Anatolij Ljiupanov di Emanuela Mercuri

EMANUELA MERCURI

Anatolij Ljiupanov Noir gotico

Copyright © 2010 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2010 CIESSE Edizioni Anatolij Ljiupanov di Emanuela Mercuri Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910 - 8862964 | Fax 049 2108830 E-Mail redazione@ciessedizioni.it P.E.C. infocert@pec.ciessedizioni.it ISBN eBook 9788897277354 Collana BLACK & YELLOW http://www. ciessedizioni. it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun contributo economico all’Autore.

BIOGRAFIA DELL’AUTRICE Emanuela Mercuri nasce a Polistena (R.C.) il 16.05.1983. Dopo aver conseguito il diploma di Liceo Classico all’Istituto Vincenzo Gerace in Cittanova, si trasferisce a Torino, ove consegue la Laurea in Studi Internazionali, Facoltà Scienze Politiche (vecchio ordinamento, D.to Leg. 509,99) con la tesi “Norimberga: coscienza storico internazionale dei crimini di guerra, contro la pace e contro l’umanità”. Attualmente è iscritta al Corso di Laurea Magistrale in Scienze del Governo e dell’Amministrazione. Dopo varie esperienze formative e lavorative, attualmente gestisce le relazioni esterne dell’Associazione Italia – Bosnia Erzegovina www.assitabih.com. L’approccio alla letteratura avviene nell’infanzia grazie all’influenza genitoriale e scolastica che hanno spinto la piccola “Emy” a leggere Giacomo Leopardi e Frederich Nietzsche, molto presto. Il momento cruciale nella sua formazione arriva al Liceo, ove, la forma mentis è stata definita dalla letteratura filosofica, da Stendhal, da James Joyce, del quale lo Stream of consciousness la colpì talmente tanto da spingerla a scrivere di suo pugno i primi racconti. Alcuni degli stessi furono letti dai docenti, che la invogliarono a leggere Charles Baudelaire, Edgar Allan Poe, Arthur Rimbaud, non dimenticando Oscar Wilde. L’esistenzialismo e l’orrore che stava alla base del maledettismo poetico, la spinsero a scrivere una tesina di Diploma sul male di vivere tra 1800 e 1900, analizzato poi nello scoppio delle guerre

mondiali. Alla fine dell’adolescenza, si iscrive al Corso di Studi Internazionali senza mai abbandonare la letteratura, utilizzando per la tesi di laurea, oltre all’analisi storica degli esperti, il grido silenzioso di Kafka, come testimone dell’orrore del novecento.

Contemporaneamente ai viaggi in Francia e in Repubblica Ceca, negli ultimi 5 anni, in un sempre più fitto ventaglio di pensieri e di flusso di coscienza è partito il primo romanzo che si pone come specchio della volontà centralista delle idee e delle speranze in una visione acuta e dolorosa della società, della politica e dell’amore.

Al mio amore, al Prof. Bruno Chiesa, alla mia famiglia

I nostri successi e i nostri fallimenti sono tra loro inscindibili, proprio come la materia e l'energia.

Se vengono separati, l'uomo muore.

(Nikola Tesla)

1.

I parte Da Parigi a Londra: la poesia della vita Stava ritto in Notre Dame, il messale tra le mani bianche.

Il Te Deum rimbombava attorno all'altare maggiore.

Il giovane, poco più che un adolescente, non si sentiva diverso dalla anziana signora che gli stava accanto e che cercava di scostarsi da lui, spaventata dalla sua statura. Sorrise per un attimo e volse lo sguardo al soffitto della cattedrale. Gli sembrò immenso, innaturale per essere stato un frutto dell’ingegno umano. La mente fu bloccata nel suo vorticare dalla voce del sacerdote: «Ringraziamo Iddio, nostro Padre, per il nuovo anno che ci concede, per la stessa vita, sperando che sia piena di gioia, benedetta dalla nascita del nostro Salvatore. Buon primo dell'anno domini 1858». Il vecchio parroco sorrise e lasciando l'altare, congedò l'assemblea.

Si ritrovò solo. Osservava ancora il soffitto.

«Figliuolo, fa freddo. Perchè non tornate a casa e festeggiate con i vostri cari questo fine d’anno o potremmo dire, inizio d’anno?».

«Oh scusate padre!» Anatolij arrossì.

Il sacerdote si sedette accanto al giovane:«Forse non ha nessuno, almeno qui a Parigi. Ma c’è sempre qualcuno che ci aspetta!»

«Forse».

Anatolij si alzò e si incamminò verso l'uscita.

«Figliuolo!» tuonò il sacerdote.

«Di qualunque cosa abbiate bisogno, tornate pure a trovarmi e se non mi trovate, chiedete di padre Martin. Vi auguro un felice 1858».

Anatolij annuì chinando il capo e uscì fuori.

Si fermò per un solo istante davanti alla porta di Notre Dame de Paris. Si strinse nella sua pesante giacca nera doppio petto, addosso ormai da tre anni e si ripose sul capo il fedele cappuccio nero, per coprirsi dalla luce riflessa della neve.

Le vie di Parigi erano bellissime, innevate e illuminate da tiepidi lampioni. A malapena distingueva la gente che ivi gli passava accanto. Gli ricordavano cose lontane. Ormai molto lontane.

Giunse di fronte a un caffè. Fuori vi era una donna dipinta, inserita in ghirlande bianche, con un occhio ben aperto, le labbra rosso fuoco. Anatolij si fermò a guardarla. Si sentì tentato. L’immagine lo chiamava a sé. Entrò per cercar calore. Sedette a un tavolino in un angolo.

«Prego!» disse un giovane cameriere.

«Lasciate pure che io ordini per il nostro giovane ospite». Una voce roca proveniva dall'altro lato della stanza annebbiata dal fumo di pipa e sigarette.

Un uomo di media statura, molto magro si accostò al giovane «Posso sedermi?»

«Certo!» rispose Anatolij, arrossendo, ma fremendo, forse aveva trovato un amico.

«Allora signore, cosa vi porto?»

«Oh ragazzo! Portateci la fée!»

Il cameriere si allontanò da loro.

«Desiderate del tabacco?» Chiese l'uomo.

Anatolij annuì aspettandosi la solita dose di tabacco masticabile o da utilizzare nella pipa. Era giovane, ma ben conosceva l’uso del tabacco. L’uomo estrasse da una sottile scatola di metallo dei piccoli tubi, almeno questo parvero al giovane, di carta bianca.

«Le chiamano sigarette. Alcuni dicono che le abbiano inventate gli arabi, altri degli inglesi a san Giovanni d'Acri. Ciò non toglie che erano uso comune di semplici soldati annoiati e adesso le fumano tutti» rise.

Anatolij fece un tiro, arrossendo poiché aveva tolto dalla giacca la propria vecchia pipa, ormai bucherellata dalle tarme.

«Non mi son presentato. Il mio nome è Charles Baudelaire».

«Oh, il critico d 'arte! Ho letto le vostre recensioni sulle opere di quel poeta e scrittore americano, Edgar Allan Poe».

«Il padre dei padri oserei dire. Ha totalmente tolto la speranza, strappandola dalla bocca dell’uomo. Ha reso nota la morte alla stregua dei dipinti medievali che ancora terrorizzano la gente nelle cattedrali italiane.

La morte e il suo fratello il sonno!»

«Così dicevano i greci».

«Così dico anch'io mio caro amico. E il vostro nome?»

«Anatolij Ljiupanov!»

«Ditemi per carità che non siete cristiano!»

«Oh, signore, voi non credete in Dio?» «Sarei sciocco a negare l'esistenza di tutto questo! E lo definisco “tutto questo”, perchè ormai nessun Dio alberga quaggiù. La superstizione è morta, tanto quanto le nostre belle stelle. La natura è distrutta da questo mondo che si riempie di marchingegni. Certo utili, utilissimi oserei dire. Ma alla fine per fare un esempio, anche Gutenberg quando inventò la stampa viveva in un mondo certo ancora più primitivo del nostro. Eppure, non si fece scrupoli a creare una cosa utile senza annerire i nostri cieli. Adesso, la stampa è utile! Ma, mio caro amico, la gente pone l'attenzione sulla grandezza che cerca di raggiungere, non su parole scritte. Questo era la gente e questa è la gente adesso. Io credevo di non far male a una mosca scrivendo e invece i miei “Fleurs Du Mal” sono stati censurati dalla vostra Chiesa come blasfemi e osceni».

Anatolij chinò il capo imbarazzato, sentendosi in colpa per essere stato in una Chiesa un attimo prima.

«Ah eccola! La nostra fée! Ci terrà compagnia».

Baudelaire sorseggiò la bevanda e si chiuse nelle spalle appoggiandosi alla poltrona.

«State male?»

«No, mio giovane amico. E dalla vostra domanda riconosco che non la conosciate ancora».

«Chi?»

«Lei, colei che rende la mente elevata. La più bella donna che mai si sia vista, capace con un incantesimo di curare la malaria e di estrapolare da voi immense opere per grandezza e bellezza. Bevete, bevete ».

Anatolij preso da curiosità e scetticismo ne assaggiò un po’. Si sentì all'inizio stordito, poi ancora una volta tentato.

«Non fatevi divorare da lei. Rendetela vostra amante e non padrona, affinché non vi conduca alla porta che si può solo attraversare per andare e non per tornare». Accese una seconda sigaretta, donando piena disponibilità al giovane Anatolij. Ma ditemi, voi da dove provenite? Il vostro accento sembra, alle mie povere orecchie, così straniero».

«Da dove provengo io, signore, non è in uso questa bevanda, ma ben altro.»

«Credo che forse voi veniate da un posto chiuso tra quattro mura, perché, dovete sapere, che lei arriva dove vuole. In ogni parte di questo mondo vi è nascosta Artemide, e in essa vi è l’ istinto più nascosto dell'uomo». Anatolij continuò a bere. Non era come la vodka. No! «Credo che per ora prenderà la mia mente, forse un giorno prenderà il mio cuore».

«Avete compreso mio giovane amico. Avete compreso e così presto!» poi aggiunse: «Siete molto giovane.

Vent’anni?»

«Si, quasi, signore!»

«Quando voi eravate poco più che cosciente della vita, io tentai di andarmene da Parigi».

«Per andare dove?»

«Oh» rise di gusto «per andare via da Parigi, dal mondo, tentai di togliermi la vita. Ma non ottenni ciò che volevo. Sapete che mio padre era un ex prete? » Il poeta lasciò i propri risentimenti scorrere di fronte allo sguardo perso del giovane e continuò: «Morì quando avevo sei anni. Era molto vecchio quando sposò mia madre. Lei, 27 anni, lui 67. Lei si sposò poi con un soldato, severo, per me era solo quello! Mi hanno rovinato! Sa quello che credo, mio giovane amico? Che questo è il tempo in cui il malessere prosegue passo passo con la società che invece cerca il benessere, ed esso aumenta sempre di più. Diverremo tutti dei semplici occupati dediti alla noia, come diceva il caro filosofo latino Seneca. Io cercavo la completezza, l'evolvermi. Sì! riconosco in ambiti squallidi, ma quale giovane non ha mai fatto pensieri squallidi?

Ditemi! È il peccato turpe che vive quaggiù, mio caro Anatolij? E io lotto contro quello. Quando lo poni davanti agli occhi del clero o della gente, mio caro amico, questo deve essere nascosto, perchè suvvia non puoi dire a un uomo di fede che è un perverso o a una donna che è una vampira succhia sangue, lasciva, che vuole rovinarti! Una sola donna mi ha salvato, l’Imperatrice». Rimase in silenzio per pochi istanti, ricordando lo splendore e la dolcezza della donna e con lo sguardo terso finì: «Almeno il suo intervento

ha salvato i miei scritti dalle fiamme senza che io pagassi con il carcere, nè che spendessi una cifra esorbitante come multa.» Accennò un sorriso. Agli occhi di Anatolij le parole del poeta non sembravano uno sproloquio, bensì pensieri di un uomo che conosceva il mondo così bene, da farlo sembrare un'anima millenaria e non un semplice quarantenne dedito al bere e al fumo.

Un istante dopo si trovava in una locanda, disteso sul letto, con la paura di dormire, di lasciarsi rapire.

2.

Trascorreva le sere, dal celebre incontro, seduto nello stesso café, assorbito dalle discussioni accese tra i reietti e i geni della società. Sempre lui, il caro e unico amico di Anatolij, Charles Baudelaire.

L’unica cosa che riusciva a mettere in sintonia i letterati del caffè, oltre alla fée, era senza dubbio Poe. Nascosti dietro i fumi dei loro ricordi e dei loro pensieri da rinnegati, per aver assorbito le lascive perversioni della loro epoca, o forse da sempre connaturate con la stessa essenza dell'uomo, si lasciavano andare alla loro amata, nascosta dietro il brillare del suo cuore di smeraldo. Lei danzava solo per loro.

Charles si sentiva il padre “francese” di quei poeti che si confondevano tra la somma poesia latina e il dandismo dell'Inghilterra, le cui differenze sostanziali, erano ben poche. Charles continuò : «Oh . . . i nostri bohémien vestono per lo più in nero e quasi siamo degli straccioni che avrebbero potuto avere di meglio, ma l'abbiamo bruciato gustando i peccati di oggi e di sempre. In Inghilterra, i cari nostri amici, che hanno mandato Nelson contro Napoleone Bonaparte, chiamandoci, come i nostri amici tedeschi, mangia rane, vestono di bianco e portano un giglio, talvolta un'orchidea all'occhiello!» Rise e poi continuò «Che ne pensi Stéphane? Vorranno mica nascondersi dalla Chiesa anglicana vestiti come agnelli al macello?»

«No Charles, suvvia ritengo che sia giusto avere un proprio stile nel vestire.»

Charles rise facendosi seguire dallo sbigottito Paul Verlaine.

«Stéphane! Santo cielo! Mettere un fiore all'occhiello irriterebbe solo le narici».

«No Paul. Lo farebbe solo a te, considerato che sei così delicato».

Stéphane si mise a gesticolare facendo una voce stridula.

Anatolij rideva e beveva. Fino a che non stramazzò sul tavolino. «È andato » disse il poeta rivolgendosi ai commensali del café «amici miei, è proprio andato!» Charles tentò di sollevarlo quando sentì un lieve torpore al braccio destro.

«Charles, tutto bene?»

«Sì caro amico effeminato, la vecchiaia avanza.» I due sollevarono Anatolij e cercando di capire dai suoi deliri dove abitasse, lo condussero alla locanda. I tre non furono ovviamente ben visti dalla proprietaria.

«Solita vecchia pazza anziana e obesa. Tra qualche giorno lo sbatterà fuori da qui, solo perchè lo ha visto con noi.» Esclamò Mallarmè.

«Oppure, forse, con te.» Disse Paul.

Charles aggrottò la fronte. Tuttavia proseguirono fino alla stanza del giovane. Mentre Anatolij delirava di una casa vuota e di corde, tenuto stretto per la mano

da Mallarmè, Paul e Charles iniziarono a discutere animatamente: «Che significa con te?»

«Charles, se non riconosci che, dopo che hai scritto quella serie di opere, tutti ti indicano come se avessi la peste, beh sei proprio un ingenuo.»

«Sentitelo».

«Non si tratta di cosa penso io, Charles, ma di cosa pensano gli altri. Ti sei esposto, hai avuto solo la fortuna di avere il beneplacito dell'Imperatrice che ha visto in te un artista. Finiremo per essere guardati tutti come i peggiori tra i rinnegati».

«Non sono un artista, giammai!» Tuonò «Che il fuoco bruci queste mani se ho mai voluto andare contro qualcuno o ho mai voluto fare arte. Ho messo la mia anima sulle pagine bianche che ora risiedono chissà in quale angolo accartocciate, come se di me a nessuno importasse qualcosa. Sono vecchio, forse non sono mai stato giovane». Volse lo sguardo a Anatolij riverso sul letto e provò compassione: «Gli occhi di quel giovane sembrano così gelidi, ma non per il loro strano aspetto. Sembra che anche a lui abbiamo strappato via la sua vita. Non ho mai sentito dire da altri, ciò che lui disse quando bevve lei … prima la mente e poi le lascerà il cuore. Spero che viva tanto a lungo da non lasciarsi portare via l' anima, solo il cervello, così non vedrà mai qual è il vero male!»

Charles crollò sulla poltrona di fronte al letto. Verlaine si chiuse nel silenzio. Tutto era silenzio.

Il delirio del giovane portò a galla le depressioni di un uomo istigato al suicidio, dimenticante del fuoco che lo ergeva a poeta, un poeta che era stato capace con allegorie di mostrare la grandezza della natura in un Albatros e i peccati sconcertanti della gente definita per bene, la miseria di una società voluta, educata e cresciuta nella barbarie della sua stessa volontà. Il suo spleen era un grido soffocato da un cappio, che gli fu posto dall'incomprensione e dai tabù.

Dal desiderio di recidere ciò che veniva considerato malvagio oggi e domani recuperato per una somma di denaro.

Un sospiro di donna che aveva ritrovato nel sommo Arthemisia Absinthium, in cui riversò la guerra che aveva nell'anima, nell'impotenza di sapere e non poter fare, cosciente che ciò che scriveva e proponeva, un giorno per qualcuno non sarebbe stato un semplice libro o una semplice critica per comprendere un periodo né l'autore stesso, ma la propria anima. Per ogni epoca ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe gridato ancora, che avrebbe visto persino i suoi pensieri inquisiti.

Dov'era la libertà di animo e cuore? La libertà che non può essere comprata? Quella che udì da suo padre, un ex prete, che rinnegò la sua posizione per crisi, per aver compreso che la carità ormai era cosa morta quando l'artefice fu crocifisso dal denaro e dal potere.

Dov'era la libertà che porta all'elevazione? Quella che risiede nei terreni nascosti del terzo occhio? Quella

fonte di inestimabile energia che scorre nel nostro corpo, capace di far vivere e di far morire. Quella che osservò nei suoi lunghi viaggi in India, quella libertà di credere e alzare le braccia al cielo, non sentendosi mai vecchi. Lasciarsi andare al fiume che scorre, che nasce e muore e nasce ancora.

Il Panta rei.

L'eternità racchiusa in una guerra che solo un piccolo occhio di smeraldo gli aveva dato.

Lei, sempre lei. La fata che ha dannato il poeta della morte, la stessa fata che curava i soldati colpiti da malaria. Sempre lei, l’unico suo ristoro quando il gelo del suicidio non lo prendeva con sè. Anatolij ripensava agli eventi e allo stato d'animo descrittogli dal poeta e che lo portarono al suicidio, ancora una volta, nel 1861. Il fumo di sigaretta arrossava i suoi chiari occhi blu e chiuso nella sua stessa sua stanzetta rimembrava il delirio che aveva preso il suo strano amico, quattro sere or sono. Arrabbiato e sconvolto dal rifiuto dell'Accadémie Française, non tollerava neppure il lavoro che il giovane Verlaine stava per iniziare. La collaborazione l'anno successivo con il Parnasse e la pubblicazione dei suoi versi “Poèmes Saturniens” gettarono nello sconforto il poeta, a tal punto, che percepì la sua fine intellettuale.

«I padri lasciano sempre il posto ai figli. E non sempre con buon cuore».

3.

«16 giugno 1867.

Signore, vi scrivo da Londra.

Sembra di vivere a Babilonia, non che io ci sia mai stato, per lo meno, non in questa vita, ma da racconti che ho udito, doveva essere così, piena di gente, di varie culture e lingue.

Ho sorriso nell'osservare accanto a me un uomo molto scuro. Un bambino per mano alla madre, si staccò da lei per osservare entrambi fermi davanti a un negozio. Io bianco, lui nero. credo che gli ricordassimo quel liquido marrone, cioccolata, che voi conoscerete di certo, che qui bevono con l'aggiunta di panna fresca.

Non farà male? Scusate la mia ingenuità, il posto da cui vengo, quelle quattro mura che voi dicevate, era molto severo e queste delizie del mondo occidentale erano, per molti, orpelli dei peccati di gola.

Spero voi stiate bene.

Vi lascio il mio recapito Three Kings yard 3 London w1k 4eh Great Bretain.

Con affetto, il vostro fedele amico Anatolij Ljiupanov»

«Parigi 15 luglio 1867.

Mio caro amico, le mie condizioni di salute sembrano essere notevolmente migliorate. Bruxelles è una bellissima città che vi consiglio di visitare.

Leggevo di voi e l’uomo di colore.

Ebbene, non nego che anch'io risi molto a immaginarvi come panna e lui come una tazza di cioccolata che cerca di fuggirvi. E poi il pargolo, come vorrei essere un piccolo bimbo che si tiene alle mani di sua madre, invece di fuggirne via.

Vedono le cose con tale innocenza.

Vi lascio.

Con affetto, Charles Baudelaire.»

Sembrò, tale risposta, agli occhi di Anatolij, così fredda e breve da provare, di certo, sconcerto e preoccupazione. Tuttavia non sentiva in sè certezza a riguardo, solo angoscia e sapeva che mai le sue prese d'ansia avevano sbagliato. Nell'ultimo periodo il caro suo amico poeta si era lasciato andare al silenzio più totale.

Decise dunque di recarsi a Parigi. Prese una nave fino in Normandia e da lì il treno.

Per sua sfortuna trovò molto scompiglio dovuto alle rivoluzioni che, durante il primo cinquantennio dell'800, erano scoppiate in Europa e specialmente in Germania, Italia e Francia. In quest'ultima ricordò bene il racconto del suo amico. Nel 1848 lo stesso Baudelaire prese parte ai moti parigini.

I francesi di campagna erano legati alle loro antiche tradizioni, alcuni attendevano ancora Napoleone, altri lasciati all'ignoranza non sapevano nè leggere nè scrivere. Di certo conoscevano la fame, tanto da assaltare treni e carrozze. Quasi due decine di anni dopo sarebbe nata la comune di Parigi. Anatolij decise, dunque, di proseguire come potè, a piedi o chiedendo scorta a carrozze che trovava per il cammino. Giunse a Parigi sporco e affamato. Davanti alla stanza in cui albergava il suo vecchio amico, vi trovò Verlaine. Appena vide Anatolij arrossì per l’imbarazzo.

«Cosa succede?»

«Mio giovane amico, ormai quasi uomo. Il vostro vecchio ormai muore. È la vita.»

Anatolij fece una smorfia di dolore ed entrò nella stanza.

Baudelaire tossiva. Ormai paralizzato nella parte destra del corpo e preso da afasia, aprì, per quanto potè, gli occhi affaticati dalle lacrime e dal dolore intenso, per il quale ormai gli erano negati sia hashish sia oppio.

«Anatolij, siete qui».

«Perchè non mi avete detto, sarà da molto che voi soffrite così, lo so».

«Che importava. Bisogna morire, è la legge».

Anatolij si alzò incapace di vedere l’amico in quello stato: «Mio caro, voi fuggite, io resto. Ma non fuggite sempre. Inseguite. Se non altro nessuno inseguirà voi.

Non credete? Una volta mia madre mi estromise dal

testamento, così che, beh, non attendo grandi funerali. Come potrei. Denunciate il male e il male denuncerà voi, mostrandovi parte di esso. Non credete Anatolij? Un uomo venuto da chissà dove ricorda a me l'innocenza che si può perdere nel voler conoscere tutto di questa vita e di chi viaggia sulle sponde dell’esistenza. Poi, ormai vivete dentro di lei. Non ne potete fare a meno. Diventate suo schiavo e attendete la morte. Non credete, Anatolij, che chi comprende sul serio il male, vuole alla fine morire? Perchè se tutto è così bello, perchè rendere belli i nostri corpi con orpelli di vanità per poi divenire luride fogne piene di letame e vomito. Astri del cielo! Vorrei le ali del mio albatros.» Tossiva e ormai si lasciava andare.

Anatolij si avvicinò alla porta singhiozzando e trattenendo le lacrime. La aprì e quando stava per uscire udì solo: «Ricordate sempre, vivete nel male per conoscerlo, ma non rassegnarvi a esso. Non è il demonio capace di destare paure, solo le catene che l 'uomo impone. È questo il male. È questo, Anatolij Ljiupanov».

Il 31 agosto del 1867 moriva Charles Baudelaire.

Il suo corpo fu sepolto nella tomba di famiglia a Montparnasse du Paris, un cimitero monumentale, tuttavia senza nessun epitaffio.

Anatolij rimase fuori dal cimitero. Non volle neanche salutare i due appassionati amici.

«La notte può sembrare più lunga del giorno, ma l'uomo saggio ne coglie il respiro fin quando il fato

non sprigiona la volontà di riprendersi ciò che è suo.»

Il prete che il giovane straniero aveva ascoltato la notte di capodanno del 1858, era accanto a lui con il messale tra le braccia e il viso contrito. Anatolij non proferì parola. In quell'istante voleva solo fuggire.

4.

La nave lasciò il porto di le Havre. Anatolij fissava il mare, perdendosi nella oscurità del manto nero che lo circondava. Estrasse dalla tasca l'unica lettera che il caro buon amico poeta gli aveva scritto prima di morire.

La strinse tra le mani e la avvicinò al viso, quasi come stesse stringendo un indumento e volesse ancora odorarne il profumo quasi vano.

«Posso?» Una voce femminile impose la sua presenza al giovane.

I lineamenti del viso delicati, le labbra quasi pallide e gli occhi verdi come le foglie di vite, mostravano la vitalità di un calice di vino, pronto per essere consumato.

«Prego.» Rispose il giovane.

La giovane donna si presentò: «Jeanne Deuville». Il nome risuonò nelle sue orecchie come una campana stonata.

«L'ho spaventata forse? Vi ricordo qualcuno?» chiese gentilmente.

Anatolij abbassò lo sguardo. Ripensò a quando il suo poeta gli raccontò della sua musa ispiratrice, divenuta poi il vampiro che lo avvizzì, come un fiero e crudele giardiniere recide la rosa forse più vigorosa del giardino del mondo.

«Scusate, sono molto stanco. Vorrei riposare». Anatolij si allontanò da lei, proseguendo verso la sua cabina.