appartenènza
s. f. [der. di appartenere; nel sign. concr., dal lat. mediev. appertinentia]. – 1. a. L’appartenere, il fatto di appartenere: l’a. a un partito politico, a un gruppo, a una classe sociale.
Non posso non ringraziare i miei genitori e mio fratello, perché mi hanno sopportato e supportato in questi anni e come non mai in questi mesi. In particolare mia madre, condizione essenziale di questo percorso, e non solo, mia sostenitrice, l’altra metà di me. Infinitamente grazie ai miei nonni che da sempre sono stati fonte d’ispirazione. Ma chi mi ha sopportato di più è stato indubbiamente Francesco, capace di calmarmi quando l’ansia prendeva il sopravvento, quindi Grazie. Grazie alla mia relatrice, la Prof.ssa Cristina Cacioli, sempre prodiga di consigli e di indicazioni. Grazie anche a tutti gli amici e i colleghi che mi sono stati vicini in questi anni, in particolare a Michele amico e collega sincero. Se riuscirò a laurearmi, sarà in parte anche grazie a loro.
LABA
Libera Accademia di Belle Arti Diploma di Primo Livello in Fashion Design
Titolo:
Appartenenza
Relatore: Chiar.mo Prof.ssa Cristina Cacioli Diplomando: Federica Giordano Matricola: 1871FI
anno accademico 2018/2019
Indice “Appartenenza” Introduzione
12
-Il pezzo unico prodotto in serie
13
1.Appartenenza al Territorio
15
1.1-Aigner: binomio perfetto
16
1.2- Cuore italiano
18
1.3-L’etnico incontra il made in Italy
20
1.4-Alanui: il lungo percorso
22
1.5-Regina della moda italiana: la Toscana
24
2.Artigianalità
28
2.1-L’arte del protègè
30
2.2-Manualità tecnica, punto cardine nell’artigianato
32
2.3-Attrezzi e utensili
32
2.4-Forza e resistenza fisica
32
2.5-Orientamento al cliente
32
2.6-Artigianato Artistico
34
2.7-L’artigianato è il vero lusso
36
3.Artigiani e innovazione, anatomia di un matrimonio ancora difficile
38
3.1-Dall’Internet delle cose all’Internet del fare: il valore dei Social Media per gli artigiani
40
4.Linfa al Rinascimento Digitale
44
4.1-Makers, artigiani digitali
47
4.2-Riciclare per il pianeta
48
4.3-Open source
49
5.Le Botteghe negli anni 20 del secondo Millennio
50
5.1-Botteghe Digitali: Il progetto e l’esperienza
52
5.2-Trasformazione delle aziende artigiane in Botteghe Digitali
52
5.3-Evoluzione del prodotto
52
5.4-Organizzazione interna
53
5.5-Strategia e gestione delle risorse umane
53
5.6-Digital marketing e imprese artigiane
53
5.7-Aspetti finanziari
54
5.8-Trasformazione digitale
54
6.L’evoluzione dell’accessorio
56
7.Cappelli: dagli antichi alla costumizazzione
58
7.1-Guifriday di Fabio Giuffrida
60
8.Borse: l’artigianato Made in Italy e la contaminazion
70
8.1-La Borsa Nella Storia Del Costume
72
8.2-Il Medioevo
74
8.3-Il Duecento
74
8.4-Il Cinquecento
74
8.5-Il Seicento
76
8.6-Il Settecento
76
8.7-L’ottocento
78
8.8-Il Novecento
79
8.9-Amanti di Filomena Manti
85
9.Scarpe: il ritorno alla necessità
90
9.1-Il tacco come Status Symbol
92
9.2-Le scarpe nella moda
95
9.3-Daniele Ancarani
97
10.Iris Apfel
104
10.1-Il bello di essere e appartenere
104
11 Look Book
106
11.1- appartenènza
108
Copenaghen
112
Shenzen
114
CDMX
116
appartenènza s. f. [der. di appartenere; nel sign. concr., dal lat. mediev. appertinentia]. – 1. a. L’appartenere, il fatto di appartenere: l’a. a un partito politico, a un gruppo, a una classe sociale. b. Ciò che appartiene, spettanza, proprietà: prese tutto ciò che era di sua appartenenza. c. Con senso concr. (oggi poco com.), ciò che ha relazione con, o che è proprio di qualche cosa; pertinenza, accessorio, attribuzione: vendette la villa con tutte le sue a.; l’appartenenze che si richieggono al ben recitare d’una commedia (Lasca); converrà ch’io sappia mille sottilissimi segreti del cuoio, delle suole, degli spaghi ... e di tante altre a. del suo mestiere (G. Gozzi). 2. a. In geometria, relazioni di a., le relazioni che si esprimono in frasi del tipo: «giacere su una retta o su un piano», «passare per un punto, o per una retta», e che hanno pertanto carattere grafico. b. Nella teoria degli insiemi e in logica matematica si dice che un oggetto a appartiene all’insieme I se a è un elemento di I: in questo caso si dice che tra a e I sussiste una relazione d’a., relazione che viene denotata con il simbolo є (stilizzazione della lettera greca E); per es., a є I («a appartiene a I»). Per indicare che a non appartiene a I si scrive invece a є I.
Introduzione
12
Il pezzo unico prodotto in serie
La società di oggi sta esplorando cosa significa essere umani nell’era digitale. Si cerca di trovare il modo di coltivare la propria creatività, connettendosi con il nucleo spirituale di ognuno. Pensare attraverso i nostri sensi e sentire con il nostro cuore. Raddoppiare la nostra umanità sarà la sfida più importante del 21 ° secolo. Mentre riscopriamo il sé umano e cerchiamo una soluzione, abbracciamo il tecno-ottimismo. Trovare il nostro livello umano non significa rifiutare tutto ciò che la tecnologia ha da offrire; piuttosto, si tratta di vivere insieme la nostra migliore vita. Mettendo in primo piano il nostro benessere digitale e focalizzato la nostra attenzione sulla cura della mente e dell’anima. Mentre miriamo ad amplificare la pura umanità, è diventato evidente che gli artigiani e gli esperti del commercio sono diventati una merce. Ci sono più lavori commerciali che le persone li riempiono, questo è un problema crescente. Nuovi programmi di apprendistato con marchi di lusso e investimenti nel rebranding della fornitura di istruzione professionale e industrie artigianali. Prodotti, esperienze e sempre tecnologie che promuovono l’essere umano, oltre al solo visivo e cerebrale, sono molto importanti per il nostro futuro. L’artigianale e il tecnologico, il pezzo unico prodotto in serie. Mondi contrapposti che mai come oggi cercano un punto di contatto, quasi a cercare un incontro ravvicinato tra l’artista e l’industria. Una tendenza che presenta i frutti virtuosi di abilità artigianali e delle tecnologie industriali più avanzate. Domina la cultura del dettaglio, al pari della cultura del fatto ad’arte, sempre con un orientamento verso la ricerca e l’innovazione. Un trend che da nuova vita ad un artigianato a rischio d’estinzione, visto come rinnovamento piuttosto che come ritorno nostalgico. Da qui la tendenza verso lo sviluppo di nuove percezioni e visioni da parte delle grandi Case di moda, dove sono in evidenza lavorazioni sofisticate, apparentemente r ealizzate a mano, che l’industria ha metabolizzato e fatte proprie.
13
14
1.Appartenenza al Territorio
15
1.1Aigner: binomio perfetto
Conoscenza, libertà e felicità – il distacco dall‘oscurità del Medioevo con lo sguardo rivolto a un futuro pieno di luce e fondato sul progresso. Queste le idee chiave su cui si fondava l‘Illuminismo, che Aigner reinterpreta attraverso un affascinante mix di linee e forme pulite, con ricchi dettagli a contrasto, decori e texture a strati. Il focus principale di Aigner è posto come sempre sulle borse. C’è quindi aria di rinnovamento stilistico per la griffe tedesca, guidata dalla creatività di Christina Beck, che interpreta gli accessori con spirito artigianale. Voltare pagina aprendo le porte al futuro, senza chiedere al passato lo stilista Christian Beck con la collezione PE 2020 Divene, presentata durante a MFW di settembre, dà il via al nuovo corso di Aigner, sottolineando che c’è una continuità con la collezione AI19-20. “Mi piace evolvere lo stile. Seguo il DNA della griffe, ma aggiornando la collezione. L’idea di contemporaneità è ben espressa dall’attenzione alla sostenibilità. Altra. Differenza con le stagioni precedenti, i pellami e i tessuti tradizionali - spiega, alludendo agli accessori, highlight di Aigner da sempre- Ci sono borse in canvan e juta, di pelle di vacchetta e di pelle martellata , finish metallizzati, dettagli tartaruga e di coccodrillo. L’artigianalità è evidente in ogni pezzo”. Rispondono alla chiamata la nuova it-bag della collezione Siena, dall’innovativa chiusura triangolare a doppia vite e i manici ispirati a una valigia degli anni Sessanta, e la signature bag Cybill con logo trapuntato con l’effetto 3D. Oppure la serie Monaco, che riprende lo stile delle salde bag , con cuciture a mano che saltano la tradizione manifatturiera italiana. E ancora la tote bag Artigina, riedizione di un best seller della Maison, e la linea Vicenza, con i manici a catena. “Per me questa collezione non è stagionale. Voglio che le donne indossino i nostri accessori per anni”.
16
17
1.2 Cuore Italiano
Finissaggi artigianali che valorizzano la matematicità della pelle. E un colore, il verde foresta, che diventa la nuova password per borse che identificano la natura del brand di appartenenza. Lavorare la pelle con passione, creatività e abilità è una nuova caratteristica tutta Italiana, fondata sulle tradizioni artigianali dei distretti, centri pulsanti del made in Italy. Non stupisce, quindi che dietro la nascita e l’affermazione di un brand ci siano storie personali, incontri insoliti, intrecci casuali. Così succede, per esempio, che Marco Campomaggi, mente creativa e manageriale dell’azienda di San Carlo di Cesena che porta il suo cognome, nella prima metà degli anni Ottanta abbia cominciato studente, quasi per gioco, insieme A Caterina Lucchi (diventata poi sua moglie e designer dell’omonimo brand) a realizzare borse di cuoio apparse subito ricche di personalità. Da lì, negli anni, viene aperta la strada verso uno stile originale, immediatamente, con ben il 74% della produzione indirizzata oggi ai mercati esteri. A Vicenza, invece, Franco Zanellato ha convogliato tutte le sue energie verso tre modelli di borse - la Postina, la Nina e la Duo - che, via via dal Duemila ad oggi, sono diventati iconici, mettendo grande impegno anche nella ricerca di pellami esclusivi, come Pura, la prima pelle al mondo naturalmente bianca. Infine, la filosofia de : si identifica con lo stile di vita del suo estroso fondatore, Wanny Di Filippo, fiorentino doc che, dagli anni Settanta, progetta nel cuore di Firenze, a Palazzo Corsini, creazioni di pelletteria che raggiungono tutto il mondo, in particolare il Giappone, con il loro stile inconfondibile.
18
19
1.3 L’etnico che raggiunge il made in Italy
Erla Gazine è una giovane donna con la quale si entra subito in empatia. Perché dietro lo sguardo intenso e il sorriso affabile, nasconde un’intelligenza vivace. “dentro di me c’è ancora la ragazza che ero, c’è la mamma che sono. Una donna molto sensibile, sempre attenta alle proprie origini”, tiene a sottolineare, mettendo poi l’accento su “suo” Mozambico, la terra natale che ha sempre nel cuore, benché abbiamo iniziato a viaggiare a vent’anni, per poi mettere le sue seconde radici nel paese che l’ha maggiormente affascinata per la ricchezza di storia, arte e bellezza, l’Italia, e dal 2007 Milano, la città della moda. “Io appartengo al mondo, il mio spirito è libero”, questo il mantra che l’ha portata a fare scelte nelle quali vanno di pari passo la ricerca del bello e la voglia di fare del bene, come con il progetto “I bambini aiutano i bambini” destinato al sostegno dei più piccoli meno fortunati. Nel 2017 con la sua esuberanza creativa risponde alla sfida dei suoi sogni con un progetto importante, disegnare una linea di scarpe dalla forte dose di femminilità alla quale dà il suo nome, Erla. Lo studio di un tacco svettante a “piramide scalinata” e la presenza del serpente, simbolo di rinascita, rendono la sua estetica immediatamente riconoscibile. I sandali “made to order” con le piume ed i ricami di Swarovski o decolletèe di raso di seta sono un esplosione di sensualità, ma anche un capolavori di artigianalità, perché realizzate a mano nella Marche, in laboratori specializzati dove regna il made in Italy. Per ora vendute solo online, me nei piani c’è l’obbiettivo di entrare nei migliori store internazionali, le calzature sono presentate in un’elegante scatola nera a forma di baule con un piccolo cadeau: un sacchetto con il “Profumo per scarpe Erla”.
20
21
1.4 Alanui: il lungo percorso
Il viaggio. La libertà di scoprire nuovi mondi, lontani ma anche interiori. Sono questi i temi trainanti di Alanui. Alanui è un marchio giovane, ma i due fondatori, Carlotta e Nicolò Oddi, hanno dimostrato da subito di avere le idee molto chiare. I loro capi sono coloratissimi mix di emozioni ed esperienze, le più svariate, acquisite nei luoghi più remoti, come in quelli più intimi dell’anima. In ogni sfilata il brand racconta una storia, una storia di viaggi, una storia di libertà, una storia di sensazioni. E la storia di Alanui comincia con un regalo. Nicolò regala a Carlotta un cardigan che ha trovato: è senza bottoni, bordato da una fitta frangia e completato da una cintura bicolore. Questo capo è lo spunto che dà avvio alla prima collezione; pezzo dopo pezzo i due fratelli Oddi creano un loro stile immediatamente riconoscibile. Le loro collezioni sono sempre all’insegna della fantasia più scalmanata e dell’innovazione più ricercata. I capi sono estremamente colorati e caratterizzanti, ma tutti sprigionano quell’idea di libertà e quel desiderio di scoperta che sono alla base del brand. E i capi sono quasi completamente unisex. Le variazioni riguardano solo il colore, il pattern, il materiale. Gli accostamenti sono spesso insoliti, ma i materiali sono sempre selezionatissimi e la loro lavorazione è curata fino all’ultimo dettaglio. Un prodotto interpretato come una grande e preziosa tela, totalmente made in Toscana (per un mercato di vendita per l’ 80% all’estero), che richiede fino a 15 ore di lavoro per un articolo che è esattamente l’opposto della moda usa e getta perché «è un capo che più lo si usa, più fa parte della vita» La storia che Alanui racconta attraversa i luoghi più lontani ed esotici, narra di viaggiatori impavidi, solitari, ma anche passionali, curiosi… i capi di Alanui si differenziano l’uno dall’altro, ma solo come capitoli che compongono un grande romanzo. Il mood ethnochic si accompagna a un immaginario onirico, ma sempre reinterpretato con un linguaggio estremamente giovane e dinamico. Carlotta e Nicolò hanno studiato ogni singolo dettaglio affinchè tutto questo arrivasse in modo trasparente al pubblico, a cominciare dal simbolo stesso di Alanui. Sull’etichetta di ogni abito, infatti, campeggia una medaglia che raffigura un surfista e San Cristoforo, protettore dei viaggiatori. Si tratta di un simbolo che rappresenta l’essenza del brand, ma che, allo stesso tempo, funge da talismano per i “viaggiatori” di ogni tipo che indossano i capi del marchio. È per questo che Alanui non crea solo abiti. Vuole realizzare cimeli, oggetti che rimangano come conglomerati di memoria, elementi preziosi da tramandare insieme al patrimonio di sensazioni e ricordi che racchiudono. È questa la ragione per cui ogni singolo dettaglio, curato da Carlotta e Nicolò, ha un significato ben preciso, non è mai posto a caso e va interpretato. Tra le fonti d’ispirazione, sicuramente privilegiato è il continente americano, ma quella che Alanui rappresenta è soprattutto l’America delle praterie sterminate, un continente immenso e libero, una natura nella quale l’uomo non è ancora intervenuto e dove il viaggiatore può sentirsi libero e a casa.
22
23
1.5 Regina della moda italiana: la Toscana Nell’ambito dell’industria manifatturiera, i settori moda coprono quasi il 40% degli addetti e realizzano un valore aggiunto che supera 5,5 miliardi di euro. Nessuna altra regione raggiunge valori così alti: la Toscana è la regione della moda. Un dato di fatto confermato anche dalle esportazioni che, nel 2019, si stima abbiano superato i 15 miliardi, ponendo la Toscana in testa in Italia per l’export, superando in valore assoluto anche la Lombardia. Posizione confermata anche rispetto al peso dell’occupazione nei settori moda, ben superiore a quello delle altre regioni. Dall’analisi emerge la capacità del sistema toscano di reagire alla globalizzazione e il suo fondamentale contributo alla ripresa dell’economia regionale post recessione. Il traino alla crescita è arrivato dall’export, quota rilevante del sistema. I settori con le maggiori criticità sono stati quelli più in difficoltà a riposizionarsi sui mercati esteri, come tessile e calzature. Il successo degli ultimi anni, in termini di esportazioni e addetti, è da attribuire alla filiera della pelletteria.In prospettiva, il recupero di competitività delle produzioni più arretrate e il consolidamento di quelle più dinamiche passa attraverso l’adozione di tecnologie e pratiche gestionali legate al paradigma Industria 4.0. Attualmente, le imprese della moda appaiono effettivamente in ritardo rispetto agli altri settori. Una discriminante, in tal senso, è data dalle dimensioni, con le realtà più grandi caratterizzate da livelli di digitalizzazione comparabili a quelli di aziende di alta tecnologia. L’economia toscana legata al manifatturiero è fortemente specializzata nelle produzioni del settore moda. Nel 2017 il peso di queste produzioni nell’export ha toccato il 39,1%, quasi il doppio rispetto al Veneto (20,1%) e quattro volte rispetto alla Lombardia (11,9%). Tessile, abbigliamento, pelletteria e calzature costituiscono in termini di valore aggiunto il 5,2% dell’economia regionale e il 29,5% della sua componente manifatturiera. Il peso del sistema moda toscano su quello nazionale in termini di valore aggiunto è del 22,1% (Lombardia 23%, Veneto 16,3%). In termini di addetti sul totale nazionale, la Toscana ha il peso maggiore con il 22,8% (Lombardia 19,7%, Veneto 15,5%). Da evidenziare che il peso degli addetti dei settori cuoio e pelletteria in Toscana tocca il 46,3% (Lombardia 9,6%, Veneto 21,5%). Anche in termini di distretti industriali è evidente l’importanza della moda per la Toscana: su 15 totali, 10 sono specializzati nel comparto (in Lombardia 8 su 29, in Veneto 8 su 28). Sistema che trae buona parte dei propri ricavi dalle vendite all’estero, dato che il 47% della produzione regionale è destinata all’export (53,7% Lombardia, 50,7% Veneto). Restando all’export, interessante segnalare come questo sia cresciuto a un tasso debole nel periodo 2000-2007 (18,5%) rispetto alle altre due regioni (36,9% Lombardia, 34,2% Veneto); diverso il caso del periodo 2007-2017, dove l’export toscano è cresciuto più rapidamente (27,8%) rispetto a Lombardia (18,5%) e Veneto (22,2%). Nel confronto con Lombardia e Veneto l’andamento dei redditi da lavoro dipendente per ore lavorate è stato meno accentuato. In confronto con gli altri settori economici toscani, e in particolare con la manifattura nel suo insieme, la moda si è mossa in linea con il resto del sistema.
24
In Italia, nel 2016, la moda occupa quasi 500mila addetti, il 13,2% dell’intero settore manifatturiero; poco meno di un quarto (23%) si trovano in Toscana, il 19,7% in Lombardia e il 15,5% in Veneto. In termini di addetti assoluti, spiccano abbigliamento, conceria e pelletteria e tessile; forte la concentrazione in Toscana delle lavorazioni del pellame e dei gioielli. Concentrando l’attenzione su due fotografie degli anni Duemila (prima e dopo la grande crisi), la composizione settoriale del sistema moda cambia per effetto della forte contrazione del tessile, nel 2004 primo settore per addetti, e per l’avanzamento, nel 2016, di abbigliamento, conceria e pelletteria, che diventano le specializzazioni maggioritarie, a fronte di un’ulteriore contrazione delle calzature e una stabilizzazione della gioielleria. Per quanto riguarda gli effetti a monte, per ogni euro di esportazioni della moda toscana, il 58,2% dell’attivazione resta all’interno dell’economia regionale, il 15,4% remunera fattori produttivi delle altre regioni italiane e il 26,4% è distribuito all’estero. Riguardo alle dimensioni delle imprese del settore, sebbene prevalgano micro e piccole, negli ultimi anni diminuiscono quelle con meno di 9 addetti e crescono quelle di maggiori dimensioni, in particolare nella pelletteria. Molte grandi firme italiane hanno in Toscana sedi di medie e grandi dimensioni. Sono 10 le imprese con più di 250 addetti che complessivamente occupano 5mila addetti (il 5% del totale) mentre 160 sono quelle di medie dimensioni (tra 50 e 249 addetti) che assorbono oltre 14mila addetti. A livello territoriale, i distretti della moda sono localizzati nella Valle dell’Arno. Queste le principali società operanti nel settore in Toscana: Ermanno Scervino, Salvatore Ferragamo, Patrizia Pepe, Stefano Ricci, Capri Holdings, proprietario dei brand Versace, Michael Kors e Jimmy Choo, ha acquisito una storica azienda familiare di scarpe da donna della provincia di Pistoia, Alberto Gozzi, che produce per Dolce & Gabbana, Calvin Klein e da tempo anche per il marchio-icona di calzature Jimmy Choo; Mayhoola For Investments Llc (il fondo del Qatar proprietario di Valentino); il gruppo LVMH (con Celine Production; Bulgari Accessori; Emilio Pucci; Givenchy Italia; Fendi); il Gruppo Kering (con Yves Saint Laurent, Pigini; Balenciaga Logistica; Tiger Flex; Gt). E ancora: Alexander Mcqueen Logistica; Prada (Prada e Miu Miu); Richemont con lo stabilimento Montblanc per produrre anche altri brand del gruppo svizzero; Vision Investment Co. controlled by Dubai-based Damac Properties Group che ha acquisito la maison Roberto Cavalli; Chanel; Alpha Private Equity Fund 7, specializzata nella realizzazione di accessori metallici e non metallici per abbigliamento, pelletteria e bijoux per le realtà della moda e del lusso quali, per esempio, Burberry, Louis Vuitton, Hugo Boss e Moncler; Christian Dior S.A. Manufactures Dior; Asahi Kasei Corporation Apollo; Berkshire Hathaway Inc. Richline Italia; Daidoh Limited Pontetorto; Keystar Investment Sa The Flexx; Li & Fung Ltd Sicem International; Look Holdings Inc.; Il Bisonte al 90% del Fondo Palamon capital partners; Onward Holdings Co., Ltd. Freeland; Wigmore Holdings Ltd Luilor, Rifle, Roy Rogers.
25
26
“la capacità di riparare, rigenerare, ricostruire tipica del mondo artigiano, in antitesi con la filosofia industriale dell’usa-e-getta, è oggi più attuale che mai. Le botteghe (artigiane) uniscono spesso il luogo di lavoro con l’abitazione, risolvendo il problema della conciliazione famiglia-lavoro. Anche i luoghi di lavoro del XXI secolo stanno allontanandosi dal vecchio modello della fabbrica industriale anonima e standardizzata e assomigliano sempre di più alle botteghe artigiane. Questo modello produttivo è valido ancora di più oggi: gli “artigiani digitali”, ad esempio, sono quasi sempre freelance che lavorano da casa, o meglio, nei loro appartamenti iper-tecnologizzati che sono un esempio di bottega artigiana del XXI secolo” Ires Piemonte
27
2 L’Artigianato l settore dell’Artigianato riunisce le figure professionali che si occupano dell’ideazione e realizzazione di prodotti e opere tramite una lavorazione manuale, che richiede alti livelli di competenza tecnico-professionale. Nei lavori di artigianato è previsto anche l’uso di macchinari, ma la prevalenza della componente di abilità manuale nei processi produttivi li differenzia dalle lavorazioni in serie tipiche degli impianti industriali. I professionisti che lavorano nell’ambito dell’Artigianato artistico, possono essere gli orafi, gli ebanisti, modisti, calzolai o gli esperti di sartoria. Le competenze pratiche e manuali necessarie per svolgere le diverse mansioni sono l’elemento caratterizzante del lavoro artigianale: queste competenze cambiano a seconda delle singole professioni (dalla lavorazione del legno a quella dei metalli, dalla riparazione di calzature alla manutenzione di condizionatori), ma il processo formativo per accedere alla professione è simile. Infatti lavorare come artigiano richiede una preparazione tecnica accompagnata da training on the job. Ci sono poi attività prettamente artigianali, caratterizzate da piccole produzioni e “pezzi unici”: come le botteghe di arte orafa, di liuteria, di restauro di mobili antichi, e altre attività specializzate nelle lavorazioni tradizionali di legno, pietra, ceramica, vetro, metalli, stoffe, cuoio e vari materiali. Sebbene la società sia sempre più tecnologica e l’economia sia in larga parte dominata dalla produzione industriale, il mercato dell’artigianato, dei suoi prodotti e delle sue lavorazioni continua ad avere buone prospettive di crescita. La richiesta di artigiani per piccoli lavori di manutenzione, servizi personalizzati e lavorazioni su misura è in aumento, e si prevede un incremento nel numero di persone che desiderano intraprendere una carriera nell’Artigianato. Le professioni artigiane non sono statiche, ma in continua evoluzione. Da una parte si innovano gli strumenti e le tecniche di lavorazione, sfruttando le nuove possibilità messe a disposizione dal progresso tecnologico e con una maggiore attenzione alla sostenibilità. Dall’altra, c’è una tendenza diffusa a riscoprire e valorizzare le tradizioni artigianali locali, facendo leva sulla qualità e sull’eccellenza che caratterizzano il lavoro manuale dell’artigiano. Inoltre, sebbene il raggio d’azione dell’Artigianato sia tendenzialmente locale, la rivoluzione tecnologica permette anche agli artigiani di sfruttare il canale digitale (social media ed internet) per promuovere i propri prodotti, servizi e raggiungere così nuovi clienti, anche stranieri.
28
29
2.1 L’arte del protègè
La formazione sul posto di lavoro è un argomento importante della gestione delle risorse umane. Aiuta a sviluppare la carriera dell’individuo e la crescita prospera dell’organizzazione. formazione Durante la formazione, i dipendenti hanno familiarità con l’ambiente di lavoro di cui faranno parte. I dipendenti hanno anche un’esperienza pratica nell’uso di macchinari, attrezzature, strumenti, materiali, ecc. Parte della formazione sul posto di lavoro consiste nell’affrontare le sfide che si presentano durante l’esecuzione del lavoro. Un dipendente esperto o un manager svolgono il ruolo di mentore che attraverso istruzioni e dimostrazioni scritte o verbali trasmette le sue conoscenze e le competenze specifiche dell’azienda al nuovo dipendente. L’esecuzione della formazione sul luogo di lavoro, anziché in classe, crea un ambiente privo di stress per i dipendenti. La formazione sul posto di lavoro è il metodo di formazione più popolare non solo negli Stati Uniti ma nella maggior parte dei paesi sviluppati, come Regno Unito, Cina, Russia, ecc, la sua efficacia si basa sull’uso degli strumenti di lavoro esistenti , macchine, documenti e attrezzature e la conoscenza degli specialisti che lavorano in questo campo. La formazione è facile da organizzare e gestire e semplifica il processo di adattamento al nuovo posto di lavoro, è inoltre molto utilizzata per compiti pratici. È economica e non richiede attrezzature speciali che vengono normalmente utilizzate per un lavoro specifico. Al termine del completamento della formazione, il datore di lavoro dovrebbe conservare i partecipanti come dipendenti regolari. Imparare sul lavoro è uno dei primi metodi di formazione e viene utilizzato quando professionisti formati trasmettono le loro conoscenze alla recluta, questo metodo risale ai tempi in cui non tutti erano alfabetizzati ed era il modo più conveniente per comprendere i requisiti necessari per il nuovo lavoro, su base individuale. Nell’antichità, il lavoro svolto dalla maggior parte delle persone non si basava sul pensiero astratto o sull’istruzione accademica. I genitori o i membri della comunità, che conoscevano le capacità necessarie per sopravvivere, hanno trasmesso le loro conoscenze ai bambini attraverso l’istruzione diretta. Questo metodo è ancora ampiamente usato oggi, perché richiede solo una persona che sappia come eseguire l’attività e utilizzare gli strumenti per completare l’attività. Nel corso degli anni, con il crescere della società, la formazione sul lavoro è diventata meno popolare, molte aziende sono passate al training di simulazione e all’uso delle guide di training. Le aziende ora preferiscono assumere dipendenti che hanno già esperienza e hanno un set di competenze richiesto. Tuttavia, ci sono ancora molte aziende che ritengono che la formazione sul posto di lavoro sia la migliore per i propri dipendenti. Il settore dell’Artigianato è caratterizzato in larga misura da aziende di dimensioni ridotte e ditte individuali. Si tratta perlopiù di piccole realtà attive sul mercato locale, che offrono servizi ad imprese e privati (come gli elettricisti e fabbri), o che si occupano di lavorazioni tradizionali tipiche (ad esempio le lavorazioni del cuoio e dei tessuti).
30
31
2.2 Manualità tecnica, punto cardine nell’artigianato L’abilità manuale è una competenza fondamentale di tutti gli artigiani, che si apprende e si affina solo con l’esperienza. Le attività artigianali richiedono perizia, precisione e destrezza nell’uso degli strumenti di lavoro per essere svolte a regola d’arte - tanto più quando il risultato finale è un prodotto di artigianato artistico.
2.3 Attrezzi e utensili Tutte le attività artigianali richiedono la capacità di utilizzare gli attrezzi del mestiere: strumenti e utensili manuali o motorizzati, portatili o da banco. Saper utilizzare uno strumento significa non solo saperlo manovrare con competenza per ottenere il risultato desiderato, ma anche prendersene cura, svolgendo le operazioni necessarie per la sua manutenzione ordinaria e straordinaria.
2.4 Forza e resistenza fisica Gli artigiani hanno bisogno di forza e resistenza fisica per svolgere il proprio lavoro. La forza è necessaria ad esempio per maneggiare gli strumenti e per spostare e sollevare i materiali. Inoltre, spesso è richiesto di lavorare per lungo tempo in piedi, piegati, inginocchiati e in altre posizioni scomode, per cui è necessaria una grande resistenza.
2.5 Orientamento al cliente La maggioranza degli artigiani lavora a diretto contatto con i clienti: deve quindi sviluppare doti di comunicazione, negoziazione e vendita per gestire al meglio il rapporto con la clientela. Si tratta di una competenza chiave, che permette all’artigiano di offrire un servizio migliore, di ottenere un alto livello di soddisfazione del cliente, e quindi di essere richiamato con più probabilità per lavori futuri.
32
33
2.6 L’artigianato Artistico
Partendo dalla definizione di artigianato , ovvero “un’attività di creazione di oggetti fatti interamente a mano o con attrezzi, unici originali e non fabbricati in serie”, si arriva a ragionare su ciò che distingue prodotti artigianali dal design ricercato dall’arte-scienza. L’artista tradizionalmente è considerato “creatore di forme nuove e di cultura”, è quindi colui che elabora mentalmente la sua opera e che ne definisce i tratti tramite la riflessione. La creazione di un’opera d’artista è quindi possibile solo dopo studio ( non solo di tecniche creative ), riflessione ed esecuzione. Il risultato è qualcosa che suscita nell’osservatore emozioni da ammirare e comprendere. Si parla di decorazione fine a se stessa. L’artigiano tradizionale è invece quello che porta avanti la tradizione attraverso la padronanza di un mestiere e alla sua abilità manuale, tramite le quali crea oggetti utili per la vita quotidiana, spesso adattandoli all’esigenza del suo cliente e futuro utilizzatore. Cos’è l’artigianato artistico? E’ proprio nel punto d’incontro di queste due realtà, l’artigianato e arte, hanno i seguenti requisiti: Unicità; Praticità; Ricercatezza; Qualità estetica.
34
L’espressione “fatto a mano” indica il procedimento manuale con cui si realizza qualcosa. È la quintessenza dell’artigianato, che ha fatto di questo modus operandi la sua filosofia: tutti i prodotti artigianali sono realizzati senza l’ausilio di macchine o le utilizzano solo in modo marginale. Questo procedimento di lavorare i materiali e di confenzionare il prodotto finito rappresenta tutto ciò che non è industriale, realizzato in serie e omologato alla grande distribuzione. È unico, originale, curato nei dettagli, con uno stile personale e riconoscibile, a volte proprio dai piccoli difetti. Spesso si legge sulle etichette dei prodotti hand-made una dicitura simile: “piccoli imperfezioni non sono da attribuirsi ad un difetto di fabbricazione ma alla particolarità e al materiale del prodotto, interamente confezionato a mano”.
35
2.7 L’artigianato è il vero lusso Questo è lo slogan Infatti rappresenta la sintesi di un’iniziativa partita da Confartigianato per promuovere e soprattutto sensibilizzare il consumatore sull’importanza di cosa è davvero il Made in Italy, e cioè che cosa significa veramente artigianato. Il filosofo Immanuel Kant scriveva che: “la mano è la finestra della mente”, sottolineando con grande efficacia come il primo strumento dell’uomo, le mani, siano la manifestazione del suo pensiero. Il prodotto dell’artigiano è un punto d’arrivo nello svolgersi della sua personalità, frutto di un lavoro dove partecipazione è la parola d’ordine: di qui il suo carattere libero. Non a caso il termine artigiano deriva dalla parola latina ars, artis, il cui significato è abilitata materiale o spirituale mirata a progettare e o a costruire qualcosa. Nella mente dell’opinione pubblica, però, il termine artigiano evoca qualcosa di antiquato, legato all’incapacità di innovazione, e destinato a scomparire a causa della sfide della globalizzazione. La parola artigianato è legata o a qualcosa di grossolano non fatta da professionisti, come la “bomba artigianale non esplosa” o a qualcosa di estremamente ricercato e lussuoso, mondo rappresentato dai grandi marchi della moda, che se nelle loro comunicazioni hanno fatto proprio dell’artigianato il loro cavallo di battaglia, nella realtà dei fatti molto spesso lo disattendono completamente. Il saper fare artigianale è la via italiana all’innovazione, e permette al nostro Paese di essere vivo a livello internazionale. Se si prendono in considerazione il valore degli equivalenti termini inglesi di artigiano, craftsman e artisan, è evidente che nel mondo di cultura anglosassone questi hanno una valenza positiva e sono sinonimo di eccellenza, abilita manuale e tecnica, fondata sulla conoscenza delle caratteristiche dei materiali e sulla qualità. Questo è il senso dello slogan che abbiamo scelto di fare nostro. Dobbiamo infatti portare il consumatore italiano e non solo a riconoscere l’importanza del valore del mondo dell’artigianato. Qualità oramai è spesso sinonimo di lusso, infatti, i marchi del lusso si sono adeguati al rinato interesse verso la lavorazione manuale, e ai processi produttivi artigianali, e l’hanno fatto proprio a livello di comunicazione. Purtroppo però questo rapporto “qualità/lusso” non si traduce per le aziende artigiane italiane in un vero e proprio benessere. Nel campo della moda la riscoperta dei valori tradizionali si traduce nella ricerca, da parte del consumatore, di personalizzazione e autenticità. L’inghippo in questo processo è che il consumatore si rivolge poi alla grandi firme del lusso che apparentemente si sono adeguate riuscendo a far convivere il saper fare manuale con le nuove tecnologie e l’esperienza e le capacità manageriali. In un mondo massificato, su scelte di prodotti standardizzati, esplosi freneticamente da una produttività industriale irrispettosa di ambiente naturale ed umano, quella artigianale è una proposta differente, iscrivibile a ritmi umanizzati e rispettosi del nostro Pianeta. Se da ormai molto tempo, nel campo alimentare, si è fatta strada l’idea di slow food in favore del benessere e dell’esaltazione del gusto, è fondamentale far comprendere che il mondo manifatturiero italiano, l’artigiano italiano è uno slow maker, artefice lento di un prodotto che è immediatamente riferibile ad una persona, ad un suo vissuto, ad una sua passione, ad una sua emotività: una filiera corta che avvicina chi fa le cose con sapienza al consumatore.
36
I miliardi di milioni di pezzi, prodotti industrialmente, battono sul nostro pianeta e su di noi, con la consapevolezza del valore del lavoro come espressione dell’uomo e lasciando spazio a logiche produttive ispirate unicamente al profitto, incuranti di tutti gli altri fattori coinvolti. Essere artigiano, significa oggi partecipare ad una rivoluzione non violenta, volta a recuperare il senso meno scontato delle cose, la capacità di attenzione alla scoperta della differenza, al centro l’originalità invece dello standard che, se si va a ripetizione, impoverisce il mercato, la società, l’uomo e la natura. L’acquisto distratto e compulsivo, spesso di oggetti di dubbia qualità, proposti a prezzi irrisori, in realtà è un alto costo in termini di vita. Allo stesso tempo, alimentare l’industria del “lusso” significa alimentare un meccanismo che depaupera le aziende artigiane, non solo italiane, ma dell’intero globo. Quando si parla di Made in Italy, soprattutto nel settore della moda, si pensa infatti ai grandi marchi del mondo del fashion. La realtà è che oggi il vero Made in Italy è rappresentato dal mondo delle piccole e micro imprese italiane artigianali. Laboratori artigianali, spesso tramandati da generazione a generazione, nei quali si è sviluppata è creata una grande cultura del saper fare e del saper lavorare con le mani. Il mondo dell’Artigianato italiano oggi è l’erede di quel saper fare che ha reso grande l’Italia nel mondo nel corso dei secoli. I nostri artigiani oggi sono gli eredi di quei mastri, cioè di quei maestri, che hanno saputo dare vita all’arte e all’architettura e alla cultura italiana. Celebrata in tutto il mondo. Sempre meno i grandi marchi della moda offrono ai loro clienti prodotti di vero artigianato italiano. Non significa che i loro capi o le loro scarpe non siano fabbricati a mano, e con competenza. Ma sempre di più sono prodotti frutto di logiche di serializzazione industriale ed in cui non solo la qualità della fattura è sempre più scarsa, ma anche il rispetto e l’etica per le persone che li hanno realizzati. L’Italia è costellata da una moltitudine di laboratori noti per il loro essere contoterzisti. Cioè di laboratori artigianali specializzati nel creare capi di abbigliamento, scarpe, oggetti di qualsiasi tipo per i grandi marchi della moda e del lusso più in generale. Senza le maestranze e le conoscenze di questi laboratori difficilmente nelle vetrine delle grandi boutique di città come New York piuttosto che Parigi o Londra si potrebbero acquistare dei veri e propri capolavori di artigianato. Il problema è che questi grandi marchi, la cui proprietà è di fatto in mano a poche grandi multinazionali, hanno sempre meno interesse che Made in Italy equivalga ad un lavoro svolto nei giusti tempi, nelle giuste modalità, nel rispetto delle persone. Oggi quindi il concetto di “lusso” non può più essere associato ad un prodotto, ad un capo di una marca famosa. Al contrario, oggi, lusso è il possedere un prodotto, un vestito, un paio di scarpe, prodotti da mani capaci, dalle mani di veri artigiani, di veri maestri, che hanno dato vita ad un qualcosa di unico. Oggi possedere qualcosa di veramente artigianale è un lusso, questo anche perché lentamente e inesorabilmente, le aziende artigianali italiane stanno morendo e scomparendo.
37
3 Artigiani e innovazione, anatomia di un matrimonio ancora difficile Il calo dei consumi, l’aumento dei costi degli affitti, la burocrazia, le tasse, la mancanza di giovani, l’avanzare delle nuove tecnologie, la sfida dei mercati internazionali. L’elenco delle motivazioni che hanno portato alla chiusura delle botteghe artigiane e dei piccoli negozi è molto lungo ma il risultato finale è drammatico: meno 160.000 negli ultimi dieci anni. Un dato che ha avuto delle ricadute anche in termini occupazionali con circa 400.000 persone che hanno perso il posto di lavoro. Eppure si tratta delle principali realtà che costituiscono il tessuto imprenditoriale dell’Italia, su 4.338.766 imprese circa 1,4 milioni sono aziende artigiane. Non si tratta solo di numeri, anche se dimostrano in modo esplicito l’impatto economico sul territorio, ma la chiusura di queste attività comporta la scomparsa di un patrimonio culturale che difficilmente potrà essere rigenerato. Tessitori, calzolai, orefici, argentieri, ricamatori, sarti sono antichi mestieri ed arti trasmesse di generazione in generazione che hanno creato valore per il territorio e benessere per le persone impiegate. Gli anni della crisi economica hanno causato una selezione delle piccole e medie imprese, hanno resistito quelle in grado di rimanere competitive sul mercato e al passo con i tempi puntando soprattutto su innovazione ed internazionalizzazione. Secondo il recente rapporto “Digital economy e piccole imprese. Analisi di alcune evidenze statistiche” pubblicato dall’Ufficio Studi di Confartigianato, gli artigiani che si sono lanciati nella web economy sono quasi 11.000 con un aumento del 3,5% negli ultimi tre anni. I principali fattori di impulso alla digitalizzazione sono stati determinati da agevolazioni, finanziamenti ed incentivi fiscali, dalle infrastrutture e dalla banda larga, dallo sviluppo di nuove competenze digitali del personale. Nonostante le imprese connesse raggiungano il 27%, in realtà questo dato dimostra un gap marcato con l’Unione europea (40%) con la diretta conseguenza di difficoltà nell’e-commerce: solo il 9,4% di piccoli imprenditori vende online. Le altre voci dello studio indicano che 9.500 imprenditori utilizzano i robot nelle fasi di produzione, il 5,8% analizza i big data e il 7% utilizza la stampa 3D. A questo bisogna aggiungere la necessità di introdurre competenze specifiche per cui il 14% delle Pmi ha realizzato corsi di formazione per i propri dipendenti ma la maggior parte evidenzia difficoltà nel trovare manodopera specializzata nelle tecnologie 4.0. L’innovazione è un indiscutibile driver per essere competitivi ma qual è davvero la situazione reale? Alcuni artigiani cercano di rimanere aggiornati introducendo le tecnologie nelle loro attività ma la maggior parte rimane isolata nelle proprie botteghe in una continua corsa alla produzione e alla sopravvivenza perdendo importanti opportunità.
38
“Pochissimi artigiani riescono ad essere innovativi ,racconta Paolo Amato di Leu Locati, storica azienda milanese di pelletteria, perché devono correre tutti i giorni con il principale obiettivo di produrre, è necessario avere un minimo di organizzazione e di struttura mentre molte imprese sono di micro o piccole dimensioni. Ciò non garantisce forza contrattuale negli acquisti con i fornitori. Quindi, avendo utili bassi, come è possibile poi investire in macchinari che costano migliaia di euro? Oltretutto chi fa proposte di innovazione non conosce le imprese del settore manifatturiero ma si rivolge ad aziende di servizi. Per noi invece è importante l’ottimizzazione dei processi di lavoro per automatizzare delle operazioni ed impiegare gli apprendisti nella parte creativa insegnandogli come si realizza una borsa o si scelgono i materiali”. Proprio sui materiali si è concentrata la ricerca di E. Marinella, noto brand partenopeo di cravatte. “Quest’anno festeggiamo 105 anni, racconta Maurizio Marinella, e ancora oggi ci divertiamo a fare nuove scoperte senza dimenticare la nostra storia. Stiamo puntando sull’innovazione dei materiali con l’introduzione di Orange Fiber, un tessuto come la seta, dai colori brillanti e sostenibile. Noi però siamo e rimaniamo artigiani per cui non utilizziamo l’e-commerce che potrebbe crearci problemi di produzione, prendiamo ancora gli ordini telefonicamente perché il contatto diretto con i clienti è importante”. “L’artigianato è sinonimo di tradizione ma oggi bisogna innovare per fare un salto di qualità, in realtà l’artigiano ha in sé la spinta alla crescita costante solo che a volte non ha tempo e risorse”, dichiara Elena Agrizzi, fondatrice di Live the Magic, a Venezia. Si tratta di una giovane azienda artigiana, che ha cercato di unire tradizione ed innovazione trasformando il vetro di Murano in un accessorio. “Abbiamo creato e brevettato una fibbia per cinture in vetro con una particolare lavorazione delle murrine ,spiega Agrizzi, e realizzato una borsa interamente in vetro cucita con fili di argento dal nome Cinderella 2.0. Ma per portare innovazione ci vuole coraggio e visione”.
39
3.1 Dall’Internet delle cose all’Internet del fare: il valore dei Social Media per gli artigiani In un momento in cui parlare di Internet of Things è diventato quasi obbligatorio, è curioso scoprire come si pone chi produce oggetti senza sapere come valorizzarli attraverso la rete. Non come connetterli ma come renderli vivi, attraverso le loro storie. Leggendo l’articolo di Emanuela Zaccone: Alcuni artigiani creativi emergenti che rappresentano dei casi straordinari di made in Italy, soprattutto nei settori abbigliamento, oreficeria e accessori. Per molti di loro il tema della connessione degli oggetti della rete si sintetizzava in un assunto chiaro: “Ho bisogno di essere online ma non sono certo che questo possa essere un vantaggio”. La presenza su Internet non deve essere vissuta come un requisito ma come un’opportunità. Il tempo dedicato alla gestione dei canali del proprio brand non è né tempo perso né tempo delegabile: sono io che so che storia voglio raccontare, sono io che conosco il valore di ciò che faccio. Se non ho chiaro il mio storytelling, difficilmente riuscirò a trasmetterlo e a comunicarlo a chi, domani, potrebbe gestire i miei canali social. Il vero valore delle cose online è nell’intangibilità delle storie dei creatori che vi sono dietro. Non c’è social Media Strategy che possa prescindere da questa considerazione. E per essere eccellenti storyteller a volte basta provare. Ho conosciuto Maria Marigliano Caracciolo, giovane imprenditrice e designer che grazie a un accordo con un’antica legatoria napoletana ha lanciato la sua prima collezione di Borse Libro, le book clutch. Ed è a lei che ho voluto chiedere come i social hanno contribuito alla fortuna dei suoi prodotti. Ciao Maria, ci racconti che ruolo hanno avuto i Social nella promozione di Bags By M.? Realizziamo su ordinazione borse che sembrano libri antichi confezionante interamente a mano in un’antica legatoria artigiana, senza nessun metodo industriale, né elettronico. I social hanno avuto davvero un ruolo fondamentale nella promozione delle nostre “BookClutch” By M. Il 70% degli ingressi al mio sito, e dunque delle vendite, derivano da utenti di Instagram e Facebook che hanno visto le borse “postate” da me o da altri. Sono certa del dato perché nel sito www.bagsbym. com, per mandarci una richiesta di informazioni, il cliente deve specificare come è venuto a conoscenza del brand. Quasi tutti rispondono Facebook o Instagram, qualcuno Pinterest. I Social possono aiutare l’emergere dei lavori degli artigiani creativi? Assolutamente sì, i social network non hanno frontiere geografiche e premiano la creatività dell’artigiano, non il luogo geografico della sua vetrina. La legatoria in cui “rileghiamo” le borse libro si trova in un cortile di un palazzo nel centro storico di Napoli. Se non ci fossero i social network una vetrina così internazionale e immediata non sarebbe possibile per una produzione limitata e localizzata come la nostra. I social servono anche da “press kit”. Tutti i giornali, i media, i blogger e buyers di ogni settore sono ormai connessi. Se vuoi farti notare dalla tua stampa di settore non puoi non avere un account.
40
Che consigli daresti a un artigiano che vuole dare visibilità al proprio lavoro sfruttando le potenzialità del digital? È importante investire sulla qualità dell’immagine. Un buono smartphone è perfetto per avere una gallery di foto da social. Porto sempre con me l’iPhone e che stia a casa o in viaggio posto quotidianamente una foto o una notizia che riguarda By M., facendo circolare le immagini delle book clutch e delle mie clienti che le indossano (chiedendo sempre prima loro il permesso). Bisogna imparare il linguaggio usato dagli utenti dei social e interagire con loro. Devi rispondere ai commenti, sollecitare chi può aiutarti a espandere il tuo giro di followers. Io ogni tanto mischio anche un po’ di immagini della mia vita, così instauro un rapporto più confidenziale. Infine, non bisogna sottovalutare le potenzialità dell’e-commerce. Bisogna attrezzarsi. Credo comunque che la qualità del prodotto sia la vera carta vincente del passaparola virale. Per cui è importante anche mostrare con le foto la natura del prodotto, il luogo in cui nasce, le mani dell’artigiano, il laboratorio, le ispirazioni delle creazioni, così che eccellenza artigianale e identità culturale trovino modo di esprimersi tra un click e un like.
41
È questa la vera crisi del Made in Italy, è questa la vera tragedia del Made in Italy, è questa la vera malattia, il vero tumore, del Made in Italy. Ci si sofferma sempre più spesso sul l’importanza di come tutelare ed aiutare le piccole e micro imprese italiane. Se non si fa nulla rischiamo che il vero Made in Italy si estingua, perché la scomparsa di aziende artigiana, vuol anche dire la scomparsa di un saper fare, di un territorio che si impoverisce. I grandi Marchi della moda sono infatti sempre più lontani dai territori dove producono, sono sempre più concentrati nel fare business trascurando un aspetto fondamentale di qualsiasi vera impresa e cioè investire e far crescere il territorio dove si produce. Questo è anche il risultato di una cultura sempre più diffusa che ha dimenticato il valore della parola artigiano. Non è un caso che sia sempre più difficile per le aziende artigiane assumere e individuare personale qualificato. Il motivo è legato al fatto che un’azienda artigiana non ha bisogno di un “semplice operaio”, ovvero di una persona che esegua in modo meccanico delle procedure o delle azioni, ma ha bisogno di persone che sappiano fare con le proprie mani attraverso un percorso di studio di esperienza e di pratica, di fantasia e di sana ambizione. Quello che dobbiamo fare e cercare di creare punti di contatto tra cultura umanistica e cultura tecnica. Possiamo avere tecnici con sempre più sensibilità per la nostra tradizione culturale. Il vero problema della nostra economia è strutturato ed è l’assenza di un educazione tecnica superiore. L’Italia ha un problema specifico nel formare profili che abbiano una cultura tecnologica avanzata. All’estero ci sono scuole tecniche superiori come quelle svedesi che contano quasi 800 mila studenti. Gli istituti superiori italiani hanno solo 10 mila studenti. Chi ha studiato la storia dell’evoluzione tecnologica è consapevole che per trarre beneficio da grandi innovazioni c’è bisogno di competenze diffuse, di tante persone in grado di addomesticare le potenzialità che questi strumenti ci danno. Noi dobbiamo fare leva sul capitale culturale e storico che abbiamo alle spalle. Ma dobbiamo innestare nuovi elementi come il mondo digitale. Questi non sono certo temi nuovi, già nel 2011, Stefano Micelli, economista e professore all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dette alle stampe un suo saggio intitolato “Futuro artigiano”. Un saggio che nel 2014 è stato premiato con il compasso d’oro, il più importante premio italiano dedicato al design. Nel suo saggio Micelli spiega molto bene una caratteristica peculiare delle imprese italiane. Noi italiani abbiamo sempre avuto problemi con la serializzazione, noi abbiamo sempre dato il nostro meglio quando si trattava di fare personalizzazione. Made in Italy (moda, design, meccanica, ecc…) significa proprio questo. Questo deve essere compreso dalla classe politica e dirigente italiana, che invece è sempre più volta a favorire il mondo delle grandi aziende, delle multinazionali, aggravando di adempimenti burocratici e di paletti, un mondo economico costituito dal 95% di piccole e micro imprese. È importante comprendere che il mondo artigiano italiano rappresenta un’idea diversa di lavoro, di fare impresa, un lavoro consapevole che trova i suoi fondamenti culturali nella passione per la creatività, per il ben fatto.
42
Comprendere tutto questo significa comprendere che il vero lusso oggi è l’artigianato italiano, l’unico e solo vero Made in Italy. Non è un caso ad esempio che nel settore del vino e della birra negli ultimi anni stiano nascendo sempre di più realtà artigianali condotte da giovani. Realtà artigianali che non ragionano nella logica in grande quantità, ma producono meno e per ottenere un prodotto di qualità e soprattutto personalizzato. Non possiamo avere tecnici senza sensibilità per la nostra tradizione culturale e non possiamo accettare classi dirigenti che non apprezzano e non conoscono il lavoro manuale. Questo afferma Stefano Micelli nel suo saggio che non possiamo che condividere. Per attirare l’attenzione dei giovani verso l’artigianato bisogna superare questi preconcetti che lo vedono contrapposto all’attività industriale, valorizzare il savoir-faire all’interno dei processi industriali su scala internazionale.
43
4 Linfa al rinascimento digitale
Hanno un computer, una stampante 3D e un paio di strumenti di precisione. E, sempre più spesso a casa loro, realizzano prototipi fai–da–te di qualunque tipo di oggetto. Sono i cosiddetti “makers”, gli artigiani del digitale. Quelli che amano ideare i propri oggetti da soli per poi costruirli controllando l’intero processo di produzione. Una figura, quella dell’artigiano “moderno”, che molti davano per scomparsa, per via del consumismo di massa e della tendenza delle aziende a trasferire all’estero la produzione per risparmiare sulla manodopera. E che, invece, non solo non è sparita, ma si sta reimmettendo sul mercato completamente rinnovata, resa ancor più forte dalle nuove tecnologie. Non è un caso che si parli di questo fenomeno come di “Rinascimento digitale”, in omaggio al profondo processo di trasformazione sociale, culturale, artistica ed economica che regalò al mondo del XV secolo un volto del tutto nuovo. Oggi come allora, stiamo vivendo un’epoca di grandi cambiamenti durante la quale l’uomo sta maturando un nuovo modo di concepire sé stesso e l’intero pianeta proprio grazie alle nuove tecnologie, riscoprendo la bellezza di arti e mestieri estinti o dimenticati.
“La diversità è un elemento distintivo da valorizzare e non una imperfezione” Se prima essere artigiano voleva dire mantenere la qualità attraverso la piccola serie, in contrapposizione alla produzione standardizzata di massa, oggi lo stesso mestiere ha una potenzialità rivoluzionaria perché la stessa persona che concepisce l’oggetto può realizzarlo immediatamente con le sue stesse mani, ma in modo più semplice e preciso perché aiutato dalla tecnologia. Con effetti sociali e culturali, soprattutto nella valorizzazione della creatività e del Made in Italy, davvero enormi, anche quando si tratta di produzioni su larga scala. Una recente ricerca condotta dal Politecnico di Milano ha messo in evidenza, per esempio, i vantaggi della digitalizzazione nella filiera del settore tessile, abbigliamento e calzaturiero. Una serie di benefici per le aziende che producono abiti e accessori made in Italy in termini di produzione interna (dalla possibilità di monitoraggio online delle lavorazioni alla tracciabilità delle merci fino allo scambio di documenti in formato elettronico e all’inserimento a sistema delle fatture digitali), di riduzione di costi (basti pensare al calo delle spedizioni via posta tradizionale a favore delle email) e di tempo (uno su tutti, la maggior rapidità della ricerca in archivio dei documenti contabili). Il tutto con effetti positivi non solo per il produttore ma anche per il consumatore finale, in particolare per quanto riguarda la sicurezza delle materie utilizzate, che si tratti di abiti, borse o o alimenti prodotti nel Bel Paese.
44
Un esempio di tracciabilità in larga scala: In occasione di Expo 2015, ad esempio, Barilla ha presentato due prodotti in edizione limitata, la pasta nel formato Farfalle e il sugo al Basilico, tracciabili attraverso un QR code presente sulle confezioni. Un progetto nato dalla collaborazione con le aziende Cisco, Penelope e NTTDATA con l’obiettivo di favorire la rintracciabilità delle produzioni agroalimentari e garantire quindi le regole e gli standard internazionali in materia di sicurezza, qualità degli alimenti e origine delle materie prime. Cosa succederebbe se ciò diventasse applicabile non solo nel settore agroalimentare ma anche nel settore manifatturiero? Proprio in questo campo Cisco, azienda leader mondiale nel settore ICT, ha scelto di puntare per il futuro prossimo, investendo un totale di 100 milioni di dollari per stimolare il processo di digitalizzazione in Italia con il progetto Digitaliani. Una delle colonne portanti del piano è lo sviluppo del settore manifatturiero con particolare riguardo alla valorizzazione del Made in Italy. In Friuli Venezia Giulia, regione con cui l’azienda americana ha recentemente siglato un protocollo d’intesa, per dare impulso a diverse aree di innovazione tecnologica e creare una rete di collaborazione con il mondo accademico e imprenditoriale focalizzata proprio sulla formazione e sulla ricerca per l’applicazione delle tecnologie digitali interconnesse al settore manifatturiero. Un modo, insomma, per accelerare l’adozione di soluzioni tecnologiche in grado di rafforzare la competitività delle imprese e l’eccellenza dei prodotti italiani. Dello stesso tenore, la collaborazione di Cisco con Cefriel e Italtel, nata con l’obiettivo di fornire un supporto alle aziende e attivare progetti nell’ambito dell’industria 4.0, il nuovo modo di fare impresa caratterizzato dal fatto che all’interno della filiera della produzione hanno sempre più peso le tecnologie digitali, i tool per dati e gli strumenti di analisi. Ma in cosa consiste, in concreto, questo supporto? Premesso che secondo l’Osservatorio sullo Smart Manufacturing del Politecnico di Milano, l’80% delle aziende italiane è consapevole di quanto sia importante attuare un concreto processo di digitalizzazione, è bene sapere che solo il 20% di queste ha predisposto un vero e proprio piano digitale interno. L’intento del progetto Digitaliani è di rendere la digitalizzazione una parte integrante del processo di produzione manifatturiera. In che modo? Attraverso, per esempio, sistemi di manutenzione preventiva o addirittura predittiva dei macchinari, o tramite dispositivi per l’ottimizzazione energetica e strumenti utili a garantire gli standard di sicurezza durante tutta l’attività produttiva. Sfruttando, insomma, ciò che il digitale può dare per rendere più efficace ed efficiente il flusso produttivo.
45
“Il digitale può mettere il turbo all’economia italiana. A patto che le nostre piccole e medie imprese sappiano fare innovazione”
46
4.1 Makers, artigiani digitali
Il modello produttivo italiano (pmi, strutture distrettuali a rete, forte presenza della cultura artigiana) non è un’anomalia, ma anzi possiamo dire che anticipa i modelli organizzativi ed imprenditoriali del XXI secolo. Questo modello è inoltre molto “coerente” con gli sviluppi organizzativi suggeriti dalla digital economy (economie di rete, social networking, 2.0). La vera anomalia è quindi il fatto che queste imprese e aggregazioni di imprese abbiano una bassa adozione delle tecnologie digitali. Bisogna dunque ridare centralità alla cultura artigiana e coglierne la dimensione di grande contemporaneità. Claude Lèvy-Strauss sosteneva infatti che l’artigiano fosse “il principe degli innovatori”. Oltretutto i concetti di artigianato e di digitale a lungo considerati distanti, se non incompatibili sono invece fortemente collegati e lo sono doppiamente. Innanzitutto come processo produttivo: sviluppare una soluzione software, un’app, un’interfaccia digitale, un modello 3D di un luogo non è certamente un processo industriale che può essere standardizzato e automatizzato. Ma anche il loro utilizzo richiede personalizzazione e adattamenti tipici degli artefatti artigiani. Non si tratta di inserire nei contesti organizzativi soluzioni digitali che impongano metodi e comportamenti standard, che sarebbero deleteri nel mondo e delle imprese, togliendo diversità, dinamicità e in ultima istanza competitività quanto piuttosto di adattare una “cassetta di attrezzi” a uno specifico contesto, bilanciando correttamente buone pratiche consolidate con specificità individuali. Nel sedurre (che non vuol dire semplicemente condurre verso una direzione prestabilita) sta il segreto dell’artigianato digitale. La materia digitale non è inerte, ma anzi è quasi magica e come noto può vivere di vita propria e andare spesso verso direzioni non previste (né volute) dai suoi progettisti. Pertanto l’artigiano digitale deve sedurre (e talvolta anche sedare) le infinte potenzialità della materia digitale e applicarle a un contesto sempre diverso e sempre cangiante, ma con molti elementi ricorrenti e persistenti. Il suo rapporto con la diversità è di com-prensione: la diversità è un elemento distintivo da valorizzare e non una imperfezione, un difetto da eliminare sfuggito dal controllo di qualità costruito a tavolino da qualche ingegnere della produzione che non è mai uscito dai suoi uffici per osservare la vita reale delle imprese.
47
4.2 Riciclare per il pianeta
Un’altra interessante analogia tra la cultura artigiana e la pratica informatica è l’attività di riparazione (o “manutenzione”). In effetti fabbricare e riparare sono un tutt’uno e solo chi gestisce entrambe queste attività vede al di là delle singole componenti dell’oggetto e può coglierne la finalità complessiva e le specificità delle tecnologie utilizzate. Solo aggiustando si capisce infatti come le cose funzionano intimamente, si svela l’anima degli oggetti. Bellissimo a questo proposito un dialogo del film Hugo Cabret di Martin Scorsese, un vero e proprio inno alla cultura artigiana che ha vinto 5 Oscar. Il film narra della storia di Hugo, figlio dell’orologiaio Cabret, e della storia del cinema ai suoi esordi, dove la componente artigiana era massima. Afferma Hugo: «Ogni cosa ha uno scopo, perfino le macchine: gli orologi ti dicono l’ora, i treni ti portano nei posti, fanno quello che devono fare. Forse per questo i meccanismi rotti mi rendono triste; non possono più fare quello che dovrebbero. Forse è lo stesso con le persone: se perdi il tuo scopo, è come se fossi rotto … E questo il tuo scopo ? Aggiustare le cose ?». La crescente sensibilità ambientalista, che guarda con preoccupazione gli sprechi ed è consapevole che le risorse del nostro mondo sono limitate, richiama con forza la cultura artigiana. Il suo considerare sempre più importante il riciclo, il riutilizzo e la minimizzazione dei costi energetici non solo quelli relativi alla produzione ma anche quelli necessari per l’estrazione delle materie prime e per il loro trasporto nei luoghi di lavorazione industriale, ridà centralità all’uso dei materiali tipici del luogo (a Km zero …) e alla cultura vernacolare di cui l’artigianato è l’espressione più autentica. Il fine dell’artigiano non si esaurisce nella funzione che svolge e da cui trae sussistenza e prestigio, ma si lega ad un’altra caratteristica fondativa della cultura artigiana, la maestria, che rimanda ad un impulso umano primordiale: il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso, la passione e la cura per quello che si fa, la cosiddetta craftsmanship. «Good enough is not enough» usava affermare il famoso pubblicitario americano Jay Chiat. Oltretutto, come osserva Lev Manovich quando parla di assemblaggio profondo – nell’artigianato digitale ciò che viene assemblato (o meglio remixato) non è solo il contenuto di diversi media ma anche le loro tecniche, i processi produttivi e le modalità di rappresentazione ed espressione. Il digitale diventa contenuto, contenitore e collante capace di riunire in un’unica piattaforma “fruitiva” i linguaggi del cinema, dell’animazione tradizionale e di quella computerizzata (con i suoi strabilianti effetti speciali). In questo ambiente digitale convivono i prodotti dell’infografica più innovativa con le tecniche tipografiche tradizionali, la cultura aforistica di origine sapienziale con gli emoticon e con l’esplosione delle immagini reali, manipolate, in movimento.
48
4.3 Open source
Il movimento dell’open source, la parallela standardizzazione delle interfacce e l’esplosione delle tecnologie “digitali” di fabbricazioni (dai laser cutter a controllo digitale fino alle varie forme di stampanti 3D) ha creato un vero e proprio boom di “materia prima digitale” a elevate prestazioni e costi particolarmente contenuti su cui l’artigiano può esercitare le sue attività di adattamento e personalizzazione e quindi sedurne la forma, per citare un’altra espressione che Lévy-Strauss utilizza per descrivere l’attività dell’artigiano. Possono essere routine software riutilizzabili, modelli 3D di oggetti stampabili o semplici immagini da includere in presentazioni Dinara Kasko ne è un esempio. Laureata alla Kharkov Università di Architettura in Ucraina, prima ha lavorato come designer e fotografa e poi ha scelto di tornare al lavoro manuale e reinventarsi nel settore alimentare. Non nel modo tradizionale, però, ma creando dolci con l’aiuto di una stampante 3D. L’unione delle due passioni di Kasko – dessert e design – potrebbe portare a un nuovo livello estetico la pasticceria: gli stampi per dolci in silicone progettati e venduti da Kasko trasformano infatti gli impasti in opere d’arte caratterizzate da forme geometriche e linee di design apparentemente irriproducibili.Ovviamente, è stato un successo. Simone Segalin, calzolaio veneto figlio d’arte. A differenza del padre e del nonno, però, lui è un artigiano digitale: ha uno scanner laser con cui può ottenere in un attimo le misure esatte del piede del cliente, ricavarne un modello tridimensionale da stampare in 3D e avere una forma su cui realizzare una scarpa che calza come un guanto. Tra i vantaggi, la possibilità di azzerare le distanze: se un avvocato di Los Angeles vuole le scarpe di Segalin, può andare nel negozio americano di riferimento e, con il laser, inviare al calzolaio italiano i dati per farsele realizzare su misura senza dover affrontare un volo transoceanico. Ha fatto storia anche Sandro Tiberi, noto come “il maestro cartaio digitale” di Fabriano, nelle Marche. Entrato nelle cartiere trent’anni fa, si è messo in proprio. Oggi utilizza le nanotecnologie idrorepellenti e le applica alla superficie della carta che, in questo modo, diventa resistente all’acqua e all’olio. Non solo: produce, per esempio, la carta anti–contraffazione con un chip all’interno. “Creo prodotti di altissimo livello utilizzando materie prime pregiate, puntando sull’innovazione, sul design e proiettando questo mestiere nel futuro”. Perché è questo che fanno i makers, gli artigiani del digitale, come è ben descritto ne “Il Manuale del Maker” di Andrea Maietta e Paolo Aliverti : “Il maker è una persona che prova piacere nel costruire oggetti con le proprie mani, con la propria inventiva, la propria tecnica e le proprie abilità. Il maker fa quello che gli artigiani fanno da secoli, con l’amore per il proprio lavoro e per la propria arte, con il supporto delle nuove tecnologie: è un artigiano digitale, che utilizza nuovi strumenti per reinventare una professione che sta scomparendo”. E che sia attraverso la lavorazione del pellame, il ricamo su un tessuto o la realizzazione di app e di gioielli in 3D, alla base del suo mestiere ci sono sempre la creatività, l’ingegno e l’abilità. La differenza è solo che quest’ultima un tempo era manuale e oggi è anche tecnologica.
49
5 Le Botteghe negli anni 20 del secondo Millennio Botteghe, perché laboratori di artigiani, imprese familiari e piccole aziende, Digitali in quanto attratte dall’innovazione. In Italia operano 1.400.00 imprese artigiane che producono il meglio del Made in Italy. La loro crescita nell’ottica dell’industria 4.0 – o meglio, manifattura 4.0 – è condizione indispensabile per affrontare le sfide del mercato. Qualità dei materiali, manualità, personalizzazione, unicità sono le caratteristiche dei prodotti realizzati dagli artigiani in tutte le regioni italiane. Questi punti di forza delle loro creazioni rischiano di essere vanificati, se non adeguatamente rilanciati favorendo lo sviluppo di competenze integrate, sugli aspetti dell’organizzazione aziendale, degli interventi sul prodotto e sulla digitalizzazione. La qualità dei prodotti e l’esperienza offerta al cliente sono elementi da valorizzare nell’ambito della produzione artigianale. In genere il mercato dell’artigianato di qualità si rivolge a una dimensione locale. La competizione con prodotti industriali è sempre più forte, alimentata dalle importazioni da Paesi il cui costo del lavoro rende impossibile la competizione sul prezzo. Non sempre il modello di business, l’organizzazione interna, le competenze di marketing sono sufficientemente evolute rispetto al mercato. Per molte realtà è forte il rischio di venire sopraffatte perché poco competitive e incapaci di comunicare i propri valori: la qualità e unicità di un prodotto realizzato manualmente, con tecniche e macchinari che esaltano la manifattura artigianale.
50
51
5.1 Botteghe Digitali: Il progetto e l’esperienza
La denominazione “Botteghe Digitali” è stata coniata per caratterizzare un progetto di visibilità e sostegno all’artigianato Made in Italy. Dopo una selezione tra cinquanta imprenditori, a quattro imprese artigiane nel 2016 e a dieci nel 2017, è stato fornito un sostegno, affiancando al titolare alcuni professionisti. Essi hanno contribuito all’elaborazione del business plan, alla verifica delle possibilità di finanziamento, all’analisi e riprogettazione dei prodotti, organizzazione degli spazi di lavoro e sviluppo della presenza sul web e sui social media. Le manifatture sostenute dal progetto erano le più varie: panetterie, sartorie, gioiellerie, ristoranti, falegnamerie e barbierie. Tutti contesti di grande artigianalità, con un’organizzazione aziendale fatta di pochi collaboratori e focalizzata sul singolo artigiano, imprenditore di sé stesso il cui business è legato principalmente all’abilità delle mani e ai segreti che ha imparato da altri artigiani. É stata poi creata una piattaforma aperta, denominata DET – Digital Enterprise Transformation, che propone un test per verificare se l’azienda ha già intrapreso un percorso di evoluzione e una piattaforma di learning, che offre contenuti che riguardano la trasformazione digitale delle imprese artigiane. Si è trattato dunque di applicare un processo di innovazione e trasformazione digitale, perfettamente scalabile, in grado di accompagnare le imprese artigiane nelle fasi di sviluppo del loro business.
5.2 Trasformazione delle aziende artigiane in Botteghe Digitali L’impresa artigiana è chiamata ad affrontare la trasformazione migliorando le competenze interne e agendo sui vari aspetti che qualificano il prodotto, l’organizzazione interna, le strategie aziendali e il digital marketing:
5.3 Evoluzione del prodotto Il prodotto è legato all’identità del brand. Lo studio dei nuovi prodotti, o lo sviluppo di quelli tradizionali, si avvia attraverso l’analisi della storia, del marchio, dei materiali utilizzati e delle possibilità di crescita della produzione. Già nella storia del prodotto possono essere recuperati elementi del concept iniziale, dei bisogni dei clienti che sono stati alla base del suo sviluppo, dell’immagine aziendale che coinvolge il marketing, il packaging e il punto vendita oltre al sentiment dei clienti rispetto al marchio e alla produzione. Per lo sviluppo di prodotto vengono quindi analizzate le possibilità di nuove declinazioni – quanto a misure, colori e materiali – e di nuove linee ispirate al prodotto più apprezzato. Viene infine valutata la possibilità di utilizzare il materiale tradizionalmente utilizzato per produrre altri accessori o dell’impiego di nuovi materiali.
52
5.4 Organizzazione interna
L’ottimizzazione dell’organizzazione produttiva riguarda l’analisi dei macchinari e della loro produttività, l’impiego dei collaboratori e la verifica delle possibilità di crescita professionale e di miglioramento delle fasi del processo produttivo. Le nuove tecnologie offrono grandi possibilità, ad esempio nell’ambito della prototipazione. Software e stampanti 3D possono sostituire la produzione artigianale di prototipi dei prodotti, velocizzando la fase di progettazione e modifica continua, fino all’ottimizzazione del prodotto finale. Agire sui tempi di progettazione e sulla qualità e replicabilità dei modelli e stampi significa accelerare la produzione incidendo positivamente sulla qualità e funzionalità del prodotto.
5.5 Strategia e gestione delle risorse umane Anche in un business di piccole dimensioni, come quello dell’artigianato, sono presenti in scala tutte le complessità di un’azienda. Dal rapporto con clienti e fornitori, alla gestione dei collaboratori, alla relazione con le amministrazioni locali, tutto corrisponde a una complessità che necessita di adeguate capacità manageriali. L’artigiano, come i titolari delle piccole imprese, è spesso focalizzato soprattutto sull’oggi, sui temi più urgenti, e non riesce sempre a programmare l’assetto aziendale in prospettiva. Anche nell’artigianato, come nel marketing, si tratta di mettere al centro il cliente, e non il prodotto. Interrogarsi sui bisogni del cliente e su quanto l’impresa artigiana debba modellarsi per rispondere a queste esigenze. Ne deriverà un modello organizzativo leggero, orientato a rispondere alla domanda di prodotti. L’organizzazione aziendale sarà quindi focalizzata verso l’esterno, per captare i segnali che arrivano dal mercato, valorizzare il rapporto con il cliente e aprire nuove opportunità di vendita, attraverso forme di partenariato e accordi commerciali.
5.6 Digital marketing e imprese artigiane Le Botteghe Digitali sono chiamate a utilizzare il web per migliorare la conoscenza del brand, curare la relazione con i clienti e, quando possibile, utilizzare il sito per affacciarsi al mondo del commercio elettronico. Il progetto di Digital Transformation delle imprese artigianali prende avvio dalla valutazione della presenza sul web e dall’aggiornamento del sito internet, per migliorare l’usabilità e il posizionamento. Poi si cura la relazione con il cliente: nei siti WordPress, ad esempio, è sufficiente un plugin per gestire i resi e l’assistenza. Infine è bene valutare se aprire all’e-commerce, implementato direttamente nel sito o avvalendosi delle più note piattaforme per la vendita online.
53
5.7 Aspetti finanziari Il progetto Botteghe Digitali ha offerto agli artigiani una consulenza sul reperimento di risorse per lo sviluppo dell’attività. L’artigiano a volte confonde le risorse personali da quelle dell’attività: a fine giornata intasca i soldi e poi si chiede come mai l’impresa venga finanziata con mezzi propri. A volte si reperiscono finanziamenti offrendo garanzie personali, come la propria abitazione. La commistione tra le finanze dell’attività e le proprie risorse diventa così ancora più stretta. Si deve acquisire una nuova mentalità, legata alla pianificazione finanziaria. Si parte dall’elaborazione di un bilancio preventivo, che evidenzi i costi dell’attività nei mesi a venire. Il bilancio preventivo evidenzia gli obiettivi da raggiungere – a livello di entrate – e permette di pianificare le risorse necessarie a sostenere i costi. L’equilibrio economico finanziario che ne deriva consentirà di accedere a finanziamenti bancari. Una verifica andrà fatta in Regione riguardo ai finanziamenti europei e ai bandi aperti, per verificare le possibilità di finanziamento in conto capitale o conto interessi, con grande attenzione all’eccessivo indebitamento e alla sostenibilità dell’impresa artigiana.
5.8 Trasformazioni Digitali La trasformazioni digitali in questo settore includa la valorizzazione del prodotto, l’organizzazione aziendale e la digitalizzazione dei processi e del marketing. Si tratta dunque di un nuovo modo di progettare la propria azienda, da proporre alle imprese artigiane, ma anche a quello delle professioni e agli artigiani che propongono servizi e riparazioni. L’evoluzione del prodotto, ma anche di un servizio, è possibile solo partendo dall’analisi dei bisogni del cliente e riprogettando la propria offerta con l’obiettivo di dare risposte con prodotti di qualità e aderenti all’evoluzione degli stili di vita e delle aspettative. Si tratta di un’attività che è possibile condurre in proprio o affidandosi a consulenti che sappiano proporre strumenti di raccolta e interpretazione della domanda. Come? Attraverso sondaggi online, interviste, analisi del settore quanto a presenza sul web, prodotti leader di mercato, conversazioni su forum specializzati: tutte azioni che consentono di comprendere le attese del cliente e le migliorie apportate dai concorrenti. Il miglioramento dell’organizzazione interna riguarda lo studio di nuovi materiali e delle tecniche di produzione ma, nel caso in cui si offrano materiali e lavorazioni tradizionali, la valorizzazione della produzione artigianale Made in Italy. Una rivisitazione del laboratorio artigiano e del punto vendita in termini di customer experience – con possibilità di visitare gli spazi produttivi, se possibile, o mettendo in mostra attrezzi o prodotti non recenti – permette di offrire un’esperienza di acquisto ben più apprezzata di quella di un laboratorio non valorizzato sul piano estetico e storico. L’artigiano è spesso focalizzato sull’oggi: una strategia di business e di valorizzazione dei collaboratori permette di effettuare quel cambiamento di mentalità imposto dalla trasformazione digitale. Il titolare dell’impresa artigiana deve formarsi per avere competenze di programmazione del lavoro, una visione orientata al futuro dell’attività, la capacità di gestire e valorizzare i collaboratori. Sono tanti i contenuti disponibili online, i corsi organizzati dalle organizzazioni di
54
categoria e i consulenti che possono gestire questa fase di presa di coscienza e evoluzione in senso manageriale. La fase più importante del processo di trasformazione digitale. Dopo aver ottimizzato i prodotti e l’esperienza offerta al cliente fisico, è essenziale progettare la presenza online. Si parte sviluppando un nuovo sito, realizzandolo secondo i canoni del mobile first index, con attenzione alla user experience. Ma come si massimizzano le visite? É indispensabile portare visitatori, altrimenti il sito si rivelerà inutile ai fini dello sviluppo del business. •Si tratta di agire sul posizionamento attraverso la SEO, sviluppando contenuti di qualità e attrarre link, con l’aiuto di professionisti del link earning, per raggiungere buoni risultati di posizionamento e ottenere visite organiche, provenienti cioè dai motori di ricerca •Se si vogliono ottenere risultati in breve tempo è necessario investire in digital advertising, attraverso annunci Google Adwords e Facebook Ads per migliorare la conoscenza del brand e ottenere visite al proprio sito •Per migliorare la brand awareness è utile promuovere la presenza sui social media. Il cliente usa Google ed è su Facebook. É quindi indispensabile farsi trovare proprio dove il cliente sta cercando informazioni o condividendo interessi.
55
6 L’evoluzione dell’accessorio accessòrio agg. e s. m. [dal lat. mediev. accessorius, der. di accessum, supino di accedĕre «accedere»]. La parola accessorio deriva dal latino accessorius , che significa aggiungere, accrescere. La sua etimologia quindi, gli attribuisce un’importanza che va al di là del concetto di qualcosa di secondario e superfluo. Il mondo degli accessori è, e lo è stato in passato, vasto e variegato, quindi è molto difficile da classificare. Può essere comunque d’aiuto la distinzione operata dagli studiosi facenti parte del Comitato Internazionale dei Musei del Costume, i quali hanno distinto gli accessori in due grosse categorie: - accessori che si portano sul corpo, di cui fanno parte le acconciature, le calze, le calzature, e tutta una serie di accessori che sono a complemento dell’abito (da cui a volte derivano) e che in passato sono stati denominati fronzoli; a questa categoria appartengono colletti, polsini, scialli, sciarpe e cravatte. - Accessori che si portano in mano, come borse, ventagli, ombrelli e ombrellini, bastoni, fazzoletti. Ovviamente queste sono distinzioni generali, non mancano tuttavia le eccezioni. Gli accessori nell’epoca barocca assunsero un grande rilievo nei costumi maschili e femminili. Gli uomini portavano la parrucca che dispensava dalla spada, altrimenti obbligatoria per entrare in una dimora reale; c’erano parrucche per ogni circostanza e con esse gli uomini non potevano portare cappello; tutta via un copricapo di castoro, piatto o ornato da una piuma, faceva sempre parte del loro abbigliamento. Per uscire le donne fasciavano la testa con una sciarpa di velo mentre in casa portavano una cuffia di tela bianca; anche per loro acconciatura e cappello mai s’accordavano: basti pensare alla cascata di riccioli sulle orecchie e alla pettinatura alla Fontanges, vero e proprio miracolo di architettura. Sulle capigliature delle signore venivano fissati piccoli gioielli a forma di ape o di farfalla; l’acconciatura veniva poi montata su filo d’ottone e ornata da nastri chiamati assassini e impreziosita con pizzi. Le donne incoccavano sul viso i nei o mosche (pezzetti di garza) di forma e nomi svariatissimi. D’inverno le spalle venivano coperte con stole in pelliccia, moda lanciata dalla Principessa Palatina, o con una corta cappa con cappuccio. Una maschera di velo proteggeva contro il gelo e il sole, mentre per riparare le mani dal freddo veniva usato il Manicotto, già conosciuto a Venezia ne XV secolo; foderato di pelliccia o di velluto era utilizzato da uomini e donne. Erano però i guanti e le calzature ad avere maggiore successo. I guanti erano di forma molto svasata e arricchiti da ricami e risvolti di pizzo. Gli stivaletti e le scarpe erano morbidissimi, a punta quadrata, abbelliti da un fiocco, più tardi, semplicemente da una fibbia e quando Luigi XIV decide di foderare i suoi tacchi con cuoio rosso, tutti a corte si affrettarono ad imitarlo.
56
Le scarpe da cerimonia e le pianelle erano in velluto o di seta ricamata, le calze, i cui colori si armonizzavano con quello del vestito, erano ricamate sulle cuciture e venivano sostenute sopra il ginocchio dalle giarrettiere che potevano essere fatte a mano o a macchina. La Francia dettò legge in tutta Europa anche nella gioielleria. Questo primato diede il suo valido contributo la corte: non tanto la regina Maria Teresa, quando le dame che si succedettero nei favori del re. I monili erano realizzati in metalli prezioni, perle barocche, pietre dure e preziose, smalti e cristalli di rocca. Un accessorio di notevole importanza era il ventaglio, quello pieghevole, con la tipica forma semicircolare, apparve in Europa nel XVI secolo. Adottato dalla moda francese al tempo di Caterina dè Medici, divenne uno degli accessori crederti di Elisabetta I D’Inghilterra, la sua importanza nel costume crebbe sempre più e divenne un oggetto di lusso e talvolta d’arte, conoscendo nel XVII e nel XVIII secolo un importante sviluppo. Prodotto essenzialmente in Francia, Inghilterra, Paesi Bassi, Italia e Spagna, il suo uso si estende a tutti gli stati sociali. Il ventaglio era fatto di pizzo (alta moda veneziana), di pergamena traforata, di seta o carta dipinta, con scene bibliche o mitologiche, pastorali o galanti. I ventagli francesi, insuperati in originalità e raffinatezza, furono eguagliati solo da quelli veneziani, erano dotati perfino di uno specchio e ornati di pietre preziose e d’intagli, talvolta dotati anche di un monocolo per il teatro. Presto il ventaglio si trasformò in uno strumento di comunicazione e le dame impararono un linguaggio del tutto particolare. Un altro accessorio essenzialmente muliebre era l’ombrellino o parasole che divenne popolare in occidente verso il XVI secolo. Fu sempre Caterina dè Medici and introdurre la moda in Francia di questo accessorio, anche se l’uso rimase allora ristretto all’ambiente della corte. Al tempo il parasole era costruito su un’ossatura pesante, coperto probabilmente di cuoio o di robuste stoffe e portato da una persona diversa da quella che ne usufruiva, cioè da un valletto o un servo. A poco a poco fu abbandonato l’uso dell’ombrello sorretto da un servitore e il parasole divenne, sopratutto alla corte del Re sole, un accessorio di rigore nell’abbigliamento di corte, specie per le passeggiate di Versailles. Nel XVIII secolo si generalizzò l’uso di ombrelli più leggeri e individuali, graziosamente disegnati, coperti di stoffe leggere con trine, nastri ,ecc.
57
7 Cappelli: dagli antichi alla costumizazzione Nato nell’antico Egitto, il cappello. Cappèllo s. m. [lat. *cappellus, der. di cappa: v. cappa1]. – 1. a. Copricapo maschile o femminile di vario materiale e varia forma, con tesa più o meno larga. Piccola cappa fatta per riparare il capo, passa per la Grecia, per l’Asia, fino ad arrivare in Europa. È curioso l’utilizzo di questo accessorio, che inizialmente funge da strumento riparatore, ma ben presto diventa un forte simbolo culturale, che colloca al di sopra chiunque lo indossi. Diventa, così, espressione di creatività e originalità, di appartenenza ad un ceto sociale elitario, per i materiali pregiati con cui era fatto. Si va dal feltro di lana al pelo di castoro del re Carlo VII, dalle piume ai nastrini alle fibbie, dalle parrucche cotonate al cappello a tre punte seicentesco di Luigi XIV. Il cappello è sempre stato senza dubbio nell’abbigliamento antico una necessità, ma anche sopratutto una status symbol e un modo di ostentare il proprio ceto sociale e la propria ricchezza. Sin dal Medioevo circolare in luoghi pubblici senza coprirsi il capo era considerato inconcepibile per gli uomini e ancor più per le donne che non volevano essere scambiate per prostitute. Alle soglie del barocco, alla fine del XVII secolo i cappelli sono ancora degli accessori imprescindibili ma iniziano a diventare anche oggetti di puro vezzo. Si diversificano a seconda dell’area geografica (flosci simili ad un basco in Germania ed Inghilterra, a piccolo tronco di cono in Francia e Spagna), ma sono dimensioni ridotte, ornati di piume e gemme al pari dei castigati ma ricchissimi abiti dell’epoca. Il cappello acquisisce una vera utilità solo in determinati ambiti, come la caccia, un viaggio o una campagna militare, in cui si sosta sotto il sole o sotto e intemperie per molto tempo. In queste circostanze si usano cappelli in feltro o lana a falda larga: all’inizio del XVII secolo, quando la moda spagnola tramonta e si impone un look più pratico e meno ingessato , è questo il cappello maschile in rigore in Europa. Nello stesso periodo le donne abbandonarono i piccoli berretti i fine 500 e abbracciarono l’abitudine di acconciare i capelli in boccoli ricadenti ai lati del volto. Il cappello lo porteranno solo in viaggi e a caccia, indossando un modello in tutto e per tutto simile a quello degli uomini o, verso la fine del secolo, un tricorno ornati di piume. Cn. Luigi XIV tutto diventa moda, ostentazione, mania, compreso il cappello. Il modello a falda larga viene mantenuto, ma quasi scompare sotto una profusione di piume, fiocchi e spille preziose. La moda di portare gioielli sul cappelli è talmente in viga che il re farà montare sul suo copricapi un preziosissimo SANCY, un diamante da 35 carati. La calotta si modifica diventando più quadrata e il bordo della tesa è sempre ornato di marabù o pelliccia in inverno. Il re è l’unico che può tenere il cappello in testa a corte durante i pasti, tutti gli altri al suo cospetto devono privarsene ma al tempo stesso non possono circolare senza: lo portano spesso sotto il braccio, anche per non rovinare le voluminose e costosissime parrucche che il re sole ha imposto a tutti i gentiluomini. Chiunque visiti Versailles, di qualsiasi ceto sociale, deve procurarsi uno spadino e un cappello o può affittarli all’ingresso del palazzo. Ai visitatori vengono noleggiati dei tricorni, cappelli all’epoca
58
considerati di serie B, in uso presso i militari e certo non ancora così diffusi e di moda come nel XVIII secolo. Sotto Luigi XV Nel XV secolo il cappello torna alla ribalta anche per le donne e abbandonano le modiste che realizzano creazioni diverse per ogni momento della giornata. In casa e durante il giorno le donne portano i capelli acconciati in piccoli ricci raccolti in cuffiette o fermati con crestine in pizzo ornate di code e ruches dette barbes, ma quando escono indossano dei cappelli largo e quasi privi di calotta, rivestiti di stoffa o fatti di paglia intrecciata per le occasioni più formali. Legati dietro il collo con un nastro, rimangono un pò arcuati ed hanno lo scopo di proteggere dal sole la candida carnagione delle dame(poichè il parasole non era considerato un accessorio di gran moda in quel periodo). Per gli uomini si è affermato definitivamente il tricorno, che in fondo non è altro che un cappello a falda larga dei secoli precedenti fermato in 3 punti per essere più pratico e meno ingombrante. Un gentiluomo non si separa mai dal suo tricorno, neppure la sera, quando lo sfoggia ornati da ricche piume, spille e passamanerie, mentre la dama porta i capelli acconciati in enormi impalcature ornate dai pouf à la circonstance. Esistevano delle cuffie elaborate appositamente per proteggere queste vertiginose acconciature durante gli spostamenti in carrozza o all’aperto: dette “calasse”, erano costruite da semicerchi in legno o osso di balena che sostenevano e rendevano rigida una cuffia di seta. Verso la fine del secolo, e sopratutto dopo l’introduzione della moda pastorale tanto cara a Maria Antonietta e dopo la diffusione dei modelli inglese, che il cappelli conoscerò un successo ininterrotto fino ai primi decenni del ‘900. Gli abiti alla polonaise, che ricordano quelli dellepastorellt dei dipinti rococo, sono sempre corredati da enormi ed elaborato cuffie come quella “alla foggia di lattaia”, che anche nei nomi richiamano il mondo bucolico, o da cappelli in paglia ricoperti di stoffa arricciata e drappeggiata e fiori. Anche il gusto per l’esoticopaga il suo tributo ai cappelli, con modelli simili a turbanti. Quando Maria Antonietta “lancia” la pettinatura all’enfant, ovvero una cotonatura morbida estesa in larghezza più che in altezza e quindi molto più adatta a portare cappelli, esplode una varietà di copricapi raramente presente in altre epoche. Oltre alle cuffie e ai cappelli ornati da stoffe, si affermano i modelli inglese, simili a cilindri rastremati o meno nella parte alta deità “alla fiamminga” poiché molto simili a quelli in voga nelle Fiandre del ‘600. Con l’introduzione delle chemise “à la Reine” e delle redingote all’inglese la moda quotidiana si semplifica e diventa più sobria, mentre cappelli, sempre più voluminosi ed eccentrici, diventano spesso i veri e protagonisti nelle mise delle gentildonne. Anche i cappelli dell’uomo si modificano: in Francia si diffonde il bicorno mentre dalla moda britannica arrivano i cilindri in feltro ornati da grosse fibbie. L’800 è il secolo del cilindro maschile e della paglia toscana femminile, ma ben presto è Alessandria con Giuseppe Borsalino a spostare l’epicentro della produzione manifatturiera del cappello. L’arte del copricapo si diffonde a macchia d’olio in tutta l’Europa e nei primi anni del XX secolo la produzione di cappelli rappresenta un ramo importante dell’economia italiana, un vanto Made in Italy che incornicia i volti più disparati, simbolo di eleganza e prestigio sociale. Ancora oggi, sebbene il mercato del cappello rappresenti una fascia di nicchia, non si è perso il suo fascino.
59
7.1
60
Il galateo secondo Guifriday Non lasciare mai casa senza il tuo Cappello Se ti chiedono di che marca é sii vago Non mettere mai il tuo Cappello sopra al letto, dicono porti sfortuna Le donne non hanno bisogno di togliere i loro Cappellida interno come invece fanno gli uomini Non desiderare il Cappello di altri Non lasciarlo incustodito, potrebbero rubartelo Il vento è il peggior nemico del Cappello Se incontri una donna col Cappello togli il tuo prima di salutarla e baciarla, non solo per educazione,ma perchè altrimenti le tese si toccano Non guardarti troppo allo specchio Togli il Cappello al ristorante o dentro un luogo sacro Quando togli il Cappello tienilo in mano con la parte interna rivolta verso di te in modo che gli altri non possano vederla, tanto si capirà che è un Guifriday Per un saluto veloce, incrociando qualcuno per strada, è sufficiente toccare leggermente la tesao sollevare il Cappello dalla testa Esiste un Cappello per ogni persona Al cinema e a teatro toglilo sempresennò chi è dietro potrebbe alterarsi I Cappelli sono portati oltre che per estetica ancheper proteggere dalla pioggia e dal freddo Nel dubbio, non giudicare mai un uomo o una donna col Cappello Ogni Cappello ha le sue idee nascoste
61
« Avevo un Sogno in un Cappello » Fabio Giuffrida
62
F
abio Giuffrida T., cappellaio di Bologna, ha voluto dare ascolto hai suoi sogni e ha deciso di buttarsi in una nuova esperienza, nata quasi per gioco, realtà nata da ormai tre anni. Spinto dalla voglia di continuare a tramandare questa forma di artigianato. Dice di sé “Un Cappellaio che vive a Londra è stato il mio maestro e da lì si è aperto un mondo. Ho sempre avuto una speciale affinità con la manualità e l’estetica in generale; il desiderio di lavorare per qualcosa di davvero mio ha preso il sopravvento. “Questo lavoro mi ha trovato” lo dico sempre alla mia famiglia e agli amici, perché in verità, soltanto qualche anno fa, non avrei mai immaginato di farlo. Il Cappello rappresenta per me quello che un’arma speciale rappresenta per un supereroe, una protezione, ed allo stesso tempo un antidoto che mi fa sentire invincibile. Con il progetto Guifriday vorrei far capire alle persone che il Cappello è in grado di raccontare sempre una storia e non è un semplice accessorio: parla del lato avventuroso e del coraggio di ciascuno, per questo non tutti lo sanno portare. Ho cercato uno spazio nel cuore di Bologna. Venire a trovarmi nel Salotto-lab è un’esperienza AristoFreakChic e allo stesso tempo anticonvenzionale. I Cappelli Guifriday sono una metafora della mia creatività, un flusso libero del mio inconscio, nulla è pensato prima, mi lascio guidare dall’arte, dal passato, dall’amore e dai viaggi che ho fatto; Per ciascuna avventura ho collezionato ‘tesori’, una piuma, un ricordo, una moneta, insomma oggetti che poi spesso vanno a finire sui miei Cappelli. La creatività ha bisogno di stimoli e può arrivare inaspettatamente da una semplice immagine, da un profumo o da una canzone. Subito dopo però nasce l’esigenza quasi maniacale e animale di tradurre l’idea in qualcosa di concreto. I miei Cappelli sono pezzi unici fatti a mano, su misura con l’utilizzo di una tecnica tradizionale i cui elementi essenziali sono le forme in legno, l’acqua ed il vapore. Il feltro è solo quello di lapin e castoro, italiano. Ho bisogno di conoscere Chi ho di fronte e ascoltare la sua storia prima di cominciare un lavoro personalizzato. Essere contemporanei significa avere coscienza del Passato.”
63
Siamo andati a trovare Fabio nel suo Salotto-Lab nel cuore di Bologna per sapere di più delle sue creazioni.. FG Era tua intenzione diventare cappellaio? Se si come ? Senno com’è successo ? FGT Sono sempre stato un ‘portatore sano’ di cappelli e quindi un giorno ho deciso di capire come nascesse un cappello in feltro, ho fatto una full immersione con un cappellaio italiano che vive a Londra e da lì mi si è aperto un mondo che oggi mi appartiene in tutto e per tutto.
FG Da cosa nasce il nome Guifriday? FGT
Confesso che quando ho dato vita a questo progetto non ho pensato molto al nome del Brand. Nasce da un piccolo aneddoto che mi porto dietro da tanti anni: ho parenti che nei primi del ‘900 sono partiti dalla Sicilia per cercare fortuna in America, da lì il nostro cognome fu ’storpiato’ da Giuffrida in Guiffrida … pertanto ho giocato semplicemente con le parole, in più nel mio SalottoLab sono aperto solo il weekend e così nasce Guifriday.
FG Il punto di svolta della tua carriera? FGT La consapevolezza di fare una cosa che mi provocava felicità e creare un accessorio che piaceva col solo passaparola.
64
FG Come definiresti la tua estetica e i tuoi modelli? FGT Credo di avere un mio timbro che mi contraddistingue da molti altri cappellai in Italia e nel resto del Mondo, cerco di avere grande rispetto delle forme del passato ma cerco di stravolgerle per renderle contemporanee. Non creo cappelli perfetti, ma diventano tali e unici perchĂŠ sono fatti per la persona che me li commissiona. Le forme nascono da vecchie figure del passato, io cerco di reinterpretarle grazie al mio Formaio di ormai 88 anni che le crea.
FG Parlaci del tuo personale rapporto con il cliente, e del tuo processo creativo. FGT Direi che ho risposto nella domanda prima.
FG Che rapporto hai con la moda e la sua industria? FGT La moda per me è vitale, ne sono profondamente attratto e stagione dopo stagione sono sempre in trepida attese per le sfilate e le nuove proposte.Â
65
FG Che cosa ti stimola e ispira? FGT Mi lascio ispirare dalle persone, per questo devo sempre conoscere chi ho di fronte prima di iniziare un Cappello. questo è fondamentale per costruire insieme un grande Cappello. diverso è quando li creo per tenerli nel mio SalottoLab in esposizione: per quelli ho stimoli continui, dalla mia Città, una canzone, un profumo … insomma qualsiasi cosa può far nascere un’emozione che poi la vado a mettere in ogni mio cappello.
FG Dove reperisci le tue materie prime ? FGT Mi lascio ispirare dalle persone, per questo devo sempre conoscere chi ho di fronte prima di iniziare un Cappello. questo è fondamentale per costruire insieme un grande Cappello. diverso è quando li creo per tenerli nel mio SalottoLab in esposizione: per quelli ho stimoli continui, dalla mia Città, una canzone, un profumo … insomma qualsiasi FG Dove produci e dove si cosa può far nacomprano i tuoi cappelli? scere un’emozione I miei cappelli li produco e che poi la vado a FGT si comprano solo nella mia mettere in ogni mio Cappelleria nel cuore di cappello. Bologna.
66
FG Qual è il tuo personale rapporto con il colore? FGT Potessi descrivermi direi che sono un arcobaleno, ma i colori che consiglio sempre nei miei lavori sono sempre il nero, il grigio e le sfumature dei beige. adoro usare fili oro e argento, danno sempre un tocco chic a qualsiasi creazione.
FG Grazie alla tua arte e professionalità contribuisci a rendere grande il nome dell’artigianato anche all’estero. Con chi hai lavorato e chi sono i tuoi clienti? FGT Vedo sempre più persone attratte dall’avere cose uniche e che si differenziano dalla massa, i miei clienti sono persone che amano avere cose uniche e create apposta per loro e che si fidano delle mie mani e visioni.
67
FG Ma tu hai sempre il cappello in testa? FGT E’la mia arma segreta come per un superoe.
FG Spiegaci l’esperienza AristoFreakChic ? FGT Il mio spazio nel cuore di Bologna è un luogo dove mi racconta e dove racconta tante storie, si percepisce il calore delle persone che sono venute …ogni oggetto suscita curiosità, difficile da descriverla, bisogna viverla.
FG Perchè Hat Faker? FGT Perché stravolgo i canoni del passato e li reinterpreto, per questo mi sento un pò un’impostore .. e anche questo è un gioco di parole internazionali ...tra Hat Maker diventa Hat Faker.
FG Qual’è il tuo rapporto con i social? FGT E’ un rapporto sano e quotidiano, un ottimo veicolo per arrivare in tutto il mondo e per farmi conoscere. Cerco di provare a trasmettere con le mie storie e le mie foto quello che so fare meglio e cioè i Cappelli.
68
69
8 Borse: l’artigianato Made in Italy e la contaminazione La storia della borsa corre parallela a quella dell’emancipazione femminile, perché il modo in cui una donna porta i propri effetti personali dipende dal suo status. Nel XIV secolo una donna esibiva i suoi beni mondani appesi a una catena sui fianchi. Nel XXI secolo, la borsa parla della sua ricchezza anche se non la rivela mai veramente. Da un punto di vista simbolico la borsa rappresenta il potere femminile di contenere ed un luogo di conservazione, quindi vita e salute. E’ anche associato al simbolo di qualcosa che preserva ciò che è prezioso o ritenuto tale. E’ inoltre associata agli dei messaggeri come Mercurio e Priapo. La sua funzione originaria è quella di custodia del denaro, è ciò la rende in origine oggetto legato fondamentalmente al commercio; per questo è anche emblema dell’elemosiniere e del mercante. La sua storia però si evolve in risvolti più vivaci e frivoli da quelli meramente economici rendendola un accessorio costantemente in bilico tra la sua funzione contenitiva e la sua esteriorità mondana e modaiola. La borsa assume inoltre un aspetto dinamico quando si dilata e diventa borsa da viaggio, il cui archetipo è il sacco da viaggio che insieme al bastone sono emblema del pellegrino. Sicuramente è uno degli accessori più indispensabili. Contiene il nostro micro-mondo privato, tutto quell’insieme di oggetti indispensabili e che non rappresentano comunque ciò che di nostro vogliamo che ci accompagni nel nostro viaggio quotidiano. Rappresenta anche un contenitore segreto di cui quasi sempre solo il proprietario conosce il contenuto; è però un involucro che ama farsi notare, che gioca con i colori, le forme, i materiali. Forse proprio questa doppia valenza, questa dimensione “interiore” e quella esteriore lo rendono un oggetto tanto interessante, che attrae senza svelare. La nostra borsa è così un oggetto rassicurante: è come un pezzo di casa, è il guscio della lumaca, è l’oggetto che nella Seconda guerra Mondiale serviva a contenere ciò che si poteva scappando agli allarmi dei bombardamenti, è una proiezione di noi stessi che ci da sicurezza, è un’appendice che ci aiuta a darci un contegno, un appiglio, un sostegno nelle situazioni sociali. In quest’ottica si colloca nell’insieme di quelle appendici che ricorrono nella storia del costume e della moda: i vari manicotti del XVII sec, e poi il ventaglio, il parasole, il fazzoletto per le donne; spada, bastone, ombrello per gli uomini. Secondo lo psicologo Desmond Morris questi oggetti rappresentano barriere tra noi e il mondo esterno che ci infondono sicurezza, che ci permettono di rivivere l’atteggiamento infantile di nasconderci dietro la mamma o ad un mobile di casa. La borsa è essenzialmente un oggetto femminile: il borsello non ha avuto un successo duraturo. Gli uomini fanno uso comunque dia altri accessori come portadocumenti, zaini, ventiquattro ore, sacche, cartelle. Forse il grande successo di questo accessorio sta in parte nelle motivazioni affettive, in parte nel valore oggettivo dato da lavorazioni, materiali, dal patrimonio artigianale coniugato alle nuove tecnologie che ogni pezzo racchiude.
70
71
8.1 La borsa nella storia del costume
La borsa nasce come contenitore destinato al denaro; la sua origine, dunque, è legata alla nascita della moneta, avvenuta circa mille anni a.C. Il nome bórsa s. f. [lat. tardo bŭrsa, dal gr. βύρσα «pelle, otre di pelle»]. “borsa” deriva da byrsa, parola greca che indicava il cuoio. Da ciò è facile intuire che presumibilmente le prime borse erano confezionate con questo materiale. In società in cui era l’uomo a svolgere attività legate all’uso del denaro la borsa era soprattutto un accessorio maschile. Le più antiche testimonianze della lavorazione delle pelli si ritrovano in Toscana nel secolo XII. Sul finire del secolo vennero istituite dalla Repubblica fiorentina le cosiddette Arti Minori, tra cui quella dei Calzolai, dei Cuoiai e Galigai, dei Corregiai e Sellai. La lavorazione si svolgeva a Firenze inizialmente nella zona del Ponte Vecchio, dove le pelli venivano immerse, prima di essere conciate, nelle acque dell’Arno, poi in seguito tale procedimento fu effettuato nella parte orientale della città, poiché causava disagi agli abitanti. Le pelli erano distinte in pellami più resistenti, date dalla concia di animali come manzo e bufalo, e in pellami più raffinati derivanti da vitelli, capre, camosci. Sono di questo periodo borse quali le scarselle, da portare appese al collo e alle cinture, e le bisacce, borse da viaggio usate dai messi e dai pellegrini che potevano essere portate anche sul dorso del cavallo. Erano diffuse anche modelli più preziosi. Le borse degli artigiani fiorentini furono apprezzate e molto richieste anche dai mercanti esteri. A Venezia operavano invece artigiani detti bolzieri, facenti parte dell’Arte dei Lavoratori del cuoro, i quali, in una città fondamentalmente commerciale come Venezia, erano molto impegnati nella realizzazione di varie tipologie e dimensioni di borse, da quelle per il denaro a quelle per piccoli oggetti quotidiani a quelle da viaggio e destinate alle merci. Le borse di dimensioni più ridotte venivano portate appese alla cintura o al collo. Accanto a borse in pelle erano realizzate borse in tessuti preziosi, con ricami e applicazioni di perle e gioielli, tanto che per limitarne lo sfarzo vennero promulgate delle leggi suntuarie, che fissavano dei limiti all’uso di materiali preziosi.
72
73
8.2 Il Medioevo Nel Medioevo prevalgono modelli che non occupano le mani ma che sono indossati a tracolla come carnieri, bandoliere, tascapane usati dai pellegrini o bisacce diffuse tra i contadini. Nel XI e XII secolo, in seguito alle Crociate, si diffonde una borsa detta aumonière sarazinoise (elemosiniera alla saracena), destinata in un primo momento a contenere le monete destinate alle elemosine, strumento necessario per guadagnarsi indulgenze e la grazia divina, poi in seguito ampliata fino a poter contenere altri oggetti. L’aumonière è prevalentemente di forma trapezoidale con la sommità arrotondata. Questa era spesso composta da una borsa esterna più grande e una piccola borsa interna, ed era spesso finemente ricamata. Col tempo si aggiunse una chiusura metallica, spesso molto decorata. La aumonière rimase pressoché invariata fino al XVI secolo.
8.3 Il Duecento Nel Duecento compaiono scarselle alla tedesca, portate al centro della vita, detti anche marsupi. Questi potevano essere di cuoio sia semplice che ornato, di seta, di velluto, spesso decorati con metalli preziosi e perle; esistono anche delle versioni in maglia. Erano anche usate borse con gli stemmi della casata di appartenenza o dell’attività svolta, citate anche nell’Inferno di Dante Alighieri. La scarsella rappresenta la tipologia di borsa più diffusa in quest’epoca e fino al secolo XVI. Dal XI al XVI secolo la borsa si diffonde notevolmente, e viene portata sia dagli uomini che dalle donne. Al Rinascimento risalgono le prime borse vicine al concetto odierno, con chiusure metalliche nella parte superiore. Nei secoli Trecento e Quattrocento questa chiusura prende la forma della odierna cerniera e viene riccamente decorata.
8.4 Il Cinquecento Nel Cinquecento le borse si diversificano in base alla forma e alla provenienza: alla francese, alla ferrarese, alla veneziana; cambiano seguendo i cambiamenti del gusto dell’epoca. I materiali usati sono cuoio e velluto, broccati, rasi, a cui sono applicate varie decorazioni quali fiocchi, frange, nastri e che spesso vengono arricchiti con ricami e applicazioni. Molto diffusa anche in epoche precedenti è la borsa da matrimonio: una borsa con l’effige dei due fidanzati, che, riempita di monete d’oro, veniva donata dallo sposo alla sua sposa. Ritroviamo inoltre la scarsella, di memoria Medievale, a forma circa di cartella (a cui ha dato il nome), di dimensioni abbastanza grandi, con un fodero esterno per il coltello. Nel corso di questo secolo le brache a sbuffo favoriscono la nascita di tasche destinate a contenere oggetti e della brachetta, una sorta di sacchettino attaccato ai calzoni. Le tasche fanno la loro comparsa intorno al 1550, e in Francia nel 1563, periodo di disordini, furono addirittura proibite per paura di ciò che potevano nascondere.
74
75
8.5 Il Seicento Nel Seicento le borse sono pressoché assenti, poiché denaro ed effetti personali erano riposti all’interno dell’ampiezza delle vesti, che si erano fatte notevolmente ampie e maestose, ricche di pieghe e imbottiture. Si diffonde in questo periodo l’uso del manicotto che oltre a tenere le mani al caldo era dotato di tasche per riporre oggetti. Questo oggetto era diffuso a Venezia già nel Quattrocento, ma conoscerà una grande diffusione in Francia solo intorno al XVII secolo. Fu portato da entrambi i sessi, e fu chiamato contenance o bonnes graces. Inizialmente era in tessuto foderato di pelo, in seguito fu, al contrario, in pelliccia con fodera in tessuto. La borghesia adotterà dei modelli in pelliccia nera, mentre presso le dame dell’alta società erano in voga modelli in volpe con zampe e testa della stessa; erano anche usate pelli di tigre o di leopardo. Il manicotto verrà utilizzato anche dagli ufficiali. Come detta la moda dell’epoca, anche questo accessorio viene spesso arricchito di frange, nastri, pietre. Alcuni modelli potevano essere appesi alla cintura. In questo e nei secoli successivi si diffondono contenitori e cofanetti destinati a contenere effetti personali, talora segreti, oggetti da toilette, lettere d’amore, oggetti da cucito e da ricamo. Nel Seicento e nel Settecento si diffusero le borse da lavoro, contenenti il necessario per cucire e ricamare. Queste borse erano in tessuto o in perline ed erano spesso accompagnate da un cuscinetto per puntare gli spilli; queste borsine venivano portate anche in occasioni mondane, quasi a ribadire il proprio status di donna “perbene”.
8.6 Il Settecento Alla corte di Maria Antonietta era ancora diffuso il manicotto, che è sempre più capiente e prede il nome di barilotto; esso può contenere ventaglio, portacipria, tabacchiera ed addirittura un piccolo animale da compagnia! Il manicotto è ancora in pelliccia ed e decorato con varie passamanerie, e come era già avvenuto in precedenza, era utilizzato anche dagli uomini. E’ dopo la Rivoluzione Francese e l’affermarsi dello stile Direttorio che ricompaiono le borse, anch’esse, come vuole la moda dell’epoca, leggere e morbide, ispirate alle reticola romane, da cui prendono il nome che storpiato diventa ridicule. Per la prima volta nella storia del costume queste borse sono appese al braccio. Non ebbero tuttavia una grande diffusione.
76
77
8.7 L’ottocento nel 1805 non si faceva più ironia sull’abbigliamento femminile e nessuna donna sarebbe mai uscita di casa senza borsetta. Ora accessorio prettamente femminile, la borsa diventò estranea agli uomini, costretti a stare con le mani in tasca. La prima borsetta in pelle comparve più tardi, quando nacque l’esigenza di una robusta sacca da viaggio con manici. Ispirata ai bagagli, la borsa degli anni ’60 dell’800 era una valigia in miniatura, con serratura, chiave e uno scomparto interno per i biglietti. A differenza della fragile reticola di maglia o del decorativo borsellino chiuso da una cordicella, questa borsa si chiudeva a scatto, e per la prima volta le donne poterono avere con sé le proprie cose difendendo la propria privacy.
78
8.8 Il Novecento Dopo il 1890 la borsa comincia a comparire con una certa frequenza. Questo ritorno è dovuto, oltre ad un fattore di moda, ossia l’affermarsi di una silhouette affusolata, anche ad un fenomeno sociale: la maggior dinamicità delle donne, che prendono l’abitudine di viaggiare. Con lo sviluppo dei trasporti le distanze si accorciano e nasce il gusto per il viaggio e l’esotico; nascono così le borse da viaggio per signore, funzionali e ricche di scomparti e marchiate con l’iniziale della proprietaria e tutta una serie di bagagli, che fino a questo momento avevano privilegiato l’aspetto funzionale, dalle forme e dettagli ricercati. Si diffondono anche modelli da passeggio, che vanno da esemplari riccamente decorati da appendere in vita con catenelle, a esemplari più moderni, con i manici. E’ il periodo spensierato della Belle Epoque, che tuttavia finirà bruscamente con il 1918 e la Prima Guerra Mondiale, che durò quattro anni e portò via la frivolezza, la spensieratezza, la mondanità dell’epoca precedente. Durante la guerra sono diffuse ampie borse in cuoio robusto destinate ad accompagnare le donne che spesso hanno intrapreso qualche genere di attività fuori casa. Dopo la guerra il mondo è cambiato: il non fare niente non è più una condizione prestigiosa, l’oziosa borghese non esiste più; al suo c’è una donna vivace, con abiti accorciati fino al ginocchio, che si addicono alla sua vita dinamica. Questa donna spesso lavora, scia , nuota, guida, balla. L’ideale è una donna dinamica, un po’ “androgina”, la “garçonne”. Questi anni frenetici vengono battezzati “Anni Folli”. Le borse perdono la catenella e nascono le pochette, sono squadrate , di forma rettangolare, di vari materiali. Già da qualche anno inoltre è forte l’eco delle “suffraggette”, che rivendicano per le donne non solo il diritto al voto, ma una nuova dignità all’interno della società. Queste donne vestono senza il busto, con abiti di linea sciolta, piccoli cappelli e borse appese al braccio, funzionali e non leziose. In questo periodo convivono queste tipologie di borse, funzionali e sobrie, e quelle ornamentali e decorate delle signore eleganti della buona società. Coco Chanel, sembra interpretare le esigenze di una nuova femminilità lanciando un nuovo modo di essere e di vestire, con i suoi abiti rigorosi ed eleganti, con i suoi tessuti sportivi e confortevoli. La borsa diventa un compendio necessario alla mise femminile. Si diffondono varie tipologie: dalle borse a due manici alle pochette alle borsine ricamate. La borsa viene anche interpretata da molti artisti dell’epoca, che creano oggetti unici ovviamente destinati ad un pubblico di elite: è il caso dei pezzi creati da Erté, da Sonia Delaunay ed altri. Una tipologia che si diffonde in questi anni e rimane in voga fino alla fine degli anni Trenta è la trousse, detta in America vanity case: si tratta di piccoli contenitori rigidi, in genere di materiali preziosi come metallo, tartaruga, lacca o pellami esotici come coccodrillo e rettile. All’interno vi è uno specchio e lo spazio per cipria, piumino, rossetto. E’ attivo a Parigi Hermes, nato come sellaio, il cui stile rimane legato al mondo equestre. In Italia operano Gherardini (dal 1885), Gucci (dal 1912).
79
80
Gli Anni Trenta rappresentano un momento di riequilibrio, dopo gli “Anni Folli”. Ritornano la sobrietà, l’eleganza, i valori borghesi. Si diffonde la famosa Chanel nata nel ‘22-’23, modello a busta dalle caratteristiche impunture a rombi, destinata ad avere enorme successo e diffusione. Sempre Chanel lancia il tubino nero che è un passepartout per tutte le occasioni e viene rinnovato con gli accessori. Grande successo ebbe anche la tracolla lanciata da Elsa Schiapparelli, e in seguito quella di Gucci, che in questo periodo lancia un modello ispirato al mondo dell’equitazione, in cinghiale con la famosa banda in tela verde e rossa. Nasce il concetto di tempo libero anche per le classi popolari; si diffondono quindi gli sport e l’uso di recarsi al mare. Ciò inaugurerà una serie di nuovi accessori nati per queste esigenze. Nasce come accessorio estivo il secchiello, proposto da Hermès, che ben presto diventa un oggetto da usare tutto l’anno. Gli anni Trenta sono anche gli anni di proposte stravaganti e surreali: dai pezzi di Elsa Schiapparelli a varie borse dalle forme più disparate:case, conchiglie, orologi, mazzi di fiori, violini. In questi anni la scelta della borsa era legata ad una serie di regole per adattarsi alle diverse situazioni e momenti della giornata (mattino, pomeriggio, sera). Le borse da giorno si coordinavano all’abito ed erano dello stesso colore di guanti, scarpe, cappello. Per la sera le borse erano spesso confezionate nello stesso tessuto dell’abito, a volte erano con strass o paillettes. Fa nuovamente la sua comparsa il manicotto, di cavallino nero o di velluto. Gli anni Quaranta sono segnati da una generale cupezza data dal clima di guerra. L’autarchia e le restrizioni materiali favoriscono la diffusione di materiali alternativi a quelli pregiati. Tali materiali sono destinati ad avere grande successo e diffusione. Nati come una necessità i mezzi di fortuna per sopravvivere e vestirsi durante la guerra si coloriscono di dettagli ironici, assumono il carattere di una provocazione della moda, e si useranno tutti i mezzi per fare buon uso dell’”autarchismo”. In Italia si diffondono alternative ai materiali più preziosi: il cuoietto autarchico (similpelle), il dentice (battezzato “pelle di sirena”) al posto del coccodrillo, il rospo al posto dello struzzo. Si diffondono anche borse in tessuto: canapa, lino, seta. Ci si ingegnò come meglio si poteva, anche usando il feltro dei cappelli.
81
Le borse sono di grandi dimensioni, ormai le borsine degli anni precedenti lasciano il posto alle “borsone per la spesa” che si appendono alla spalla e sono comode per andare a piedi o in bicicletta. Durante la guerra la borsa era sempre pronta, per portare con sé durante eventuali fughe i propri averi. Dopo la Seconda Guerra Mondiale Parigi assume un ruolo di primo piano nella moda. Si riscopre il gusto della vita mondana, a cui partecipano esponenti della buona società e del mondo dello spettacolo.Quasi ad esorcizzare le brutture della guerra, sarti come Dior e Balmain vestono le donne come creature eteree, con grande raffinatezza e cura; l’emblema di questa nuova donna è Grace Kelly. La silhouette proposta da Dior, il cui “New Look” avrà grande successo, veste la donna come se fosse un fiore: i busti stringono la vita e da qui in giù i ricchi tessuti si svasano. Questo stile è immortalato dai bozzetti di un grande illustratore dell’epoca, Gruau. Gli accessori sono in questi anni un compendio fondamentale all’abbigliamento: Hermès è all’apice del suo successo, così come Roger Vivier con le sue scarpe, Lesages con i suoi splendidi ricami, le varie modiste con i loro cappelli. Gli accessori sono spesso coordinati e confezionati con lo stesso tessuto e decori. Sono diffuse le pochette di dimensioni molto piccole. Tornata l’eleganza formale, torna l’accessorio coordinato. Dopo la guerra, quando era difficile trovare pellame, Gucci utilizzò tela di cotone e i manici di bambù. Chanel prese le pesanti catene dorate dagli orli dei suoi abiti e ne fece tracolle per la sua famosa borsa trapuntata 2/1955. Ricordiamo alcune delle borse più famose del XX secolo: la Bolide creata da Hermès nel 1923 ,morbida e affusolata all’estremità, fu la prima borsa al mondo chiusa con una cerniera; la Plume, che originariamente serviva a portare la gualdrappa, introdotta nel 1933 sempre da Hermès; la Noe, creata da Louis Vuitton nel 1932, fu pensata per portare cinque bottiglie di champagne, dimostrando così che si può essere eleganti anche in viaggio; la Trim di Gucci, del 1958, dalla semplice foggia da viaggio, minimalista e moderna, divenne uno status symbol da quando Jackie Onassis la sfoggiò a Capri, pochi sanno che si ispirava al sacchetto per la biada dei cavalli; nel 1956 diviene famosa la Haut à Courroiesdi Hermès, così chiamata per via della forma allungata con lunghe cinghie, grazie a Grace Kelly che la indossò. Con le sue creazioni, Giuliana di Camerino (che firmerà i suoi modelli con la R di sua figlia Roberta) rappresenta un’eccezione per i suoi colori forti accostati, per i tessuti pesanti fatti su antichi telai, per i suoi vivaci pezzi unici che ebbero grande successo in tutto il mondo. Il decennio degli anni Sessanta rappresenta un momento di grossi mutamenti sociali, che ebbero importanti ripercussioni sul gusto e sull’abbigliamento. Sorpassato il formalismo anni Cinquanta, e con esso la figura di una donna femminile e procace, la moda conosce un periodo di importanti sperimentazioni, mentre si profila una nuova figura femminile, infantile e asessuata, che sembra incarnare il rifiuto del mondo “adulto” e con esso i suoi valori sia etici che estetici.
82
Per quanto riguarda le forme sono molto diffuse le forme strutturate: bauletti, borse a mano con cerniere metalliche, borse a cartella. Non si tratta tuttavia di modelli formali, ma di oggetti decorati, futuribili, non classici. Il cambiamento dello stile di vita, ed in particolare verso ritmi più dinamici anche per le donna (automobile, lavoro, studio) decreta il successo di borse funzionali, con tasche, soffietti, cerniere nascoste e tracolle. Nascono inoltre le prime borse destrutturate, anche se comunque per ora non è la tendenza preponderante. Non possiamo parlare di stile ma piuttosto di una commistione di stili: l’optical, il retrò, lo psichedelico, l’etnico sono tutte tendenze presenti che influenzano lo stile e la moda. Nel frattempo l’atterraggio dell’uomo sulla Luna apre la strada ad una tendenza “futuribile”. Ancora, nel 1995, Dior presenta la borsa Lady Dior, un cocktail di impuntura decorativa e un grappolo di lettere del logo pendenti dal manico come un braccialetto, portata in giro per il mondo da Lady Diana. Particolari decorativi: In generale nella decorazione prevale il gusto per decori geometrici e per le linee pulite. Molto diffuso il bicolore, anche giocato su materiali diversi, che mette in risalto le geometrie. Decori geometrici: fibbie, cinturini, tasche applicate, pattine. Gusto per i dettagli metallici, anch’essi dalle forme geometriche e pulite: largo uso di cerniere con saltarelli in metallo decorati, piccole chiusure metalliche decorate sempre con motivi geometrici. Rivetti e automatici. I materiali usati sono: pelli (vitello, rettile) colorate, plastica, vinile, vernici, tessuti fantasia floreale e fantasie geometriche, paglia. Per la sera pellami dorati, strass, perline, tessuti moirè.
83
8.9
84
D
a sempre affascinata dal mondo, Filomena Manti inizia il suo percorso studiando etnografia, disciplina che le dà l’opportunità di viaggiare e di vivere con diverse culture di paesi lontani. Dopo aver conosciuto l’America e le principali città europee arriva in Asia, più precisamente in Indonesia, dove entra in contatto con i grandi maestri artigiani del paese. Affascinata dal loro lavoro, decide di conseguire un master in Textile and Leather Bags. Da qui nasce il suo primo progetto Fida: una capsule haute de gamme dove ogni borsa racconta una storia e vede la fusione di tradizione e modernità, mixando disegni e intarsi fatti a mano, tipici della cultura indonesiana, alle forme attuali dello stile occidentale. È a questo punto che Filomena decide di tornare in Italia e, con l’intento di unire le contaminazioni del suo percorso all’artigianalità tipica del Made in Italy, crea Amanti. Sulla scia di questi forti contrasti tra sogno e realtà, disincanto e pragmatismo, le sue creazioni si contraddistinguono per le forme eleganti e semplici ma sporcate da elementi materiali che ne risaltano l’autenticità. La sfida è rendere attuale il concetto di eleganza abbinando codici tradizionali e materiali nuovi e imprevedibili. Stile moderno ed unicità del passato fanno di Amanti un brand sempre alla ricerca del giusto equilibrio fra i suoi tratti globali e un design tipicamente Italiano. L’utilizzo di pelli pregiate e la ricerca continua di dettagli che rompono gli schemi creando una collezione di toy bag dove l’aggiunta di elementi inusuali come, nella collezione autunno inveno 17\18 i lacci degli stivali dei Teddy Boys diventano elemento di rottura, o i piumaggi della collezione primavera estate 18, che rendono eccentrico il bon-ton delle forme classiche e di intreccia con la ricerca del particolare, la complessità di una lavorazione mai scontata, originale ed esclusiva. Il brand crea la sua rete commerciale principalmente nei mercati Emea e nel 2015 inaugura il primo Pop up store presso Galeries Lafayette sita al Dubai Mall Nel 2017 Amanti rientra tra i finalisti del concorso Vogue Talents indetto da Vogue ITALIA e AltaRoma nella categoria accessori con la collezione estate 2018.
85
Ogni borsa per Filomena racconta una storia. E perla un linguaggio dell’artigianato con un cuore calabrese e un’anima cosmopolita. Che si abbracciano in Indonesia dove la designer ha vissuto, e diventano opere d’arte in Italia. Le borse di Filomena hanno la stessa personalità delle muse che le hanno ispirate, come Josèphine Baker e Anna Piaggi. Occorrono molte ore per essere completate e il risultato è un tripudio di pellami pregiati e colori. Non “solo” un’eccellenza dell’artigianato italiano, le creazioni di Filomena Manti sono dei veri e propri oggetti da collezionare studiati dalla designer calabrese per strabiliare, affascinare, divertire, ma senza dimenticare la funzionalità. Una mattina di Gennaio come d’accordo abbiamo scambiato quattro chiacchiere telefonicamente con Filomena, per parlare delle sue ispirazioni e dei suoi progetti futuri.. FG Quando e come nasce il tuo brand? FM Dopo aver lungo viaggiato e dopo una prima esperienza in Indonesia, ho intrapreso un master in leatheran tessile bags e con queste influenza etniche ho realizzato la mia prima capsule haute de gamme caratterizzata da applicazzioni fatte a mano, dei puppets utilizzati per il teatro delle ombre. La collezione FW 17\18 ha portato incameramento, mi sono ispirata alle foto di Harry Pecciotti e agli Anni 60, anni di forti cambiamenti sopratutto nell’universo femminile: i lacci ricordano gli ultimi Teddy Boys, classiche e danno un alluce di ribellione.
gli optical bianchi e neri impreziositi da oro conferiscono un tocco glamour alla collezione. Le borse sono state realizzate con elementi contrastano le forme Sono rimasta affascinata dalla modo e da come, attraverso di essa, si possono raccontare delle storie . Sono una ricercatrice nasco così.. e poi mi piace sperimentare. Nel mio percorso ho studiato tutti gli aspetti dall’acquisto del materiale alla modalità di fabbricazione, dalle ricerche di mercato al posizionamento, ho investito molto nella mia formazione prima di presentare la collezione, non mi piace essere impreparata.
86
Vedere poco a poco le mie creazioni prendere forma dà un’enorme soddisfazione, sopratutto quando tutto è il frutto di sacrificio, dedizione e costanza. Poi arrivate le gratificazioni come “Who is on next”, era uno dei miei obbiettivi ed esserci arrivata sul dire tanto. É un riconoscimento al lavoro e ai sacrifici fatti, un’ occasione di grande visibilità e prestigio da cui partire. Non voglio essere l’ennesimo fashion brand, vorrei che le persone che portano una mia borsa si sentissero diverse.
FG dove produci i tuoi prodotti?
FG cosa ispira le tue creazioni?
FM Le donne che nel corso della storia hanno saputo esprimere il concetto di libertà, come Josephin Baker, la Regina Elisabette e Anna Piaggi. E poi il cinema e la FG La tua creazione preferita? letteratura, i viaggi e i FM La Paris, un passe-partout per il giorno e la notte. loro contrasti. Sono sempre a metà tra tradizione e modernità, trovo interessante mixare elementi etnici con altri moderni. É un modo per creare qualcosa di nuovo ed inaspettato.
87
FM In italia, poiché il made in italy, quello vero, è cultura del bello. È fatto da artigiani che da secoli sanno lavorare i pellami. Questa passione, questa attenzione al dettaglio che hanno gli artigiani italiani è imbattibile.
FG Piani per il futuro? FG Con che materiali e forme preferisci lavorare?
FG Il colore che non può mai mancare nelle tue collezioni?
FM Si c’è aria di cambiamento per il Brand che cambia pelle e sta lavorando per modificare tutti i materiali utilizzati in precedenza con prodotti di riciclo che vedranno la rinascita di tessuti provenienti dall’abbigliamento rigenerati e ridisegnati per ottenere un prodotto glamour ma a basso impatto ambientale. FG L’outfit perfetto per completare le tue creazioni?
FM I colori naturali e l’oro.
FM Una maglia di cachemire, un jeans Levi’s e un sandalo dècolletè tacco 7.
FM Mi piacciono gli snake in generale e a volte li stampo come se fossero dei tessuti. Il serpente cambia pelle e il cambia mento è donna. Le forme sono sempre classiche: mi piacciono molto le borse anni 50 e 60.
88
89
9 Scarpe: il ritorno alla necessità scarpa s. f. [forse dal germ. *skarpa «tasca di pelle»]. – 1. a. Calzatura che riveste e protegge il piede, fin poco al disotto (s. basse) o poco al disopra
L’esatto inizio della storia della calzatura è difficile da stabilire con precisione. La facile deperibilità del materiale di natura organica che veniva inizialmente utilizzato dalle popolazioni preistoriche, avendo nella calzatura l’unico scopo di protezione dei piedi, non ha reso possibile il giungere fino a noi di antichi resti di quell’era. Si parla di scarpe primitive consistenti in pelli non conciate e assicurate al piede dall’utilizzo di un sistema di lacci dello stesso materiale. Venivano prodotte anche suole in fibra vegetale intrecciate e fermate al piede con lo stesso sistema. Sin dall’era degli antichi Egizi la calzatura ha assunto un carattere significativo nella distinzione sociale. I popolani nella maggior parte andavano scalzi, mentre gli uomini di rango elevato indossavano calzature. Esisteva anche una carica onorifica di “Portatore di Sandali” per le persone al seguito di faraoni e nobili. Gli Egizi a causa del clima del proprio territorio producevano e utilizzavano sandali. Questi sandali, costituiti da pelli conciate con oli vegetali e grassi animali venivano successivamente puliti dai residui di grasso e carne per mezzo di raschiatoi, tese su telai e immerse in bagni di materia grassa. Presentavano una suola realizzata in cuoio, legno, papiro, giunco o foglie di palma intrecciate assicurata al piede con il sistema dell’infradito. Anche gli antichi popoli medio-orientali, oltre alle pratiche di agricoltura e allevamento, svilupparono numerose attività artigianali e di commercio, tra le quali quelle relative alla concia delle pelli e alla fabbricazione delle calzature. I Sumeri (ca 3.500 a.C. – ca 2.000 a.C.) originari della parte meridionali della Mesopotamia crearono nuove diverse tecniche di concia tra le quali, la concia grassa con oli, concia minerale con allume e la concia vegetale con tannino estratto da noci di galla. La colorazione delle pelli realizzate era nera, bianca e rossa. Anche gli Ittiti (2.000 a.C. – 1.100 a.C.) popolo indoeuropeo delle regioni montuose dell’Anatolia, svilupparono la concia delle pelli con tannino estratto delle noci di galla. Le calzature da loro prodotte, in conseguenza del territorio che insediavano, erano robuste e con la punta volta all’insù. Gli Assiri (2.000 a.C. – 612 a.C.) affinarono queste tecniche di concia delle pelli e del cuoio assimilate dai popoli vicini. Riuscirono a realizzare veri e propri stivali alti al ginocchio, adatti soprattutto per cavalcare e all’uso di carri da guerra. Anche tra gli Assiri la distinzione sociale era segnalata dal colore della colorazione, rossa per i nobili e gialla per la classe media. I Babilonesi (2.000 a.C. – 539 a.C.) in modo simile ai Sumeri utilizzavano sandali, introducendo ricami e decorazioni per mezzo di applicazioni metalliche. Anche Gli altri popoli delle regioni confinanti quali i Persiani (ca 700 a.C. – 331 a.C.), gli Ebrei (2.000 a.C. – 44 d.C.), i Fenici (2.000 a.C. – 64 a.C.), gli Sciiti (1.500 a.C. – 100 d.C.) adottarono e svilupparono proprie tecniche di concia, e di creazione delle calzature che si distinguevano dai sandali agli stivali a seconda della tipologia di regione abitata.
90
91
9.1 Il tacco come status symbol
L’elemento che nell’immaginario collettivo è maggiormente associato alle calzature dei secoli XVII e XVIII è senza dubbio il tacco. In un periodo in cui la moda aveva come preciso scopo quello di meravigliare, dello stupire e di creare effetti teatrali, elevando la figura e donando un portamento elegante e manierato, il tacco diventa vero protagonista. Anzi, molto di più..il tacco è una vera “creatura” del barocco. Prima del 1600 non esiste alcun tipo di vero tacco in uso: verso la fine del 1500 vennero prodotti alcuni piccoli tacchi di legno i di sughero mentre prima di questo periodo gli spezzoni di sughero, a forma di piani inclinati, o di fogli di cuoio che erano stati provati ebbero un successo molto limitato poiché creavano grandi difficoltà di movimento. Ma prima ancora che ad esigenze estetiche, il tacco era la risposta a problemi di ordine pratico: alla fine del 500 entrano in uso, soprattutto in Italia, altissime piattaforme in legno o sughero che venivano nascoste dalle donne sotte le lunghe gonne e in cui veniva infilato il piede calzatoia una pianella di pelle. Questi zatteroni avevano scopo di rendere la donna più alta (doveva raggiungere la stessa altezza del proprio cavaliere, cappello compreso) e di preservarla dall’inzaccherarsi nelle strade. All’inizio del 600 ciabatte in legno dotate di tacchi e dette alla point levis venivano indossato allo stesso scopo igienico anche dagli uomini sopra le scarpe nelle occasioni formali. La comparsa dei primi veri tacchi in legno che caratterizzavano gli stivali alti con rimbocco in uso nel primo ‘600, coincise con la scomparsa di Goni altro pseudo tacco e le esigenze di ancorarlo saldamente alla suola contribuì alla nascita del concetto di calzatura moderna, più durevole e composta da svariati materiali. Per sopportare l’attrito dovuto alla presenza del tacco, le suore dovettero essere ispessite e fissate al cuoio con chiodature in legno o metallo. Ancora oggi vengono prodotte calzature con un tacco a rocchetto sagomato e sinuoso, detto alla Luigi. Il personaggio in questione è niente meno che Luigi XIV di Francia, il Re Sole, che rese questi tacchi popolarissimi sia per gli uomini che per le donne. Abbandonato l’onnipresente stivale dei suoi padri, il sovrano più alla moda della storia calzata in abbinamento alle eccentriche rhingrave e su calze di seta colorate scarpe in pelle dalla caratteristica punta tronca e squadrata, composta da un’ampia lingua di pelle centrale, chiusa da due fettucce laterali. Quando il re prese il vezzo di rivestire di pelle rossa i suoi tacci, anche i più modaioli dell’altissima nobiltà lo imitarono:la scarpa era diventata una status symbol, un oggetto di desiderio e ostentazione perfettamente barocco. Nella seconda metà del XVII secolo l’arte della calzatura si era evoluta, creando ai piedi dei nobili veri e propri capolavori di ricamo e tappezzeria: la punta, affusolata e quasi ricurva nelle ciabattine da donna, era tornata in voga e le scarpe di alto livello erano tutte rivestite in seta, ornate da fiocchi e fibbie preziose, coperte di fitti ricami simili ad arazzi. Il tacco è un vero emblema del barocco, onnipresente ai piedi di donne, uomini, bambini e persino dei ballerini che danzano i balletti di Lully per la gioia del re. Nel XIX secolo l’aristocrazia inizia ad indossare pantofole con tomaia e suola sottilissime chiamate “Pantofles à la poulaine” (con la punta rialzata e la tomaia in colore rosso) e “Nonchalantes” (con tomaia finemente ricamata). Mentre nelle campagne i contadini utilizzavano generalmente gli zoccoli, e le scarpe venivano adoperate solo la domenica.
92
93
94
9.2 Le scarpe nella moda
Nel XX secolo le scarpe assunsero un ruolo preminente nella moda come non era mai accaduto prima. All’inizio del ‘900 dominava il genio francese della bella Paris, l’art noveau. Le scarpe più diffuse avevano una forma dalla punta allungata e dall’accollatura alta. Nel periodo prebellico la forma più diffusa era il tacco “Luigi”, ispirato alle scarpe rococò, dalla tipica forma a rocchetto. Successivamente con la graduale diffusione di gonne più corte, come quelle fino alla caviglia, si diffusero gli stivaletti “Balmoral”, dal laboratorio di Crockett and Jones di Northampton, una calzatura dalla tomaia a punta allungata e forma affusolata, con collo alto e molto aderente chiuso da bottoncini posti anteriormente. In questo periodo iniziarono a diffondersi anche le scarpe da sera e soprattutto per il ballo, fornite di una maggiore comodità e stabilità senza tralasciare l’eleganza. Mentre per le attività quotidiane, oppure per attività sportive e all’aria aperta, quali golf, passeggio e bicicletta venivano utilizzati gli stivaletti con ghetta abbottonata. Nel periodo post-bellico la moda viene guidata dalla Francia con la rivoluzione dettata da Coco Chanel. Anche l’Italia inizia ad assumere pian piano il suo ruolo da protagonista grazie a Salvatore Ferragamo, che sarà uno dei più influenti designer di calzature del XX secolo, celebre la sua scarpa con la zeppa in sughero. Dal 1950 in poi inizia l’ascesa della moda italiana, Roma, Firenze e Milano cominciano la competizione per aggiudicarsi il titolo di capitale della moda. Sono gli anni in cui si sviluppano i sandali e i decolletè. Negli anni ’60 lo sguardo è rivolto a Londra, è qui che si concentrano tutte le nuove tendenze, e da qui partano i nuovi trend tra cui la Pop Art. Negli anni ’70 e ’80 l’Italia ritorna ad essere protagonista nel campo della moda trionfando con la creatività e qualità del proprio Made in Italy delle firme più prestigiose: Armani, Valentino, Ferrè e Versace. Gli anni ’90 sono invece caratterizzati da una moda più austera e minimal dove domina il nero. Negli ultimi anni invece, saltano tutte le regole e, complice la globalizzazione del mercato e con esso delle abitudini, la moda segue qualsiasi tipo di tendenza utilizzando colori, forme, materiali e tessuti di ogni tipo.
95
9.3
“Lo stile è un modo di essere ed è strettamente personale. Non ha imposizioni né età: è sentirsi sempre a proprio agio con sè stessi” Daniele Ancarani
96
Daniele Ancarani, bolognese di nascita sale alla ribalta
negli anni 80 come designer per le migliori aziende di calzature femminili del suo territorio. Buccheri, Bruno Magli e poi Di Sandro saranno la sua vera palestra creativa, prima di lanciarsi nello sviluppo della sua prima collezione. Nel 2001 nasce la linea Daniele Ancarani, che è sinonimo di stile, raffinatezza e comfort. Queste sono le linee guida del brand, tralasciando accessori inutili, iperboli moderniste e dictat “giovane a tutti i costi”. E’ la semplicità delle forme, i dettagli accuratamente elaborati e le finiture artigianali a prendere il sopravvento. Per Daniele Ancarani è importante “abbandonare il sensazionalismo per proporre prodotti portabili e concreti. Ciò non vuol dire abbandonare la creatività o la fantasia, ma canalizzarle per raggiungere risultati di stile e in contemporanea di vendibilità”. Nello stesso anno inaugura il suo primo punto vendita a Bologna, un luogo elegante ispirato all’architettura americana degli anni ’40, seguiranno poi altre aperture, ancora Bologna e successivamente Perugia, Catania e Roma, ogni spazio e location con un particolare layout scelto e progettato dall’estro di Daniele. Appassionato viaggiatore, Ancarani esplora luoghi ideali per l’inspirazione dei suoi prodotti e per declinarsi distributore non solo per il territorio nazionale, ma espandendosi oltre confine. Saranno marchi consolidati internazionalmente come Pura Lopez, Beverly Feldman e Philippe Model ad essere seguiti con meticolosa professionalità. Nel 2014 Daniele Ancarani, incontra Fabio Alibrandi, compagno di vita e lavoro, che porta all’evoluzione del brand con il debutto della nuova showroom alle porte di Bologna. Uno spazio speciale ricavato dalla conversione di una vecchia fabbrica, luogo dell’eleganza ideale per dare la giusta collocazione alle collezioni Daniele Ancarani.
97
Le collezioni Daniele Ancarani prendono spunto da uno streetwear sofisticato ma confortevole, dove le forme e le altezze dei tacchi non sono mai estreme. Una costante interazione con la clientela permette poi di verificare le esigenze del mercato. Infatti la filosofia del brand, è quella di realizzare un prodotto di qualità, contemporaneo con materiali, colori, linee, ideati e selezionati con estrema cura ed attenzione senza rinunciare ad un prezzo accessibile. Abbiamo incontrato Daniele a Roma un pomeriggio di Febbraio, per parlare della storia del suo brand,,
FG Hai lavorato per altri brand di calzature prima di aprirne uno tuo? DA Si, ho lavorato per diversi brand prima di iniziare a lavorare per conto mio,ho cominciato con Bocheri un’azienda piccola, artigianale di Bologna, che produceva per stilisti come Walter Albini, un’azienda dove mi sono trovato particolarmente bene. Per poi passare a Bruno Magli, un marchio di scarpe internazionale, venduto in tutto il mondo, è stato un passo importante poichè mi ha aperto le porte ad una conoscenza dei clienti in una maniera diretta e forte, dandomi possibilità di stare a contatto i compratori di tutto il mondo. In fine ho lavorato per ?Morrison, Philippe Model e di Sandro.
98
FG C’è un designer che ti ha ispirato durante la tua carriera? DA Ci sono diversi designer che ho amato, ad esempio Roger Vivier il famoso disegnatore storico di marchi come Dior, Philippe Model, questi sono quelli che in assoluto mi hanno ispirato ami sono entrati nel cuore. Cerco di trovare proporzioni che possono essere simili alle loro, sempre trovando una mia strada per discostarmi e non cadere in brutte copie.
FG Che importanza hanno i viaggi per la tua ispirazione ? DA Mi piace viaggiare, mi è sempre piaciuto farlo poiché con i viaggi entri a conoscenza con colture e persone totalmente diverse dal luogo dove sei cresciuto, ti mostrano usi e costumi che per loro sono di riferimento. Io ho una particolare predilezione per il Giappone, rimango ammaliato da questa eleganza che non è mai ostentata, rimane sempre sotto tono, La semplicità e questo loro rigore mi piace, e cerco sempre di trasferirlo nelle mie scarpe. La scarpa shock mi piace se è solo un piccolo particolare nella collezione, un’intera collezione di calzature shock mi farebbe solo venire il mal di testa. Mi piace l’eleganza delicate, proprio per questo non mi piacciono i tacchi troppo alti, o quanto meno mi piacciono solo su chi li sa portare, less is more.
99
FG Tra i tanti modelli, ce n’è uno cui sei particolarmente affezionato? DA Si, c’e ne sono modelli a cui sono particolarmente affezionato, ma anche tanto che ormai non mi piacciono più, se deve essere onesto fino in fondo.
FG Fabio il tuo compagno di vita e lavoro, che ruolo ha nella tua azienda ? DA Fabio si occupa ti tutta la strategia commerciale, che studiamo insieme, ma lui approfondisce meglio, da anche un suo parere sulla collezione (anche se poi faccio di testa mia), ma ce sempre uno scambio di opinioni. Lui parte pratica e organizzativa, io parte creativa.
100
FG L’universo Ancarani comprende anche calzature maschili. Cosa ti ha spinto a progettare anche scarpe da uomo? DA Non ho mai voluto fare scarpe da uomo, ho sempre rifiutato perché convinto che bisognasse concentrarsi su un argomento e farlo bene, però come vedi le cose cambiano, un’azienda solida toscana mi ha proposto di ideare una collezione da uomo marchiata con il mio nome ed ho accettato, quindi la prima collezione uomo nasce quest’anno a Febbraio del 2020, che verrà presentata al Mikam per la prima volta.
FG Quali sono le regole per scegliere una calzatura perfetta? DA Magari ci fossero delle regole per scegliere la calzatura perfetta, io ancora non le conosco, però ci si può avvicinare, una scarpa come dicono gli inglese deve avere un “good looking” ti deve piacere, devi essere attratto, senza mai dimenticare che verranno indossate quindi ti ci devi sentire accolto, elemento fondamentale per la scelta della scarpa. Se l’altezza del tacco è corretta e ti ci riesci a muovere quella sarà la scarpa giusta. 5 centimetri in meno o in più in una scarpa no portano a niente, una bella camminata un bel passo, un movimento femminile quello si che rendo più sexy una donna di un tacco altro, che ha il suo fascino è attrattivo, però se non ci sai camminare..
101
FG Secondo te che ne disegni e ne produci tutti i giorni, perché è nata la mistica del tacco? DA Prima di fare il disegnatore dei brand sopracitati, ho lavorato per un tacchificio, che lavorava per i marchi più prestigiosi, da Manolo Blanick, Pancaldi, Magli, Casadei, Paldinidi, Sergio Rossi, ecc. Con il lavoro che facevo non avevo un lavoro creativo, andavo in queste aziende e mi dicevano le direttive per costruire il tacco adatto ad ogni forma, così da sviluppare il tacco da loro richiesto. Per me questa è stata un ottima scuola perché mi ha fatto capire come su certe forme vanno un determinato tipo di tacco.é fondamentale per una scarpa poiché ne è supporto, ha un buono spazino nell’argomento scarpa.
FG Ogni scarpa ha una storia da raccontare. Quale sarà il tuo prossimo racconto? DA È vero che ogni scarpa ha una storia da raccontare, ma sai chi ne fa la storia ? Chi la indossa. Ho visto la stessa scarpa indossata da varie clienti e tutte le volte quella scarpa ne assumeva una personalità differente, per cui la magia di chi le porta a interpretarla. Ti porto un esempio di una scarpa in particolare che ho avuto modo di vedere declinata in più donne, che sia con un calzino, con una calza a rete, con una calza scura e con una calza trasparente. La scarpa assumeva di donna in donna un carattere diverso, si avvicinava alla personalità di ognuna di essa. È questa la magia delle scarpe, devi farne un tuo strumento personale per far emergere la tua personalità.
102
103
10 Iris Apfel
Questa è la storia di una “ragazza” speciale, nata ad Astoria, quartiere di New York, dal padre Samuel Barrel e dalla madre russa Sadye, proprietaria di una boutique. Entrambi i genitori erano ebrei. Dopo aver studiato storia all’Università di New York, ha iniziato a lavorare collaborando con la rivista WOMAN’s wear Daily considerata “la Bibbia della moda”, lavorando anche come collaboratrice dell’illustratore Robert Goodman. Nel 1948 ha sposato Carl Apfel (1948-2015), con il quale ha avviato anche un sodalizio artistico e lavorativo avviando la loro industria tessile, la Old Wild Weavers, avviata nel 1950 e chiusa nel 1992, Il loro primo viaggio in Europa del 1953 fu rivelatore. «Trovammo broccati, damascati, qualsiasi genere di meraviglia… Non volevamo solo stoffe particolari, ma anche aziende in grado di riprodurle con esattezza». Le trovarono in Italia. E in breve tempo gli architetti di nomi come Greta Garbo, Estée Lauder e Montgomery Clift iniziarono ad affollare il loro show room newyorkese. Iris nel frattempo ha lavorato anche come interior designer, progettando gli interni anche per la Casa Bianca, in particolar modo durante le presidenze di Truman, Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter, Reagan e Clinton. Il giornalista e fotografo Bill Cunningham che l’omaggiò sul New York Times: «Non serve andare in Europa per avere un assaggio di raro, autentico stile». Ma senza l’Europa, probabilmente Iris e Carl non sarebbero arrivati a rinnovare persino gli interni della Casa Bianca Nel 2005, quando Harold Koda, all’epoca direttore del Costume Institute al MET Museum di New York, contattò Iris per realizzare una mostra sulla sua collezione di abiti e bijoux. «Molti si chiedevano chi fossi… ma la cosa non mi stupì, considerando che il MET non aveva mai omaggiato lo stile di una donna ancora in vita che non fosse una stilista». Con centinaia di abiti e accessori, la mostra Rara Avis (Uccello raro) conquistò la Big Apple. È rimasta vedova il 1º agosto 2015 dopo 67 anni di matrimonio.
10.1 Il bello di essere e appartenere
L’ispirazione? Iris la colse spesso nei mercatini, dove ha passato giornate a mercanteggiare; se da bambina gli scampoli della nonna erano il suo gioco preferito, una madre à la page le trasmise l’amore per la moda. Da giovanissima, conquistò persino un paio di jeans da uomo, e fu una delle prime donne d’America ad indossarli. L’alta moda arrivò più avanti, a Parigi: «Ho messo insieme una collezione di haute couture dagli anni ’50… giravo tra gli atelier per acquistare rimanenze. Così scoprii case di moda che utilizzavano manichini con misure simili alle mie». Ad avere importanza non fu mai il costo, quanto la personalità di capi o gioielli; sul set di Iris, documentario che Albert Maysles le ha dedicato nel 2014, la si vede appassionarsi in un negozio di chincaglierie a bracciali da 4 dollari («Ancor meglio di quando Carl mi porta in gioielleria!»).
104
La si potrebbe pensare fanatica dell’ordine, regina in un impero di armadi divisi per modello, epoca, colore… In realtà, nel suo appartamento, i capi sono appesi a semplici appendiabiti; tutto deve essere a portata di mano, rapido da indossare. Questione di apparenze? Decisamente no: «Chi ama le etichette può definire il mio stile “eccentrico”, ma poco importa. Non mi vesto per farmi guardare, ma per me stessa. Quando hai un look diverso, penserai in modo diverso». Durante la sua carriera è stata considerata dalla stampa statunitense un’icona della moda; nel 2005, The Costume Institute ha organizzato una mostra dedicata ai suoi look intitolata Rara Avis: The Irriverent Iris Apfel, presentata al Metropolitan Museum of Art di New York e poi diventata itinerante e proposta anche al Norton Museum Art di West Palm Beach, al Nassau County Museum of Art sempre a New York e al Peaboy Essex Museum di Salem (Massachusetts). Albert Maysles ha realizzato un documentario dedicato alla sua vita dal titolo Iris, presentato al New York Film Festival nel 2014. Ormai ultranovantenne, continua a frequentare gli eventi dedicati al mondo della moda e a far discutere per i suoi look e la sua forma fisica sorprendente in relazione alla sua età. È del primo febbraio 2019 l’annuncio della sua firma con la nota agenzia di modelle americana IMG Models per curare la sua immagine e le future apparizioni come testimonial e modella. Gestisce un profilo Instagram seguito da oltre 1 milione e 400 mila utenti.
105
11 Look Book
O
ggi giorno la moda è ovunque, dalla città all’ufficio passeggiando per le mostre d’arte e il nostro tempo libero. In base alle nostre occasioni, dobbiamo decidere cosa indossare e scegliere il giusto accessorio non è sempre facile. I codici di abbigliamento cambiano in base al tempo e al luogo, dobbiamo essere sempre perfetti e originali. La donna protagonista in questo look book ha una personalità poliedrica, che non si accontenta solo del bel vestire ma ricerca in ogni capo un sentimento, senza età poiché sono elementi che con l’aiuto degli accessori tutto è possibile, sono un elemento fondamentale nel guardaroba di ogni donna, arricchiscono rendendo un outfit sempre unico e sempre diverso, che riesce a cambiare il significato dell’outfit in base ad ogni occasione. Ho analizzato i trend dell’anno venturo, concentrandomi sul tema dell’artigianato, che è da sempre sinonimo di unicità, un qualcosa che trasmette al consumatore un senso di appartenenza, che crea un legame con il produttore. I Brand protagonisti sono realtà vicine all’artigianato che danno importanza al Made in italy. Guifriday artigiano di Bologna che crea i suoi cappelli entrando in empatia col cliente rendendo ogni sua creazione un pezzo unico. Le borse Amanti che nascono dalla ricerca continua della designer che in giro per il mondo ricerca tecniche artigianali e pellami unici. Ancarani, designer di calzature il quale ricerca semplicità delle forme con dettagli accuratamente elaborati e finiture artigianali. Entrando a contatto con queste realtà mi sono interrogata sull’importanza dell’artigianato nel nostro millennio, e del cambiamento che ha subito tramite le nuove tecnologie e l’avvento di internet e social. L’artigianato ed il tecnologico due mondi che sembrano apparentemente contrapposti, che cercano di camminare in sincro per far crescere alcune realtà apparentemente di nicchia che vogliono espanderersi ad un pubblico più ampio, questo è possibile grazie a canali social ed alle nuove tecnologie che rendono alcune mansioni più veloci e quindi la possibilità di produrre o progettare prototipi con tempi più brevi. Tutto questo senza perdere l’essenza dell’artigiano e dell’artigianato. Un breve excursus storico sull’origine dell’accessorio e degli accessorie protagonisti, per capire da dove sono partiti i designer dei brand sopracitati.
106
107
11.1
108
appartenènza LookBook
109
Una donna che ama viaggiare , in una fascia di età non definita , poiché è un vestire emotivo e bisogna sentirsi libere di fare. I deali ben definiti, voglia di viaggiare e scoprire nuove culture , che non si accontenta di ciò che va di moda ma bensì ricerca l’unicità nei dettagli dei suoi outfit, dimostrando che sono l’elemento distintivo e fondamentale per ogni donna. Questo look book nasce con l’idea di dimostrare che basta poco per adattarsi ad ogni occasione per una donna con una vita frenetica, che deve essere sempre pronta a quello che la vita, le amicizie ed il lavoro le propongono.
110
111
Copenaghen Reffen BLOX Giardini di Tivoli
112
113
Shenzen Design Society Oct-Loft E-Cool
114
115
Cdmx Templo Mayor Coyoacan Polanco
116
117
Bibliografia di Nazzareno Luigi Todarello Storia del costume e della moda. La moda in Occidente dagli egizi al 2018. Ediz. illustrata 2019 di Vincenza Maugeri,Angela Paffumi Storia della moda e del costume. Per gli Ist. professionali per l’industria e l’artigianato. 2005 di Emanuele Farneti Vogue accessory, 06\11\2019
Sitografia di Adnkronos Toscana, regina della moda italiana per numero di addetti ed export 20\1\2020 [https://it.fashionnetwork.com/news/Toscana-regina-della-moda-italiana-per-numero-di-addetti-ed-export,1177291.ht] di Alessandra Agnati Alanui SS18, a Firenze il cardigan oversize ispirato agli indiani d’America [https://www.objectsmag.it/alanui-ss18-a-firenze-il-cardigan-oversize-ispirato-agli-indiani-damerica/] 01\2\2020 di Econopoly Artigiani e innovazione, anatomia di un matrimonio ancora difficile 02\7\2019 [https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2019/07/02/artigiani-innovazione-competitivita/?refresh_ce=1] di Cisco La tecnologia per dare valore a industria e artigianato 4.0. [https://www.corriere.it/native-adv/cisco-longform01-la-tecnologia-per-dare-valore-a-industria-e-artigianato.shtml] 03\2\2020
di Giorgia Genocchio Iris Apfel: icona di stile (e di vita) senza età. 28\3\2019 [https://www.vogue.it/news/article/iris-apfel-icona-di-stile-e-di-vita-senza-eta] di Francesco Marino Dall’Internet delle cose all’Internet del fare: il valore dei Social Media per gli artigiani 02\2\2015 [https://www.digitalic.it/internet/web/dallinternet-delle-cose-allinternet-del-fare-il-valore-dei-social-media-per-gli-artigiani] di Laura Pavesi Lavoro: il futuro è nell’artigianato e nei prodotti fatti a mano 02\3\2019 [https://www.italiachecambia.org/2016/03/lavoro-futuro-artigianato-prodotti-fatti-a-mano/] Di Patrizia Scarzella Il futuro è artigiano grazie ai “maker”, i nuovi creatori che uniscono tradizione e tecnologia [https://www.lifegate.it/persone/stile-di-vita/futuro-artigiano-maker-tradizione-tecnologia] 12\1\2020 Botteghe Digitali [https://www.botteghedigitali.it/progetto/] 25\2\2020 Botteghe Digitali [https://www.botteghedigitali.it/progetto/] 25\2\2020 Le Botteghe Digitali e il futuro del Made in Italy [https://talentgarden.org/it/italy/botteghe-digitali-futuro-del-made-in-italy/] 12\1\2020 Il Settore dell’Artigianato: Professioni, Competenze e Prospettive di Lavoro [https://www.jobbydoo.it/browse/artigianato] 10\1\2020