In arte Johnny di Lorenzo Pompeo

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COLLANA ELEMENTI

- TERRA -

In arte Johnny

Vita, morte e miracoli di Giovanbattista Cianfrusaglia di Lorenzo Pompeo


Pubblicazione scelta e curata da

per

ISBN eBook: 978-88-6660-003-9


Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2011 Roberta Guardascione In arte Johnny. Vita, morte e miracoli di Giovanbattista Cianfrusaglia di Lorenzo Pompeo Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l'utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 78979108 | Fax 049 2108830 E-Mail redazione@ciessedizioni.it P..E.C. infocert@pec.ciessedizioni.it ISBN eBook 978-88-6660-003-9 Collana ELEMENTI - TERRA http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL'EDITORE


Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.


"La sua vita, invece, era leggera, aerea, semplice, acrobatica come un aquilone che galleggia nell'aria grazie alla forza elementare del vento, legata alla terra soltanto da un esile filo. Per un capriccio del caso, che da sovrano assoluto governa le vite degli uomini, quel filo si era impigliato in qualcosa di indefinito e bizzarro, ma a quanto pare enormemente importante, una specie di nuvola invisibile in grado di oscurare il sole."


BIOGRAFIA DELL'AUTORE Lorenzo Pompeo è nato a Roma nel 1968, città nella quale ha trascorso la maggior parte della sua vita e dalla quale da sempre prova inutilmente a fuggire. Dottore di ricerca in Slavistica, traduttore letterario e non (in qualità di traduttore e interprete ha collaborato col Tribunale di Roma, gloriosa istituzione pubblica locale), ha tradotto con diverse case editrice alcuni romanzi dal polacco e dall'ucraino. È autore di due vocabolari, della raccolta di racconti intitolata "Auto-pseudo-bio-grafo-mania" (Ibiskos editrice Risolo, 2009) e, ovviamente in cooperativa, di tre figlie, organizzatore di diverse rassegne cinematografiche a Roma e a Varsavia nonché fondatore e animatore del cineforum Cinit "Luis Bunuel". Collabora con diverse riviste con traduzioni e articoli relativi ai suoi interessi (slavistica, letteratura, cinema e altri inutili orpelli). BIBLIOGRAFIA 2009, Auto-pseudo-bio-grafo-mania, Ibiskos editrice Risolo.


Un'oasi in mezzo al deserto con una carovana di cammelli che si abbeverano esausti all'ombra delle palme gonfie di datteri: fu questa l'ultima cosa a cui pensò Giovanbattista Cianfrusaglia, in arte Johnny. Forse perché tutta la vita aveva desiderato vivere altrove, in un posto più tranquillo, dove contemplare il tempo che passa lento, calmo, senza alcun pericolo e senza incertezze. Malgrado trascorresse gran parte delle sue giornate seduto al tavolino di un bar sotto casa sua, comunque avvertiva in continuazione le energie negative che vorticavano nell'aria, tutto quel nervosismo, quello sgomitare e quell'inseguire inutili traguardi, quel correre dietro all'esca, come fanno i cani nel cinodromo. La sua vita, invece, era leggera, aerea, semplice, acrobatica come un aquilone che galleggia nell'aria grazie alla forza elementare del vento, legata alla terra soltanto da un esile filo. Per un capriccio del caso, che da sovrano assoluto governa le vite degli uomini, quel filo si era impigliato in qualcosa di indefinito e bizzarro, ma a quanto pare enormemente importante, una specie di nuvola invisibile in grado di oscurare il sole. Aspettate. Ora di lui non sappiamo più niente. Sappiamo, perché ci siamo dovuti informare, quello che è successo in quel suo ultimo lungo,


maledetto giorno. Perché quando succedono queste cose, la gente di solito si chiede: "Com'è successo?". Tutti cercano di dare una risposta a questa terribile domanda, che pesa come un macigno sulla mente delle persone. Ma proprio in questi momenti di terribile confusione e smarrimento, quando ci sembra di perderci in un labirinto di domande senza risposta dalle quali sorgono altre domande, anch'esse vane, proprio in questi momenti in cui tutto sembra perduto, allora bisogna cercare di fare ordine, di ricostruire qualcosa, come dopo un terremoto che ha scosso la terra, facendo crollare gli edifici più fragili. Per questo bisogna cominciare dall'inizio di quella giornata, o forse dal principio di tutto. Da colui che lo generò, dal titolare del seme dal quale quella pianta cominciò, con tutta calma, l'avventura della vita. Già, perché la fretta è stata, per tutta la vita, la nemica di Johnny, forse fin da prima che venisse al mondo. Paride Cianfrusaglia, il padre, infatti, la odiava più di ogni cosa al mondo. Per questo si svegliava sempre prima di tutti. Non aveva neanche bisogno della sveglia, perché aveva già imparato a svegliarsi da solo nel cuore della notte a qualsiasi ora, ma per evitare sorprese, per sicurezza, comunque


metteva la sveglia alle cinque. Era notte fonda. Una notte tiepida, che prometteva una bella giornata di sole, non troppo calda. Ed era giusto. Perché l'ultima giornata di Johnny, giunto faticosamente ormai al ventiseiesimo anno di vita, doveva essere proprio così: un sole piacevole, una fresca brezza leggera, che sembrava proprio il pennello di un pittore impressionista, i colori della primavera, in poche parole il massimo, ciò che di meglio poteva offrire la natura in città. Una di quelle giornate per cui vale ancora la pena vivere su questo pianeta. ORE 4:55 Anche quella mattina, dunque, Paride anticipò di qualche minuto il suono della sveglia. Per lui era una specie di sfida. Quasi sempre faceva in tempo a disinnescare l'allarme poco prima che suonasse. Negli ultimi due decenni si era fatto sorprendere due o tre volte, e solo quando era andato a letto dopo qualche cena annaffiata da una quantità un po' eccessiva di vino. Questo poteva succedere solo se a quattro o cinque bicchieri di vino si fosse aggiunta una grappa, l'amaro o un limoncello (cosa che capitava di rado


e solo quando era a tavola in compagnia), perché un paio di bicchieri a cena non potevano mai mancare. Era grazie al vino che il suo orologio biologico funzionava a perfezione: due bicchieri e poi a letto. Alle cinque meno cinque Paride aveva lentamente oltrepassato la soglia della veglia. Per qualche istante ripensò a qualcosa che aveva visto in sogno, forse un'aula di scuola con un professore alla vigilia di un esame, uno dei suoi sogni più banali e ricorrenti. Non aveva buoni ricordi della scuola. Erano passati parecchi anni da allora, ma su quei ricordi, che si portava dietro e dei quali non era riuscito a disfarsi, si stendeva l'ombra di una tediosa umiliazione. All'epoca si era applicato poco, bisogna riconoscerlo, ma il problema non era questo. Era convinto che, anche se si fosse applicato moltissimo, comunque non sarebbe mai arrivato all'olimpo dei migliori, ovvero di quelli che i professori consideravano "gli intelligenti". E anche per questo si sentiva sempre inadeguato, mai all'altezza e nel sogno continuava a reiterarsi, negli anni quest'oscura mortificazione. Così anche quel mattino cercò di nascondere sotto il tappeto della veglia quelle fastidiose immagini di sogno. Naturalmente il pensiero andò subito alla


bomba a orologeria che doveva disinnescare prima dell'esplosione. Se non vi fosse riuscito, probabilmente gli sarebbe toccato litigare con sua moglie Natalia, che tutti chiamavano Nataša. Lei non sopportava l'allarme e non le piaceva essere svegliata a quell'ora. Ma, dal momento in cui Paride aveva fatto in tempo a disinnescare l'apparecchio, lei continuò a dormire tranquilla e beata, sognando il melo davanti alla sua dacia vicino Mosca, dove viveva la nonna. Non appena disinnescato l'allarme, Paride si avviò con calma in cucina, dove avrebbe messo sul fornello la sua piccola moka che lo aveva fedelmente servito per una ventina di anni. A Paride dispiaceva disfarsene e così, malgrado dimostrasse i segni dell'età avanzata, continuava a usarla, cambiando solo la guarnizione e ripulendo il filtro di tanto in tanto con uno spillo. Il caffè di una vecchia signora come quella era imbattibile. Le migliori macchinette del caffè sono come il buon vino. Una nuova moka avrebbe dovuto compiere almeno dieci anni di onorato servizio prima di pretendere la stessa considerazione e autorevolezza di quel suo anziano parente. E poi lui c'era affezionato. Chissà, forse perché da oltre vent'anni gli faceva compagnia. Così quella mattina (anche se fuori


era ancora notte a tutti gli effetti) cominciò col fruscio delle ciabatte e col borbottio dell'antica caffettiera, probabile residuato dei lontani anni del boom, quando l'ondata di frizzante modernità aveva investito il mondo intero e quando tutto, compresa la Luna, sembrava ormai a portata di mano. Tempi lontani. Sul tavolo della cucina Nataťa gli aveva lasciato un piattino con i biscotti e una fetta di pane coperto con un tovagliolo, la tazza e la marmellata. Tutto era pronto per cominciare l'avventura del nuovo giorno di lavoro. Dopo aver consumato la solita frugale colazione, c'era una seconda parte della cerimonia: la sigaretta fuori del balconcino. A quella sigaretta Paride non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Non era un fumatore nevrotico. Di solito si limitava a cinque o sei sigarette al giorno, distribuite nella giornata secondo orari rigidamente prestabiliti (le pause al capolinea e la fine del turno). L'unica cosa che veramente poteva turbare quella sua piccola cerimonia notturnomattutina era la pioggia. Il freddo invernale, al contrario, aggiungeva al rito un certo fascino: col cappotto appoggiato sul pigiama e le ciabatte, lÏ, seduto sulla sua poltroncina di ferro e legno, nel buio e nel silenzio, scaldato dal fumo


che scendeva nei polmoni, osservava la fila dei lampioni lungo tutto il viale che spalmavano le loro stanche luci sul silenzioso asfalto; e tutto questo fino alla fine dell'orizzonte, fino a quando il rumore del camion dei netturbini non rompeva il sigillo di quel silenzio. Non sempre l'arrivo del camion era sincronizzato con la cerimonia. Ma a Paride piaceva osservare l'arrivo del camion, sapeva bene cosa avrebbero fatto, dove si sarebbero fermati, conosceva i loro gesti, solo che non riusciva a riconoscerli dal suo balconcino. Quando li vedeva arrivare, rimaneva qualche minuto in più per seguire l'operazione. In quel caso avrebbe evitato di farsi la barba per recuperare quei due o tre minuti. Quindi non avrebbe potuto stare lì per più di due notti consecutive (anche se era molto raro che quella coincidenza si ripetesse per più di due volte di seguito). Ma quella mattina il camion non arrivò, così Paride poté radersi con tutta la calma necessaria e prepararsi per andare al lavoro. Anche i vestiti erano già pronti. L'uniforme da conducente di autobus lo aspettava appesa sulla stampella. Era un appuntamento immancabile. Da inutile larva, da creatura superflua come un soprammobile, una volta indossato il cappello,


si trasformava in pochi istanti in pubblico ufficiale, perché era quello, in ultima analisi, che faceva la differenza. Ora la cerimonia della vestizione era finita e, come un torero, poteva scendere nella sua arena per accogliere il toro. Tutto ciò avveniva nel più assoluto silenzio, mentre tutti gli altri abitanti della casa dormivano profondamente. Così solo il grande specchio all'ingresso era testimone di questa mirabile metamorfosi che avveniva al suo cospetto tutte le mattine. Il deposito degli autobus si trovava a un paio di chilometri da casa. Paride attraversava le strade del suo quartiere, mentre i bar cominciavano ad alzare rumorosamente le serrande. Arrivava al deposito sempre con almeno cinque minuti di anticipo, così non doveva correre a timbrare il cartellino. Lo faceva sempre come minimo un paio di minuti prima dell'inizio del suo turno. Un'altra manciata di minuti e sarebbe cominciata una delle tante giornate di lavoro di Paride Cianfrusaglia, da oltre trent'anni autista degli autobus, decorato dalla municipalizzata per la sua puntualità. ORE 8:00


Mentre l'autobus di Paride cominciava la sua impari lotta contro i mille tentacoli del traffico cittadino, che aveva cominciato a riversarsi sulle strade sotto forma di una massa informe di lamiere e motori, clacson e pneumatici che si contendevano l'asfalto in una vana battaglia all'ultimo sangue, nello stesso momento si stava svegliando anche Nataša. Si rivoltava pigramente per un po' nel letto, perché non doveva andare da nessuna parte. Non aveva necessità di correre al lavoro, giacché non lavorava. Per non annoiarsi e per tenersi un po' occupata, faceva qualche ora di lezione di russo in una scuola privata, preferibilmente nel pomeriggio. Da anni ripeteva a se stessa che avrebbe dovuto smettere, che tanto per quello che la pagavano, poteva benissimo rimanere a casa, che avrebbe dovuto cercare un lavoro vero, magari da segretaria in qualche ufficio, oppure in un'azienda che aveva qualche rapporto con la Russia. Ma poi l'idea di presentarsi a un colloquio di lavoro la spaventava e così preferiva evitarlo per non subire le battute stupide sul suo accento russo, insieme all'umiliazione di essere preferita a una ragazza che non aveva mai letto in vita sua neanche uno dei romanzi di Tolstoj, Dostoevskij, Dickens, Balzac, Stendhal e Flaubert e


che, forse, non li aveva mai neanche sentiti nominare. Una di quelle che in vita sua aveva scritto solo SMS e neanche una poesia, neanche un sospiro su un verso di PuĹĄkin o di Blok, che non aveva mai messo le mani su un pianoforte ma solo su un telecomando e, al massimo, sulla tastiera di un computer. Per non assistere a tutto questo, comprese le probabili avance di un attempato dirigente, aveva rimandato per anni la faccenda. CosĂŹ era giunta alla conclusione che ormai qualsiasi fanciulla, anche analfabeta, sarebbe stata in grado, grazie alla "bellezza dell'asino" e a qualche parente o conoscente, di soffiargli il posto. E non aveva tutti i torti, perchĂŠ molto probabilmente le cose sarebbero andate proprio cosĂŹ. Per tutti questi motivi il suo risveglio seguiva i ritmi naturali del sonno. Essendo stata educata ai sani principi e alla cultura del lavoro dell'Unione Sovietica, c'era in lei un orologio biologico che le indicava l'ora in cui si sarebbe dovuta alzare. La sua era una famiglia di impiegati che avevano lavorato tutta la vita in un ministero sovietico. Passati gli anni bui e duri del dopoguerra, lentamente il lavoro era diventato una variabile indipendente, ma i principi erano intoccabili e sani.


Si erano conosciuti a Mosca, dove Paride era andato con uno di quei viaggi organizzati dai sindacati per testimoniare agli occhi dei corrotti occidentali le miracolose realizzazioni del socialismo dei Soviet. Lei studiava lingue e letterature romanze all'università e faceva la guida per i gruppi degli stranieri, ovviamente sotto lo stretto controllo degli organi di sicurezza, cui doveva puntualmente riferire ogni dettaglio sul soggiorno degli ospiti. Quando Paride le chiese l'indirizzo, mostrandole qualche segno di interesse, si mostrò alquanto freddina, conoscendo il carattere degli italiani, che promettono molto e non mantengono quasi mai, e temendo le complicazioni dei rapporti con gli stranieri, fortemente sconsigliati dalle autorità. Ma Olga, la sua amica del cuore, con cui era cresciuta, mostrava molta meno diffidenza verso i nuovi amici d'oltrecortina, convinta che, almeno, sarebbe riuscita in qualche modo a entrare in possesso di un paio di quei magici pantaloni americani che regalano l'eterna giovinezza a chi li indossa. Così Nataša, un po' per fare un dispetto all'amica che voleva soffiargli il "suo" italiano e un po' per vanità, rivelò il suo indirizzo al pretendente occidentale. Paride gli scriveva e lei rispondeva col suo perfetto italiano, solo un po' arcaizzante,


formato sui grandi classici della letteratura. Paride riuscì a tornare a Mosca e le propose di venire in Italia, cosa che solo un matrimonio permetteva. Così si erano sposati una mattina al comune, in compagnia di pochi parenti e qualche invitato, e poi erano andati tutti a mangiare in un'osteria a Testaccio. Verso le otto Nataša iniziava ad aprire gli occhi, intorno alle otto e venti era già del tutto sveglia e mezzora dopo cominciava a prepararsi la colazione. Per i primi anni del matrimonio, appena si era trasferita da Mosca, si svegliava di notte per preparare il caffellatte a Paride, che già faceva l'autista. Poi era nato Giovanbattista, con il conseguente rimescolamento degli orari. Ma quando i ritmi del sonno e della veglia del piccolo Johnny si furono stabilizzati, lei aveva abbandonato l'abitudine di svegliarsi nella notte. Probabilmente sarà stata l'assuefazione all'aria di Roma, questa strana atmosfera pittoresca e contagiosa che diluisce ogni impeto, assorbe ogni entusiasmo fino a renderlo inoffensivo, risucchiandolo poi in una misteriosa e antichissima voragine collocata in una caverna tra il Palatino e il Campidoglio, segreto custodito dal celebre Lapis Niger, il monolite che segna l'ingresso in una dimensione spazio-temporale "al-


tra" e sul quale è incisa una perentoria maledizione: "Chi violerà questo luogo sia maledetto". Così il senso del dovere sovietico, temprato dalle squadre di stakanovisti, dai turni di lavoro volontario del sabato, dai piani quinquennali realizzati in quattro anni con l'entusiasmo e il sangue degli operai e dei contadini, col tempo, giorno dopo giorno, era svanito. E per questo, quelle poche volte che suonava l'allarme della sveglia di Paride, Nataša si arrabbiava terribilmente. Svegliarsi nella notte per preparare la colazione al marito era diventata per lei una cosa semplicemente inconcepibile. Anche quella mattina il suo orologio biologico aveva puntualmente segnato l'ora del risveglio. Tra le otto e mezzo e le nove faceva colazione. Non era mai riuscita ad abituarsi completamente alla colazione italiana, dolce come un bacio della mamma, anche se povera di proteine e vitamine. Gradualmente era passata dal breakfast russo, che in pratica equivale a un pasto completo, a una colazione più leggera, ma non poteva comunque rinunciare a un uovo, spesso strapazzato, che doveva consumare quasi di nascosto, perché Giovanbattista semplicemente non lo poteva vedere di primo mattino (la sola forma dell'uovo, così perfetta per natura, in quel


momento, appena svegliato, lo irritava). Tuttavia era raro che gli orari del primo pasto di Johnny coincidessero con quelli della madre. Per Johnny la giornata poteva cominciare tra le nove e mezzogiorno (dipendeva solo dall'orario in cui era andato a letto la sera prima). Così anche quel mattino Nataša preparò per sé e per il figlio, lasciandogli tutto pronto sul tavolo, con la marmellata, il latte col caffè pronto nel pentolino, i biscotti e un paio di fette di pane coperte da un tovagliolo di carta nel piattino. Quella mattina, mentre faceva colazione, pensava che sarebbe voluta andare il giorno dopo al mercato dei fiori a comprare almeno una cassetta di piantine per i suoi vasi sul terrazzino di casa e sul davanzale. In seguito, come sempre verso le undici e mezzo, sarebbe andata a fare la spesa. La discesa al mercato era il suo momento preferito nella giornata. Le piaceva quella rumorosa cordialità, quel mondo multicolore pieno di odori, il pesce, le spezie e tutto il resto. Dopo il caffellatte, incominciava la cerimonia davanti allo specchio del bagno, con le creme, le smorfie, i trucchi. Questo monologo, o se volete "dialogo con la propria immagine riflessa" durava almeno una ventina di minuti. Si piaceva? Non si piaceva? Né l'uno né l'altro. Cioè, un po'


sì e un po' no. Comunque trovava sempre un punto positivo, qualcosa di cui essere soddisfatta, vuoi per i suoi capelli neri ben curati, vuoi per la sua bianca pelle liscia, vuoi per la sua linea. Ogni mattina davanti allo specchio prima trovava un punto negativo: qualche rughetta, qualche capello bianco; poi pareggiava il conto con qualche punto positivo. Se il punteggio era pari (vincere la partita avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo), la giornata era buona. Ma naturalmente c'erano anche mattine in cui non riusciva a raggiungere il pareggio. E quelle erano le giornate peggiori. ORE 11:30 Mentre Nataša era impegnata nel suo monologo-partita con la sua immagine allo specchio, Giovanbattista, in arte Johnny, era immerso ancora nel sonno profondo. Lo turbavano sogni vagamente erotici; qualcosa di simile aveva visto in qualcuno di quei siti porno sui quali, talvolta, indugiava. C'era una pornostar, ma non ricordava esattamente cosa facesse e perché, in ogni caso il sogno si concluse con una polluzione. A quel punto Johnny si svegliò. Per prima cosa doveva andare in bagno a cambiarsi, ma


sapeva che a quell'ora c'era ancora la madre in casa. La stessa misteriosa umiliazione, la stessa oscura mortificazione che aleggiava nel sogno del padre, con l'aggiunta di una piccola dose di vergogna per via delle mutande sporche e del cesso occupato. Era giĂ contrariato: non si sarebbe potuto rotolare nelle lenzuola per una bella dozzina di minuti in cerca di quello stimolo giusto per affrontare la giornata con la sua solita spumeggiante allegria, dondolandosi dolcemente in quella linea d'ombra che separa il sogno dalla realtĂ , indugiando tra le lenzuola nei pensieri, nei buoni propositi, nelle intenzioni, nei suoi diabolici piani per ottenere qualche soldo in vista di una tanto agognata gratificazione sessuale (aveva imparato che per rimorchiare ci vogliono anche un po' di quattrini in tasca). In quei lunghi istanti i suoi pensieri galoppavano, volavano con le ali del sogno; sentiva di potere raggiungere qualsiasi meta, anche la piĂš ardita, se solo la volontĂ avesse sorretto quegli stessi pensieri. Purtroppo, quando finalmente trovava le forze per alzarsi, tutto si rovesciava come la sabbia nella clessidra ormai svuotata: tutta quella veemenza, quello slancio e quella grinta svanivano improvvisamente, come fantasmi notturni, nel


preciso istante in cui guadagnava la posizione verticale. L'ultimo giorno della vita di Johnny era cominciato così: con un'inutile e umiliante polluzione notturna, negli ultimi istanti del sonno. Ma ciò non deve dispiacere, perché in fondo è innegabile il fatto che Johnny ne abbia tratto un certo piacere. Le numerose gesta erotiche di Johnny erano note a tutto il bar, ma quanto c'era di reale in quelle leggende che volavano di bocca in bocca? A questa domanda nessuno, tranne Johnny, avrebbe saputo rispondere. E poi, che importanza ha? Ora che lui non c'è più, non è forse meglio lasciare che i suoi amici continuino a pensare a lui come un grande Casanova e le sue (poche) donne come delle fortunate prede di un grande amatore? La verità è una sola e qualcuno, prima o poi, la dovrà dire: Johnny era un ragazzo pieno di doti e qualità. Avrebbe potuto imparare tutte le lingue del mondo, compreso l'esperanto, sarebbe stato in grado di conquistare donne di tutte le latitudini e di tutti i ceti sociali, sarebbe stato capace di compiere imprese memorabili, inventare e scoprire chissà cosa chissà dove, viaggiare per tutto il mondo, se non fosse stato per un suo unico grande difetto: la pigrizia. Così, tutte quelle doti


e quelle qualità rimanevano allo stato latente e potenziale. C'erano, ma era come se non ci fossero perché nessuno le conosceva, nemmeno lui stesso. Quando era piccolo, tra i sette e gli otto anni, il medico di famiglia consigliò alla mamma di far svolgere al piccolo Jo' qualche attività sportiva per favorirne lo sviluppo. Prima gli proposero il nuoto, ma lui, per fare colpo, disse che era uno sport troppo faticoso e semplice. Quando i genitori insistettero, lui, per prendere tempo, replicò che, se proprio doveva sceglierne uno (cosa che per lui equivaleva a una specie di "morte faticosa"), avrebbe fatto il pentatlon, uno degli sport più nobili e completi. I genitori si disperarono nella ricerca di un centro sportivo specializzato. Poiché il ragazzo non aveva mai praticato una sola delle cinque specialità del pentatlon, l'allenatore gli consigliò di fare un po' di pratica in ciascuna disciplina sportiva. Ma per il tiro a segno bisognava comprare la pistola (anche se forse era la specialità più adatta a Jo'), l'equitazione era pericolosa e anche costosa, per il nuoto c'era troppa acqua, il cloro, e anche con la scherma c'era il problema dell'attrezzatura. Allora i genitori decisero di cominciare dalla corsa, ovvero dall'atletica leggera. La


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