LORENZO DI SILVESTRE
Il vento soffia da solo
Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2011 CIESSE Edizioni Il vento soffia da solo di Lorenzo Di Silvestre Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910 – 8862964 Fax 049 2108830 E-Mail redazione@ciessedizioni.it P.E.C. infocert@pec.ciessedizioni.it ISBN eBook: 978-88-97277-93-4 Collana GREEN http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri te-
lefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario. Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun contributo economico all’Autore.
Alla mia mamma.
BIOGRAFIA DELL’AUTORE Lorenzo Di Silvestre nasce il 14 febbraio 1988 in Abruzzo, dove vive tutt’ora. Frequenta prima la scuola professionale nel settore moda, conseguendo poi un secondo diploma specializzandosi come fashion designer. Pur avendo da sempre la passione per il mondo letterario,” Il vento soffia da solo” è il primo romanzo che scrive.
1. Oh, Santa Margherita da Valencia, fa che questa sia la volta buona… La porta scorrevole si aprì. L’azienda era proprio come se l’era sempre immaginata, esattamente come si vede nei film: un gigantesco open space, con una mega pianta nel centro, una scala tutta ferro e vetro che dava al soppalco superiore, luci in ogni dove e alla sinistra il grande bancone con un cartellino: reception. Col cuore in gola si avvicinò alla ragazza che sedeva annoiata dietro il bancone che, poté notare, era completamente di vetro e metallo. “Dica” lo accolse lei. Era alta almeno uno e ottanta, capelli piastrati dal taglio impeccabile, trucco perfetto, jeans più attillati di un guanto da chirurgo, e tacchi alla Lady Gaga. Spocchiosa. “Posso esserle utile?” chiese ancora lei. Aveva l’aria falsamente disponibile, di quelle che il datore di lavoro costringe a metterti in faccia, perché altrimenti non sei stilisticamente compatibile con l’ambiente. Decise che il suo nome poteva essere Martina. O Erica. Magari anche Jessica. Uno di quei nomi che ti ispirano antipatia a primo impatto.
“Allora?” si spazientì la receptionist. “Sì, mi chiamo Danilo Varini. Ho un colloquio di lavoro” disse sottovoce. Oh, Signore mio, ti prego! Fa che vada tutto bene… Martina-Erica-Jessica prese a digitare furiosamente sui tasti del computer, come se non volesse fargli capire cosa stava scrivendo. Dopo qualche istante la ragazza alzò nuovamente lo sguardo, con ancora più finta-gentilezza. “Prego, si accomodi, al momento il signor Assetti è impegnato. La riceverà tra cinque minuti” disse. Aveva in faccia uno sguardo alla “tanto-ilposto-non-sarà-MAI-tuo-tesoro!”. Vacca. “Grazie mille”. Danilo e il suo book si accomodarono su una mega poltrona asettica perfettamente mimetizzata con l’ambiente circostante. Unì le ginocchia e prese a guardarsi intorno. Era tutto così americans! Sembrava tutto uscito da”Il diavolo veste Prada”. E anche la gente che correva su e giù per le scale non era da meno! Tutti vestiti alla perfezione, con capelli tagliati alla perfezione e la dose di buon profumo spruzzato sul collo, alla perfezione. Tutto alla perfezione. Perfetto!
Danilo si sentì disgustosamente fuori posto. E pensare che si era anche dato una pacca sulla spalla specchiandosi, prima di uscire di casa! Si era messo la sua camicia preferita (l’unica in effetti) di un colore tra l’azzurro e il lilla, pantaloni cuciti da lui stesso a quadri grigi, neri e lilla e mocassini. Adesso però si disse che forse avrebbe dovuto studiare meglio cosa indossare per quel (l’ennesimo) colloquio. Sant’Ascanio patrono dei contadini Salentini, fammi avere questo posto! All’improvviso anche il suo book gli sembrò infantile: tutte le sue collezioni studiate nei minimi dettagli, rilegate con belle impaginazioni in formato A3, dentro un anonimo raccoglitore nero… eppure era così che all’accademia gli avevano detto che doveva presentare i suoi lavori! Aveva una scusante. Trascorsi quelli che a Danilo sembrarono molto più di cinque minuti, Martina-Erica-Jessica gli si parò davanti. “Da questa parte, prego” lo invitò. Porca miseria, da vicino era anche più alta di come sembrava! Danilo era uno e ottanta, e quella doveva essere alta almeno cinque centimetri in più! Lei con passo da modella (ma sparati!) e lui con passo titubante, entrarono in un’anonima
stanza impersonale: tavolo di vetro lucidissimo in mezzo, tre sedie di quelle che trovi nelle sale d’attesa dei dottori, una bottiglia d’acqua in vetro in un angolo del tavolo e luci, luci, luci, luci! Ma hanno parenti all’Enel? “Il signor Assetti arriverà tra poco”, e con un’ultima, sprezzante occhiata lo lasciò lì, da solo. Danilo sospirò. Aveva ventidue anni, poca esperienza e zero voglia di continuare con quegli stupidi, inutili colloqui. Erano tutti uguali: lui chiamava chiedendo se fossero interessati, visto che, fresco di studi e con un diploma di fashion designer, stava cercando lavoro. La metà delle volte gli dicevano di mandare un curriculum via mail, la maniera più facile per sbarazzarsi di lui, visto che con un clic eliminavano il file dove lui inseriva con tanto cuore dati personali ed esperienze lavorative. Le altre volte o gli dicevano”no grazie, non siamo interessati”, oppure, più sporadicamente, acconsentivano a incontrarlo. Come quel giorno. Danilo appoggiò il book sul tavolo. Poi si disse che era meglio non dare a vedere che si prendeva troppa liberta, e rimise il book sulle ginocchia, lasciando un’impronta sul tavolo immacolato.
Ecco, così adesso faranno il test del dna e vedranno che sono stato io a sporcare il tavolo, e non mi assumeranno. Non ce la faceva davvero più a sopportare tutta quell’ansia. Era il decimo colloquio. E la cosa che odiava di più in assoluto era l’aria di superiorità dei potenziali datori, che avevano tutta l’aria di dire: qui comando io, e pensa un po’? tutto dipende da me, se voglio ti do un lavoro, se non voglio ti rispedisco a casa. Ah ah ah! Ma fottetevi. In quel momento entrò Gennaro Assetti, un uomo che contro ogni previsione era assolutamente, incredibilmente normale. Altezza normale, con capelli dal taglio normale di un normale color castano come gli occhi. Naso normale, bocca normale, e fisicità normale. Non era né un eccentrico titolare di una ditta così famosa, né un riservato capo che emana più senso di potere che profumo Hugo Boss. Niente. Normale. “Buongiorno. Accomodati, accomodati…” gli disse con noncuranza. Ma questo ci ha anche la voce normale! “Grazie per il tempo che mi sta dedicando, signore” sorrise Danilo. Lecchiamo un po’, va!
“Ma figurati, è sempre un piacere incontrare persone giovani!” gli sorrise bonario. Danilo si fece forza. “Allora…” iniziò il normale. Danilo rimase zitto. “Dimmi, parlami di te.” Che nervi. Glielo chiedevano sempre. Ma cavolo, hai il mio curriculum, no? Leggi e vedi da te quello che vuoi sapere! “Mi chiamo Danilo, ho ventidue anni. Sono nato e cresciuto qui vicino” (Avrò sbagliato a non dire dove?)”Ho frequentato prima un istituto professionale…” “Settore moda, leggo” lo interruppe il normale. “Sissignore” annuì. “Bene, bene. Prego, va avanti” Danilo sospirò nuovamente, e proseguì. Gli studi, gli stage nelle varie boutique e/o nelle varie ditte (troppe ore e troppi pochi rimborsi!), e via di seguito. “Bene, Danilo” lo interruppe dopo un po’ Assetti. “Ti dico cosa sto cercando. Mi serve qualcuno che faccia da assistente alle nostre due stiliste. C’è tanto lavoro qui, e loro non ce la fanno a stare dietro a tutto. Cosa ne dici?” Danilo lo guardò incredulo. Gesù mio, fa che stia parlando davvero!
“Saresti interessato?” “Certo!” Troppo zelante, attento! “C’è da dire che difficilmente avrai modo di disegnare qualcosa di tuo. Mi pare di capire dal tuo book che sei soprattutto uno stilista.” Danilo scosse la testa sorridendo: “Non è un problema. Credo che bisogna fare gavetta, prima di poter pretendere un posto da stilista. Sono più che disponibile riguardo la sua offerta!” Dopotutto l’importante era fare esperienza e quello era il posto giusto! Vuoi mettere scrivere sul curriculum che sei stato assistente personale delle due stiliste di Kenny W? Le sue pubblicità erano dappertutto! Sarebbe stata l’occasione della sua vita. E poi anche se per il momento non avrebbe disegnato non voleva dire che sarebbe stato sempre così, no? Dopotutto Assetti non aveva detto nulla a riguardo. “Molto bene. Ti assegneremo all’ufficio tecnico. Il tuo lavoro consisterà nel creare le schede per la produzione dei capi. Ti senti all’altezza?” “Certo signore.” Evvai! Evvai! Evvai! “C’è già una ragazza che se ne occupa, ma al momento è talmente sopraffatta di lavoro che non ce la fa più a stare dietro a tutto. Sarà lei comunque a insegnarti bene quello che devi fare” gli spiegò sbrigativo.
Danilo annuiva e taceva. “Bene, allora direi che possiamo rivederci lunedì. L’orario è dalle 8.30 alle 12.30, e poi dalle 2 alle 6 del pomeriggio.” “Molto bene. Grazie, signore” Si alzarono, e, dopo un altro saluto, Danilo uscì passando dall’atrio, senza dimenticare di lanciare un’occhiataccia a Martina-EricaJessica del tipo “il-posto-è-mio-tiè!”. Uscì al sole, in quella caldissima giornata di aprile. Aveva un lavoro! Finalmente aveva un lavoro! Non aveva chiesto niente di più al “normale”… ferie, paga… niente. Ma tanto gli bastava. L’importante era lavorare. Basta stage inutili, basta girare per ditte pregando tutti i santi del calendario di Frate Indovino affinché fosse la volta buona. Basta tutto, adesso avrebbe lavorato, avrebbe fatto successo, sarebbe diventato una stella! Grazie Sant’Ambrogio protettore dei Moncheri.
2. “Maddaaaaai! E dimmi un po’ cosa dovresti fare… ?” L’entusiasmo della sua amica Gigliola, nome abbreviato da anni in un più moderno Lola, sembrava essere limitato solo al tono della voce, visto che con la mente e con il corpo era indaffarata a spulciare centimetro per centimetro uno stand di pieno di jeans. Danilo e la sua amica si trovavano dentro uno dei numerosi negozi d’abbigliamento del centro commerciale, che, per altro, sembravano tutti uguali. Era il loro pomeriggio tipo: si vedevano verso le sei del pomeriggio, giravano negozio per negozio senza comprare niente, parlavano, si tenevano aggiornati sugli ultimi pettegolezzi, e poi andavano a cena nella pizzeria al piano di sopra, o al ristorante giapponese dove lavorava una loro amica, sempre al piano di sopra. Dopo cena c’era il cinema multisala del centro commerciale che forniva un vasto assortimento di film, oppure la passeggiata sul lungomare, se non faceva freddo, o una cioccolata calda se il tempo era convinto che fossero nell’Era Glaciale. Quel sabato ovviamente, non faceva eccezione. Durante la settimana non avevano molte occasioni per vedersi, anche se tentavano di passare insieme più tempo possibile. Lui andava in
palestra (saltuariamente… e più per auto convincimento che per mantenere un fisico praticamente inesistente), cercava lavoro e aiutava i genitori nel negozio di pasta all’uovo di cui erano titolari. Lei, invece, studiava all’accademia delle belle arti, aveva le lezioni di danza classica, insegnava a suonare il pianoforte ai ragazzini nella scuola dove lei stessa aveva imparato, il suo impegno come baby-sitter, e i tanti, tantissimi libri da leggere. “Di cosa ti occuperesti?” chiese nuovamente Lola. “Ufficio tecnico. Schede tecniche, e quant’altro… Quello fa cagare!” Lola ripose sbuffando un orrido paio di jeans neri nello stand. “Bè, non disegnerai una mazza quindi.” Ecco a cosa servono le amiche: a incoraggiarti. “No, ma lavorerò pur sempre per le due stiliste di Kenny W, no? È comunque un inizio.” Lola fece spallucce. Uscirono dal negozio senza comprare nulla, e si incamminarono verso le scale mobili. Al piano di sopra presero posto al ristorante giapponese gestito dalla famiglia di una loro ex compagna di classe. Ignoravano totalmente il vero nome di lei e la chiamavano Amanda, come del resto si era presentata al primo anno delle scuole superiori. I suoi genitori erano in Italia da
prima ancora che l’immigrazione orientale nello stivale andasse tanto di moda, e questo per dire che la ragazza di giapponese aveva solo gli occhi a mandorla. “Ciao” li salutò avvicinandosi al tavolo. “Ciao, Mandy” ricambiarono entrambi. La loro amica non sembrava molto felice. Del resto lavorare in un ristorante il sabato sera con addosso un kimono mentre tuo padre fa ripetuti blitz dalla cucina per vedere se mantieni stampato in faccia quello che lui aveva battezzato “il sorriso di benvenuto”, non dev’essere poi piacevolissimo. “Anche stasera qui?” disse lei. “Se ti dà fastidio andiamo via” sorrise Lola. “Macché! Giuro che non ce la faccio più! E se mio padre mi fa un’altra scenata isterica perché non sorrido abbastanza, mando tutti a quel paese e mi trasferisco a Parigi!” Entrambi risero. “E poi come fanno i tuoi a mandare avanti un ristorante cinese?” scherzò Lola prendendo il menù dalle mani dell’amica. Amanda sbuffò alzando gli occhi al cielo. “Giap-po-ne-se! Cazzo, te l’ho detto un milione di volte! Io sono giapponese, non cinese!” Lola alzò le braccia al cielo. “Eh dai, ragazze!” le riprese Danilo sfilando a sua volta il menù dalle mani di Amanda.
La loro amica prese l’ordinazione in maniera sbrigativa e poco gentile. Del resto con loro due poteva evitare di fare la geisha disponibile e allegra. “Dunque, iniziamo…” Lola si appoggiò sui gomiti e si fece attenta. “Eccheppalle.” “Danilo! Non accetto un no!” “Ma lo facciamo sempre!” protestò lui invano. Invano. Con Lola non avevi scelta. Se voleva fare una cosa non la si dissuadeva nemmeno inginocchiandosi sui tizzoni ardenti. Ogni volta che cenavano al ristorante cinese… pardon, giap-pone-se di Amanda, Lola lo costringeva a fare il solito gioco: osservare le coppie che passeggiavano per il centro commerciale e commentare malignamente. Con il tempo e la pratica, la cosa poi si era estesa anche all’abbigliamento e ovviamente sui ragazzi che passeggiavano soli. Passarono così praticamente tutta la sera, finché alle undici andarono a pagare il conto. “Se mi aspettate cinque minuti tento la fuga da qui e vengo con voi” li supplicò Amanda. “Se vuoi ti nascondo tra i capelli di Lola” “Stronzo.” I capelli di Lola erano spesso oggetto di interesse, visto che presentava un’invidiabile chioma di ricci afro che risaltavano ancora di più
con la pelle bianca come una mozzarella e gli occhi cerulei, quasi bianchi. “Indovina chi ha trovato lavoro?” sorrise Danilo. “Hai trovato lavoro? Complimentissimi! Dove?” Amanda si dimostrò ben più partecipe di Lola e Danilo le raccontò dettagliatamente tutto il colloquio e le mansioni che avrebbe svolto. “Kenny W? Caspita!” Amanda era ammirata. “Magari riesci a portare via qualcosa per me. Non mi dispiacerebbero i pantaloni dell’ultima collezione! Quelli neri con le borchie…” “Anche io voglio qualcosa!” s’intromise Lola. Decisero di vedere un film (a dire il vero lo decise solo Lola), e quando uscirono da lì era l’una e mezza. Il centro commerciale era chiuso, quindi scesero per le scale e si ritrovarono fuori al parcheggio. “Ragazzi, io torno a casa. I miei a quest’ora avranno finito di mettere in ordine al ristorante” disse Amanda. Si salutarono, e Danilo e Lola presero la strada del centro, dove c’era ancora qualche gruppo di ragazzi che passeggiava. Lola prese l’amico sotto braccio. “Sono felice che hai trovato lavoro” gli disse. “Oddio! Sto per morire? No, stai per morire tu. Sennò non si spiega cotanta gentilezza.”
“E tu sei cotanto stronzo!” Ecco. “No, davvero” le sorrise Danilo. “Grazie per il sostegno” e l’abbracciò. Si fermarono davanti a una vetrina di scarpe dove Lola iniziò a fremere. Aveva un amore che andava ogni umana ragione per le scarpe. Col tacco, ballerine, da tennis, Converse… tutte! “Adesso sai cosa ci serve?” gli chiese tenendo sempre gli occhi sulla vetrina. Danilo poté quasi giurare di vedere l’ombra di una bavetta lussuriosa sulle labbra dell’amica, come quella che Homer Simpson ha per le ciambelle. “Non un altro paio di scarpe, ti prego!” Lola lo guardò. “No. Niente scarpe” sbuffò. “Anche perché questo mese ne ho comprate tre paia e mia madre mi ha praticamente tagliato gli alimenti al minimo indispensabile.” “Cosa allora?” “Un ragazzo! Un uomo! Un essere di sesso maschile” Lola alzò un po’ la voce, tanto che una ragazza che passava lì vicino disse amareggiata: “A chi lo dici!”. “Va bene, vediamo se più avanti troviamo un negozio che ne vende uno a buon prezzo?” “Non scherzare, Danì! Dico davvero! Sono tre mesi che non scopo!” Danilo alzò gli occhi al cielo sorridendo.
“Fine come una donzella settecentesca, tesoro.” “Ma per favore. Poi tu stai messo anche peggio di me. Quanto tempo è che non vai a letto con qualcuno?” Danilo si incupì. Era un argomento che lo infastidiva. Non il sesso, ma il pensiero di fare sesso con qualcuno che era subito collegato a Fabrizio. Che il Signore me ne protegga! “Non puoi pensare ancora a…” “Non dire nemmeno il nome!” la interruppe Danilo. Fabrizio non era un bel ricordo. Né un amore finito male. Né il suo primo amore. Non era nulla che potesse essere accostato alla parola amore. Fabrizio era solo un idiota. Si erano conosciuti in quarta superiore, quando Danilo stava scoprendo molto di se stesso. Sotto consiglio di Lola aveva deciso di accettare, quanto meno con se stesso, il fatto che era gay. Questo lo portò a desiderare, sebbene non apertamente, un qualche rapporto con un altro ragazzo. Di questo ne parlava solo con Lola che sapeva ascoltarlo, non lo giudicava e anzi, era felice come una pasqua di avere un migliore amico gay. “Come Will & Grace!” saltellava eccitata.
Questa nuova presa di coscienza fece rilassare Danilo, che fregandosene dei soliti pregiudizi che i ragazzi delle superiori possono avere, iniziò a essere semplicemente se stesso. Arrivò all’ultimo anno che era felice e appagato. Finché non incontrò Fabrizio. Fabrizio era alto, secco e con i capelli color topo di campagna. Gli occhi di un anonimissimo castano e un naso che poteva passare tranquillamente sia per aquilino che per deformato. Non era bello, ma nemmeno un mostro. Ma soprattutto fu il primo con il quale Danilo andò a letto. Non ci furono baci né carezze. Non ci fu premura né dolcezza. Fu solo sesso. Zac e via, tanto per intenderci. Fabrizio era terrorizzato da se stesso, dalla sua omosessualità che cercava di nascondere a costo della vita. Soprattutto dall’eventualità che qualcuno lo venisse mai a scoprire. A dire il vero era anche bravo, nel senso che non si sarebbe mai sospettato della sua tendenza sessuale. Si vestiva in maniera atroce, come solo i ragazzi etero sanno fare (non tutti, vabbè) e usciva con ragazze con le quali solo i ragazzi etero potrebbero mai uscire (tutti, e stop). Fatto sta che avevano incominciato a vedersi. Di nascosto, ma si vedevano.
Il problema era che Fabrizio voleva nascondere anche quello che non era necessario nascondere! Tanto per iniziare non poteva andare a casa sua facendo la strada normale, ma lo costringeva a fare un giro assurdo, che comprendeva due autobus, un notevole pezzo a piedi e infine una scalata di mezzo chilometro attraverso i campi. E per uno che ha il terrore dei serpenti, passare in mezzo a fitti fili d’erba alta un metro e mezzo non era proprio una goduria! Inoltre Danilo non poteva salutarlo a scuola o se lo incontrava per strada, o dare minimamente da intendere che lo conosceva o sapeva chi fosse, per paura che qualcuno, da un cenno di saluto, potesse risalire ai loro incontri peccaminosi. Se andava a casa sua, era costretto a nascondersi nell’armadio o sotto il letto se c’era anche il minimo sentore che qualche suo parente, genitore, fratello, cugino, trisavolo o prozio stesse per suonare al citofono di casa sua. E quelle erano solo briciole. Aveva resistito un anno sopportando la vergogna di quelle cose assurde a cui Fabrizio lo costringeva, sopportando le scuse che inventava per giustificare la presenza di Danilo nella sua vita, sopportando Lola che lo metteva sotto pressione facendogli violenza psicologica affinché lo mollasse e invitandolo a tener conto del suo amor proprio. Alla fine, un po’ per il com-
portamento di Fabrizio, un po’ per quello di Lola, si era stufato. Quello che non si aspettava era la tenacia di Fabrizio. L’aveva chiamato, supplicato, gli aveva dedicato canzoni smielate per telefono, gli aveva lasciato bigliettini fermati al tergicristallo della sua macchina e gli aveva anche scritto sms sdolcinati per convincerlo a vederlo di nuovo. Un paio di volte aveva quasi ceduto, ma fortunatamente quando vacillava c’era sempre lì Lola che gli ripeteva minacciosa: “Il lupo perde il pelo, ma non il vizio, tesoro. Per qualche ragione che sinceramente in questo momento mi sfugge, ora ti manca e vuoi tornare da lui. Ma ricordi tutto quello che ti ha fatto? Quella volta che ti ha fatto nascondere nel box doccia quando suonarono al campanello?” “Si era spaventato” lo giustificava. “ E se fosse qualcuno della sua famiglia?” “Era solo un suo amico che veniva a portargli un dvd! Non è nemmeno salito in casa! O quella volta che ti ha fatto scendere dal balcone perché era tornata sua madre?” “E se ci vedeva insieme?!” “Ma se non stavate facendo niente!” “Ma magari lo sospettava.”
“E per questo c’era bisogno di legare tre lenzuoli e farti scendere dal secondo piano? Avresti potuto romperti qualche osso!” “Ma non è successo.” “Sì, ok, poteva pure presentarti come un suo amico.” E andava avanti per un bel pezzo. Mano a mano che il tempo passava Danilo si staccava sempre di più da Fabrizio e alla fine lo riconobbe per quello che era: un ragazzo spaventato che non sarebbe mai stato pronto ad accettare una relazione normale, perché prima doveva accettarsi lui per quello che era. Evvabbè…