degli anni ‘60, l’apertura totale di González-Torres allo spettatore inaugurò una nuova era nel rapporto tra l’artista e il pubblico. Queste opere modellano radicalmente la circolazione democratica di idee e arte, violando i conϐini tra spazi pubblici e privati e estendendo l’esperienza della sua arte oltre la galleria. In un’intervista del 1993 con l’artista Tim Collins, González-Torres ha detto che il femminismo e gli scritti dei ϐilosoϐi Roland Barthes, Bertolt Brecht, Walter Benjamin e Michel Foucault (tra gli altri) sono stati fondamentali per il suo sviluppo. Felix Gonzales Torres, “Untitled (Loverboy)” Felix Gonzales Torres, “Untitled (Blue Mirror), 1990 “Untitled (March 5th)#1”, 1991


La Fondazione Félix González-Torres è stata fondata nel 2002 per onorare e continuare l’eredità dell’artista. Nel 2007, González-Torres divenne il secondo artista americano, dopo Robert Smithson, per essere scelto postumo per rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia. Il corpo di lavoro di Gonzalez-Torres continua a risuonare con una nuova generazione di artisti, cercando di creare esperienze artistiche commoventi e interattive e di produrre opere d’arte sottili che sono entrambe politicamente radicali e che stanno da sole come oggetti estetici. La combinazione di forme minimaliste e storia personale evidente nel lavoro di Alex Da Corte riϐlette anche l’inϐluenza concettuale di González-Torres, così come l’aspetto di partecipazione del pubblico delle pratiche di Tino Seghal e Rikrit Tiravanijas. La sua inϐluenza è anche chiaramente percepita nel lavoro di artisti che

usano prestazioni o forme di astrazione per affrontare urgenti questioni sociali e politiche, tra cui Doris Salcedo e Santiago Sierra. Perdita, amore e sofferenza: González-Torres nella sua breve carriera ha indagato l’emotività umana, mettendo in scena i suoi personali sentimenti, gli affetti e le paure. Condividendo con l’artista stesso questa enorme assenza ed il vuoto lasciato dalla persona amata non più in vita, Félix, trasmette loro tutto questo attraverso opere coinvolgenti ma che emanano anche un profondo desiderio di continuità della vita. Partecipe e responsabile il pubblico accetta. Prendendo un foglio o una caramella dalle risme o dai cumuli, lo spettatore imprime la propria storia sull’oggetto preso cosicché, prendendolo, scartandolo e portandolo via dallo spazio del museo in cui è stato sistemato, urla sofferenza ed entrando in contatto con lo spettatore comunica ad esso una profonda assenza. Inoltre, quel mucchio di caramelle hanno lo stesso peso di Ross e man mano il peso dell’insieme diminuisce e l’opera si consuma scomparendo così come è stato consumato dalla malattia lo stesso Ross. L’amore per Ross, essendo una costante nei suoi lavori, lo ritroviamo anche nel simbolismo della coppia, ovvero il numero due: per Torres la solitudine e l’assenza non è mai data dal numero uno ma dall’assenza del due. L’artista ha mostrato il suo privato rendendolo pubblico. Facendo ciò vi è un tentativo di distaccarsi da un ricordo doloroso o di un luogo ormai divenuto triste e vuoto. Il pubblico mai come in questo caso è stato indispensabile ad un artista per rendere emozionale il proprio lavoro. Félix ha permesso al pubblico un dialogo vivo, aperto, coinvolgente con le sue opere. Ha dato loro la possibilità di diventarne parte e di rimanerne emotivamente. In un’intervista rilasciata a Tim Rollins l’artista disse: «L’amore ti dà una ragione di vita, ma è anche un motivo di panico, si ha sempre paura di perdere quell’amore». È una gran fortuna, in fondo, entrare a far parte del delicato racconto di una storia d’amore. “...volevo fare una mostra che sparisse completamente. Era un lavoro sulla sparizione e l’apprendimento. Volevo anche attaccare il sistema dell’arte e volevo essere generoso. Volevo che il pubblico potesse conservare il mio lavoro. Era davvero eccitante che qualcuno potesse venire alla mostra e potesse andarsene con un mio lavoro. Freud ha detto che mettiamo in scena le nostre paure per diminuirle. In un certo senso questa generosità – il riϐiuto di una forma statica, della scultura monolitica, a vantaggio di una forma fragile, instabile – era un modo per mettere in scena la mia paura di perdere Ross, che scompariva a poco a poco davanti ai miei occhi.” Le “paia” sono un tema ricorrente nella narrativa visiva di Félix Gonzalez-Torres, perché si rendono viceré della sua relazione anche dopo la morte di uno dei suoi componenti.

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“[Senza di loro] non sarei stato in grado di fare alcuni pezzi, di arrivare a determinate posizioni, alcuni dei loro scritti e idee mi hanno dato una certa libertà di vedere, queste idee mi hanno spostato in un luogo di piacere attraverso la conoscenza e comprensione del modo in cui la realtà è costruita, del modo in cui il sé si forma nella cultura, del modo in cui il linguaggio imposta le trappole e delle crepe nella “narrativa principale”, di quelle crepe in cui il potere può essere esercitato”.

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Infatti, ciò a cui Félix dà forma non è la solitudine di chi è rimasto, ma l’assenza di chi se n’è andato. In questo senso, l’assenza del corpo assume particolare importanza nella serie di ventiquattro fotograϐie del letto disfatto che l’artista ha installato per tutta la città di New York nel 1991, in seguito alla scomparsa del compagno Ross. Installando in un luogo pubblico l’intimità di un letto personale su cui si dorme, su cui si fa l’amore e – come nel caso del suo compagno – ci si spegne, Félix mette in discussione il conϐine tra pubblico e privato, ma soprattutto, crea un epitafϐio che non può essere attaccato in quanto gay o legato all’AIDS: tutti possiamo gettare su quel letto le nostre proiezioni personali svincolate dall’idea iniziale dell’artista, così come possiamo vedere una coppia gay, lesbica o etero in ogni “paia”, perché prima del nostro orientamento sessuale siamo questo: una coppia. E a prescindere

dall’artista possiamo facilmente identiϐicarci nei suoi lavori, in quanto persone che amano, hanno amato o hanno perso qualcuno. Félix Gonzalez-Torres ci chiama a prendere parte attiva al suo intimo processo di elaborazione della vita e della morte, e lo fa chiedendoci di distruggere lentamente la sua opera. Un’opera votata alla scomparsa. Consumando l’opera, gli spettatori riproducono la lenta deplezione a cui l’AIDS sottopose il corpo di Ross: come le caramelle che vengono sottratte una ad una, il compagno veniva consumato di giorno in giorno dalla malattia. In chiave simbolica, il gesto di mangiare “un pezzo di Ross” assume un ruolo quasi spirituale o religioso, elevandosi ad ostia profana, e al contempo denuncia sul ruolo centrale che i governi e la popolazione abbiano avuto nella morte di così tante persone, scegliendo di non vedere e di non dare importanza a ciò che stava succedendo attorno a loro.

L’ereditá di Félix González-Torres

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Un cubo di carta di dimensioni ridotte, non abbastanza grande da dare l’illusione della monumentalità, troppo disadorno per dimenticare che non si tratta altro che di una pila di manifesti identici. Sono color blu cielo, inquadrati da un largo margine bianco. Guardandoli di lato, il blu è rafforzato dall’accatastamento della carta. La didascalia: Félix González-Torres, Untitled (Blue Mirror), 1990. Offset print on paper, endless copies. Possiamo portarci via un manifesto. Ma che succede se tutti i visitatori s’impadroniscono dei fogli offerti a un pubblico ideale? Secondo quale processo il lavoro cambia per poi sparire? Non si tratta di una “performance” né di una distribuzione di manifesti, ma di un’opera dotata di una forma deϔinita, di una certa densità; un’opera che non espone il proprio processo di costruzione (o smontaggio), ma la forma della sua presenza in mezzo a un pubblico. Questa problematica dell’offerta conviviale, della disponibilità dell’opera d’arte, per come la mette in scena Félix González-Torres, si rivela oggi piena di signiϔicato: non solo si ritrova al cuore dell’estetica contemporanea, ma porta ben più lontano, all’essenza dei nostri rapporti con le cose. È la ragione per cui l’opera dell’artista cubano, dopo la sua morte avvenuta nel gennaio del 1994, invita a un esame critico che la restituirebbe al contesto attuale, al quale ha ampiamente contribuito. La forza del suo lavoro risiede nell’abilità a strumentalizzare delle forme e nella capacità di sfuggire alle identiϔicazioni comunitarie, per andare al cuore dell’esperienza umana. L’omosessualità rappresenta così per lui non tanto un tema discorsivo, quanto una dimensione emozionale, una forma di vita creatrice di forme d’arte. Félix González-Torres è senza dubbio stato il primo a porre in maniera con-

vincente le basi di un’estetica omo-sensuale, nel senso nso in cui ispirava Michel Foucault per fondare un’etica ica creativa delle relazioni amorose. Nell’artista l’omosessessualità non ϔinisce con un’affermazione comunitaria: ria: al contrario, si fa modello di vita condivisibile da tutti, tti, e col quale ciascuno si può identiϔicare. Inoltre, genenera nella sua opera un campo di forme speciϔico, che si caratterizza principalmente per una dualità senza nza opposizione. La cifra “due” è onnipresente, ma non è mai un’opposizione binaria. Si vedono così due orologi fermi alla stessa ora in “Untitled (Perfect Lover)”, 1991; due cuscini su un letto disfatto che reca ancora l’impronta di un corpo (MoMA, Project 34, 1992); due lampadine nude ϔissate al muro, i cui ϔili s’intrecciano (Untitled (March 5th) #2, 1991); due specchi posti ϔianco a ϔianco (Untitled (March 5th) #1, 1991): l’unità di base dell’estetica di González-Torres è doppia. La solitudine non è mai rafϔigurata dall’“1”, ma dall’assenza del “2”. Per questo motivo la sua opera segna un momento importante nella rappresentazione della coppia, ϔigura classica della storia dell’arte: non si tratta più dell’addizione di due realtà fatalmente eterogenee, che si completano in un sottile gioco di opposizioni e differenze, mosse dall’ambivalenza dei movimenti di attrazione e repulsione. La coppia di González-Torres, al contrario si caratterizza come un’unità doppia e quieta, come un’ellisse (Untitled (Double Portrait), 1991). Nella sua globalità, il lavoro di González-Torres si articola proprio intorno a un progetto autobiograϔico, ma è un’autobiograϔia bicefala, condivisa. La domanda posta da González-Torres, lancinante, potrebbe essere così sintetizzata: “Come posso abitare nella tua realtà?”; oppure: “Come può l’incontro fra due realtà modiϔicarle bi-lateralmen-


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te?”. L’iniezione dell’universo intimista dell’artista nelle strutture dell’arte degli anni ‘60 crea situazioni inedite e piega retroattivamente la nostra lettura di quell’arte verso una riϔlessione meno formalista e più psicologizzante. Questo riciclaggio costituisce anche una scelta estetica: dimostra che le strutture artistiche non si limitano mai a un unico gioco di signiϔicazioni; d’altra parte, la semplicità delle forme utilizzate dall’artista contrasta vigorosamente con il loro contenuto tragico e militante. L’oggetto non è che un “lieto ϔine” del processo d’esposizione, dice Philippe Parreno: non rappresenta la conclusione logica del lavoro, ma un evento. L’arte attuale non ha nulla da invidiare al “monumento” classico, per quanto riguarda la produzione di effetti di lunga durata. L’opera contemporanea è più che mai questa “dimostrazione, per tutti gli uomini a venire, della possibilità di creare signiϐicato abitando i bordi dell’abisso”, secondo i termini di Cornelius Castoriadis: una risoluzione formale che rasenta l’eternità, precisamente perché è puntuale e temporanea. Félix González-Torres ha radicato il suo lavoro a una consapevolezza acuta della durata, della sopravvivenza delle emozioni più impalpabili; attento ai modi di produzione, ha centrato la propria pratica su una teoria dello scambio e della condivisione; militante, ha promosso nuove forme d’impegno artistico; omosessuale, è riuscito a trasmutare il proprio modo di vita in termini di valori etici ed estetici. L’opera di González-Torres riserva dunque un posto centrale alla negoziazione, alla costruzione di una coabitazione. Contiene altresì un’etica dell’osservatore. In questo senso partecipa ad una storia speciϔica, quella delle opere che portano lo spettatore ad essere consapevole del contesto nel quale si trova. Durante una mostra

di González-Torres ho visto gli spettatori accumulare tante caramelle quante ne potevano contenere le loro mani e le loro tasche: eccoli rinviati al loro comportamento sociale, al loro feticismo, alla loro concezione accumulativa del mondo...Mentre altri non osano, o attendono che il loro vicino trafughi una caramella per fare altrettanto. L’arte di oggi tiene conto, nel processo di lavoro, della presenza della micro-comunità che la riceverà. Un’opera crea così, all’interno del suo modo di produzione e poi al momento della sua esposizione, una collettività istantanea di osservatori-partecipanti. Durante una mostra a Le Magasin di Grenoble, González-Torres aveva modiϔicato la caffetteria del museo, ridipingendola di blu, posando mazzi di violette sui tavoli e mettendo a disposizione dei visitatori una documentazione sulle balene. Durante la sua personale alla galleria Jennifer Flay nel 1993 a Parigi, “Untitled (Arena)”, aveva disposto un quadrilatero delimitato da lampadine illuminate; un paio di walkman era a disposizione dei visitatori, afϔinché potessero ballare sotto le ghirlande luminose, in silenzio, in mezzo alla galleria. L’artista incita l’“osservatore” a prender posto in un dispositivo, a farlo vivere, a completare il lavoro e a partecipare all’elaborazione del suo senso. Lo spazio dell’arte minimale si costruiva nella distanza che separa lo sguardo dall’opera; quello che deϔiniscono le opere di González-Torres, con l’aiuto di mezzi formali comparabili, si elabora nell’intersoggettività, nella risposta emozionale, comportamentale e storica data dall’osservatore all’esperienza proposta. L’incontro con l’opera non genera tanto uno spazio quanto una durata.


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L’Arte di narrare

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Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi romanzi in cui l’arte, in particolare quella contemporanea, riveste il ruolo centrale nello sviluppo della narrazione. Molti scrittori, infatti, hanno fatto ricorso alle opere d’arte come espressioni culturali particolarmente idonee a mettere in luce la complessità e la problematicità della società attuale. La commistione tra l’opera e il proprio vissuto, il problema dell’autorialità e dell’identità, l’attenzione ai conϐlitti e alle dinamiche culturali e politiche sollevati da alcune opere d’arte e dalla loro esposizione – assieme alla dipendenza dalle dinamiche del mercato così come dai fenomeni dell’ipertroϐia e del gigantismo diffusi nell’arte degli ultimi anni – incarnano, agli occhi degli scrittori, metafore perfette del nostro mondo. Accanto alle opere d’arte, in questi romanzi troviamo descritti sia artisti, sia il mondo dell’arte. E musei e gallerie che diventano luoghi particolarmente adatti all’ambientazione di storie. All’interno dell’arte degli ultimi decenni è, dunque, molto difϐicile sancire una distinzione chiara e stabilmente determinabile tra la fase progettuale e il processo ultimato. Il profondo amore per l’arte che promana dalle pagine dei romanzi di Don DeLillo potrebbe trovare, quale ideale contraltare artistico, la ϐigura di Sophie Calle. Affermiamo ciò perché in quasi tutte le opere dell’artista francese emerge il rapporto simbiotico che i suoi lavori instaurano con la scrittura. La gran parte dei lavori di Sophie Calle, infatti, si serve di strutture narrative, a volte complesse, che si integrano perfettamente con le immagini da lei raccolte. Le sue creazioni sono spesso costruite tramite una sequenza di foto (occasionalmente sostituite da video) a cui si afϐiancano testi, per lo più minuziose descrizioni degli

avvenimenti a cui quegli scatti si riferiscono, senza i quali le singole immagini difϐicilmente sarebbero completamente decodiϐicabili. Le sue opere, dunque, si fondano sul presupposto che esista uno stretto legame tra i due campi espressivi e sono realizzate anche attraverso la declinazione di aspetti performativi e relazionali. L’analisi delle radici culturali di Sophie Calle dal punto di vista artistico porta a riconoscere quale presupposto importante del suo lavoro i vari contributi derivati dall’arte concettuale. L’artista francese fa parte di quella generazione di artisti che, pur prendendo le mosse dai movimenti e dalle avanguardie nati negli anni ‘60 e ‘70, ne ha messo in dubbio i presupposti, contestando soprattutto il valore universale che le loro pratiche davano per acquisito. Proprio per questo singolare approccio, le operazioni di Sophie Calle, alla luce di una stretta analisi fenomenologica, possono risultare molto difϐicili da inquadrare in un singolo campo espressivo. Al di là delle etichette che sono state coniate per deϐinire tali pratiche, quali per esempio Narrative Art, le sue dimensioni più speciϐiche sono, genericamente, quella dell’ibridità e della contaminazione utilizzate per costruire un territorio in cui felicemente convivono fotograϐia e narrazione, ricerca formale e attenzione ai contenuti, affondi intimi ed efϐicacia comunicativa. A rafforzare tale posizione di equilibrio tra le due discipline contribuisce, inoltre, il fatto che la stessa Sophie Calle sia diventata un personaggio di racconti e di romanzi; un “soggetto” a cui si sono rivolte ϐigure di primo piano della letteratura recente. Parallelamente, l’artista ha alimentato l’intreccio tra i due campi espressivi cercando in diverse occasioni di costruire opere a partire esclusivamente da spunti provenienti


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da storie e/o suggerimenti di scrittori. In questo luogo incerto in cui arte e artisti si avvicinano ϐin quasi a sovrapporsi con la letteratura, Sophie Calle non costituisce certamente un fenomeno isolato. Più che ai numerosi esempi di artisti che hanno usato la parola scritta all’interno dei loro lavori mi riferisco ai molti casi di opere completamente incentrate sulla narrazione, quali i lavori a quattro mani di Janet Cardiff e George Bures Miller, ma anche i lavori audio Walks realizzati soltanto da Janet Cardiff. Una parte di letteratura teorica relativa alla nascita delle metropoli, e di conseguenza allo sviluppo di un nuovo paesaggio/habitat umano, ha proposto l’idea che lo sviluppo della moderna metropoli abbia segnato l’inizio della “disumanizzazione” del contesto esistenziale. Questa linea si è però innestata su una singolare diacronia tra l’analisi del luogo e l’analisi dei corpi che lo popola: cioè a dire, si mettono in relazione uno spazio “nuovo”, radicalmente modiϐicato nella sua estetica, nella sua funzionalità, nella sua modernità, con un corpo umano che invece sembra privo di mutamento, solo sottomesso alla violenza di una sorta di evoluzione forzata. Si è molto spesso considerato il corpo, con tutte le sue possibilità percettive, come “vittima del progresso”. Questa considerazione è stata determinante per una lettura diametricalmente opposta, o almeno più problematizzante, di una parte cospicua dell’arte contemporanea.

In questo contesto la fotograϐia diviene un fattore essenziale del tentativo di appropriazione del mondo da parte della borghesia. La fotograϐia uccide deϐinitivamente la teoria del genio e regala, ϐin dal primo istante, la sensazione che lo strumento di produzione dell’immaginario collettivo non apparterrà più a pochi, ma che il potere della rappresentazione sarà diffuso. Così nel momento in cui la fotograϐia, con mezzi semplici e costi bassissimi, dà la dimensione della possibilità a ciascun individuo di poter modiϐicare il proprio aspetto ϐisico, e quindi identitario, usando l’autorappresentazione, quello stesso individuo l’indomani andrà camminando in una città che sente di poter altrettanto trasformare con il proprio sguardo. Sophie Calle è nata a Parigi il 9 ottobre 1953. Nella sua opera vita e arte si confondono continuamente: erede lontana delle attitudini artistiche teorizzate da Allan Kaprow alla ϐine degli anni ‘50, l’artista ha fatto propria l’idea secondo cui la linea che separa la vita dall’arte deve essere serbata in modo tanto ϐluido, al limite impercettibile, quanto possibile. Spesso fondate su regole e schemi, le opere dell’artista interrogano il limite tra la sfera pubblica e la sfera privata, tra la ϐigura del voyeur e quella dell’esibizionista. Uno dei suoi temi prediletti è quello della sparizione delle persone e degli oggetti, di cui l’esistenza è provata dalle fotograϐie e dalle tracce che Sophie Calle, immagine da “Suite Vénitienne”, 2015


l’imbarazzo implicito nella stessa richiesta di Calle. Dal punto di vista dei partecipanti, va detto che il sonno può essere difϐicile in presenza degli altri; e lo stato di sonno o incoscienza può anche renderci più vulnerabili agli attacchi ϐisici o alle violazioni, anche se non siamo necessariamente completamente de-sensibilizzati al mondo esterno quando dormiamo. Nel loro insieme, questi fattori indicano chiaramente che le questioni di ϐiducia sono stati essenziali per il successo di questo progetto, e in particolare nel caso di coloro che hanno partecipato come estranei. Il punto principale dietro il progetto di Calle, come lei spiega, era quello di monitorare e registrare la sua camera da letto come “uno spazio costantemente occupato per otto giorni” (Calle, 1996, 21). Tuttavia, come nota Guralnik, spesso nelle opere di Calle c’è anche un “tentativo di rappresentare ciò che è assente”. Essenzialmente, è quindi un’assenza di socialità rappresentata in “Les dormeurs”, attraverso lo spazio vuoto del sonno e la direzione a senso unico in cui è rappresentato. A parte il suo occasionale spostamento nel letto, il passare del tempo esiste davvero solo come un’esperienza consapevole per Calle; i suoi soggetti, ignari del mondo se dormono, non sperimentano gli eventi consapevolmente. Parlando socialmente, la loro è una specie di tempo morto. Questo è ciò che Calle stava cercando con questo progetto: l’accesso al lato non sociale della vita delle persone, senza compromettere l’intimità (la reciprocità delle presenze ϐisiche) che è fondamentale se il motivo della sospensione sociale deve essere applicabile perché, dopo tutto , le videocamere non hanno necessariamente bisogno di una presenza umana costante per poter funzionare. Lo stato del sonno è forse l’unico che può permettere questo rapporto unico di assenza e presenza nello stesso momento. È interessante notare che la natura unilaterale dell’esperienza di Calle qui è, in una certa misura, rispecchiata nella pratica della fotograϐia stessa. Secondo Sontag, “fotografare le persone signiϔica violarle, vedendole come non si vedono mai, avendo la conoscenza di esse che non potranno mai avere; trasforma le persone in oggetti che possono essere simbolicamente posseduti”. Nelle versioni pubblicate di “Les dormeurs” , le sequenze di foto-testo consistono solitamente in descrizioni scritte brevi ed efϐicienti seguite da un numero di fotograϐie che ritraggono i partecipanti al gioco di Calle in varie fasi durante i loro turni – a volte apparentemente in sonno profondo, a volte molto sveglio e annoiato , mentre altre volte si rivolgono apparentemente alla telecamera e interagiscono con Calle. È importante sottolineare che Calle adotta lo “stile del rapporto “ – completo di fatti, tempi precisi e così via – da scrivere. “Si addormentano all’1 del mattino” (1996); e anche alle sue stesse attività mentre dirige il procedimento: “La fotografo spesso durante la notte. Cambia posizione, ma non apre gli occhi. Alle 9 la risveglio mentre faccio una foto “(1996). Questo stile concreto suggerisce l’importanza della sorveglianza

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hanno lasciato nell’ambiente. Sophie Calle riserva un posto in prima ϐila allo spettatore, che partecipa alla creazione artistica e accede all’universo intimo di Sophie. Un altro tema al quale accorda un’importanza rilevante è quello dell’assenza, argomento che affrontò raccontando la storia vera di una donna scomparsa. Qualche tempo dopo verrà pubblicato un libro contenente le fotograϐie accompagnate da testi. In quest’opera vediamo come l’artista affronti una tematica che rimarrà centrale nella sua produzione, spesso concentrata nell’indagine delle conseguenze e del signiϐicato di “osservazione”. Per affrontare il lavoro di Sophie Calle si può iniziare da alcuni dei suoi primi progetti che nascevano dall’idea di seguire persone sconosciute allo scopo di raccogliere immagini e informazioni dettagliate, per quanto frammentate, su di loro, come in Suite Vénitienne. Lo scopo dell’artista era costruire un insolito ed eccentrico ritratto realizzato in modo non molto distante da come avrebbe fatto uno dei tanti detective presenti nelle pagine dei romanzi gialli. Anche in un’altra occasione relativa a quel periodo iniziale, “Les dormeurs” (1979), l’opera si basava sull’osservazione di persone, questa volta volontariamente partecipi, delle quali creare dei ritratti. L’artista chiedeva, infatti, a persone di diversa provenienza di dormire una notte nel suo letto afϐinché lei potesse fotografarle durante il sonno. Anche solo in questi due lavori iniziali, risulta subito evidente che il procedimento adottato da Sophie Calle parte dalla volontà di ridiscutere ruoli e sguardi al ϐine di provare a rileggere alcune situazioni quotidiane che, sottoposte ad analisi più tradizionali e codiϐicate, potrebbero apparire statiche e prive di interesse. Spostando l’attenzione sulle persone mentre dormono, oppure sui momenti quotidiani di individui sconosciuti, ottiene inoltre, quale effetto secondario, un allargamento del territorio dell’arte oltre i conϐini stabiliti dalla tradizione. Anche se va ricordato che, soprattutto in queste prime fasi, l’obiettivo prioritario di Sophie Calle non era necessariamente creare opere da esporre né, tantomeno, rideϐinire il territorio artistico. Al contrario, l’obiettivo erano i progetti in sé, senza che avesse chiaro in testa cosa farsene delle foto e delle note scritte che andava accumulando. Nel caso di “Les dormeurs”, come vedremo, i conϐini sono numerosi; e sono resi sfocati puramente dalla stranezza del concetto che sta dietro al progetto. Calle introduce: “Ho chiesto alle persone di darmi un paio d’ore di sonno. Per venire a dormire nel mio letto. Lasciarsi guardare e fotografare ... “. Su numerosi livelli, il conϐine sfocato cruciale da identiϐicare è quindi tra pubblico e privato. Il letto (la stanza) di Calle era l’ambientazione ϐisica del gioco stesso; e la sua rappresentazione fotograϐica e testuale, come una mostra d’arte e un libro, lo rende uno spettacolo pubblico. Tuttavia, lo stato del sonno è forse il nostro più intimo. Nonostante i suoi sforzi, né Calle né i suoi lettori possono avere accesso a questo dal punto di vista dei dormienti. Poi c’è anche la peculiarità e

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Passeggiando con Janet Cardiff

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Una buona parte del lavoro artistico della canadese Janet Cardiff dipende dal doppio binario di percezione tra spazio sonoro e spazio ϔisico. In un’intervista che ha rilasciato nel 2001 durante la sua partecipazione alla Biennale di Venezia, nel Padiglione Canadese, mi ha colpito la deϔinizione della sua opera come “scultura di suono nello spazio”, deϔinizione assolutamente tridimensionale dei suoi lavori. Le architetture sonore della Cardiff sono mobili e liquide, e accompagnano lo spettatore in una sorta di stato intermedio, di limbo percettivo, nel quale è costretto a rendere conto almeno di due diversi livelli di fruizione in continuo scambio e osmosi. Già in una sua installazione del 1993 (“To Touch”) si avverte la volontà di trasformare il fruitore in attore, e di modiϔicare la sua percezione del suono. In una sala buia c’è solo un tavolo di legno vecchio, vissuto. Se lo spettatore non lo tocca non accade nulla. Appena poggia le sue mani sul piano si attivano diversi sensori che, rispondendo al tocco, fanno partire tracce musicali, rumori e piccole particelle di storie raccontate da diverse voci. In realtà, a seconda di come si muove con le mani sul tavolo, le tracce si mixano e così non solo il visitatore innesca l’opera, ma in più, con i suoi movimenti, può costruire una sua trama sonora-narrativa. Janet Cardiff stessa dice “La gente può ‘suonare’ questo pezzo come un dj, e questo crea addirittura un pubblico negli altri che potrebbero osservare l’azione”. Quello che appare poi ancora più invitante per il fruitore comune è che l’oggetto emettitore del suono, il mixer, è un tavolo, un oggetto dall’apparenza tutt’altro che tecnologica, un elemento del banale quotidiano, con chiare tracce di uso. Il testo in audio nell’opera ripete diverse volte la frase “visualizza questa immagine”, come a invitare chi ascolta a rendere mentalmente visibile quanto udito. È un invito sottile, quasi subliminale, a trasformare l’ascolto in esperienza visiva. In una delle due tracce audio parlate, in un’atmosfera erotica da voyeurismo, una donna chiede a un uomo che è a letto con lei di toccarle la pelle e di parlarle delle sue cicatrici. Così la sensazione tattile del legno, la necessità di strusciare la mano sulla superϔicie scabrosa del tavolo, evoca mentalmente un’unione con le superϔici corporee di cui si parla. Proprio l’interesse di Janet per la dislocazione spaziale suono-corpo ben presto la spinge verso l’attraversamento sonoro fuori dalle quattro mura del museo, nel mondo esterno, realmente praticabile. Nascono così le sue passeggiate uditive, che sono forse il suo lavoro più conosciuto, anche se la sua opera è molto più articolata e in continua evoluzione. In sostanza realizza una serie di tracce sonore, con un audio che comprende un racconto, delle indicazioni di percorso e dei suoni, sviluppando nell’insieme una storia, preregistrata,

che si svolge in un preciso luogo. Lo spettatore viene quindi fornito di un walkman (nelle opere seguenti di un lettore compact disc), e segue un itinerario reale, ϔisico, nello stesso luogo della registrazione, lasciandosi guidare dalle indicazioni di percorso in audio. Il fruitore si trova così a vivere due esperienze parallele: quella ϔisica/corporea del suo attraversamento a piedi del luogo; quella acustica, di un racconto fatto in prima persona con i suoni, i rumori, tratti dal medesimo luogo, impressi nella traccia sonora in un altro momento, che ascolta in cufϔia. Da questo nasce una estraniante e affascinante esperienza di percezione dicotomica, che pone lo spettatore in una condizione di contraddizione percettiva evidente. Mentre si attraversa materialmente un certo posto, la coscienza si divide a metà: da un lato i dati dei nostri occhi,delle nostre mani, delle nostre gambe ci trasmettono una situazione esperienziale; dall’altro le nostre orecchie ci trasmettono tracce di un altro tipo, ma non così incongruenti da non potersi a tratti sovrapporre al visivo. Le storie che la voce della Cardiff ci bisbiglia nelle orecchie si sono svolte in quegli stessi spazi in un altro periodo, e noi, con un iniziale senso di spaesamento, siamo riportati sul luogo “del delitto”. I rumori registrati in loco smentiscono quello che possiamo vedere: passiamo accanto a un canale in secca e sentiamo il rumore delle ali delle anatre che si agitano nell’acqua; costeggiamo le ϔinestre di un ufϔicio, chiuse perché è domenica, e sentiamo il chiacchiericcio degli impiegati e i rumori e i rumori delle macchine da scrivere; ci scansiamo d’istinto al suono di un motorino che passa, ma guardando vediamo che la strada è deserta. Una delle prime opere di questa serie è la passeggiata organizzata nel giardino del Louisiana Museum in Danimarca nel 1996 con il titolo “Louisiana Walk #14”. La vicenda raccontata ha il sapore di un racconto noir: descrive nella traccia audio un paesaggio semidistrutto, mentre lo spettatore è condotto ad attraversare lo stesso luogo ma in un perfetto stato di conservazione. La storia fa ben presto piombare in una notte scura, mentre la passeggiata si svolge sempre di giorno, costruendo così non solo uno spazio diverso, ma anche un’incongruenza temporale estraniante. Fin dalle prime frasi la Cardiff si inserisce nel corpo stesso del fruitore, e allo stesso tempo gli cammina accanto, in una duplicazione intima e soggettiva, che deϔinisce un territorio immaginativo/reale. L’artista usa continuamente una soggettività che ci fa sentire degli esseri a due teste: la sua e la nostra, unite nella stessa prospettiva di pensiero e percettiva. Il paesaggio è un’invenzione condivisa dal fruitore e dall’artista. La Cardiff evoca, suggerisce, ci sposta immaginativamente, ma la nostra doppia percezione, del “qui e ora” e del narrato, ci pone forzatamente


verrà attraversato da un diverso ascoltatore/autore cambierà, sarà differente e personale. Due corpi fusi in una medesima esperienza percettiva condivisa, in tempi diversi, ma nello stesso luogo.

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in una condizione autoriale dove mixiamo, di continuo, istintivamente, un presente ϔisico con un tempo/ spazio altro, riportato. L’artista ci porta per mano nell’esperienza di un paesaggio che ogni volta che

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nel lavoro di Calle; si riferisce al senso di controllo che in genere vuole avere rispetto ai suoi soggetti. Nonostante l’assurdità delle circostanze, non è il notevole o lo spettacolare che viene monitorato qui, ma l’ordinario. L’atto di registrazione è un aspetto cruciale per Calle. I piccoli dettagli e le occorrenze sono importanti in quanto, in forma fotograϐica e testuale, si riferiscono a eventi che si sono veriϐicati tra le date e gli orari speciϐicati. Il racconto si costruisce quando l’intervento testuale all’inizio di ogni nuova sequenza visiva agisce come il passaggio di un testimone in una corsa a staffetta, mentre i dormienti successivi incontrano i precedenti e ci vengono date le date e gli orari precisi per ogni turno e ogni cambio di turno. Ma il contenuto del testo è anche importante, come lo usa Calle, spesso comicamente, per divulgare piccole informazioni sui partecipanti al gioco, forse fornendoci indizi sulle loro singole psicologie e aspettative permettendoci di inferire le connessioni tra le fotograϐie e i testi sulla base di queste descrizioni degli eventi. Calle riconosce l’importanza di entrambi. Scrive: “Nel mio lavoro, è il testo che ha contato di più. Eppure l’immagine è stata l’inizio di tutto” (Calle, 2011). Le prime incursioni nell’arte di Calle, attraverso la sua fotograϐia, hanno messo in piedi non solo uno stile unico e straordinario, ma anche un’intera serie di discorsi. Nei molti progetti di Calle, la “verità” dell’immagine fotograϐica conferma la verità delle storie che potrebbero altrimenti essere inventate, come spesso lo sono le storie. In un articolo pubblicato sulla rivista October, dal titolo “Paper Tigress”, Yves-Alain Bois (2006) sottolinea con molta chiarezza che la maggior parte dei lavori dell’artista francese si basa sui temi ricorrenti che spesso si intrecciano tra di loro: la sorveglianza, che spesso ha a che fare con il controllo della sfera intima degli altri, colti in situazioni di totale vulnerabilità; l’esibizionismo, perché spesso è la stessa artista a costruire il soggetto e l’oggetto dell’osservazione; e l’assenza, perché la ricostruzione della realtà viene fatta in mancanza del soggetto, privilegiando, quindi, tutte le tracce che lui/lei (o l’artista stessa) lasciano della propria vita. Spesso l’artista indossa i panni degli altri o li osserva da vicino. Nonostante questa prossimità con l’altro da sé, si ha quasi sempre l’impressione che i lavori di Sophie Calle vadano a comporre un’unica grande autobiograϐia realizzata con fanatica precisione attraverso una strategia di rappresentazione che costantemente mira a mescolare facts and ϐictions, o forse sarebbe meglio dire a utilizzare la realtà come mezzo per costruire ϐinzioni che a loro volta hanno una ricaduta concreta sulla realtà stessa. La più articolata e strutturata collaborazione dell’artista francese con uno scrittore è stata, tuttavia, quella stabilita con Paul Auster, circostanza che l’ha deϐinitivamente avvicinata al mondo della letteratura. Lo scrittore americano, infatti, si è ispirato a Sophie Calle – nascondendola dietro lo pseudonimo di Maria –

per un personaggio di “Leviatano” (1992), uno dei suoi romanzi di maggior successo. Anche se alcuni particolari sono palesemente inventati o alterati il ritratto che lo scrittore americano costruisce sull’artista è perfettamente coerente con Sophie Calle. Dalle parole usate da Paul Auster per descrivere Maria emergono alcune delle principali caratteristiche che hanno contraddistinto il lavoro dell’artista francese, come le peculiari modalità della sua ricerca estetica o l’indifferenza nei confronti di qualsiasi tipo di riϐlessione di ordine


avrebbe avuto quel semplice e frettoloso gesto. Sophie si sofferma sull’ultimo atto della loro relazione, ovvero la e-mail che Grégoire le invia per sancire la ϐine del rapporto. “Prenez soin de vous” è stata la pubblica risposta di Sophie Calle alla sua missiva – che si conϐigura quasi come una nemesi di “L’invité mystère” – opera che l’artista costruisce a partire da quella lettera e il cui titolo riprende fedelmente la chiusura dell’e-mail di Bouillier. Sophie Calle, dunque, decide di prendersi cura di sé da par suo. Fa leggere quell’e-mail

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formale a favore di una stretta interconnessione tra arte e vita. Anche Grégoire Bouillier, scrittore francese nato in Algeria nel 1960, è entrato di prepotenza all’interno della sfera di azione di Sophie Calle non soltanto per aver scritto nel 2004 “L’invité mystère” – in cui Sophie Calle è tra i personaggi del romanzo – ma soprattutto per aver intrecciato con lei una complicata relazione amorosa troncata semplicemente con una e-mail. Naturalmente senza immaginare quali conseguenza

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a centosette donne di varia estrazione e in possesso di strumenti professionali diversi tra loro al ϐine di trasformare una vicenda personale in una nuova opera d’arte, che nasce anche in questo caso dall’intersezione tra realtà e ϐinzione (letteraria e artistica). Sophie Calle, chiamata a rappresentare la Francia alla Biennale di Venezia del 2007, decide di dedicare l’intero padiglione a “Prenez soin de vous” esponendo il materiale raccolto in risposta a quella lettera costituito da video in cui linguiste, sociologhe, psicanaliste, accanto a personaggi dello spettacolo, leggevano, analizzavano, interpretavano, commentavano e (la maggior parte delle volte) ridicolizzavano la lettera d’addio. L’intera vicenda può essere letta come risposta mediatica a un problema personale, una pubblica messa in scena di questioni totalmente private o di ciò che si vuol far credere siano questioni personali; un po’ come avviene in molte trasmissioni televisive. Il lavoro si struttura, infatti, come una narrazione multipla e frazionata dello stesso testo. Sembra quasi che l’artista francese voglia dialogare a distanza con temi e linguaggio televisivo, con i reality show anche se, ovviamente, gli intenti di Sophie Calle si conϐigurano come antitetici a questa forma di spettacolo. Ancora una volta l’artista ci spinge a pensare di aver creduto che l’arte si dovesse nutrire di realtà e fondersi con essa. Per l’artista francese non ci sono alternative a questa strada, se non scadere nel puro esercizio virtuale di un linguaggio che parla di se stesso e si autoalimenta. Sophie Calle è un’osservatrice partecipante nel gioco della vita degli altri, come ha fatto in particolare all’inizio della carriera,

ma soprattutto della sua. Non è un caso quindi che in molti dei suoi lavori parli in prima persona del momento traumatico dell’abbandono, o della ϐine di un amore. In sostanza, sembra che Sophie Calle cerchi di appropriarsi delle afϐilate armi dell’arte concettuale e dell’analisi metalinguistica che ne è scaturita per fare i conti con se stessa e la realtà che la circonda, anche quando è scomoda, come in questo caso, o è tragica, come fa riprendendo la morte di sua madre e trasformandola in un’opera d’arte. Allo stesso tempo il lavoro di Sophie Calle ci spinge a renderci conto che in tutti noi alberga un animo di spettatore, ma soprattutto di voyeur. L’artista ci chiede uno sguardo partecipato, una sorta di corresponsabilità, dato che ci inserisce in un gioco di specchi dove la realtà stessa è costruita come una ϐiction, ma allo stesso tempo è rivelatrice di desideri, contraddizioni e ambiguità. Il “metodo” di Calle per affrontare la sofferenza che il mondo le getta è vedere tutto come un gioco di casualità e coincidenza, un rituale maturo per l’esposizione su un muro.

Sophie Calle, The Sleepers, 1980


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Rirkrit Tiravanija

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In viaggio con

Rirkrit Tiravanija


avvicinarsi e a servirsene. Il senso dell’esposizione viene costituito dall’uso che ne fa la gente, proprio come una ricetta di cucina non ha senso ϐinché non la si realizza per qualcuno. L’opera fornisce una chiave narrativa, una struttura a partire dalla quale si forma una realtà tangibile: spazi destinati allo svolgersi di funzioni quotidiane (suonare la musica, mangiare, riposarsi, leggere, discutere) diventano opere d’arte, oggetti. Lo spettatore di una mostra di Rirkrit Tiravanija si confronta con il processo costitutivo del senso nella propria vita, grazie a un processo parallelo a quello della costruzione di senso dell’opera. Al pari di un regista cinematograϐico, Tiravanija è, a turno, attivo e passivo, spinge gli attori ad assumere certi atteggiamenti e poi li lascia improvvisare, comincia a cucinare prima di lasciar fare agli altri lasciandogli una semplice ricetta o degli avanzi. In tal modo produce modi sociali parzialmente imprevedibili, un’estetica relazionale la cui caratteristica primaria è la mobilità. La sua opera è un insieme di bivacchi precari, accampamenti, workshop, tragitti e incontri temporanei: il suo vero soggetto è il nomadismo, ed è attraverso la problematica del viaggio che si intravede il suo universo formale. A Madrid, l’artista ϐilma il tragitto tra l’aeroporto e il Centro Reina Soϐia dove partecipa a una collettiva (“Untitled, para Cuellos de Jarama to Torrejon de ardoz to Coslada to Reina Soϔia”, 1994). Per la Biennale di Lione espone la vettura che gli ha permesso di arrivare ϐino al museo (“Bon voyage, Monsieur Ackermann”, 1995). “On the road with Jiew, Jeaw, Jieb, Sri and Moo” (1998) è il risultato di un viaggio con cinque studenti dell’università di Chiang Mai, da Los Angeles a Philadelphia dove ha luogo la mostra. Il viaggio viene documentato con video, fotograϐie e un diario di bordo trasferito su Internet, mentre il tutto viene presentato al museo di Philadelphia sotto forma di CD rom. Tiravanja ricostruisce anche le strutture architettoniche che ha visitato, come un emigrante che fa l’inventario dei luoghi che ha lasciato: il suo appartamento del Lower East Side rifatto a Colonia, uno degli otto studi del Context studio a New York rifatto al Whitney Museum, la galleria Gavin Brown trasformata in sala prove ad Amsterdam... Il suo è un mondo fatto di camere d’hotel, ristoranti, negozi, bar, luoghi di lavoro, punti di incontro e di ristoro (la tenda di “Cinéma de ville”, 1998). Gli spazi proposti da Rirkrit Tiravanija sono quelli che formano la giornata di un qualunque viaggiatore sradicato: si tratta sempre di spazi pubblici, ad eccezione del proprio appartamento la cui forma lo accompagna all’estero come un fantasma del passato. L’arte di Tiravanija ha sempre un rapporto con il dono o con l’apertura di uno spazio. Ci offre le forme del suo passato, i suoi strumenti, e trasforma gli spazi nei quali espone in luoghi accessibili a chiunque, come è accaduto per la sua prima personale a New York quando invitò dei senzatetto a mangiare in galleria. Tale attitudine è comparabile a quella generosità diretta tipica della cultura tailandese, grazie alla quale i monaci buddisti beneϐiciano dei regali della gente evitando così di lavorare. Questa precarietà è

Rirkrit Tiravanija

Nel momento in cui Rirkrit Tiravanija ci propone l’esperienza di una struttura formale all’interno della quale cucina, egli non prepara una performance, ma si serve della forma-performance. Il suo scopo non è di testare i limiti dell’arte, infatti utilizza forme che servivano a testare questi limiti negli anni ‘60, ma di produrre risultati del tutto diversi. Non a caso Tiravanija cita spesso questa frase di Ludwig Wittgenstein: “Non cercare il signiϔicato, cercane l’uso”. Rirkrit Tiravanija, thailandese, concepisce le mostre come luoghi dove si beve il tè, si consente un momento di pausa su una pedana o una tenda, si offrono bevande, cibi e un ambiente tale per cui l’opera diventa la relazione tra chi vi partecipa. Il primo evento di Arte Relazionale in Italia si svolge nel 1993, nella sezione “Aperto” alla Biennale di Venezia: l’artista invita il pubblico a prepararsi zuppe cinesi lioϐilizzate e a mangiare insieme attorno ai pentoloni d’acqua bollente da lui precedentemente disposti. Anche il ruolo dato allo spettatore è fondamentale in questo senso: egli può e deve intervenire sull’opera perché questa si compia e acquisti il suo signiϐicato. Una barca contiene un fornello a gas acceso che mantiene in ebollizione un pentolone pieno d’acqua; intorno a questa barca si trovano dei mobili da campeggio, sparpagliati, senza un ordine particolare. Contro il muro, alcune casse in cartone, per la maggior parte aperte, contengono zuppe cinesi disidratate che il visitatore può liberamente consumare aggiungendovi acqua bollente. Questo lavoro di Rirkrit Tiravanija si tiene al margine di ogni deϐinizione sociale: scultura? Installazione? Performance? Attivismo sociale? Negli ultimi anni lavori di questo tipo si sono moltiplicati. Nei lavori di Pierre Huyghe, Liam Gillick, Dominique Gonzalez-Fœrster, Jorge Pardo o Philippe Parreno, l’opera rappresenta il luogo della negoziazione tra realtà e ϐinzione, narrativa e critica. Lo spettatore di una mostra di Rirkrit Tiravanija difϐicilmente riesce a distinguere la frontiera che separa la produzione dell’artista dalla propria. Prendiamo ad esempio “Untitled (One revolution per minute)”: un chiosco che distribuisce crêpes ai visitatori è al centro di un labirinto di panche, cataloghi, tende; quadri e sculture degli anni ‘80 (David Dao, Michel Verjux, Allan Mc Collum...) danno rilievo allo spazio. Dove si ferma la cucina e dove comincia l’arte, visto che l’opera consiste essenzialmente nella consumazione di un piatto, e gli spettatori sono incoraggiati a compiere gesti quotidiani? Questo dimostra chiaramente la volontà d’inventare collegamenti inediti tra l’attività artistica e l’insieme delle attività dell’uomo, costruendo uno spazio narrativo che cattura ϐinalità e strutture del quotidiano in una forma-scenario che è tanto diversa dall’arte tradizionale quanto il rave-party dal concerto rock. Il titolo di un lavoro di Rirkrit Tiravanija si accompagna spesso alla menzione in parentesi “lots of people” a dimostrazione del fatto che la gente fa parte dell’opera. Invece di limitarsi ad osservare a distanza un insieme di oggetti, gli spettatori sono invitati ad

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Rirkrit Tiravanija

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al centro dell’universo formale di Rirkrit Tiravanija; niente è duraturo, tutto è movimento, il tragitto tra due luoghi è più importante dei luoghi stessi, gli incontri più importanti degli individui che li generano. I musicisti di una jam session, gli avventori di un bar, i bambini di una scuola, il pubblico di uno spettacolo di marionette, gli ospiti di una cena: queste comunità temporanee si organizzano e materializzano in strutture che sono attrattori di umanità. Associando quindi i concetti di comunità ed efϐimero, Tiravanija si oppone all’idea che l’identità sia indissolubile o permanente: la nostra etnia, la nostra cultura nazionale e la nostra stessa personalità non sono che bagagli che ci portiamo dietro. Il nomade descritto dal lavoro di Tiravanija è allergico alle classiϐicazioni nazionali, sessuali o tribali. Cittadino di uno spazio pubblico internazionale, egli non fa che attraversarlo per una durata determinata prima di assumere nuove identità, egli è universalmente esotico. Conosce ogni tipo di persona, così come succede con gli stranieri che incontriamo durante un lungo viaggio. Si potrebbe dire che uno dei suoi modelli formali sia l’aeroporto, luogo di transito

nel quale le persone vagano da una boutique all’altra, da un punto informazioni all’altro e si uniscono a micro-comunità che si formano temporaneamente nell’attesa di raggiungere una destinazione. Le opere di Rirkrit Tiravanija sono accessori e scenograϐie di uno scenario planetario, un copione in progress il cui soggetto è: come abitare il mondo senza risiedere in nessun luogo.


La Paura mangia l’anima

Per questo progetto a Milano, Tiravanija ha rivestito la sua arte di un valore socioculturale, continuando lungo l’idea del coinvolgimento e dell’inclusione, adottando una serie di testi e immagini che si rivolgono direttamente alla città. La Paura Mangia L’Anima è ciò che si legge in questa prima bandiera della neonata propaganda artistica. La frase che a lettere cubitali vibra nell’aria è un chiaro rimando al ϔilm cult di Rainer Werner Fassbinder dal titolo omonimo, “Angst essen Seele auf”. Presentata al Festival di Cannes nel 1974, la pellicola si inserisce perfettamente nel contesto contemporaneo, portando nuova visibilità a tematiche scottanti come la discriminazione razziale e la lotta di classe.

La prima bandiera di Tiravanija, nuovo emblema di Fondazione Converso, sembra ergersi come monito, nonché formula apotropaica. In questo particolare momento storico, la paura è di fatto protagonista indiscussa, insieme a un’altra parola chiave: la chiusura. Fino a poco tempo fa, si discuteva sulla chiusura dei porti, ora sono i musei, le scuole e le istituzioni culturali a spegnere le luci per evitare che il Coronavirus si diffonda ulteriormente. L’artista così ci mette in guardia dai danni spesso irreversibili che da sempre commette la forza devastatrice della paura. Tiravanija appende un messaggio di solidarietà, un appello per le aree più colpite dall’epidemia a ritrovare il coraggio, l’unione, l’anima.

Rirkrit Tiravanija

La Chiesa di San Paolo Converso a Milano per tutto il 2020 ospiterà la prima bandiera della serie “La Paura mangia l’anima” dell’artista Rirkrit Tiravanija.

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Ho dietro di me millenni di silenzi, di tentativi di poesia, di pani delle feste, di ϔili di telaio.

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Da vicino, vicinissimo, da lontano, in assenza.

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Maria Lai nasce nel 1919 a Ulassai e muore nel 2013 a Cardedu. Poco meno di un secolo di vita, di cui circa sei decenni di attività, un arco di tempo più esteso del cosiddetto secolo breve: è nata due anni dopo la Rivoluzione sovietica, uno dopo la ϐine della grande guerra, ha studiato negli anni del Fascismo e della seconda guerra mondiale, ha vissuto la caduta del muro di Berlino, gli attentati alle Torri gemelle e l’ingresso nel nuovo millennio. Ha attraversato molti mondi. “[…] da un lato l’autoconsapevolezza e la sicurezza delle artiste divenne più forte mentre, dall’altro, la categoria della “donna” come identità collettiva stava perdendo credibilità – teoricamente e sperimentalmente. Sembrava che fosse un sollievo riuscire a tematizzarsi non come parte dell’identità comune chiamata “donna” ma piuttosto come membro volontario di una comunità strategica chiamata artista donna”. (Sabeth Buchmann 1995,103) Queste parole offrono una sponda per considerare con maggiore attenzione la ritrosia più volte affermata dall’artista rispetto alla frequentazione del mondo dell’arte, ritrosia che, dopo la prima mostra alla galleria Obelisco di Roma nel 1957. si è manifestata in modo evidente con il ritiro dalla scena pubblica in silenzio durato circa una decina d’anni. Da questo silenzio, l’artista è riemersa con cicli di lavori importanti, dalle sculture di pane, ai telai costruiti, alle tele e ai libri cuciti, a posteriori è altrettanto evidente quanto questa sospensione sia servita anche a generare una nuova forza interna per proteggersi, quando necessario e per agire più liberamente. Nel 1981 in una mostra tenutasi nell’ambito della Biennale di Venezia realizza “Legarsi alla montagna”, il noto intervento pubblico che costituisce un capitolo a sé, dove sono condensate molte istanze del lavoro svolto sino a quel momento, e

anticipazioni di quello a venire. Legarsi alla montagna è la prima opera di arte relazionale a livello internazionale. Maria Lai ha ottenuto forte riscontro negli anni ‘90, proprio quando si stava affermando sulla scena dell’arte una nuova generazione di artisti provenienti da aree del mondo periferiche, il cui tratto ricorrente consiste nel partire da una cifra comune, la ripresa di una lingua maggiore, nel loro caso il minimalismo, declinata per parlare di sé e della propria condizione dicendo e nascondendo. Non a caso tra questi vi sono diversi artisti presenti alla mostra “Il racconto del ϔilo”. Uno spostamento ancora più esplicito verso un agire collettivo di lì a poco andrà a condensarsi in Legarsi alla montagna. Potremmo deϐinirlo come un atto di trasformazione che diventa possibile grazie a un riϐiuto, ovvero con il sottrarsi dell’artista alla richiesta dell’amministrazione locale di Ulassai di realizzare un monumento ai caduti in guerra. Si tratta di un no che nasce dal riϐiuto di celebrare il passato con un gesto che lei ritiene retorico e strumentale al ϐine di dare visibilità al paese; ma sappiamo che questo riϐiuto non è stato vano. Dopo un anno l’amministrazione torna sui suoi passi, richiama Maria Lai accordandole la possibilità di intervenire in libertà e questo le consente di dare il via a un processo di trasformazione di un lutto della collettività, visto che si tratta di un intervento dedicato alla commemorazione dei caduti, e personale. Nel procedere l’artista mette da parte la relazione con la storia ufϐiciale e va a recuperare la memoria tramandata oralmente, quella memoria che vive solo se è tenuta in vita nella trasmissione del racconto, quella memoria che appartiene al repertorio, in un passaggio che ribalta i consueti rapporti di forza dell’archivio – dove sono conservati i “documenti” – rispetto al repertorio – corpus di memoria trasmissibile solo da persona a persona – con le evidenti implicazioni


Maria Lai

Maria Lai, “Legarsi alla Montagna”, 1981

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politiche che questo passaggio comporta. Inϐine invita la cittadinanza a interpretare attivamente il proprio vissuto relazionale e soggettivo in un’azione destinata a trasformare anche le relazioni che riguardano il presente. Tutto accade senza manifesti, senza proclami, l’artista non interpreta il ruolo di deus ex machina ma agisce come strumento a servizio del lavoro, dove i protagonisti sono gli abitanti. Descrivendo più esplicitamente il processo, Maria Lai ha iniziato consultandosi con chi vive lì per individuare un terreno simbolico condiviso, e lo ha trovato in un’antica leggende che effettivamente tutti conoscevano. In questa storia durante un uragano c’è un nastro che appare nel cielo e una giovane si salva dal crollo della grotta dove si era riparata, che, a seconda delle versioni, cambia età. È a partire da queste premesse che l’artista realizza la nota azione collettiva dove gli abitanti del paese sono invitati a legare con un nastro di tela blu, lungo 27 km, le proprie case con indicazioni diverse a seconda delle relazioni (amicizia, amore, conϐlitto). L’intera operazione venne accompagnata dalla straordinaria ϐigura del ϐlautista Angelo Persichilli, documentata inoltre dal fotografo Piero Berengo Gardin e attraverso un cortometraggio dall’artista Tonino Casula. Sul ϐinire della serata, gli scalatori legarono i nastri al Monte Gedili, la montagna più alta che sovrasta l’abitato. Ulassai fu legata, e fu legata alla sua montagna. Di questo lavoro si è detto della valenza antropologica e dell’efϐicacia del rito collettivo, dell’efϐicacia con cui Maria Lai ha agito nella sfera pubblica contribuendo a riattivare le relazioni umane in un paese che già allora soffriva del progressivo svuotamento del tessuto urbano. Legarsi alla montagna poneva una domanda radicale su come produrre un segno per il ricordo di un evento storico tragico per la collettività diverso dal monumento, andava in una direzione, che tra il 1968 e la seconda

metà degli anni ‘70, quando molti artisti decisero di lasciare musei e gallerie per lavorare a diretto contatto con la società, a parte rare eccezioni non avevano trattato. L’operazione suscitò clamore e stupore tra paesi vicini, e successivamente a questa operazione Ulassai divenne pian piano un Museo a cielo aperto. Mentre a livello dei grandi circuiti della critica nazionale, Maria Lai venne criticata in modo negativo, perché per i più scettici si era impegnata a fare la festa del paese. Ora invece è stata rivalutata a carattere nazionale, in particolare ad iniziare da Alessandra Pioselli, che la vede come lo spartiacque dell’arte contemporanea, poiché per la prima volta l’artista e l’opera d’arte risiedono nella ϐigura dello spettatore, facendo di quest’ultimo il vero arteϐice dell’operazione, Legarsi alla montagna quindi è stata la prima operazione di Arte Relazionale. Legarsi alla montagna è un atto artistico che si fonda sulla possibilità di superare un dolore attraverso una trasformazione legata alla perdita, dove la storia personale è un motore silenzioso e la dimensione politica, presente in tutti i lavori di Maria Lai, si manifesta in modo più esplicito. “In generale è dunque soltanto e sempre una donna che vede il nastro, motivo conduttore dell’azione ed elemento che materializza, nel suo contenuto profondo, il ϔilo continuo del linguaggio e del silenzio.” (Berengo Gardin, 1981/1982, 112) Maria Lai è stata molto chiara: in Legarsi alla montagna, l’indicazione non è distruggere i monumenti, ma ripensarli aprendo così altri terreni di gioco dove possano continuare a vivere altre possibilità, altre storie, altre memorie. «L’arte è come una pozzanghera che riϔlette il cielo, ma può passare inosservata. Può essere calpestata, ma l’immagine del cielo si ricompone sempre.»


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Arte Relazionale in Italia


di relazione” edito dalle Edizioni Millelire. Nel 1994 nasce “Stalker”, un collettivo di artisti e architetti che sperimentano con una modalità di intervento sperimentale e pratiche spaziali esplorative e relazionali. I “Territori attuali” è stata una delle prime azioni del collettivo, durante la quale il gruppo ha camminato sessanta chilometri nella città di Roma per 5 giorni consecutivi, percorrendo “il lato scuro della città”. Sul ϐinire degli anni ‘90, altri due artisti, Massimo Silvano Galli e Michele Stasi, inaugurano, con l’agenzia Oϐicina – Making Reality, un’intensa stagione di riϐlessioni, progetti e opere d’arte relazionale direttamente immersi nel tessuto dell’intervento socio-culturale, come, tra le tante: “Cento Anni di Adolescenza”, un’articolata opera-progetto ϐinanziata dal Comune di Milano che, dal 2001 al 2005, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, coinvolgerà oltre 2500 adolescenti nella creazione del proprio autoritratto.

Arte Relazionale in Italia

Il primo esempio italiano di rilievo di Arte Relazionale si incontra agli inizi degli anni ‘80, precisamente nel 1981, con la straordinaria performance di “Legarsi alla montagna” dell’artista Maria Lai e, successivamente sul ϐinire degli anni ‘80, con le ricerche e le azioni del Gruppo di Piombino, Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica e di Cesare Pietroiusti. Con la mostra “Forme di relazione” a cura del critico Roberto Pinto, il concetto di relazione entra a far parte di innumerevoli ricerche successive che si addensano e si sperimentano intorno al Progetto Oreste e che oggi sono ormai patrimonio di tutta l’arte contemporanea. Nell’ottobre 1993, a Orzinuovi, in provincia di Brescia, Roberto Pinto invitò: Piero Almeoni, Maurizio Donzelli, Emilio Fantin, Eva Marisaldi, Premiata Ditta (Vincenzo Chiarandà e Anna Stuart Tovini), Luca Quartana e Tommaso Tozzi. Per l’occasione fu pubblicato un piccolo catalogo con il titolo “Forme

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Progetto Oreste

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C’è del fantastico insito nel quotidiano, ce lo hanno ben insegnato i surrealisti che si ostinavano a chiedere di mantenere gli occhi aperti e a mostrare il mondo così com’è, enigmatico e incoerente. E questo mondo – così com’è, così com’era – è fatto per lo più di oggetti e di uomini combinati insieme. Negli oggetti come negli uomini è possibile rintracciare un’esistenza sociale e un’esistenza reale, se la prima è avvinghiata alle convenzioni e a un modo di vedere culturalmente e tecnologicamente orientato, la seconda è avvinta alle forme concrete soggette al tempo e allo spazio. Quando Georges Perec perseverava nell’enumerare e classiϐicare perché la “parola che nomina” potesse rinsaldare il suo rapporto con il corrispettivo reale, molta dell’arte di matrice ϐluxus eclissava l’opera a favore dell’artista, mentre Debord parlava di situazioni, eclissando sia l’opera che l’artista e cercando, quasi disperatamente, un reale che potesse essere ancora attraversato, attimo per attimo. Quando negli anni ‘90 Internet e la rete sembrano la nuova eldorado, si inizia a pensare che alcune convenzioni “guaste” possano essere “aggiustate” dalla condivisione, dalla rete, dal network, in cui un ϐlusso di corpi poteva acquisire consapevolezza, prendere la parola e decidere per sé, per sé in relazione agli altri nella quotidianità. Progetto Oreste nasce in questo periodo e involontariamente – almeno all’inizio – diventa un incubatore di istanze di consapevolezza del mondo dell’arte italiana. Oreste allora voleva modiϐicare le relazioni nel mondo dell’arte, spezzare dei rapporti di convenzione e costruirne degli altri a partire dalla realtà. Oreste non si proponeva come compagine politica o antagonista al sistema, ma semplicemente come un’alternativa possibile al modo di fare arte in un’Italia che di attenzione alla cultura contemporanea ne prestava veramente poca. Oreste agiva da catalizzatore per puntare l’attenzione su fattori centrali dell’operare artistico e poneva questioni pratiche e teoriche: quale legittimazione hanno gli artisti in Italia? Quale lo spazio della soggettività nella produzione? Quale lo spazio delle parole e dei comportamenti nell’opera? Come modiϐicare i rapporti di valore nel mercato? E trasversale a queste questioni c’era la quotidianità, con le sue contraddizioni intime, con i suoi legami affettivi, con il suo occupare i luoghi prima di tutto con i corpi e gli oggetti in maniera anche silenziosa, banale,

goffa, casuale, abolendo i conϐini tra “spazi deputati a...” e non, sostituendo al mostrare come ϐine ultimo il vedere. Se mostrare, infatti, indica un’azione che mette in evidenza talune cose rispetto ad altre previa una selezione, vedere è un’attitudine comune a tutti legata in particolare alla comprensione. A distanza di vent’anni da allora, soprattutto guardando a come si sono evolute quelle pratiche che in Oreste hanno avuto un loro primo momento costruttivo (come le residenze, gli spazi indipendenti o no proϐit), in verità la questione interessante non è tanto legata a un ϐine ultimo dei progetti (partecipare a mostre o no, produrre l’opera o meno, realizzare le idee o lasciarle tali), ma a quell’attraversamento del processo che conduce all’apparizione di un oggetto, di un corpo e di più oggetti e più corpi messi insieme e alla loro successiva signiϐicazione personale e collettiva. Agire sul meta-, diventare meta – per valicare i conϐini della pratica artistica e approdare ad una modalità d’azione tangente a quella legittimata dal sistema per scuoterlo – in quel dato punto di contatto – dall’interno, questo è l’obiettivo. E travalicare i conϐini della pratica artistica non signiϐica solo inglobare linguaggi diversi e sperimentare, ma anche aprirsi a ciò che accade intorno: ecco l’interferenza costruttiva del quotidiano. Gli artisti di Oreste non discutevano, infatti, solo delle proprie ricerche, ma anche di scienza, musica, ϐilosoϐia, paesaggio, architettura, poesia: attivavano, o cercavano di farlo tra di loro, e con chi ne veniva in contatto, il pensiero critico, il pensiero divergente, ciò che rompe la struttura della convenzione, scombina la posta in gioco e rilancia verso l’ignoto. La parabola di Oreste dura quattro anni, dal 1997 al 2001: nasce a Paliano, in provincia di Frosinone, dove sono iniziate le prime residenze; approda a Bologna – centro nevralgico della sperimentazione dei linguaggi creativi e degli spazi autogestiti – , dove si svolge il convegno dal sagace titolo “Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?”; poi va a Venezia grazie all’invito di Harald Szeemann a partecipare alla sua 48a Biennale “dAPERTutto”, e poi ancora si trasferisce al sud, a Montescaglioso, in provincia di Matera, dove sono state fatte le ultime residenze ϐinalizzate a laboratori e workshop; inϐine fa tappa a Roma dove se ne decreta la morte all’interno della mostra “Le tribù dell’arte”.


Nel 2019, nello spazio espositivo della Project Room dedicato alla riscoperta di alcuni degli episodi artistici più stimolanti e innovativi originati in ambito bolognese e regionale, il MAMbo (Museo d’Arte Moderna di Bologna) presenta “No, Oreste, No! Diari da un archivio impossibile”, progetto espositivo a cura di Serena Carbone incentrato sull’esperienza artistico-relazionale di Progetto Oreste, nata nel 1997 e conclusasi nel 2001, con particolare attenzione alle vicende bolognesi. La mostra “No, Oreste, No. Diari da un archivio impossibile” ha raccontato la storia di un gruppo indeϐinito di persone che, a ϐine anni ‘90, si sono incontrate per una serie di accadimenti più o meno fortuiti e hanno preso la parola per riϐlettere sul valore dell’arte e non presentando opere, ma corpi che si relazionavano l’uno all’altro nella quotidianità. La realizzazione dell’archivio è stata possibile grazie al lavoro di raccolta e manutenzione dei documenti da parte di Emilio Fantin, Giancarlo Norese, Luigi Negro e Cesare Pietroiusti, artisti che hanno partecipato attivamente ad Oreste. “Un archivio impossibile” è stato denominato quello di Oreste, proprio per la sua orizzontalità, per la sua mancata possibilità di deϐinizione ultima, anche in termini di compiutezza: esso è costituito da una miscellanea di carteggi, pensieri, foto da sfogliare come un diario o un album di famiglia; al suo interno vi sono testi critici, questionari, graϐici, tabelle, parole che intrecciano la vita di uno a quella di molti in una rete di possibilità e relazioni, ma anche poster, cataloghi, riviste che ci parlano di una data atmosfera. E poi ci sono le prime mail, quelle scambiate in occasione dell’organizzazione della Biennale del 1999, in cui la guerra in Kosovo si fa sentire dura, imbarazzante per l’Occidente sedato, proprio dall’altra sponda del mare. Oreste non era un collettivo, non era un sindacato ma, come spesso hanno ribadito i suoi ideatori, era “un insieme variabile di persone”, di artisti che si sono scelti e trovati per un determinato tempo per condividere una certa maniera di vedere il mondo. Oreste ha agito da precursore, ha sperimentato e anticipato un modus operandi indipendente, alternativo a quello istituzionale, totalmente orizzontale e non gerarchico, ponendo l’accento sul processo e anticipando tendenze oggi date per scontate come la ricerca in spazi no proϐit e le residenze d’artista. “No, Oreste, No! Diari da un archivio impossibile” ha come fulcro ciò che resta oggi di Oreste: gli artisti con le loro vite e le loro ricerche, l’archivio composto da materiale audio-video e cartaceo, il materiale sulle pagine ancora navigabili di “UnDo.Net” e la vitalità che ne animava gli incontri e i dialoghi. In mostra vengono esposti video, installazioni, testi, fotograϐie, libri, cataloghi, riviste, ϐlyers, locandine, lettere, e-mail per ricostruire il grande network che l’invisibile Oreste, in pochi anni, ha intrecciato con il mondo dell’arte.

«Oreste non è nessuno, eppure sono tanti», dichiara Carbone, che poi precisa: «Oreste viene chiamato così dagli amici, per tutti gli altri è Progetto Oreste, nasce nel 1997 e muore nel 2001». Non un collettivo organizzato, quindi, ma un ϐlusso libero di artisti, critici e galleristi che per un periodo preciso si sono ritrovati a condividere la stessa maniera di vedere il mondo. Oreste è stato un intreccio di esperienze, quelle di Cesare Pietroiusti, Luca Vitone, Giancarlo Norese, Alessandra Pioselli, Mauro Manara, Bruna Esposito, Annalisa Cattani, Lorenzo Benedetti, Salvatore Falci, Anteo Radovan, Cesare Viel, Eva Marisaldi, per citare una parte della lunga, lunghissima lista di aderenti – quasi 300 persone! Oreste non ha prodotto opere ma è stato il principale progetto relazionale italiano, basato sui rapporti e sugli incontri, sul dialogo e la discussione come vero collante di questa comunità multiforme di intellettuali. Il primo importante incontro avvenne al Link, storico centro sociale bolognese, in un convegno dal titolo programmatico “Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?”. Si discusse dell’impatto che l’innovazione tecnologica stava avendo sull’evoluzione delle dinamiche di comunicazione, sulla quotidianità e sulla soggettività, e di come questi cambiamenti si riϐlettessero poi nella pratica artistica. Al convegno intervennero prevalentemente artisti, presentando le proprie ricerche e il proprio lavoro. Le attività svolte furono collettive o organizzate in gruppi di lavoro, afϐinché la condivisione di idee potesse far scaturire nuove collaborazioni. In un’intervista, Pietroiusti, parlando del convegno, si esprime in questo modo: «Non mi ero fatto delle idee precise a che cosa puntare, certamente (c’era) la volontà di veriϔicare l’esistenza e la solidità in qualche modo di una rete di relazioni fra persone. Fra persone che hanno voglia di lavorare insieme, di mettere in gioco le proprie idee, il proprio tempo».Seguirono molti incontri, ϐino ad arrivare a prendere parte, due anni più tardi, alla Biennale d’Arte curata da Harald Szeemann. Poi la partecipazione alla mostra “Democracy!” al Royal College of Art di Londra (2000) e a “Le Tribù dell’Arte” curata da Achille Bonito Oliva a Roma, nel 2001. In quello stesso anno, però, Oreste si esaurì e l’esperienza si dichiarò conclusa. Racconta ancora Carbone: «Tutti erano Oreste e tutti si sentivano anche responsabilizzati dal farne parte, ma proprio quel principio di orizzontalità (assenza di selezione e accesso libero principalmente), punto di forza iniziale, era divenuto il punto di maggiore debolezza. La situazione stava andando al di là del controllo richiesto – estetico e formale – che un fenomeno, una volta iscritto all’interno del campo artistico istituzionale, avrebbe dovuto avere. Necessariamente erano subentrati i regimi di visibilità, le aspettative individuali e non da ultimo le esigenze di comunicazione (chi comunica cosa?)».

Arte Relazionale in Italia

NO, ORESTE, NO. Diari da un archivio impossibile

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dAPERTutto – Oreste a Venezia

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La partecipazione di Oreste alla Biennale si declinò in una programmazione intensa (una serie di incontri, performance, discussioni, conferenze, pranzi e incontri informali) diluita nei 5 mesi di apertura della manifestazione. Lo spazio era allestito con tavoli, sedie e materiale di documentazione dei progetti precedenti. In questo modo fu costruito una sorta di spazio di decompressione rispetto ai ritmi tradizionali della mostra, e funzionale alla programmazione di Oreste. Gli artisti del progetto trasformarono la porzione di spazio espositivo a loro assegnato in uno spazio vivibile che potesse in un certo senso «moltiplicare per cento l’invito ricevuto» (per usare le parole di Pietroiusti), nel quale far succedere qualcosa che non fosse una performance o un happening. Lo spazio di Oreste all’interno di “dAPERTutto” era nuovamente un “forum”, una piazza, una “chat-room reale” che inseriva lo spettatore della Biennale all’interno di un processo relazionale in grado di generare nuove iniziative suggerendo una direzione alternativa al sistema. Forse la volontà di Oreste fu proprio quella di creare un sistema open-source per la creazione di progetti, anticipando in un certo senso i social network. Quello degli “spazi di positiva inquietudine”, cioè spazi di apertura – come quello di Oreste alla Biennale – grazie ai quali si genera costantemente realtà e si aggiunge signiϐicato all’esperienza del visitatore, è diventato oggi un aspetto centrale nelle large-scale exhibitions e nella poetica di molti curatori. Si pensi alle platforms di Documenta11, alle lectures organizzate a Kabul e alle residenze per scrittori all’interno del ristorante cinese “Dschingis Khan” durante Documenta13, a Utopia Station di Nesbit, Obrist e Tiravanija durante la Biennale di Venezia del 2003, e allo spazio ARENA all’ultima Biennale italiana a cura da Okwui Enwezor. Tutte queste iniziative hanno avuto in comune la peculiarità di manipolare (o hackerare) il format di questa tipologia di mostre ed espanderlo sfruttando il potenziale catalizzatore di persone e interessi. Nel corso degli anni simili scelte curatoriali hanno modiϐicato progressivamente il senso di tali mostre, che da classiche mostre-evento, in cui l’attenzione era focalizzata sui contenuti, sulla lista degli artisti invitati e le loro singole opere, sono oggi diventate delle mostre nelle quali è fondamentale, prima di tutto, esserci di persona per condividere esperienze tangibili circoscritte in quel tempo e spazio speciϐici. Un’interessante, anche se piccola, crepa, creata per sfuggire, almeno un po’, dallo stato di assedio delle regole di sistema, del mercato dell’arte e della ϐinanziarizzazione delle opere. Le scelte curatoriali di Szeemann e il testo dAPERTutto nell’ordine delle sue autorealizzazioni mostrano come questa esposizione, oltre a contrastare e criticare dall’interno l’istituzione della Biennale, sia una testimonianza degli sviluppi e dei cambiamenti degli ultimi vent’anni del

1900 e che attualmente hanno ancora diverse eco nel dibattito sulla produzione artistica, sulla museologia e sulla pratica curatoriale. Nella struttura della mostra e nella scelta di artisti come James Lee Byars, Douglas Gordon, Gino De Dominicis, Dominique Gonzalez-Fœrster, Pierre Huyghe e Philippe Parreno, ritroviamo molti collegamenti ad alcune questioni fondamentali in quegli anni e che ancora oggi trovano uno spazio di discussione: lo studio dei sistemi complessi, il pensiero debole (la presenza di un ruolo forte del “soggetto”, sia sul piano dell’etica, sia quello della conoscenza oppure il binomio essere-verità) e l’Estetica Relazionale (la prima pubblicazione del testo di Bourriaud risale al 1998). La partecipazione di Oreste alla Biennale è un caso-studio in grado di testimoniare le modalità di ricezione di cambiamenti antropologici che oggi, a trasformazione ultimata, si sono imposti alla generazione dei millennials come realtà quotidiane. Infatti, le politiche ecologiche, la sharing economy, l’architettura dell’informazione, il rapporto globalization/ glocalization, le diverse forme di resilienza sociale, la criticizzazione dell’idea di periferia e minoranza nascono proprio in quel periodo di ϐine millennio (un po’ ottimista, un po’ apocalittico). Ciò, riportato in scala al sistema dell’arte, ha suscitato nuove direzioni di ricerca: pensiamo all’idea di “decolonizzazione”, all’organizzazione delle collezioni e delle esposizioni museali, all’ibridazione come paradigma, al problema della sostenibilità economica dei musei (attuabile tramite un’operazione di costruzione di un carattere identitario forte), al rapporto istituzione-pubblici, al dibattito sul sistema delle Biennali d’Arte (o più in generale delle grandi manifestazioni globali) e al loro opposto (la proliferazione di piccole ϐiere indipendenti). In una testimonianza di Agnes Kohlmeyer, all’epoca assistente di Szeemann per la Biennale, apprendiamo che l’interesse del curatore svizzero nei confronti di Oreste è progressivamente cresciuto durante il periodo di studio visit, grazie alle quali si rese conto che l’adesione al gruppo da parte di molti artisti italiani costituiva una rete nazionale alternativa in grado di sopperire, in un certo senso, all’assenza delle istituzioni pubbliche del Paese. Una rete autonoma che credeva nel potenziale delle relazioni e funzionava soprattutto da generatore di energie, dando vita a iniziative, nuove possibilità e occasioni. Lo stesso Szeemann racconta: «Non ho deciso immediatamente, ma dopo alcune riϔlessioni ho scritto a Cesare Pietroiusti che Oreste rappresentava per me una parte di apertura che voglio ottenere per questa Biennale» (H. Szeemann, Oreste alla Biennale, 1999). Szeemann prosegue sostenendo inoltre che Oreste «ha offerto alla Biennale un nucleo di positiva inquietudine».


Arte Relazionale in Italia

Alla domanda su quali fossero gli stimoli alla base della nascita di Oreste e come mai il progetto fosse così orientato nel favorire le relazioni, i dialoghi e gli incontri tra artisti e operatori culturali in senso ampio, Pietroiusti risponde: «credo che tutto questo entusiasmo derivasse dalla percezione delle potenzialità della posta elettronica come generatrice di contatti, e di internet come generatore di conoscenze (il 1999, anno di dAPERTutto, è l’anno in cui comincia a funzionare il motore di ricerca di Google). L’idea di mettere insieme queste potenzialità con l’invito alla Biennale (evento da sempre percepito come “mitico” dagli artisti) sembrava generare prospettive straordinarie».

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Cesare Pietroiusti,“Tutto quello che trovo”, 1999


Cesare Viel

Emozioni che prendono forma

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Cesare Viel


Cesare Viel è un artista concettuale italiano, classe 1964, di base a Genova, attivo sin dalla ϐine degli anni ‘80. Nel suo lavoro, è fondamentale la relazione con il linguaggio e la sua ricerca gravita intorno alle pratiche installative e performative, mescolando diverse tecniche e mezzi espressivi come il video, la fotograϐia, il disegno, la scrittura e il linguaggio. La prima mostra che mi ha colpito è stata quella in occasione dell’inaugurazione del Castello di Rivoli, del 1984, in particolare un’installazione di Joseph Beuys e la modalità di lavorare nello spazio. Avevo vent’anni e non avevo potuto vedere mostre storiche, ovviamente, e questa fu la prima volta in cui percepii la vera importanza di intervenire nello spazio attraverso l’opera. Ho capito quale fosse l’essenza della dimensione dell’arte ambientale e dove conduce l’arte contemporanea, ovvero una riϔlessione sullo spazio. Ho realizzato la differenza tra l’installazione, un uso dello spazio non soltanto estetico ma è necessario inserire gli elementi spaziali nel lavoro, e allestimento, ovvero parte decorativa e visivamente gradevole. Tutto questo si riϔlette nelle scelte progettuali, le quali vertono sullo spazio speciϔico di una determinata galleria, museo o stanza. Esistono vari livelli che ispirano il mio processo creativo, il primo è il dato emozionale e del vissuto, quindi la carica emotiva di un ricordo, trauma o di un desiderio; il secondo punto è la traduzione di questo elemento emotivo in un linguaggio, ovvero il linguaggio dell’opera, necessario per esprimerla al meglio; il terzo livello riguarda il tipo di spazio che accoglierà il mio lavoro, quindi trasformazione che subirà. Mi è capitato di trovare la soluzione deϔinitiva grazie allo spazio presente e questo è successo in tutte le mie mostre. Al PAC di Milano è stata fondamentale questa questione e qui risiede la differenza tra la pratica e la teoria, è nel momento della realizzazione che ti rendi conto di aver attraversato il ϔiume e raggiunto il la “riva”. Non è solo lo spazio a condizionare l’opera ma anche l’energia mentale e ϔisica del pubblico, a volte la performance non riesce proprio per la mancanza dell’energia adeguata. Nel 2019 al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea – di Milano viene allestita la personale antologica “Cesare Viel. Più nessuno da nessuna parte”, con la realizzazione del catalogo curato da Diego Sileo e pubblicato da Silvana Editoriale. Performance e installazioni ambientali permettono a Viel di indagare i meccanismi attraverso i quali l’identità si costruisce e si decostruisce, rivelando-

si come luogo che conserva le tracce di ogni passaggio. La mostra presenta lavori inediti e nuove versioni di installazioni e performance storiche, realizzate dall’artista in dialogo con l’architettura del PAC. I luoghi dell’assenza evocati dal titolo rivelano silenziose e spesso fantasmatiche presenze che afϐiorano dal vissuto dell’artista in un racconto costantemente rideϐinito dalla relazione con i fatti della storia recente, le convenzioni sociali, i pensieri e le parole degli autori o degli artisti prediletti, la vicinanza o la lontananza delle persone amate.

Cesare Viel

Protagonista del Gruppo Oreste e di “Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?”, Cesare Viel, attivo ϔin dagli anni ‘80, racconta il suo “fare arte” ripercorrendo lo spazio della memoria.

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Gli artisti che mi hanno aiutato a capire cosa mi interessasse nell’arte sono Luciano Fabro, in particolare il lavoro che si intitola “Tautologia”; è un lavoro che non ho ammirato dal vivo ma in una fotograϔia facente parte di un libro, “Attaccapanni”, scritto dallo stesso Fabro. L’opera consisteva nel pulire un pavimento e disporre dei fogli di giornale a terra e lasciare questo gesto come autonomo e sufϔiciente per l’installazione. Di questo lavoro rimaneva una fotograϔia del pavimento lucido e una porzione centrale coperta da fogli di giornale aperti, per tutelare la pulizia. L’artista affermò che gli rievocava il gesto donne che lucidavano il pavimento e lo coprivano perchè i passanti non rovinassero la pulizia. “Tautologia” mi ha aperto molte strade tra cui la relazione con lo spazio e la fragilità del lavoro, elemento importante dell’arte del ventesimo secolo. Altri fattori chiave di quest’opera sono la relazione e la memoria, livelli diversi che si intrecciano, una dimensione fortemente concettuale che invita ad osservare ciò che non sembra da subito arte o che non sembra sia sufϔiciente per essere considerata tale. Un altro artista per me rilevante, uno dei pionieri dell’arte astratta e della pittura analitica, è stato Ad Reinhardt con i suoi grandi lavori monocromi neri, nei quali avviene un azzeramento dell’operazione pittorica. Forte è la componente tautologica nel quadro di Rainhardt che genera molte riϔlessioni. Performance, travestimento, trasformazioni, trucco, recite o canzoni: addentrandosi in altri corpi e altre storie, Viel immagina forme di soggettività altre che interpretano l’arte come momento di scambio emozionale e di relazione con la collettività. La poetica di Cesare Viel è incentrata sui temi della relazione e della comunicazione, dell’identità di genere e del rapporto tra il linguaggio e le immagini. Si serve del linguaggio della comunicazione di massa e di quello proveniente dalla letteratura come serbatoi di immagini ed emozioni da cui attingere per elaborare in


Cesare Viel

un scambio inϐinito tra l’arte, la realtà e la relazione col pubblico.

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Il dato emotivo è molto importante ma allo stesso tempo è necessario raggiungere un equilibrio, quando l’emozione diventa un elemento ridondante o è troppo soggettiva è utile fermarsi. Bisogna tenere conto della costruzione di un linguaggio formale che vive di controllo e disciplina, di conseguenza anche l’emozione può essere controllata altrimenti il rischio è quello di causare “sterilità”. È proprio questa la forte differenza tra arte e vita: permettere all’opera di non essere solo tua ma di aprirsi anche alla soggettività altrui. Bisogna inserire il lavoro all’interno di una cornice e nell’arte contemporanea è un elemento sempre presente, anche se invisibile e non la chiamiamo più cornice ma installazione. Nel museo non sei nella vita di tutti i giorni, esiste un linguaggio che prevede delle regole e il dato emotivo deve entrare in dialogo non solo con l’emozione privata ma anche con i lavori artistici che hanno costruito un linguaggio formale. E questo linguaggio modiϔica per forza il punto di partenza del dato emotivo, che non devo rimuovere. Sono tutti elementi che non sono solo emotivi ma fanno parte di una collettività ed è proprio questo che permette all’arte di diventare un atto pubblico e non rimanere privato. Per esempio la teoria sulla “forma signiϔicante” di Clive Bell vale anche per l’arte concettuale e la grammatica formale, in quanto mi emoziono anche per la soluzione formale adottata dall’artista per tradurre un’emozione. La forma è emozione! In un’opera di Picasso o Van Gogh ti emozionano elementi che non sono solo emotivi ma anche formali, come la scelta della disposizione o del colore Nel 1997 è tra gli organizzatori del convegno, al Link di Bologna, sulle nuove ricerche artistiche italiane “Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?” e nel 1999 ha partecipato al progetto Oreste in occasione della 48ª Biennale di Venezia, grazie all’invito ricevuto dal curatore Harald Szeemann. È stato un percorso collettivo molto importante, eravamo una generazione di artisti degli anni ‘90 che poneva attenzione, in modo diverso e personale, all’arte relazionale. Tutti i componenti erano interessati a creare un “network” per socializzare, un modo per cercare di capire come far socializzare una ricerca in atto in un contesto ancora isolato. In Italia esisteva meno pluralità e quello che cercavamo di ricostruire era un desiderio di riattivare delle attitudini già messe in atto dalle neoavanguardie degli anni ‘60 e ‘70 e, successivamente, state offuscate dall’arte tradizionale rispolverata negli anni ‘80. Il nostro è stato un riaggancio all’arte concettuale, una volontà di far rivivere l’atmosfera di un’arte non tanto legata alla tradizione ma che rimettesse in gioco questioni come processualità, performatività e relazionalità. In quella situazione non avevamo ancora deϔinito la nostra arte come relazionale, ma l’elemento relazionale era insito nella nostra modalità operativa. Poi nacque il testo “Estetica relazionale” di Nicolas Bourriaud, il

Cesare Viel, “To the Lighthouse. Cesare Viel as Virginia Woolf”, 2004-2005

quale presentava l’arte relazionale internazionale e non italiana, perché l’Italia ha sempre avuto una debolezza nel contemporaneo ed è sempre stata estranea a livello antropologico culturale, ponendo delle resistenze nei confronti dell’arte contemporanea. Ora è diverso, è tutto più ϔluido, più liquido e queste differenze sono più morbide, ma negli anni ‘90 si intravedeva ancora la rigidità del XX secolo. Il titolo del convegno di Bologna, “Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?” è nato per mettere in gioco la retorica della madre che chiedo al ϔiglio, incerto per il futuro, cosa farà da grande, tipico del rapporto, soprattutto italiano, madre e ϔiglio. In quell’epoca fare l’artista, e di quel genere, era preoccupante perché non c’era visibilità istituzionale. Il convegno ha messo in luce l’attitudine collettiva artistica italiana, utile per comprendere questioni professionali, metodologiche, artistico-culturali di primaria importanza. Il nostro premio è stata la partecipazione alla Biennale di Venezia, grazie all’invito del curatore Harald Szeemann, il quale nel 1969 a Berna ha curato la mostra “When Attitudes Become Form”. Szeemann è stato fondamentale per l’arte della seconda metà del Novecento, ha colto a pieno questa dimensione relazionale e processuale, elemento


dei materiali. Per esempio io utilizzo il ϔieno, la carta, quindi materiali che sono fragili, anche la relazione e la performance, ma soprattutto la parola, un elemento molto complesso e immateriale, ma allo stesso tempo fortemente ϔisico. La parola da me utilizzata ha una ϔisicità non monumentale, ho scelto volontariamente di non farla diventare tale, perché mi interessa la forma ma senza irrigidirla e questo apre il tema della “durevolezza”, quello che resta e quello che non resta, tema fondamentale nell’arte. Il problema della precarietà dell’arte c’è sempre stato, l’arte precedente utilizzava materiali apparentemente durevoli, ma che necessitano comunque di un restauro. L’eternità dell’arte non è una realtà assodata e speciϔica, è un’illusione ed è un problema epocale che con la digitalizzazione si è espanso. La precarietà che ricercavo negli anni ‘90 era per me una risorsa, mentre ora è diventa quasi una minaccia all’interno del lavoro perché tutto può svanire facilmente. Chissà cosa resterà di tutti questi lavori digitali... Paradossalmente, l’arte per me è ancora salviϔica perché, nonostante tutto, mi accorgo che l’arte concettuale è più materiale del digitale contemporaneo; ha una sua ϔisicità e presenza nello spazio che è importantissima. Certo, sono consapevole che la performance sia indeterminata ma si realizza in un momento presente speciϔico con un pubblico presente, perciò conta il momento, ovvero la faccia reale della realtà e non quella illusoria. Quello che appariva illusorio e imprendibile ora lo vedo come elemento fortemente materico.

Cesare Viel, “Lost in Meditation”, 2019

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caratteristico culturale che permeava l’Europa. Non è un caso sia stato proprio lui ad ospitarci, ci ha offerto una stanza dove poter creare ed è nato il “Gruppo Oreste”. A Venezia non abbiamo esposto opere ma, nei tre mesi di Biennale, abbiamo tenuto conferenze e incontri pubblici, era diventata una stanza aperta alla socializzazione, in questo senso è stato il trionfo dell’arte relazionale. Nello spazio dedicato c’era un bar, dei tavoli e delle sedie, ed era previsto un programma di incontri aperti al pubblico, il nostro intento non era presentare la nostra ricerca, ma di raccontare un movimento teorico comunicativo in atto. Ognuno ha continuato per la sua strada, eravamo molto consapevoli, grazie alla memoria storica, di essere destinati alla disaggregazione, un vero e proprio dispositivo relazionale. Ci sono dei momenti dove l’insieme o si allarga o si dissipa, ci si riunisce e poi ci si separa. Ogni artista continua col suo lavoro facendo tesoro dell’esperienza fatta, anche se in modo diverso ognuno di noi ha la consapevolezza che essere artista vuol dire anche lasciare una parte della ricerca aperta all’imprevisto e alle varianti della relazione. È evidente quali siano gli artisti ad avere questa attitudine, la formalizzazione di artisti che hanno avuto esperienza di arte relazionale realizzano “opere aperte”. Risiede una differenza forte tra gli anni ‘90 e gli anni ‘70: da subito noi siamo partiti consapevoli di non essere un movimento di emancipazione collettiva ideologicamente forte, ma piuttosto individui un po’ dispersi e la componente della “frantumazione” del sé era già presente in noi prima ancora di riunirci. I lavori di tutti i componenti del gruppo sono caratterizzati da una fragilità insita e lo si vede nell’uso

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extrarte

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Parentesi Contemporanea

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A seguito della pandemia di Covid19 diffusasi dall’inizio dell’anno, le contromisure adottate dai vari Paesi colpiti hanno avuto un forte impatto sulle menti della popolazione, ma probabilmente è lo stadio ϐinale di quello che già si stava palesando in altre forme: una società passiva e standardizzata, nella quale la “mascherina” è solo la dimensione empirica della paura e della difϐidenza nel prossimo. La sensazione di “sporcizia” persiste alla pulizia totale del corpo, manifestando l’insicurezza insita nella normalità della vita quotidiana assoggettata a un nemico invisibile; normalità mantenuta a fatica dalle quattro mura che ci proteggono. Questo momento storico ha messo in luce la nostra fragilità e scardinato quell’immagine antropocentrica che ci siamo costruiti nel corso dei secoli. In queste settimane, ormai mesi, la nostra pazienza è stata messa alla prova, menti e corpi abituati ad alti ritmi di attività e non soliti a pensare o a prendersi una pausa dalla produzione imposta dalla quotidianità. La parola “libertà” è un concetto molto delicato che risiede su una linea sottile. Le attuali generazioni sono nate libere di fare, di pensare, di dire e di agire e forse proprio per ciò, non avendo limiti, non comprendono il valore di queste, ϐino a quando qualcosa di invisibile le nega. Si riaccende così il desiderio, e si riconsiderano in una prospettiva nuova tutte le libertà che precedentemente si davano

per scontate. L’oggetto di questo desiderio sono diritti quali la possibilità di uscire e di incontrarsi con altre persone, di viaggiare senza limite di conϐine, di praticare sport o andare a un concerto, in generale tutte quelle libertà legate alla sfera sociale. Seduti comodamente sulle nostre poltrone inneggiamo ai nostri diritti, ormai è diventata una caccia al colpevole, siamo sempre alla ricerca di qualcuno da stigmatizzare e alla ricerca del “buono” e “cattivo”. Questo distanziamento sociale cambierà gli individui? Quali saranno le priorità della vita? O semplicemente la divisione diverrà più netta e l’individualismo e la separazioni in classi sociali saranno decisive? Martina Chiarini


Giunta al termine di questo percorso accademico, mi sento in dovere di dire “Grazie!”. In primis “Grazie!” al mio Docente Relatore e Artista Cesare Viel per questi tre anni di ragionamenti, messe in discussione, sollecitazioni mentali e tanti sorrisi. Non scorderò mai la prima lezione: entrai in classe e rimasi folgorata, mai una critica verso le nostre considerazioni, ma porte che si aprono e si socchiudono. Da quel giorno ho imparato a non accontentarmi, a non rimanere statica ma a districarmi e smuovere continuamente il pentolone per scoprire sfumature sempre più affascinanti. Per la prima volta non ho avuto timore di esprimermi, anzi ero desiderosa di un ulteriore confronto. Alla Professoressa e Correlatrice Emilia Marasco, “Grazie!” per il sostegno e la ϐiducia che ripone verso i ragazzi dell’Accademia, il viso sempre rassicurante e sognatore; ϐin da subito ho sentito di poter togliere il freno alla mano destra e scrivere, scrivere senza pensare al dopo. Ed ora ho un taccuino dove imprimo tutti i miei pensieri, gioie e dolori. Ai miei genitori, “Grazie!”. Madre, grazie per l’educazione e per la libertà lasciatami durante la crescita, dopotutto non sono cresciuta così male! Grazie per esserti privata di molto e per avermi restituito l’immenso. “When I look and I ϐind I still love you...”. Padre, grazie per avermi trasmesso l’estro artistico e l’amore per la scrittura; una scrittura non leggera o delicata ma vera e pura. Siamo molto simili e questo a volte crea un muro invalicabile, ma quando riesco a vedere oltre è rassicurante. “Grazie!” alle mie nonne Renata e Maria, senza di voi tutto ciò non sarebbe potuto accadere...letteralmente! Nonna Mary, sei una donna forte e “robusta”, nonostante la tua statura, e sei un esempio per molti di noi. Chiudo gli occhi e sono nel lettone con te, mano per mano, che mi racconti la favola della buonanotte. Nonna Renèe, non puoi esserci in questo giorno ma so che saresti ϐiera di me e piangeresti tantissimo, al pari delle serate all’insegna di “Ghost” o “Pretty Woman”. “Grazie!” ai miei zii, siete stati un esempio per me di impegno e dedizione allo studio. Un sorriso si palesa nel ricordo di una bambina cicciottella che balla in salotto; un atto performativo con un pubblico di giovani obbligati a guardarmi. “Picking slowly up the rockslide, one thing always seems apparent, if the climb becomes too much, I can always turn around...”. “Grazie!” alla mia famiglia acquisita, soprattutto grazie a Gianni e Rosangela per avermi accolto come una ϐiglia, per avermi insegnato quello che ancora non sapevo e per avermi mostrato che la vita può essere meravigliosa, basta un sorriso! “Grazie!” alla Pollo, migliore amica di sempre e da sempre! A differenza di tante altre mi hai accettata per come sono, non hai cercato di cambiarmi ma di alleggerirmi. Fai parte, e continuerai a farlo, dei miei sorrisi e aneddoti esilaranti. Per sempre due ragazzine sedute alla ϐinestra mentre ascoltano “Rebel Rebel” e si interrogano sul futuro ammirando la vasta campagna della bassa mantovana. “Grazie!” a Giulia e Ilaria, per le ballate in discoteca, i tantissimi caffè consumati nei carruggi, i pianti, le favolose giornate trascorse a Camogli all’insegna di focaccia, “camogliesi”, feste in casa, e la scalinata...come dimenticarla?! “Grazie!” ad Aurora, compagna di Accademia, compagna di studi, di ansie e di insulti. Mi ha spronata a fare sempre di meglio e a non accontentarmi del primo risultato. Un’amica che mi ha ascoltata, mi ha rassicurata nei periodi bui e si è lasciata guidare dai miei anni in più, nonché membro dello stesso collettivo artistico che spero ci possa regalare tante gioie. Sei una persona molto curiosa e vogliosa di sapere, e questo ti porterà lontano. “Grazie!” alle nuove amicizie costruite in questi ultimi anni genovesi, ai sorrisi spontanei, alle cene, alle bevute, alle improvvisate, alle mangiate di Sushi, alle sudate in palestra e agli abbracci sul campo. Ed ora è il tuo turno, caro Luca, moroso e futuro marito. “Grazie!” perché hai scelto me, tra i miei silenzi e attraverso questo sguardo melanconico sei riuscito a scoprire un’energia mai espressa. Hai comprato tutto il pacchetto e hai cominciato a scartarlo piano piano facendo attenzione a non ferirmi e a non tralasciare i piccoli dettagli. Inϐine vorrei dire “Grazie!” a me stessa, per non aver rinunciato per l’ennesima volta a un desiderio. Non è stato facile convincermi di essere all’altezza, di buttarmi in qualcosa di nuovo e invece eccomi qui, e non è ancora ϐinita. Spesso si ripresenta quella vocina noiosa che cerca di mettere i bastoni tra le ruote, ma non mi tirerò indietro perché, giunta a trent’anni, ho ϐinalmente capito di dover guardare avanti! Mi volto e vedo una ragazzina di campagna tracagnotta, timorosa e con lo sguardo basso, e vorrei tanto ma tanto convincerla che la vita non è solo negativa. Cambiando la prospettiva, riprendo possesso di me stessa e sorrido curiosa ed eccitata per il futuro!

Grazie

Grazie...

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Bibliograϐia

BIBLIOGRAFIA

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- Critica d’arte - Arte - ArteDossier - Zero

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Accademia Ligustica di Belle Arti Dipartimento di Comunicazione e Didattica dell’Arte Corso di Didattica dell’Arte Rivista MUSA, Arte Relazionale Docente di indirizzo e Relatore Cesare Viel Correlatore Emilia Marasco Martina Chiarini AA 2019/2020


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