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I 50 ANNI DI CINEFORUM

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SPECIALI NOI CREDEVAMO / THE SOCIAL NETWORK

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Via Pignolo, 123 24121 Bergamo Anno 50 - N. 10 Dicembre 2010 Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv.in L.27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Poste Italiane S.p.a. € 8,00

I 50 anni di Cineforum Speciale Noi credevamo Speciale The Social Network Varda, Daniels, Loncraine, Allen, Hamer, Bier


www.bergamofilmmeeting.it

BERGAMO

FILM MEETING XXIX EDIZIONE 12/20 MARZO 2011

Mostra Internazionale del Cinema d' Essai

MOSTRA CONCORSO / VISTI DA VICINO / OMAGGIO A REGINA PESSOA MONDO EX. FILM DALL'EUROPA POST-SOCIALISTA: 1990/2010 PSYCHO THRILLER / MIDNIGHT MOVIE: FANTASCIENZA D'AUTORE ALFRED HITCHCOCK: IL PERIODO INGLESE / CULT MOVIE E ANTEPRIME


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BUON COMPLEANNO

Adriano Piccardi Un numero speciale, inevitabilmente molto diverso dai soliti. L’uscita del n. 500 corrisponde per noi al compimento dei 50 anni: arco cronologico ragguardevole nel corso del quale «Cineforum» ha accompagnato l’evoluzione del cinema (italiano, europeo, mondiale) e della cornice culturale e politica in cui essa si inquadra, cercando sempre di coglierne gli elementi costitutivi importanti a una loro lettura non puramente cronachistica né riduttivamente pregiudiziale. Un’impresa da far tremare i polsi, considerati gli eventi e gli avvenimenti che ci hanno accompagnato, nel corso di tutto questo tempo: se «Cineforum» è in qualche modo riuscita a renderne conto ai suoi lettori, lo deve alla qualità delle collaborazioni – appassionate, motivate dall’amore per il cinema e per questa rivista – di cui si è avvalsa e di cui va, naturalmente, orgogliosa; e alla capacità di utilizzare tutte le risorse intellettuali che gliene sono derivate per ritrovare periodicamente – a volte non senza interni travagli – quella che reputava essere la giusta modalità di approccio e di giudizio. Gran parte di questo merito, insieme a coloro che hanno fatto la rivista con i loro scritti, le loro riflessioni e i loro suggerimenti, va naturalmente al grande lavoro di Sandro Zambetti, che ha diretto «Cineforum» per gran parte della sua storia. Lavoro capace di mediazione instancabile tra le varie posizioni a confronto ma anche, quando necessario, di decisioni pronte ad assumersi i necessari rischi che ne potevano derivare. Senza dimenticare la continuità della fiducia che l’editore, la Federazione Italiana Cineforum, anche nei momenti di discussione più vivace (come è giusto che sia, a volte, tra chi ci mette il sostegno finanziario e chi materialmente “fa” il prodotto) ha sempre mantenuto nei riguardi dell’importanza della ricerca critica condotta da questa pubblicazione e della sua presenza nel panorama delle riviste di cinema italiane.

Lo “speciale” che celebra la festa dei 50 anni e che viene presentato in dettaglio nella pagina successiva occupa più di metà di questo numero. Di conseguenza, diverse rubriche che normalmente costituiscono la seconda parte di «Cineforum» questa volta mancheranno. Troverete comunque gli speciali dedicati a Noi credevamo e The Social Network, e le recensioni lunghe previste per i film della prima parte di dicembre: quello che è rimasto fuori apparirà sul prossimo numero. Per tutti gli abbonati abbiamo poi in serbo la strenna, costituita quest’anno dal Dvd del film di Agnès Varda, Les plages d’Agnès, inedito in Italia e ammirato due anni fa alla Mostra del Cinema di Venezia. Continuiamo, tra l’altro, in tal modo l’iniziativa inaugurata l’anno scorso, in collaborazione con Lab80 Film, cui si aggiunge questa volta Filmfestival del Garda (che alla regista francese ha dedicato nella sua edizione 2010 una bella “personale”). L’omaggio verrà protratto a quanti si abboneranno a «Cineforum» fino al mese di marzo 2011. Vogliamo inoltre ricordare a tutti i lettori, vecchi e nuovi, che il nuovo sito della rivista è online da alcune settimane: contiene notizie aggiornate, la possibilità di ricerca nell’archivio generale e quella di iscriversi alla newsletter di «Cineforum»; è possibile inoltre entrare nella sezione cinebuy, dove acquistare online numeri della rivista e altre pubblicazioni delle Edizioni di Cineforum, nonché aprire o rinnovare l’abbonamento. Infine, «Cineforum» è ora anche su Facebook e su Twitter: un altro modo per ribadire la nostra intenzione di ripartire da questi 50 anni compiuti con l’energia rinnovata di chi vuole continuare a tenere aperta la comunicazione: con i lettori di vecchia data, quelli nuovi e quelli che di sicuro lo diventeranno.


In collaborazione con Lab 80 Film e Filmfestival del Garda

IL DVD SARÀ INVIATO

IN OMAGGIO

A QUANTI AVVIERANNO UN NUOVO ABBONAMENTO A CINEFORUM

ENTRO IL 31 MARZO 2011

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cineforum rivista mensile di cultura cinematografica anno 50 - n. 10 - Dicembre 2010

Direttore responsabile: Adriano Piccardi • adriano@cineforum.it Comitato di redazione: Chiara Borroni, Gianluigi Bozza (direttore editoriale), Roberto Chiesi, Bruno Fornara, Luca Malavasi, Emanuela Martini, Angelo Signorelli, Fabrizio Tassi Gruppo di lavoro: Francesco Cattaneo, Jonny Costantino, Giuseppe Imperatore, Arturo Invernici, Matteo Zambetti Collaboratori: Sergio Arecco, Alberto Barbera, Alessandro Bertani, Paolo Bertolin, Marco Bertolino, Francesca Betteni-Barnes D., Matteo Bittanti, Pier Maria Bocchi, Andrea Bordoni, Massimo Causo, Rinaldo Censi, Carlo Chatrian, Ermanno Comuzio, Emilio Cozzi, Giorgio Cremonini, Alberto Crespi, Lorenzo Donghi, Simone Emiliani, Michele Fadda, Davide Ferrario, Andrea Frambrosi, Giampiero Frasca, Leonardo Gandini, Cristina Gastaldi, Federico Gironi, Fabrizio Liberti, Nuccio Lodato, Pierpaolo Loffreda, Anton Giulio Mancino, Giacomo Manzoli, Michele Marangi, Matteo Marino, Mattia Mariotti, Tullio Masoni, Emiliano Morreale, Alberto Morsiani, Umberto Mosca, Luca Mosso, Lorenzo Pellizzari, Alberto Pezzotta, Francesco Pitassio, Piergiorgio Rauzi, Giorgio Rinaldi, Nicola Rossello, Lorenzo Rossi, Alberto Soncini, Antonio Termenini, Dario Tomasi, Paolo Vecchi, Alberto Zanetti. Progetto grafico e impaginazione: Paolo Formenti - PiEFFE Grafica* Amministrazione: Cristina Lilli, Sergio Zampogna Redazione e amministrazione: Via Pignolo, 123 IT-24121 Bergamo tel. 035.36.13.61 - fax 035.34.12.55 e-mail: info@cineforum.it http://www.cineforum.it Abbonamento annuale (10 numeri): Italia: 60,00 Euro Estero: 80,00 Euro Extra Europa via aerea: 95,00 Euro Versamenti sul c.c.p. n. 11231248 intestato a Federazione Italiana Cineforum, via Pignolo, 123 - 24121 Bergamo e-mail: abbonamenti@cineforum.it spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB - Bergamo stampato presso la Stamperia Stefanoni Bergamo - via dell’Agro, 10 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione - via F. Argelati 35 20143 Milano - tel. 028375671 - fax 0258112324 e-mail: lujoo@tiscalinet.it Iscritto nel registro del Tribunale di Venezia al n. 307 del 25-5-1961 associato all’USPI Unione Stampa Periodica Italiana

SOMMARIO EDITORIALE Adriano Piccardi/Buon compleanno

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SPECIALE CINEFORUM 1961-2011 Piera Detassis, Maurizio Porro, Giampiero Frasca, Paolo Vecchi, Morando Morandini, Tullio Masoni, Nuccio Lodato, Bruno Fornara, Chiara Borroni, Giorgio Cremonini, Alberto Pezzotta, Angelo Signorelli, Roberto Chiesi, Emanuela Martini, Francesco Pitassio, Alberto Crespi, Davide Ferrario, Emilio Cozzi, Alberto Barbera, Emiliano Morreale, Roberto Manassero, Paolo Mereghetti, Michele Fadda, Massimo Causo, Gianluigi Bozza, Jonny Costantino, Luca Malavasi, Fabrizio Liberti, Simone Emiliani, Paola Brunetta, Leonardo Gandini, Rinaldo Censi, Lorenzo Pellizzari, Ermanno Comuzio, Pierpaolo Loffreda, Pier Maria Bocchi, Alberto Morsiani, Elisa Baldini, Roberto Escobar, Antonio Termenini, Nicola Rossello, Giuseppe Imperatore, Carlo Chatrian, Alessandra Mallamo, Francesco Cattaneo, Fabrizio Tassi, Sergio Arecco, Francesca Betteni-Barnes D., Adriano Piccardi, Anton Giulio Mancino, Arturo Invernici/Fino all’ultimo respiro - Una vita difficile L’uomo che uccise Liberty Valance - La passeggera - Prima della rivoluzione Io la conoscevo bene - La presa del potere da parte di Luigi XIV - Play Time Dillinger è morto - La Via Lattea - Ostia - Quattro notti di un sognatore Roma - Il lungo addio - Voglio la testa di Garcia - La recita - L’impero dei sensi Guerre stellari - La camera verde - Manhattan - Toro scatenato - Gli amici di Georgia La cosa - I ragazzi della 56a strada Heimat - Je vous salue, Marie - Velluto blu Il ventre dell’architetto - Donne sull’orlo di una crisi di nervi L’aria serena dell’Ovest - Quei bravi ragazzi - Il pasto nudo - Gli amanti del Pont-Neuf Madadayo. Il compleanno - L’eau froide - Heat. La sfida - Verso il Sole Nuvole in viaggio - The Truman Show - Il giardino delle vergini suicide Les marchands de sable - L’uomo che non c’era - Essere e avere - Elephant Il diamante bianco - The New World. Il Nuovo Mondo - Le tre sepolture 5 Bobby - Il Divo - Vincere - L’uomo nell’ombra

SPECIALE NOI CREDEVAMO Anton Giulio Mancino/La storia molesta Nuccio Lodato/«Nel remoto della storia» Emiliano Morreale/Patrioti nella nebbia Alessandra Mallamo/Storie minori / Storia plurale Tullio Masoni/Storiodrama

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SPECIALE THE SOCIAL NETWORK Roberto Manassero/Scatole vuote Lorenzo Leone/La rete con/divisa

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I FILM Angelo Signorelli/Les plages d’Agnès di Agnès Varda Giampiero Frasca/Precious di Lee Daniels Anton Giulio Mancino/I due presidenti di Richard Loncraine Pietro Bianchi/Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni di Woody Allen Mattia Mariotti/Tornando a casa per Natale di Bent Hamer Lorenzo Donghi/In un mondo migliore di Susanne Bier

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Nuccio Lodato, Paola Brunetta, Simone Emiliani, Elisa Baldini/ Il compleanno - Il responsabile delle risorse umane - Nowhere Boy - We Want Sex 93 I dati forniti dai sottoscrittori degli abbonamenti vengono utilizzati esclusivamente per l’invio della pubblicazione e non vengono ceduti a terzi per alcun motivo.

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Edita dalla Federazione Italiana Cineforum

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(a.p.) Per festeggiare questo compleanno di una certa importanza abbiamo deciso di ripercorrere i 50 anni in questione coinvolgendo collaboratori di oggi e di ieri in una passeggiata: a ritroso nel tempo per poi tornare, riportando a casa un titolo, un film da ricordare e/o da far ricordare. In qualche caso a dispetto dell’oblìo cui rischiava di venir consegnato. E di dedicargli un breve intervento, un testo che fosse un po’ lettura (o rilettura) critica ma anche un po’ – o molto, questo è dipeso dall’attitudine personale alla spudoratezza, ovviamente… – confessione appassionata di predilezione. In questo modo si è formato un bouquet piuttosto variopinto e per alcuni aspetti sorprendente di film e di nomi. Innanzitutto occorre dire che l’intenzione era di mettere in valigia 50 titoli di 50 autori diversi: ebbene, in un paio di casi non ce l’abbiamo fatta: Jean-Luc Godard (in realtà un’eccezione solo a metà: per capire il perché, andare all’ultimo paragrafo) e Martin Scorsese si presentano due volte ciascuno all’appello. Un’eccezione, e non su due carneadi, comunque. Sorprendente, si diceva: salta subito agli occhi l’assenza di alcuni nomi prestigiosi, nomi che rientrerebbero di diritto nel canone di qualunque storia del cinema. Ma questa “antologia” non voleva in alcun modo delineare un qualche canone. Nessuno scandalo, quindi: a dettarne la scaletta dovevano essere, e di fatto sono state, le scelte dei partecipanti, che non avevano bisogno di giustificazioni, e che soltanto in alcuni casi sono state mediate dalla necessità di dover combinare titoli e anni nella messa a punto del puzzle finale. Il metodo e il risultato appartengono dunque a una tipologia affine a quella dei testi automatici surrealisti, se ci si passa l’analogia: il profilo finale di questo racconto collettivo prende perciò “senso” (per chi proprio volesse attribuirglielo) dagli accostamenti imprevedibili, a volte addirittura incongrui, tra i film che lo costituiscono. Per concludere, non meravigli infine che la nostra passeggiata prenda avvio dal 1960, anche se in effetti la prima uscita di «Cineforum» è datata 1961: il film proposto (A bout de souffle) è talmente emblematico della temperie da cui sarebbe nata di lì a poco anche l’esperienza della nostra rivista, che ci è sembrato del tutto naturale, se non doveroso, accoglierlo tra gli altri.

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FINO ALL’ULTIMO RESPIRO (A BOUT DE SOUFFLE)

nei movimenti ad altalena che relegano al passato il campo/controcampo, nei pedinamenti di nuca, ossessivi, crudeli.Vi si legge piuttosto lo sgomento di una generazione ribelle che, per mano di Godard e di tutti i protagonisti delle nouvelles vagues europee, traduce la rivoluzione sintattica in mutazione biologica, fisica, intellettuale. Il senso è già nel titolo: muovere lo sguardo e la macchina da presa fino all’ultimo respiro. Il nuovo linguaggio consuma in un rogo simbolico la Parigi dei Canal Saint-Martin e delle albe tragiche ricostruite in studio: per amarsi e perdersi, afferma Godard, basta oggi lo spazio esiguo, ma realissimo, della chambre 12 dell’Hotel de Suède, culla di una delle più lunghe, libere e maliziose scene d’amore della storia del cinema moderno. Ma che sarebbero mai quella stanza, lo stesso À bout de souffle e perfino Jean-Paul Belmondo, se Michel Poiccard e noi tutti non avessimo comprato una copia del «New York Herald Tribune» dalle mani di Jean Seberg, folletto in t-shirt, pantaloni capri, ballerine ai piedi e taglio di capelli che vanta milioni di tentativi di imitazione, troppi destinati al fallimento, nessuno filmato con altrettanta carnalità e disincantato feticismo? Jean Seberg, presto accantonata e infine bruciata da un tragico destino, è il lampo di femminilità che scuote alle radici la tradizione della dark lady platinata e della borghesuccia con tailleur, la prima declinazione rock di una star del cinema, l’alba di una nuova era. Probabilmente non sapremo mai se, per Michel Poiccard, “dégueulasse”, bastarda e traditrice fosse proprio lei o la vita stessa. Ma cosa cambia, se sei all’ultimo respiro?

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La prima parola che ho imparato in francese è stata “dégueulasse” (schifoso, infido, più un tocco di volgarità a vostra scelta). La pronuncia Michel Poiccard/Jean Paul Belmondo nel finale di À bout de souffle e, per la storia del cinema, rappresenta lo stesso mistero del termine Rosebud in Quarto potere. Cosa dice veramente alla macchina da presa, e a Patricia Franchini/Jean Seberg, l’uomo tradito, colpito alla schiena e steso agonizzante sull’asfalto: «Tu es dégueulasse» come prevede la sceneggiatura o «C’est dégueulasse» come pare di intendere? L’americana Patricia, passandosi il pollice sulle labbra come Michel che imitava Bogart, chiede smarrita «Cosa vuol dire dégueulasse?». Una domanda disarmante, che pure è entrata nell’immaginario universale. Interrogato nel 1993 da Claude Ventura per il documentario Chambre 12, Hotel de Suède, su quale fosse la versione corretta, Jean-Luc Godard, voce distante al telefono, uccide ogni speranza: «Non me lo ricordo. Arrivederci». Il primo ciak fu battuto il 17 agosto 1959 e dopo sole due ore Godard abbandonava il set con questa frase: «Per oggi basta, non ho più idee». Cominciava con gesto inaudito la lavorazione di un film inaudito, vociferato come maudit e “insortable”, tanto che lo stesso Belmondo racconta che il suo agente si augurava non uscisse mai perché gli avrebbe rovinato la carriera. Il film uscì invece il 16 marzo del 1960, salutato da qualche sberleffo e molti inchini fra cui quello di George Sadoul che scrive: «Godard ha messo a ferro e fuoco ogni grammatica cinematografica. No, non sono errori di ortografia, ma vere e proprie svolte di stile». Rivisto oggi, À bout de souffle regala gli stessi fremiti di allora, quell’eguale stupore della cinepresa a mano, o nascosta rasoterra, di Raoul Coutard che riprende nella luce naturale i due protagonisti, le loro sghembe passeggiate, corse e fughe in una topografia di Parigi che non ha nulla di inventato, è precisa e minuziosa e al tempo stesso fantastica come in un film noir privo di ombre e chiaroscuri. Cinquant’anni sono passati, ma per chi ama il cinema, il Dna di Parigi è rimasto quello frammentato ed esistenzialista, criminale e romantico di À bout de souffle. Lo stile non invecchia e si capisce la lungimiranza di Sadoul, non vi è nulla di dilettantesco e casuale in quei frenetici salti di raccordo, nei montaggi interni che danno l’effetto scatto, nei tagli in piena frase, negli sguardi in macchina,

PIERA DETASSIS

Jean-Luc Godard

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MAURIZIO PORRO

UNA VITA DIFFICILE

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È una strana sensazione “recensire” un film uscito in sala per le feste di Natale 1961. Situazione ideale: a volte si pensa con macabro cinismo che per un giudizio perfetto dovremmo avere a che fare solo con autori trapassati. Così sapremmo che questo, insieme al Sorpasso e ai Mostri, è il trio d’oro di Risi. Una vita difficile, prodotto da De Laurentiis per il suo marchio con il Leone, era un film per tutti, con un divo popolare, il cinepanettone d’allora. È anche il momento in cui la commedia italiana moltiplica capolavori come niente fosse e mescola magistralmente nel suo Dna il dramma. Sordi, uomo di centro, proprio con tre film nella cui politica non s’identificava – questo, Tutti a casa di Comencini, di cui è una sorta di ideale sequel, e Un borghese piccolo piccolo di Monicelli – trova i ruoli migliori. È misurato, magnifico. Ci recapita a casa oggi un nome comune, Silvio Magnozzi, ex partigiano e giornalista della «Scintilla» prima e di «Il Lavoratore» poi, che tenta a tutti i costi di rimanere progressista nonostante la famiglia sua e la famiglia Italia. Scritto da Rodolfo Sonego con sfumature autobiografiche e colto al volo con spirito e intelligenza da Dino Risi, che durante la guerra si rifugiò in Svizzera clandestino con Strehler, il copione del film ribolle di amarezza: era solo il 1961. Figurarsi come sarebbe difficile la vita oggi. Si inizia su un altro ramo del lago di Como, nel tran tran di provincia con la brava Lina Volonghi, quasi inedita al cinema, che ci riassume il senso del pudore e dell’ipocrisia d’allora.

Dino Risi

Silvio sbanda per la bellissima Massari (nell’anno in cui lei debuttò nel «Rugantino») che lo salva dai tedeschi, col suo volto indù, occhi lunghi e un neo in mezzo alla fronte: se la porterà a Roma. A fare la gavetta, a convincerla che bisogna «resistere, resistere, resistere». Il 2 giugno del ’46, mentre i nostri fanno la fame, i monarchici digiunano apposta per la vittoria repubblicana del referendum e qui Risi ci offre una scena cult di raffinatissimo, cinico e vissuto humour. I nostri due eroi, invitati perché erano in tredici a tavola (come accadde alla Magnani un anno prima in Risate di gioia) fanno fuori il pasticcio di pasta con polpette mentre la radio fa piangere mammà per i Savoia (chissà se il principino ballerino l’ha vista la scena). Ma con trentamila al mese si campa male specie se un capitalista d’assalto che s’occupa di tutto (editoria, cine e calcio… ma non è lui, anche se sembra, il prototipo di allora era Rizzoli) gli fa scorrere davanti il profumo della dolce vita (appena uscita). Il commendatore, che finirà con uno sganassone in piscina, davanti al monsignore (famosa presa di coscienza) gli offre cinque milioni al posto di cinquemila lire per non scrivere l’articolo sugli evasori fiscali, è un teorico della corruzione, si compra gli uomini scomodi (ma non è lui). Altra scena cult, Sordi ubriaco che, respinto dalla moglie, sputa sulle auto (oggi ci vorrebbe più saliva per i Suv) sul lungomare del divertimentificio di lusso di Viareggio, uscita del night “Al Cangaçeiro”, dove hanno ballato con tutta la volgarità piccolo borghese «La più bella del mondo» di Marino Barreto (era la mamma!). E come sempre le musiche sono una recherche quasi a parte, ricca di stimoli: Risi ci fa sentire nel corso del tempo «Le gocce cadono ma che fa…» da una rivista Osiris-Macario, «Ma l’amore no», «Notte e dì», «Dove sta Zazà», «Ciao ciao bambina», «Non dimenticar» e poi evergreen come «Brasil», «Resta cu’mme», «Only You» e un po’ di boogie woogie che fa sempre Liberazione. Spunti sociali ottimi e abbondanti, la girl del varietà paragonata a una escort, una comparsa di nome Peter Sisters, la prima spiaggia affollata da casello a casello, la presa in giro della Hollywood sul Tevere in una Cinecittà dove Gassman, la Mangano e Blasetti fanno se stessi e infine l’incubo del romano, andare a vivere a Cantù Cermenate (oggi epicentro padano). Un film ancora bello e coraggioso, attualissimo, drammaticamente divertente e comicamente drammatico. Insomma, tragicomico. Se ne può avere uno per il 2011? Che nostalgia.


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L’UOMO CHE UCCISE LIBERTY VALANCE L’uomo che uccise Liberty Valance è uno dei punti più alti mai raggiunti dal western e, contemporaneamente, l’inizio del punto di rottura, dopo il quale niente è più stato come prima. Con un certo anticipo, prima che il confine tra bene e male si eclissasse completamente, prima che si ridiscutesse tutta la mitopoiesi che aveva contribuito a edificare la Nazione, prima che la millanteria si appropriasse dell’eroe (Altman), che l’afasia lo snaturasse (Hellman), che l’istinto autodistruttivo lo cancellasse (Peckinpah). Prima di tutto questo c’è John Ford. La classicità per antonomasia, “colui che fa western”, l’uomo che ha contribuito a creare il genere, rendendolo dapprima epico, successivamente maturo, per poi indirizzarlo lentamente al termine della sua parabola. Un artista la cui figura si confonde con l’esistenza stessa di un canone estetico. Nessun altro ha capito storicamente e socialmente il western come Ford: il suo è sempre stato un discorso politico travestito da spettacolo in costume. Fino a mascherarlo da allegoria del declino, all’interno di quello spazio molto ampio in cui l’apparenza ingannevole si trasforma (e si deve trasformare) in leggenda. Chiamiamole pure esigenze sociali. O ragion di Stato. Ma il travestimento è quasi perfetto. Un giovane uomo di legge si illude di domare il West con la forza del diritto, ma ne assaggia subito l’ispida durezza sotto forma di frustino. Poco può la giustizia laddove la corruzione mostra il suo più indomabile aspetto: ancora una volta è la forza delle armi a determinare l’insolubilità di una situazione. Ancora una volta è un duello nella Main Street a risultare decisivo, ma nell’ottica del travestimento e dell’inganno, gli spari sono doppiamente fasulli. Nella storia e nel suo riflesso sulla Storia. Perché l’eroe è chi rimane, chi fonda uno Stato in cui il giardino ha sostituito il deserto, perché «il deserto è sempre lo stesso», come dice Link Appleyard,

ma è ormai relegato in un tempo irrecuperabile, dimenticato, accantonato per sempre. Rimosso che non affiora, nonostante la volontà di restituire i meriti al vero artefice. Ma non è più tempo di eroi vecchio stampo, perché la pulsione di morte che ha sempre nutrito il genere pare essere scesa a patti con una sorta di complesso di colpa storico. Via il passato selvaggio, occorre conoscerlo soltanto per poi dimenticarlo con maggiore consapevolezza. Lo scopo è quello di rendere mitologica l’affermazione del presente, relegando fuoricampo ciò che non stimola i bisogni del pubblico. Una logica di genere alterata in opportunità morale: «This is the West, sir. When the legend becomes fact, print the legend». Al centro del palco ci sono solo i protagonisti, tutti gli altri diventano inutili comparse. John Wayne è puntuale nel salvataggio dell’imbelle James Stewart, ma la sua colpa è data da una collocazione inopportuna di fronte all’evoluzione del tempo. La sua personale tragedia è la marginalità dell’atto decisivo, il vicolo che sostituisce la Main Street, l’uscita di campo defilata, addossandosi alla macchina da presa e trasformandosi in una dissolvenza in nero. Nella rigogliosa America del giardino, la violenza diventa segno di interpunzione filmica e i personaggi che una volta furono eroi sono fastidiosi residui di un passato da dimenticare. Un passato scomodo che si eclissa definitivamente, permettendo l’inganno eroico sancito dai giornali e la celebrazione di una nuova etica della conquista. Prima di Altman, di Hellman e di Peckinpah. Intorno, nascosto, sottratto alla vista come lo scheletro nell’armadio, il deserto, emblema della rimozione avvenuta. «The desert is still the same». Sulla bara un piccolo cactus bagnato dalle lacrime commosse di chi ha amato il genere e lo ha visto mutare. Non ancora un canto del cigno, ma l’inizio di una lenta e fatale litania funebre.

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John Ford

GIAMPIERO FRASCA

(THE MAN WHO SHOT LIBERTY VALANCE)

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LA PASSEGGERA (PASAZERKA)

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PAOLO VECCHI

Witold Lesiewicz | Andrzej Munk

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Il 20 settembre 1961 moriva in un incidente stradale, a quarant’anni non ancora compiuti, Andrzej Munk, uno dei nomi di primo piano della cosiddetta scuola polacca, autore di lungometraggi come Czlowiek na torze (Un uomo sui binari, 1956), Eroica (id., 1957) e Zezowate szczescie (La fortuna strabica, 1959) in cui, mescolando lucidamente tragedia, commedia e farsa, aveva offerto un’interpretazione della storia del suo Paese in qualche modo complementare rispetto all’epos romantico e barocco di Wajda. Il regista era in viaggio tra Varsavia e Lodz, dove stava lavorando alle riprese di La passeggera (Pasazerka, 1961-63). Il film è dunque rimasto incompiuto e la copia oggi disponibile è frutto della devota ricostruzione di un gruppo di amici cineasti sotto la direzione di Witold Lesiewicz, con un commento esplicativo off di Wictor Woroszylski letto dal celebre attore Tadeusz Lomnicki. Presentata a Varsavia nel secondo anniversario della morte di Munk, quest’opera di lancinante impatto emotivo si apre con una serie di istantanee del regista, a passeggio in una piazza della capitale o sul set, procedendo poi, secondo le indicazioni della sceneggiatura cofirmata dall’autrice del radiodramma di partenza, Zofia Posmysz, su due piani temporali paralleli (la traversata nel corso della quale Eva riconosce in Marta la vittima delle sue sadiche attenzioni ad Auschwitz, la duplice rievocazione della vicenda nel lager) alternati da un mon-

taggio fluido, che li fa costantemente interagire. Ma, se l’azione nel campo di concentramento ha una sua compiutezza narrativa, quella sulla nave è forzatamente ricostruita attraverso una serie di immagini statiche, un po’ come in Il prato di Bezin (1935-36) di Ejzenstejn, in accoppiata col quale La passeggera conobbe a suo tempo un’effimera distribuzione in Italia. Questa scelta obbligata finisce per ispessire il diaframma tra passato e presente, il suo magma inestricabile di ambiguità, rendendo ancor più perspicua la giustapposizione tra la “banalità” della lattiginosa catena di montaggio della morte ad Auschwitz, mostrata nella quotidianità impiegatizia di ambienti, oggetti, corpi, gesti, e la distaccata ed elegante provvisorietà della vita sulla lussuosa nave che, come sottolinea la voce fuori campo, è un’isola nel tempo, e in cui ogni passeggero è un’isola. Da un lato, dunque, psicologia e geometria dell’annientamento portate ai livelli stilistici più alti, di cui ha fatto certamente tesoro, ad esempio, lo Jancsó dei Disperati di Sandor (1965), con la relazione tra incubo e succubo che si colora di neppure troppo latenti ambiguità sessuali (Liza, la cui anaffettività è leggibile in una sfumata sintomatologia, è attratta-respinta da Marta, della quale invidia la pienezza umana, anche nel suo darsi all’amato, che riesce a conservare intatta nell’orrore). Dall’altro, il trauma del sopravvissuto che, vittima o carnefice, deve comunque giustificare, agli altri ma soprattutto a se stesso, la propria sopravvivenza, facendo i conti con sensi di colpa e recuperi autogiustificatorii. Sorta di Nike di Samotracia dell’Olocausto, sul quale rimane il film «più bello e insostenibile» (Bellour), Pasazerka deve probabilmente la propria forza anche a questa miracolosa incompiutezza, e al sentimento di sospensione e spiazzamento che ne deriva. Se infatti le immagini del lager sono, assieme a quelle “documentarie” di Notte e nebbia (1956) di Resnais, quanto di più sobriamente atroce il cinema ci ha tramandato in materia, la fissità dei fotogrammi “contemporanei”, relazionandosi in maniera sotterranea con le prime, sembra rivolgersi alle profondità dell’inconscio, toccando il nervo scoperto di false coscienze ancora non sopite.


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1964

PRIMA DELLA RIVOLUZIONE

Bonicelli, che su «La Fiera Letteraria» scrisse: «Com’è bella questa storia d’amore. I critici italiani dicono di no, che non è matura. Come se un amore così giovane potesse essere maturo… è pieno di quella ineffabile e ardente confusione che è propria della giovinezza: è arrogante, provocatorio e inerme… indisciplinato e geniale». A Parigi e a New York fu proiettato alcuni anni dopo con accoglienze critiche generalmente favorevoli. Su «Positif», rivista di sinistra, Roger Tailleur gli dedicò un saggio appassionato di dieci pagine. Sul mensile «Cinéma 68» tutti i sei critici gli diedero il voto massimo; nel Consiglio dei Dieci dei «Cahiers du Cinéma» sette critici lo qualificarono “capolavoro” e tre “da vedere assolutamente”. Per non essere ingenerosi con la critica italiana degli anni Sessanta bisogna tener conto del contesto e delle date. Esiste nel film la materia di un romanzo che coniuga passione con ideologia. Il ventitreenne Bertolucci la dispone in blocchi lirici, puntando a descrivere la vibrazione poetica degli avvenimenti più che a rappresentare gli avvenimenti stessi. La sua componente “godardiana” a livello stilistico trovava i francesi – e gli stranieri in generale – più sensibili e aperti. Il tempo giocò a favore di un film che in qualche misura, a livello ideologico, anticipava il Sessantotto. Quattro anni dopo era più facile capirlo. Una delle cause del suo insuccesso di pubblico in Italia fu proprio la sua intempestività. In «Film as a Subversive Art», libro di Amos Vogel pubblicato nel 1974, la scheda di Before the Revolution, situata nel capitolo “Assault on Montage”, precede quella di Breathless (À bout de souffle), è più lunga e munita di due fotografie. Aggiungete la vibrante interpretazione di Adriana Asti, il bianconero di Aldo Scavarda, l’uso della musica e le canzoni di Gino Paoli, e tirate le somme.

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Secondo Bertrand Tavernier esistono due tipi di cineasti: i minatori e i contadini. I minatori scavano sempre nello stesso terreno e portano a casa gli stessi materiali, più o meno raffinati; i contadini sono più capricciosi, ogni anno cambiano coltura e, quindi, portano a casa prodotti diversi. Generalmente i critici prediligono i minatori (Antonioni, Bergman, Mizoguchi, Rohmer). Tavernier preferisce i contadini (Ford, Hawks, Kubrick, Kurosawa, Visconti). È giusto: appartiene allo stesso gruppo. Bertolucci sr. di Parma è un cineasta contadino. Poco prolifico, però: sedici film in quarantatre anni, documentari esclusi; in media, quasi un film ogni tre anni, ma con un intervallo di sei fra Tragedia di un uomo ridicolo (1981) e L’ultimo imperatore (1987). Nel suo itinerario esistono film-albero (Novecento, L’ultimo imperatore, Il piccolo Buddha) che, fondati sulla complessità, puntano alla conciliazione dialettica tra generi e conflitti, e i film-freccia che si propongono un bersaglio e cercano di raggiungerlo nel modo più diretto. Sono sette tra cui, almeno in parte, c’è Prima della rivoluzione. Ha fatto i conti col proletariato romano (La commare secca), la borghesia di provincia (Prima della rivoluzione), il Sessantotto (Partner, The Dreamers), il fascismo (La strategia del ragno, Il conformista), la lotta di classe (Novecento), la droga (La Luna), il terrorismo (La tragedia di un uomo ridicolo). Ha fatto un cinema all’insegna della costellazione Marx-Freud-Verdi, mescolando le influenze di Godard e della “nouvelle vague” con le suggestioni del cinema hollywoodiano. La vertigine del tempo – e l’assillo di dare a ciascuno dei suoi film una specifica dimensione temporale – è uno dei due cardini della sua opera. L’altro è la luce. Il suo ultimo film ambientato in Italia è del 1981: La tragedia di un uomo ridicolo, uno dei suoi scacchi commerciali. Quindici anni dopo ne fece un altro – Io ballo da sola – ma non è una storia di italiani. Forse è stato un suo handicap interiore, probabilmente nell’Italia del berlusconismo si sente uno straniero, un immigrato. Prima della rivoluzione fu presentato nel maggio 1964 alla Semaine de la Critique di Cannes, dove ebbe due premi internazionali della giovane critica. A Milano uscì il 10 dicembre al cinema d’essai Arti. Sui quotidiani la maggior parte dei recensori lo bastonarono con poche eccezioni che, pur con riserve, lo accolsero con attenzione e rispetto. Sui periodici e le riviste non mancarono i consensi. Oltre a Giulio Cesare Castello su «Il punto», il più caldo fu Vittorio

MORANDO MORANDINI

Bernardo Bertolucci

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1965

IO LA CONOSCEVO BENE

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TULLIO MASONI

Antonio Pietrangeli

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La ragazza, già siciliana per finta, torna nella propria pelle: attrice, personaggio, donna di origine contadina e provinciale. Si chiama Adriana, ed è Stefania Sandrelli. Io la conoscevo bene chiude l’esperienza più alta della “commedia di costume”; una commedia non proprio o non solo “all’italiana”, vorrei dire, perché il film di Pietrangeli, questo epigono della Dolce vita, porta nel genere uno stile, ma non abbandona cinema medio. Una commedia tragica, modernamente fenomenologica, un addio amaro all’illusione neorealista, celebrato con qualche zoom di troppo e raffinati piani-sequenza.Vicino e lontano dal volo suicida c’è il leggendario gasometro, poi lo schianto della tettoia di vetro; cioè l’antico, pretestuoso richiamo operario, e i palazzi dell’Immobiliare che allargano la periferia invadendo la campagna fuori porta. Una tragedia storica, avrebbe detto Pasolini, un film capace di riconoscere il Male; addirittura di dargli un corpo, un volto, una giusta occasione.

Il Male che Pietrangeli scopre, ha il corpo e il volto di un personaggio: l’attore di successo incarnato da Enrico Maria Salerno il cui compito, nel brano assegnatogli dal regista, è condurre un crescendo malvagio. Si chiama Roberto, ed è invitato a una delle tante “feste d’affari” allestite dai trafficanti dello spettacolo; arriva tardi, ovviamente, e riceve un premio falso. Non è romano, ma dalla vulgata prende qualche parola, qualche atteggiamento cinico. La sua arroganza cede alla complicità, talvolta, ma solo per avere conferma: boutade momentanee e ben dosate fino all’apoteosi che Pietrangeli divide in due, come cercando un raddoppio di crudeltà. Da giovane Roberto ha fatto il boys in una rivista di Bagini; e l’anziano guitto, Bagini/Ugo Tognazzi, è un ospite fuori moda nella stessa festa. Cosa di meglio, per Roberto, che metterlo in ridicolo e fare spettacolo; cosa di meglio per il povero Bagini che esibire un vecchio numero («Il treno») facendo la claquette su un tavolo del salone? Ma Roberto, che continua a intercalare dizione neutra e vernacolo, e con ciò aiuta il cinismo di maniera a trasformarsi in cattiveria, vorrebbe da Bagini un servizio particolare: vada da quella ragazza sconosciuta, le chieda se vuole lasciare la festa e andare a casa sua. Un momentaneo soprassalto di dignità spinge la ragazza a rifiutare; anche per simpatia verso Bagini, costretto dal bisogno al ruolo di ruffiano. Così Bagini raggiunge l’attore, già pronto con l’auto scoperta, fuori dalla villa. La ragazza non ci sta; Roberto si altera, sale e accende il motore; Bagini chiede aiuto per un lavoro qualsiasi, supplica, insiste restando aggrappato alla portiera quando l’auto si muove. A questo punto Roberto affonda le dita sulla sua faccia e lo spinge via: «… e vuoi andartene! Ti puzza pure il fiato, ti puzza!». L’auto è partita, la mdp la segue per un mezzo giro finché esce dal piazzale; il giro continua sulle siepi, raccoglie la voce di Bagini fuori campo: «… ciao Roberto…», e si chiude ancora su lui che, dopo aver esitato un attimo, torna indietro ed entra nella villa. Trecentosessanta gradi per la seconda apoteosi del Male (la prima era stata la claquette sul tavolo) e, col vecchio guitto che si arrende “ai tempi nuovi”, per la Pietà.


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1966

LA PRESA DEL POTERE DA PARTE DI LUIGI XIV

i francesi, cui l’Ortf l’aveva presentato subito l’8 ottobre, per sfruttare il clamore veneziano, con esito di ascolto imponente. Era poi uscito in circuito Oltralpe nel successivo novembre, e rimasto in programmazione a Parigi per complessive quindici settimane, nonostante i venti milioni di telespettatori già registrati quella sera. Solo tre anni dopo, 1970, La presa del potere da parte di Luigi XIV uscì in circuito anche in Italia. Rivedo anch’io un Rossellini di ottimo umore, in un magnifico doppiopetto blu a bottoni dorati, vagamente marinaro, che lo presenta al Ritz di Genova, rifiutando poi al solito con ironico garbo di rivederlo, in una dolce sera primaverile, a un pubblico stipato ed entusiasta. Non ho dedicato una sola riga intrinseca al film: francamente, di proposito. Sul Luigi XIV è già stato detto moltissimo, meglio nel web che sulla carta: presuntuoso sperare nella voglia di rivederlo di chi già lo conosca, o nella curiosità di scoprirlo degli altri? Il sole e la morte, si sa – come legge ad alta voce Luigi dalla pagina di La Rochefoucauld, al primo istante in cui resta solo e torna umano, nella sequenza finale – non si possono guardare fissamente. Ma i film si debbono vedere e rivedere. Specie adesso, quando è finalmente annunciata – nelle “Nuvole” di Feltrinelli, a sette anni da quella francese MK2 – anche l’edizione dvd italiana.

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Solo quaranta giorni, tra inizio agosto e 10 settembre 1966. Ma sufficienti a segnare una delle svolte decisive nella vita di un Rossellini che pareva all’ennesimo punto morto. Dopo il Della Rovere, più nessun successo accettabile; la nuova fase storico-pandidattica-televisiva annunciata, letta dai più come un alibi. Il suo primo esempio concreto (le cinque puntate di L’età del ferro, programmato dal Secondo Rai all’inizio del 1965, pur con discreto esito di pubblico), passato senza trovare molti già pronti a coglierne l'innovatività. La storia segreta di quelle sei settimane – dalla lavorazione velocissima al colpo di scena veneziano – l’ha rivelata Tullio Kezich nel suo bel «Cari centenari» (Falsopiano 2006). La commissione di selezione della XXVII Mostra: Castello, Cavallaro, Kezich, Pestelli e Savio. Il direttore Chiarini tempestato da telefonate parigine di un Rossellini deciso a mostrargli a ogni costo il nuovo film appena finito là a tempo di primato. Il professore glissa, temendo l’ennesimo fiasco. Alle strette, spedisce in Francia Kezich e Cavallaro, a vedere se sia almeno ipotizzabile, senza perderci la faccia, trovare per il maestro un posticino marginale, o indorargli la pillola del rifiuto in caso contrario. Riceve invece la chiamata estatica dei due, che hanno contemplato stupiti nella Prise du pouvoir par Louis XIV un capolavoro tanto inatteso quanto assoluto. Incredulo, si ravvede vedendolo a sua volta e lo piazza trionfalmente a chiusura della rassegna. «Agli applausi del pubblico rispose, all’uscita, il fragore dei fuochi artificiali», conclude Kezich «Ne vedo ancora il luminoso intermittente riverbero sul volto sorridente di Rossellini, di cui quel trionfo al Lido segnò l’ennesima e definitiva resurrezione». Chi non era a Venezia, per vederlo dovette aspettare il Nazionale Rai, la sera del 23 aprile 1967, una domenica. (Sarebbe stato replicato un’unica volta dieci anni dopo, il 4 giugno 1977, all’indomani della repentina scomparsa dell’autore!). Col grave limite di vedere in bianco e nero un film nato a colori. Due anni dopo Morandini, visionato Atti degli Apostoli in un festival prima che in tv, ebbe a sostenere paradossalmente, ma forse non a torto, che la distorsione del bianco e nero televisivo rafforzava quel tipo di film anziché deprimerlo. Erano stati più fortunati

NUCCIO LODATO

Roberto Rossellini

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BRUNO FORNARA

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Diceva Tati, in una bellissima intervista di Jean-André Fieschi e Jean Narboni, «Cahiers du Cinéma» n. 199, marzo 1968: «Playtime è il contrario di un film letterario, è piuttosto scritto come un balletto. È scritto in immagini. Lo disegno (maluccio), mi racconto la storia per immagini, la costruzione narrativa deriva da questa visione. Conosco il film a memoria e sul set non guardo mai la sceneggiatura». Regia come direzione d’orchestra. Riprese come esecuzione di una partitura già scritta, anzi disegnata. Partitura in minore per figurine, apparizioni, gesti, suoni, rumori. Soprattutto rumori. Tantissimi: di scarpe e tacchi, poltrone (sscciaff), porte, automobili, pulsanti. Rumori di ogni cosa che fa rumore. E silenzi: dialoghi non sentiti dietro i vetri, porte insonorizzate che non sbattono, una severa signora in abito lungo che scivola nello spazio senza un fruscio. Playtime è una partitura dodecafonica dove ogni nota e ogni silenzio hanno lo stesso valore. Un’immagine in trasparenza di là di un vetro, un vuoto o una presenza, suoni, schiocchi, bisbigli, scalpiccii: tutto allo stesso livello, niente privilegi, nessuna componente messa in rilievo, neppure la figura di Hulot. Un film dodecacomico, dove la comicità non ha una intonazione prevalente e le gag, non organizzate su una scala melodica, vengono fatte scivolar via, come svanissero senza lasciare tracce evidenti, per magari riaffacciarsi più in là, riscomparire, tornare. Di film in film,Tati è andato progredendo verso rappresentazioni sempre più geometriche e astratte: senza mai abbandonare la naturale vocazione a conservarsi pur perdendosi e naufragando nel mondo, senza mai rinunciare alla voglia di turbolenze salvifiche, come nella liberatoria baraonda al Royal Garden, dove tutti possono ritrovare, dice Tati, «il gusto della vita». Esilissimo il filo narrativo, fondamentale il ruolo dello spazio globale e di ogni spazio particolare, popolati tutti gli spazi da una folla di personaggi ognuno con un compito, fosse anche soltanto quello di passare di lì, Playtime diventa un iperbolico meccanismo di accordi e raccordi, notazioni e note che si richiamano da lontano, da una zona a un’altra o all’interno di una stessa inquadratura. Playtime si fonda sulla fisica dell’entan-

PLAYTIME Jacques Tati

glement, sul misterioso rapporto che lega una particella atomica a un’altra gemella ma distante anni luce. Cose e persone si influenzano secondo regole misteriose e leggi sconosciute. La comicità del film è dispersa: sorge da ogni dove; è compatta: occupa ogni spazio; è molto discreta: nel senso comune della parola, cioè cauta, misurata, spesso invisibile, e nel senso con cui i fisici usano l’aggettivo discreto, cioè a indicare una serie composta da un insieme di elementi isolati, non contigui fra loro. Playtime è esperimento di perfezione costruttiva e maniacalità miniaturistica. È caparbiamente solido e felicemente fragile: proprio come Tati che si muove sulle punte dei piedi tra vetri che ci sono e non si vedono e vetri che non ci sono e sembrano esserci. In questo organismo troppo perfetto e troppo insolito, troppo pieno e troppo vuoto, ognuno può affezionarsi a un dettaglio, dieci minuzie, cento sfumature. E ogni particolare sta a indicare il tutto, come in quella mirabile inquadratura in cui il gesto del cameriere, in secondo piano, che spalma la colla sul pavimento del ristorante per rimettere a posto una piastrella, corrisponde esattamente al gesto di un altro cameriere, in primo piano, che sta spalmando la salsa sul rombo, pesce che continuerà a essere spalmato da un cameriere dopo l’altro senza mai essere servito e mangiato. E l’aereo che si squaglia per il caldo, e il bidone a forma di colonna dorica, e l’asta dell’abat-jour in autobus? Un film inesauribile.


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DILLINGER È MORTO

zio stesso della casa si trasforma in schermo e il privato dell’uomo diventa spettacolo ed esibizione. La casa si fa cinema ospitando lo spettacolo dinamico di un vissuto che finisce per confondersi con l’illusione, fino a culminare nel balletto di mani che sublima il valore esibizionistico puro che lo spazio domestico assume nella civiltà dei consumi. Lo spazio architettonico della casa si confonde dunque con quello immaginario del suo occupante fino a sembrare l’unico possibile, come sintetizza l’inquadratura che mostra la doppia immagine della pistola, quella vera e la sua proiezione sullo schermo. La casa si annulla intorno alla pistola così come lo spazio-tempo del vissuto di Glauco si annulla nel buio che la avvolge: solo l’immagine filmica sembra avere ancora significato producendo l’illusione di una via di fuga dall’alienazione del quotidiano perché «al di fuori del cinema non c’è nulla» (1). È d’altra parte in un altro spazio immaginario che l’uomo finisce una volta fuggito dalla prigione domestica, quando cioè, nel finale del film, cerca libertà in una casa mobile: la barca. Ma non è ancora una volta che illusione: lo spazio esistenziale di Glauco si annulla infatti definitivamente confondendosi con quello immaginario e dissolvendosi nella solarizzazione rossa e misteriosa su cui il film si chiude. (1) In Adriano Aprà (a cura di), Intervista a Marco Ferreri, in «Cinema & Film» n. 4, 1967, p. 33.

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Glauco-Michel Piccoli è un ingegnere che vaga nella sua casa muovendosi da una stanza all’altra senza meta, seguito incessantemente dalla mdp: piano inferiore, piano superiore, camera da letto, sala da pranzo, cucina, sala da pranzo. Glauco è uno di quegli uomini che Ferreri mette al centro di un po’ tutto il suo cinema: uomini spinti verso l’alienazione e l’abbrutimento da una modernità vuota, uomini che giocano con le loro stesse ossessioni e con la vacuità dell’esistenza, uomini che cercano di fuggire dalla propria esistenza e insieme da uno spazio domestico in cui si sono rifugiati – in cerca di requie o godimento – e che si è fatto inaspettatamente prigione, gabbia autoedificata e claustrofobica. Nella raffinata casa che si svela attraverso l’errare di Glauco, come già era stato per il lussuoso appartamento dell’industriale del cioccolato in L’uomo dei cinque palloni e sarà per la villa occupata dai quattro gaudenti amici in La grande abbuffata, nulla sembra infatti avere senso: la cena pronta sul tavolo non è mangiabile, la televisione non è guardabile, la cucina non è utilizzabile nel suo eccesso di dotazione. Tutto è vano. Solo il ritrovamento imprevisto dell’oggetto talismanico, del giocattolo, la pistola, sembra poter imprimere temporaneamente un corso diverso al suo viaggio in interni. Con l’arma tra le mani Glauco si muove nello spazio della casa tentando di avviare un processo di riappropriazione che è insieme materiale e memoriale: si muove sicuro in cucina, ammannisce con cura il proprio pasto, gioca con la moglie addormentata in camera da letto, sposta i mobili per far posto alla proiezione dei filmini nel salotto. È il potere taumaturgico dell’oggetto fuori luogo che gli dà lo slancio per tentare questo percorso: la pistola, scivolando in mezzo agli oggetti domestici e imprimendo una variazione al moto continuo dei gesti quotidiani, sembra restituire all’improvviso una parvenza di significato e una traiettoria al suo errare. Ma si tratta di un’illusione, tanto che perfino l’omicidio della moglie, trasformato in spettacolo e messo in scena, si rivelerà esso stesso come privo di senso; un’illusione, evidente fin dalla sequenza chiave della proiezione dei filmini amatoriali delle vacanze che l’ingegnere quasi reinterpreta, intervenendovi, durante la visione. Con le immagini della corrida, della moglie, degli amici lo spa-

CHIARA BORRONI

Marco Ferreri

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LA VIA LATTEA

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GIORGIO CREMONINI

(LA VOIE LACTÉE)

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L’immaginazione al potere: la sequenza della fucilazione del Papa, l’unica immagine dell’utopia che siamo certi di non vedere mai, è probabilmente la parafrasi visiva più fedele ed efficace del celebre slogan sessantottesco, anche se non sollevò lo scandalo che solo pochi anni prima aveva accolto «L’ultima cena» di Viridiana, per non parlare delle sollevazioni fasciste degli anni Venti, ma alla fine degli anni Sessanta si respirava già a pieni polmoni la tolleranza repressiva descritta da Marcuse; non a caso La Via Lattea fu considerato principalmente come un gioco, una raccolta di barzellette surrealiste, uno sberleffo iconoclasta che non lasciava il segno perché fingeva di invocare – il film come lo slogan – l’impossibile, la metafora di un potere resistibile, ma mai sconfitto. Ora, è vero che Dio, Patria, Famiglia non sono stati fucilati, che continuano a comporre la triade su cui si regge la borghesia, ma sono emersi strappi clamorosi, su tutti tre i versanti. Certo, il merito non è solo di La Via Lattea, troppo intelligente per non sapere che le idee e l’immaginazione sono necessarie ma non sufficienti. Nessuna eversione culturale rovescia le situazioni, ma lascia il segno interpretandole: non è quanto invocava Marx nella sua glossa su Feuerbach, ma è sempre il segno di un cambiamento desiderato e desiderante come un sogno. Il film che Luis Buñuel e Jean-Claude Carrière hanno costruito nel fatidico Sessantotto parla sì di chiesa e di

Luis Buñuel

religione, ma soprattutto del potere che queste hanno su un’immaginazione ridotta a onnipresente parata liturgica. Hanno preso la storia e messo in fila le sue contraddizioni; hanno invitato a non credere alle verità e sorriderne. La Via Lattea è un intreccio costante – e ovviamente contradittorio – di citazioni; si rifà a forme fuori del tempo, come il romanzo picaresco e il racconto filosofico settecentesco, in cui l’immaginazione si libera e spazia nel mondo del pensiero prima che in quello del denaro e delle merci, mettendo in scena non ciò che è, ma ciò che non è. L’immaginazione e il sogno sono strumenti del pensiero; indicano l’emersione del dubbio, il rifiuto d’una verità spacciata troppo spesso per realtà, quando è solo un processo, non necessariamente di avvicinamento – un percorso senza traguardi. «Sono ateo, grazie a Dio» rimangono forse le parole più famose di Buñuel: il rifiuto delle etichette con cui crediamo di risolvere il problema della verità, uno sberleffo dada, una irrisione di ogni fede, un groviglio gordiano che nessuna spada può recidere, né quella del potere, né quella della fede. La sola arma che rimane è l’ironia, linguaggio dell’ambiguità per eccellenza: un’ironia spietata nella sua apparente leggerezza, senza polemiche, l’accostamento irriverente di fatti e parole che si contraddicono in sé. Perché il pensiero nasce dove e quando si finisce di credere, in una parola come in un’icona, in una verità come in un’altra – quando si comincia a immaginare una impalpabile, accuratamente nascosta, differenza, quando l’impossibile diventa il giusto. Il viaggio dei due viandanti verso Santiago de Compostela si svolge fra parole, nomi e immagini che si fronteggiano dall’alto o dal basso della loro specularità – dogmi che si oppongono ad altri dogmi, un castello che ricorda Escher più che Kafka, risibile costruzione che si sgretola con le proprie mani. È il viaggio attraverso l’instabilità del senso; all’effimera e cocciuta obbedienza agli ossimori grotteschi della storia, si può rispondere solo smontando la loro vacuità. L’immaginazione al potere è la libertà dall’idea stessa di potere: un sogno irrealizzabile.


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OSTIA Sergio Citti

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Sono arrivato al cinema di Sergio Citti presto, senza alcun contesto, e solo dopo ho scoperto che ha sempre creato un problema per buona parte della critica ufficiale. Strenuamente difeso da alcuni, è stato sminuito da tanti. Certamente ha pesato ciò che denunciava Pasolini: la diffidenza nei confronti del regista proletario, che andava disinnescato o trattandolo da naïf, ingenuo e innocuo poeta, o da epigono. PPP coopta infatti Sergio nel cinema e poi supervisiona e cosceneggia il suo esordio Ostia, nel 1970. Esordio che ho intravisto prima, incosciente e preadolescente, su una tv privata, poi ho letto e mitizzato nella sceneggiatura Garzanti, e finalmente ho visto in versioni man mano migliori, senza mai delusioni (ora c’è anche un dvd, ma solo in Francia). Non so quanto possa interessare, ma anche questo spiega perché mi viene spontaneo pensare a Ostia quando devo fare un elenco di film, i dieci migliori del cinema italiano, i cinquanta per l’anniversario di «Cineforum». Ostia mi sembra qualcosa di unico nel nostro cinema. Innanzitutto perché non si capisce bene in che anno siamo, o meglio, lo si capisce solo alla fine. La vicenda dei due fratelli alle prese con un diavolo-donna trovata nei campi sembra svolgersi in un’Italia neorealista, semirurale: e infatti c’è anche Lamberto Maggiorani, che però, anziché rubare biciclette, violenta la figlia in flashback, in un campo lunghissimo (assurdamente tagliato dalla versione tv) che è una scena primaria di dimensioni bibliche. L’altro flashback, quello in cui i due ragazzini uccidono il loro padre, sembra risalire addirittura all’Ottocento, a una campagna laziale di briganti e favole nere. Alla fine, quando l’alba arriva sulla spiaggia dove Citti ha ucciso Terzieff, arrivano i bagnanti, si vedono i caseggiati, capiamo che nel frattempo c’è stato il boom, ci sono stati i fantastici anni Sessanta, e sono già finiti: è finita la Storia senza che i protagonisti se ne accorgessero, e rimane solo una società di massa, che azzera il tempo, cancella anche il mito. Mi sembra unico, Ostia, perché è girato con uno stile mai visto, paratattico, kitaniano (ingenuamente lo dissi a Citti a Taormina, nel 1997, e mi guardò storto;

non sono mai stato capace di parlare con Citti, e me ne dolgo), un’immagine si somma a un’altra senza preoccuparsi di mascherare i raccordi. La mia sequenza preferita è quella in cui i due fratelli, al gabbio, vanno a confessarsi: il primo spavaldo dice al prete che ha peccato con tante donne, insieme al fratello, mentre il secondo dice che è ancora vergine. Il ritmo della sequenza ha una cadenza arcaica. È Citti che parla con le immagini (questo è stato ripetuto molte volte), e indugia, ritorna, accumula. Pasolini non ha mai girato così: dietro ogni sua immagine si avvertono rimandi, ideologie, estetiche. Citti no: Citti è un regista perentorio, davvero per lui «la cosa è una cosa». Ostia è un film sull’uccisione dei padri, sulla alterità della donna, sulla difficoltà di accettare la realtà. È un film pre-freudiano, pre-platonico, pre-cristiano che elabora mitologie del tutto assenti dal cinema e dal panorama culturale italico (forse bisognerebbe aggiungere: borghese). All’epoca qualcuno comunque lo capì. Elio Maraone, su «Cineforum» lo definì «senza rivali nell’ultima produzione italiana». Morandini, su «Tempo settimanale», scrisse per primo che Citti «sta a monte e non a valle dell’autore di “Ragazzi di vita”». Forse quello di Citti è un film per pochi. Pre-sociale e a-storico, comunque (o forse proprio per questo) ha una sua ragione, una sua nicchia tra i grandi.

ALBERTO PEZZOTTA

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QUATTRO NOTTI DI UN SOGNATORE

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ANGELO SIGNORELLI

(QUATRE NUITS D’UN REVEUR)

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Le quattro età del sogno. Quattro notti: quattro tempi per raccontare il disincanto, quattro capitoli per costruire il sogno, quattro variazioni per incontrare un testo, quattro periodi per guardare il presente. Notte prima: la sorpresa dell’incontro, l’appropriazione dello sguardo, l’accadere dell’origine, la preparazione del sogno. «Ma, ecco, domani non posso fare a meno di venire qui. Sono un sognatore. Nella mia vita c’è poca realtà, e di momenti come questi ne ho così pochi, che non posso rinunziare a riviverli in sogno» (Fëdor Dostoevskij, «Le notti bianche», Einaudi, Torino 1957, pag. 14). Come nel testo dello scrittore russo, così nel film di Bresson il punto di partenza è la solitudine, o forse meglio sarebbe dire la distanza di due persone che sono nel

mondo con la loro interiorità, soverchiante e assolutista, notturna ed errante. Due soggettività che si incontrano, casualmente, ma già complici. Attorno ci sono luoghi evocativi: Parigi, il Pont Neuf, il ’68 da poco trascorso. Perché la storia si svolge proprio lì? Perché l’insegna che indica il ponte è così netta, evidente, precisa, volutamente ritagliata nell’oscurità della sera? Quella favola che era stata di tutti, rossa di rivolta e di cambiamenti ormai prossimi, è di nuovo una delle tante, infinite, che capitano tutti i giorni, nella quotidianità, nella fitta rete dei drammi e delle illusioni individuali. Notte seconda: l’attesa, la rivelazione, il racconto, il sé e gli altri.

Robert Bresson

«Il sognatore, se volete una definizione precisa, non è un uomo, ma sappiatelo, un essere neutro» (Idem, pag. 20). Si può pensare di essere qualcuno che non ha storia, di vivere pedinando e guardando, con l’insistenza che nell’altro provoca sospetto e paura. Si può inseguire un’idea, un amore puro e innocente, disegnando figure colorate ma senza volto, immaginando l’arrivo dell’angelo, perché ormai tutto è parola, brusio, chiacchiera, menzogna, sotterfugio. Il cinema è come un teatro del grottesco, uno spazio di false emozioni. Inizia il naufragio, lo smarrimento, la ricerca dell’appiglio. Terza notte: la coscienza, l’utopia, il tempo si è fermato, il senso di un’attesa che è stata per sempre. «Come ho potuto essere tanto cieco, se un altro aveva preso già tutto, senza lasciarmi nulla? In fondo anche la tenerezza, i pensieri, l’amore di lei… sì, l’amore…, non era che la gioia per il prossimo incontro con l’altro, desiderio di legare anche me alla propria felicità…» (Idem, pag. 48). La realtà riprende il potere, e si fa evidenza, misura, luogo e ambiente (la città, i passanti, i cantieri, le musiche); è il momento dei se, delle sfide, delle ostinazioni, dei rifugi. Il soggetto sembra riappropriarsi, per contrasto ma anche per il bisogno di una più modesta felicità, del proprio sentire, ritornare alla condivisione, tra pochi, di un possibile senso della vita. La scommessa che forse…, la forza dei nomi, il valore degli oggetti, l’esaltazione dell’agire, l’impudicizia del pianto. Notte quarta: è finito tutto! Il tempo del silenzio, lo svaporamento del sogno, il ripiegamento. La rassegnazione. «… tornò nuovamente verso di me, veloce come il vento, come il lampo, e, prima che io potessi riprendermi, mi abbracciò e mi baciò fortemente, ardentemente. Poi, senza pronunziar neppure una parola, si gettò di nuovo verso di lui, lo prese per mano e lo trascinò via. Io rimasi a lungo a guardarli… Poi li perdetti di vista» (Idem, pag. 67). Potenza dell’epilogo: le parole si affollano, si ingarbugliano, ansiosamente, drammaticamente. Innocenza, colpa, amore, disprezzo, vendetta, speranza, tenerezza, mistero, sincerità, inganno, sofferenza, fedeltà, stupore, umiliazione, vuoto, perplessità. I sogni, le illusioni, le fantasie… tutto è così lontano. «Nella stanza è penetrato il buio, nell’anima di lui è vuoto e tristezza. Tutto il regno dei sogni che lo circondava è crollato, senza lasciar traccia, senza rumore, neppure uno scricchiolio» (Idem, pag. 25).


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ROMA

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1972 densano in brevi quadri fulminanti il clima e il senso di un’epoca (i riti ridicoli del fascismo ma anche i rituali di massa del consumismo dei primi anni Settanta) e di una cultura (le repressioni e le ipocrisie dell’educazione cattolica). La grandezza del film risiede anche nella spregiudicatezza con cui esprime, senza reticenze, il carattere sanguigno e triviale di un popolo (la sequenza dell’enorme cena all’aperto), in alternanza alla rarefazione drammatica di alcuni momenti (la corsa della donna nel tunnel, dopo la notte di minacciati bombardamenti, inquadrata in un totale e nella luce diafana dell’alba). Proprio come nelle dinamiche intermittenti della memoria, il presente è continuamente intercettato dal passato: nelle prime sequenze vediamo le immagini fantastiche e concrete associate al mito di Roma, sognata da un bambino prigioniero in provincia, e quindi assistiamo all’impatto fisico, carnale e sonoro con il corpo respirante della Città, quando il provinciale vi arriva quasi ventenne nel 1939. Ma il presente del Raccordo anulare che cinge la Capitale (in una delle sequenze più potenti del film), uno spazio attraversato in un giorno di pioggia, si trasforma in una visione che potrebbe appartenere anche al passato: il percorso diviene infatti un viaggio visionario dove si cancella qualsiasi coordinata di spazio e tempo, come in un ricordo trasfigurato.

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Dopo i falsi documentari Block-notes di un regista (1969) e I clowns (1970), Fellini abbandona finalmente ogni pretesto narrativo, qualsiasi binario che conduca agli obblighi e alle convenzioni di una storia da raccontare. Si libera anche della necessità del personaggio: ogni figura che appare nel film è catturata nella sintesi di un gesto o di uno sguardo rivelatore dagli occhi dell’io, ma contemporaneamente mantiene un alone misterioso e ineffabile, sia che si tratti di Anna Magnani che di un cardinale anonimo o di una mezzana. L’io appare fugacemente bambino, quindi ventenne, per poi scomparire nella fisionomia sfuggente dell’autore, presenza defilata (per esempio nella sequenza del Raccordo anulare) che presto scompare nel fuori campo, lasciando lo spazio al susseguirsi delle visioni, alle intercettazioni temporali che confondono il passato e il presente. Roma è un film che potrebbe durare all’infinito: è il laboratorio della memoria al lavoro nel suo respiro di sospensioni (i giochi luministici nelle strade deserte durante la notte), spettacoli crudeli (le prove dei dilettanti al Teatrino della Barafonda) e onirici (la sfilata di moda ecclesiastica), incantamenti (la prostituta del bordello di lusso, i suoi silenzi misteriosi e il suo sorriso lascivo) e miraggi (gli affreschi che si cancellano nella casa romana ritrovata nel tunnel della metropolitana). I frammenti riesumati dalla memoria con-

ROBERTO CHIESI

Federico Fellini

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IL LUNGO ADDIO

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EMANUELA MARTINI

(THE LONG GOODBYE)

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Nel 1972, quando realizzò la versione più bizzarra, surreale e “testamentaria” di un romanzo di Chandler, Robert Altman aveva già diretto una quantità di telefilm, un film di fantascienza e un thriller psicologico (Conto alla rovescia e Quel freddo giorno nel parco), aveva vinto (a sorpresa, nel 1969) la Palma d’oro a Cannes con M.A.S.H., primo esemplare del più vitale e armonioso “corpo” autoriale del cinema di quegli anni. Dal 1969 al 1975, mettiamoli in fila: M.A.S.H. (1969, commedia bellica), Anche gli uccelli uccidono (1970, apologo fantascientifico), I compari (1971, western), Images (1972, thriller psicanalitico), Il lungo addio (1973, noir), Gang (1973-74, gangster movie), California poker (1974, buddy movie), Nashville (1975, musical e il film definitivo sulla crisi della cultura e della nazione americana). Il caos della vita, la trasgressione di facce anomale e di suoni colti al volo, le comparse e il fuori campo invadono il centro dell’inquadratura, scompaginano le regole della finzione, deridono, interrogano, denunciano. Con leggerezza e malinconia, Altman seppellisce i sogni del cinema americano. Non è più tempo di eroi. E nemmeno di antieroi, i duri e i losers emersi negli anni Quaranta nei generi, noir, western, dramma, film di guerra. Con I compari, Il lungo addio è il film più esplicito nella rilettura dei codici del cinema classico. Al centro, l’antieroe per eccellezza, il “privato” di amara derivazione hemingwayana, Marlowe-Bogart, simbolo di ideale, virile disincanto, impersonato da uno svagato commediante ebreo americano, Elliott Gould, aria stazzonata e borbottii, uno che fa Al Jolson davanti ai poliziotti e battute di spirito a dei gangster del tutto privi di sense of humour. Uno che, nel caos orizzontale di Hollywood, vive arroccato in cima a un condominio abitato da fanciulle svaporate e mezze nude che cucinano torte al cioccolato e marijuna, e che quando scende

Robert Altman

in strada rischia di finire investito da un’auto. Uno che ha due amici, un gatto rosso e Terry Lennox, e che, nei primi venti minuti, li perde entrambi. Per sempre. Ma, come dice lui, «È ok per me». Insieme a lui, uno scrittore che sembra Hemingway ma è fragile e sperduto come un bambino, una dark lady per caso, un gangster pazzo, poliziotti corrotti, funzionari corruttibili, medici laidi, malviventi stupidi, e gente qualsiasi, intravista tra le pieghe di un racconto che cerca invano il bandolo perduto della matassa. Già nelle trame di Chandler non si raccapezzava nemmeno Chandler, ai tempi del Grande sonno: negli anni Settanta, l’intreccio confuso del romanzo diventa il simbolo delle strade perdute americane, il magma nel quale ci si dibatte. Senza né capo né coda. Ma, «È ok per me». Aggiungete: una colonna musicale genialmente monocorde, la canzone «The Long Goodbye» di Williams e Mercer, solo quella, in alcune versioni off-screen e in una miriade di “invenzioni” on-screen. Poi l’incipit più bello degli ultimi cinquant’anni, il lungo duetto tra Marlowe e il gatto che vuole solo cibo marca Curry: bello perché all’apparenza inutile, ma perfetto per l’identificazione immediata di un Marlowe irreale, “scollegato” («Che me ne faccio di un gatto? Io ho la ragazza!», gli dice il commesso del supermercato). E il finale, che ribadisce l’inattualità del protagonista: imprevedibilmente, questo Marlowe inerme e giocherellone, questo perdente nato («Il solito Marlowe, non imparerai mai. Perdi sempre!», gli dice Terry), per una volta risponde no, «Non questa volta», tira fuori una pistola e spara all’amico che l’ha tradito (come non accade nel romanzo, dove Marlowe se ne va disgustato). Perché, se i sogni finiscono qui, c’è bisogno di un gesto di moralità. Poi si gira e se ne va, accennando «Hooray for Hollywood» su una minuscola armonica a bocca. Addio per sempre, Philip Marlowe.


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VOGLIO LA TESTA DI GARCIA

(BRING ME THE HEAD OF ALFREDO GARCIA)

imposizione di valori, sorta su una violenza prodotta sulla donna. Le succede una sequenza in montaggio alternato, tra Messico e Stati Uniti. Il movimento narrativo dei film di Peckinpah è sempre tentato dal desiderio della stasi. I ralenti celeberrimi delle sparatorie, i fermo-immagine degli incipit – qui come in Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) o La croce di ferro (Iron Cross, 1978) –, i tragitti dei protagonisti propongono il ritorno alla quiescenza. Ventre naturale o annichilimento, poco importa. Qui la prima e l’ultima inquadratura sono due fermo-immagine. Il protagonista non è proprio tra noi. Sin dalla sua prima apparizione è celato dietro due enormi occhiali scuri, inamovibili. Se si definisce la vivacità di un individuo dallo sguardo, difficile farlo attraverso la maschera di Warren Oates. D’altra parte, è l’unico ad avere un nome, insieme agli altri due vertici del triangolo: Elita e Garcia. Tutti gli altri non hanno tale privilegio. Garcia è morto sin dal principio. Elita e Bennie sono due creature giunte al capolinea, svuotate. Gli altri si affannano inutilmente a dare un’impressione di vitalità. Per evitare ambiguità, a metà del film Bennie viene colpito alle spalle, precipita svenuto nella tomba di Alfredo. Ellissi maggiore. Bennie si desta, ormai privo dei propri sogni e desideri. Un morto che cammina. Di qui in poi, il film esplode nell’onirismo: Bennie monologa con la testa di Alfredo, compie un efferato omicidio dietro l’altro, cerca un senso che né la testa né gli altri morti possono restituirgli. Peckinpah ha sempre alternato film collettivi e sanguinosi a racconti individuali ed elegiaci. Cacofonie e monologhi. Qui combina i due aspetti, nell’incubo di un morto.

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Quanto vale la testa di un uomo? Per tutto il racconto il protagonista si arrabatta a ricuperare quella di un morto. Un compito semplice: asportare la parte e rimetterla alla committenza. Eppure, il lavoro non è ovvio. Per gli ostacoli del percorso, in apparenza; per un residuo simbolico, più probabilmente. Lo spiantato gringo Bennie urla alla sua compagna Elita: «Che cosa c’è di sacro in una fossa nella terra? O nel morto che c’è dentro? O in te? O in me?». Ma nel cinema di Peckinpah le proteste ideologiche sottendono sempre una difficoltà dei personaggi con la propria coscienza, in un mondo dominato dalla ottusa brutalità. Meglio non credere al cinismo di Bennie. Di valori si tratta, in Voglio la testa di Garcia. Nel senso più astratto possibile. Valori familiari e religiosi per El Jefe. Valori finanziari per gli assassini prezzolati alla ricerca di Garcia. Valori affettivi per Bennie. Valore narrativo, per l’intero film: si tratta di trovare un oggetto che consenta di riequilibrare un dissesto iniziale. L’astrazione così accentuata permette a Peckinpah di non mostrare mai l’oggetto eponimico. Di Garcia vediamo solo una foto sbiadita. La testa non giungerà mai all’onore dell’immagine. Troppo astratta, o troppo corrotta. E più letale della valigetta di Un bacio e una pistola (Kiss Me Deadly, R. Aldrich, 1955). Il film si apre sulla comunione di individuo e natura: una ragazza incinta sulle rive di un corso d’acqua. Poche inquadrature e irrompono due uomini, a strapparla all’idillio. Nella sequenza successiva un altro maschio – caricatura della Legge del Padre –, tra la lettura degli «Atti degli Apostoli» e la tortura della ragazza, pronuncia la frase originaria: «Bring me the head of Alfredo Garcia!». Il racconto può iniziare da questa

FRANCESCO PITASSIO

Sam Peckimpah

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LA RECITA (O THIASOS)

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ALBERTO CRESPI

Theo Angelopulos

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Se oggi mettete su Google le parole “cinema”,“Arcadia” e “Milano” viene fuori il multiplex di Melzo. Ma tanti anni fa il cinema Arcadia c’era anche a Milano. Era l’ex-Teatro Carcano, quello cantato da Enzo Jannacci in «Veronica» («Veronica / l’amor con te non era cosa comoda / né il luogo forse era il più poetico / al Carcano, in pé»). Si è chiamato Arcadia dal 1969 al 1980 ed era probabilmente il più grande cinema d’essai del mondo. Una sala immensa, che oggi si riempirebbe solo con Avatar o Harry Potter. Beh, in qualche weekend dimenticato della stagione ’75-’76 all’Arcadia davano O thiasos, di Thodoros Angelopulos. Il titolo italiano era La recita, ma il film non era doppiato: quattro ore in greco con sottotitoli! Era reduce dal festival di Cannes, dove aveva ottenuto alcune recensioni esaltanti: non era in concorso, ma vorrei rischiare la figura del vecchio barbogio ricordando che quell’anno gareggiavano per la Palma d’oro film come Alice non abita più qui di Scorsese, Cronache degli anni di brace di Lakhdar-Hamina (che vinse), Lenny di Fosse, L’enigma di Kaspar Hauser di Herzog, Profumo di donna di Risi, Professione: reporter di Antonioni, L’affare della sezione speciale di Costa-Gavras, Elettra amore mio di Jancsó, O amuleto de Ogum di Pereira dos Santos, l’immenso Touch of Zen di King Hu e, ultimo ma tutt’altro che ultimo, Yuppi du di Celentano! Il film di Angelopulos era alla Quinzaine, in ottima compagnia: c’erano anche Allonsanfan dei Taviani, Il diritto del più forte di Fassbinder e, udite udite, Non aprite quella porta di Tobe Hooper. E non finiva lì. Il 1975 fu un anno straordinario: uscirono, per dire, anche Barry Lyndon e Nashville. Quel giorno, all’Arcadia, avvennero due cose incredibili. La prima: non fu come ai tempi di Veronica, non si dovette vedere il film “in pé” – in piedi – ma quasi: il cinema era molto affollato. La seconda: alla fine delle quattro ore di proiezione ci fu un applauso. Lungo, convinto. Come a teatro. E in fondo, eravamo proprio a teatro. Non solo perché l’Arcadia era stato, e sarebbe ridiventato, il Carcano. Ma perché il film parlava di teatro, era un aggiornamento politicamente impegnato del mito del carro di Tespi. Ma non so quanti spettatori, quel giorno, pensassero a questo. Credo

fossero stati sinceramente travolti dalla bellezza e dalla complessità del film, e ritenessero che un simile sforzo – del regista, degli attori, del distributore italiano, in ultima analisi anche loro, degli spettatori medesimi – meritasse un applauso. Non mi farò, qui e ora, l’oziosa domanda: cosa succederebbe oggi, se O thiasos tornasse cinema. Forse non succederebbe nulla: il cinema sarebbe vuoto. Posso invece raccontare cosa accadde, cinque anni dopo, in un altro tempio d’essai milanese ancora più austero ed esclusivo dell’Arcadia: il cineclub Obraz, voluto diretto e programmato dal mai abbastanza rimpianto Enrico Livraghi. 1980: facevano O Megalexandros, quinto film di Angelopulos (O thiasos era il terzo). In sala saremo stati una decina. Uno di questi eroi, all’ennesima giravolta della macchina da presa, gridò nel buio: «Queste panoramiche a trecentosessanta gradi hanno rotto i coglioni!». È un momento che non dimenticherò mai: è stata la prima e unica volta, nella mia lunga carriera di spettatore, che ho sentito insultare non un regista o un attore o una tesi politica di un film, ma un movimento di macchina! Era successo qualcosa. Erano finiti gli anni Settanta. Proprio quell’anno l’Arcadia ridiventò Carcano ed entrammo in un decennio orribile per il cinema. O thiasos, comunque, resta nel mito. Non credo si trovi in dvd, forse nemmeno in Grecia. Io conservo come una reliquia una copia vhs in cui il film è spezzato su due cassette. Giuro che se qualche nostalgico me lo chiede cercherò di farne delle copie.


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L’IMPERO DEI SENSI (AI NO KORIDA)

passione. È una scena notturna: una notte piovosa, in cui Abe e Kichi escono a vedere per un attimo il mondo che hanno chiuso e dimenticato fuori dalla loro alcova. Li protegge un ombrellino, che a un certo punto usano per intimidire, ridendo, una trepida signora che gli passa accanto. Nella colonna sonora solo le poche note del flauto che accompagna gran parte del film. Ho sempre sentito (ancor prima che pensato) che in quella scena, in quel film, Nagisa Oshima si sia avvicinato a qualcosa che se non è il senso della vita, quantomeno è la rappresentazione più genuina della volatilità dell’esistenza umana. Lo ha fatto mettendo in scena non dei pensieri, ma dei corpi – in un modo che non sarebbe stato possibile, per cultura, a un occidentale, che li avrebbe caricati di colpa o di trasgressione. Abe e Kichi, invece, vivono totalmente dentro la loro carnalità, nell’essenzialità della loro parabola di esseri umani: due corpi nudi, poche stanze disadorne. E ha descritto quel momento senza tragicità, come tragica non è nemmeno l’uccisione finale: ma come un puro fatto dell’esistenza umana. Siamo tutti in una notte piovosa, con un bisogno biologico di amore che ci divora e ci unisce a un altro/a . E di fronte all’ombra della morte, che è il nostro inevitabile destino, il gesto più eroico è insieme quello più infantile: mettersi a giocare con un ombrellino di carta: e riderne. Insieme. (1) Qualcosa del genere è rispecchiato anche dal fatto che su Imdb.com il gradimento del film è un misero 6,6/10, battuto perfino dal summenzionato film italiano…

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Una decina d’anni fa ero in un cinema romano. Scorrevano i titoli di coda di un film di successo di un regista italiano all’alba della sua fama, il capofila del genere sentimentale «ho trent’anni – mi sono sposato – oddio divento vecchio – che ne sarà di me». Dietro di me una giovane coppia aveva gli occhi incollati allo schermo, rapita. Lui si voltò verso di lei e le disse: «Questo è uno di quei film che ti cambiano la vita». Devo dire che a me il film non era neanche dispiaciuto, ma insomma… Quella dichiarazione così radicale (e così sincera, bisogna dirlo) mi spinse a pensare quali erano stati i film “che avevano cambiato la vita” per me all’incirca all’età di quella coppia. E uno su tutti mi venne subito in mente: L’impero dei sensi (infedele ma non infelice traduzione dell’originale Corrida d’amore). Uscendo dal cinema, quella sera, riflettevo prima di tutto sull’abisso che separava il senso della mia vita di ventenne negli anni Settanta da quello della coppia di spettatori. Che esperienze, che aspettative, che desideri avevamo in comune? Cosa era successo nei venticinque anni di distanza che separavano i due film, per renderci così diversi e così lontani? Perché era evidente, anche con tutto il buon cuore, che i due film erano incomparabili; e “riconoscersi”nell’uno o nell’altro implicava un drammatico gap storico-esistenziale. Anzi, mi tornavano in mente certe facce che avevo visto l’ultima volta che ero tornato a vedere il film di Oshima in una cineteca, espressioni sospese tra risolini imbarazzati e il puro disgusto. O meglio: la totale incomprensione (1). Al di là dei tristi pensieri su una mutazione antropologica anche peggiore di quella denunciata da Pasolini, ricominciai a riflettere sul film. A perché ne ero rimasto incantato a vent’anni e per sempre dopo. Cercai di evocare un’immagine, senza pensarci troppo. Alla memoria non si affacciò il primo piano di Eiko Matsuda con il filo di sperma che le cola dall’angolo della bocca; o la formidabile scena della vecchia geisha scopata controvoglia da Tatsuya Fuji, con il trucco che le si disfa sotto i colpi del coito. O in generale, la straordinaria commistione di vero e messo in scena (a cominciare dagli atti sessuali) che fu, per me, la prima lezione, la prima tappa di un percorso sulla natura del cinema che ho poi cercato di sviluppare, da regista, in tutti i miei film. Niente di tutto questo. Mi venne in mente la passeggiata che i due amanti compiono a un certo punto della storia, quando hanno già superato il punto di non ritorno della loro

DAVIDE FERRARIO

Nagisa Oshima

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EMILIO COZZI

GUERRE STELLARI

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Se fai un film che diventa religione, che peso ha una critica trent’anni dopo? Lo confermava già un censimento britannico nel 2001: il sesto credo d’Albione ha come testo sacro l’epopea della Skywalker family, un culto – si fa per ridere, ma dillo a Freud – ebbene, un culto per proseliti di ogni dove (1). Ciò detto, serve che si continui a scrivere di Guerre stellari? Per onestà,“no”, per illuderci,“forse”. Ecco perché non si smette di disquisire del giocattolo di George Lucas pur a trentatrè anni dalla sua conquista del Pianeta e nonostante l’immaginario collettivo ne sia così pregno da non farci più caso. «Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…»? No, primi mesi del ’77: Lucas invita gli amici a vedere il film cui ha dedicato anni e un esaurimento. Oltre ai preoccupati boss della Fox, accorrono Spielberg, Willard Huyck, Gloria Katz, De Palma e Joy Cocks, critico del «Time». Si narra che, a nemmeno metà proiezione, De Palma non trattenga più gli sghignazzi e Marcia Lucas pianga a dirotto. Katz ricorda un «diffuso senso di disastro» (2). A scommettere sul film rimangono solo Alan Ladd jr. e Spielberg, due tizi, a dire il vero, che a mitopoiesi e box office stanno messi bene. Tant’è, qualche ritocco dopo Guerre stellari va in orbita. Da allora popoli interi si perdono fra le sue galassie e pure la critica decolla, sottolineando ora apice ed epitaffio della (New) Hollywood in una «saga avventurosa proiettata in un futuro tanto futuro da essere fiabesco» (3), ora perplessità lugubri – «Dal trionfo della Forza al trionfo della Volontà, il passo è breve», scrive Michael Wood a proposito dell’epilogo riefenstahliano (4). Lungi da analisi narratologiche à la Joseph Campbell, da letture epico-edipiche sul lato oscuro dell’America, via dagli storici innamorati o schifati da una pellicola che segnò il nuovo sogno hollywoodiano e archiviati contemplativi studi di marketing, resta che Ladd e Spielberg ci avevano visto giusto. Per quanto nemmeno così lontano. Che lo spettacolo sia ormai «sempre lo stesso» (5) Lucas lo intuì prima di tutti sapendo in fondo che la storia – dell’Uomo e del suo darsi senso – è una e sempiterna. Tuttavia, più che alle esegesi accumulate su Guerre stellari, oggi si dovrebbe far caso all’esplosione della cultura partecipativa innescata proprio dal film (6), agli spin

(STAR WARS) George Lucas

off, ai fumetti, ai giochi, ai romanzi dedotti e anche di più a quelli scaturiti da un universo nemmeno dal regista immaginato per intero (7). Soprattutto, si potrebbe sottolineare la perfetta adattabilità di quel cosmo ai media attuali, quelli che presto, del cinema, faranno a meno e che, dal cinema, saranno al limite lusingati (valga per tutti Avatar, estorsione tridimensionale a videogame, fumetti e molto altro). Che LucasArts esplorò subito le derive videoludiche la dice lunga sulle capacità profetiche del suo fondatore. Di più, però, rivela che il film, il suo design, il «vertiginoso entusiasmo» (8) della sua messinscena, attinsero a qualcosa di oltre il cinema (nel senso di prima, attorno e dopo). Guerre stellari fu progetto transmediale ante litteram e narrazione modificabile all’infinito perché sostanzialmente invariabile, perfetta per il ’77 e per l’approccio ergodico del tuo device digitale. A trent’anni dalla genesi, mentre l’ennesimo cofanetto vende ancora, milioni di persone giocano a «Star Wars – Il potere della Forza», la centoventesima scaturigine ludica dal 1982. Altre aggiornano fanzine e social network per (ri)scrivere personaggi e intrecci, o piegare Lucas alla terza trilogia. Forse qualcuno prega Obi Wan. Di certo, c’è chi scrive queste righe. E chi, come te, le legge. Non è (solo) marketing. E c’è da giurare che succederà lo stesso fra tanto tempo. In una galassia lontana lontana…

(1) Lo “jedismo”, registrato anche in Australia, Nuova Zelanda e Canada, è da anni supportato da chi lo vorrebbe riconosciuto fra le religioni ufficiali. (2) In John Baxter, «George Lucas – La biografia», Lindau, Torino 1999, pag. 286. (3) Emanuela Martini, Il piacere del sogno, in «Cineforum» n. 363, aprile 1997, pag. 4. (4) Michael Wood, «Hollywood from Vietnam to Reagan», Columbia University Press, 1986, pag. 170. (5) Franco La Polla, «Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood», Il Castoro, Milano 2004, pag. 286. (6) C’è addirittura un termine, “fanon”, per descrivere avvenimenti, oggetti e personaggi inventati dagli appassionati e non rispettosi del canone ufficiale. Non è un caso che il saggio dedicato da Henry Jenkins alle culture partecipative, «Fan, Blogger e Videogamers» (Franco Angeli, Milano, 2008), per quanto concentrato su Star Trek, sfoggi in copertina l’immagine di un soldato imperiale di Guerre Stellari. (7) Ai posteri giustappunto noto come “UE”, Universo Espanso. (8) Emanuela Martini, Il piacere del sogno, in «Cineforum» n. 363, aprile 1997, pag. 4.


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LA CAMERA VERDE (LA CHAMBRE VERTE)

l’oblio, l’ossessione della fedeltà e del ricordo. La ricerca dell’assoluto contrapposto al relativo, del definitivo che non si accontenta del provvisorio. Mai come in questo film, tuttavia, si era spinto così lontano. Se è difficile non scorgere nella camera verde una metafora del cinema (il più potente mezzo di conservazione del passato), allora il protagonista del film – un maniaco ossessivo votato all’impresa impossibile di preservare intatto l’amore per una persona estinta – si presta a essere letto come l’incarnazione più esigente dell’artista che affida all’opera d’arte il compito disperato di colmare questa lacuna attraverso la rappresentazione. Consapevole che un film (o un libro, un quadro, una statua di cera – come quella fatta a pezzi dal protagonista, dopo averla commissionata) non può restituire alla vita un amore o una persona defunta, Truffaut prende le distanze da Davenne, benché ne condivida l’ossessione, e da una concezione del cinema come arte necrofila per eccellenza. La morte di Davenne non è solo l’inevitabile approdo della sua follia: è anche l’estrema, disperata dimostrazione di quella fedeltà che è la sola cosa che conta. Ma, nello stesso tempo, la consapevolezza che il cinema non può che essere una risposta illusoria all’ansia di trovare un sostituto alla vita e alla sua assenza. Apparentemente più dimessa del solito, la messa in scena della Camera verde è – al contrario – un capolavoro di stilizzazione ed essenzialità, servite al meglio dalla fotografia di Nestor Almendros e dalle musiche dello scomparso (quarant’anni prima) Maurice Jaubert. A posteriori, facile concludere che, viste le premesse, non poteva non essere il più scontato insuccesso commerciale del regista. Salvo stupirsi ancora una volta, come sempre capita con Truffaut che – autore, interprete e critico imbattibile del proprio film – giunse al punto di offrirne l’esegesi più autentica e commovente: «I film degli anziani non sono mai capiti.Vengono sempre attaccati perché sono simbolici. I personaggi hanno meno spessore, ma sono molto ricchi. Li amano solo i cinefili». Alludeva agli ultimi film di Dreyer, Hitchcock e Renoir, ma pensava anche a se stesso. Ovviamente.

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Il sensitivo di Hereafter (Matt Damon) si rifiuta di continuare a esercitare il suo dono perché convinto che l’ossessione della morte allontani dalla vera vita. È improbabile (anche se non impossibile) che Peter Morgan, l’autore della sceneggiatura da cui Eastwood ha tratto il suo ennesimo capolavoro, abbia pensato alla Camera verde di Truffaut, che ne aveva messo in scena l’esatto contrario. E, tuttavia, l’uno aiuta a comprendere meglio l’altro. Rivedere a trent’anni di distanza il film di Truffaut è, come spesso accade, scoprire un film in parte diverso da quello che si credeva di aver fissato per sempre nella propria memoria di spettatore. Lungi dall’essere una semplice (per quanto estrema) elegia alla fedeltà per le persone amate, La camera verde è la summa stupefacente di tutto il suo cinema, il punto di arrivo di una ricerca iniziata con I quattrocento colpi e condotta sino alle estreme conseguenze. Poco importa che, poco prima di morire, egli abbia realizzato altri film ancora. Questo rimane, in qualche modo, come il suo film testamentario, la più rigorosa e radicale riflessione sul cinema di un autore che non ha mai smesso di interrogarsi sul suo valore e significato. Dall’altarino costruito dal giovanissimo Antoine Doinel per Balzac, alla cappella mortuaria di Julien Davenne (riempita di ceri, uno per ogni amico scomparso), passando per l’altare di Adele H. al tenente Pinson e per il cimitero dell’Uomo che amava le donne, il cinema di Truffaut non ha fatto altro che inseguire il rifiuto del-

ALBERTO BARBERA

François Truffaut

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EMILIANO MORREALE

MANHATTAN

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Il film più citato di Woody Allen, il più famoso e caro ai cinefili, fin dalla locandina. Una bandiera dell’allenismo che può dare perfino fastidio, con le sue battute mille volte citate – per lo più, in Italia, nella versione liberissima di Oreste Lionello, con Nabokov che diventa Freud, o Zelda Fitzgerald tradotta come Zsa Zsa Gabor. Eppure, Manhattan acquista sfumature e spessori nuove a ogni visione. La cosa che più rimane in mente è il tempo del film, sospeso come dev’essere quello del romance, ma anche convergente, a metà esatta, in una domenica in cui gli incroci dei personaggi precipitano e si intrecciano; una ronde che ricorda appunto i romance scespiriani, un tempo che sembra in apparenza più quello delle stagioni che quello della storia. Ma il film ha anche, decantata e impalpabile, tutta la malinconia di un decennio di trapasso. Il suo bianco e nero così anni Trenta-Quaranta è in realtà l’elemento più dolcemente anni Settanta dell’intero film. Fratello minore dei bianco e nero di Bogdanovich, e fratello maggiore di altri film che segnano il passaggio dalla nostalgia al manierismo, dall’elegia al remake. Mentre i movie brats suoi coetanei naufragano con i loro progetti megalomani, da Un sogno lungo un giorno a New York New York, da 1941: allarme a Hollywood a I cancelli del cielo, Allen concilia in uno stupendo stile neoclassico una sorta di nostalgia del presente, con la libertà di costruzione e di impaginazione del decennio appena trascorso: il film è costruito a blocchi narrativi giustapposti, con piani di bianchi e neri seccamente distinti, luoghi ovattati e personaggi che entrano ed escono in inquadrature troppo più grandi di loro, nello splendore dello schermo panoramico della grande Hollywood, dove si aggirano piccoli e sperduti. Lo stile di Allen comunica l’esatta percezione della miseria dei personaggi, pur nella vicinanza affettuosa alle loro vite, e li fa galleggiare nel cosmo del Planetarium o davanti a uno scheletro come memento mori. Più o meno quel che dice Ike verso la fine del film, quando progetta di scrivere «un racconto sulla gente a Manhattan, che si crea costantemente dei problemi davvero inutili, perché questo le evita di occuparsi dei più insolubili e terrificanti problemi dell’universo». Il 1979, ricordiamolo, è l’anno in cui esce anche «La cultura del narcisismo» di Christopher Lasch.

Woody Allen

La trama è anche il paradossale coming of age di un cinquantenne, o meglio la sua mancata crescita, mentre una fanciulla lo raggiunge e supera e vola via, lasciandolo girare su se stesso. La corsa finale verso Tracy, parodia sfiancata delle rincorse finali di Buster Keaton, inchioda il corpo del comico alla pesantezza del vivere, alla coscienza amara dello scorrere del tempo. E New York? In quello stesso anno, nella stessa città, i guerrieri della notte di Walter Hill compiono la loro anabasi verso casa. Invece l’ambiente intellettuale di Allen è esclusivo e privo di intrusioni della New York più cruda, come il mondo della commedia sofisticata degli anni Trenta e Quaranta prendeva la distanze dalla realtà della Depressione per affrontare in realtà le radici dell’associazione umana, il legame primario tra uomini e donne, quella cosa vasta e basilare che Stanley Cavell chiama conversation. E soprattutto, in Manhattan, l’aspirazione all’integrità personale, a una vita degna. Ike cerca l’integrità, ma non la trova, tantomeno in se stesso. Di lui, il ritratto più impietoso (ma non falso) lo dà la ex moglie lesbica Meryl Streep; eppure lui continua implacabile con sé e con gli altri, chiedendosi davanti a uno scheletro cosa penseranno le generazioni future di noi. Fallimentare schlemiel dei sentimenti, il regista lo assolve affidandosi e affidandolo al sorriso finale della giovanissima Tracy, che si affaccia alla vita tra la confusione e il narcisismo di massa dei nascenti anni Ottanta.


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TORO SCATENATO (RAGING BULL)

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C’è una cosa che mi lascia interdetto dell’ultimo Scorsese, quello, per intenderci, da Gangs of New York in poi: l’assenza di un ritmo soggettivo. Meglio ancora, la medietà del passo con cui scorrono i suoi film, non piatti, ci mancherebbe, ma rispettosi dei limiti di velocità di un racconto. Scorsese ha smesso di prendersi tempo, ha voglia solo di raccontare storie, di costruire immagini che non valgano per se stesse, che non affermino la loro unicità, ma partecipino alla costruzione di una struttura solida e credibile. Ma il cinema classico non gli si addice, il racconto come filo da dipanare nemmeno. È il cinema come tormento interiore il suo vero linguaggio, il ritmo degli istinti più umani e incontrollabili. Toro scatenato, ancora oggi la sua opera più consapevole e maledetta, dimostra come la forza di uno stile sia soprattutto una questione di velocità. Basta l’incipit per capirlo: l’inizio nella nebbia espressionista del ring, La Motta che danza al rallentatore, la melodia straziante di Mascagni, poi il piano fisso su La Motta invecchiato e ingrassato che si prepara a entrare in scena e subito dopo lo stacco temporale di vent’anni, un altro ring, ma a mille all’ora, con i pugili che se le danno di brutto e il film che accelera, stacca, strappa, spara… Tutto è nelle mani di Scorsese, non c’è racconto che tenga, non c’è voce che sappia essere più coinvolgente di questa. In Toro scatenato Scorsese ha tempo per tutto e per tutti, raccoglie e disperde personaggi con la frammenta-

zione della modernità, assume uno sguardo che è soggettività pura, si affida a una macchina da presa onnivora, libera da vincoli narrativi e impegnata a costruire un cinema totale, filtro di una memoria che è già rimpianto e di uno sguardo che è da sempre malato. Non è gratuita la frenesia scorsesiana, il suo stile non ha ancora invaso il mainstream hollywoodiano e non è ancora canone visivo. Tutto è condizionato dall’ossessione di un uomo limitato e ambizioso, tutto è compromesso e unico. I rallenti sul corpo di Vickie, i particolari sui mafiosi osservati a distanza, il carrello frontale che precede l’arbitro prima della proclamazione della vittoria, sono a parte fondamentali, mezze soggettive dove il film si identifica con La Motta e il racconto si fa emotivo, disperatamente empatico. Toro scatenato è un film cucito sulla pelle del suo regista, del suo protagonista, del suo attore, un film in prima persona assoluta, grazie al quale il cinema diventa un lamento corrotto e violento: la voce di quell’individualismo sfrenato che la società americana ha sempre considerato sua unica religione civile e che attraverso La Motta diventa una perversione autodistruttiva. Scorsese non si tira indietro, si immerge nel suo male – lui che poco tempo prima aveva rischiato la morte in un letto d’ospedale – e assume come propria la mediocrità di La Motta, chiarendo una volta per tutte l’affinità elettiva tra cinema e boxe: perché la società che permette a un uomo violento di sfogare la sua brutalità sul ring, in forme oscene ma codificate, è la stessa che consente a un uomo distrutto e fortunato di redimere i propri fallimenti con il cinema. Lo spettacolo è un rifugio, come il ring un pianeta: date loro un’arena e gli artisti, come i tori, si scateneranno. «Easy Riders, Raging Bulls» recita il titolo del celebre volume di Peter Biskind sulla New Hollywood, che identifica nei due film l’inizio e la fine di una storia breve e drogata. Personalmente, però, più che un’opera conclusiva, Toro scatenato mi è sempre sembrato un film complessivo: la summa non solo di Scorsese, ma del cinema come espressione del XX secolo, spudorato e sanguinante di amore e dolore, compromesso con la vita e sua unica, impossibile reificazione.

ROBERTO MANASSERO

Martin Scorsese

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GLI AMICI DI GE0RGIA

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PAOLO MEREGHETTI

(FOUR FRIENDS)

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Nel 1981, a cinquantanove anni, Arthur Penn ci regala il suo film più bello e sofferto (e appassionato e complesso) quello dove la raggiunta maturità gli permette di ricapitolare in meno di due ore i grandi dilemmi che hanno nutrito la storia americana e il suo cinema. Il personaggio di Danilo Prozor, figlio di immigrati iugoslavi arrivato a sei anni nell’Indiana, rappresenta infatti perfettamente un Paese creato da immigrati e stranieri che nell’adesione a un ideale comune hanno trovato il collante e l’energia per edificare una nazione e costruire una storia. Ma che non hanno potuto evitare di sperimentare, sulla propria pelle, la durezza e a volte la tragicità di quell’utopia. I “quattro amici” a cui fa riferimento il titolo originale (Danilo, David, Tom e Georgia) attraversano quattordici anni del “sogno americano”, dal 1956 al 1969, vivendo come testimoni più o meno consapevoli il doppio assassino di John e Robert Kennedy, la guerra in Vietnam, la contestazione studentesca, la conquista della Luna. Sono anni

di sangue e di speranze, di rabbie e di dolori, che hanno segnato le vite di tutti ma che non possono certo esaurirla. E infatti Penn lascia la Storia sullo sfondo, affidandola all’immagine stampata su una palla da spiaggia, a un minuto di silenzio in uno stadio, a una bandiera bruciata, a uno schermo televisivo guardato distrattamente. La cronaca scorre lontana, in secondo piano, così come la stagione giovanile delle ribellione hippie e la falsa speranza di liberazione rappresentata dalle droghe (racchiusa nella

Arthur Penn

breve scena della festa psichedelica). Tutte quelle “svolte epocali” si riducono a una trama in trasparenza, necessaria ma non sufficiente per comprendere i comportamenti e le scelte dei quattro amici. La Storia, ci dice Penn, non potrà mai cancellare i destini individuali, perché è dalla somma delle singole esperienze che nasce un Paese. Non viceversa. Così il sogno e l’utopia che informano (nel bene e nel male) le vite dei protagonisti, non possono cancellare quella che sarà la vera sfida di Danilo e del film: la ricerca di un’identità che aiuti a crescere e a diventare adulti e che Penn e il suo sceneggiatore Steve Tesich vedono possibile solo attraverso la condivisione di una famiglia-gruppo, capace di superare le barriere dell’egoismo individuale (e borghese! Ritroviamo il coraggio di dirla questa parola!) in nome di una comunanza di idee e ideali. Con una libertà narrativa che non si preoccupa di esplicitare tutti gli snodi della trama, la storia dei quattro amici si costruisce così attorno al bisogno di identità che l’amicizia (e il suo calore) possono far riemergere, nella speranza che questa identità condivisa diventi un rifugio sicuro in cui ripararsi e ritrovare la certezza di un comune sentire. È una tensione che attraversa tutto il film e che solo nella scena finale, intorno al fuoco sulla spiaggia, sembra finalmente a portata di mano, concretizzandosi in quell’utopico ideale verso cui si era indirizzato tutto il cinema penniano, quello di una “famiglia” (le virgolette sono d’obbligo, vista la sua connotazione anti tradizionale) capace di proteggere i suoi membri dalla minaccia di un universo caotico e insensato: ieri banda, comunità o tribù dove cercare protezione (come in Billy Kid o Gangster Story) e identità (come in Piccolo grande uomo) e armonia (come in Alice’s Restaurant), oggi gruppo dove fare i conti anche con padri troppo ingombranti (in Gli amici di Georgia ce ne sono due molto significativi) ma sempre inseguendo un’armonia “sociale” che la Storia sembra voler continuamente negare. E arrivando così anche ad accettare e a capire le diverse facce dell’America, tra bontà e cattiveria, tra tolleranza e razzismo, tra pace e violenza, tra benessere e povertà…


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LA COSA

(THE THING)

questo nome è esattamente ciò che rifiuta di assorbirsi in un pensiero o in un’affettività. La materia in questione non è umana e non è animale, né naturale né soprannaturale: c’è solo l’irriducibile apparenza dell’inorganico, il cui innegabile sex appeal non nasconde, almeno in Carpenter, il suo osceno lato oscuro. Perché certo, non c’è orrore nella materia che si trasforma, nella metamorfosi inarrestabile di un volto. Lo schifo della carne mentre si deforma è sempre il gusto infantile e divertito del camuffamento dell’identità voluto dal morphing, la cui presenza attraversa il decennio, dalla pubblicità ai video clip con Michael Jackson. Ma il gioco in Carpenter è solo apparentemente innocuo. Ciò che allarma è proprio l’impossibilità di localizzare il sé dall’altro da sé, noi e loro, la nostra organicità dall’inorganico. Insomma: una terribile indistinzione, in cui non c’è spazio né per l’identità né per l’alterità, quello spazio definito da Baudrillard «l’inferno dello stesso», fatto della materia di cui sono fatti i sogni. Si badi: nessuna cinefilia; niente nostalgia, in Carpenter, culto funebre nei confronti di un cinema che non c’è più; e non c’è neppure il gioco con i materiali dell’immaginario innescato da chi è cresciutoa davanti a una tv. C’è solo il monito: sull’effetto contagioso di un’immagine che clona se stessa, il destino imposto da un particolare potere delle immagini. Una storia iniziata trent’anni fa con la quale, nostro malgrado, non abbiamo mai smesso di fare i conti.

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C’è ritorno e ritorno, del cinema, specialmente nel decennio degli Ottanta. Sono anni nei quali, per esempio, il gusto del remake cinematografico si impone: ma a quale prezzo? Per certi versi, la posta in gioco sta solo nel paradosso di un’euforia in tutto e per tutto anestetizzata e anestetizzante. La materia del film può cioè ritornare, riproporre nel presente una pellicola del passato, e rivisitare al quadrato non tanto un racconto già noto, quanto un’immagine già vista e che ora può valere solo per se stessa: nella sua fortissima intensità troppo spesso accomodante, non straniante. Così, nella fantascienza, la possibile alterità introdotta dal genere ci può abbracciare, accogliere nel suo ventre materno, come nell’astronave di Incontri ravvicinati del terzo tipo, e non farci più paura. L’alieno di turno non ci minaccia più con la sua diversità, ma diventa, come E.T., un nostro amico, un compagno di giochi, visto che il cinema in questa versione è in fondo solo un giocattolo dalle inaudite risorse spettacolari, capace magari di trasformarsi davanti ai nostri occhi, ma per riportarci indietro in un’infanzia mai esistita: priva di turbamenti, di timori e tremori. Ma appunto: c’è modo e modo di ritornare, di concedersi alla seduzione dell’immagine. Proprio nello stesso anno della discesa sugli schermi del piccolo mostriciattolo spielberghiano, John Carpenter riesuma il vecchio film di Howard Hawks, e Nyby, e lo fa per attivare un piacere del testo niente affatto pacifico, un godimento che è tale per il suo essere contaminato dalla irriducibile perturbanza tipica del fantastico. Ma di quale perturbante stiamo parlando? Be’, se c’è un motivo per cui La cosa deve a tutti i costi far parte della nostra personale filmografia degli ultimi cinquant’anni, è proprio per avere introdotto l’elemento di cosalità, suggerito dal titolo memorabile e troppe volte inespresso sul grande schermo (e in fondo anche nell’originale del 1950). L’insuccesso, all’epoca, della pellicola non deve sorprendere. Nell’avamposto polare in cui gli esseri sono intrappolati, l’irruzione dell’alieno nega qualsiasi normale principio di identificazione, per i personaggi e per lo spettatore. L’evidenza ontologica di una “cosa” degna di

MICHELE FADDA

John Carpenter

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I RAGAZZI DELLA 56 STRADA A

(THE OUTSIDERS)

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MASSIMO CAUSO

Francis Ford Coppola

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Uno di quei film della (post)modernità del cinema da vedere obbligatoriamente su grande schermo, e sì che la versione integrale (quella che praticamente corrisponde al primo montaggio, poi ridotto dagli executive) è disponibile solo in dvd. La leggenda vuole che Coppola abbia deciso di girare I ragazzi della 56ma Strada dopo aver ricevuto una lettera da una classe di studenti di Fresno, California: loro avevano deciso che lui sarebbe stato il regista ideale per trarre un film dal best-seller della letteratura adolescenziale americana «The Outsiders» di Susan Eloise Hinton. Coppola era nel mezzo della bancarotta degli Zoetrope Studios, la sua personalissima apocalisse scatenata dai costi eccessivi sostenuti per ricostruire Las Vegas in studio a uso e consumo di quel meraviglioso flop che era stato l’anno prima Un sogno lungo un giorno. L’idea degli studenti gli sembra azzeccata: prende una troupe fidata e un cast di giovanissime (future) star, si porta nel Midwest (a Tulsa, Oklahoma, città natale della Hinton e location originale dello stesso romanzo) e ci prende tanto gusto da girare back-to-back anche Rusty il selvaggio (Rumble Fish), da un altro best-seller della scrittrice, alla cui sceneggiatura lavora nei week-end liberi dalla lavorazione. Nasce così il “dittico di Tulsa”, ideale double feature sulla gioventù bruciata dei bikers, sorta di sussulto cormaniano di un autore in lotta col sistema, operazione che gronda passione e disincanto, grido d’amore per il cinema di sala (The Outsiders) e il cinema d’essai (Rumble Fish) urlato in faccia al sistema hollywoodiano. Le dimensioni estetiche sono quelle estatiche dello spettatore di Nick Ray o Elia Kazan, misurate però sul tempo ormai ridondante della memoria. Coppola insiste sulla dimensione del mito, più che su quella psicologica, lavora sul conflitto sociale più che su quello esistenziale: «To be portrayed heroically, to

have dignity, to be as human as the Socs», sono le tre regole base della rappresentazione dei Greasers continuamente ripetute dal regista a troupe e attori sul set. E la memoria è parte integrate di queste regole, ne è garanzia e attitudine: Ponyboy ricorda e scrive mentre è già nella sfera dorata della sua giovinezza, al sicuro dagli eventi che ha vissuto e che ci offre in flashback, dove rievoca e riconvoca l’epica in presenza della gioventù. I colori riempiono il Panavision anamorfico (rigorosamente 2.35:1!), il cuore si apre alla grande narrazione che scorre meravigliosamente piatta sullo schermo, controfigura classica/moderna della fallimentare figura moderna/ classica evocata da Coppola, perfetto illusionista mélièsiano, in Un sogno lungo un giorno… In realtà ciò che più si ama – soprattutto oggi – di The Outsiders è il suo essere miracolosamente out side, fuorigioco rispetto al suo tempo, il sogno di un cinema che non c’è più. O che non c’è ancora, se considerato in relazione al suo twin-movie e dal punto di vista di Rusty James… Perché poi la storia di Ponyboy, Dallas, Sodapop e dello sfortunato Johnny, questa epica di Tulsa divisa tra Socs e Greasers al di qua e al di là del ponte, altro non è che il passato sognato ed evocato da Rusty James sul corpo di Motorcycle Boy nel bianco & nero a colori di Rumble Fish… Visti insieme i due film sono formidabili, e sì che pochi, anche all’epoca della loro uscita, lo capirono. I più colsero il doppio registro produttivo, come se Coppola avesse fatto The Outsiders per i produttori e il pubblico e Rumble Fish per se stesso (nemmeno per la critica, visti i boriosi fischi con cui fu accolto al New York Film Festival). Certo è così, ma a noi allora piacque (e piace ancora oggi) pensare che Coppola li abbia avvitati al corpo vivo della sua Opera come un saggio filmico su (rispettivamente) Spazio e Tempo nel cinema…


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Edgar Reitz uscì da una profonda crisi personale come artista, dopo l’accoglienza fallimentare di Der Schneider von Ulm (Il sarto di Ulm, 1978), tornando nei luoghi in cui era radicata la propria famiglia. Un viaggio nella propria Heimat, nel forte sentimento di legame al focolare familiare, di appartenenza secolare a una piccola comunità, di valori e di un destino necessariamente condivisi. Un viaggio che lo conduce, nell’arco di più di vent’anni, a cercare di ricostruire cinematograficamente la storia tedesca del XX secolo, dal 1919 al 2000, incarnata nelle vicende di tre famiglie imparentate dell’immaginario villaggio (le Heimat sono sempre, almeno in parte, immaginarie) dell’Hunsrück, una regione sudoccidentale bagnata dal Reno non lontano dalla mitica rupe di Lorelei. Un’opera in tre cicli suddivisa in trenta episodi di più di cinquanta ore, un possente romanzo storico polifonico con più di mille personaggi come mai il cinema ha saputo fare, che ci svela un volto quotidiano umanissimo di un popolo con le sue contraddizioni, i suoi conformismi e il suo coraggio, con le sue illusioni e i suoi fallimenti. Heimat – Ein Chronik in elf Teilen (Una cronaca in 11 parti, 1984), realizzato per la tv, propone l’anima profonda, sostanzialmente rurale, del popolo e si sviluppa dal 1919 al 1982. La narrazione, caratterizzata da uno stile linguistico mutevole (come è proprio del ricordare individuale) è centrata su alcuni episodi soltanto, con un respiro di sessant’anni che è racchiuso nelle memorie di uno dei tanti protagonisti, dove si coglie la persistenza di alcuni dettagli apparentemente privi di rilevanza se non per chi racconta, suggeriti dalle fotografie, sempre più numerose e sbiadite, conservate nell’album di famiglia. In Der Zweite Heimat – Chronik einer Jugend (La seconda Heimat – Cronaca di una giovinezza, 1992) la narrazione si fa più puntuale è precisa e riguarda il decen-

nio 1960-1970. Il regista racconta in fondo della propria generazione, probabilmente, di se stesso, che cerca la nuova Heimat a Monaco, nella grande città, fuggendo dal villaggio. Sono anni di speranze di cambiamento profondo e di riscatto definitivo dalle ombre del passato, ma anche di delusioni: la formazione del personaggio principale, figlio di una società senza padri, è faticosa e dolorosa. Le sue scelte presto forse si riveleranno sbagliate. Heimat 3 – Chronik einer Zeitenwende – Ein Film in sechs Teilen (Cronaca di una svolta epocale – Un film in 6 episodi, 2004) segna la nascita della nuova casa che simbolizza la Germania riunificata, costruita ristrutturando un antico edificio dal passato tragico che le nuove generazioni guardano con occhi estranei e con diffidenza: sono queste ultime soprattutto che devono rimanere padrone della propria esistenza evitando di lasciarsi trascinare dalla Storia. Il film di Reitz per chi vive in quella parte di territorio italiano che nelle Alpi confina con il mondo tedesco (che non ha compreso né comprende solo la Germania) e che ne ha condiviso per lungo tempo appartenenze e vicende (molti hanno parenti emigrati in Germania che si considerano tedeschi, molti portano cognomi tedeschi) ha costituito e continua a rappresentare uno sguardo fondamentale, ricco e profondo, per conoscere i volti (indirettamente anche il nostro con suoi opportunismi identitari e valoriali) della nuova Europa del dopoguerra con i suoi muri abbattuti e con i pregiudizi incrinati offrendo infinite possibilità di incontro, di progettualità comune e di destini incrociati. Un mondo che Reitz ci presenta non più nemico (ammesso che lo sia stato, evocando Pavese che lo accostava alle donne, un nemico che non si può fare a meno di comprendere, forse da ammirare e amare), anche se profondamente diverso.

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Edgar Reitz

GIANLUIGI BOZZA

HEIMAT (1984- 2004)

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JE VOUS SALUE, MARIE

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JONNY COSTANTINO

Jean-Luc Godard

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Quando accende la donna, l’occhio di Godard entra in fotosintesi. Je vous salue, Marie rappresenta con Vivre sa vie il suo dittico sulla donna visitata come troppo umano chiasmo del sacro e prisma di una verità inafferrabile. Ventitrè anni dopo aver sacralizzato una storia profana (quella di Nanà, una puttana), Godard profana la storia sacra (quella di Maria, la santa per antonomasia), esibendo le due eroine in modo antitetico. Di Nanà cerca di stanare l’anima incorniciando il viso a mo’ di madonna rinascimentale, tenendo le grazie al coperto, mostrandocela commossa davanti alla Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, anteprima del suo destino di martirio. Il corpo di Maria è un corpo voltificato, posseduto dal desiderio, esposto senza pudicizie. Nella loro nudità, il seno e il ventre, il pube e la mano osante che s’arresta sul pube riempiono l’inquadratura, dialogando col Sole e la Luna, col lago al tramonto e l’erba strapazzata dal vento. È un contrappunto tra tessere dello stesso enigmatico mosaico. Il mosaico del creato e dell’increato. Maria è la figlia di un benzinaio patita per il basket. Giuseppe un tassista. L’arcangelo Gabriele arriva in aereo. Il piccolo Gesù ficca la testa sotto la camicia da notte della madre e fruga tra i ciuffi di ciò che lei chiama il riccio o la prateria. Eppure Godard non confuta il

dogma dell’immacolata concezione. E perché dovrebbe? A stargli a cuore è l’incarnarsi del Verbo nel corpo di Maria, l’incarnirsi di un credo che mortifica il corpo per esaltare l’anima. Maria in persona si definisce «un corpo caduto dall’anima», «un’anima prigioniera del corpo». Un

corpo e un’anima di cui il cineasta inscena il contenzioso, stabilendo una par condicio dibattimentale: se la prova del corpo è affidata all’immagine, le ragioni dell’anima sono perorate dalla parola. L’immagine corpo attacca con la flagranza della pittura. Maria è un corpo di celluloide invaso da fantasmi figurali: piedi in primo piano, a più riprese la Vergine gravida è filmata dall’angolazione del «Cristo morto» di Mantegna; dita tra i capelli, occhi sgranati, è il «Disperato» di Courbet a essere evocato; ancora, tra le altre, le donne al bagno di Degas, i nudi blu di Matisse, le menadi tutte nervi di Schiele si avvicendano su questo corpo in calore e in rivolta. Arte sacra e arte profana si fondono in una ri-membranza iconografica. Sul versante antagonista, la parola anima si fa musica, in primis la musica di Bach, l’uomo a cui Dio «deve tutto» (Cioran), «l’anima della mia anima» (Enescu). Dove approda questa indagine sul mistero della vita operata mediante una femminino-scopìa memore delle lezioni anatomiche di Brakhage (Window Water Baby Moving) e degli intagli trascendenti di Bresson sul cinetronco dell’immanente (gli omaggiati Pickpocket e Au hasard Balthazar)? Ultima scena: il rossetto tentatore finisce sulle labbra di Maria. Ultima musica: il coro finale, «Ci sciogliamo in lacrime», della «Passione secondo Matteo». Ultima parola: «Io sono la Vergine, ma la mia non è stata una scelta, ho fortificato la mia anima per esserlo, questo è tutto». Ultima immagine: la sua bocca rosso sangue si spalanca come un’enorme vulva, o uno squarcio di Fontana, per inghiottire il nostro sguardo, e con esso la rappresentazione. Non c’è nemmeno il bianco dei denti a frenare il risucchio nel nero del didentro. Qui ci piomba l’aut aut recisorio imposto al corpo anima di una fanciulla in fiore. E il sacro? Dove va a rintanarsi sul limitare di questa voragine sluminata? Nell’et et, sembra suggerire Godard, che nell’80 ebbe a dire: «Per me le immagini sono la vita e i testi la morte. Ci vogliono entrambi: non sono contro la morte». Ecco allora balenare la tana del sacro nelle coniugazioni amorose tra immagine/corpo/vita e parola/anima/morte o – detta altrimenti – nello sforzo di dare al proprio esistere un senso che non tradisca i sensi.


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VELLUTO BLU (BLUE VELVET)

la sorpresa – condizione insieme emotiva e intellettuale – è ciò che sta dentro e dietro ogni film di Lynch; nessun altro regista ha saputo sorprendere così bene, così tanto e così a lungo i suoi spettatori. Film paludosi e profondi, quelli di Lynch, del resto, non finiscono davvero mai. Velluto blu è per me anche questo: un film infinito, da

riguardare periodicamente non per ritrovarlo e ritrovarsi, nella speranza del primo amore che ritorna, ma per vedere, ogni volta, qualcosa di nuovo, e per rinnovare alcune sensazioni nel frattempo perdute o dimenticate (e non certo ritrovate al cinema), e che solo quel film, e solo certe sue scene in particolare, sanno darmi. Tanto che potrei definire Velluto blu la mia personale compilation di emozioni cinefile. E i miei “pezzi” preferiti sono: prima e ultima sequenza (da guardare di fila); le soggettive di Jeffrey che cammina di sera in una strada deserta; la sequenza del rapimento di Jeffrey, tra il playback di Dean Stockwell e il bacio-lettera d’amore di Dennis Hopper (con le donnine grasse che ballano sul tetto della macchina); Laura Dern che sembra troppo alta per la casa in cui vive, e che dà l’idea (ma forse solo a me), senza fare o dire nulla, di essere stata violentata dal padre poliziotto; il marito di Dorothy e l’uomo vestito di giallo; il pettirosso meccanico. E quelle tende pesanti dei titoli di testa e di coda, fatte di velluto blu polveroso un po’ puzzolente, che sono, per me, la perfetta metafora del cinema.

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Nel 1986 avevo undici anni, e dunque Velluto blu e Lynch non sapevo neppure cosa e chi fossero. E anche ad averlo saputo, difficilmente sarei riuscito a entrare in sala, visto che il film uscì col divieto ai minori di diciotto anni. Il mio primo incontro con Lynch e i suoi film – ma dovrei direi il suo mondo, perché il suo cinema, per me, è sempre stata una questione esistenziale – risale dunque al 1991, al Twin Peaks televisivo pericolosamente mescolato all’adolescenza di una generazione. Velluto blu lo avrei visto solo dopo, e avrei continuato a rivederlo dopo ogni nuovo film di Lynch, per ricordarmi da dove tutto è cominciato – e poi, naturalmente, anche perché da quel film sono un po’ ossessionato. Che cosa era cominciato? Lynch, sicuramente; il mio amore per il suo cinema, anche; e poi, forse, la mia infatuazione per il cinema tout court. Del resto, a ben pensarci, la storia di Jeffrey non è certo quella di un ragazzo curioso e sessualmente inibito, che si lascia travolgere suo malgrado dal mondo neroblu di Dorothy (chi ha mai creduto che lo facesse per aiutarla a riabbracciare il figlio?). Velluto blu è piuttosto la storia di uno sguardo che incontra il mondo, lato bello e lato brutto, verso l’alto e verso il basso, bionde e brune, notte e giorno, uomini e donne eccetera. Nel sistema ancora un po’ cartesiano del primo Lynch – amante di quelle opposizioni forti che il cinema dell’ultimo decennio avrebbe continuato a esplorare nel segno della sovrapposizione – Velluto blu è insomma una prova sperimentale di pericoli ben definiti, destinati a educare alla vita e al cinema. Anche per questo, Velluto blu mi sembra un film perfetto. Perfetto nel senso di classico, e classico nel senso – anche – di cinema classico. Se c’è un vero neo- o postclassicista nel cinema americano contemporaneo, questo è proprio Lynch (a dispetto delle apparenze). Che prende il cinema classico, con le sue strutture, la sua ideologia e la sua morale, e anziché ricalcarlo più o meno furbescamente, lo fa a pezzetti, lo esagera, lo squaglia, lo trita e poi lo vomita come fanno i personaggi di certi suoi dipinti. La perfezione è da ricostruire, ci si sporca le mani, si fa fatica, ma il risultato è sempre sorprendente. E proprio

LUCA MALAVASI

David Lynch

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IL VENTRE DELL’ARCHITETTO

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FABRIZIO LIBERTI

(THE BELLY OF AN ARCHITECT)

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Confermando quanto avevo scritto sul Ventre dell’architetto qualche anno fa, sempre su queste pagine, è innegabile dire si tratta di un film greenawiano al 100%. Però, sfruttando il tempo che scorre e che necessariamente getta sul passato luci e riflessioni differenti, devo riconoscere che questo film possiede anche delle sfumature decisamente originali e mai più ripetute nella filmografia del regista gallese. Della sua “ossessione” per la pittura e l’architettura se ne è parlato in modo esaustivo, anche a proposito di questo film. Piranesi, Boullée, Veronese, Mantegna e tanto altro creano la struttura visionaria di questo film, rivestita e tenuta insieme dal proverbiale cinismo di Greenaway per i fatti della vita. Il ventre dell’architetto non sfugge a questo cinismo ma a ben vedere è decisamente differente rispetto a quello che egli ha evidenziato almeno in tutta la sua prima parte di carriera, fino a Il bambino di Mâcon. Nella vicenda umana dell’architetto di Chicago Stourley Kracklite, amore, vita e morte si rincorrono, come per il pittore Mr. Neville, o il bandito Albert Spica e ancora il povero dottor Madgett, vittima delle mefistofeliche femmine Colpitts. Però in Kracklite c’è una umanità, una sofferenza realistica, che gli altri personaggi, nella loro surreale e algida rappresentazione, non riescono a trasmettere allo spettatore. Kracklite, insomma, induce nello spettatore una immedesimazione umanamente dolorosa come le fitte del suo cancro allo stomaco, come il tradimento della bella moglie e come la rabbia di vedersi circondato da per-

Peter Geenaway

sone inette e disoneste che hanno successo nella vita. Nella Roma dalle mille facce e stratificazioni architettoniche e culturali, ripresa nella sua intima essenza con una consapevolezza che forse nessun altro regista aveva mai palesato prima, Kracklite elegge come suo privatissimo confessore il suo collega Étienne-Louis Boullée, architetto geniale del Secolo dei lumi per la memoria del quale è venuto nella città eterna, organizzando una grande mostra nel ventre del Vittoriano a Piazza Venezia. Attraverso intime cartoline (spesso rubate) inviate al suo strano confidente, Kracklite/Greenaway costruisce una sua personale veduta di Roma, che il cinema italiano e quello americano dei colossal o delle commedie, alla Vacanze romane, non aveva mai raffigurato. Dal Vittoriano (monumento mai tanto amato dai romani), alla Villa Adriana di Tivoli, agli esterni quasi abbandonati alle sterpaglie del Mausoleo di Augusto, il regista regala una Roma meno turistica e più intima, riscoprendo, come fece Piranesi secoli prima con le sue acqueforti, angoli che sono rimasti nascosti per decenni. In questa umanissima vicenda dell’architetto Kracklite, gioca un ruolo fondamentale la colonna sonora. Il nome di Greenaway richiama da sempre quello di Michael Nyman, straordinario musicista che ha collaborato col regista fin dai primi lavori sperimentali non fiction. Quella del Ventre dell’architetto però, è l’unica colonna sonora non realizzata da Nyman, almeno fino alla rottura del sodalizio umano e professionale tra i due avvenuta all’inizio degli Anni Novanta. E paradossalmente, nonostante le lodi piovute sul binomio Greenaway/Nyman in quegli anni, la colonna sonora di questo film, creata da Glenn Branca e Wim Mertens, è forse la migliore in tutta la filmografia del gallese e uno dei soundtrack più belli e intensi della storia del cinema. Nel minimalismo dei due autori, il picchiettare ossessivo e doloroso dei tasti del pianoforte, che ricorda il colpire duro della vita, si contrappunta con la melodia rasserenata degli archi e dei fiati, dando origine a una sorta di dualità yin e yang che sostiene il dolore e la meraviglia di Kracklite dinanzi alle architetture di una Roma più visionaria che mai.


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DONNE SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI (MUJERES AL BORDE DE UN ATAQUE DE NERVIOS)

L’inseguimento del taxi alla moto è così artificioso che riesce a rimanere intrappolato nella memoria proprio per il modo in cui rivela dichiaratamente gli effetti della messinscena. Lì il cinema del passato riprende vita. Carmen Maura rivive sulla pelle le emozioni di Joan Crawford mentre la sta doppiando in Johnny Guitar. La sua commozione è il suo malessere. È il suo personaggio che sta male mentre pronuncia le parole troppo forti di uno dei dialoghi d’amore più belli come quello con Sterling Hayden nel film di Ray. E ancora Almodóvar attraversa Hitchcock, con un voyerismo ancora giocoso con la ballerina in bikini alla finestra, spiata come se dall’altra parte ci fosse il fotoreporter Jeff/James Stewart di La finestra sul cortile. E dentro un film esagitato, di volti riflessi in specchi rotti, di primi piani dove l’obiettivo della macchina da presa è una narcisistica superficie riflettente, di gesti estremi, tra amore e morte, di baci rubati, di passioni troppo intense per essere trattenute. Folle folle Pedro. Senza Donne sul-

l’orlo di una crisi di nervi forse il suo cinema, dopo, sarebbe stato un altra cosa. Emerge solo un pazzo desiderio: buttarsi dentro Madrid, proprio nel 1988, magari con in albergo una tv con la serata finale di Sanremo, dove Leali e la Oxa vinsero con «Ti lascerò», e un devoto pellegrinaggio al Santiago Bernabeu.

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La prima volta l’impatto fu esplosivo. Colori accesissimi e fiamme che divampavano e sembrava che dovessero uscire dallo schermo. Nel corso del tempo, forse Donne sull’orlo di una crisi di nervi è meno bruciante di altri suoi film futuri, soprattutto della “trilogia del dolore”composta da Il fiore del mio segreto, Carne tremula e Tutto su mia madre, i quali rappresentano probabilmente il punto più alto del cinema di Almodóvar, soprattutto per come porta a compimento una personale metabolizzazione sul melodramma. Resta comunque un punto di passaggio decisivo, un’autentica scoperta per chi proprio con questo film si è avvicinato per la prima volta all’opera del cineasta spagnolo, recuperando le sue opere precedenti solo più tardi. È, in effetti, ancora oggi un film pieno di energia, ipnotico e stordente, dove il cinema del passato riprendeva vita e non si chiudeva in una specie di mausoleo stile Viale del tramonto, come è accaduto in Gli abbracci spezzati. Donne sull’orlo di una crisi di nervi è una ronde che abbraccia i destini di una doppiatrice abbandonata dal suo collega e amante Ivan, un’amica ricercata dalla polizia per aver dato asilo a un terrorista sciita, la moglie di Ivan uscita da una clinica psichiatrica e intenzionata ad assassinare il marito, il figlio dell’uomo che arriva con la fidanzata. Destini paralleli che si congiungono dentro un appartamento, già un set dichiarato, con i suoi oggetti di scena e i suoi plastici. Carmen Maura, un giovanissimo Antonio Banderas, Julieta Serrano e Rossy De Palma quasi uscita da un dipinto di Picasso erano già diventate delle figure riconoscibili soprattutto dentro il cinema di Almodóvar, una specie di kammerspiel dove lo stile fiammante di Sirk passato per Fassbinder viene indirizzato dentro le forme di una commedia grottesca che, però, non lo trattiene. E non riesce neanche a stare intrappolato dentro quel luogo (l’appartamento della doppiatrice Pepa), sorta di teatro da soap-opera con frammenti televisivi (la pubblicità del detersivo): e allora si espande all’esterno e cattura Madrid, dà forma a quelle accelerazioni da movida, col tassista biondo ossigenato che potrebbe portare nei luoghi di un Fuori orario spagnolo, dove però la notte non è soprattutto elettrizzante.

SIMONE EMILIANI

Pedro Almodóvar

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PAOLA BRUNETTA

L’ARIA SERENA DELL’OVEST

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Mi fa uno strano effetto scrivere di L’aria serena dell’Ovest a vent’anni dalla sua uscita, quando lo vidi in un vecchio cinema dalle sedie di legno e rimasi folgorata dai temi che presentava ma soprattutto da come li presentava, dal rigore stilistico-formale inusuale per un’opera prima, che fece sì che scrivessi su di esso una delle recensioni che mandai al Ferrero che aveva come ospiti, quell’anno, proprio Soldini e Salvatores. Lo trovavo un film maturo, ricco, curato e devo dire che la mia opinione non è cambiata. C’è il fattore esistenziale (vado in ordine sparso su impressioni che ritornano, rimandando per un discorso più sistematico al saggio che scrissi nel ’91 per «Cinema & Cinema»): la norma e lo scarto dalla norma, la vita che scorre su binari determinati e che all’improvviso viene sconvolta da qualcosa di anche piccolo, ma che può generare un cambiamento; un cambiamento che si dev’essere però disposti ad accettare, senza che prevalga la paura. C’è il rimando etico-politico in riferimento a questi binari, a questa “norma” che ognuno di noi vive (l’aria “serena” dell’Ovest non a caso, a ridosso della caduta del muro di Berlino e in relazione esplicita ai fatti di Tienanmen), l’idea di “stare tutti bene” in questo tempo e in questo spazio, la metropoli occidentale di fine anni Ottanta che è da un lato luogo di incontri e di vagabondaggio e di potenziale mutamento, dall’altro luogo chiuso e ostile, tempio dell’alienazione ed emblema di quel senso di pragmatismo e consumismo e indifferenza (nel film “abulia”) che ha caratterizzato anche gli anni successivi. C’è poi il caso, legato allo spazio urbano come luogo di erranza (e Soldini mostra gli incroci tra i personaggi riprendendoli dall’alto mentre vagano spaesati per la città alla ricerca di qualcosa che nemmeno loro sanno ma che nasce dal-

Silvio Soldini

l’insoddisfazione che covano dentro per quello che sono, per quello che fanno, per le relazioni che hanno costruito e che a volte li ingabbiano, per i sogni che vorrebbero realizzare ma che sembrano così lontani), a partire dall’agenda che Veronica smarrisce e che fa da filo rosso all’intero film, passando nelle mani di ciascuno dei personaggi per tornare infine in quelle della proprietaria, che a quel punto la cambia e ne cambia simbolicamente anche il colore. E poi la storia, e poi i personaggi. Quattro personaggi, due “semplici” e due “complessi”, che si incontrano direttamente o indirettamente, anche casualmente per strada, incrociando i propri destini e fungendo da fonte di cambiamento potenziale l’uno per l’altro, anche se solo uno di essi riuscirà a effettuare un cambiamento vero legato a una cosa semplice, il suo mestiere, un mestiere che ritiene utile. E l’intreccio appunto, perfettamente strutturato: dieci giorni, nove in primavera e uno in autunno nella nebbia, che conclude la vicenda con quattro scene mattutine riguardanti i quattro personaggi e con una scena serale riguardante quello che si distingue dagli altri, sul cui primo piano si chiude la vicenda in dissolvenza su nero come in una dissolvenza su bianco si era chiusa la parte primaverile, iniziata e terminata con la stessa coppia di personaggi, quelli più complessi e sfumati. E la parte stilistica: l’attenzione all’inquadratura che da sempre caratterizza il regista, il montaggio utilizzato in funzione ritmica, l’uso del fuori campo sia visivo che sonoro e l’alternanza dialettica tra suono e immagine con la musica che funge da contrappunto, i movimenti di macchina. In definitiva c’è il realismo “minimale” del film, che tratta gli aspetti eticopolitici e quelli psicologico-esistenziali riguardanti i personaggi con tono lieve e leggero, a tratti ironico, quotidiano.


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QUEI BRAVI RAGAZZI (GOODFELLAS)

con cui il protagonista ripercorre le tappe di una giovinezza in cui tutto era possibile, lecito e, soprattutto, raggiungibile. Il sogno americano a portata di mano: basta allungare un braccio e ce lo si ritrova lì, fra le dita; il crimine paga, eccome se paga. Scorsese mette il cinema al servizio di questo entusiasmo: colonna sonora vintage fatta di brani accattivanti, montaggio frenetico, movimenti di macchina vertiginosi (la scena dell’entrata al ristorante del protagonista con la fidanzata ha fatto epoca e scuola), una sorta di parossismo stilistico che passa per la regia, le scenografie, la recitazione. Quando, come impongono le regole del genere, arriva la parabola discendente, il film non riesce a fermarsi, e prosegue sull’inerzia della frenesia precedente. Tanto che continuiamo a simpatizzare per i malavitosi, per la loro sanguinaria spudoratezza: non – come avveniva nella nuova Hollywood – in ragione di una presunta valenza ideologica della loro trasgressività sociale, ma semplicemente perché è bello avere tutto e avere il meglio, senza fare fatica, né nulla per meritarselo. Di lì a poco, appena due anni più tardi, arriveranno i gangster clowneschi e ballerini di Tarantino, e anche la malavita hollywoodiana entrerà nel gran circo postmoderno del relativismo intertestuale. Ma qui – appena per un istante, per lo spazio di un film, di un solo film – il crimine è ancora una cosa seria e, contemporaneamente, qualcosa di bello, che non ti stancheresti mai di vedere raccontato sullo schermo. Come l’uomo agonizzante nel bagagliaio dell’auto su cui si apre il film, la morale in principio ha un ultimo spasmo di vita, poi il racconto provvede a ucciderla e seppellirla. Un film irresistibile, come sempre lo sono i piaceri proibiti.

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In origine, i film appartenenti al genere gangsteristico venivano designati come crime-melodramas, a indicare la commistione fra trasgressioni, apparentemente indivisibili, dell’ordine pubblico e della coesione familiare. Anche quando diventeranno gangster-movies, tali film continueranno a sviluppare l’idea che l’approdo alla malavita comporti un duplice movimento, di affiliazione alla “famiglia” criminale e di distacco da quella naturale. È con gli anni Settanta che Hollywood sovrappone i due piani, facendo coincidere l’ambito malavitoso e quello familiare, così da poterlo descrivere e spiegare in chiave psicologica e freudiana (Il clan dei Barker) o tragica e shakesperiana (Il padrino). È su questa tradizione più recente che si innesta il film di Scorsese, il quale sceglie una chiave inedita nella rappresentazione della malavita, che potremmo definire antropologica. Osservazione minuziosa delle gerarchie sociali all’interno del gruppo, ricognizione puntuale dei riti di passaggio, descrizione delle attività manuali e delle ricorrenze festive, esposizione delle modalità di rapporto fra anziani e giovani, uomini e donne: come un Levi-Strauss del mondo criminale, Scorsese racconta e descrive, classifica e puntualizza, consegnandoci il ritratto di un ambiente familiare-criminale la cui dimensione entropica non necessita di scenari sociali o sfondi tragici. La malavita è, punto e basta. La si può descrivere, non spiegare. Ma, a differenza di Levi-Strauss, Scorsese si guarda bene dall’assumere la posizione di un osservatore distaccato. Al contrario sceglie, come guida nella sua discesa agli inferi, un punto di vista interno, quello di un membro della “famiglia”. Ribaltando però la morale del genere, e conservando dunque integri l’energia e l’entusiasmo

LEONARDO GANDINI

Martin Scorsese

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IL PASTO NUDO

RINALDO CENSI

(NAKED LUNCH)

I think it’s about time for our William Tell routine… Chissà dove avrà letto William Burroughs di Guglielmo Tell, della sua leggenda: infilzare con una balestra la mela posta sul capo del proprio figlio. Un’impresa balistica non indifferente. Sarà realmente accaduto? In ogni caso, scrivo queste righe con una vecchia Olivetti malandata, con i nastri d’inchiostro ormai inutilizzabili. È qui davanti a me. Attendo un cenno di metamorfosi. Una forma animale a venire. Qualcosa che possa rendere più vivido questo viaggio letterario. Invece nulla. Deve essere per il fatto che non ho trovato polvere per scarafaggi (it’s a Kafka High, you feel like a bug…). Polvere gialla (nel film si intona alla scenografia: interni verde marrone mogano rosso amaranto… una luce calda su cui il giallo si adagia, si mescola). Hai voglia a tagliarla con lassativo per bambini… E poi Carne Nera. Se le mischi ne esce qualcosa di marroncino. E se te la inietti rischi di dover scrivere “rapporti” per il resto della tua vita, mentre la scimmia bussa sulla tua schiena. Finisce che la Legge, magari una checca di piedipiatti in trench bianco, ti dà la caccia e tu debba fuggire per evitare guai; così ti ritrovi in Messico, a Tangeri, fino all’Interzona dove sei obbligato a stilare dispacci. Prendi appunti oppure ti guardi gli alluci dei piedi. Non esci dalla tua stanza. Fissi per ore un oggetto. E la tua Clark Nova chiede se le strofini un po’ di polvere gialla intorno alla bocca. (La mia Olivetti invece è sempre lì, immobile.)

David Cronenberg

Dispaccio dall’Interzona: Il Caffè degli Appuntamenti occupa un lato della Plaza. […] Su sgabelli ricoperti di raso bianco siedono nudi Moscibecchi intenti a succhiare per mezzo di cannucce di alabastro sciroppi colorati, traslucidi. I Moscibecchi non hanno fegato e si nutrono esclusivamente di dolci. Labbra sottili, di un blu violaceo, ricoprono un becco di osso nero affilato come un rasoio con cui spesso si riducono a brandelli in lotte accanite per via dei clienti. Queste creature secernono dal pene eretto un liquido che dà assuefazione e prolunga la vita rallentando il metabolismo. Il fatto è che per iniziare a scrivere la polvere non basta. Non è quello il gesto inaugurale: quello è solo un costante invito al viaggio. Così come non basta mostrare una penna per dichiararsi scrittori. La scrittura, accedervi, nasconde qualcosa di più profondo. (Scrivere significa incidere qualcosa? pelle, carta… Farsi un buco? Bucare qualcosa (la pelle, la mente: gesto antico e sacro). Far emergere ciò che è nascosto all’interno e preme per uscire: ex-stasis. Se pensiamo ai film di Cronenberg, è proprio questo gesto ad apparire cruciale, inaugurale: aprire, schiudere, incidere, sondare l’interno. Farne rapporto. E c’è un lato oscuro, violento, in tutto questo.) Nel 1951, prima di scrivere rapporti dall’Interzona, William Burroughs si trova in Messico con la moglie Joan. Due tossici conclamati. Durante un party piuttosto alcolico le dice: I think it’s about time for our William Tell routine… Il resto è noto.

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Il corpo della donna si accascia. Il bicchiere posato sul capo cade al suolo intatto. Il foro d’entrata sulla sua fronte.

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La morte di Joan permette a Burroughs l’accesso alla scrittura. Naked Lunch di David Cronenberg ruota intorno a questo gesto violento, ripetuto due volte: dopo l’inizio del film (prima di giungere nell’Interzona) e nel finale, al confine con Annexia. Joan è ancora lì (la donna che visse due volte?). I think it’s about time for our William Tell routine… Lei intuisce tutto. Prende il bicchiere. Lo posa sul capo con la pacatezza automatica di un sonnambulo. Il resto è noto. È scrittura. Malinconica desolazione di fantasmi alla ricerca di un corpo.


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GLI AMANTI DEL PONT-NEUF «Gli amanti del Pont-Neuf – grazie anche ai suoi prodigi di architettura effimera – è la ricerca di un effetto di realtà praticamente assoluto, tanto assoluto da poter prescindere dalla logica, dalla credibilità, dalla verosimiglianza. […] A questa volontà (o delirio) di potenza materiale corrisponde un’analoga voluttà di decostruire i sentimenti, che pulsano per frammenti, per appetiti, per istinti ma si stravolgono appena sottoposti a una codificazione morale ancorché eversiva (l’opposto di Bresson, tanto per intenderci). […] È un unico effetto di trascinamento e di suggestione che fa grande un film altrimenti opinabile, altrimenti – persino – “noioso” e “annoiato”. Chi non si lascia prendere allo stomaco dai primi cinque minuti […] ha già perso buona parte dell’impatto corporale del film. Chi non coglie le variazioni sul tema dei quattro elementi della tradizione astrologica e alchemica – l’acqua, la terra, il fuoco, l’aria – come luoghi del racconto e primordiali fondamenti dell’esistenza o come suscitatori delle sequenze più spettacolari resta immune dalla definizione universale e dalla magia che il film sprigiona. Chi si ferma alla prima e fastidiosa simbologia di cui la pellicola trasuda […], senza avvertirne la profonda compenetrazione con uno stile recitativo attonito e convulso, con una narrazione lineare ed effettistica, con una mise en scène insieme rigorosamente realistica e assurdamente fantasiosa, si autoesclude dalla possibilità di “abitare” due ore indimenticabili». Così scrivevo su queste pagine. A quasi vent’anni di distanza, rivisto il film in un vhs che lo mortifica (assolutamente più di molte altre pellicole, ed è l’ulteriore dimostrazione della sua grandezza, nonché della sua irripetibilità e della sua irriproducibilità), confermo quel giudizio che ampiamente motivavo “criticamente” senza sottrarmi alla fascinazione che, in primo luogo come spettatore, mi aveva letteralmente coinvolto e sconvolto. Il che – sminuito l’effetto sorpresa, ma non evitata una forte emozione – si manifesta tuttora. Amo Carax perché riesce a coniugare l’anarco-“fascismo” (come dava a intendere la rivista «Positif») del primo

Godard con il pauperismo sociale (qui, mutati i tempi, ben poco progressista) di certo realismo “poetico” degli anni Trenta, Renoir in primis. Amo la sua ostinata follia nei tre lunghi anni di realizzazione, esternati sopratutto dalla ricostruzione (degna di un Alexandre Trauner, tout se tient) di un tratto di Senna con il ponte del titolo e gli edifici circostanti, di una verosimiglianza esasperata, assolutamente praticabile, ma ancor di più – al termine delle riprese – dalla voluttà con cui dà fuoco a quel piccolo universo di terra, acqua e aria.

Amo il suo modo di rappresentarsi attraverso un alter ego (il fedele Denis Lavant, non a caso anch’egli sottrattosi al cinema), come e più dolorosamente del Jean-Pierre Léaud di François Truffaut (e siamo di nuovo alle eco della nouvelle vague, ma in versione “colossale”) e della sua allora compagna Juliette Binoche, entrambi sadicamente tormentati più che dalle esigenze del plot dalle pretese della regia. Amo un misterioso autore ormai “fuori” (il 22 novembre scorso ha compiuto ineluttabilmente cinquant’anni), vittima di emarginazione e oblio, ma protagonista della sua stessa autodistruzione, che intitola metaforicamente Merde la sua ultima piccola fatica (un episodio del trittico Tokyo). Amo l’ultimo esempio, forse, di cinema assoluto.

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Leos Carax

LORENZO PELLIZZARI

(LES AMANTS DU PONT-NEUF)

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MADADAYO IL COMPLEANNO (MADADAYO)

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ERMANNO COMUZIO

Akira Kurosawa

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Quando vedemmo questo film a Cannes, nel maggio 1993, non sapevamo ancora che sarebbe stato l’ultimo di Kurosawa, il quale morì lo stesso anno (6 settembre). E nemmeno quando «Cineforum» gli dedicò una scheda (n. 32, maggio 1993). Facile parlare ora di film-testamento: di sicuro è un lascito, la trasmissione di un pensiero, una eredità. Preziosa, anche se in tono sommesso. A Cannes il titolo originale era seguito dal sottotitolo Le maître, il “maestro”; in Italia da Il compleanno. In realtà Madadayo significa letteralmente «Non ancora», ed è la risposta alla domanda («Sei pronto?») che rivolgono i bambini impegnati nel gioco a nascondino a chi si sta nascondendo, il quale risponde appunto, cantilenando, che non è ancora pronto. Chi nel film non è “ancora pronto” per mollare gli ormeggi è il protagonista, un sessantenne professore di tedesco di un’università giapponese che, dopo trent’anni di insegnamento, decide di lasciare la scuola per dedicarsi allo scrivere. Il personaggio è esistito davvero, si tratta del didatta e scrittore Ezio Uchida (1889-1971), nome d’arte Uchida Hyakken. Il film non illustra l’eccellenza del protagonista, né come professore né come scrittore; la dà per scontata: è imperniato piuttosto sull’ammirazione e sull’affetto che i suoi allievi nutrono per lui, ritrovandosi periodicamente con lui e aiutandolo concretamente quando, per un bombardamento (siamo nel periodo dell’ultimo conflitto) perde la casa. Così, di festa di compleanno in festa (frequentate, negli anni Sessanta, anche dai figli degli ex allievi) si arriva al compimento del settantasettesimo anno di età del professore, che subito dopo, a casa, si addormenta (per sempre, pare) sognando, indomito, il gioco dei bambini. Questo film (trentesimo di Kurosawa, cinquantesimo anniversario della sua carriera di regista, ottantatre anni) l’ho visto sulla Croisette, poi in sala, poi in tv, poi in dvd, e mi piace ogni volta di più, testimonia secondo me della grandezza di questo regista, che l’ha scritto e diretto. Non presenta messaggi alati, non ha clangori, tanto meno sferra pugni nello stomaco o fa leva sugli effetti memorabili. Non è un film per giovani, verrebbe da dire, dato che tratta di vecchiaia, di anni che passano, di fatalità; invece è un film proprio per loro, o dovrebbe esserlo, dati gli insegnamenti che se ne possono trarre, e lo stile usato per trasmetterli. Si basa su ciò che sa trasmettere un vero “maestro”, che non è soltanto il sapere, ma soprattutto il saper vivere. «Questo film descrive la profonda, calorosa amicizia tra il professor Uchida e i suoi ex allievi», dichiarò Kurosawa «C’è qualcosa

di molto prezioso in questo, anche se oggi è caduto nell’oblio: il mondo invidiabile dei cuori calorosi». Molti ritengono questo risultato un film “minore”. Sconclusionato, fra l’altro: vedi lo spazio dato a un episodio minimo come la scomparsa del gatto del protagonista, che lo getta nella disperazione (la tragedia della guerra, per contro, è passata quasi sotto silenzio); ma a me pare che il ricorso all’universo infantile – la moglie del professore dice di lui, scusando certi suoi comportamenti con gli allievi: «Non cresce mai, è sempre un bambino» – e la semplicità dell’esposizione costituiscano l’importanza e la bellezza del messaggio, che arriva senza parere, con leggerezza (e senso dello humour). Lo può ritenere flebile solo chi non apprezza altro che il cinema-mitraglietta. Uchida è una persona saggia, anticonformista, anche bizzarra, ma soprattutto viva. Noi possiamo vedere in questa rappresentazione qualcosa di autobiografico, anche se l’interessato lo negava, così come negava di aver voluto trasmettere messaggi. Noi non possiamo non intravvedere nell’intellettuale non ancora pronto a morire il nostro regista; magari per contrasto, visto che la riconoscenza non ha certo gratificato la sua esistenza, nella maturità. Kurosawa, in effetti, è un artista indomito, che, nell’anno della sua scomparsa, non va in pensione, non demorde, coltiva progetti. Per noi spettatori insomma quell’educatore è lui, col suo cinema “umanista”: noi siamo i suoi affezionati allievi, o meglio, dovremmo esserlo, visto che troppo spesso – in tempi di cattivi maestri – gettiamo quelli veri nel dimenticatoio. Atteggiamento nostalgico e patetico, quello di Kurosawa? Balle: è un viatico forte e attuale, signori miei, forte e attuale.


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L’EAU FROIDE

getti umani presi in considerazione (nessuna prevaricazione ideologica o furbizia, ma un punto di vista limpido sulle cose), dall’altro con una messinscena capace di seguire con affetto “rosselliniano” e accompagnare i suoi personaggi in tutte le loro scelte (soffermandosi spesso su primi piani mobili), isolandoli dal loro contesto e poi reimmergendoveli, con una dedizione unica al loro divenire. I piani sequenza, ora vorticosi, ora più meditati, esprimono tutta la vivacità – talvolta perfino feroce – dell’atmosfera in cui vivono i protagonisti, e anche una vasta gamma di possibilità aperte, di varianti possibili (alcune situazioni, legate al vissuto di entrambi, vengono accennate e poi abbandonate volutamente per strada, sotto l’impulso dell’azione). Qui entra in gioco pienamente la vita, con tutta la sua urgenza, tensione e incertezza: l’interiorità contraddittoria dei personaggi, la loro “anima” oscura e indecifrabile (come quella di tutti noi) sta sempre al centro dell’attenzione, senza aver bisogno di parole, ma solo d’immagini (combinate con la musica) e di sguardi per essere detta. La struttura del film esplode poi nella sequenza della festa di cui si parlava, dando luogo a un unico e lungo snodo centrale, in cui confluiscono tutti i percorsi, e che precede la lancinante soluzione conclusiva (i finali dei film di Assayas sono sempre, a nostro parere, splendidi). Un film capace di dare i brividi e di lasciare un ricordo indelebile.

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Piccolo grande film di Olivier Assayas, allora trentanovenne e al quinto lungometraggio. Piccolo per il budget impiegato (col medesimo investimento da parte della televisione Arte, Olivier aveva realizzato al contempo sia questa versione lunga del film, per le sale, sia una breve per il piccolo schermo, La page blanche), grande per l’alto livello di intensità emotiva e poetica espresso nella descrizione di sentimenti profondi – assoluti – e sfuggenti a ogni classificazione come quelli dell’età dell’adolescenza. I furori, il rifiuto, il disagio, ma anche la dolcezza di quella stagione trovano una collocazione ideale nell’epoca forse più vitale e felicemente irragionevole della rivolta giovanile: i primi anni Settanta, culla (magari malferma) della formazione giovanile dell’autore e di tutta una generazione di critici, spettatori, individui appassionati (compreso chi scrive). La vicenda narrata è semplice: una coppia di ragazzini ribelli (contro ogni cosa, ma soprattutto contro l’autorità) e spiantati, legati dall’amore, dal malessere, dalla ricerca di possibilità esistenziali. Lui, Gilles, è ostile e silenzioso; lei, Christine, instabile, aggressiva, ma anche dolcissima: esprime interrogativi capaci di coinvolgere ognuno (non solo della nostra generazione, crediamo: le cose si ripetono, come le condizioni dell’essere e del sentire). Entrambi rifiutano i genitori e l’ordinarietà della vita di relazione comunemente accettata: si cercano in mezzo a tutti (e sanno che nessuno può essere in grado di capirli), si amano timidamente, si ritrovano insieme durante una festa al suono del rock e delle ballate indimenticabili di quegli anni (Janis Joplin, Creedence Clearwater Revival, Nico, Roxy Music, Leonard Cohen, Bob Dylan, Donovan: una colonna sonora formidabile! È un vero peccato che non sia disponibile in cd), coi fuochi accesi, i movimenti scomposti, la furia distruttiva, i cylum che girano intorno, gli abbracci. Gilles e Christine decidono di partire insieme per un viaggio che non potrà avere né ripensamenti né un ritorno. Il titolo del film e quello della sua versione televisiva rimandano entrambi al momento senza tempo e senza parole in cui i loro destini verranno segnati. Il tutto è reso dall’autore da un lato con grande onestà intellettuale nei confronti del tema e dei sog-

PIERPAOLO LOFFREDA

Olivier Assayas

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PIER MARIA BOCCHI

HEAT - LA SFIDA

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Il numero 351 della rivista vede in copertina Al Pacino che impugna la pistola nel finale notturno all’aeroporto. A scrivere del film sono Federico Chiacchiari e Giona A. Nazzaro. L’entusiasmo delle loro parole, in particolare di Chiacchiari, è alle stelle. Faccio un passo politicamente corretto, e ricordo anche i “concorrenti”. Su «Segnocinema» n. 78, la recensione è firmata da Alberto Pezzotta. Tutti i critici presenti all’epoca nella tabellina delle “Star Wars” danno tre o quattro triangolini (rispettivamente, «è molto bello» e «assolutamente sì»), tranne Roberto Pugliese, che si limita a due («è bello»). Da una parte e dall’altra, si lamenta la pigrizia della critica che ancora non ne vuol sapere di sistematizzare e autorializzare – pur con tutti i rischi del caso – Michael Mann: Chiacchiari finisce dicendo che «nessun critico si permetterà mai di citare Michael Mann tra i più straordinari “autori” del cinema mondiale» (e non dà coordinate temporali, per giunta), Pezzotta chiude con una domanda, «ma che cosa aspettano i critici, che hanno già banchettato su Clint Eastwood, per rivalutare e canonizzare Michael Mann?». Siamo in Italia, dove o si grida all’autore alla luce di un solo film, oppure si fa fatica a tornare sui passi della Storia. Regna la stanchezza, non è una novità, e anche un po’ di paura. Eppure altrove non è mica così: Pezzotta cita John Wrathall di «Sight and

(HEAT) Michael Mann

Sound», dove si scrive che «Michael Mann è il miglior regista di architettura dai tempi di Antonioni», e David Thomson, che «ha paragonato i suoi carrelli, complessi quanto invisibili, a quelli di Ophuls». Ma da noi chi osa sfidare il concetto di “classico” è un untore, figuriamoci chi pretende di ampliarne gli iscritti, con tutto ciò che comporta (rinnovamento e rifacimento della storia del cinema, ampliamento degli insegnamenti universitari con relativo aggiornamento dei professori baroni eccetera). Oggi, nel 2011, non mi interessa più autorializzare Michael Mann. Ho tentato di farlo una decina d’anni fa, con il Castoro, che comunque riscriverei da cima a fondo. Sudare per inserire Mann tra i “classici” non ha più un’utilità culturale; forse l’avrebbe nel campo del “sociale”, ma ormai chi ha voglia di battersi? E soprattutto, quali potrebbero essere i risultati? Se non ce l’hanno fatta Manhunter, L’ultimo dei Mohicani e Heat a sconfiggere l’immobilità da Matusalemme del sistema critico-oligarchico, di certo non ce la può fare il cinema più recente di Mann, così sperimentale e così “sfuggente”. Vai a fargli capire adesso chi è Michael Mann e perché Heat è uno dei film più importanti e più belli del ventesimo secolo, senza passare per cinefili dell’ultima ora (o della prima, tanto è uguale) o addirittura per mezzi deficienti. «Nessun critico si permetterà mai»? Eccomi, mi permetto io, a scanso di equivoci e di timidezze. Quando la passione è scesa negli scantinati lasciando il dominio alla routine, mi prendo l’impegno oneroso di registrare gratuitamente Heat tra i “classici” del cinema americano di tutti i tempi. A dare spiegazioni si farebbe il gioco della critica conservatrice imperante, e dalla disillusione di Chiacchiari sarebbero trascorsi tre lustri per niente. Mi denudo completamente, in prima persona, qui, senza vergogna: io rivedo Heat ad ogni inizio anno, i primi giorni di ogni gennaio, da quindici anni, perché mi sono convinto che mi porti bene (oltre a farmi bene). Finora non ho dovuto ricredermi, non mi sono rimangiato nessuna parola spesa, non ho ridimensionato nulla. E ogni sacrosanta volta è come la prima volta, quando uscii dalla sala con le gambe che tremavano. Provate anche voi, se volete, non si sa mai.


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VERSO IL SOLE (THE SUNCHASER)

arcaico. Sunchaser attraversa gli spazi sconfinati dell’America del mito mettendo a confronto due personalità opposte che viaggiano assieme alla scoperta dei misteri che separano la vita dalla morte, la speranza dalla disperazione, la strada dall’anima. Da una parte c’è Reynolds, un medico zelante e di successo dell’Ucla Medical Center di Los Angeles, in procinto di essere nominato direttore del reparto di oncologia, bella casa, bella famiglia, moglie Barbie, ricco conto in banca: l’America borghese e urbana dell’Est, che ha a che fare con la Morte solo per metterla a tacere con la Tecnica – Reynolds è pure ossessionato da tutto ciò che è nocivo per la salute. La sua Nemesi è un sedicenne, Brandon “Blue” Monroe, in galera perché ha ucciso il patrigno crudele, di sangue navajo e affetto da un cancro per il quale tutti i medici, compreso Reynolds, gli hanno dato solo un mese di vita. Nel suo caso la Morte è ben presente, reale, non esorcizzata dalla Tecnica. Brandon sequestra Reynolds e lo imbarca in un viaggio verso l’Arizona, verso le Terre dei Padri e un mitico lago tra le vette nel

quale, immergendosi, una leggenda indiana dice che si può guarire da ogni malattia. Cimino mette a confronto le due Americhe: quella che lui aborre, della tecnica, dei soldi, concreta, materialistica, e quella che lui ama, dei sogni e dell’anima. Confronto, come sempre nel suo cinema, condotto innanzitutto a livello spaziale e visivo: l’America del dottore è quella del nitore asettico, falsamente neutrale, di un ospedale modernista, a cui fanno da contraltare “necessario” i ghetti squallidi e sporchi della periferia di Los Angeles. Dalla parte di Brandon, invece, sta l’America del mito western, dei deserti mozzafiato di Utah e Arizona, dei picchi rarefatti dei La Plata Mountains del Colorado. In cima ai quali attende il vecchio medecine man che, a differenza del medico laureato, sa ancora ascoltare l’anima delle persone, sa come curare i mali che la tecnica ha indicato come “incurabili”. Cimino accumula via via nel film i segni di una Vanishing America: indiani, cavalli, bikers, crotali, anziane professoresse un po’ suonate, benzinai che hanno il volto rugoso e fordiano di Harry Carey jr. Essi compongono il ritratto dolente di un passato (di un cinema del passato) per cui non si può non provare nostalgia (sempre che si possegga un cuore, ovviamente…), ma che appartiene più solo all’immaginazione e allo spirito. Ormai, nella realtà, gli indiani devono nascondersi dagli agenti delle tasse… Cimino ritorna anche al suo cinema, vedi la macchia di sangue che cade sul libro, presaga, e che rimanda a quella sul vestito bianco della sposa di Il cacciatore. Esibisce una esaltante, assai simbolica sequela di mezzi di trasporto che i due personaggi utilizzano nel loro viaggio iniziatico – dalla Porsche iniziale all’arrampicata finale a piedi, passando per la Cadillac del prete con la scritta ironica «God is Spirit» e il pick-up della mattocchia Anne Bancroft. Non si può non amare questo ostinato, solitario cantore di una wilderness che non accetta di vedere addomesticata o edificata, questo regista dell’anima e dello spirito; non si può non godere per questa occasionale rivincita di un cinema “forte”, perduto. Da allora (1996), non si è più visto nulla di simile.

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Esemplare quasi unico (l’ultimo) di regista dotato di un cuore, di muscoli e di sangue, Michael Cimino ci ha offerto un film d’altri tempi, commovente, semplice, diretto, privo di furbizie e strizzate d’occhio postmoderne. Naturalmente il film fu un insuccesso totale, che in pratica gli ha chiuso la carriera per sempre. Troppo diverso,

ALBERTO MORSIANI

Michael Cimino

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NUVOLE IN VIAGGIO

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ELISA BALDINI

(KAUAS PILVET KARKAAVAT)

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Quando ho visto per la prima volta Nuvole in viaggio ero al Lumière di Bologna, e non avevo paura. Protetta da un maglione non stirato tipico del guardaroba studentesco e dall’alibi per cui «sì sono al cinema di pomeriggio, ma è perché studio cinema, quindi sto studiando» non ho provato inquietudine, solo spiazzamento, ed emozione. Oggi, sul divano dell’Ikea di casa mia rivedo Nuvole in viaggio: stavolta non ho alibi; lo rivedo di mattina, perché finito di studiare andando al cinema, ho solo un impiego part time. Ho dieci anni meno di Ilona, ma nessuno oggi avrebbe il timore di dirmi quello che le dice il proprietario del locale a cui lei chiede di lavorare: «Sei troppo vecchia». E di fronte alla sua obiezione sul fatto che lui stesso abbia più anni di lei «Per me è diverso, ho le conoscenze giuste». Rivedo Nuvole in viaggio nell’Italia del 2010 che si avvicina alla frenesia luminescente del Natale e non ho solo paura, me la faccio letteralmente addosso. Ma questo è soltanto il sentimento esteriore, eccedente. Qualcosa di così esplicito e retorico che Kaurismäki risponderebbe fissando lo sguardo nel vuoto davanti a un boccale di birra. E avrebbe ragione. Del resto lui è stato in grado, in un’ora e mezzo, di parlare di tutto quello che costruisce e distrugge una società e una vita, impeccabilmente, senza alcun tipo di sbavatura. Il lavoro, i soldi, la disoccupazione. La dignità, l’amo-

Aki Kaurismäki

re, la solidarietà. E tutto questo mostrando non le dita che battono sui tasti del pianoforte, ma le corde battute da questi. The wonderful girl (he) loves è Ilona (Kati Outinen), capo cameriera, capelli biondo spento, polmoni un po’ affumicati. La prima scena del film racchiude la sua filosofia cinematografica, oramai consolidata: inutile agitarsi, la vita va avanti lo stesso. C’è un pericolo: ci si aspetta un uomo che sbraita e rompe cose, invece vediamo solo un cuoco attaccato a una bottiglia di rum. Fuori campo avviene ciò che rompe la sospensione (il cuoco ferisce a una mano il buttafuori) e ciò che ricompone il quadro (Ilona lo schiaffeggia e calma). In campo: l’attesa, neanche troppo febbrile, e il rilascio. Non si è risolto nulla, ma si è risolto tutto. Ci si agita così tanto nella vita reale, che al cinema si può a ragione limitarsi a usare anche solo un muscolo facciale. Al resto ci pensano la musica, la luce, la fissità e gli improvvisi balzi in avanti o indietro della macchina da presa. Come quello sul volto impietrito di Laurie, che scopre di avere pescato la carta sbagliata nel grottesco gioco per decidere chi, nella azienda dove lavora, perderà il lavoro. Laurie, ex tranviere, fegato provato dalle birre, sordo da un orecchio, che annuncia alla moglie Ilona di aver perso il lavoro quasi per caso, «perché le cattive notizie possono aspettare». Nuvole in viaggio è, anche e soprattutto, la loro storia d’amore, iniziata ai tempi di Ombre in paradiso, dieci anni prima (anche se l’attore è forzatamente un altro, e Matti Pellonpää, bambino, ci guarda ignaro dalla libreria senza libri). Una storia d’amore costruita sugli accenni, i baci sfiorati, le carezze a filo, prima del contatto. E di simboli: un mazzo di fiori per il perdono, una camicia stirata per la fiducia e il sostegno, un calzino ripieno di latte e uno spuntino per la speranza e la trepidazione. «La vita è breve e insopportabile», tanto vale godersela, rischiare e perdere, tutto. Per questa volta Kaurismäki ha deciso di non spezzarci totalmente il cuore: tanto nessuno ci convincerà del tutto che sta solo bluffando, si sta solo divertendo coi movimenti simmetrici. Prima la speranza, poi la disillusione. Poi ancora la speranza. E poi, al massimo, ci rimangono sempre le bucce di patate.


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Seahaven, Portodelmare, suona quasi come sea-heaven, paradiso del mare. Lì, in quel paradiso della normalità soddisfatta, Truman è un modello. All’inizio di The Truman Show lo dice una voce fuori campo. La sua vita è sacra, insiste la voce. E che cosa intende, se non che nel suo modello la normalità è mostrata e vista come esemplarità? L’umile assicuratore è l’eroe “sempre in onda” di una storia di vita che illumina e guida molte storie di vita. Unus pro omnibus, omnes pro uno, si legge su due archi che campeggiano in una strada di Seahaven: la vita di Truman per le vite di tutti, le vite di tutti nella vita di Truman. Esemplarità, appunto, esemplarità che legittima normalità, e produce obbedienza. Truman è attore inconsapevole nella messa in scena di Christof, ma insieme ne è spettatore fra spettatori, allo stesso tempo modello esemplare e cittadino normale. Proprio in quanto cittadino normale può valere come modello esemplare agli occhi degli uomini e delle donne di Seahaven. E però, ancora come cittadino normale ha il “potere”di contraddire ai loro occhi ogni pretesa di esemplarità e normalità. Non la straordinarietà può mettere in discussione l’una e l’altra, infatti. I nemici di Christof non sono gli eroi e i santi. Suo nemico è ogni uomo ordinario, ogni true man che pretenda d’uscire dai confini di Seahaven, e della sua messa in scena. Questo decide di fare, il piccolo assicuratore di Peter Weir: di superare i confini di Seahaven, di rompere la fascinazione securizzante della macchina d’obbedienza di Christof. E poco cambia che Christof sia un cinico uomo di spettacolo, o un demiurgo divino, o la personificazione del “campo” di tutti i rapporti e di tutti i calcoli di cui si intreccia il potere. All’onnipotenza della sua messa in scena Truman decide di opporre il coraggio della propria ordinaria precarietà. Lo decide quando vede d’essere stretto in una rete di messe in scena, di biografie esemplari che si rafforzano l’una con l’altra, imprigionandosi l’una nell’altra. Lo decide quando ai suoi occhi emergono dettagli incongrui con la messa in scena generale, dettagli tragici e qua e là anche comici. Allora dubita della “verità” di Seahaven, e al dubbio segue la rivolta. È una rivolta assurda, la sua, come quella del Sisifo camusiano. Truman si rivolta contro il principio stesso della propria sicurezza. Il luogo verso

cui fugge è (ancora) indefinito e vuoto: è l’altrove indefinito e vuoto del nero che, nelle ultime immagini, si scorge al di là d’una porta che si apre, astratta, sui confini di Seahaven. Non è forse “ragionevole”, Christof, quando lo avverte che per lui sarebbe più conveniente – meno pericoloso – pagare con l’obbedienza la “certezza biografica” dentro i confini di Seahaven? A che cosa apre quel nero? A un altro demiurgo? A un’altra storia di vita? Alla follia? Eppure, Truman ne corre il rischio. L’alternativa è Seahaven. L’alternativa è la rinuncia a vedere: non a un astratto diritto di vedere, ma a un vedere concreto, fatto di carne e di sangue, come la sua vita. Per questo il true man sceglie il coraggio umano, molto umano di Sisifo, ostinato bestemmiatore degli dèi. Per questo torna a far risuonare i grandi piccoli no del Don Giovanni mozartiano di fronte agli schiamazzi pirotecnici del Convitato di pietra. Come il tragico, ironico burlador, che al suo antagonista risponde «Farò quel che potrò», anche lui fa uno sberleffo irridente al suo dio, e sprofonda nel vuoto di un altrove che è solo ipotetico. È un gesto grande, quello con cui l’irrilevante assicuratore mette in scacco Christof: sorride, apre la porta e d’un balzo ne varca il limite, forte del suo piccolo no. Forse ci stupisce, la rivolta di Truman Burbank. Ma ancora più ci dovrebbe stupire il sì continuo, il sì ininterrotto e servile dei suoi concittadini.

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Peter Weir

ROBERTO ESCOBAR

THE TRUMAN SHOW

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IL GIARDINO DELLE VERGINI SUICIDE (THE VIRGIN SUICIDES)

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ANTONIO TERMENINI

Sofia Coppola

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America 1974. Michigan, Midwest allora ancora industrializzato dell’America della Rust Belt. Provincia profonda. Illusione ormai tramontata per sempre. Kennedy è stato ucciso, l’America ha combattuto la “sporca guerra” del Vietnam, lo scandalo Watergate ha creato uno iato che non si ricucirà mai più tra i cittadini e lo Stato che li rappresenta. La signora Lisbon e suo marito, con le loro cinque bellissime figlie vivono in un mondo a parte, bigotto e conservatore, tradizionalista e figlio del maccartismo degli anni Cinquanta, come se la “rivoluzione dei costumi” dei campus negli anni Sessanta non fosse mai passata per questo piccolo centro di provincia. Al suo folgorante esordio, che non eguaglierà mai nelle prove successive, Sofia Coppola ci introduce, attraverso la penna ispirata di Jeffrey Euginides, in un mondo cristallizzato, che vive di forte polarità. Il senso e la voglia di libertà/ribellione di ragazze adolescenti che avvertono i primi turbamenti sessuali e amorosi e i doveri imposti da un fervore calvinista, cieco e totalizzante, che non ammette varianti di alcun tipo. Romanzo adolescenziale, sì, bildungsroman, coming of age, non c’è dubbio, ma più di ogni altra cosa, film che riesce a esprimere tutto ciò che vuole esprimere per immagini, musica e montaggio. L’essenza del cinema, verrebbe da dire. Le atmosfere sospese create dalla fotografia color seppia di Edward Lachmann (il miglior cinematographer vivente assieme a Harris Savides) ricostruiscono senza forzature lo Zeitgeist in cui le ragazze, i loro genitori e la piccola comunità si trovano ad agire. I dialoghi sono pochi, essenziali; recitati soprattutto dalla signora Lisbon ossessivamente impegnata a rispettare una morale inscritta nei cieli, ma che finisce per

cozzare con l’ineluttabile urgenza della realtà, della vita. Nessuna parola, invece, per descrivere l’amore tra il “bello della scuola” Trip Fontaine e Lux, la più ribelle delle sorelle Lisbon. Un corteggiamento lungo, paziente, una meta da raggiungere. E poi, quando la passione ha raggiunto il suo acme, Trip lascia il corpo di Lux sul campo da football del college. Perché l’amplesso è un atto, a quel punto, del tutto inutile, superfluo; un orpello. Una delle scene più fulminanti dell’ultimo ventennio, che ti lascia addosso malinconia e vaghezza. Trip è appagato, ma, retrospettivamente, in un’intervista cha fa molto cinema off Hollywood anni Settanta, si pentirà di quel gesto. Anche Lux, però, forse non voleva altro, voleva uscire dalla gabbia di casa, specialmente dopo i primi suicidi da parte delle sorelle. L’infrazione della regola durante il ballo della scuola segnerà la sua fine e la fine del sogno degli angeli biondi, senza colpa e senza peccato, sfregiate dalle regole del mondo civile. Ai sopravvissuti non resta che indossare una metaforica maschera che li preservi dal morbo che quell’estate ha colpito gli alberi e dalla maledizione della catena di suicidi che ha infranto il lindore di una famiglia considerata perfetta e modello per la comunità. Il giardino delle vergini suicide è un film impalpabile, quasi magico nelle atmosfere sospese che lo attraversano. Un miracolo firmato da una ventiseienne (all’epoca; il film è del 1999) cresciuta sui set cinematografici assieme al padre, ma anche scrittrice, stilista, amante di una musica pop lontana anni luce dal mainstream, ipnotica e spiazzante, come quella firmata, per questo film e per il successivo Lost in Translation dagli Air.


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LES MARCHANDS DE SABLE

definito con precisione topografica (una piazza, due caffè, le vie adiacenti), trattato con luci nette, ma che, nelle sequenze notturne, si trasforma in un paesaggio allucinato. Le strade deserte in cui si consuma l’agonia di Antoine (una sequenza magnifica), venendo a circoscrivere uno scenario spettrale su cui pesa un’atmosfera di cupa fatalità, diventano i sentieri di un labirinto di cui si sia smarrita ogni via di fuga. È all’interno di questo spazio malato che si aggirano – pavidi, spaventati – i protagonisti maschili del racconto, esseri fragili e come sperduti (eppure si muovono nel loro quartiere, nel loro territorio), divorati da una debolezza malsana, incapaci di sostenere il confronto con un femminile minaccioso, terrifico. Sul film campeggia un’immagine di donna inquietante, destinata a portare allo scoperto le paure segrete degli uomini che attraversano la sua strada. Marie è una presenza patetica, una creatura lacerata. Il suo dolore per la morte di Antoine non sembra conoscere pace. La determinazione con cui accetta di farsi strumento di vendetta ha in sé qualcosa di arcaico. È significativo che tutti i personaggi maschili del film – truand e piccoli spacciatori – si mostrino atterriti dalla sua energia divoratrice. Lo stesso Alain, l’unico esente da colpe, dopo aver tentato di scongiurare che l’inevitabile si compia, si lascerà lui pure risucchiare dalla vertigine del sangue. Il noir torna qui a descrivere un mondo senza speranze, una tensione impossibile, lo scacco esistenziale. Ancora una volta l’eroe tragico sperimenta la propria pochezza di fronte al destino. Nella scena finale Alain dà fuoco al proprio caffè. Un gesto che, prima ancora che un atto di rivolta, sembra esprimere il rimpianto di un’innocenza perduta, il sogno di un’impossibile redenzione. Una chiusura perfetta per un film superbo.

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Realizzato per la serie televisiva «Gauche/Droite», Les marchands de sable era chiamato a riflettere sull’incidenza della politica (dell’economia) nella vita quotidiana di oggi. Un’incombenza che Pierre Salvatori ha inteso onorare lasciando cadere qua e là qualche accenno distratto ai meccanismi del mercato della droga, equiparato, per via allusiva, al mercato tout court. Roba da poco, su cui non pare opportuno insistere più del dovuto. Anche perché il regista, saggiamente, si è proposto di scansare ogni forma di moralismo ideologico, cosa di cui gli siamo riconoscenti, ma che ha finito per incidere in modo negativo sulla valutazione del film. Eppure Les merchands de sable è un noir per tanti versi ammirevole, uno dei titoli più significativi del cinema criminale francese contemporaneo (lo si potrebbe accostare, per potenza di invenzione e densità di scrittura, a 13 Tzameti di Gela Babluani), un film che a noi pare necessario amare di quell’amore geloso che si riserva alle opere ingiustamente sottovalutate (è l’amore che ci lega ai romanzi di Perutz, alle novelle della Messina, alla pittura del Sassoferrato…). La pellicola – uno squisito esercizio manierista, un’opera che, attingendo a una tradizione gloriosa, giunge ad arricchire quel repertorio mitologico di nuova linfa vitale – è costruita a partire da una sceneggiatura studiatissima (si sente che Salvatori e il suo cosceneggiatore Nicolas Saada posseggono il senso del racconto, sanno tratteggiare situazioni e caratteri), un congegno implacabile in cui, come nella migliore tradizione del noir, il gioco del destino s’impone sui personaggi trascinandoli in un vortice di eventi incontrollabili. Fragili pedine di un meccanismo ineluttabile, i protagonisti del film si muovono in un universo dai contorni ambigui dove dominano simulazione e inganno. La vicenda è calata in un ambiente

NICOLA ROSSELLO

Pierre Salvadori

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L’UOMO CHE NON C’ERA

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GIUSEPPE IMPERATORE

(THE MAN WHO WASN’T THERE)

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Già, lavoravo in una bottega di barbiere. Ma non mi sono mai considerato un barbiere. Ci ero inciampato dentro o, meglio, mi ci ero sposato. Frank Raffo, mio cognato, era il barbiere capo. Ragazzi, quanto chiacchierava. Non che me ne lamentassi. Come detto, lui era il capo. Tagliava capelli e sputava parole. Io invece non parlavo molto. Io tagliavo solo i capelli. Vivevo in una villetta. Non era male, anzi, me la cavavo. C’era anche Doris. La conobbi durante una serata a quattro. A fine serata mi disse che le piacevo perché non parlavo molto. Dopo solo due settimane suggerì che avremmo potuto sposarci. Io dissi: «Non vuoi conoscermi più a fondo?». E lei: «Perché, migliora qualcosa?». Mi guardò come si guarda uno scemo, ma la cosa continua a non ferirmi. In fondo aveva ragione. Doris teneva la contabilità per un emporio. A Doris piaceva avere tutto sotto controllo, e finché fu in grado di farlo le riuscì bene. C’era anche il suo capo, Big Dave. A Doris piacevano le storie da uomini veri che lui raccontava e a Dave piaceva raccontargliele, anche se erano tutte balle. Già, mia moglie mi tradiva con Big Dave. Non che ne facessi un affare di stato. Questo è un paese libero, un paese che per la libertà ha lottato, lotta e lotterà ancora. E poi, ora, nessuno di noi è più in vita. Un giorno, finalmente, successe qualcosa. Non mi riferisco al lavaggio a secco, al ricatto, all’omicidio di Dave,

Joel Coen

al suicidio di Doris, alla mia condanna a morte e all’esecuzione. No, niente di tutto ciò.Tagliavo i capelli. Rifinivo la testa di un ragazzino. Lavoravo di forbici e pettine quando mi fermai a guardare ciò che le mie mani stavano facendo… I capelli. Vi fate mai delle domande? Continuano a spuntare, a crescere, sono parte di noi e noi li tagliamo e li buttiamo. Fu in quell’istante che mi resi conto, per la prima volta nella mia vita, di vivere. E capii: ero un fantasma. Non vedevo nessuno, nessuno vedeva me. Una nuvola di fumo confusa nel fumo di milioni di nuvole di fumo. Quello che non ero, non avevo, non sapevo, era me stesso, ero io. Osservai ancora i capelli. Guardai il ragazzo, poi Frank, poi la gente che a testa bassa camminava per strada. Tutto si fece chiaro, come prima di un incidente, quando il tempo rallenta, non si ferma, ma rallenta, e per un po’ si può pensare. Quegli uomini non c’erano: lo credevano solo, ma, in realtà, non c’erano. Aveva ragione Doris: a che serviva conoscerla? Aveva ragione quell’avvocato di Sacramento, quel Riedenschneider, e quel Fritz, o Werner, insomma, quel cervellone di uno scienziato tedesco: «Alcune volte più guardi e meno conosci». Guardare cambia il fatto, dicevano. Ma chi guarda davvero? E cosa? In quel momento imparai invece che il guardare cambia soprattutto chi guarda. I capelli. Continuano a spuntare anche mentre li tagliamo, tanto che alla fine del taglio dovremmo già ricominciare. Una cosa simile, dopo aver suonato per me e avermi parlato di quel compositore sordo, quello che non poté mai ascoltare la propria opera, me la raccontò Birdy. Mi disse che quando si accorda un pianoforte, per il solo fatto di far vibrare una corda, si scordano impercettibilmente tutte le altre, anche se già accordate. E lo stesso accade se il piano è tenuto a riposo: per il semplice fatto di non suonare, le corde si scordano. Ora che vedo dall’alto il disegno della mia vita, ora che la matassa si è dipanata, ora che tutto mi pare un labirinto da lontano, ora che so che, per brevi istanti, si può guardare e conoscere e sentire ed essere anche senza esserci, continuo a pormi nuove domande. Una dopo l’altra, sempre. Ma sono in pace. Perché questo ho capito, che il domandare è la pietà del pensiero.


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ESSERE E AVERE (ÊTRE ET AVOIR )

Questo piccolo slittamento di prospettive è denso di ricadute, in termini etici ed estetici. L’alterità della persona filmata, a cui il filmmaker affianca il suo sguardo, è al contempo un punto d’arrivo e la premessa da cui il racconto può partire per scoprire un pezzo di realtà e mettere a nudo le sue strutture di fondo.

A dispetto di un contesto fiabesco (la classe immersa nella natura, un insegnante modello…) e di un andamento narrativo che procede senza sussulti (seguendo l’anno scolastico e il passare delle stagioni), Essere e avere è un film che ci mette di fronte alla spinta normativa propria delle nostre società. Possiamo ridere delle bizzarrie di Jojo, allo stesso tempo sappiamo che il bambino dovrà velocemente imparare a contenere le sue “rêverie”. Ciò che Philibert racconta è che ogni conquista contiene in sé una perdita. Essere e avere coglie quell’appassionante momento in cui le due spinte sono compresenti: l’espressione diretta delle proprie emozioni fa i conti con l’apprendimento del linguaggio, necessario a mitigare il dolore della scoperta che la realtà non sempre corrisponde ai propri desideri, che il mio confine d’azione si definisce in base a quello altrui. Dopo averci preso per mano, il documentario si chiude con i nuovi arrivati che fanno capolino nello spazio della classe mentre i “grandi” si apprestano a migrare verso altri lidi. Meglio di una finzione, una propedeutica alla vita.

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Parigi, primavera 2002. Nell’uscire dalla sala di montaggio, Nicolas Philibert ci aveva detto: «Vorrei fare un film sull’apprendimento, perché imparare a leggere o saper contare sono le imprese più grandi che un uomo deve affrontare nel corso della sua vita». Le immagini viste sul monitor mostravano dei bambini di età differenti riuniti in una stessa classe. Ricordo lo sguardo di Jojo (il piccolo monello che farà ridere oltre due milioni di francesi), l’espressione di Alizée (la bambina che piange per una gomma sottratta), ma anche il fare sornione di Julien (che fatica a fare le operazioni, ma guida un trattore come se nulla fosse). Anche dopo aver visto il film per intero a Cannes, e poi altre volte, è rimasta questa impressione. Ben oltre la presenza rassicurante del maestro Lopez, con il suo fare deciso e affabulatore, si offre il dualismo dei corpi. I grandi e i piccoli. E la follia contagiosa di farli stare insieme. Se Essere e avere parla di apprendimento come di una conquista gloriosa, la prima direzione verso cui tale fatica è messa in atto è quella dell’imparare a “con-vivere”. Andare a scuola significa uscire dalle mura domestiche ed esplorare uno spazio nuovo. Uno spazio fatto di rapporti interpersonali, di norme da seguire, di codici da comprendere. Seguendo l’avventura di bambini che, per la prima volta nella loro vita, si trovano confrontati con un mondo inedito, Philibert rappresenta la classe come l’immagine originaria della società. Il fatto poi che lo stesso luogo non sia uno spazio uniforme, dove tutti partono dalle medesime condizioni, ma un ambiente a più livelli, rappresenta ancora meglio la complessità del nostro stare al mondo. Con buona pace di chi ha attaccato il film per non aver scelto di rappresentare la multiculturalità del presente attraverso una classe problematica. Prima di essere lo spaccato di una data comunità, Essere e avere è una riflessione sulle condizioni che rendono possibile la condivisione di uno spazio di vita. Questo è il senso del fare documentario, secondo Philibert. Non una documentazione dell’esistente e neppure la testimonianza di ciò che è stato, ma la scoperta, insieme ai personaggi, di una realtà che per essere ripresa ha bisogno di essere decifrata. Laddove la finzione chiede allo spettatore “di stare al posto di”, il documentario propone di “stare insieme”.

CARLO CHATRIAN

Nicolas Philibert

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2003

ELEPHANT

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ALESSANDRA MALLAMO

Gus Van Sant

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Mancanza di consistenza, realtà senza densità, è ciò di cui sembra esser fatta l’immagine di Elephant. Certo, il pachiderma del titolo è qualcosa che rievoca immediatamente la pienezza e la compattezza dell’esserci delle cose, ma il massacro alla Columbine High School del 1999 è un evento enorme proprio per il suo essere impensabile, così, se la realtà è inattaccabile dalla comprensione umana, l’immagine restituisce l’inconsistenza di ogni approccio dimostrativo, interpretativo o sociologico. Come narra la parabola buddista, la verità si tocca, pezzo per pezzo, ma non la si penetra né la si spiega, la verità è sempre verità di superficie, e la realtà diventa reale solo nell’emergenza, intesa nell’ambiguità del suo significato come emersione e pericolo. Gus Van Sant è un regista fieramente indipendente e l’ha dimostrato girando questo film per la tv via cavo, dopo il rifiuto dei produttori cinematografici che avevano giudicato il soggetto troppo spinoso; è anche un autore che ha il dono della grazia e solo con questa prerogativa si poteva arrivare a una tale rappresentazione della violenza e dell’indifferenza tra vita e morte senza fare teoremi. La violenza di Elephant non è quella sistematica del potere, è quella vuota della banalità, desertica come il videogioco con cui si diverte uno degli assassini; l’espediente, invece di dare spazio a congiunzioni tanto perverse quanto qualunquistiche, le sgombra definitivamente dal campo con il contrappunto della musica di Beethoven, a meno che non si voglia credere che anche «Per Elisa» possa nascondere qualche malefico influsso. L’espressione culturale altissima insieme a quello che è genericamente considerato uno stupido passatempo delineano l’indifferenziato in cui cova il grado zero della violenza, il suo puro apparire, ed è per questo che il film rimane fino alla fine, in una cella frigorifera, a zero gradi, ghiacciato e cristallino. Con le meccaniche del potere, tuttavia, esso ha a che fare: infatti, mentre si tenta di mettere insieme i cocci dell’evento, intanto si sgretola la libertà dello sguardo. Deprivandoci del nostro volere e poter vedere, le immagini sovvertono la più autorevole teoria sulla libertà della visione dello spettatore: quella di Andrè Bazin. Se nel cinema moderno la messa in scena è resa più

reale, complessa e credibile dal piano sequenza in profondità di campo, il cortocircuito di Van Sant, alla composizione del quadro in settori significanti di tempo e spazio, oppone il vuoto dei corridoi, delle stanze, e delle esistenze quotidiane. Molto più spesso al piano sequenza si associa un sonoro di voci che intersecano momenti più volte ripetuti e uno sfondo sfocato: in un mondo deserto, senza riferimenti, la profondità di campo è abolita, e con essa la fla-

granza del reale, che resta solo come superficie, come quadro privato del fuoricampo, già occultato quando una delle ragazze guarda verso il cielo e noi guardiamo lei che guarda, ma non sappiamo cosa. Non si tratta più nemmeno di montaggio proibito, ma di montaggio impossibile. Siamo abituati a comprendere il mondo così come usiamo le mani, praticandolo, montando e smontando con il pensiero, ma di fronte a oggetti senza consistenza, le nostre mani potentissime diventano inutili; in Elephant possiamo solo tenderle in avanti a tastare il buio come i ciechi, affidati allo sguardo altrui che ci guida. Dal quadro, però, gli altri cadono, i corpi mancano senza preavviso, senza dettagli di dita sul grilletto, inabissano. Di quel poco che già comprendevamo, incollati a una nuca, appesi a un profilo, non rimane nulla; nel vuoto o nel buio, permane solo il ritrarsi dello sguardo.


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2004

IL DIAMANTE BIANCO (THE WHITE DIAMOND)

quentatore del confine. E il buon luogo che lo accoglie, offrendogli le proprie ricchezze, è insieme cielo e terra, alto e basso, luce e ombra, armonia e stridore, grandezza e piccolezza. Il mondo si riflette in una goccia d’acqua, a testimonianza della vicendevolezza – o meglio della sotterranea cooriginarietà – degli opposti. Il buon abitatore e il buon luogo per l’abitare non hanno alcunché di pacificato: piuttosto, esprimono – sostenendola – una fondamentale e radicale tensione, a partire dalla quale il sentire si intensifica e le cose risuonano, anziché assopirsi nel vuoto livellamento della globalizzazione. È in questa tensione che viene serbata la diversità, la pluralità, l’eterogeneità – e la loro stessa scaturigine: il mistero della pienezza sovrabbondante delle cose, il mistero del fatto che le cose sono anziché non essere. Il cinema di Herzog è un esercizio a guardare con stupore su questo abisso. Il buon luogo dell’abitare, infatti, esige che il buon abitatore sia anche dotato di una buona visione: una visione capace di accogliere l’invisibile che alberga nel cuore del visibile, una visione che, anziché tutto rischiarare e fissare, accetti di partecipare all’eterna danza delle forme mutevoli – abbandonandosi a contemplare il leggero volteggio dei rondoni, che nel film sono i mediatori tra le cupe profondità telluriche e l’aperto dell’etere.

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Come pensiamo e dispieghiamo oggi il nostro soggiorno sulla terra? Da una parte ci sono le devastazioni paesaggistiche, sociali e culturali perpetrate dal cosiddetto turbocapitalismo, che, ormai privato di qualsiasi “poesia”pionieristica della scoperta e di qualsiasi fiducia in “magnifiche sorti e progressive”, si riduce a una bellicosa coazione a ripetere rispetto a cui gli uomini assumono una condizione sempre più servile (da funzionari o consumatori). Le presunte palingenesi (o autoregolamentazioni) derivanti da crisi sistemiche non sono altro che specchietti per le allodole, cose da anime belle. Dall’altra ci sono i moniti e le prospettive edificanti di un pensiero ecologico che, nell’identificazione di una serie di limiti (di inquinamento, di consumo, di risorse) e di parametri di sostenibilità, tenta di stabilire un punto d’equilibrio tra uomo e natura, in base al quale decidere sull’uno e sull’altra, in vista, magari, di un ideale irenistico e conciliativo. L’eco-logia e il turbo-capitalismo non sono che immagini del mondo, seppur divergenti e contrapposte, e, in quanto tali, veicoli del dominio tecnico e dell’uniformazione globale. Per questo rimane urgente interrogarsi su cosa significa abitare. Nel Diamante bianco Herzog si fa carico di un simile domandare, con la sua solita concretezza artigianale di uomo che lavora non con concetti ma con cose e persone, con pellicola e luce. E se ne fa carico tentando di dare voce e corpo a un eu-topos, a un buon luogo per il soggiorno dell’uomo sulla terra – non a un ou-topos, un luogo che non c’è e che, in quanto tale, si riduce o a fantasticheria o a proiezione totalitaria. Ogni buon luogo richiede innanzitutto un buon abitatore, è inscindibile da una biografia. Herzog comincia così a raccontarci di Graham Dorrington, docente d’ingegneria aerospaziale presso la Queen’s University di Londra, e del suo sogno di sorvolare le cime degli alberi della foresta pluviale della Guyana con un aerostato manovrabilissimo di sua ideazione. Il buon abitatore è colui che si attesta sulla soglia: tra leggerezza e pesantezza, tra volo e terraferma, tra estasi e caduta, tra sogno e incubo, tra gioia e sofferenza, tra vita e morte, albergando in quel “tra-mondo” che è la dimensione propria della finitezza e mortalità dell’uomo. Egli è un fre-

FRANCESCO CATTANEO

Werner Herzog

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2005

THE NEW WORLD - IL NUOVO MONDO (THE NEW WORLD)

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FABRIZIO TASSI

Terrence Malick

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C’è una bella differenza tra guardare le cose e vederle per davvero. Uno guarda e pensa di vedere un albero, un soldato, un cielo alto e vuoto (poesia!), una nave inglese del Seicento che scricchiola proprio come una nave del Seicento (filologia!), una tribù di nativi un po’ hippy (nostalgia?), l’America, l’amore quello vero, l’innocenza perduta, civiltà & natura (civiltà vs. natura), la selvaggia pagana Pocahontas che diventa la cristiana civile Rebecca… Quante cose uno crede di vedere mentre magari sta guardando solo i suoi pensieri, l’idea astratta di un albero o dell’America (o dell’arte dell’autore di La sottile linea rossa). Ma quando sei al cinema – non davanti a un’astrazione critica o un fantasma digitale – e stai guardando un film di Terrence Malick, allora capisci subito, vedi!, la differenza che c’è tra la rappresentazione, l’approssimazione, la verosimiglianza, e la visione. Tra il nostro modo un po’ distratto e un po’ annoiato (addormentato) di osservare le cose/pensare la realtà (brutta cosa il credere di sapere e di vedere) e l’occhio sempre vergine di questo regista-mago, che ha la virtù di contemplare il mondo come fosse nato ieri, facendolo rinascere sotto i nostri occhi (santo stupore pagano!). Ecco allora il campo di grano, i gesti di lei, Mozart, il colonialismo, l’acqua increspata, la luce dell’alba e del tramonto, le Indie trovate e perse. Ecco l’America, il Nuovo Mondo (qualsiasi cosa sia), che guardiamo davvero per la prima volta, con gli occhi di chi lo vedeva per “primo” e di chi l’ha visto prima

che esistesse (è davvero possibile un Nuovo Mondo senza gli stessi errori di sempre?). Ascolti il preludio dell’«Oro del Reno», e già capisci che non è una questione di causa ed effetto, di dialettica drammaturgica, di spiegazione o dimostrazione (di cosa?). Siamo stregati da una “melodia infinita” che, tra domande vertiginose e mistici rapimenti, ha la presunzione innocente, ingenua, di aspirare al tutto, di far coincidere gli opposti dopo averli fatti deflagrare – anche natura e civiltà, sì, perché no, il tempo eterno circolare che puoi solo contemplare ammirato, e quello lineare, che corre precipitosamente verso la fine, riassunti nell’«Io sono» di Pocahontas/Rebecca. La grammatica qui non è logica (della messinscena) ma intuizione (della realtà interiore ed esteriore): il tutto va accostato attraverso i suoi frammenti, echi, riverberi, ellissi, allusioni elusive. Lo spettatore può semplicemente abbandonarsi. Al povero critico, invece, che deve razionalizzare, che vorrebbe capire e spiegare, non restano che i giochi di parole evocativi, i paradossi da “teologia negativa” (riesci a dire meglio ciò che non è), oppure la messa in prosa dei temi e degli scopi, che mortifica il senso stesso di quel modo di guardare. The New World allarga lo sguardo (conoscenza), con lenti movimenti orizzontali, cammina insieme alla curiosità “animale” degli indigeni, che vedono avanzare le navi inglesi tra gli alberi, e penetra (immaginazione) dentro un percorso d’acqua e terra sconosciuta, insieme alla fame d’oltre del capitano John Smith. The New World verticalizza la visione, cerca la luce dal buio di navi, capanne e boschi fitti, ascende e ridiscende, aspettando una risposta che non pare mai arrivare, eppure ti sembra di ascoltarla (è un film di suoni, rumori, vento tra le foglie, acqua che scorre). The New World è cinema che aspira a essere più che cinema: estasi, sinestesia, languore, iniziazione. Va goduto abbandonandosi al flusso.Va cercato dove apparentemente sembra più “vuoto” (di cinema). Per questo può perfino irritare. Chi scrive, si è perdutamente innamorato (nonostante Colin Farrell…) ed è convolato a giuste nozze a-critiche. «Madre dove sei? Nel cielo? Nelle nuvole? Nel mare?». Nel cinema? Perdersi per ritrovarsi, oltre la civiltà, oltre la natura.


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2006

LE TRE SEPOLTURE

(THE THREE BURIAL OF MELQUIADES ESTRADA)

e trasfigurarla, sulla scorta di quel memento vivere che ha fatto da bussola a Pete lungo l’intera traversata del deserto: lì ci sono le case, là il frutteto, più in là la chiesa, laggiù il cimitero; basta reinventarla, non solo con l’anelito naturale del “muori e diventa”, anche con l’anelito cosmico dell’esercizio spirituale. È quello che fanno Pete e l’assassino di Melquiades, il poliziotto Mike Norton, dal quale Pete si è fatto accompagnare in lungo e in largo (penso alle astrali panoramiche che scandiscono il viaggio) per fargli espiare la sua smisurata stoltezza.

Pierre Hadot (1921-2010), uno studioso che ammiro, mi ha insegnato che l’esercizio spirituale non è affatto una pratica ascetica specifica della Chiesa e che esso risale in realtà all’antichità classica, messo in opera dagli antichi non già per svalorizzare l’umano ma per valorizzarlo al suo meglio, pur sullo sfondo del lutto comune e della comune afflizione. Per cui, a me pare, il cadavere putrefatto di Melquiades, il “compagno segreto” trasportato a cavallo per giorni e giorni da Pete e Mike come un lancinante memento mori, riceve, dall’aspro esercizio spirituale praticato a suo beneficio, proprio quella formidabile credenziale di vita che lo restituirà senza traumi alla terra messicana e, tout court, alla terra, a quel lugar sin límites con cui l’indimenticabile José Donoso designava l’in-tutto tra la vita e la morte.

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In «Cent’anni di solitudine» Melquiades è lo zingaro che reca le novità a Macondo, e fa apparire il villaggio ancor più marginale di quanto non sia: affondato in un “vortice di polvere”. Il personaggio compare fin dalla prima pagina al fianco di Aureliano Biendía e funge da deus ex machina dell’intero romanzo. In Le tre sepolture Melquiades è il capraio messicano, non meno clandestino del Melquiades di García Márquez, assunto dal ranchero Pete Perkins – il Tommy Lee Jones attore – come lavorante in una fattoria alla frontiera tra Texas e Messico, e assunto in pari tempo dal Tommy Lee Jones regista, coadiuvato da Guillermo Arriaga sceneggiatore e Chris Menges direttore della fotografia, come deus ex machina del film. Anche il Melquiades di Arriaga è in qualche modo un portatore di novità in una terra di confine che è, sul piano sia della geopolitica sia dell’immaginario western, terra di nessuno, luogo di sconfinamento e deterritorializzazione, “vortice di polvere” che nessuno sceriffo e nessuna polizia di frontiera può ricondurre a un’identità topografica. Quali novità? La prima: la manifestazione del forte consentimento del rude ranchero al materializzarsi del diverso, del suo “dire sì” a una fratellanza inedita che è molto più di un’amicizia virile (topos del western maggiorenne) e diventa, al momento dell’assassinio di Melquiades, una vera e propria comunione tra il vivo e il morto, un amor fati che li porterà ad attraversare insieme il deserto per ricongiungersi al villaggio d’origine di lui, il cui nome, Jiménez, non è segnato su nessuna carta: solo sul foglietto che egli ha affidato a Pete a futura memoria. «Non è segnato su nessuna carta perché i luoghi veri non lo sono mai», sembra rimuginare Pete riecheggiando Melville, il quale inizia con queste parole il XII capitolo di «Moby Dick». Ed ecco la seconda novità. Jiménez esiste, a dispetto dei recisi dinieghi dei nativi che conoscono la fisica ma non la metafisica del territorio, la tierra prometida favoleggiata da Melquiades lo zingaro, un eden di aria pura e acque limpide alla confluenza di due colline, esiste: basta solo riconoscerla, magari nei resti di un muro diroccato,

SERGIO ARECCO

Tommy Lee Jones

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2007

BOBBY

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FRANCESCA BETTENI-BARNES D.

Emilio Estevez

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Le porte rotanti sono quelle dell’Ambassador Hotel sul Whilshire Boulevard di Los Angeles. Negli anni Venti e Trenta, nel suo nightclub, il Cocoanut Grove, ballando il Charleston si ubriacava la storia del cinema, da Errol Flynn a Louis B. Mayer, da Chaplin a Gloria Swanson, da Gable a Marlene, passando per le cerimonie degli Oscar e le serate di Sinatra e Barbra Streisand. Uno spazio-palcoscenico per un pezzo della storia dell’entertainment americano – cubetti di ghiaccio whisky e palme, stars in corso e a venire, celebrazione di volti, voci, e icone per il futuro –, pareti e ingressi per l’immaginario e l’immaginazione di una Nazione al cinema come set di Il laureato, Forrest Gump e Prendimi se ci riesci. Ma più di tutto, le porte rotanti del Grand Hotel sono l’ultima soglia della storia di Robert Kennedy, entrato come vincitore delle primarie californiane nella corsa alla Casa Bianca e uscito agonizzante dalla porta laterale delle cucine. Era il 5 giugno del 1968, e la Storia americana si faceva già da diversi anni nelle strade dei ghetti neri e in Vietnam,“dal basso”, tra gli studenti, le donne, gli immigrati, passata non incolume tra gli assassinii di Malcom X, del primo Kennedy e di Martin Luther King. Quel giorno Don Drysdale dei Dodgers batteva il suo record personale di sei palle out e una parte di America credeva in una vittoria nuova, ormai a portata di mano, al grido «We want Kennedy», per recuperare un senso di appartenenza e marciare oltre i lutti, e dare la parola a una

nuova innocenza americana: «Ogni volta che un uomo si alza in difesa di un suo ideale o agisce per migliorare il destino degli altri, o combatte contro le ingiustizie, è come se provocasse una piccola onda di speranza che incrociando altri milioni di onde formasse una corrente capace di abbattere i muri più resistente dell’oppressione…». Bobby è la nostalgia di un sentimento collettivo, il racconto dell’attesa, della speranza, della disperazione, dell’abbandono e della caduta, ancora una volta violenta, nella e della propria Storia. Non è tanto una riflessione sulla violenza quanto l’ennesimo racconto del riflesso di un sogno, del sogno ri-raccontato dell’America progressista, ferita di violenza più e più volte, e tuttavia, proprio perché fatta di uomini e donne compassionevoli, fragili sì, ma capaci di riconoscere le occasioni perse e le speranze da ritrovare, in nome di una fede comune in se stessi. Bobby è l’America democratica di oggi che non rinuncia a partecipare, riempiendo un’ultima volta l’Ambassador Hotel, prossimo alla demolizione, di stars che diventano camerieri, cantanti alcolizzate, centraliniste, mogli tradite, vecchi pensionati e giovani militanti, colpiti tutti dalle stesse pallottole, per sostenere e celebrare il romanticismo e l’epica della Nazione, che pur piena di contraddizioni, attorno al leader morente, a dispetto di tutto e di tutti, anche di se stessa, crede nella propria comune grandezza, e nel sogno di potersi rifare, ancora e di nuovo.


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2008

IL DIVO

modo, che il destino dell’artista è quello di giungere fino all’ignoto da dove, quand’anche perdesse il senno e l’intelligenza delle sue visioni, una volta tornato potrà sempre dire di averle viste. Un estremista, senza dubbio. Sorrentino da lì riparte: per esempio quando ci fa vedere con un sornione perché no? l’incontro, in un salone del Quirinale, tra Andreotti e un gatto persiano che ha un occhio azzurro e uno giallo. Perché non dovrebbe esserci un gatto così in cui imbattersi sotto lo sguardo impassibile dei corazzieri? Non esiste più la necessità di trovare “significati” a tutto, all’origine e al senso di certe immagini. Immagini. Appunto. Il fatto è che Il Divo porta allo scintillìo la consapevolezza di come ogni film sia in fondo l’“inconscio” di se stesso: vi si mostra ogni segreto, anche quelli che non si vedono. Ma ci sono. Basta guardare. L’immagine è pura superficie, e la superficie è tutto. Di questo il Potere si occupa, della superficie: dunque, per la proprietà transitiva… Lampi in questo senso attraversavano anche i suoi film precedenti, ma qui veramente ogni cosa è illuminata, nella constatazione progressiva che, comunque, il mistero resta imperscrutabile. Il film ce lo mostra: come può fare soltanto chi sa bene dove vuole andare. E per noi non ci sono alternative a quella di perderci volontariamente e con paradossale piacere nella vertigine che ci accoglie. Che in ultima analisi non è quella comunicata dal Divo, ma da Il Divo.

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Quale shining ci rimanda un’opera come Il Divo? Quale mistero ci ri-vela? Non tanto a proposito del personaggio storico di cui si occupa, quanto delle modalità con cui si arrischia in un percorso così ipnoticamente in bilico fra Storia e “leggenda” (ma forse le virgolette si potrebbero anche toglierle). Sorrentino ha scelto di muoversi in un territorio sospeso tra la riconoscibilità storica (il succedersi degli eventi, i nessi causa-effetto, la politica come inseguimento e manipolazione del potere…) e la contemplazione estatica: nel senso più fedelmente etimologico (ek-stasis) si pone (ci pone) di fronte all’oggetto del suo sguardo costringendoci a subirne il fascino disorientante, ad annichilirci godendo nel riconoscere il sex appeal che il Male possiede congenitamente. Incomprensibilmente. Il suo procedere è all’apparenza semplice: le immagini, le scene si distribuiscono come infiorescenze sull’asse portante che si fa carico di garantire la continuità cronologica. Ognuna di esse acquista però subito la portata accecante di un manifestarsi, di una trasfigurazione che assume senza timori sia i toni della caricatura sia quelli dell’orrore, a volte in alternativa a volte nello stesso momento. Ma da quale presupposto ontologico muove quest’opera magnetica? Ontologia filmica, intendo. Uno degli incipit più celebri e celebrati della storia del cinema ci mostra il simulacro di una dissezione oculare abbinato all’immagine lirica di una nuvola che attraversa il cerchio della luna come una lama sottile. Quella dissezione figurata portava con sé la convinzione che il cinema potesse diventare lo strumento affilato con cui tagliare la membrana tra Io e Es per allargare smisuratamente l’area della visione alla ricerca di nuovi significati. Il Divo prescinde con ogni evidenza da questa convinzione, e sceglie di riconoscere innanzitutto che il cosiddetto inconscio non esiste. Quantomeno non esiste più nei termini in cui lo si è pensato in questi ultimi cento anni. Può forse venire utile – per comprendere la portata e l’estetica di una tale scelta – rispolverare la frase di un giovane poeta che intorno al 1870 scriveva, grosso

ADRIANO PICCARDI

Paolo Sorrentino

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2009

VINCERE

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ANTON GIULIO MANCINO

Marco Bellocchio

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Vincere è un film sul cinema più che un film su un’epoca, il ventennio fascista di lunga durata, che rende paradigmatiche le perpetue dinamiche violente che hanno scandito la storia nazionale anche dopo la liberazione, e segnato profondamente in termini violenti, ergo fascisti l’antifascismo, il neofascismo e il post-fascismo. Un film sul cinema che determina la prospettiva di una o più epoche. La prospettiva di un secolo (di cinema), l’involuzione narcisistica e autoreferenziale di intere generazioni, si traduce in ossessioni visionarie, deliri cinematografici del potere. Un potere maschile, fallico, fondato su un io – dice Metz – trascendentale, onnipotente, onnipercipiente. Un io convinto di essere tale, salvo poi scoprire di non esserlo, di non poter vincere né sopravvivere alla sconfitta fatale. Il destino è sempre lo stesso: essere annientato, travolto, distrutto, polverizzato da quella stessa concezione religiosa della storia cui il soggetto/duce/massa soggiogato dal dispositivo filmico aveva aderito, e di cui si sentiva investito come massimo attore, dittatore dello sguardo, del pensiero, del consenso altrui. Il Benito Mussolini di Vincere si proietta spesso e volentieri nei film, si identifica, si dà fisicamente ai film, non soltanto in sala ma anche da ferito, immobilizzato nel letto di un ospedale improvvisato ove è il soffitto a diventare un grande schermo e a ospitare un film cristologico. Ma da un certo punto in poi, quando abbandona Isa, la isola, la allontana, egli smette di essere fisicamente presente se non sotto forma di film proiettato. Il suo sogno di diventare un film si è compiuto, e il suo posto viene preso dal figlio-sosia, generato a immagine e somiglianza del padre dalla madre fanatica, cui è sempre spettato il compito, in quanto donna, di spettatrice fervida della visione cinematografica maschile. Quest’uomo altro non è che il fautore di un regime che è prima di tutto un regime maschile e scopico generato e indotto dal cinema,

che emblematicamente con la Grande guerra e il fascismo obbliga gli spettatori e in via subordinata le spettatrici a identificarsi con la propria convinzione di essere a monte dell’atto di potenza che si esprime sullo schermo. Convinzione di poterne esserne il solo demiurgo e di poterne dominare assolutamente l’effetto collettivo. Un doppio binario ossessivo: quello di una donna che ama, adora, vive in funzione del suo uomo e feticcio, già duce in cuor suo prima di diventarlo ufficialmente e istituzionalmente; quello del Mussolini che riflette, incarna onde poi offrirsi a una completa rinuncia alla carne per diventare film, come il Cristo che si vota a un Aldilà che è poi lo schermo cinematografico, nella convinzione di poter sfidare il Padre celeste. E in questo modo diventa egli stesso il prototipo di tutti gli invasati storici di un potere che non si possiede, ma si smaterializza, sfugge, si riconferma in ogni epoca, in ogni momento fantasma di un potere inesistente, proiettato, illusorio come l’atto (semi)passivo della fruizione cinematografica. Per Bellocchio, dopo Buongiorno, notte e Il regista di matrimoni, non resta che recuperare attraverso questo film definitivo sull’infinita vanità del tutto cinematografico, partitico e politico, e sui suoi matrimoni: recuperare il reale sotto forma di surrogato filmico subliminale, che allude al presente, al nucleo problematico del presente contemporaneo. Ovvero alla pazzia di Aldo Moro che ritorna come un eterno e veritiero fantasma amletico stavolta con sembianze femminili: quelle della donna/amante/moglie negletta, che scrive alle massime autorità politiche e religiose lettere che non verranno lette, costretta a essere considerata pazza dentro l’ennesima prigione psichiatrica del Popolo (d’Italia, come il giornale che con i suoi soldi aveva contribuito a istituire). Salvo denunciare a testa alta e con insistenza di essere l’oggetto di una tragica farsa di Stato. Non la prima né l’ultima.


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L’UOMO NELL’OMBRA (THE GHOST WRITER)

re, per lui aveva intepretato il gran maestro di intrighi e cattiverie in Chinatown): il suo ghost writer condivide con gli eroi hustoniani una tragica quanto ostinata vocazione allo scacco che, più che “etica della sconfitta”, sarebbe corretto definire “etica dell’avventura”. L’elemento politico della storia è piuttosto evidente (i macbethiani Adam Lang, l’ex Primo ministro, e signora rimandano a Tony e Cherie Blair: Thomas Harris, l’autore del romanzo da cui il film è tratto, nonché cosceneggiatore assieme al regista, è stato un tempo sostenitore e ghost writer di Blair, fino alla rottura causata dall’intervento in Iraq). Ma si ha l’impressione che Roman Polanski fosse interessato, più che alla politica, all’opportunità di rappresentare una quest non dissimile da quella intrapresa dai protagonisti di altri suoi film. Il J.J. Gittes di Chinatown, il Trelkovsky di L’inquilino del terzo piano, il dottor Richard Walker di Frantic, il Dean Corso di La nona porta, con ragioni molto diverse l’uno dall’altro, hanno tuttavia in comune il fatto che, una volta imboccato il percorso investigativo, non possono e, soprattutto, non vogliono tirarsi indietro. La ricerca ha un suo prezzo, e ci sarà chi alla fine la sfanga e chi no; ma ognuno di loro intende giungerne a capo, costi quel che costi. Tragico destino, quello del nostro scrittore fantasma, non c’è dubbio. Ma è anche vero che, come dice il proverbio siciliano, cu ’un fa nenti ’un sbagghia nenti: si potrà finire stirati in una strada di Londra, si potrà anche vedere, appena prima di morire, il frutto della propria indagine sparpagliato al vento. Eppure, qualcuno si è preso la briga di tentare di dire al Mondo che il re è nudo, e per di più è da sempre un burattino della Cia. Coi tempi che corrono, anche solo l’averci provato è impresa non da poco. Grazie, monsieur Polanski, per avercelo ricordato.

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Dire, fare, baciare, lettera e testamento. Dire: un ghost writer di cui nessuno dice il nome, e gli indicibili segreti di un ex Primo ministro britannico. Fare: il nostro scrittorefantasma viene incaricato di revisionare le memorie del politico, ci si mette d’impegno, scopre che un suo predecessore nello stesso lavoro ci ha rimesso le penne, e finisce col cacciare il naso nei segreti del committente. Baciare: l’ex Premier è un gran dongiovanni, che in passato ha cornificato la moglie con la sua assistente; la quale moglie, per ripicca ma non solo, seduce lo scrittore (ma sembra l’amplesso di una mantide religiosa). Lettera: la rivelazione dell’oscuro segreto dello statista (e di sua moglie) è nascosto in un crittogramma tanto geniale quanto semplice, un acrostico celato nelle pagine del manoscritto originale delle memorie. Testamento: al povero, innominato ghost writer mal gliene incoglie… Non si può fare a meno di notare, nel finale di L’uomo nell’ombra, una certa analogia con quello di Il tesoro della Sierra Madre di John Huston. Con la differenza non da poco che la dispersione al vento della polvere d’oro, nel film del 1948, veniva presa con filosofia dai due sopravvissuti del terzetto di cercatori; i quali, preso atto dell’amara ironia dell’incidente, trovavano ragioni valide per guardare con ottimismo al futuro. I fogli sparpagliati al vento, dopo l’“incidente” che ha appena ucciso lo scrittore-fantasma polanskiano, sono invece molto più disperati. Disperati perché contengono la soluzione dell’intrigo, ma è loro negata ogni possibilità di palesarla: nessuno, oltre la vittima, la committente dell’omicidio e noi spettatori, li leggerà mai, nessuno ne conoscerà il segreto; un Mcguffin hitchockiano privo della catarsi dei thriller di Hitchcock. È qui, però, che Polanski, più che a Hitchcock – all’universo del quale L’uomo nell’ombra è stato peraltro giustamente accostato –, si avvicina a Papà Huston (che, da atto-

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Martone, attivo come a suo tempo Visconti sul doppio binario del teatro e del cinema, nel rievocare la storia italiana risorgimentale in Noi credevamo non può fare a meno di ripercorrere il tracciato viscontiano di Senso (1954) e Il Gattopardo (1963). Non può fare a meno di restituire dentro la rappresentazione filmica lo spazio della rappresentazione scenica, ovvero lo spettacolo teatrale cui i protagonisti assistono, come già nell’incipit di Senso. Ma anche per certi versi recuperando in Teatro di guerra (1998) i retroscena della macchina teatrale, che Visconti sempre in Senso aveva affidato all’incipit. O ancora prima, coadiuvato dal giovane Rosi, in Bellissima (1951), smontando il dispositivo fil-

mico, decostruiva, smitizzava, relativizzava la realtà ostentata dalla macchina cinema del neorealismo. Né va dimenticato a questo punto che, sulla falsariga di modelli letterari che vanno da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, da Verga a Pirandello, molte incursioni nella protostoria, nella storia e nell’antistoria risorgimentale di autori provenienti dal neorealismo come Visconti in Senso e Il Gattopardo e in Viva l’Italia! (1961) e Vanina Vanini (1961) di Rossellini preferito da Martone (1), puntavano anche a una rilettura distanziata, appena dissimulata e mimetizzata delle asperità, dei ristagni, dei tradimenti della Liberazione. Ciò spiega perché Martone in Noi credevamo agisca


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con continuità, sapendo di non potersi sottrarre a questo imperativo della continuità, di non poter sciogliere il suo debito con il passato. A prescindere dal proprio contributo personale, dall’apporto individuale, dalla cifra d’autore, egli non può ignorare che è arduo chiudere la partita con un passato diretto o eterodiretto, affrancarsi dai condizionamenti, dalle scuole di pensiero, le tante/poche scuole di pensiero, le consorterie intellettuali di ieri, di oggi, pronte a promuovere e a disconoscere in ogni istante, a dare o a negare il beneplacito, il consenso favorendo il supporto finanziario mediante il consenso culturale e i premi a ogni nuovo film: un retaggio marginale ma effettivo di una storia bloccata che emblematicamente nei suoi film, a livello sociale, politico, psicanalitico, antropologico, resta sempre aperta, diuturna, torbida, sporca, maleodorante come i vicoli. Oscena come le suburre. Di difficile interpretazione. Sottratta alla verità, alla pulizia, alla giustizia, alla chiarezza, alla trasparenza. Già L’amore molesto (1995) sul piano privato, edipico accentuava molto il tema della dipendenza dalla storia, sia nell’aggiungere nel finale la violenza sessuale simbolica, generazionale che l’ex bambina Delia allettata ha subìto dall’anziano pasticcere allettante e traumatico, sia quando trasforma in una battuta dello zio Filippo il riferimento del romanzo originale alla «marmellata di more bianca di muffa ma secondo lui ancora buona». Nel film l’uomo la incalzava così: «Se levi la muffa sopra la parte di sotto è squisita». La muffa che non impedisce alla marmellata di essere commestibile, addirittura “squisita”, rende molto bene l’idea di questa storia bloccata, ingrata, controllata, dolorosa, a livello personale, psichico e collettivo. La storia con cui Martone si ritrova a dover fare i conti, e che perciò va digerita come marmellata “ammuffita”, affrontata per gradi, strati, nature morte sparpagliate, partecipanti di una raffigurazione sulle quinte e dietro le quinte, non fa differenza. Raffigurazione complicata ininterrottamente dal neorealismo a oggi. Complicata da restituire – se non per difetto – a una integrità conoscitiva e a una presunta uniformità originaria. L’ipoteca del passato, dei suoi nodi irrisolti, dei suoi segreti, scheletri nell’armadio della compagine progressista, aperta, anti-istituzionale, colta (il partito comunista di Morte di un matematico napoletano [1992], la nuova borghesia di L’amore molesto, i teatranti di Teatro di guerra, i repubblicani di Noi credevamo) pervade le sue opere. A proposito di Noi credevamo, come non ricordare i riferimenti al contesto risorgimentale a latere della commemorazione ufficiale del protagonista di Morte di un matematico napoletano? «Hai visto? Hanno fatto il mausoleo pure a Carlo Pisacane. Vergogna! Tradito, ammazzato, illuso prima e poi celebrato, dopo morto. Mah, io mi chiedo che ci siamo venuti a fare qua».Veniva già allora richiamato un con-

testo pregresso, relativamente ottocentesco. Ribadito, sempre sullo sfondo della sedicente storia patria, dalla condizione delle prostitute neglette napoletane di un altro monologo dilazionato tratto da «Partitura» di Moscato e confluito in Rasoi (1993): «Ma, a chilli tiempe, era pure peggio ’e mo’ / a chilli tiempe, in ringraziamento dei nostri servigi, ci facevano accomodare nel fresco budello di un vicolo, ’o quartiere a Vicaria, dint’a na saittella ventilata, che, soprattutto nei mesi estivi, i Signori Potenti, così bene serviti, Spagnuole, Francise, Austrièce, Savoiardi, Borboni, graziosamente donavano, come villeggiatura, alle sciagurate sfoga-chiorme di turno». Di conseguenza Noi credevamo, che guarda provocatoriamente in avanti, in maniera neanche troppo velata, su due questioni nazionali irrisolte, spesso congiunte, che hanno paralizzato e paralizzano il presente, ingessando in valore assoluto anche il futuro, ogni ipotesi di futuro. La prima riguarda la mafia. Martone rincara la dose dei riferimenti al caso Milazzo di Morte di un matematico napoletano, di quelli alla camorra vecchia e nuova, già esplorata da Rosi fino al 1992, l’anno di Diario napoletano, dove all’allora esordiente regista di Morte di un matematico napoletano spettava una breve comparsata, o ancora alla camorra folcloristica e dei vicoli come della grandi opere, della politica regionale e nazionale, delle infrastrutture di Rasoi, L’amore molesto e Teatro di guerra. In Noi credevamo porta sulla scena della storia un improvvisato allestimento a opera dei seguaci garibaldini prossimi alla sconfitta in Aspromonte, evocati già nella lunga sequenza finale del Gattopardo. Assistiamo alla grande recita siciliana dei prolungati rapporti, per non dire la “trattativa”, tra il nascente Stato italiano e la mafia, che durante il neorealismo venne formalizzata e proposta sullo schermo nell’importante In nome della legge (1949) di Germi, e che né il Visconti antistorico del Gattopardo, seguendo le indicazioni di Tomasi di Lampedusa, né il Rossellini storiografo umanista di Viva l’Italia! avevano eluso. Martone su questo tema procede filologicamente. Sceglie assecondando la propria provenienza teatrale. E compie consapevolmente o inconsapevolmente un grave anacronismo collocando nel 1862, l’anno dell’episodio/capitolo finale del film, «L’alba della nazione», la commedia di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca «I mafiusi di la Vicaria» (2) che – come ricordava anche Sciascia nel suo “radicale rifacimento” del 1976 – era stata «rappresentata a Palermo nel 1863 e da allora [era rimasta] nel reperto(1) Cfr. Mario Martone, «Noi credevamo», Bompiani, Milano 2010, pp. XIX-XXI. (2) Più volte ripubblicata, specialmente in concomitanza con l’istituzione a lungo attesa della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia del 1962. Ovvero in Achille Mango (a cura di), «Teatro Siciliano», Stampatori Associati, Palermo 1961, quindi in Giuseppe Guido Loschiavo, «100 anni di mafia»,Vito Bianco, Roma 1962; 1964.

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rio di tutte le compagnie dialettali siciliane» (3). Il rimando, preannunciato in Rasoi – si è visto – consente al siciliano Vincenzo di Noi credevamo di dire «Ah, io nella vita faccio due cose: entro ed esco dalla Vicaria… e poi faccio il teatro». Come Martone. E a tutti in coro, immediatamente dopo, seguendo il testo della commedia, che l’uomo in incognito che cerca e paga per ottenere l’aiuto dei mafiosi «È Crispi. Crispi s’ ’a fa cu’ ’e mafiuse!» (4). La seconda questione, che troviamo in particolare nel terzo episodio, «Angelo», è quella del terrorismo. L’autore, coadiuvato dal magistrato e scrittore De Cataldo, utilizza sibillinamente una terminologia molto libera, volutamente estemporanea, in larga parte inap-

propriata per un ambito come quello risorgimentale. Ma altrimenti appropriata se trasferita sul vero obiettivo, gli anni Settanta e Ottanta, ben più contemporanei. Nel film si parla spesso di “Mazzini”, certo. O di chi per lui in tempi relativamente più recenti. Si usano parole chiave come “clandestinità”, “terrorismo”, “lotta armata”, “irriducibile”, che servono a stabilire con gli eventuali buoni intenditori, spettatori o lettori, una familiarità che trascende l’intorno storico specifico della rappresentazione. Scandagliando attentamente le dichiarazioni, il film, le battute, rileggendo anche le scene non inserite nella sceneggiatura definitiva, sarebbe fin troppo scontato effettuare delle sostituzioni onomastiche lasciando intatta la sostanziale coerenza dei fatti o delle allusioni assai poco “ottocentesche”. Complessivamente l’opera di Martone può infine essere sintetizzata in una idea forte, presa in prestito da Deleuze che la applicava al cinema di Minnelli (5). Contribuisce, se mai ci fosse ulteriore bisogno, a comprendere ciò che da Morte di un matematico napoletano a Noi credevamo l’autore ha cercato (quasi) di dire, nei limiti che si è concesso e gli sono stati finora concessi. Il problema è, appunto, chiedersi «che cosa significa essere imprigionati nel sogno di qualcuno». O chiederlo al diretto interessato. (3) Leonardo Sciascia, «I mafiosi», Einaudi, Torino 1976; 1982, p. 146. (4) Per comodità, esistendo più versioni del film, i dialoghi riportati provengono dalla sceneggiatura edita. Cfr. Mario Martone, «Noi credevamo», cit., pp. 242, 244. (5) Gilles Deleuze, Idée, in «L’Abécédaire de Gilles Deleuze», Édition Montparnasse, Paris, 1996 (ed. it. «Abecedario di Gilles Deleuze», DeriveApprodi, Roma 2005).

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Regia: Mario Martone. Soggetto: Mario Martone, Giancarlo De Cataldo, da vicende storiche realmente accadute e dal romanzo ominimo di Anna Banti. Sceneggiatura : Mario Martone, Giancarlo De Cataldo. Fotografia: Renato Berta. Montaggio: Jacopo Quadri. Musica: Hubert Westkemper. Scenografia: Emita Frigato. Costumi: Ursula Patzak. Interpreti: Luigi Lo Cascio (Domenico), Valerio Binasco (Angelo), Francesca Inaudi (Cristina di Belgioioso da giovane), Andrea Bosca (Angelo da giovane), Edoardo Natoli (Domenico da giovane), Luigi Pisani (Salvatore), Toni Servillo (Giuseppe Mazzini), Luca Barbareschi (Antonio Gallenga), Fiona Shaw (Emilie Ashurst Venturi), Luca Zingaretti (Francesco Crispi), Andrea Renzi (Sigismondo di Castromediano), Renato Carpentieri (Carlo Poerio), Guido Caprino (Felice Orsini), Ivan Franek (Simon Bernard), Stefano Cassetti (Carlo Rudio), Franco Ravera (Antonio Gomez), Michele Riondino (Saverio), Roberto De Francesco (don Ludovico), Alfonso Santagata (Saverio

O’Trappetaro), Peppino Mazzotta (Carmine), Anna Bonaiuto (Cristina di Belgioioso), Edoardo Winspeare (Nisco), Giovanni Calcagno, Vincenzo Pirrotta (gli attori della Vicaria). Produzione: Carlo Degli Esposti, Conchita Airoldi, Giorgio Magliulo, Patrizia Massa per Palomar/Les Films d’Ici. Distribuzione: 01. Durata: 170’. Origine: Italia/Francia, 2010.

Tre ragazzi del Sud Italia, Salvatore, Domenico e Angelo, si muovono tra le ombre del nostro mito fondativo mentre i grandi eventi e le figure più note fanno da cornice. Quattro momenti diversi, costellati di personaggi e di luoghi in cui si dirama la disillusione: La scelta di aderire alla causa repubblicana e il richiamo assoluto della libertà, l’esperienza del carcere e la dialettica del potere («Domenico»), l’attentato a Napoleone III e la violenza insurrezionalista («Angelo») si raccolgono infine nel ritorno al Sud, dove la luce di «L’alba della Nazione» risveglia dal sogno e brucia gli occhi.


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«NEL REMOTO DELLA STORIA» Per una di quelle coincidenze potenzialmente rivelatrici che vengono a determinarsi in frangenti forse non casuali anche nello spettacolo, due operazioni di elevatissimo impegno e straordinario livello, quali il nuovo, attesissimo film di Martone e il monumentale spettacolo teatrale di Peter Stein da «I demòni» di Dostojevskij, hanno finito per proporsi agli spettatori pressoché contemporaneamente (1). Il tema stesso del “terrorismo”, pur non essendone forse il fattore unificante più profondo, rappresenta ben più di una suggestione accomunante le due imprese. Può essere istruttivo chiedersi perché due tra i maggiori registi teatrali europei abbiano sentito, in una determinata congiuntura, di rivolgersi allo stesso romanzo ottocentesco (2). Le “azioni”, in quel contesto, sono fini a se stesse: il lettore deve aspettare centinaia di pagine, e lo spettatore del magistrale allestimento monstre di Stein quasi undici delle

dodici ore di durata, perché si arrivi finalmente agli attentati. Il rapporto esplicito di Martone con Dostojevskij si materializza nell’invenzione dell’immenso personaggio di Angelo, incarnato con impressionante risultato da un altrettanto maiuscolo Valerio Binasco (3). Congiurato con le bombe di Orsini, con caratteristiche di fondo non dissimili da quelle che il collega tedesco attribuiva al suo protagonista, e occupante il capitolo centrale, forse il più originale e suggestivo del film. Venendo al quale, volendo essere minimalisti (o massimalisti?), si potrebbe già riconoscergli a scatola chiusa l’alto merito di aver sdoganato dall’oblio il romanzo di Anna Banti, inducendo finalmente a una sua ristampa gli Oscar Mondadori, dopo anni di assoluta irreperibilità commerciale – peraltro tuttora sussistente – sua e in genere delle opere dell’ispida e scomoda ma grande scrittrice fiorentina. L’argomento non è estraneo al tema, anzi: con-

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sente infatti di acclarare a priori che in un quadro simile l’operazione a lungo e pazientemente perseguita da Martone, De Cataldo e dai loro collaboratori, pur non necessitante di simili motivazioni estrinseche a sostegno, abbia per più versi, francamente, del miracoloso. Cristallina anche stavolta la (peraltro consueta…) onestà intellettuale del regista, denotata nella bella autointervista diacronica finalizzata all’indispensabile libro sul film e fissata da Lorenzo Codelli, che ha avuto il privilegio di seguirne i sei anni di complessa e problematica gestazione: «È stato molto importante imbattermi in un passo del libro “Pianura proibita” di Cesare Garboli incentrato sul romanzo “Noi credevamo” di Anna Banti. Quel titolo mi colpì molto, e mi colpì molto quel che Garboli scriveva. Non saprei spiegare perché, ma già dalle sue parole, istintivamente compresi che il libro di Anna Banti conteneva qualcosa di interessante» (4). «La bellezza di queste memorie», aveva notato Enzo Siciliano «non sta nella loro compattezza di scrittura, che esiste indiscutibilmente, o nella mimesi lievemente ottocentesca che le colora – potresti dirle scritte da uno sconosciuto compagno di Settembrini. Sta nel sentimento di infiammata negatività che le anima da cima a fondo. […] “Noi credevamo”è una vicenda che stimola senza lusingare in nessun modo il lettore. Non lusinga neppure chi vorrebbe sentirsi consolare in certe sue delusioni e amarezze di oggi con ammiccamenti a ieri. Non sarei disposto a vedere nel Risorgimento raccontato da Anna Banti una metafora della Resistenza e degli anni che sono seguiti: metafora che sarà pure presente e voluta» (5). Martone si avvale dell’impegnativa base molto libera-

mente, pur condividendone l’amarissima istanza di fondo: ne trae uno dei tre personaggi portanti (Domenico Lopresti, avo della scrittrice, che nel testo letterario è il narratore sconsolatamente rievocante) e di conseguenza l’intero secondo episodio («1852-1855»), non a caso a lui intitolato: il carcere di isolamento di Montefusco, condiviso col personaggio storico di Poerio e descritto dall’altrettanto “autentico” duca Sigismondo di Castromediano. E qualcosa viene, ma meno organicamente, ripreso anche nell’ultimo: per quanto attiene al “ritorno”, sempre naturalmente di Domenico. Le “aggiunte” sono ancor più determinanti e significative, non solo dal punto di vista meramente quantitativo: i personaggi – tanto “prosciugati” nella diegesi quanto potenti nella resa e nella significazione – di Mazzini, della Belgioioso (sensazionale la scelta di Francesca Inaudi nell’impersonarla da giovane!) e di Antonio Gallenga colti in due diverse età, come di Crispi, pesano più dello stesso Salvatore, il terzo giovane-chiave, la cui presenza è peraltro limitata all’“atto” iniziale che funge quasi da prologo. La faccenda, del resto, Martone, l’aveva già impostata assai bene parecchi anni prima: «In un certo senso l’eredità di Rossellini è la questione centrale del cinema italiano: parlare di lui oggi deve significare parlare anche di noi. Siamo noi cineasti italiani chiamati a fare i conti con quanto ci ha trasmesso questo regista. Esaminiamo la sua eredità. La prima cosa che dovremmo osservare è l’approccio morale di tutto ciò che si va a filmare» (6). A molti anni di distanza, la conseguente conferma, adesso parlando esplicitamente di Noi credevamo realizzato: «Ho sempre pensato di voler fare un film con un impian-


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to rosselliniano. Nel senso che voleva utilizzare, secondo la lezione di Rossellini, gli elementi della Storia in quanto tali, evitando rielaborazioni artificiali. Ad esempio, i dialoghi di Mazzini nel film, per gran parte, derivano fedelmente dai suoi scritti. Parlano con un’evidenza molto superiore a qualunque tentativo di sceneggiare che noi possiamo immaginare». E «l’assunto rosselliniano non è mai venuto meno», neppure nella densa e suggestiva mezz’ora carceraria di «Domenico»: «Ognuno degli attori che ha partecipato a questo episodio, con grande senso corale e collettivo, ha incarnato un personaggio reale e quello che inscenava era storicamente fondato» (7). E su queste tematiche e scelte scatta l’autentico differenziale, il valore aggiunto del film. Martone si riporta esplicitamente – e ha la forza ideativa e l’autorevolezza espressiva per farlo a pienissimo titolo – quella tradizione cinematografica italiana alta (sì, avete letto bene, proprio “alta”: una volta tanto non siamo convocati a occuparci delle tanto osannate “pratiche basse”…). Certo la sua impostazione, così vasta e organica, coerente e integrale, fa impallidire tanto l’accenno polemico sulla Resistenza tradita che Visconti si era limitato, al massimo ad abbozzare, forse per dovere, comunque senza crederci fino in fondo in Senso (1954) (ma la grandezza del film non risiede ovviamente in quello!), o le stesse, più esplicite, immissioni del racconto compiaciuto e ipocrita del colonnello Pallavicino sullo scontro dell’Aspromonte ai convenuti al ballo, o del commento di don Calogero alle scariche di fucileria per le esecuzioni, nel finale di Il Gattopardo (1963). Martone condivide fino in fondo la tesi – plausibilmente esatta – di quanti storicamente rintracciano il momento decisivo nello snodo risorgimentale nella caduta della Repubblica Romana del 1849. E qui l’approccio è assai preciso: individua con nettezza il filone centrale unitario di una consapevolissima “antistoria d’Italia” (proprio in un senso analogo a quello a suo tempo dispiegato da Fabio Cusin) che contrappone filoregi e mazziniani: «Perché è così importante, sul piano storico, questa contrapposizione tra monarchici e repubblicani? Perchè, secondo me, è l’aspetto che contraddistingue tutta la storia d’Italia a venire, e il nostro stesso presente. Questa divisione si è ripresentata in tutte le forme che la nostra storia successiva ha conosciuto, passando ovviamente attraverso fascismo e antifascismo e arrivando fino ai nostri giorni. Un’idea d’Italia monarchica e autoritaria da un lato, e un’idea d’Italia repubblicana e democratica dall’altro. Un dualismo mai sanato» (8). Anna Banti, ha scritto una frequentatrice-collega che la conosceva bene, «non prendeva dal presente aghi e fili, per fabbricare orditi per i romanzi, bensì ricorreva al trapassato remoto, entrava spavaldamente, per dirla con Gianfranco Contini,“nel remoto della storia”» (9). Martone opera in senso insieme affine e opposto, robustamente attualizzante: non a caso dissemina straordinariamente il

film, con un’intuizione che in sé già varrebbe l’assunto, di segnali “anacronistici” rinvianti a un oggi ben più che inquietante. E lo fa credendoci appassionatamente. Lo si vede dal primo all’ultimo fotogramma di quest’opera straordinaria (e vittima, come già ripetutamente Visconti, di un verdetto veneziano – senza nulla togliere alla brava, malcapitata Coppola… – impareggiabilmente risibile) in cui, toccando pagine risorgimentali sideralmente lontane dal risaputo e dall’oleografia, crede fino in fondo a quanto dice. Come ha chiosato felicemente il cronista-testimone Codelli: «Mazzini, Garibaldi, Blasetti, Visconti, Rossellini ci credevano con identica passione» (10). (1) Non è soltanto la presenza di due attori comuni a entrambi i cast, il primo almeno dei quali impegnato in personaggi di stretta analogia: Ivan Alovisio era Stavroghin, il protagonista straordinario dell’allestimento steiniano, ed è il giovane Gallenga “Procida”, che rinuncerà ad attentare alla vita di Carlo Alberto, nel primo “momento” del film. Invece l’eccezionale caratterista Franco Ravera era Lebjadkin con Stein, ed è Antonio Gomez, il terzo attentatore di Napoleone III del 14 gennaio 1858, nella corrispondente pagina di Martone. (2) Martone lo spiega, parlando di «rapporto essenziale» col testo russo: «“I demoni” mi ha colpito molto lavorando a Noi credevamo, nonostante si svolga in un altro mondo, geograficamente e culturalmente. […] Quel capezzale attorniato dai cospiratori invecchiati aveva una cupezza che ricordava “I demoni”, l’altra opera di riferimento» – la prima invocata è «Il passato e il presente» di Aleksandr Herzen – «di cui ho inserito diverse citazioni nei dialoghi del terzo episodio. È di Dostojevskij l’espressione “tetri imbecilli” che ho messo in bocca a Gallenga». E quando Angelo Cammaroto, uno dei tre protagonisti che fungono da fili di sutura dell’intero ordito, parla della «verità assoluta», la fonte resta la medesima: «Le parole sulla verità che Angelo pronuncia alla cena da Bernard, in cui si comincia a parlare dell’attentato a Napoleone III, derivano dai «Demoni». Un monologo sull’assolutezza che da sola poteva spingere a una forma così estrema di lotta» (Mario Martone, «Noi credevamo», Bompiani, Milano 2010, p. XXX). Stein, nel parlare del proprio allestimento scenico, era stato netto: «Dostojevskij anticipò i tempi bui dell'ultimo Lenin, il sangue dello stalinismo e di altri totalitarismi, nonché del terrorismo che ci perseguita ancora oggi. L’attualità sta nell'invenzione del personaggio di Stavroghin, il vero protagonista: non è né nichilista né reazionario. È il vuoto, l’indifferenza, l’assenza di ideologie e di idee. Stavroghin è il vero male anche del nostro tempo […] che pervade le nuove generazioni» (dal programma di sala dello spettacolo). (3) Ma ispirato a quello storico di Giuseppe Andrea Pieri, definito dallo storico Rinaldo Caddeo («L’attentato di Orsini (1858)», Mondadori, Milano 1932) «un triste naufrago della vita» (Mario Martone, cit., p. XXIX). (4) Mario Martone, cit., pp. IX-X. L’analisi di Garboli, precipuamente rivolta a un altro testo bantiano, «La monaca di Shangai», era in realtà stata approntata per un convegno antecedente di un decennio all’uscita della sua ultima raccolta: cfr. Cesare Garboli, Anna Banti e il tempo, in «Pianura proibita», Adelphi, Milano 2002, pp. 79-95, ma prima in Enza Biagini (a cura di), «L’opera di Anna Banti. Atti del Convegno di studi, Firenze 8-9 maggio 1992», Olschki, Firenze 1997, cit., pp. 11-20. (5) Enzo Siciliano, Prefazione, in Anna Banti, «Due storie (Artemisia – Noi credevamo)», Mondadori, Milano 1969, pp. XVIII-XIX.. (6) Mario Martone, Le tracce di Rossellini, «Filmcritica», 471-472, gennaio-febbraio 1997: poi in id., «Chiaroscuri. Scritti tra cinema e teatro», a cura di Ada d’Adamo, Bompiani, Milano 2004, p. 121. (7) Mario Martone, cit., pp. XIX-XX e XXVIII. (8) Mario Martone, cit., p. XI. Incarnato nel personaggio-chiave, volutamente tenuto in seconda fila con modalità memorabili, di Francesco Crispi e nel suo trasformismo evidenziato dal discorso filomonarchico nel parlamento deserto alla fine. Martone lo identifica nel “quarto uomo”dell’attentato a Napoleone III (p. XXXII) e lo vede come un “proto-Mussolini” (p. XXXVI). (9) Grazia Livi, Anna Banti. Il punto di vista di un’allieva, in Enza Biagini (a cura di), «L’opera di Anna Banti», cit., pp. 138-139. (10) Lorenzo Codelli, Mario Martone parla di Noi credevamo, in Mario Martone, cit., p. VII. E Martone: «Gli storici che studiano in maniera approfondita questi argomenti hanno cognizioni precise e ricostruiscono con chiarezza nei loro libri quello che avvenne, ma qualcosa impedisce che questa chiarezza diventi un patrimonio condiviso. Noi italiani abbiamo un’idea approssimativa della nostra storia, priva di qualunque rilievo drammatico. Credo sia per questo che su di essa è calato nel tempo un pesante strato di polvere» (ibidem, pp.VIII-IX).

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PATRIOTI NELLA NEBBIA

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Emiliano Morreale

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Una delle difficoltà di Noi credevamo sta nella sua immediata evidenza di oggetto culturale. La sua indubbia importanza come rilettura del Risorgimento, come film che riempie un vuoto nella cinematografia nazionale, rischia di incanalare ogni discorso su di esso. Un film che è difficile sopravvalutare, anche nelle sue contraddizioni ed esitazioni. Un film importante, che ci mancava. Lo stesso Martone aveva ben presente la difficoltà e l’importanza della propria opera, e ha costruito il film al servizio di essa. Ma lo ha fatto ponendosi il problema di come mettersi in un’impresa sostanzialmente senza precedenti, come costruire una forma che in Italia non c’è mai stata, come rifondare un rapporto con le immagini del passato e con il rapporto tra passato e presente. Lo ha fatto in parte riandando alla lezione del Rossellini televisivo e di Brecht, cioè seguendo una propria genuina vocazione di cinema saggistico. E, si può

aggiungere, rileggendo al suo interno Visconti e il melodramma, utilizzati nello stesso tempo come soggetto e oggetto del racconto, come correlativo delle passioni dei personaggi: come se la musica che ascoltiamo la sentissero anche coloro che agiscono in scena, anzi come se la musica promanasse da loro. E non a caso quello della musica è uno slancio frenato, cui manca qualcosa: il canto, tranne nella scena in cui si ascolta «Pietà, signor». La colonna sonora (quasi esplosivamente fatta di brani in tonalità minore, tragiche e malinconiche ma mai epiche) è in fondo una serie di “introduzioni” a una voce che non arriverà mai. Certo, il risultato è un oggetto complesso e problematico. Non un film perfetto, e come potrebbe? Faticosamente è passato attraverso vari montaggi, e risente di questa riscrittura. Forse fatica a decollare anche nella versione più snella, con tagli alla prima parte che rimane un “allegro” ingarbugliato e però, a


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film concluso, necessario all’aprirsi di quel lungo movimento centrale, un “andante”, e all’esplosione finale che illumina tutto il film, la sua visione della storia. Giacché nel cinema sul passato quel che conta non è la precisione della rievocazione a contare, ma l’esattezza del sentimento della storia. Nei film non c’è mai la storia, ma una filosofia della storia. E quest’ultima, in Noi credevamo, è ben presente, con grande intensità, e si svela poco a poco. Più ancora degli errori di fondo del giacobinismo e dei carbonari, quel che viene mostrato e spiegato è l’impossibilità di un’unità nazionale che ignora le reali contraddizioni del popolo (il film che Visconti avrebbe voluto fare, ma che non ha fatto e non poteva fare). Ma soprattutto, dall’inizio alla fine aleggia un senso struggente di solitudine, degli individui che si aggirano letteralmente tra le nebbie della storia, o tra le sue macerie. Gli ideali e i principi positivi sono fuori campo: Garibaldi non si vede mai, e il momento-clou della Repubblica Romana, che il film indica come grande occasione mancata, è del tutto fuori scena, mentre le azioni politiche e militari che vediamo sullo schermo sono regolarmente fallimentari o insensate. La scena-clou del film, quella che tutti notano, è forse quella dell’apparizione del presente, con il suo casermone contemporaneo, di cemento armato, nel quale i personaggi trovano rifugio. Intanto perché chiarisce gli antecedenti “didattici” del film, Rossellini e Brecht. Ma questo scheletro di cemento ha soprattutto, a ben vedere, non tanto l’effetto di rendere attuale il discorso del film, quanto quello di rendere dei sopravvissuti i suoi protagonisti, di proiettarli in avanti come se nell’attraversare l’Italia li si trovasse al cospetto degli esiti della loro storia. Come Rip van Winkle che si svegliava dopo la Rivoluzione americana, o come in certe atroci visioni della Guerra civile americana di Ambrose Bierce in cui saltano le coordinate spazio-temporali. In quest’ultima parte Noi credevamo diventa anche un film di paesaggi, un film anche visivamente sull’Italia. Da kolossal-kammerspiel, in Cinemascope e mosso in vari tempi e luoghi d’Europa ma quasi sempre claustrofobico, trova la libertà dello sguardo: una libertà che è però solo la possibilità di contemplare, usciti all’aperto, la storia nel suo disfarsi. Per gran parte del film, specie la prima parte, nei rapporti tra i personaggi sembra esistere solo la dimensione politica e civile (anche gli intermezzi galanti della Belgiojoso sono meri appoggi). Ma a partire dalla metà raggiunge un’autentica temperatura emotiva anche una dimensione di “melodramma politico”, nel rapporto padre-figlio, nell’idea di una generazione perduta e nella contemplazione della propria sconfitta. L’alba della nazione (così si intitola il capitolo finale) è in verità il suo aborto.

Il film, nel suo scorrere attraverso i decenni generazioni, sembra progettare il fallimento del proprio didatticismo. La nettezza delle posizioni e delle loro aporie espressa nel salotto iniziale, e nei dialoghi in carcere, si intorbida. Il tema del tradimento torna ossessivo, ma diventa difficile capire chi ha tradito cosa, se non nella visione finale in parlamento. Potremmo quasi dire che, più che un film politico, quello di Martone è anche un film sull’impossibilità di un film politico tradizionale sulla storia d’Italia, un’autocritica del nostro cinema. Le posizioni sono sfumate, sia perché la ferocia sabauda prosegue quella borbonica, le parole del fratello prete hanno certo un fondo di verità, sia perché figure come quelle di Mazzini (per tacere di Crispi o addirittura di Gallenga e simili) risuonano quasi sinistre, spettrali. E in fondo qualcosa di mite e salvifico c’è anche nelle parole di un impolitico industrialotto che viaggia con un cardellino. «Voi dovete venire a combattere con noi. Non avete niente da perdere», gli dicono. «Non è vero», ribatte lui «tengo ’o cardillo». Come non pensare al cardillo addolorato del romanzo di Anna Maria Ortese, spettatore extra-umano ed extra-storico della violenza sugli oppressi? Ma nel senso dolente dello scorrere del tempo, il finale di Noi credevamo libera come ultimo sentimento una rabbia, un’ansia di giustizia e una tensione morale e politica: a schermo nero, mentre scorrono le scritte sui destini dei personaggi, sono questi accenti a risuonare come il motore più profondo dell’ispirazione del regista.

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STORIE MINORI / STORIA PLURALE

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Alessandra Mallamo

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Noi credevamo è la storia contraddittoria e complessa della nascita del nostro Paese, narrata tramite eventi che potremmo dire secondari o, molto più allusivamente,“collaterali” visto che non offrono certo una visione edificante dell’esperienza Italia. La prospettiva meridionalista scelta da Martone, coerente con il romanzo da cui il racconto è tratto (1), descrive un movimento storico che non solo non si è realizzato a partire dal basso, inteso in senso socioeconomico, geografico e culturale, ma che ha finito per lasciare irrisolti, se non a esacerbare, i problemi connaturati al farsi dell’Unità. L’opera muove dunque dal Sud e ritrova le prime immagini nel 1828, quando la repressione borbonica contro gli insorti cilentani instilla nei tre protagonisti l’afflato libertario che porterà all’affiliazione alla Giovine Italia. L’insurrezione non è solo un riferimento utile per comprendere i motivi di un vissuto personale; molto più sottilmente, la sua messa in scena inaugura un particolare procedimento narrativo, che avanza per risonanze e rimbombi e trova il suo centro d’equilibrio in Domenico. Il regista costruisce una struttura che si regge tutta su corrispondenze interne senza mancare di gettare rapide occhiate verso l’esterno. In un certo qual modo, il film si avvita su stesso e, a ogni giro della vite della Storia, a ogni assonanza tra momenti diversi, ritrova un piano di significato e un cortocircuito linguistico: ecco che l’eccidio delle guardie borboniche in apertura riflette macabro quello compiuto dai soldati piemontesi nella parte finale, contro i briganti e le camicie rosse, ecco che il grido «Lasciateli recitare», che alza all’inizio Cristina di Belgioioso a sostegno degli attori nel teatro parigino, fa ancora eco quando gli artisti fattisi combattenti scherniscono Crispi e vengono interrotti proprio da altri Garibaldini. Vi è poi il contrappunto dell’andar via a fare l’Italia e del tornare indietro quando l’Italia è fatta, monarchica. Questi piani, come cerchi nell’acqua, si stringono intorno al protagonista fino a materializzarsi al suo fianco, nella prima e nella terza parte del film, rispettivamente nei personaggi di Salvatore e di Angelo: il primo guarda in faccia la realtà e sceglie la rassegnazione, l’altro fa altrettanto ma le oppone la cecità della violenza. Scelte speculari, inconciliabili e, al contempo, ramificazioni del disinganno che lentamente s’impossessa delle immagini; al centro, come si è detto, la sorte di Domenico.

L’ambiente del carcere è sospeso e rarefatto, alcuni scherzano con una donna dalla feritoia a sbarre ma la sua immagine è sfocata: la detenzione serve a far pensare che non ci sia più un fuori. E mentre le guardie borboniche danno il via a una vera e propria guerra psicologica, i detenuti, tra cui Carlo Poerio e altri noti repubblicani, continuano a decidere, a leggere, a resistere fino a rifiutare la grazia, dimostrando così che il carcere è ovunque. In una realtà politica basata sulla coercizione, non esiste un dentro e un fuori ma solo l’alveo pietroso della dignità, il far muro di se stessi che, coerentemente, non lascia spazio a una messa in scena ricattatoria o sentimentalistica. L’ultima parte del film si porta dietro quest’atmosfera e riguarda ancora Domenico, definitosi ormai come il personaggio concettuale, il cursore che raccoglie tutti i richiami dell’opera portandoli a conclusione. Domenico rincasa, per credere ancora, per raggiungere i garibaldini che dalla Sicilia muovono alla conquista di Roma. L’impresa si conclude disastrosamente sull’Aspromonte, ma già prima abbiamo visto la disfatta: al potere borbonico-feudale si è sostituita la dominazione di un centro su una periferia da redimere, emancipare e, possibilmente, da sfruttare. Alla narrazione della verità si è sostituita l’agiografia celebrativa, incarnata dall’inganno subìto da un giovane compagno sull’innominabile morte del padre. È l’albero «piantato con le radici malate», come dice stanca Cristina da Belgioioso, che però non è l’oggetto centrale della messa in scena. E qui sta la potenza del film, nella capacità di marginalizzare tanto la retorica nazionalista quanto la pedagogia del messaggio che alla prima viene opposta. Sarebbe stato facile costruire una contro-retorica del Risorgimento facendo un’opera epica e mitizzante, e invece, anche nell’affermazione delle stesse tesi che lo sorreggono, nonché nella consapevolezza del protagonista, c’è qualcosa di amaro e profondamente inattuale. Martone sceglie di accordare ai guasti più profondi della storia unitaria, null’altro che poche parole, dette con la rassegnazione di chi produceva la più bella seta di tutta l’Europa e sa di aver perso tutto, più spesso (1) Anna Banti, «Noi credevamo», Mondadori, Milano 1967. (2) I briganti e coloro che li appoggiavano venivano arrestati o uccisi a causa della famigerata legge Pica, che prevedeva la sospensione dei diritti civili ed era stata promulgata dal parlamento piemontese per arginare il fenomeno del brigantaggio nel Meridione.


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non pronunciandole affatto. La verità del Risorgimento resta in bilico nel movimento sinfonico da personaggio a personaggio, scivola via e scompare sotto terra come l’olio: è detta traditrice e viene accoltellata perché inascoltabile, e allora si fa muta, come la madre di Domenico, che non parla da quando il notaio, figura cardine della burocrazia di stato, ha confiscato le terre della casata. Verità, alla fine, spaesata e terrorizzata come i familiari dei contadini uccisi (2) trattenuti dai soldati ai margini del sentiero principale dove passa la carrozza della storia. Tra le ellissi temporali e spaziali, resta lo sguardo fisso del protagonista, la sua consapevolezza silenziosa e caparbia, il rimprovero del fratello «Non dici niente?». Il punto è che dall’ultimo incontro con Angelo nel Cilento, da quel momento insuperabile, Domenico diventa una figura della disillusione, che affonda le sue radici proprio lì, dove si coglie l’esito della fratellanza tra i due suoi compagni: il figlio dei contadini e l’altro, che come lui appartiene a una famiglia ricca e istruita. La separazione insormontabile tra umili e benestanti, tra semplici e intellettuali, è il ritmo che si ripe-

te e risuona in momenti diversi: non la fine di ciò in cui credevamo, ma la disillusione del Noi. Questa è la più dura e inaccettabile, come hanno involontariamente mostrato, obliandola, anche buona parte dei discorsi, storiografici e critici, circa alcune sedicenti forzature interpretative o certi limiti della messa in scena. La reazione ha rivelato invece che nel film è stato messo in gioco l’uso pubblico – condiviso nel Noi – della Storia e del Cinema. A dire il vero, sebbene investa il rapporto tra “mito” e verità, e relativi corollari identitari e politici, l’opera non offre appigli a un uso strumentale. Il procedimento brechtiano scelto del regista destabilizza il basamento emozionale e concettuale: questa instabilità dà musicalità all’opera, si accorda con la colonna sonora, intona la sinfonia delle immagini e non permette allo spettatore di adagiarsi. Noi credevamo è perciò un film storico, a tutti gli effetti, e ci dice che la storia è fatta di vincitori e di vinti, di progresso, ma più spesso di solo sviluppo, la storia, insomma, non è il mito. Ma, non confondiamoci, il cinema non è la storia, il cinema è il (proprio) tempo appreso con l’immagine, e

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quando si parla di un film storico, ci si riferisce necessariamente a un tempo reale e condiviso, a qualcosa che riguarda tutti coloro che ne hanno fatto parte ma che può includere anche chi sta fuori dal quadro. E allora chi è questo Noi, questa specie di doppio infedele che avanza come un’ombra sulla spiaggia di Melito e ci parla dall’ultima scena del film? È la nostra possibilità storica. Non solo la storia possibile, ma la possibilità di fare anche noi, fuori, storia. Permettendo un uso condiviso e popolare del passato, Noi credevamo costruisce sì memoria, ma soprattutto è fatto in modo da costruire collettività, non nell’unità della Storia unica ma nella dialettica democratica che può suscitare il confronto con l’altra verità del Risorgimento. Arriviamo dunque a quello che sarebbe il limite del film: il suo sembrare uno sceneggiato tv, l’essere troppo disponibile per il piccolo schermo (è una produzione Rai). Lo snobismo di certi critici non deve farci dimenticare, com’è stato fatto, il progetto umanistico di autori quali Rossellini e Cottafavi, che hanno guardato in faccia al problema semantico che la televisione pone al cinema e hanno affrontato da questa prospettiva il tema della comunicazione, del sapere, e della storia stessa. In questo senso, Noi credevamo non solo riabilita storie minori, ma fa anche storia minore del cinema e fa politica proprio nel suo essere adatto alla televisione, quella che Cottafavi, lucidissimo sulle perversioni del mezzo, credeva al contempo «miracoloso strumento […] perché è riuscito a rendere molteplice il singolo [corsivo mio] attraverso una comunicazione che si rivolge alla persona» (3). Fantascienza, roba di altri tempi, ora che la televisione è solo reality del dentro della scatola (il carcere?) in un mondo senza più un dentro e un fuori. Sennonché questo modo televisivo di essere dentro del film, coglie «nell’inattualità dell’immagine, la contemporaneità della storia» (4) e si riferisce, ancora, a un’altra storia possibile e negata. E così sul filo tra piccolo e grande schermo trovano spazio la difficoltà che il banale pone all’intellettuale, il piccolo Risorgimento al grande, il Sud al Nord, il quotidiano allo storico. Chi non sa o non ammette in ogni momento l’effettiva coesistenza di tali opposte istanze, non sa che cosa sia un rapporto democratico, né umano, con tutti coloro di cui parla quando dice noi.

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(3) Vittorio Cottafavi, Appunti di regia per le tragedie greche (1958), in G. Rondolino, «Vittorio Cottafavi. Cinema e televisione», Cappelli Editore, Bologna 1980, pp. 125-126. (4) Lorenzo Esposito, Donatello Fumarola, Operazione Tv. Ovvero la produzione televisiva di Vittorio Cottafavi (prima parte: 1957-1967), in «Filmcritica» n. 581/582, gennaio/febbraio 2008, p. 20. Nel loro bel saggio, gli autori si riferiscono, con quest’affermazione, a Cottafavi e Rossellini, ma crediamo che essa sia perfetta per delineare la scia culturale in cui possiamo posizionare il nostro film.

STORIORAMA Tullio Masoni

Mario Martone nasce in teatro; uno dei suoi film più belli, Rasoi (1993), fu “tradotto” dal palcoscenico, e così pure il personaggio interpretato da Carlo Cecchi in Morte di un matematico napoletano (1992). Come testimonia Roberto Abbado, suo collaboratore per la parte operistica di Noi credevamo assieme a Cesare Mazzonis e Michele Dall’Ongaro, nonché direttore dell’esecuzione affidata all’Orchestra della Rai, il regista napoletano conosce bene la lirica: ha allestito la Trilogia Mozart-Da Ponte, la «Lulu» di Berg, due opere di Rossini, «Il ballo in maschera» di Verdi, «Otello» e «Falstaff». Al direttore d’orchestra, per il suo film risorgimentale, aveva chiesto di cercare nel repertorio ottocentesco musiche di carattere introspettivo, struggenti; in altri termini una “colonna sonora”che funzionasse come tale pur offrendo tracce “storiografiche” e di tradizione riconoscibili; nessun trionfo eroico, insomma, e brani esclusivamente orchestrali, a parte il verdiano «Pietà Signore», intonato dal baritono Michele Petrusi. Quanto ai ruoli storici, i celebrati musicisti dell’Ottocento italiano non appaiono da personaggi né da figure (come Cavour, peraltro, e lo stesso Garibaldi) con la sola eccezione di Bellini, presente con «Il pirata», ma anche sullo schermo, in un scena ambientata nel salotto parigino della principessa Belgioioso, dove suona Beethoven al fortepiano. Com’è noto, il finale del terzo atto del «Trovatore» era stato scelto da Visconti nel 1954 per l’incipit di Senso; una sequenza memorabile, la cui enfasi guerriera avrebbe presto incrociato i toni decadenti di Bruckner, cioè il segno della fragilità patriottica dell’aristocrazia risorgimentale e delle sue cadute. Anni dopo abbiamo assistito alla teatralità altisonante e a parer mio esteriore di Allonsanfàn (1974): altra enfasi, moriconiana stavolta, sancita dalla coreografica metafora di un saltarello (l’eterna utopia del riscatto meridionale) sospeso fra epica e musical. Martone ha probabilmente pensato a Visconti, ma cercando di andare oltre; muove cioè dal sentimento di sconfitta che travolge gli ideali di Senso e lo approfondisce in negativo. Con una palese, necessaria differenza: quello che Visconti aveva individuato come un carattere dell’aristocrazia settentrionale, in Noi credevamo sprofonda nel male di una tragedia che comincia al Sud e, per totale, disperato ottundimento, trova riscontro nella Penisola intera e in Europa. Benché cinematografico in senso pieno, Noi credevamo può essere comunque letto in chiave melodrammatica e


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teatrale. Un melodramma operistico (e verdiano, pur se intercalato dal Rossini di «Elisabetta, Regina d’Inghilterra» e del «Guglielmo Tell», e da Donizetti) rappresentato “a rovescio”, cioè con l’esclusione del canto e l’uso commentario o di sfondo di passi orchestrali drammaturgicamente consoni alle intenzioni della regia. Uno “storiodramma”, vorrei dire, che attinge in larga parte al repertorio del Verdi ante Quarantotto (il più cospirativo, forse, più mazziniano) e intreccia l’azione coi suoni del segreto: una violenza viscerale, convulsa, accecata, che attinge dall’«Ernani», da «Attila», dall’onirismo torvo del «Macbeth» e dei «Masnadieri». L’eccezione del «Don Carlo» (opera tarda, del 1867) funge, per così dire, da raccordo “a posteriori”: «L’introduzione sinfonica a “Ella giammai m’amò!», ha lucidamente rilevato Giuseppina Manin «torna con andamento quasi circolare a creare spirali, gorghi di carattere ipnotico…» (1). Quanto al teatro non musicale, il lavoro di Martone e De Cataldo sembra sfociare in una sottesa e tuttavia dichiarata funzione didattica. Penso ai discorsi della Principessa di Belgioioso: puntuali, analitici,“illuminanti”, e ai tanti incisi che spiegano i personaggi o danno forza alle discussioni. Ascoltando dialoghi così logicamente “impostati”si può restare all’inizio perplessi: troppa linearità, troppa “letteratura”, ma se si considerano come parte di un ordito che

regola il visivo della rappresentazione e l’ascolto in una partitura finalizzata a un ordine altro, cioè al filmico, il difetto rivelerà un più ambizioso intento. Uso didattico della parola, dicevo, dunque di certa modalità drammatico-teatrale; enfasi che sfuma fino a tradurre, quasi, un commento fuori campo, funzione dell’antico coro che si affida allo scambio colloquiale, romanzo (romanza) riscritto per la sceneggiatura e aperto a nuove opportunità: «… non ho taciuto né risparmiato nulla», si legge nell’agonico finale del libro di Anna Banti «infanzia, gioventù, famiglia, amicizia, le mie responsabilità e quelle degli altri. Le ho passate al setaccio e non ho rintracciato l’errore in cui siamo caduti, l’inganno che abbiamo tessuto senza volerlo. […] Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo…» (2). Ogni singola componente espressiva si coglie, nel film di Martone, e tutto è “smussato” ; le regole di partenza vengono “tradite”, cioè fuse in un ordine ispirato alla storia del dramma e alla Storia come tale. Di qui, in due parole, un intrico poetico che vale per l’oggi: l’opera nel tempo lontano/vicino e la sua modernità. (1) «Corriere della Sera», 29 agosto 2010. (2) «Noi credevamo», Mondadori, Milano 1967.

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THE SOCIAL NETWORK David Fincher

SCATOLE VUOTE

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Roberto Manassero

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Difficile da prevedere, ma molto probabilmente in futuro The Social Network sarà considerata una delle opere-specchio dei nostri tempi. Un film epocale che ci accorgeremo aver raccontato il proprio presente nella sua qualità più pervasiva e invisibile: la sua assenza. The Social Network è un film sul nulla che ci circonda e sulla totalità che lo propaga. Impotente nell’affrontare la nullità della propria materia, assorbe in un torrente di parole e in un intreccio inesistente l’inconsistenza materiale della rivoluzione apportata da internet e dal web 2.0.

Non è visivamente interessante, non è avvincente da un punto di vista narrativo, non racconta nulla di esaltante: ma nell’evidente inerzia della sua struttura ripetitiva e, all’opposto, nel ritmo eccessivo che la ravviva (fin dalla prima sequenza, con lo scontro di parole tra Zuckerberg e la fidanzata rapido come il botta e risposta di una chat) risiede la sua profonda consapevolezza. The Social Network è un abisso dello sguardo cinematografico di fronte alla profondità imperscrutabile di Internet. In fondo, la genialità di


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Zuckerberg è un dono incomprensibile per i più, una serie di sequenze numeriche e di codici informatici che il cinema non può restituire, se non arrendendosi al suo pieno dominio, alla potenza immaginifica e produttiva della computer grafica. Ma il film di Fincher non è Tron (id., 1982), è un lavoro che viene da lontano e che fonde il legal thriller con l’indignazione liberal anni Settanta e soprattutto, grazie a una spasmodica fiducia nei confronti della parola, con la commedia classica. Non racconta visivamente Internet, ma ne visualizza la realtà inesistente e l’invisibile invasione della sfera privata che ha messo in moto. Perché la natura di Internet è per essenza la sua totalità, il fatto di avere il mondo a portata di dita e dunque di parola. Internet è globale, infinito, impalpabile ma inconfutabile. Esattamente come anticipava Foster Wallace più di vent’anni fa con «La scopa del sistema», romanzo che attraverso un guasto inestricabile alle linee telefoniche, anch’esso infinito,

incomprensibile, impazzito, prospettava la deriva esistenziale della contemporaneità, la compressione della vita individuale in un sistema comunicativo. In quel libro, dove interminabili sequenze di dialogo reggevano quasi per intero la struttura del racconto, il mistero di una donna scomparsa – una donna wittgensteinianamente convinta che il mondo sia parola e che la parola sia l’unica possibile forma di interpretazione della realtà – si risolveva con la scoperta di una dissoluzione del corpo umano nel calore a trentasei gradi e nove delle linee telefoniche. I tunnel dei cavi del telefono inghiottivano persone e parole e lasciavano al testo lo spazio bianco di un’ultima battuta incompleta («– Puoi fidarti di me, – dice R.V., guardando la mano di lei. – Sono un uomo di»), segno di un parola assente, dispersa nella scioccante vastità dello spazio bianco e per questo totale, tutto e negazione della sua totalità. David Fincher, da parte sua, alle prese con la perfetta e verbosissima sceneggiatura di Aaron Sorkin, condanna il suo film ad assumere l’incertezza del cinema di fronte alla comunicazione diretta dei social network, cercando di recuperare con la foga della parola un’immediatezza che sa di non possedere. Un’operazione non diversa da quella tentata con Zodiac (id., 2007), che incorporava l’estetica sciatta e traballante delle immagini anni Settanta per rivivere il periodo in cui operava il serial killer inesistente, o con The Curious Case of Benjamin Button (Il curioso caso di Benjamin Button, 2008), che restituiva in termini visivi il sentimento di un secolo e la sua memoria (la Prima guerra mondiale, la Russia sovietica, Tennessee Williams, From Here to Eternity [Da qui all’eternità, 1953], The Wild One [Il selvaggio, 1953]). Con The Social Network, invece, di fronte alla dimensione umana eppure inafferrabile dei rapporti virtuali, Fincher rinuncia alla concretezza del cinema, annullando la fisicità dei protagonisti (come il web annulla sempre e comunque il corpo, trasformandolo in icona) e rendendoli scatole vuote che si sparano l’uno contro l’altro parole su parole. Tutto questo, naturalmente, a partire da una contraddizione primigenia ancora più dolorosa e decisiva di quella che separa il cinema da Internet: quella, cioè, che salda la virtualità dei rapporti creati dal web con la solitudine esistenziale di Zuckerberg, persona astiosa e incarognita che nel film mette in pratica l’azzeramento delle proprie amicizie per diventare il pifferaio di Hamelin delle nostre. Stupito e indignato dalla parabola del suo incredibile successo, The Social Network è il solo racconto per ora esistente sul potere senza volto di Internet. La vicenda di Zuckerberg, il quale, al di là della veridicità del ritratto imbastito da Sorkin, resta un nerd trasformatosi in milionario, incarna una variante di sogno

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americano inedita e inquietante, totalmente interiorizzata e in cerca di un’affermazione che sfugge ai tradizionali canoni dell’ambizione: non potere economico, lusso o donne, ma controllo totale degli altri attraverso l’assorbimento della loro identità. Come Howard Kane con la carta stampata o i tycoon del cinema e della tv, ma con un mezzo che consente di allestire concretamente una dimensione altra – una second life – dove essere padroni assoluti delle vite altrui. Passivo, inerme e calcolatore, Zuckerberg controlla con le sue dita le nostre amicizie virtuali, così come noi crediamo di controllare quelle reali. Non diverso dal fascista novecentesco di Post mortem (id., 2010), eroe senza qualità che godeva del proprio potere, è semplicemente un fascista contemporaneo, un volto pulito che ha conquistato, insieme a pochi altri, un mondo che consideriamo presente, ma che in realtà non esiste o esiste solo grazie al nostro consenso. Se dieci anni fa simili inquietudini globali avevano dato vita a Matrix (id., 1999), ora le cose sembrano peggiorate: il virtuale riscatta la realtà, fiumi di denaro ne giustificano l’esistenza e in giro non si vedono nemici da combattere, ma solo sudditi lieti di affidare a uno sconosciuto i loro dati personali.

THE SOCIAL NETWORK David Fincher The Social Network

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Titolo originale: id. Regia: David Fincher. Soggetto: dal libro «Miliardari per caso» di Ben Mezrich. Sceneggiatura: Aaron Sorkin. Fotografia: Jeff Cronenweth. Montaggio: Kirk Baxter, Angus Walli. Musica: Trent Reznor, Atticus Ross. Scenografia: Donald Graham Burt. Costumi: Jacqueline West. Interpreti: Jesse Eisenberg (Mark Zuckerberg), Andrew Garfield (Eduardo Saverin), Joseph Mazzello (Dustin Moskovitz), Justin Timberlake (Sean Parker), Rooney Mara (Erica Albright), Malese Jow (Alice), Rashida Jones (Marylin Delpy), Max Minghella (Dyvia Narendra), Brenda Song (Christy), Patrick Mapel (Chris Hughes), Calvin Dean (il signor Edwards), Armie Hammer (Cameron Winklevoss), Josh Pence (Tyler Winklevoss), John Hayden (Howard Winklevoss), Steve Sires (Bill Gates). Produzione: Dana Brunetti, Ceán Chaffin, Michael De Luca, Scott Rudin per Trigger Street Productions/Scott Rudin Productions/Michael De Luca Productions/Relativity Media. Distribuzione: Sony. Durata: 120’. Origine: Usa, 2010.

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Coinvolti nella nascita di Facebook ci sono Mark Zuckeberg, il brillante studente di Harvard che ha ideato un sito web che avrebbe ridefinito il nostro tessuto sociale; Eduardo Saverin, un tempo amico intimo di Zuckerberg, che ha dato il capitale iniziale per la nuova società; il fondatore di Napster,

Sean Parker, che ha presentato Facebook ai capitalisti della Silicon Valley e i gemelli Winklevoss, i colleghi di Harvard che hanno sostenuto che Zuckerberg avesse rubato loro l’idea, denunciandolo. Ognuno di loro ha il suo racconto, la propria versione sulla storia di Facebook, che porta alla descrizione del più grande successo del Ventunesimo secolo. Una sera d’ottobre del 2003, dopo aver appena rotto con la sua ragazza, Mark entra nei computer dell’università per creare un sito che funga da database di tutte le ragazze del campus universitario, confrontando poi le foto a due a due e chiedendo all’utente quale sia la più carina. Il sito viene chiamato “Facemash”, e come un virus invade l’intero sistema informatico di Harvard generando polemiche sulla presunta misoginia del sito e rendendo Mark colpevole di aver intenzionalmente violato la sicurezza, i diritti e la privacy personale. Eppure in quel momento è nata l’idea di fondo di Facebook. Poco dopo, Mark lancia il sito thefacebook.com, che a macchia d’olio si diffonderà sui computer di Harvard, arrivando alla Silicon Valley e successivamente in tutto il mondo. Ma in questo caos si genera un conflitto passionale, su come sono andate le cose, su chi effettivamente meriti il riconoscimento per questa che è chiaramente un’idea vincente del secolo, ma che dividerà degli amici fino a condurli ad una battaglia legale. (dal pressbook del film)


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LA RETE CON/DIVISA «I’m trying to make the World a more open place by helping people connect and share». (Mark Zuckerberg sulla sua pagina personale di Facebook) «La realtà non esiste, l’hanno inventata gli uomini per i loro scopi». (Angelo Fiore, «Un caso di coscienza»)

Cosa hanno in comune Antonio Mancini (detto “Accattone”), nel nucleo storico della Banda della Magliana, e Mark Zuckerberg, l’inventore di Facebook? Per entrambi è l’esclusività il vero motore del mondo. Questione di marketing, inevitabilmente, di saper(si) vendere: «Devi conoscere le persone per poter accedere alle diverse pagine, una specie di invito», dice lo Zuckerberg di David Fincher. Concetto semplice, vecchio come il mondo, eppure ancora capace di ruotare destini e accomunare universi apparentemente antitetici come quelli di un temibile criminale e di un nerd asociale. E soprattutto in un mondo irreale e incorporeo come quello di Internet, dove i postulati teorico-tecnici della Silicon Valley trasformano il “sapere” in “oro”, è meraviglioso constatare quanto ancora sia importante, per non dire fondamentale, questo semplice concetto di “esclusività”; ed è innegabile che l’intero sistema capitalistico,

soprattutto la cosiddetta new economy, si basi essenzialmente su tutto ciò. Non è un caso poi che all’interno dello stesso The Social Network si trovino riferimenti a bizzeffe sul tema. Il più illuminante è senza dubbio il caso di Victoria’s Secret, il più celebre marchio di lingerie femminile al mondo, inventato da un uomo desideroso di acquistare capi di intimo per la moglie senza doversi per forza di cose sentire un pervertito. Ma Roy Raymund, colui che inventò Victoria’s Secret, non ci credette fino in fondo, (s)vendendo l’azienda per una cifra irrisoria rispetto al valore che la stessa arrivò ad assumere qualche anno più tardi (più di cinque miliardi di dollari di fatturato) salvo poi pentirsene e concludere la propria esistenza buttandosi di sotto dal Golden Gate Bridge di San Francisco. Inutile dire che quello in cui sbagliò Raymund fu proprio “l’esclusività”: si accontentò di qualche botteguccia in giro per gli States, mentre chi rilevò la proprietà puntò tutto sul creare un marchio che fosse (quasi) irraggiungibile, portato in giro da top model i cui corpi erano ambasciatori della bellezza. E milioni di donne (ma forse più uomini…) hanno senza dubbio pensato che comprare un capo di Victoria’s

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Secret desse immediatamente l’accesso a un mondo esclusivo, fatto di bellezza e di chissà cos’altro. Premessa lunga e doverosa, solo apparentemente fuori tema, ma che ci permette di delineare almeno un tassello: The Social Network è la più riuscita pellicola che sia mai stata realizzata sulla vacuità dell’era di Internet, offrendoci uno specchio fedele nel quale guardare la nostra società destituita di ogni legame spaziotempo e soprattutto di quei rapporti umani di cui Facebook si fa, in qualche modo, promotore. Quello di Fincher magari non sarà un capolavoro, ma è senza dubbio l’atto cinematografico più denso di “segni” dell’era del web 2.0 (e con basi nel già caldo tema di discussione del 3.0) e che ha molti punti in comune con il pensiero teorico di uno dei più importanti sociologi viventi (Zygmunt Bauman) e la sua “modernità liquida”: nella “agorà” (leggi “bacheca”) di Facebook il privato diviene magicamente pubblico, proprio come nei talkshow presi in considerazione dal pensatore polacco nel suo più celebre testo. E se è vero, come è vero, che Facebook rappresenta senza ombra di dubbio il centro di un “nuovo”sistema di potere, difficilmente catalogabile come tutte le nuove strutture, ci sarebbero almeno altri due esempi sui quali ragionare per avere un quadro più completo della situazione. Uno è quello di Wikileaks, che nel momento in cui scrivo è probabilmente (tranne che in Italia, per ovvie ragioni politiche ma anche per una sostanziale quanto a parer mio evidente cecità, nella migliore delle ipotesi, del

giornalismo/opinionismo politico nostrano) il tema centrale di ogni discussione intorno al web. Nato sotto la spinta di alcuni hacker, il sito noto per aver divulgato materiali coperti da segreto è la dimostrazione di almeno una evidente realtà: il potere della rete è oramai al suo apice e da qui in poi non è assolutamente un azzardo affermare che si proverà a fermarlo a ogni costo (e il primo step è la decisione dell’arresto del guru Assange, prima negata dalla Svezia e poi, in seguito alle pressioni dell’illuminato Obama, ecco arrivare un mandato di cattura internazionale). Non c’è poi da stupirsi che gli stessi dirigenti di Facebook abbiano dichiarato guerra a Wikileaks, soprattutto agli hacker che hanno contrattaccato i siti di alcuni “nemici” dichiarati dell’organizzazione, visto che l’azienda di Zuckerberg si è dimostrata tra le più conservative del pianeta new-media. Il secondo esempio, forse più interessante perché poco studiato (almeno da noi), è quello del sito «Nowthatsfuckedup»: ideato da Chris Wilson, un ventisettenne della Florida nel 2003, il sito aveva come obiettivo quello di permettere agli utenti iscritti di scambiare o scaricare materiale erotico amatoriale. Se ci fermassimo qui, «Nowthatsfuckedup» (non è un refuso di stampa, è scritto proprio così) non sarebbe niente di più di un tassello come un altro della cosiddetta Porn Revolution che ha trasformato l’amatoriale in una miniera d’oro nelle valli della rete. Wilson però fa un passo in avanti di una certa importanza e lì nasce uno “scarto” fondamentale: in quei giorni di inizio millennio


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l’offensiva americana in Iraq è entrata nel vivo e, visto che gran parte degli utenti del sito sono soldati di stanza in Medio Oriente, il gestore avanza per loro una singolare proposta. Scambiare le loro immagini “vere” di guerra con quelle porno che interessano ai soldati, dare dunque un accesso di tipo “vip”, esclusivo, a quei soldati che aspirano a qualcosa in più di qualche anonima ragazza mezza nuda («VOGLIAMO L’AZIONE», scrive/urla uno di loro). Si scatena la bagarre: centinaia di soldati americani cominciano a inondare il sito di immagini shock in un crescendo horror senza precedenti: corpi martoriati, kamikaze a brandelli, checkpoint utilizzati come poligoni, raccapriccianti tiri al piccione con ragazzini per le strade di Baghdad e così via. C’è da considerare che per ottenere il supporter access ci sono due modalità: pagare oppure mandare materiali il più possibile cool. E qui ritorna Facebook, perché il senso è più o meno lo stesso: come suggerisce Gianluigi Recuperati, nell’introduzione al libello dedicato alla questione «Nowthatsfuckedup», «Come una banca, Wilson vende ciò che accumula dopo aver accumulato quel che vende» (1). A ben vedere è lo stesso concetto alla base di Facebook. Fincher (intelligentemente) insiste molto su questo tasto, parlandone a proposito degli albori del social-network più famoso del mondo: l’ipotesi di introdurre pubblicità all’interno del sito viene immediatamente scartata da Zuckerberg stesso. Le ragioni sono due, entrambe già sviscerate in queste righe: accumulare più materiale possibile (ovvero dati sensibili, utilissimi per le pubblicità…) per poter poi rivendere meglio l’intero prodotto e lasciare per il maggior tempo consentito l’idea di essere in un certo senso in un luogo “esclusivo” (ritorna il concetto), senza quei due banner da “sfigati”. Facebook in definitiva ingloba tutto: è un social network, un aggregatore, un motore di ricerca, tra poco anche servizio mail, pronto allo sbarco in Cina (unico grande paese al mondo a essere ancora privo dei suoi uffici, ma Zuckerberg in persona sta per provvedere, anche grazie alle due ore di corso intensivo di cinese che si “regala” appena alzato la mattina…) e in borsa (unica grande società a non essere ancora quotata), ma soprattutto la manifestazione vivente di un capitalismo che unisce la tradizione (le regole finanziarie che ne sono la base) alla new-economy (utilizzo dei nuovi media su tutti). Ecco perché parlare di Facebook significa parlare di questo mondo in cui la struttura sociale è tutto, raccontando al tempo stesso di una storia americana esemplare, molto più di una semplice parabola dell’ultimo e più famoso dei self made men. Tornando finalmente in un territorio più propriamente cinematografico, dal quale mi sono progressivamente allontanato (forse perché il cinema di questi tempi certe escursioni quasi le abiura?), è interessante

osservare come The Social Network sia una pellicola che, oltre a fotografare lucidamente lo “stato delle cose” (un coming of age di una nuova generazione, verrebbe da dire), riesce come abbiamo visto anche grazie ad alcuni esempi a rendere fattibile quella compenetrazione tra “Sogno Americano” e “sete di potere”, vista soprattutto da una logica di “esclusività” e di “network”. Binomio che ha segnato, direi indelebilmente, l’immaginario (questo sì) cinematografico statunitense da Griffith in poi e che in qualche modo apparenta idealmente The Social Network a quelle (poche) pellicole capaci di ricreare quella weltanschauung che troppo spesso sfugge sotto gli occhi dei teorici (salvo ritornare sotto forma di “rilettura” qualche decennio dopo…). Citizen Kane (Quarto potere, 1941) di Welles (il cui titolo di lavorazione non a caso era American [Dream]), ma anche il lumetiano Network, appunto, il “sistema” (lì televisivo) (interessante notare l’etimologia di Al-Qaida, l’organizzazione terroristica – fantomatica? – di Osama Bin Laden, il cui nome deriva dall’arabo qaida che significa “fondazione” o “base” e può riferirsi sia a una base militare sia a un termine informatico come “database”). Sono andato ancora una volta fuori discorso, ma The Social Network è questo, un altro discorso. Tra una ventina d’anni magari ne riparliamo. (1) Gianluigi Ricuperati (a cura di), «Fucked Up», Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2006.

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LES PLAGES D’AGNES Agnès Varda

Nel ventre della balena Angelo Signorelli Titolo originale: id. Regia e sceneggiatura: Agnès Varda. Aiuto registi: Benjamin Blanc, Julia Fabry. Fotografia: Julia Fabry, Hélène Louvart, Arlene Nelson, Alain Sakot, Agnès Varda. Montaggio: Baptiste Filloux, Jean-Baptiste Morin. Musica: Joanna Bruzdowicz, Stéphane Vilar. Scenografia: Franckie Diago. Suono: Olivier Schwob, Emmanuel Soland. Con: Agnès Varda, André Lubrano, Blaise Fournier, Vincent Fournier, Andrée Vilar, Stéphane Vilar, Christophe Vilar, Rosalie Varda, Mathieu Demy, Christophe Vallaux, Mireille Henrio, Didier Rouget, AnneLaure Manceau, Gérard Ayres, Jim McBride, Tracy McBride, Patricia Louisianna Knop, Zalman King, Richard Scarry, Eugene Kotlyarenko, Jane Birkin, Constantin Demy, Joséphine Demy, Yolande Moreau, Alain René. Produzione: Lisa Blok-Linson, Agnès Varda, Thomas E. Taplin (prod. esec.) per Ciné-Tamaris/arte France Cinéma. Distribuzione: Lab80 Film/Film Festival del Garda/Federazione Italiana Cineforum. Durata: 110’. Origine: Francia, 2008. Tornando sulle spiagge che hanno segnato la sua vita, Agnès Varda inventa con Les plages d’Agnès una specie di auto-documentario. Agnès si mette in scena in mezzo a brani dei suoi film, immagini e reportage. Ci fa partecipare con umorismo ed emozione ai suoi esordi nella fotografia di teatro, quindi alla sua carriera di regista innovatrice negli anni Cinquanta, alla sua vita con Jacques Demy, al suo impegno femminista, ai suoi viaggi a Cuba, in Cina e negli Stati Uniti, al suo cammino di produttrice indipendente, alla sua vita di famiglia e al suo amore per le spiagge.

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Una cosa ci insegna Agnès Varda, che ci vuole intelligenza, ironia e garbo per raccontarsi, per esprimere le proprie emozioni, i sentimenti che hanno permeato una vita intera, le relazioni più intime, perché solo con l’intelligenza possono diventare quella piccola storia che è parte di un patrimonio e di un’epoca comuni. Non ha paura, Agnès Varda, di mettersi in gioco davanti alla macchina da presa, di mettersi in scena, attraverso i ricordi e le testimonianze, attraverso la finzione. La memoria è commozione, sofferenza, gioia, ma è anche creatività, immaginazione, cinema. La memoria è fatta di parole chiave, di scelte estetiche, di fissazioni, di sdoppiamenti. L’incipit del film è una variazione di riflessi: gli specchi, che Agnès sfoglia come le pagine di una diario, restituiscono le immagini di un set in formazione. Ma, forse, più degli specchi contano le cornici, l’atto dell’inquadrare, di costruire dei bordi, di scegliere una determinata porzione di realtà, di concentrarsi su qualcosa che è estratto dal mondo circostante e, in questo modo, acquisisce un’altra vita, un altro modo di essere. La scena del quadro costituito dalla struttura di tubolari che, oltre al contorno, forma una prospettiva in profondità, è alquanto eloquente. I surfisti che passeggiano sulla spiaggia orizzontalmente, quando entrano nel rettangolo della struttura, quello più piccolo, più lontano rispetto all’osservatore, prendono una diversa connotazione, un diverso rapporto con il mare dello sfondo e con l’osservatore che li sta guardando perpendicolarmente. Passano dalla “trasparenza” della vera inquadratura a un differente rapporto di rappresentazione: cambiano le proporzioni ma, soprattutto, cambia il modo di guardare: è come se entrassero in scena veramente. Instabilità, variazioni angolari, cambi di posizione e di sguardi, ricerca delle immagini giuste. Il ritorno sulla spiaggia della prima infanzia non ha nulla di nostalgico. A distanza di tempo, le tracce del passato non ci sono più: esso può, così, trasformarsi in un luogo cinematografico, dove portarsi gli strumenti del mestiere e, insieme, le impalcature della propria visione. Agnès si predispone a un viaggio nel tempo, ma quella che lei chiama, con una simpatica unione di parole, autocinedocumentario, è

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l’esperienza dell’io che si misura con i passaggi che la storia gli ha apparecchiato, con le persone che hanno intersecato il suo essere nel mondo e che egli ha trasformato in veri e propri personaggi di una rappresentazione che dura tuttora, con le culture che lo hanno reso plastico e aperto all’altro da sé, con i paesaggi, geografici estetici letterari filosofici, che lo hanno accolto e riempito di doni, con il cinema e i modi di porsi in esso e in esso dispiegarsi come autore. Su quella spiaggia inaugurale sono collocati elementi di interrogazione, le basi di un pensiero che si fa inarrestabile e intenso di argomenti e riflessioni. La spiaggia, o meglio le due spiagge di Knokke-leZoute in Belgio e Sète in Francia, sono innanzitutto l’origine, l’infanzia, la famiglia, l’esodo, il vento, l’acqua, la vela, la luce, la soglia. E questi due luoghi sono i preludi di altre spiagge: l’America, ma anche Parigi, perché anch’essa ha la sua spiaggia, che fornirà la materia prima per creare una spiaggia personale nel cuore stesso della città, davanti alla porta di casa, come a dire che, in fondo, tante fantasie possono farsi materia, spazio, intrusione, gioco, realtà. L’essenziale è volerlo, deciderlo, costruirlo, credere che ciò abbia un senso, che può essere oggetto di rappresentazione, parte del racconto, proiezione condivisibile della propria interiorità. Rue Daguerre – un nome che traduce l’incombenza del destino – e la casa, quella che diventa quasi la vita stessa, la

scelta fatta con la persona amata, la sua trasformazione nel corso degli anni dalle prime condizioni di degrado ma tanto amate e mai dimenticate dopo i successivi interventi, non semplici ristrutturazioni, ma sovrapposizioni di affetti, di convivenze, di intimità, di nuovi arrivi, di ospitalità, di creatività. La crepa nel soffitto, come la ruga che segna un volto che ha tanto visto e vissuto, che Agnès osserva con indulgenza, con reticenza, con simpatia, con un leggero cedimento alla malinconia. C’è stata un’altra casa nella sua vita, dove ha trascorso i primi anni e dove ritorna, chiamata dal proprietario, un simpatico collezionista di trenini elettrici. Gira per quelle stanze, racconta cosa vedeva dalle finestre, parla di un laghetto nel piccolo giardino, che c’è ancora e che è vuoto, di un ponticello che non c’è più; ma l’atteggiamento è da entomologo, la mente distaccata. Quella casa non le appartiene più, è solo una sopravvivenza architettonica, piacevole da rivedere ma ormai lontana, come in una cartolina riposta nel cassetto. Quando la porta si richiude, come unico ricordo rimane la cordialità della coppia che ci abita e l’assenza di tracce che richiamino una frequentazione passata. Il ricordo, per Agnès Varda, è un’altra cosa. Le spiagge sono contemporaneamente una presenza carica di richiami e una regione mentale: ritornare a esse è un’affettuosa vacanza, uno spazio da condividere, mano nella mano, con la persona cara. E sono anche una residenza della


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creazione, un ambiente ideale per il lavoro dell’immaginazione. La spiaggia è come un piccolo universale, che porta con sé atteggiamenti e sensazioni. Lo sguardo verso l’altrove, l’incanto dei rumori e delle variazioni cromatiche, l’inatteso, felice o tragico che sia, che può arrivare da un momento all’altro, la nudità originaria e sacrale, la sessualità senza pudori, il passaggio per un altro mondo, un altro sistema sociale, un altro modo di fare cinema: queste sono alcune situazioni, che diventano cultura, simbologia, devozione, viste dalla regista francese ora con ironia, ora con fantasia, ora con spirito indagatore. La spiaggia come scenario per un’esibizione di trapezisti, di fronte al mare: contenitore di libertà, luogo di respiro, universo d’aria che accoglie forme in movimento, fotogrammi di eleganza e di armonia, impressioni di luce e di colori. E poi c’è Jacques, la persona più amata, più accettata, più appartenuta: una convivenza di emozioni, attrazioni, pensieri, interrotta per sua decisione, ricomposta dal suo ritorno, come per una parentesi necessaria, che era nell’ordine delle cose. La terribile notizia della malattia, la decisione di usare un “affettuoso silenzio”, il suo corpo che man mano disegna l’imminenza della morte, gli occhi scavati che con straziante dolcezza guardano la donna che li sta filmando, arrendevoli ma ancora intensi d’amore sono lo specchio di una commozione discreta, delle lacrime appena percettibili che Agnès non riesce a trattenere. L’esistenza condivisa anche attraverso il cinema: Jacques, ormai stanco, acconsente che un film, Garage Demy, racconti la sua infanzia, probabilmente perché sa che la donna che ama può dire il vero su di lui, può, sebbene per mezzo della finzione, restituire i caratteri della sua esistenza. E la malattia, come dicono alcuni che hanno partecipato alla realizzazione del film, diventa parte integrante del progetto e le riprese la maniera di stargli accanto il più a lungo possibile. Parlare di questo film è l’occasione per Agnès di riflettere sulla costruzione del film stesso e sull’utilizzo del cinema come ricostruzione diretta e indiretta della biografia di una persona. Le parole di Jacques, la messa in scena dei suoi racconti, i film da lui diretti come archivi per risalire alle situazioni e agli sguardi della sua vita, la verifica diretta… e una crudele coincidenza: il film è terminato pochi giorni prima della morte. È un po’ quello che Agnès sta facendo con Les plages: anche qui le situazioni reali o ricostruite trapassano, quando non sono precedute, nelle sequenze dei film girati da lei e la cosa riguarda i paesaggi e gli oggetti del presente, le persone intervistate, le fotografie, i filmati di famiglia: tutto ciò che costituisce gli archivi – nel senso profondo e articolato che a questi insiemi dinamici attribuisce Marguerite Yourcenar – accumulati nell’arco di un’esistenza intera. Ogni ricordo ha bisogno, nel cinema della Varda, di un indizio, di una pista, di un oggetto che in qualche modo gli dia vita, lo trasformi in un’occasione di racconto cinematografico, in uno specchio che riflette associazioni, consonanze, analogie, ribaltamenti. Il ventre della balena,

forma abbozzata e simile a un’enorme sagoma gonfiata, accoglie un’Agnès più odalisca che Giona, poco incline agli adescamenti dell’inconscio, più attratta dai paradossi che si formano nella varietà delle cose, negli accostamenti del collage (Magritte docet!). Ritrovamenti casuali, acquisti, ripostigli, bancarelle, marchés aux pouces, appropriazioni, familiarità: le cose che si sono liberate delle proprietà e dagli usi che le hanno fatte tali e quali noi le vediamo, che sono un invito per la nostra sensibilità, che sono come uscite dalle stanze del tempo e ora sono alla portata di tutti, per eventuali e nuove trasmigrazioni affettive. La vecchia foto appesa al muro non è parte della storia di famiglia, ma è di due sconosciuti; tuttavia, quei personaggi tornano a parlare, a dire il passato, che è come universale, che appartiene anche a noi che li abbiamo tolti dal buio dell’invisibile. Il film è un continuo interrogare la memoria e le sue traiettorie labirintiche: il vecchio e il nuovo, il cinema del passato e le nuove espressioni consentite dalla tecnologia. Finestre che si aprono nell’inquadratura, apparizioni che si formano all’interno di cornici presenti nell’ambiente: il volto dell’uomo amato, i figli e i nipoti che danzano, lo sguardo di Agnès che li immagina per noi, la dolcezza comunicata attraverso la “facilità” della manipolazione digitale. Il privato, l’interiorità che si impastano di materia, di incontri, di rappresentazioni, di echi, di gesti politici, di persone che hanno condiviso tratti di strada nella mappa complicata della propria, mai interrotta, formazione artistica e umana. La vivacità di questa donna ottantenne sta in una curiosità instancabile, in un’agitazione istrionesca, in una furbizia discorsiva che, come accordi musicali, fanno sentire la mente al lavoro, l’emotività che illumina i paesaggi, che non sono solo i dati fenomenici entro cui la memoria si ricompone, ma depositi di significati, di forme che affiorano, di inizi inattesi. E infine, ma c’è sempre stata, fin dalle prime inquadrature, scivolando tra le cose che non esistono più, tra coloro che se ne sono andati, tra i ricordi di come si era un tempo e le amnesie di oggi procurate dalla sofferenza dell’età, tra le onde che continuano a smuovere la sabbia, tra le ideologie sgretolate, è ancora la morte che dà l’ultimo tocco, che tiene per mano Agnès, crudele ma anche tenera, perché conserva le vite interrotte alla continuità degli affetti: in essi dimorano le infinite e imprevedibili possibilità che quelle stesse vite non hanno potuto essere. Agnès semina di rose e di begonie, due fiori solari, le parole che abbracciano i suoi personaggi, i compagni della sua vita, che ha fotografato e a volte filmato; è come un rito, un gesto di fedeltà, una cerimonia pagana. Un congedo che può ripetersi all’infinito, come lo sguardo che si getta su un’istantanea, ora di sfuggita ora più insistito, ma ogni volta esso fa risuonare una lontana, ma intatta presenza. In fondo, anche questo film è una successione di Daguerréotypes: una sorta di quartiere dell’esistenza, popolato di tutto ciò che è rimasto nel ricordo, aperto all’imprevedibilità di ciò che comincia proprio adesso, continuamente.

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Le parole per dirsi Giampiero Frasca

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«Io… io dentro di me sono cosi bella, come una ragazza della pubblicita di uno spot e arriva da me uno in macchina, uno che li somiglia al figlio di quel signore là che anno mazzato tanto tempo fa quando era presidente o a Tom Cruise – o unaltro come questi che si ferma colla macchina e io salto su come alla tele […]». (Sapphire, «Precious»)

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Precious è una vicenda talmente cruda da sfociare in una rappresentazione iperbolica (benché assolutamente verosimile), che si origina dall’attenta osservazione di Ramona Lofton, in arte Sapphire, per una decina di anni insegnante nelle scuole di alfabetizzazione di Harlem e del Bronx. Precious si pone quindi in qualità di exemplum: una storia come tante possibili in ambienti degradati nei quali la marginalità rappresenta la regola e l’assistenza statale l’obiettivo per rimanere agganciati a una grigia routine quotidiana. Un soggetto che nei suoi elementi essenziali (incesto, maltrattamenti, analfabetismo, complessi fisici, tentativo di riscatto attraverso l’acquisizione culturale) potrebbe far pensare all’ennesimo racconto di famiglie disfunzionali e accessi melodrammatici, ma che nella sostanza rappresentativa si libera dai cliché attraverso una messa in scena strutturata in più livelli pronti a intersecarsi per produrre uno sviluppo articolato e atipico. Non che la componente mélo sia estranea, tutt’altro. Anzi, è proprio grazie a una scena di grande intensità patetica che Mo’Nique, nel ruolo della madre di Precious, Mary, si è aggiudicata l’Oscar per la miglior interpretazione da non protagonista (realtà, quella di Mo’Nique, non lontana da quella vissuta in prima persona, dal momento che la stessa attrice fu vittima, durante l’infanzia, di abusi da parte del fratello), ma la sostanza drammatica, pur pervadendo l’intera storia, è solo uno dei molteplici aspetti di cui si nutre una pellicola che della sua accurata costruzione fa il suo punto di autentica forza. Nessuna tesi da dimostrare, ma un percorso (obbligatorio) di formazione in grado di condurre a una nuova consapevolezza, la quale, tuttavia, potrebbe in ogni caso non far rima con salvezza. Il punto di partenza è il romanzo di Sapphire, si diceva, un diario intimo della protagonista, Claireece Precious Jones, sedici anni, corpulenta ragazza di colore,

Titolo originale: Precious (Base on Nol by Saf). Regia: Lee Daniels. Soggetto: dal romanzo omonimo di Sapphire. Sceneggiatura: Geoffrey Fletcher. Fotografia: Andrew Dunn. Montaggio: Joe Klotz. Musica: Mario Grigorov. Scenografia: Roshelle Berliner. Costumi: Marina Draghici. Interpreti: Gabourey Sidibe (Precious), Mo’Nique (Mary), Paula Patton (Miss Rain), Mariah Carey (la signora Rain), Sherri Shepherd (Cornrows), Lenny Kravitz (John), Stephanie Andujar (Rita), Chyna Layne (Rhonda), Amina Robinson (Jermaine), Xosha Roquemore (Joann), Angelic Zambiana (Consuelo), Aunt Dot (Tootsie), Nealla Gordon (la signora Lichtenstein), Kimberly Russell (Kimberly), Bill Sage (il signor Wicher), Rodney “Bear” Jackson (Carl Jones). Produzione: Lee Daniels, Gary Magness, Sarah Siegel-Magness per Lee Daniels Entertainment/Smokewood Entertainment Group. Distribuzione: Fandango. Durata: 109’. Origine: Usa, 2009. Harlem, 1987. Claireece Precious Jones ha sedici anni, è obesa, semianalfabeta, vive con la madre, volgare e violenta, ed è alla sua seconda gravidanza, di cui è responsabile, ancora una volta, il padre. Per questo motivo è allontanata dalla scuola che frequenta passivamente e indirizzata in un centro dedicato a ragazzi con problemi sociali nel quale possa recuperare un livello accettabile di istruzione. Nella scuola alternativa, Precious conosce Miss Rain, la sua insegnante, che con i suoi piacevoli modi la invoglia a impegnarsi nella lettura e nella scrittura e ad amare finalmente se stessa per ciò che è. Per Precious inizia un percorso di difficile consapevolezza che la porterà ad affrontare la nuova gravidanza, a sottrarsi ai continui abusi della madre e ad accettare anche di essere sieropositiva, ultima eredità avuta dal padre prima che questi morisse.


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madre di una bambina affetta da sindrome di Down e in attesa del suo secondo figlio. Entrambe le gravidanze dovute a stupri subiti da parte del padre con la tacita accettazione della madre, altrettanto obesa, perennemente adagiata su un divano posto davanti alla televisione, in attesa dei piedini di maiale fritti e della visita dell’assistente sociale da cui spremere i sussidi per la sopravvivenza. Coerentemente con il semianalfabetismo del personaggio principale, la scrittura di Sapphire si contrae, si accartoccia sulla morfologia delle singole parole, si sdrucisce in una costruzione sintattica volutamente approssimativa e lacunosa, trasformando la quotidianità di Precious in un percorso a ostacoli fatto di verbi sfuggiti al controllo, ragionamenti contratti, misunderstanding lessicali (il più sottile dei quali è certamente “provvidenza sociale” in luogo di “previdenza”). Come trasporre la logica di questo racconto? Il riferimento diretto compare già nei titoli di testa, che appaiono sincopati, scorretti, con un carattere rosso che replica la calligrafia insicura di uno scolaro alle prime esperienze, ma nella restituzione delle sequenze, Daniels opera una trasformazione linguistica. La sgrammaticatura non compare solo nelle espressioni profonde e cavernose proferite da Precious, ma ciò a cui si assiste è il tentativo di una traduzione in immagini del groviglio prosastico presente nelle pagine del romanzo: inquadrature apparentemente approssimative, talvolta tagliate troppo presto per la piena ricezione, in altre occasioni indugianti qualche secondo in più rispetto al necessario, zoomate brevi, improvvise e immotivate sui volti, jump cut, continui reframing che si asse-

stano senza sosta intorno ai primi piani, cornici malferme anche in una pratica fortemente codificata come il campo e controcampo. In questo caso, la vaghezza formale non è superficialità, ma paradossalmente è un fatto di stile, il segno espressivo con cui Daniels restituisce la realtà filtrata attraverso la logica quotidiana fatta di abusi e molestie, sventure e mancanza di prospettive di Precious. Di contro, per rendere evidente questa dicotomia che grazie allo stile adottato si trasforma in effetto di senso, le scene in cui la protagonista immagina un mondo altro rispetto alla sua livida esistenza sono restituite con grande accuratezza formale, con un montaggio attento e perfettamente scandito, con tonalità cromatiche scintillanti e un riguardo minuzioso all’equilibrio dell’inquadratura. Il discorso sulla realtà condotto da Daniels si rivolge altrove, alla ricerca di altri parametri rappresentativi rispetto alla bella calligrafia della singola immagine o alla correttezza dei raccordi con cui sviluppare la fluida continuità del racconto e riguarda soprattutto il lavoro sui colori e sulle condizioni di luce. Tutto l’itinerario formativo di Precious, ad esempio, è punteggiato dalla presenza costante del colore rosso, che la ragazza indossa con un foulard fasciato al polso come se si trattasse di una personale coperta di Linus. Un oggetto, il foulard rosso scarlatto, presente sin dai titoli di testa, dapprima agganciato a un lampione e mosso dal vento, poi dallo stesso vento librato in volo e disperso, più che innalzato e liberato dal giogo. Al di là della facile allegoria che il legame di immediata attribuzione con il personaggio

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potrebbe sottendere, il foulard rosso, pura evidenza visiva assente nel libro, nelle intenzioni del regista rappresenta più che altro una relazione intenzionalmente impropria, proposta per sottolineare l’estraneità di Precious nei confronti della sua stessa sfortunata esistenza: non a caso, la ragazza, chiamata a presentare se stessa nella classe della scuola alternativa che frequenta, sostiene che il suo colore preferito è il giallo; e appare ancora meno casuale il fatto che, giunta al termine del suo percorso, Precious doni l’inseparabile foulard alla piccola vicina di casa Lolita, maltrattata dalla famiglia e possibile replica in piccolo della sua stessa squallida esperienza. L’altra componente è quella luministica. È la luce sapientemente collocata su luoghi e superfici da Andrew Dunn, già direttore della fotografia di Robert Altman, a creare l’enorme difformità tra i vari ambienti che caratterizzano la storia e a generare l’opprimente contrasto i cui poli opposti sono rappresentati dall’abitazione che Precious condivide con la madre – e che fu teatro degli abusi ai suoi danni – e la classe della scuola alternativa nella quale la ragazza coltiva la speranza di ottenere finalmente una possibilità di riscatto.Tenebre contrapposte a luce, oppressione negata da uno spiraglio possibile. E sul criterio dell’illuminazione è costruito anche il personaggio di Miss Blue Rain, la docente che aiuta

Precious a scrollarsi di dosso paura, violenza e ignoranza: l’ingresso delle aule di lezione, in cui la ragazza è appena giunta, è uno spazio ancora buio, immerso in una penombra che l’ha vista vomitare l’abbondante colazione a base di pollo fritto in un cestino come effetto dell’incipiente gravidanza, ma è un luogo che si illumina improvvisamente come effetto dell’apertura di una porta sullo sfondo, l’ingresso dell’aula da cui fuoriesce Miss Rain, che la invita a entrare. Una fonte di luce che s’impadronisce metaforicamente dell’oscurità e contrassegna tutta la profonda estensione di un’inquadratura al cui vertice c’è la speranza, l’eventualità di una dimensione differente, salvifica. «Alcune persone hanno una luce attorno e illuminano le altre persone», è la frase con cui Precious descrive Miss Rain, su cui spesso la macchina da presa si sofferma in intensi piani ravvicinati accarezzati da una luce esterna, vivace, che pare levigarle il volto e che ricorda il tipo di illuminazione avvolgente e contrastante utilizzato da Gerhard Richter in dipinti quali «Lesende» o «Betty». Miss Rain come stimolo iperrealista affinché Precious acceda a una realtà differente che le permetta di abbandonare l’unica concretezza conosciuta fino a quel momento? Di certo c’è che l’ausilio dell’insegnante è componente decisiva in relazione al vero oggetto del film, la conquista dell’alfabeto come progresso e crescita. Con procedimento simile a quanto già mostrato da Wayne Wang nel finale di Smoke (1995), Daniels mette in relazione la creazione delle parole con la loro visualizzazione, connettendo più volte il particolare della bocca di Miss Rain, intenta a generare quei suoni articolati che Precious ignora, con gli occhi corrugati della ragazza, ancora all’oscuro del percorso di trasformazione dal verbale allo scritto. Non un’allegoria della creazione narrativa, come nel film di Wang, ma la limpida coscienza linguistica di una trasmissione possibile. Dall’insegnante all’allievo, dal fonema al grafema. Dalla scrittura all’ipotesi di emancipazione. Un’ultima annotazione. Precious è indubbiamente un film doloroso e disturbante. Il segmento dello stupro, fatto di particolari “materici” (un corpo pesantemente sbattuto sul letto, una cintura che si sfila, un ventre maschile denso di peli e smagliature, un uovo con bacon che sfrigola in padella), è una sequenza di grande impatto emotivo, anche se rarefatta dalla sua costruzione dinamica e frammentata. Daniels, tuttavia, non si crogiola nell’osservazione, dimostrando una spiccata attitudine perifrastica, che lo spinge a ribadire il concetto attraverso una divertente parentesi in cui Precious immagina di essere la Rosetta di La ciociara (Vittorio De Sica, 1960), spinta dalla volgare madre (in italiano) a mangiare controvoglia. Un piccolo inciso dall’ampio risvolto: la scena da cui si origina la fantasia della ragazza, che sta vedendo il film in televisione, è quella dell’ingresso nella chiesa abbandonata a cui seguirà lo stupro della piccola Rosetta. Il traslato sul cibo è invece metonimia freudiana, così come il padre della psicoanalisi spiega nei «Tre saggi sulla teoria sessuale». Ovvero, come insistere più volte sullo stesso aspetto con misura e creatività.


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I DUE PRESIDENTI Richard Loncraine

Realpolitik vs fiction Anton Giulio Mancino Titolo originale: The Special Relationship. Regia: Richard Loncraine. Sceneggiatura: Peter Morgan. Fotografia: Barry Ackroyd. Montaggio: Melanie Oliver. Musica: Alexandre Desplat. Scenografia: Maria Djurkovic. Costumi: Consolata Boyle. Interpreti: Michael Sheen (Tony Blair), Dennis Quaid (Bill Clinton), Helen McCrory (Cherie Blair), Hope Davis (Hillary Clinton), Adam Godley (Jonathan Powell), Mark Bazeley (Alastair Campbell), Marc Rioufol (Jacques Chirac), Kerry Shale (la consulente dei Clinton), Demetri Goritsas (lo stratega), Nancy Crane (l’addetta al cerimoniale), John Schwab (il reporter), Lara Pulver (la stagista), Eric Meyers (il giornalista americano), Rufus Wright (il giornalista inglese), Matthew Marsh (il consigliere di politica estera). Produzione: Andy Harries, Kathleen Kennedy, Christine Langan per Hbo/Bbc Films. Distribuzione: Medusa. Durata: 89’. Origine: Gran Bretagna/Usa, 2010. Lo stretto rapporto di collaborazione e di amicizia tra Bill Clinton e Tony Blair comincia prima dell’elezione di quest’ultimo a premier inglese. Clinton riceve Blair come un capo di Stato quando Blair è soltanto il candidato laburista, dimostrandogli e dimostrando l’appoggio preferenziale della Casa Bianca a lui riservato. Una volta eletto Blair, i rapporti tra le due Nazioni e i due leader si infittiscono. Blair accetta di appoggiare Clinton anche nella fase difficile del sexgate, ma non esita ad avere un atteggiamento militare ben più determinato durante la guerra nei Balcani contro il leader serbo Milosevic. Comunque, tra alti e bassi i Blair e i Clinton formano un quartetto unico al mondo legato da un’amicizia basata su conclamati ideali comuni e su un dichiarato affetto reciproco, che tuttavia dovrà cedere il passo a interessi ben più concreti che, dopo l’elezione di George W. Bush a presidente, vedranno messa in disparte e fuori gioco la figura di Clinton.

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La didascalica ovvietà del titolo italiano, I due presidenti, non sembra nemmeno aver portato molta fortuna all’ultimo film scritto da Peter Morgan. C’è invece un valore aggiunto nella scelta di intitolarlo The Special Relationship che trascende lo stesso riferimento diretto ai controversi legami nella buona come nella cattiva sorte tra i due protagonisti eccellenti della geopolitica internazionale degli anni Novanta. Intanto, a un livello immediato, il titolo originale pone un problema di fondo. Questa “relazione” è davvero “speciale” perché stretta, particolare, unica? O ironicamente, al di là dei proclami, delle apparenze, risulta assai poco “speciale”nella sua consueta asimmetria (da parte americana) e ambiguità (da parte britannica)? Introduce un elemento di novità storica e di discontinuità diplomatica o, sotto mentite spoglie, inevitabilmente obbedisce alle regole ferree della Realpolitik, non dell’amicizia? Il film gioca sin dal titolo sull’ambivalenza della cosiddetta “relazione speciale”, dove l’aggettivo conferma o supporta il sostantivo, ma provvede nel contempo a insidiarlo, contraddirlo, invalidarlo, perché forse si tratta di una comune relazione tra capi di Stato storicamente alleati, ma intercambiabili. Come lo sono i personaggi stessi: anonimi, con le loro banalità e le loro debolezze, che mangiano salatini a volontà, fanno sesso orale con la prima segretaria a portata di mano (Bill Clinton) o vengono imbeccati all’occorrenza di direttive strategiche (il corso di formazione cui si sottopone il candidato laburista Blair prima essere il favorito della Casa Bianca e diventare di conseguenza premier). Non a caso subiscono la legge del contrappasso (Bill Clinton da George W. Bush in questo stesso film, Tony Blair da Gordon Brown in The Deal, primo capitolo della trilogia sceneggiata da Peter Morgan e diretto come il successivo The Queen da Stephen Frears). Poi, per ragione di copione, secondo la prassi delle pièce quanto delle sceneggiature di Peter Morgan, si trovano a essere interpretati sullo schermo da attori, talvolta sempre lo stesso attore nello stesso ruolo (Michael Sheen è Tony Blair in The Deal, The Queen e The Special Relationship) o anche in ruoli diversi, contigui, forse equivalenti (Michael Sheen è anche il giornalista fortunato, e non

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meno opportunista, David Frost di Frost/Nixon). Comunque sia, non possono essere affatto considerati individui unici e inamovibili, bensì manichini, figure copiabili e riproducibili di un sistema di relazioni pregresse e future, relazioni microfisiche e invisibili di potere che trascendono la visibilità e la riconoscibilità dei singoli protagonisti, garantendo così nel corso dei decenni logiche prettamente conservative. Un titolo come The Special Relationship suggerisce in prima istanza chiavi di lettura divergenti: una accredita letteralmente la presunta e sbandierata amicizia, l’altra la necessità di essere infidi, pragmatici, non esclusivi nella gestione del potere. Titolo dunque doppiamente significativo in quanto veicolo implicito di una doppiezza sostanziale, indispensabile per restare a galla nelle crisi mondiali e in quelle private che all’occorrenza diventano pubbliche, si sovrappongono, si confondono, si invertono. The Special Relationship comporta una duplicità di intenti e una doppiezza di atteggiamenti allo stesso modo politicamente (s)corretti. Eppure c’è un valore aggiunto in questo titolo, al di là della pertinenza con ciò che narra, con i personaggi che agiscono: di fatto investe la funzione stessa del film in quanto strumento di conoscenza, il principio stesso, in un film, di poter fare i conti con la storia. Un principio messo in discussione in extremis, se non addirittura confutato, disinnescato. Si può discutere di The Special Relationship quanto si vuole, ma la chiave di volta è il finale. Con effetto retroattivo, illuminante e demistificante non tanto per uno dei due personaggi, Tony Blair, apparso fino a quel momento il vettore principale (con sua moglie, il suo nucleo dome-

stico) dell’identificazione dello spettatore, della familiarità con lo spettatore, quanto per l’intero percorso messo in crisi all’improvviso da un cortocircuito molto intelligente che obbliga a riconsiderare tutto ciò che si è visto, pensato, creduto. Esattamente come accadeva in F for Fake di Orson Welles. Infatti nel film diretto da Richard Loncraine, che così torna a occuparsi dei meccanismi del potere, non più aggiornando Shakespeare (Riccardo III), ma lavorando direttamente sul passato prossimo riscritto da Peter Morgan, viene sollecitata a sorpresa una reazione di incredulità sostanziale e implacabile che investe la quasi totalità dell’opera cinematografica. Opera di finzione, come tale sorretta da una concezione molto umana delle relazioni, destinata tuttavia a lasciare il campo a ben altre virtù che trascendono l’uomo, l’individuo, la persona. Che si esplicano non in un mondo migliore ma nel migliore o peggiore dei mondi possibili: la “virtù” dell’inganno, della manipolazione, dei rapporti “impropri”. Non soltanto quelli sessuali di cui Clinton deve rispondere pubblicamente, mistificati dalle parole, ma anche quelli politici dove ugualmente sfuggono i limiti della compromissione personale. L’astro nascente Blair, che ha una “relazione speciale” con Clinton, può all’occorrenza defilarsi dall’esclusività proprio come Clinton può permettersi, sempre sul filo delle parole, di servirsi della Bibbia per minimizzare e relativizzare la presunta relazione estemporanea con Monica Lewinsky in quanto limitata a una fellatio, e che quindi non compromette il vincolo coniugale pregresso. Questo discorso ci riporta al finale strategico e al contenuto metafilmico di The Special Relationship, affidato a


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una sequenza di repertorio che determina un effetto di straniamento molto forte, produce cioè uno strappo non ricucibile, lo strappo nel cielo di carta esemplificato da «Il fu Mattia Pascal» di Luigi Pirandello. È l’assoluto punto di non ritorno, tanto più impressionante perché postumo, che svela la fiction, la inchioda alla sua sostanziale insostenibilità realistica, storica, concreta. Scopre l’impianto finzionale che fino ad allora ha sorretto il film. Si scopre di aver assistito soltanto a un film, a un’illusione di realtà umana che nulla ha a che fare con la Realpolitik, che invece offre lo spettacolo del vero Blair in conferenza stampa che comincia a flirtare con un vero Bush, a intrecciare nuove “relazioni speciali” che porteranno a ben più estesi scenari di guerra in Afghanistan prima e in Iraq dopo, ridisegnando così drammaticamente lo scenario geopolitico del Medio Oriente con una sinergia politico-militare effettiva che si spingerà ben oltre le divergenti azioni congiunte nei Balcani dell’era Clinton-Blair. Con questo semplice stratagemma della “cattiva”singola sequenza vera che confuta l’intero film “buono”, The Special Relationship fagocita se stesso, irrimediabilmente: travolge i suoi generosi propositi di dipingere i personaggi più umani di quel che sono, più dipendenti dal proprio eventuale grado di umanità, dalle piccole menzogne coniugali o dai prosaici appetiti sessuali. Travolge così anche il grado di credibilità che, come film, gli è stato attribuito per antica abitudine e convenzione spettatoriale. Non si sa bene a chi attribuire l’idea centrale di The Special Relationship, iscritta nel suo originale e imprevedibile traguardo: in una sequenza, l’ultima, demistificante, a partire dalla quale tutto il percorso pregresso acquista un senso compiuto, irridente e sferzante nei confronti di chi ha creduto di assistere, condividendone o meno l’assunto non ha importanza, a un compendio sentimentale, romanzesco del rapporto tra Tony Blair e Bill Clinton, tra le due first ladies, tra una Downing Street sempre così disordinata, borghese, normalissima, con indumenti intimi sparsi dappertutto e figli mandati via dai genitori benpensanti durante un telegiornale involontariamente a luci rosse, e quella Casa Bianca dove invece vige un rigido cerimoniale ma i panni sporchi ugualmente vengono lavati all’esterno. The Special Relationship gioca per quasi novanta minuti, la sua relativa durata, la carta tradizionale della trasparenza, lavora sulle somiglianze, cerca di coinvolgere come un qualsiasi film classico lo spettatore, gioca sui suoi sentimenti. Esibisce provocatoriamente copie conformi, sosia: i sosia delle persone, il sosia dell’amicizia, il sosia della storia. Poi a un tratto, quando tutto sembra stia finendo, ribalta la prospettiva, costringe l’evidenza narrativa cinematografica al rango di surrogato idealista di una realtà che si voleva (far credere) a portata di mano: il simulacro audiovisivo per eccellenza (le immagini filmiche) cede il passo al simulacro parallelo di una realtà imprendibile, imprescindibile, altra (le immagini televisive). Cosa è stato The Special Relationship quasi al 90% se non un film, un racconto per immagini che in qualche modo alla realtà ha preteso di rimandare, che alle direttive politiche comuni e divergenti dei due maggiori leader

politici e militari occidentali dal 1992 al 2001 ha cercato di dar corpo, anima, sembianze? Si può essere d’accordo o in disaccordo con questo film, ma il dato ineliminabile sembra essere la volontà, bene o male, di rievocare un’epoca, un contesto di relazioni, la storia di un amicizia politica, forse anche personale. C’è chi concorda con questa lettura degli eventi, chi proprio non la condivide, ma il presupposto resta intatto: il cinema o la televisione, perché di un film di matrice televisiva si tratta, prodotto dalla statunitense Hbo e dalla britannica Bbc, si sforzano e in qualche modo possono affrontare la grande storia in maniera mimetica, selezionando episodi salienti, concatenandoli, interpretandoli, affidandosi a volti di attori cinematografici e teatrali più o meno aderenti ai rispettivi prototipi. Il gioco è tutto qui, c’è a chi piace e a chi non piace. C’è chi preferisce che al cinema e in generale all’arte, tradizionalmente dalla tragedia al romanzo, sia demandato l’ambito specifico della microstoria, sottratta solitamente alla conoscenza e al dominio dei vincitori, e chi invece crede che persino la macrostoria possa, con cognizione di causa e la dovuta perizia documentale, rientrare tra le incombenze della finzione riproduttiva, senza tuttavia mai mettere in discussione la possibilità di riuscire nell’impresa o almeno di tentarla. The Special Relationship si situa sulla linea di confine, afferma e nega, costruisce e decostruisce le proprie velleità e potenzialità rappresentative, comprendendo, come ha già dimostrato Clint Eastwood in Invictus, che il film deve dar conto dei personaggi reali, alle immagini di repertorio solo alla fine, lasciando allo spettatore l’onere del confronto e della valutazione autonoma. Eastwood ha costruito la seconda sequenza di Invictus mescolando immagini di repertorio autentiche e non, affinché il Mandela del film fosse quasi completamente “suo”, bigger than life, leggenda preferita alla verità, un eroe autoreferenziale, salvo poi restituire l’altro Mandela, quello “vero” durante i titoli di coda (comunque conclusi da un’altra sequenza del film dove i bambini giocano a rugby nuovamente ripresi in cinemascope). Polanski, a proposito di “relazioni speciali” tra Stati Uniti e Gran Bretagna, ha invece, in L’uomo nell’ombra, insistito sulla completa sudditanza appena dissimulata della seconda alla prima, trasformando i personaggi, acefali, in fantocci o fantasmi intercambiabili: The Ghost Writer, il titolo originale, riguarda non solo lo “scrittore ombra” che accetta di riscrivere il manoscritto del contestato premier inglese alla Blair, ma il premier stesso, un fantoccio della politica, manovrato dalla macropolitica, che ha scritto un’autobiografia propagandistica, banale e tuttavia pericolosamente indiziaria. La coppia Loncraine-Morgan, perché non si sa bene a chi dei due spetti il merito della sequenza finale, ha infine optato, in The Special Relationship, per una linea intermedia, dove l’eccesso di evidenza simulata dei protagonisti e l’ostentazione del privato corrispondono al massimo di elusione discorsiva. Cioè a un esercizio di dissimulazione onesta, suscettibile di letture alternative fondate su rapporti non compatibili né contigui ma drasticamente paradigmatici tra fiction e Realpolitik.

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INCONTRERAI L’UOMO DEI TUOI SOGNI Woody Allen

Di che cosa sono fatte le illusioni?

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Pietro Bianchi

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«When you wish upon a star / Makes no difference who you are / Anything your heart desires / Will come to you. / If your heart is in your dreams / No request is too extreme / When you wish upon a star / As dreamers do. / Fate is kind / She brings to those who love / As sweet fulfillment of their secret downs / Like a boat out of the blue / Fate steps in and see’s you through»: sono i versi della classicissima «When You Wish Upon a Star», scritta per il film Pinocchio e poi diventata theme song della Disney. Il film di Woody Allen si apre sulle note di questa canzone che accompagnerà in buona sostanza l’intera pellicola. Di destino, desiderio, infatti Allen ci vuole parlare. E di scelte fatte tra illusioni e idealizzazioni. «La vita è triste, è un incubo, io sono pessimista… il mio punto di vista è che bisogna mentire a se stessi e vivere nell’illusione perché la realtà è insopportabile», aveva detto il regista a Cannes presentando il proprio film (1). Ma il problema è: come mentire? Quale tipo di illusione? Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni traduce (dando un’indebita accezione maschile) il ben più cupo You Will Meet a Tall Dark Stranger. Tutti in questo film si illudono di essere sulla soglia dell’incontro con questo “tall dark stranger”, questo sconosciuto nero e alto che dovrebbe risolvere le proprie impasse esistenziali. Nella locandina però l’uomo dei sogni è indefinito, ha le fattezze di una macchia nera e informe, candidamente abbracciato da una donna: chi è dunque l’uomo (o la donna) dei propri sogni che i personaggi di questo film sembrano ossessivamente (e individualisticamente) cercare? Qual è la sua fisionomia? Sigmund Freud, citando George Bernard Shaw, ricordava che gli uomini hanno sempre sopravvalutato le differenze che esistono tra una donna e l’altra. Ai loro occhi sarà sempre “la prossima” quella definitiva, quella della svolta, quella “diversa”. E invece si (1) Mariuccia Ciotta, La seconda vita esiste. Almeno per Woody, «il manifesto», 3 Dicembre 2010.

Titolo originale: You Will Meet a Tall Dark Stranger. Regia e sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Vilmos Zsigmond. Montaggio: Alisa Lepselter. Scenografia: Jim Clay. Costumi: Beatrix Aruna Pasztor. Interpreti: Gemma Jones (Helena), Anthony Hopkins (Alfie), Naomi Watts (Sally), Josh Brolin (Roy), Antonio Banderas (Greg), Freida Pinto (Dia), Lucy Punch (Charmaine), Anna Friel (Iris), Pauline Collins (Cristal), Ewen Bremner (Henry), Neil Jackson (Alan), Christian McKay (Sy), Eleanor Gecks (Rita), Jim Piddock (Peter), Roger Ashton-Griffiths (Jonathan), Jonathan Ryland (Mike), Rupert Frazer (Mort), Philip Glenister, Pearce Quigley (gli amici del poker), Anupam Kher, Meera Syal (i genitori di Dia), Shaheen Khan (la zia di Dia), Joanna David, Geoffrey Hutchings (i genitori di Alan), Matalie Walter (la sorella di Alan). Produzione: Letty Aronson, Jaume Roures, Stephen Tenenbaum per Dippermouth/Antena 3 Films. Distribuzione: Medusa. Durata: 98’. Origine: Usa/Spagna, 2010.

Seguiamo le vicende di due coppie sposate – quella formata da Alfie e Helena, e quella della figlia Sally e di suo marito Roy –, mentre passioni, ambizioni e ansie causano un crescendo di guai e follie. Dopo essere stata lasciata da Alfie – che se n’è andato per inseguire la perduta giovinezza e una ragazza di nome Charmaine – Helena mette da parte la razionalità e si affida ciecamente ai bislacchi consigli di una cartomante ciarlatana. Dal canto suo Sally, intrappolata in un matrimonio infelice, si prende una cotta per l’affascinate proprietario della galleria d’arte – nonché suo capo – Greg, mentre suo marito Roy, uno scrittore che attende con ansia una risposta dalla sua casa editrice, resta folgorato da Dia, una donna misteriosa che cattura il suo sguardo da una finestra vicina. Nonostante i tentativi fatti dai protagonisti per eludere i rispettivi problemi attraverso sogni a occhi aperti e piani impossibili, i loro sforzi produrranno solo crepacuore e irrazionalità. (dal pressbook del film)


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finisce (quasi) sempre per ripetere l’identico che l’inconscio prescrive con la precisione del tempo che gira su se stesso, e che invece ingannevolmente sembra avere nell’esperienza delle persone i contorni del destino imperscrutabile. Dunque, un’apparenza di movimento che alla fine dimostra di essere l’illusione con la quale si ripresenta lo Stesso. Allen sceglie uno schema geometrico per rappresentarcelo: due coppie di due generazioni diverse (un marito e una moglie, una figlia giovane e il proprio marito) e quattro punti di fuga che coltivano l’illusione della svolta imminente. Alfie (Anthony Hopkins) e Helena (Gemma Jones) sono una coppia anziana in crisi: lui andrà con la giovane prostituta Charmaine, e lei coltiverà il proprio fantasma con una sensitiva; mentre la loro figlia Sally (Naomi Watts) e suo marito Roy (Josh Brolin) si innamoreranno rispettivamente del proprio capo sul lavoro Greg (Antonio Banderas) e della vicina di casa Dia (Freida Pinto). Due coppie dove gli sguardi non si incrociano all’interno ma si rivolgono all’esterno, al di fuori. E il di fuori ha sempre le fattezze idealizzate della soluzione, dell’aggiramento dell’ostacolo, della ritrovata unità (là dove la coppia rappresenta la divisione). La scena madre a questo riguardo è quella di Roy: scrittore in crisi creativa, incapace di trovare un lavo-

ro, che si fa mantenere dalla moglie e dalla suocera. In una della prime scene del film vediamo un amico dargli da leggere il manoscritto di una propria opera prima, e Roy si accorge che è molto migliore del suo deludente quarto romanzo, rifiutato dalla casa editrice. La voce fuori campo ci dice che l’unica cosa che riesce a consolarlo è la visione della vicina di casa Dia che suona la chitarra. Lo sguardo passa dalle pagine del romanzo dove è materializzata la propria incapacità e il proprio fallimento alla finestra dove l’illusione della propria potenza soggettiva ritorna integra e con le sembianze dell’ideale. La stessa cosa accadrà a Helena che nel momento in cui rivela alla propria sensitiva di essere stata abbandonata dal marito per una giovane attricetta ventenne, le verrà detto (versandole un bicchiere di Scotch) che il suo trionfo è imminente e che è questione di momenti perché lei incontri un nuovo amore («Vedo che un bellissimo sconosciuto sta per entrare nella tua vita», le dice la sensitiva). L’illusione è sempre la risposta a una sconfitta soggettiva. Ma è una risposta che funziona? Freud la chiama idealizzazione. Scrive lo psicoanalista Massimo Recalcati che «l’idealizzazione concerne il rapporto del soggetto con un oggetto speculare, investito narcisisticamente. L’idealizzazione, in effet-

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ti, è un movimento di copertura dell’essere pulsionale. In questo senso essa implica sempre una rimozione, dunque un “non volerne sapere” del reale del soggetto […] viene rimosso tutto ciò che non è coerente con la rappresentazione ideale che il soggetto ha di se stesso» (2). E tutti i personaggi di questo film provano a volgere lo sguardo alla condizione di specularità data dall’incontro con un altro che può garantire la saldezza della propria immagine narcisistica (Sally con un gallerista d’arte di successo, Roy con una bella musicista e intellettuale indiana, Alfie con una giovane e bella donna): l’altro diventa una figura della fuga dalle impasse del Sé. Ma Allen non ci fa credere che la soluzione sia a portata di mano: Roy è attratto dalla vicina alla finestra di fronte all’appartamento dove vive con la moglie (che gli chiede in continuazione «Come mai guardi sempre fuori dalla finestra?»): la sua “tall dark stranger” è oltre la finestra. La vede, la scruta e la spia mentre suona, fa l’amore col suo ragazzo etc. Ma quando varca la soglia dell’appartamento di Dia ecco che lo sguardo ritorna al suo appartamento dove la moglie Sally si sta spogliando. L’oggetto del desiderio è insomma sempre al di là della propria portata. Non riesce mai a essere afferrato una volta per tutte.

L’idealizzazione si blocca. I contorni dell’uomo o della donna dei propri sogni sono sfumati, indefiniti, inafferrabili perché non parlano dell’altro ma di se stessi. E pian piano il film ci accompagna, durante l’ultima mezz’ora, storia per storia a osservare lo sgretolamento di questo universo illusorio in cui le soluzioni messe in atto da ogni singolo personaggio si rivelano per quello che sono: un inganno che serviva a mascherare la dimensione fuori norma del proprio desiderio. E così Alfie scopre che Charmaine è incinta dell’istruttore della palestra con cui lei lo tradiva, Roy scopre che l’amico a cui ha sottratto il romanzo non è morto in un incidente stradale ma è in coma e sta per risvegliarsi (scoprendo il furto), Sally scopre che Greg è innamorato di una pittrice che lei stessa gli ha presentato. L’unica che riuscirà in un certo qual modo a salvarsi e a trovare una propria dimensione felice sarà proprio Helena: irrisa da tutti i personaggi durante l’intero sviluppo della storia, dimostrerà che l’illusione della sensitiva non era meno illusoria di questi “tall dark stranger” che alla fine non sono altro che proiezioni dei propri fantasmi. Allen dunque ci porta alle soglie di ciò che Jacques Lacan definiva con il nome di sembiante: quella dimensione opaca, sempre intrisa di illusione e credenza, inseparabile da ogni esperienza del sapere e della conoscenza. Non c’è confine certo tra inganno e certezza, ma c’è sempre un impasto indivisibile tra i due, con un soggetto, un desiderio, una singolarità che le stanno al proprio interno, e non lo guardano da fuori. Prende dunque un nuovo senso l’esergo shakespeariano messo all’inizio della pellicola («La vita è una favola narrata da uno sciocco, piena di strepiti e di furore ma senza significato alcuno»): l’assenza di significato non è disincanto ma è semplicemente un diverso “saperci fare” con la dimensione dell’illusione oltre l’ingenua partizione di vero e falso. Mentre l’idealizzazione di Roy, Sally e Archie è narcisista, quella di Helena è senza contropartita. Al posto del cinismo di chi è disposto ai sotterfugi (come il furto del romanzo all’amico, che ricorda il peccato di Match Point) per incontrare nel “tall dark stranger” la sicurezza narcisistica del proprio Sé, Helena è tutta protratta verso la propria sensitiva investendola in modo assoluto (psicoanaliticamente transferale). In un certo senso è l’unica che ci crede davvero: ed è per questo che può salvarsi mentre gli altri incontreranno l’altra faccia oscura della loro idealizzazione. E dunque rappresenta il migliore esempio di quello che la voce off ci ricorda nell’ultima scena della pellicola (ed è un insegnamento che forse in un periodo storico popolato da cinismi e pseudo-anti-ideologie non è proprio da buttare via): ovvero che qualche volta le illusioni funzionano meglio delle medicine. (2) Massimo Recalcati, «Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica», Bruno Mondadori, Milano 2007.


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TORNANDO A CASA PER NATALE Bent Hamer

Ognuno sta solo, ma sorride Mattia Mariotti

(1) Fabrizio Tassi, O’Horten, «Cineforum» n. 476, luglio 2008, p. 58.

Titolo originale: Hjem til Jul. Regia: Bent Hamer. Soggetto: dal volume di racconti «Only Soft Presents Under the Tree» di Levi Henriksen. Sceneggiatura: Bent Hamer. Fotografia: John Christian Roselund. Montaggio: Pål Gengenbach, Silje Nordseth. Musica: John Erik Kaada. Scenografia: Eva Norén. Costumi: Karen Fabritius Gran. Interpreti: Nina Andresen Borud (Karin), Trond Fausa Aurvåg (Paul), Arianit Berisha (Goran), Reidar Sørensen (Jordan), Joachim Calmeyer (Simon), Cecile Mosli (Elise), Ingunn Beate Øyen (Johanne Jakobsen), Nina Andresen-Borud (Karin), Tomas Nordström (Kristen), Cecile A. Mosli (Elise), Morten Ilseng Risnes (Thomas), Fridtjov Såheim (Knut), Sarah Bintu Sakor (Bintu), Issaka Sawadogo (il padre di Bintu), Nadja Soukup (la madre di Goran), Nina Zanjani (la madre), Igor Necemer (il padre), Levi Henriksen (l’uomo della sicurezza). Produzione: Catho Bach Christensen, Bent Hamer, Christoph Friedel, Claudia Steffen per Pandora Filmproduktion/Filmimperiet Sverige/Bulbul Films. Distribuzione: Bolero. Durata: 85’. Origine: Norvegia/ Svezia/ Germania, 2010.

Vigilia di Natale. Nella cittadina norvegese di Skogli s’intrecciano le esistenze di diversi personaggi: Paul si traveste da Babbo Natale per rivedere la ex moglie e i figli senza essere riconosciuto; Jordan, un vecchio asso del calcio ormai alcolizzato, vuole, dopo molti anni, rivedere la propria casa; Karin spera che l’amante sposato lascerà finalmente la moglie dopo Natale; uno studente finge che la famiglia protestante non festeggi il Natale per stare con la bella compagna di classe musulmana; il serbo Goran, con la moglie albanese incinta, cerca disperatamente un modo per raggiungere la Svezia.

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Dal Nord norvegese, con i suoi freddi esistenziali e le sue strambe ironie, viene un cinema essenziale, dolceamaro, minuto e toccante. Pensiamo al cinema delicatamente feroce di Roy Andersson, ai suoi corpi abbandonati a esistenze semplicemente “umane, troppo umane”. Pensiamo a Nord, recente film-esordio di Rune Denstad Langlo, sorta di odissea-vagabondaggio nei (non) luoghi dell’esistenza. Anche Bent Hamer sceglie piccole e sgraziate esistenze, per i suoi miti racconti visivi. Sceglie la vita disciolta in aneddoto, procedendo per «aforismi cinematografici e micro-racconti talmente compiuti in se stessi che quasi dispiace ci debba essere un seguito» (1). Per questo assai funzionali sono stati per Hamer i racconti sconnessi e spigolosi di Charles Bukowski per il suo Factotum, per que-

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sto il libro di racconti brevi di Levi Henriksen («Only Soft Presents Under the Tree») è, di nuovo, un ottimo punto di partenza per immergersi e penetrare di soppiatto nelle vite, e nelle solitudini, di personaggi conficcati nel suo lontano Nord.

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UN BINARIO IN TONDO

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Hamer ama il film corale, le esistenze che s’intrecciano per i giochi del caso o per uno strano senso. Ama spiare l’esistenza che si nasconde nel quotidiano, documentarne la mancanza di conclusione, le aspettative tenere o frustrate, le decorose debolezze. Hamer si fa commuovere, da quelle piccole esistenze, si fa partecipare in profondo, eppure non resiste al sorriso. I suoi film sono disseminati di delicate gag visive, alla Tati, verrebbe da dire. Il riflesso sulla vetrina di una maglia di calcio “veste”, per un momento, chi nel calcio ha fallito (solo per citarne una delle innumerevoli disseminate nel film e nel cinema di Hamer). Uno dei protagonisti, un ragazzino, lo vediamo sostare, per un momento, davanti a un enorme plastico con un trenino elettrico che corre in tondo. «Vuoi questo per Natale?», gli chiede la ragazza che sta con lui. «No certo. Desidero altro». È come se ogni personaggio

avesse già un suo binario meccanico, come se ognuno non fosse che un trenino di latta che corre in cerchio (non a caso il protagonista di Il mondo di Horten è un macchinista) e che lo trascina intorno attraverso le gioie, i dolori, la solitudine, la necessità dell’altro, la bellezza, la morte. In questo senso anche la cucina di uno dei primi e più apprezzati film di Hamer, Kitchen Stories, è più che un luogo d’indagine per una bizzarra (e vera) ricerca sociologica (volta all’ottimizzazione dei movimenti in cucina delle casalinghe). Diventa presto una perfetta, e ironica, metafora hameriana: muoversi in cucina è fatto di movimenti prestabiliti e “meccanizzati”, di abitudini, di solitudini, di desideri e frustrazioni. Esattamente come il muoversi nella vita. È un percorso autoconcludente, da svolgere da soli, in attesa dell’altro. Anche il macchinista di Il mondo di Horten ha un ruolo e un’abitudine, i treni appunto, e una volta in pensione si ritrova a dover reinventare spazio e movimenti. D’improvviso i binari di Horten non formano un cerchio, ma sono aperti verso l’ignoto, l’assenza di abitudine. Lo stesso avviene anche per i personaggi di Tornando a casa per Natale. È proprio il Natale, festività forzatamente collettiva, luccicante quanto vagamente malinconica per definizione, a spezzare il cerchio. La vigilia diventa un per-


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L’ASSURDA GRAZIA Il cinema di Hamer, come si vede, sfugge a ogni tentativo di definizione. Commedia esistenziale, gag tatiniane, ironie surreali alla Kaurismäki. Forse è presto per elevare Bent Hamer al ruolo di Autore, anche se le ricorrenze, l’estetica, il suo cinema così personale e coerente sembrano convincerci del contrario. Hamer racconta la vita, tutt’insieme. Racconta il suo essere accerchiante, stramba, scontrosa, ridicola, irrimediabilmente miracolata (che non c’entra con miracolosa). Qualche volta i suoi lieti fine hanno fatto storcere il naso. Eppure appaiono anch’essi essenziali, nel cinema di Hamer. Il macchinista Horten che, in omaggio alla madre, si lancia sopra le luci della città con un trampolino da sci, e che poi trova l’amore per aspettare la vita che gli resta. O come i due profughi dell’ex Jugoslavia di Tornando a casa per Natale, che trovano il medico della provvidenza che regala loro il figlio che aspettano, e l’auto, e una nuova esistenza. È l’impossibile della vita che si verifica, è lo spezzarsi improvviso del girare intorno su binari tondi. È l’assurdo ironico e leggiadro del cinema di Hamer. A cui si fa finta di resistere, ma a cui si finisce per cedere. Forse perché ai personaggi di Hamer è concessa la grazia che in fondo vorremmo per noi, e per i nostri

fallimenti. Una grazia assurda, certo, strampalata, inesatta e personale. Ma concessa. Non vi è mai desolazione, nel cinema di Hamer, né scontrosa amarezza. Nonostante i ritardi, le sconfitte, il tempo che finisce ciascuno porta in sé la possibilità di comprendere, la libertà di disegnare il senso del proprio destino, la capacità di proteggersi (capacità non concessa, invece, alle malinconiche esistenze cui dà vita Kaurismäki). Proteggersi dall’immensità di quel paesaggio morbido, interminabile, primordiale. In una natura che, come in Nord di Rune Denstad Langlo, divide, disperde, rassegna. Ma custodisce, anche. Sotto cieli luminosi e mai così infiniti, dentro foreste di ghiaccio e orizzonti bianchi da immaginare. Così sono i viventi di Hamer: in attesa, alla ricerca, in solitudine, con strano sorriso. Così è la sera della vigilia di Natale di Hamer: malinconie che si rincorrono, rotolano contro le luminarie, rilasciano pensieri strani e intermittenti. Qualcuno perde tutto, qualcuno imbroglia, qualcuno ha fatto fatica, qualcuno immagina, e non ha domani. Esattamente come in un qualsiasi altro giorno. Fino a che la porta della chiesa resta chiusa per Paul, il sogno di Jordan muore in una stazione, e la macchina di Goran non si fa piccola fino a dimenticarla. Sotto un arco boreale che brucia il cielo di colori che sembrano solo inventati.

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fetto non tempo, una sospensione in cui si può tornare a mescolare desiderio, cambiamento, speranza. Speranza non tanto della felicità (concetto bislacco e quasi incomprensibile per i perplessi personaggi hameriani), ma del non sentirsi più, almeno per un giorno, un’ora, un momento, irrimediabilmente soli. Quella del cinema di Hamer non è una solitudine piagnistea, apocalittica, imponente, quanto piuttosto un rassicurante, a tratti irrinunciabile, compagno di tempo. Leggera, soffice come neve, che quasi non ci si accorge. E quando ci si accorge si prova a sfidare il destino, si vagheggiano cambiamenti che non avverranno, si provocano tentativi irresistibili quanto dolcemente inconcludenti (come travestirsi da Babbo Natale per riprendersi la vita famigliare che non si ha più, come provare a ritornare al passato dopo troppi anni e troppi fallimenti, come aspettare che l’amante di una vita finalmente si decida). A differenza di Andersson, Hamer non si sofferma sulla fatica del vivere, sulle sue storture, sul suo, letterale, appesantimento. Al contrario i suoi personaggi sono figure colte in trasparenza, mai dolorose nel loro mescolamento di piccoli sogni, silenzi, vagheggiamenti, malinconie. Sono frammenti di un microcosmo ostile, come ostile è la neve onnipresente, ma anche accogliente, solo, ma anche dolce. Mentre il trenino elettrico continua a girare in tondo, anche se non ci sono più bambini a guardare, anche se i titoli di coda sono finiti.

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IN UN MONDO MIGLIORE Susanne Bier

Paradiso e vendetta

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Lorenzo Donghi

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Hævnen/In a Better World. Partiamo dal titolo, cercando di fare di un pretesto uno spunto di riflessione. Già da qui, infatti, emerge una curiosa ambiguità, che d’altra parte si rivela del tutto coerente con i contenuti del nuovo lavoro di Susanne Bier. Il titolo inglese del film, In a Better World, utilizzato ovviamente per la distribuzione internazionale della pellicola, e così quello italiano, che ne è la fedele traduzione, non scontano infatti solo una consueta perdita di letteralità rispetto alla versione originale, ma acuiscono la sensazione di uno “scollamento” linguistico mettendo a confronto due concetti distinti e distanti, in un certo senso inconciliabili. Se Hævnen, infatti, è una parola danese che intrattiene una certa similarità con l’inglese Heaven (che a sua volta indica il Paradiso, o come è solito declinarlo il senso comune, una sorta di ideale altrove che si presuppone esssere migliore dell’esistente), la sua traduzione corretta è invece quella di vendetta. Un termine che, seppur appartenente a un registro semantico evidentemente altro, finisce per inscrivere in un orizzonte quasi ossimorico il senso del rapporto che lega titolo e opera. Sarà una coincidenza cui non dare troppo peso. Ma è a suo modo curiosa, e può tornare utile, certo in un modo un po’ strumentale, per leggere controluce il film. Se si dà per buona la titolazione internazionale, il film può essere associato a una formula che suona infatti come una sorta di accorata invocazione: saturi di un mondo vissuto come una condanna, in cui imperano violenza, prevaricazione e ingiustizia, dobbiamo costruire la speranza di un’alternativa possibile, un “paradiso in terra”, paradiso in minuscolo poiché spogliato di ogni credenza irrazionale, in grado di coincidere appunto con l’idea laica di un mondo migliore. Tesi non pro-

Titolo originale: Hævnen. Regia: Susanne Bier. Soggetto: Susanne Bier, Anders Thomas Jensen. Sceneggiatura: Anders Thomas Jensen. Fotografia: Morten Søborg. Montaggio: Pernille Bech Christensen. Musica: Johan Søderqvist. Scenografia: Peter Grant. Costumi: Manon Rasmussen. Interpreti: Mikael Persbrandt (Anton), Trine Dyrholm (Marianne), Markus Rygaard (Elias), William Jøhnk Nielsen (Christian), Ulrich Thomsen (Claus), Bodil Jørgensen (il preside), Elsebeth Steentoft (Signe), Martin Buch (Niels), Anette Støvlebæk (Hanne), Kim Bodnia (Lars). Produzione: Karen Bentzon, Sisse Graum Jørgensen per Zentropa Productions/Film Fyn/Film i Väst/Memfis Film/Trollhättan Film Ab. Distribuzione: Teodora. Durata: 100’. Origine: Danimarca/Svezia, 2010. È la storia di Anton e Marianne, due medici in crisi matrimoniale, e di Elias, il figlio adolescente, vittima dei bulli della scuola. L’unico capace di difendere quest’ultimo è Christian, un compagno di classe che trascina Elias in un mondo a lui sconosciuto. Christian vive col padre Claus, da poco rimasto vedovo… (dal pressbook del film)


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prio mai sentita e un po’ prudente, ma che in sé non fa problema. Se a tener banco è invece il titolo originale, l’intero film può essere soppesato davvero come un’opera sul tema della vendetta, che concepisce il paradiso al massimo come un retaggio perduto, o, meglio, il risultato di un fraintendimento (Hævnen/Heaven, appunto). Un tema, la vendetta, che la Bier affronta come qualcosa che si può solo contenere ma che non è possibile rimuovere, qualcosa che ci inchioda alla nostra natura (più che al nostro contesto), qualcosa di cui, dalla quotidianità borghese di Copenhagen alle brutalità primitiva dell’Africa subsahariana, l’uomo non può disfarsi, poiché radicato a un tale livello di profondità da essere annoverato tra i caratteri distintivi della specie. Questa seconda prospettiva con cui avvicinarsi al film sembra a tutti gli effetti quella più appetibile per inquadrarlo quanto meno riducendone gli equivoci. Nella struttura narrativa, il filo conduttore della vendetta è teso infatti almeno tra due poli persistenti: da una parte, l’indole irrequieta del giovane Christian, incapace di incanalare la rabbia covata per la scomparsa della madre in altre direzioni se non in quella, tanto violenta quanto precocemente lucida, della vendetta come proprio imperativo caratteriale (il pestaggio del bulletto a scuola, l’ossessione per la rivalsa

contro il buzzurro meccanico Lars); dall’altra, l’abitudine alla disperazione degli abitanti del villaggio africano in cui lavora il padre dell’altro bambino, Elias, che da vittime di atroci sciagure belliche si trasformano in spietati esecutori durante il linciaggio di un tirannico lord of war del luogo. La continuità tra i due binari narrativi del film è d’altra parte assicurata dalla figura dello stesso Anton, poiché la sua professione giustifica la spartizione del film su due fronti alternati in continuo ripiego uno sull’altro, e il suo carattere, misurato e pacifista, permette di problematizzare il contatto con le due diverse realtà con un’ottica di sovrapposizione contrastiva (al manesco Lars che lo prende a schiaffi in faccia davanti ai ragazzini, Anton regisce porgendo l’altra guancia, mentre poi lascia morire un uomo ferito perché schifato dai suoi crimini). In questo modo prende forma il circuito di reciproca implicazione tra contesti differenti, la cui lontananza culturale è dichiarata in modo plateale, che abbiamo già incontrato in film precedenti della Bier, come Non desiderare la donna d’altri (2004, in Afghanistan precipita l’elicottero di un militare danese e l’uomo viene creduto morto dalla famiglia) o il successivo Dopo il matrimonio (2006, in cui protagonista è l’India, dove lavora un volontario fuggito da un grande amore che incontrerà di nuovo al suo ritorno in

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Patria). Aperture a orizzonti lontani quando non apertamente ostili, che alla luce della conferma raccolta in In un mondo migliore, come già suggerito, sembrano mantenere un atteggiamento orientato più alla ricerca di una matrice antropologica condivisa che a ricognizioni etnografiche o esercizi di parallelismo. Vale a dire: più che impegnato in un confronto tra due mondi lontanissimi, mosso dalla volontà di estendere oltre i confini della geopolitica il personale ragionamento sull’umano. Il montaggio cui la Bier ricorre per dare corpo alla vicenda pare in questo senso indicativo, e ci dà inoltre la possibilità di avanzare qualche considerazione su varianti stilistiche riconducibili alla regista danese ormai in qualità di marche autoriali. Il montaggio alternato che orchestra il susseguirsi dei due piani non si limita infatti, così come già nei film precedenti, a scandire l’ordine degli accadimenti, assicurando la continuità del prosieguo narrativo, ma pare intervallare le cornici della capitale europea e del villaggio africano cercandovi consonanza non solo nell’azione ma anche nella grammatica del linguaggio cinematografico. I raccordi di sguardo dei protagonisti, che sfidano distanze continentali cercandosi nell’oltre del fuori campo (come succedeva, insistentemente, in Non desiderare la donna d’altri), o il puntuale utilizzo del leitmotiv musicale, che funge da elemento di raccordo, sembrano voler gettare una naturale prosecuzione tra le due dimensioni della messa in scena, facendo dell’una la cassa di risonanza dell’altra. L’importanza attribuita al commento musicale, per quanto riguarda

la Bier, non è tra l’altro una questione da sottovalutare. Una regista che, come lei, proviene dal Dogma – che, come noto, si opponeva al punto due del suo decalogo all’utilizzo di suoni extra-diegetici – dimostra di essersi completamente emancipata dai dettami del movimento fondato da Von Trier, talvolta dando persino l’impressione di voler scivolare esattamente nell’opposto: la musica extra-diegetica è una presenza costante e fin quasi eccedente nel cinema della regista successivo a Open Hearts, girato nel 2002. A testimonianza della recisione di questo cordone ombelicale, In un mondo migliore adduce ulteriori prove, poiché conserva, del Dogma “versione manifesto”, una certa schiettezza registica, che non disdegna l’impiego di secchi jump-cut o zoom improvvisi sui volti dei protagonisti. Espedienti che tuttavia non traducono più un’originaria militanza espressiva, ma che convivono, del tutto armonizzati, in una prassi registica decisamente ripulita, che non rifiuta financo una smaltatura estetizzante, rintracciabile tanto nei toni garbati della fotografia quanto nel florilegio di dettagli su cui piace indugiare alla regista, a volte senz’altro con indubbia efficacia, sospendendo la storia e parcellizzando il profilmico, traducendo quasi la premura dello sguardo rapito di un osservatore ravvicinato. Quello che a questo punto non torna, secondo la logica che abbiamo scelto di abbracciare, è invece il finale del film. Del mondo migliore cui il titolo internazionale fa pensare, nel film della Bier, non sembra fino a ora esserci davvero traccia, forse perché, come si è cercato di argomentare, quel riferimento pare poco più che un falso indizio, messo lì probabilmente a indicare, con una sintesi che peraltro non fa onore al personaggio, la vocazione utopica del protagonista Anton. Il finale, invece, contraddice il registro dei minuti precedenti, risultando fin troppo accomodante: tutti risolvono i loro sensi di colpa, tutti si ritrovano a proprio agio in un rimpasto di piccoli fuorilegge e adulti egoisti. L’esito della traiettoria della Bier (e della sceneggiatura di Anders Thomas Jensen, autore del celebre Le mele di Adamo) è un’impennata di drammaturgia consensuale che pare essersi dimenticata il precedente scavo non banale nella psicologia dei personaggi, un approdo che non lascia tanto intuire la possibilità di una riconciliazione futura ma sente il bisogno di attestarla senza ambiguità. E, ancora, il momento apicale di tensione del film risulta persino poco memorabile per quanto riguarda l’organizzazione figurativa: possibile che, di fronte all’iconografia cinematografica del suicida che si getta dall’alto di un edificio, la Bier debba raccogliere proprio l’eredità formale più standardizzata e in qualche modo familiare – ancora l’inquadratura dal dietro, ancora il piano ravvicinato, ancora le braccia aperte sul vuoto…? Poco male. Il finale non deve aver dato troppi pruriti a critica e platea: il film ha vinto infatti il Gran Premio della Giuria e il Premio del Pubblico all’ultimo festival di Roma.


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IN SALA IL COMPLEANNO Marco Filiberti Regia e sceneggiatura: Marco Filiberti. Fotografia: Roberta Allegrini. Montaggio: Valentina Girodo. Musica: Andrea Chenna. Scenografia: Livia Borgognoni (Ezio Frigerio per l’allestimento di «Tristano e Isotta»). Costumi: Eva Coen, Isabelle Caillaud. Intepreti: Alessandro Gassman (Diego), Maria de Medeiros (Francesca), Massimo Poggio (Matteo), Michela Cescon (Shary), Christo Jivkov (Leonard), Thyago Alves (David), Piera degli Esposti (Giuliana). Produzione: Agnès Trincal, Caroline Locardi per Zen Zero. Distribuzione: Zen Zero. Durata: 106’. Origine: Italia, 2009. È ormai consuetudine che Venezia in particolare, e altri festival sulla scia, ospitino in selezioni ufficiali film anche notevoli di giovani autori italiani, che una volta transitati da quello schermo trovano enormi difficoltà a raggiungere un proprio pubblico. Ma il caso di Il compleanno è per più versi particolare. Innanzitutto per la generalizzata positività delle accoglienze riscontrate nel Controcampo italiano 2009 al Lido. In secondo luogo per l’eccellenza decisamente fuori dal comune del cast, come “nomi” e prestazioni.

Ancora, per la peculiarità del suo autore, probabilmente l’unico cineasta italiano a poter annoverare un curriculum di cantante lirico di livello internazionale. Di conseguenza, per aver optato per un genere, il melodramma “spinto”, ormai completamente scomparso, e da tempo, dall’orizzonte del cinema italiano (e d’altronde in troppo oggettivo contrasto, a priori, con la mediocrità divampante del vivere italiano odierno). E soprattutto, alla fine, per lo spirito di iniziativa con cui i realizzatori si sono ribellati alle sue difficoltà di circolazione in Italia, prendendo di persona l’iniziativa di promuoverlo, soprattutto spinti dalle notevoli affermazioni – anche di pubblico – riportate in altri Paesi. E neppure è consueta la spinta documentaria e promozionale assicurata da un sontuoso volume bilingue («Il mélo ritrovato. Il compleanno di Marco Filiberti», De Luca Editori d’Arte, s.i.p., «in memoria di Ezio Alberione, duellante appassionato di cinema e di tutto iò che è umano»), che non è soltanto di facciata, ma offre al lettore alcune chiavi critiche adeguate e approfondite, non meramente di circostanza. Filiberti annuncia fin dalle prime immagini la sua scelta di volare “alto”: la situazione di apertura, con le due coppie di amici che assistono dal loro palco alla rappresentazione di «Tristano e Isotta», fanno pensare automaticamente all’apertura di Senso. Con una profonda divergenza di significazione, che un acuto saggio di Giovanni Spagnoletti nel book d’accompagnamento illumina lucidamente. Dei quattro personaggi che ascoltano dal palco passaggi non casuali dell’opera wagneriana, solo il protagonista, lo psicanalista Matteo, pare effettivamente coinvolto, fino al disorientamento, da quanto sta vedendo. E tutta la complessa e sottilissima

ragnatela di rapporti che viene a intessersi tra i sei personaggi principali del film si sviluppa secondo una cadenza che è a sua volta, non schematicamente,“teatrale”, e porta la vicenda di un’attrazione fatale che prende corpo in modo lento e quasi al principio impercettibile, a un suo epilogo di tragica e incontrastabile fulmineità. È un azzardato e periglioso registro, sul cui impervio asse d’equilibrio sembra vegliare benevolo il fantasma di Sirk, deciso a impedire che l’accentuazione coerente si trasformi in un attimo in controproducente esagerazione. Ma è difficile non essere d’accordo con l’affermazione di Steve Della Casa che introduce il testo sul film: «Il cinema contemporaneo ha bisogno di melodramma. Ha bisogno di emozioni forti, di momenti di suggestione che superino la contemporaneità. In questo, Filiberti ha fatto tesoro dalla propria carriera. Non si può restare indifferenti di fronte a un lavoro che non ha nulla di somesso, di pacato, di mediato». Talune scelte potrebbero apparire opinabili: ad esempio il ricorso alle “interpretazioni” di Iva Zanicchi e Loretta Goggi, chiamate a sottolineare, rispettivamente con «Zingara» e «Maledetta primavera», determinati passaggi dell’assunto. Ma in realtà anche simili passaggi sono necessari proprio per demarcare il contrasto insanabile tra la banalità del piattume quotidiano in cui si svolge il tran-tran delle due coppie al mare (e di tutti noi nella nostra vita di ogni giorno), e la diversa “sublimità” dilacerante che l’esperienza dell’innamoramento subitamente spalanca. In definitiva, l’insieme regge, servito da un gruppo di attori ad altissimo rendimento (in particolare Massimo Poggio e Michela Cescon), denotando una singolarissima e credibile capacità di omogeneità e di tenuta, che accompagna il film, in continuo e coraggioso equilibrio, alla sua tragica, inevitabile, e del pari fatalmente wagneriana conclusione.

Nuccio Lodato

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IL RESPONSABILE DELLE RISORSE UMANE Eran Riklis

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Titolo originale: Shlichuto shel hamemune al mashabei enosh. Regia: Eran Riklis. Soggetto: dal romanzo omonimo di Abraham B.Yehoshua. Sceneggiatura: Noah Stollman. Fotografia: Rainer Klausmann. Montaggio: Tova Asher. Musica: Cyril Morin. Scenografia: Yoel Herzberg, Dan Toader. Costumi: Li Alembik, Adina Bucur. Interpreti: Mark Ivanir (il responsabile delle risorse umane), Guri Alfi (“Faina”), Noah Silver (il ragazzo), Rozina Cambos (il console), Julian Negulesco (il viceconsole), Bogdan E. Stanoevitch (l’ex marito), Gila Almagor (la vedova), Reymond Ansalem (il divorziato), Papil Panduru (l’autista), Irina Petrescu (la nonna), Danna Semo (la segretaria), Sylwia Drori (la suora), Ofir Weil (l’impiegato dell’obitorio), Roni Koren (la figlia). Produzione: Keinan Eldar, Tudor Giurgiu, Thanassis Karathanos, Talia Kleinhendler, Haim Mecklberg, Elie Meirovitz, Estee Yacov-Mecklberg per 2Team Productions/Pallas Film/EZ Films/Hai Hui Entertainment/Pie Films. Distribuzione: Sacher. Durata: 103’. Origine: Israele/Germania/Francia/Romania, 2010.

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Può far pensare a Kusturica l’ultimo film di Eran Riklis, Il responsabile delle risorse umane, il cui titolo richiama inevitabilmente Cantet e il contenuto superficiale Tra le nuvole. Ma il riferimento cinematografico più prossimo è Ogni cosa è illuminata (tratto dal romanzo omonimo dell’ebreo americano Safran Foer, storia di un viaggio rocambolesco dagli Stati Uniti all’Ucraina alla ricerca delle proprie radici) e, in senso più letterale, Simon Konianski del regista belga di origine ebraica Micha Wald, che nella seconda parte racconta il trasporto del corpo di un uomo verso la sepoltura

desiderata, nella sua terra (l’Ucraina) e accanto all’unica donna che avesse mai amato. Ma c’è un altro aspetto, più sostanziale. Il film di cui ci occupiamo è tratto dal romanzo omonimo di Yehoshua e nel libro il tema del viaggio è legato strettamente al percorso esistenziale del protagonista, che si origina dal senso di colpa. Perché è il senso di colpa (di fallimento, di inadeguatezza, di scarsa presenza a se stesso e agli altri) che lo porta a compiere un itinerario di espiazione e rigenerazione che passa per il viaggio (e per il corpo, per la depurazione del corpo), ma che è innanzitutto cammino interiore, ripensamento, crescita. Umanità. Lo scrittore insiste infatti sull’“umano”, facendo assumere all’opera una valenza esistenziale; non a caso il protagonista non ha nome, anzi nessuno dei personaggi ha un nome: l’unico che ce l’ha è quello che con la sua morte dà l’avvio al plot, Yulia Petracke, che di nomi in realtà ne ha tre nonostante sia un’“invisibile”, una persona che nessuno “reclama” all’obitorio perché straniera e in pratica assente da quella terra, non “risultante”. Gli altri due sono “l’angelo”, soprannome datole dagli abitanti del quartiere ortodosso in cui si trova a stare a Gerusalemme, e Ruth, nome dalle ascendenze bibliche che significa “compagna”, datole dalle ragazzine dello stesso quartiere. Una figura salvifica dunque; che attraverso la sua morte darà vita al protagonista che era morto, morto dentro; come se la morte del corpo potesse risanare quella dello spirito, esplicitata dalla voce della radio che dice che «a quest’ora di notte tutti siamo alla ricerca di qualcosa che possa confortare la nostra anima», mentre l’auto del protagonista sfreccia sullo sfondo della città illuminata. La città quindi. E Israele nel 2002, con gli attentati suicidi che ne sconvolgono le viscere. Se di Yehoshua qualcuno ha scritto che è un uomo politico prestato alla letteratura, i film precedenti di Riklis affrontano le questioni politiche del Medio Oriente in maniera più esplicita anche se sempre simbolica (e di “simbolismo realistico” si è parlato anche per lo scrittore), a partire soprattutto dall’idea del confi-

ne come limite, steccato, prigione che imbriglia. Qui il confine, non più tra Israele e Siria o tra Israele e i territori occupati ma tra Israele e l’Europa orientale, e più precisamente la Romania, è un confine che viene attraversato e che bisogna attraversare per ritrovarsi, come se per ritrovarsi, appunto, bisognasse uscire da una terra così problematica, dove tutto è complicato ma anche bello (come dice un personaggio del film a proposito di Gerusalemme), per visitarne un’altra problematica altrettanto, sia pure in modo diverso. La Romania di Riklin sembra infatti l’Estonia di Lilya 4ever con i suoi paesaggi desolati e freddi, i suoi quartieri periferici e dannati, la sua disperazione ben incarnata dal figlio di Yulia, un volto e una storia che da soli valgono il film. Ma anche i villaggi e la gente, gente semplice che riconcilia con il mondo chi viene da una realtà urbana (e personale) più complessa. E poi il film. Se il sottotitolo del libro è «Passione in tre atti», qui le parti sono essenzialmente due, quella a Gerusalemme e quella in Romania, con lo stacco segnato dalla dissolvenza su bianco sulla bara che viene mandata verso l’aereo. La prima parte è più “seria”, drammatica, la seconda più dinamica e picaresca, alla Kusturica appunto, con inserti grotteschi e surreali. La regia, semplice e lineare, è sostenuta da una fotografia incisiva, e l’ultima inquadratura è accompagnata da una ballata popolare che dice «Gente, sorella gente; c’è chi viene e c’è chi va, c’è chi nasce e c’è chi muore».

Paola Brunetta


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NOWHERE BOY Sam Taylor-Wood Titolo originale: Sam Taylor-Wood. Regia: Doug Liman. Soggetto: dal libro di memorie «Imagine: Growning Up with My Brother John Lennon» di Julia Baird. Sceneggiatura: Matt Greenhalgh. Fotografia: Seamus McGarvey. Montaggio: Lisa Gunning. Musica: Alison Goldfrapp, Will Gregory. Scenografia: Alice Normington. Costumi: Julian Day. Interpreti: Aaron Johnson (John Lennon), Kristin ScottThomas (la zia Mimi Smith), David Threlfall (lo zio George), Anne-Marie Duff (Julia Lennon), David Morrisey (Bobby Dykins), Thomas Sangster (Paul McCartney), Ophelia Lovibond (Marie), Sam Hanna Bell (George Harrison), Jack McElhone (Eric Griffiths), Les Loveday (Teddy), Simon Lowe (Jim Gretty), Josh Bolt (Pete), James Johnson (Stan Parks). Produzione: Robert Bernstein, Kevin Loader, Douglas Rae per Ecosse Films/Film4/UK Film Council/Aver Media/North West Vision. Distribuzione: 01. Durata: 98’. Origine: Gran Bretagna/Canada, 2009. John Lennon come Antoine Doinel. Strano e anche pericoloso parallelismo questo tra l’altra anima, il “doppio” del cinema di François Truffaut e il compositore e cantante dei Beatles del quale in Nowhere Boy viene portata sullo schermo la difficile adolescenza prima che raggiungesse la notorietà assieme alla celebre band. A una prima lettura il primo lungometraggio della videoartista Sam Taylor-Wood non sembra discostarsi di molto dalle rappresentazioni di certo cinema inglese. L’ambientazione (Liverpool intorno alla metà degli anni Cinquanta), le pulsioni ribelli, la continua alternanza tra desiderio e delusione, le rivelazioni improvvise porterebbero ad associare il protagonista di Nowhere Boy alla figura di Jenny, la sedicenne al centro del recente An Education, che si svolge all’inizio degli anni Sessanta ed è tratto da una parte dell’autobiografia di

Lynn Barber. E anche questo film, infatti, è tratto dal libro di memorie «Imagine: Growning Up with My Brother John Lennon» di Julia Baird. Si tratta quindi di due percorsi di iniziazione molto simili nel modo in cui vengono mostrati. La macchina da presa sembra seguire i due intensi protagonisti – Carey Mulligan in An Education e Aaron Johnson in Nowhere Boy –, che con i movimenti nervosi dei loro corpi guidano istintivamente i passaggi narrativi più importanti. Se, però, nel film di Lone Scherfig si avvertivano eccessivamente il peso di un descrittivismo d’ambienti quasi di maniera e il taglio della produzione Bbc, Nowhere Boy, invece, è pieno di fratture, di visioni improvvise, di scatti imprevisti. Certo, la struttura visiva non si discosta da un certo modello visivo, anche se a Sam Taylor-Wood sembra interessare maggiormente il rapporto tra la figura e lo spazio, evidente, per esempio, anche dalla luce differente che acquista la figura di John Lennon quando si trova a casa della zia (resa in maniera impeccabile nel modo in cui alterna compostezza e dolore da Kristin Scott-Thomas) e a casa della madre naturale, a cui era stato strappato quando aveva cinque anni e che rivede solo dieci anni dopo quando ormai si è formata una nuova famiglia. Ed è qui che entra in campo il paragone con Doinel. In Truffaut ogni luogo acquistava una diversa fisionomia ogni volta che era vissuto, segnato, attraversato dal suo alter-ego, e all’inquadratura successiva si faceva fatica a non associarlo al personaggio portato sullo schermo da Jean-Pierre Léaud. In Nowhere Boy avviene una cosa simile e, anzi, si ha l’impressione che ci sia non solo una complicità ma quasi un’ossessiva morbosità nel modo in cui Sam Taylor-Wood inquadra Aaron Johnson, catturandone ogni gesto minimo, ogni respiro. C’è quindi qualcosa di più tra cineasta e attore al di là di quello che viene portato sullo schermo. In futuro è probabile che questa simbiosi possa rinnovarsi, magari ancora con vicende ispirate agli aspetti più o meno conosciuti di personaggi celebri. Il lavoro che Aaron Johnson ha fatto col perso-

naggio di John Lennon potrebbe per certi aspetti somigliare a quello di Michael Sheen con Tony Blair in The Queen, The Deal e I due presidenti, lo showman inglese David Frost in Frost/Nixon. Il duello e il leggendario allenatore di calcio inglese Brian Kough in Il maledetto United. Quest’ultimo ovviamente lavora sulla mimesi con maggiore intensità, ma in entrambi i casi i tratti fisici dell’attore che interpreta queste figure si mantengono riconoscibili e non vengono completamente coperti dal make-up. Nowhere Boy si apre e si chiude nel segno della morte. All’inizio c’è quella dello zio, alla fine quella della madre. Forse una specie di preveggenza biografica, tracce autobiografiche in un’opera che cerca tuttavia di rifuggire le forme tradizionali del biopic e che amplifica, piuttosto, alcuni momenti determinanti, isolandoli. C’è una ricerca di identità (John davanti allo specchio che si pettina come Elvis Presley), frammenti di felicità che sono ulteriormente sottolineati proprio per evidenziare la loro provvisorietà, la loro brevità (la giornata trascorsa con la madre sul lungomare), soffermandosi poi anche sul lato oscuro, come negli incubi del protagonista, in cuie si affacciano per un momento e poi scompaiono come fulmini ancora tracce del cinema di Truffaut. L’opera di Sam Taylor-Wood attraversa anche la leggenda, con i primi concerti e i successi di John e l’incontro con Paul McCartney, in cui, sia pure con maggiore intermittenza, la passione brucia come nello straordinario Walk the Line di Mangold; oppure si avverte anche la leggerezza del tocco nel tratteggiare i segni iniziali di una

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leggenda, come fece Iain Softley con Backbeat. Tutti hanno bisogno d’amore. Nel film non c’è una traiettoria precisa, ma se ne intersecano diverse, come se fossero istintive suggestioni che hanno bisogno, anche solo per un momento, di prendere forma. Forse è anche in questa sua perdita di controllo che Nowhere Boy riesce a lasciare molto più di quello che promette inizialmente.

Simone Emiliani

WE WANT SEX Nigel Cole

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Titolo originale: Made in Dagenham. Regia: Nigel Cole. Sceneggiatura: William Ivory. Fotografia: John de Borman. Montaggio: Michael Parker. Musica: David Arnold. Scenografia: Andrew McAlpine. Costumi: Louise Stjernsward. Interpreti: Sally Hawkins (Rota O’Grady), Bob Hoskins (Albert Passingham), Miranda Richardson (Barbara Castle), Geraldine James (Connie), Rosamund Pike (Lisa Hopkins), Jaime Winstone (Sandra), Andrea Riseborough (Brenda), Daniel Mays (Eddie O’Grady), Kenneth Cranham (Monty Taylor), Rupert Graves (Peter Hopkins), John Sessions (Harold Wilson), Roger Lloyd-Pack (George), Richard Schiff (Robert Tooley), Lorraine Stanley (Monica), Nicola Duffett (Eileen). Produzione: Laurie Borg, Elizabeth Karlsen, Stephen Woolley per Number 9 Films/Bbc Films. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 113’. Origine: Gran Bretagna, 2010. Dagenham, stabilimento della Ford, 1968. All’entrata della fabbrica sfilano in parata una dopo l’altra diverse donne: colori, rumore, risa, strizzate d’occhio, allegri sfottò. Nello stanzone fatiscente dove inizia il turno di lavoro vediamo queste fanciulle liberarsi del giogo dei vestiti e mostrare ognuna il proprio gusto in fatto di biancheria intima, e di stile. C’è la botticelliana

che mostra le sue grazie con fierezza e disinvoltura, quella che viene a lavoro con l’acconciatura intatta, la biondina sensuale con modi da pin up, quella più matura e composta che le altre guardano con rispetto. E c’è lei, Rita O’Grady, minuta, vestita in modo semplice, occhietti vispi che non smettono di muoversi, alla ricerca di chissà che cosa. L’inizio di We want sex (Made in Dagenham, nell’originale, ma così, riprendendo un misunderstanding all’interno della trama, è senz’altro più ammiccante) sembra l’entrata in scena di una commedia teatrale, con scalinata trionfale inclusa percorsa a ruota da tutte le interpreti. Abbiamo appena il tempo di renderci conto dove ci troviamo, in che epoca siamo, di cosa stiamo parlando che un sindacalista impacciato (Bob Hoskins), con occhiali spessi, inizia ad arringare la folla: questa volta non si scherza, si sciopera e basta. Grida di gioia, stupore, eccitazione. Il nuovo lavoro di Nigel Cole è molto più colorato ma non altrettanto convincente delle sue passate prove, in particolare L’erba di Grace, non certo un capolavoro, ma una commedia divertente costruita su una buona idea, con un ritmo efficace. Qui si fa sul serio, invece, e si parte dalla Storia con la s maiuscola: questo gruppo di donne che, con la loro forza d’animo e tenacia riescono a mettere in difficoltà l’azienda per cui lavorano e a ottenere dei risultati insperabili per l’epoca è esistito davvero, anche se non se ne parla molto. In realtà il maggior pregio del film si esaurisce in questo sentito tripudio di cameratismo rosa visibile fin dalla prima scena: il femminismo per queste donne semplici, strette tra l’urgenza di lavorare e farsi rispettare e il desiderio di vivere la loro vita senza troppi pensieri è reso più come una fuga dalle loro esistenze grigie e ripetitive, una inaspettata ricreazione, che una scelta ponderata e a lungo termine. La stessa Rita (interpretata dalla brava Sally Hawkins) è trascinata dalla sceneggiatura dentro una lotta che sembra non appartenerle del tutto: nella scena in cui si presenta per la prima volta ai responsabili del sindacato passa da una situazione di mite e

remissivo ascolto a uno sbotto risoluto con uno scarto brusco quanto poco plausibile. La sua repentina ascesa da giovane moglie e madre della classe operaia che sogna il vestito della moglie del dirigente a paladina del salario equo è affrontata dalla regia di Nigel Cole con una certa distrazione, come se i momenti salienti fossero troppi per essere descritti con cura, con sensibilità. Si nota un certo imbarazzo di fronte a una storia che non è solo soluzione diegetica, ma verità documentata (tanto che le immagini delle vere novelle suffragette nel materiale di repertorio e nelle interviste sulle quali scorrono i titoli di coda sono un elemento incongruente che arriva sul film come da un altro pianeta: quanto più serie e arrabbiate erano e sono le vere protagoniste della vicenda!). Alcune soluzioni sono totalmente arbitrarie: la figura dei mariti traditi dalla passione politica non convince, sia quando si risolve in tragedia (George, il marito di Connie, si toglierà la vita anche a causa dell’impegno della moglie), che quando diventa contraltare sentimentale al trionfo sui membri maschili del sindacato: il marito di Rita infatti, se all’inizio è spaesato dall’inadempienza della moglie alle faccende domestiche, finisce per fornirle di fronte a un volo di gabbiani il suo illimitato e totale sostegno. Grottesca, divertente quanto inutile la descrizione dell’ intervento, alla fine risolutore, del ministro Barbara Castle (Miranda Richardson) e dei suoi due clowneschi accompagnatori totalmente ottusi rispetto alla causa.

Elisa Baldini


I FILM DELLA RASSEGNA AKADIMIA PLATONOS ACCADEMIA DI PLATONE di Filippos Tsitos (Grecia/Germania 2009, 103’) CRNCI / I NERI di Zvonimir Jurić, Goran Dević (Croazia 2009, 75’) HONEYMOONS / LUNE DI MIELE di Goran Paskaljevic (Albania/Serbia 2009, 95’) ARCHIPEL / ARCIPELAGO di Giacomo Abbruzzese (Francia/Palestina/Italia 2010, 23’) RACHEL di Simone Bitton (Francia/Belgio 2009, 100’) SAGARREN DENBORA. 25 URTE DESERRITIK ITZULTZEN IL TEMPO DELLE MELE. 25 ANNI DI ESILIO di Josu Martínez, Txaber Larreategi (Spagna 2010, 67’)

La rassegna sarà ospitata in diverse città italiane: Bergamo, Novara, Oleggio (NO), Pavia, Rovereto (TN), San Marino (RSM) Visioni e riflessioni sui conflitti geopolitici, ma anche urbani, razziali e di classe, che assillano numerose zone del pianeta. Film inediti per scoprire storie poco conosciute, attraverso gli occhi di chi questi conflitti li ha vissuti o li vive tuttora sulla propria pelle.

www.alcuoredeiconflitti.it Federazione Italiana Cineforum


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