MONIKA CRHA
LO SPOSO IMPERFETTO
Romanzo
Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Foto di copertina © 2011 Francesca Danelli Lo sposo imperfetto di Monika Chra Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910 Fax 049 2108830 E-Mail redazione@ciessedizioni.it P.E.C. infocert@pec.ciessedizioni.it ISBN eBook 978-88-97277-97-2 Collana GREEN http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti
o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.
Al mio giovane cugino Damian, come uccellini sullo stesso ramo nei pochi giorni indulgenti, assieme. MonikaCrha
BIOGRAFIA DELL’AUTRICE Monika Crha ha origini croate e nasce in Italia nel 1972. Vive in Egitto, Libia e Russia stabilendosi poi a Milano dove mette in opera installazioni e sculture in marmo, allestendo diverse mostre. A contatto con l’ambiente musicale (rock e indie) si è occupata di fotografia (concerti e back-stage). Trasferitasi da due anni a Torino, in collaborazione con la Cooperativa di Produzione Cinematografica FILMROUGE arl, della quale fa parte, intraprende la preparazione di due documentari congiuntamente alla scrittura di sceneggiature per cortometraggi e per il teatro. Esordisce alla regia con “E gli alberi cominciano a strillare” all’interno del film collettivo Walls and Borders presente al 27 Torino Film Festival (2009). Questo è il suo primo romanzo ma, assicura l’Autrice, ne seguiranno altri. RINGRAZIAMENTI Per l’esemplare pazienza, i consigli e la vita assieme, ringrazio Angelo Santovito. Per l’amore, ringrazio mia madre, Lucia, mio padre, Velimir, e i miei fratelli Roberta e Dražen. Perché sono i miei nipotastri ringrazio Luca e Andrea Fuccaro. Per la revisione e i consigli sul primo manoscritto ringrazio di cuore Giorgio Desario. Per i suoi colori, l’amicizia sincera, la passeggiata sot-
to la pioggia, ringrazio Cristiana Erbetta. Per la sopportazione ringrazio Filippo Armenise. Per il coraggio ringrazio Alberto Erbetta. Per la mia resurrezione ringrazio Gaia Torrini. Per le ore trascorse a fare la vera sana me ringrazio Ettore Giugiaro. Per avermi insegnato a fare la salsa, le melanzane e i pomodori secchi sott’olio ringrazio Lina Pietrarota. Per le cene e le chiacchierate intense, fino a notte fonda, ringrazio Tony Rea e Carla Giuliani, e il loro sorriso. Per l’amicizia e perché è un uomo come pochi ce ne sono, purtroppo, ringrazio Marino Bronzino. Per la pastiera e la gioia che ha portato nella mia vita nei brevi momenti trascorsi assieme ringrazio Gennaro Ciullo. Per la femminilità e la grazia intelligente che si porta a spasso ringrazio Claudia Lombardo. Per la musica, il puré con i funghi, la pescatrice, e i lunghi colloqui per fare il punto ringrazio Luca Valli. Per la vena che ha nella pancia ringrazio Simon Luca Chiotti. Per la disponibilità e la professionalità ringrazio il Sovraintendente Filippone della Questura di Torino. Per l’affetto incondizionato e senza remore ringrazio i dodici zampe Luciano, Penelope e Malika. Per le forniture di nettare degli dei ringrazio i ragazzi di De Pepe. E ringrazio la Filmrouge Coop. tutta, per l’accoglienza.
Quelli che ho dimenticato mi perdoneranno se offro grappa della mia terra?
PREFAZIONE Non narra Monika Crha. Non racconta nemmeno. Parla, in modo fluido, naturale, realistico, coinvolgente, vero. E anche se non si conosce la sua voce, la si ode, mescolata a quella nostra interiore, mentre gli occhi scorrono le parole, catturati definitivamente dalla vicenda de “Lo sposo imperfetto”. È stato questo il mio primo pensiero quando finii di leggere il romanzo. E mi accadde qualcosa di inedito durante la lettura: sono rimasta stregata dalle parole di Marco, dalle sensazioni di Carla, dalla città avvolgente e descritta in modo vivo. Sentimento inedito, perché non mi era stato offerto il piacere di leggere in anteprima in qualità di lettrice, bensì con compiti precisi da assolvere. Invece di notare la virgola superflua, mi sedetti sulla panchina in pietra in Piazza Vittorio, a Torino, tra Marco e Carla. Divenni uno spettatore silente, un essere immateriale che vive tra fogli e lettere. Avevo la mano fredda, come quella di Carla, quando gliela strinsi nel primo capitolo. Marco calibrò la stretta, anche con me, quando mi presentai, per poi tornare silenziosa ad ascoltarli.
“Lo sposo imperfetto” farà parlare di sé, mi sono detta quando lessi l’ultima parola dell’ultimo capitolo. Mi sorpresi a pensare che vi saranno non poche le copie con tracce di matita e punti d’esclamazione in verticale, accanto alle frasi da ricordare, trascrivere, riflettere, proferire, citare, assieme al cognome della scrittrice, mentre si sorseggia un caffè in compagnia di un caro amico. “Perché esista la curiosità e con la curiosità esista la vita e con la vita un motivo per viverla, allora bisogna rischiare e fare”, come dice la stessa Autrice. Irina Turcanu Scrittrice, poetessa e giornalista
1. Gli incontri che fanno pensare alla fortuna. È da un po’ che quando cammino per le strade di Torino, più che guardare per terra, guardo in alto. Ho questa continua tentazione perché mi sono convinta che Torino è più bella dai quattro, sei metri in su. Eccetto per le piazze, qualche androne, e qualche donna, che di solito piange abbracciata a un uomo. Non è cosa inusuale , a Torino, incontrare camminando per strada donne che si sciolgono in lacrime, aggrappate a qualche uomo che le consola. Anche se quelle che ho visto a me sembra piangano più di gioia che di altro. A me sembra così, poi è da vedere. Penso sia colpa della città, della sua aria indolente, del suo respiro romantico e struggente al quale sono sensibili soprattutto le donne. Credo che il mio guardare in alto dipenda anche dal voler sfidare quel che succede in basso, perché in basso sbucano continuamente macchine da dietro agli angoli. E Torino, si sa, è piena di angoli.
Questo mio guardare in su mi ha anche portato ad apprezzare la prontezza di riflessi dei torinesi, che abituati a questo reticolo, quando sono in auto, rispettano i pedoni. Perché i torinesi si fermano, anche se non attraversi proprio perfettamente sulle strisce pedonali. C’è una cosa che mi sento di dire, a costo di sembrare petulante e ruffiana, ed è che qui c’è una bella inclinazione alla gentilezza. La differenza fra una città e un’altra credo non sia solo di carattere architettonico, o viario. Il carattere della città è qualcosa che si percepisce guardando se stessi, il modo in cui ci si inserisce in essa. Io sento che a Torino, una mano invisibile mi porta in giro, anche quando vorrei tornare a casa. E questo non è proprio da me. Penso anche che Torino sia una città che nessuno può cambiare, perché alla fine vince sempre lei. È lei che ti cambia. E, infatti, io sto cambiando. Tutto sommato, a me, Torino, sembra una con un buon carattere. Anche un po’ ingenuo. Ma è una della quale io mi fido. E questo l’ho capito dopo pochi giorni che ero qua, arrivando da Milano, dove se non corri continuamente e con tutto te stesso vuol dire che hai qualche tara o qualche reticenza alla fatica e alla solerzia, e dove sei sempre sotto la
minaccia di un’ invisibile frusta che non sbaglia un colpo. Nei primi mesi qui, infatti, ho sperimentato come tutto il mio corpo, progressivamente, rintracciasse una strana sensazione di distensione, ed entrasse in uno stato languido, ma operoso allo stesso tempo. Inizialmente non avevo la propensione a guardare in alto, piuttosto camminavo come ero abituata a fare, con gli occhi sulla strada, raramente sui passanti. Ma questa cinetica sterile è durata poco, qui a Torino, ed è sparita quando ho alzato lo sguardo e trovato mille immagini stupefacenti. Quella mattina, ricordo bene, uscii e presi il primo tram che passava davanti a casa. Lo feci meccanicamente, come se avessi una meta, proprio io che conosco così poco Torino. Ma mentre mi sedevo e guardavo fuori dal finestrino, improvvisamente, dalle gambe mi salì l’ urgenza di scendere, subito. Dopo circa mezz’ora me ne stavo seduta su una delle panchine di pietra, in Piazza Vittorio. Era domenica ed erano quasi le undici. Avevo fatto colazione, in un bar sotto i portici, e comperato il giornale.
Svegliarmi e uscire di casa, devo dire onestamente, non fa proprio parte del mio carattere. Mi piace perderla la mattinata, piuttosto che renderla produttiva. Perché la mattina ha in sé qualcosa che mi dice che sono il risultato di un miracolo, che ce l’ho fatta di nuovo a guadagnarmi una giornata. Che sono stata forte abbastanza da rinunciare ai sogni della notte. E questa conquista, secondo me, val bene una messa. Quella mattina mi svegliai proprio con la voglia di uscire di casa. Di uscire subito. Il tempo di lavarmi i denti, il viso, di vestirmi ed ero già per le scale e per strada. Avevo una strana smania d’aria e voglia di sole, come accade qua alle cose quando piove per giorni e poi improvvisamente smette e viene fuori un sole forte che asciuga i palazzi e i marciapiedi e nell’aria c’è un’umidità fredda che poi evapora per lasciare il posto a un tepore nuovo, che riscalda tutto. Era una buona domenica, di sole tiepido. Era ottobre, se ricordo bene il dodici di ottobre. E io guardavo, in alto. Ogni volta che mi trovo in piazza Vittorio mi piace soprattutto guardare la collina. Mi concentro nel seguirne le salite e le discese e mi domando sempre chi mai viva nelle case piccole, proprio sul bordo. Ma soprattutto mi piace
seguire con gli occhi la strada che corre da Villa della Regina alla Gran Madre, perché immagino le volte che ai bei tempi suoi la Regina, incipriata e piena di gioielli e pennacchi, è uscita in carrozza ed è scesa in città, proprio lungo quella via, per andare in visita a qualche sua amica nobile, impennacchiata e incipriata anche lei. Quel giorno però immaginavo che la Regina, rediviva, stesse scendendo, a bordo della sua carrozza, lungo la via intitolata a lei per andare a un pranzo di beneficenza, che poi credo siano i pranzi ai quali le Regine presenziano di più. La immaginavo seduta nella sua carrozza, con un cagnetto in grembo, nobilmente annoiato tanto quanto lei. Poi abbassai lo sguardo e osservai a lungo una ragazza sui venticinque anni che giocava con un bambino e con il suo cane, e che probabilmente era la baby sitter. Mentre la madre, del bambino intendo, appuntita come una matita se ne stava seduta al sole, al tavolino del bar, ingioiellata e luccicante e leggeva il giornale con un succo di frutta davanti. Il mio cervello era in stallo, quella mattina. Colpa del trasloco, dei cartoni che occupavano ancora ben due stanze della casa. E la mia stanchezza derivava soprattutto dalla casa nuova, perché uno spazio nuovo è tutto da capire, da
decifrare. E questo, per quanto mi riguarda, richiede energia, impegno. Spostai lo sguardo dalla matita e mi concentrai sulla chiesa della Gran Madre e poi sul ponte e sulla piazza, bianca, enorme. Vidi un uomo. Lo seguì a lungo con lo sguardo, perché quel suo modo di attraversare il ponte sul Po catturò subito la mia attenzione. Alto, magro, i capelli corti, castani, mossi in riccioli. Indossava una giacca invernale, blu. Mi sembrò che i suoi piedi non toccassero quasi terra tanto aveva un incedere fluido, lento, seducente, da re della foresta. Camminava tutto compresso in quel suo andare, come non ci fosse nessuno intorno a lui. Mentre si avvicinava notai che teneva il collo dritto, le spalle aperte, il mento alzato. Pensai che fosse proprio quello il suo trucco, camminare col collo dritto e non cercare nulla con lo sguardo, come se tutto fosse già chiaro e noto e senza segreti. Quando fu a non più di quattro metri da me mi concentrai sul suo viso. E mi venne subito in mente il David di Michelangelo, ma con i lineamenti più affilati. E occhi dal taglio più bello. Di un azzurro che mi fece venire subito in mente i tubetti dei colori a tempera.
Quando individuò la panchina sulla quale sedevo io, libera per più di metà, rallentò il passo, si avvicinò, si sedette. A meno di un metro da me. Tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni un quotidiano, lo aprì e iniziò a leggere. Ricordo che il mio respiro si fece lento, profondo e che restai come bloccata, emozionata da quella figura così bella, che sedeva accanto a me. Poi osservai la punta delle sue scarpe da ginnastica e la sua gamba, accavallata sull’altra. Con la scusa di guardare sotto i portici dietro di noi, mi voltai verso di lui e cercai di vedere di nuovo i suoi occhi, perché erano di un colore stupefacente, mai visto prima. Poi tirai fuori dalla tasca della giacca il pacchetto di sigarette e altrettanto, notai, fece lui. Accese la sua sigaretta mentre io ancora armeggiavo cercando l’accendino nelle tasche della giacca. Mi disse “prego”, chiudendo il giornale e avvicinandosi per farmi accendere. I tuoi passi ci hanno guidato verso lui, ho sentito dire al mio cuore quando ho acceso la sigaretta. “Io la conosco.” Disse, guardandomi dritto negli occhi. “Non credo, sono a Torino da poco.” “Sì, lo so.” “Scusi?”
“Lo so, lei si è trasferita da poco. Io ho visto che stavate facendo il trasloco.” Tacqui. Ma devo aver aggrottato le sopracciglia, come faccio sempre quando qualcosa non mi è chiaro o mi spaventa. “Non si preoccupi, io abito di fronte a lei.” Disse in tono rassicurante. “Ma, è sicuro?” Chiesi. Poi mi venne in mente che dalla parte della cucina potevo vedere un cortile e proprio di fronte, a breve distanza, altri tre palazzi, legati fra loro. Forse abitava lì, pensai. “Ma scusi, lei dove abita?” “Di fronte a lei, in via Principessa Clotilde.” Sorrise. “Ho capito. Ma dove? A che piano?” “Al primo, di fonte a lei, lei è un po’ più in alto.” “Ah, bene.” Non so perché gli risposi che fosse un bene. Forse perché mi guardava con una gran pace in quei suoi occhi talmente azzurri e profondi da non sembrare veri, che mi fece pensare che fosse un bel regalo avere per dirimpettaio un ragazzo con occhi così belli, che al solo guardarli avevano il potere di far entrare la pace nel mio cervello incasinato.
“Allora, presentiamoci, mi fa piacere conoscerla! Ma guarda. Il caso!” Disse. Gli diedi la mano. “Piacere, Carla.” “Piacere mio, Marco.” Strinse la mia mano. Fu una stretta decisa. Pensai stesse calibrando la stretta, perché avevo la mano fredda e questo mi sembrò un bel gesto di cortesia. Restammo seduti lì, di nuovo in silenzio. Io guardavo la piazza, lui riprese a leggere il giornale. Ma fu solo per poco, perché lo chiuse e lo appoggiò sulla panchina. Ci guardammo di nuovo e lui sorrise ancora. Sorrisi anch’io, imbarazzata, perché sul suo volto lessi una gioia, che non era di maniera. “Noi abitiamo lì da un bel po’, io, mia moglie e mio figlio. Abbiamo anche un cane e due tartarughe immortali.” Disse sorridendo. “Ah bene.” Risposi di nuovo pensando che sua moglie, suo figlio e anche le tartarughe e il cane dovessero essere belli almeno come lo era lui, perché altrimenti non valeva. “E lei? Come si trova?” Domandò. “Non lo so ancora. Ci siamo trasferiti da due settimane. Ma sembra un quartiere tranquillo, no?”
“Sì, lo è. E poi è anche ben servito. Ma guardi… ” Fece una pausa. “Sono proprio contento di averla incontrata!” Mi sembrò che il suo entusiasmo fosse eccessivo e avesse qualcosa di infantile, allo stesso tempo pensai agli incontri fortunati. “E a cosa si deve tutta questa sua felicità?” Chiesi. Abbracciò con lo sguardo la piazza. “Sa, io conoscevo la persona che ci abitava prima, nel suo appartamento. E sono contento che ora ci sia lei, con suo marito. Perché è suo marito quell’uomo che…” Si interruppe, abbassò lo sguardo. “Mi scusi. Non vorrei che lei pensasse che sono un guardone.” Scossi la testa e risposi: “No, non si preoccupi, non lo penso. È che io non ho ancora avuto modo di capire dove mi trovo e sinceramente non mi ero accorta di lei. Da quando ci siamo trasferiti, io e mio marito, passiamo tutto il giorno a mettere a posto casa. Ha presente cosa voglia dire un’invasione di scatoloni?” “Purtroppo no. Quando siamo andati a vivere lì mia madre e mia suocera avevano già sistemato tutto.” “Beati voi! Le mandi un po’ da me!” Dissi sorridendo.
“Non gliele consiglio. Sono davvero invadenti!” “Ma mi dica, chi viveva prima di noi in quell’appartamento?” “È una storia lunga.” Disse facendosi improvvisamente serio. “Capisco.” Replicai imbarazzata, guardando la piazza. “Ha tempo?” Chiese. “Ho tempo.” Risposi. E pensai di nuovo agli incontri fortunati.
2. Sulla panchina di pietra. Su quella panchina di pietra, seduti sui nostri giornali, iniziò a parlarmi di quel periodo. Ora so che sono la sola a sapere cosa accadde, veramente. Perché mi disse che non ne aveva mai parlato con nessuno. So quali furono i suoi pensieri, quando tutto ebbe inizio. Ho la presunzione di pensare di ricordarmeli tutti e di poterli mettere in fila, nell’esatto ordine in cui scorsero nella sua testa, quel giorno lontano, d’estate. Li conosco perché Marco è per me la corrente forte, quella sotterranea, che cambia il fondo del mio mare e fa ballare pensieri che stavano lì da anni, ad aspettare un tango. E il passato diviene presente. E lui resta accovacciato dentro me a fare buona guardia alla mia anima riportandomi sempre a quelle ore, nelle quali ci siamo conosciuti. E quelle ore si ripetono continuamente, in me. Perché sono ore che non fanno parte del tempo ma sono tutti i nostri giorni assieme. Ma torniamo al suo racconto.
Inizialmente fece una specie di bilancio della sua vita, come disse lui, cercò di “tirare la riga sotto il conto”. Dico una specie perché iniziò col fare, ma poi si arrese perché si accorse che c’era poco da bilanciare. Le sue giornate, in quel periodo, erano un’infilata di ore tutte uguali, che si sistemavano una dietro l’altra. Mi raccontò che in quei giorni era spesso ossessionato dal tempo che passava. Ma più che un’ossessione provava un ansia dentro, come sepolta molto nel profondo di se stesso, all’altezza dello stomaco. E quest’ansia, che se ne stava lì, gli faceva venire una specie di vuoto in testa, come quando si sta per svenire o quando ci si sta per addormentare. A volte, sempre l’ansia, si manifestava anche con brevi, leggeri sudori freddi. Gli sembrò importante parlarne perché le sue giornate erano soprattutto un ripetersi di noiose abitudini e di manie, che non si rendeva conto di aver acquisito e che occupavano tutto il tempo a sua disposizione. Fu proprio grazie a questa consapevolezza che in quell’estate Marco iniziò a soffrire. Fu allora che si accorse di quanto poteva essere difficile inserire qualcosa all'interno di quelle sue ore strette strette fra loro. Anche se quel che fu chiamato, diciamo così, a
inserire, altro non fu che la vita. Almeno, a mio parere. Ma in quel momento la sua vita fatta con lo stampino era così composta: alle otto si svegliava e cercava di rientrare in se stesso, operazione che richiedeva quaranta minuti circa. Alle otto e cinquanta usciva di casa. Alle nove era al bar a bere il primo caffè della giornata, alle nove e sette entrava in negozio dal retro e raggiungeva il bagno dove si accendeva la prima sigaretta e se ne stava a fumare lentamente, seduto sul cesso. Quando arrivava l’ora giusta per smetterla di stare seduto sul cesso, apriva la ferramenta ed erano le nove e trenta. Durante tutta la mattina serviva i clienti e così arrivava l’ora di pranzo, l’una. Mentre mangiava pensava già a quando avrebbe riaperto e a dove avrebbe trovato l’entusiasmo per tirare il pomeriggio e arrivare alla chiusura, le sette e trenta della sera. Quando cioè poteva tornarsene a casa, parcheggiare la vespa, salire e dare un bacio a Giulia e uno ad Andrea, rispettivamente sua moglie e suo figlio. Poi doveva portare a spasso Flip, il loro cane, ed erano le otto, otto e un quarto circa. Dopo la passeggiata col cane c’era la doccia, che si piazzava intorno alle otto e quarantacinque, alla quale seguivano una o due sigarette sul balcone,
dove oltre a fumare innaffiava i fiori e beveva una birra dalla bottiglia. In inverno fumava con la sigaretta fuori dalla finestra del salotto. La cena era sempre verso le nove e quindici, nove e venti. Dopo cena si guardava qualcosa in televisione, tutti assieme. Poi Giulia metteva a letto Andrea e Marco restava seduto, o meglio, sdraiato sul divano. Verso l’una passava al letto, sbadigliando. Il giorno dopo era di nuovo l’ora di svegliarsi, l’ora di uscire di casa e così via, in secula seculorum. Mi parlò anche delle sue distrazioni, poche a dire il vero. Le cene dagli amici, i compleanni, le scopate con Giulia, i fine settimana nella casa in montagna dei suoi, le vacanze estive al mare. Non gli piaceva il calcio, che spesso è una bella distrazione per gli uomini. Disse che non gli era mai piaciuto. E non aveva mai fatto sport, se non da bambino, un po’ di pallacanestro. In quell’estate della sua vita, una sera stava seduto sul water e pensava al suo non avere passioni ma più o meno acute dannazioni, una su tutte, suo figlio. Gli avevano detto che i figli ti fanno fare solo quello che vogliono loro, ma lui non ci aveva mica creduto tanto. Suo figlio sarebbe stato diverso, aveva sempre pensato. E di questo fu cer-