Cinemino #01 - autunno/inverno 2004

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numero 1 ottobre/novembre 2004 Discorso di Marlon Brando alla serata dei premi Oscar del 1973 For 200 years we have said to the Indian people who are fighting for their land, their life, their families and their right to be free: «Lay down your arms, my friends, and then we will remain together. Only if you lay down your arms, my friends, can we then talk of peace and come to an agreement which will be good for you.» When they laid down their arms, we murdered them. We lied to them. We cheated them out of their lands. We starved them into signing fraudulent agreements that we called treaties which we never kept. We turned them into beggars on a continent that gave life for as long as life can remember. And by any interpretation of history, however twisted, we did not do right. We were not lawful nor were we just in what we did. For them, we do not have to restore these people, we do not have to live up to some agreements, because it is given to us by virtue of our power to attack the rights of others, to take their property, to take their lives when they are trying to defend their land and liberty, and to make their virtues a crime and our own vices virtues. But there is one thing which is beyond the reach of this perversity and that is the tremendous verdict of history. And history will surely judge us. But do we care? What kind of moral schizophrenia is it that allows us to shout at the top of our national voice for all the world to hear that we live up to our commitment when every page of history and when all the thirsty, starving, humiliating days and nights of the last 100 years in the lives of the American Indian contradict that voice? It would seem that the respect for principle and the love of one’s neighbor have become dysfunctional in this country of ours, and that all we have done, all that we have succeeded in accomplishing with our power is simply annihilating the hopes of the newborn countries in this world, as well as friends and enemies alike, that we’re not humane, and that we do not live up to our agreements. Perhaps at this moment you are saying to yourself what the hell has all this got to do with the Academy Awards? Why is this woman standing up here, ruining our evening, invading our lives with things that don’t concern us, and that we don’t care about? Wasting our time and money and intruding in our homes. I think the answer to those unspoken questions is that the motion picture community has been as responsible as any for degrading the Indian and making a mockery of his character, describing his as savage, hostile and evil. It’s hard enough for children to grow up in this world. When Indian children watch television, and they watch films, and when they see their race depicted as they are in films, their minds become injured in ways we can never know. Recently there have been a few faltering steps to correct this situation, but too faltering and too few, so I, as a member in this profession, do not feel that I can as a citizen of theUnited Statesaccept an award here tonight. I think awards in this country at this time are inappropriate to be received or given until the condition of the American Indian is drastically altered. If we are not our brother’s keeper, at least let us not be his executioner. I would have been here tonight to speak to you directly, but I felt that perhaps I could be of better use if I went toWounded Knee to help forestall in whatever way I can the establishment of a peace which would be dishonorable as long as the rivers shall run and the grass shall grow. I would hope that those who are listening would not look upon this as a rude intrusion, but as an earnest effort to focus attention on an issue that might very well determine whether or not this country has the right to say from this point forward we believe in the inalienable rights of all people to remain free and independent on lands that have supported their life beyond living memory. Thank you for your kindness and your courtesy to Miss Littlefeather. Thank you and good night. Marlon Brando, 27 marzo 1973 Il discorso, scritto da Marlon Brando e letto dall’attrice californiana di discendenza pellerossa Maria Cruz (nota con il nome di Sacheen Littlefeather) il 27 marzo 1973 durante la notte di premiazione degli Academy Awards, spiegava il rifiuto di Marlon Brando di presentarsi a ritirare il premio Oscar ottenuto grazie alla sua interpretazione in “The Godfather” (“Il Padrino”, 1973). Il discorso, di cui venne letta solo una parte, tratta della discriminazione degli Indiani d’America da parte degli Stati Uniti e di Hollywood in particolare. Tratto da: http://www.iacenter.org/brando.html

I fratelli dinamite • The Terminal • Predmestjie • La mala ordina • Colpo rovente • Estratto dagli archivi segreti della polizia di una capitale europea • Delivery • Milano Calibro 9 • Il Boss • Non si sevizia un paperino • Confituur • L’aldilà... e tu vivrai nel terrore • Mysterious Skin • I padroni della città • Rois et reines • Un mundo menos peor • Agnes und seine Brüder • Embedded / Live • The Manchurian Candidate • Mar adentro • W la foca • Una de dos • Familia rodante • She Hate Me • Chi è Dio • Vanity Fair • La femme de Gilles • Vera Drake • Colpo di stato • Ovunque sei • Le grand voyage • Tout un hiver sans feu • Promised Land • Enduring Love • Palindromes • Nemmeno il destino • Birth • A costa dos murmurios • Le chiavi di casa • Ambasadori, cautam patrie • Lo strano vizio della signora Wardh • O quinto império • Collateral • Jour de fête • The Party • Beyrouth Al Gharbiyya • West Beyrouth


EDITORIALE

LE CITTÀ VISIBILI 19 ottobre presso Canvetto Luganese, via Simen 14B, Lugano

PETER SELLERS – IL VOLTO DIETRO LE MASCHERE

Cinemino presenta Beyrouth Al Gharbyya Titolo internazionale: «West Beyrouth», Libano, 1998 Regia, soggetto, sceneggiatura: Ziad Doueiri

27 ottobre presso Living Room, via Trevano 89A, Lugano Cinemino presenta The Party «Hollywood Party», USA, 1968 regia: Blake Edwards 4 TATI 20 ottobre presso Living Room, via Trevano 89A, Lugano

24 novembre presso Living Room, via Trevano 89A, Lugano

Cinemino presenta Jour de fête «Giorno di festa», Francia, 1949 Regia: Jacques Tati

Cinemino presenta Lolita USA-UK, 1962 regia: Stanley Kubrick

17 novembre presso Living Room, via Trevano 89A, Lugano Cinemino presenta Les vacances de M. Hulot «Le vacanze di Monsieur Hulot», Francia, 1953 regia: Jacques Tati

Dopo due anni dedicati all’organizzazione di rassegne cinematografiche quali François Truffaut, l’enfant sauvage 2003-04, Difficili convivenze, il cinema del conflitto» sempre 2003-04, «Jim Jarmush, personaggi in cerca d’America 2003 e la Trilogia degli appartamenti di Roman Polanski nel 2004, cinemino torna con molte novità e iniziative. La prima è la rivista che tenete tra le mani e che si propone di essere un complemento alle diverse programmazioni che numero 1 – ottobre/novembre 2004 stiamo allestendo sia presso il Living Room di Lugano che presso il Canvetto Luganese (trovate il programma nelle pagine seguenti). Responsabile All’interno della rivista troverete testi, schede di film, Roberto Rippa (roberto @thermos.org) segnalazioni, programmi dei cineclub ed altro ancora. Tutto Redazione questo per offrirvi una visione allargata del cinema, della sua Roberto Rippa storia, dei suoi generi, dei suoi sviluppi e permetterci di precisare Donato Di Blasi (donato@thermos.org) le scelte e le strade intraprese da cinemino in questi anni. Segreteria In questo primo numero speciale troverete un diario dal Luisa De Dominicis Festival di Venezia, che ha rubato spazio ad alcune rubriche fisse che Ideazione e realizzazione grafica troverete nel prossimo numero, i programmi del mese di ottobre e Giorgio Chiappa novembre, sia nostri che di altri cineclub, e la prima puntata di una Ideazione e realizzazione grafica serie di articoli sul cinema di genere, partendo dalla Blaxploitation., sito internet fenomeno di breve vita risalente agli anni ‘70. Inoltre una rubrica con Donato Di Blasi le nostre personali segnalazioni per il cinema da vedere a casa propria. Grazie a La prima rassegna della nuova stagione è 4Tati dedicata al Mario Verger grande attore-regista-sceneggiatore Jacques Tati, cineasta che in poche per l’autorizzazione a utilizzare il suo testo Monica Aletti opere ha saputo creare un linguaggio cinematografico personalissimo. per la disponibilità e il prezioso aiuto A Peter Sellers è dedicata la seconda rassegna, che presenta Alessio Manzan una selezione di film tra i più riusciti e rappresentativi dell’attore Enrico Rossi inglese da tempo dimenticato. Il titolo della rassegna, Being Peter Luca Canali e a tutti i soci di Cinemino Sellers, il volto dietro le maschere, vuole evidenziare le capacità dell’attore, vera maschera del cinema comico e drammatico. Un grazie particolare a Giacomo Felicioni Le due rassegne saranno presentate dalla rivista presso il Living Room di Lugano. Per informazioni, offerte di collaborazione, commenti e critiche e per iscriversi alla mailing list di cinemino scrivete a cinemino@thermos.org Potete sostenere cinemino facendo una sottoscrizione. Per informazioni, visitate la pagina «sottoscrizioni» del sito internet cinemino è un progetto di Thèrmos Associazione Culturale Casella postale 4559, 6904 Lugano cinemino@thermos.org www.thermos.org/cinemino Le fotografie utilizzate per questo numero sono state scaricate da Internet o sono immagini distribuite per la stampa. Chiunque potesse avvalersi del diritto d’autore è pregato di annunciarsi. Tutti i testi contenuti in Cinemino sono coperti dal diritto d’autore e ne è vietata la riproduzione, anche parziale, se non autorizzata esplicitamente.

Cinemino, invece, si trasferirà presso la Sala Feste del Canvetto Luganese (via Simen 14), dove, a partire dal 19 ottobre prossimo, avrà inizio la rassegna Le città visibili. Con questa rassegna, cercheremo di seguire un tratto di quella strada che il cinema ha percorso all’interno delle città del mondo, rendendole ai nostri occhi a volte nuove, diverse, altre volte più comprensibili nella loro evoluzione e nei loro stravolgimenti. Questa rivista vuole essere uno spazio aperto, motivo per cui vi invitiamo a utilizzare il nostro indirizzo e-mail per mandarci commenti, segnalazioni, critiche e i vostri scritti, se lo desiderate. Vi ricordiamo che l’accesso alle nostre proiezioni è, come sempre, gratuito. Vi aspettiamo.

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JOUR DE FÊTE «Giorno di festa», Francia, 1949

BEYROUTH AL GHARBYYA Titolo internazionale: «West Beyrouth», Libano, 1998 Regia, soggetto e sceneggiatura Ziad Doueiri

La trama 13 aprile 1975: scoppia la guerra civile in Libano e Beirut viene divisa lungo Fotografia una linea che divide cristiani Ricardo Jacques Gale e musulmani. Tarek è un Montaggio liceale e gira film in super Dominique Marcombe 8 con il suo amico Omar. All’inizio il conflitto sembra Interpreti principali un gioco: la scuola chiude, la Rami Doueiri, Mohamad Chamas, violenza ha un suo fascino Rola Al Amin, Carmen Lebbos, e il passaggio da ovest a Joseph Bou Nassar e altri est è facile. La madre di Tarek vuole partire, il padre si rifiuta. Tarek trascorre il suo tempo con May, un orfano cristiano che abita nel suo palazzo. Proprio mentre sta crescendo, la guerra si trasforma inesorabilmente da un’avventura in una tragedia. Musiche originali Stewart Copeland

Il film Nel 1975, con il massacro di diversi palestinesi, il Libano vede iniziare la sua guerra civile. Il Paese si spacca tra la sua componente cristiana e quella musulmana. Nella capitale questa spaccatura vede la sua esasperazione, arrivando a coinvolgere quartieri e vie. È questo lo spunto del film, la divisione di un popolo che è in guerra contro sé stesso, ma non trascura di indugiare anche su un altro

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Regia e soggetto Jacques Tati conflitto, quello generazionale che divide padri e figli in un momento, per questi ultimi, in cui la vita è soprattutto scoperta e libertà. Doueiri racconta il suo Paese, una storia autobiografica ed estremamente drammatica e lo fa con semplicità, ironia e uno sguardo a tratti distaccatamente romantico. Premiato al festival del film di Cartagena, al festival del film di Friborgo, al festival internazionale del cinema di Toronto e al festival internazionale del film di Valladolid (Spagna), «Beyrouth Al Gharbiyya» (titolo arabo di «West Beyrouth») è il primo film di Ziad Doueiri. Il regista Ziad Doueiri è nato nel 1963 in Libano, dove ha vissuto fino al 1983, quando si è trasferito con la famiglia negli Stati Uniti. Studia cinema a San Francisco e alla U.C.L.A., inizia quindi un lungo sodalizio con Quentin Tarantino per cui lavora come primo assistente alla camera nei film da lui diretti «Reservoir Dogs» (1992), «Pulp Fiction» (1994) e «Jackie Brown» (1997). «Beyrouth Al Gharbiyya» è il suo primo film. Nel 2004 ha girato «Lila dit ça», in uscita questo autunno in diversi Paesi europei. (rr)

Sceneggiatura Jacques Tati, Henri Marquet

La trama Mentre la quiete del paese di Saint Sévère viene turbata dai preparativi per la festa di piazza, il postino François, grande estimatore dell’efficienza del sistema postale americano, si impegna nel modernizzare la distribuzione della posta seminando ulteriore scompiglio.

Musiche originali Jean Yatove Fotografia Jacques Mercanton, Jacques Sauvageot Montaggio Marcel Moreau Interpreti principali Jacques Tati, Guy Decomble, Santa Relli

Il regista Jacques Tati, nato come Jacques Tatischeff il 9 ottobre 1909 in quella che ora si chiama Yvelines, Francia, si ispira da subito all’arte dei grandi mimi. Dal 1931 fino all’immediato dopoguerra calca le scene dei teatri di varietà ottenendo grande successo con le sue trovate visive, ispirate anche a Charlot, il personaggio inventato da Charlie Chaplin. Già nel 1932 appare in un cortometraggio, «Oscar, champion de tennis», diretto da Jack Forrester. Segue, nel 1934, un altro cortometraggio: «On demande un brute» (in italiano «Bruto cercasi») diretto da Charles Barrois. Nel 1935 co-dirige e co-sceneggia

(con il clown Rhum) il suo primo cortometraggio «Gai dimanche» cui segue la partecipazione come attore e sceneggiatore a «Soigne ton gauche» di René Clément. Nel 1947 dirige il celebre «L’école des facteurs» (in italiano «La scuola dei portalettere»), in cui appare già il personaggio del postino, figura poi al centro del lungometraggio «Jour de fête» del 1949, da lui scritto (con Henri Marquet) e diretto. Tati, in questo film, basa le sue trovate sulla parodia dei gesti e dei tic comuni. «Les vacances de M. Hulot» («Le vacanze di Monsieur Hulot», 1953) lo vede, ancora muto (pronuncia solo il suo cognome) protagonista di una storia che ha al centro la società consumista e la tecnologia (le auto, gli elettrodomestici) ma, al contrario di Chaplin in «Modern Times» («Tempi moderni», 1936) lui passa attraverso qualsiasi novità non perdendo il suo atteggiamento serafico finendo anzi con il rendere le vacanze agli altri turisti meno monotone. Qui Hulot è come non mai la quintessenza dell’uomo comune, caratterizzato da un animo candido e cortese. «Mon oncle» («Mio zio», 1958) amplifica il tema ponendo Hulot a

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THE PARTY «Hollywood Party», U.S.A., 1968 Regia e soggetto Blake Edwards confronto con la sorella, borghese e snob, che vive in una casa modernissima piena di ogni diavoleria ultratecnologica. Lei si mette in testa di farlo fidanzare con una vicina nel corso di una festa che, naturalmente, Hulot trasformerà in un disastro. Anche il cognato tenterà di omologarlo alla società corrente dandogli un lavoro nella sua fabbrica di tubi ma anche l’esito di questa esperienza sarà disastroso. Suo nipote, intanto, trova in lui la fantasia e la svagatezza che nella vita quotidiana della sua famiglia manca totalmente. Nel 1967 ritroviamo Hulot, in «Playtime», tentare di prendere contatto con un funzionario che continua ad apparire per poi scomparire nei meandri di in un palazzo tutto vetrato che imprigionerà anche lui come in un labirinto. Dopo una visita a una fiera campionaria, piena di oggetti moderni e ridicoli, si ritroverà travolto da un’orda di turisti americani a vagare per Parigi. «Traffic» («Monsieur Hulot nel caos del traffico», 1971) lo vede disegnare un’innovativa vettura piena di soluzioni innovative che va presentata a una fiera ad Amsterdam. Il viaggio verso l’Olanda verrà intrapreso con tre mezzi: un camion Filmografia Parade (1974) (TV) contenente la vettura, una Trafic («Monsieur Hulot nel berlina con i dirigenti caos del traffico», 1971) dell’azienda costruttrice e Playtime (1967) un’auto sportiva. Il traffico Mon oncle («Mio zio», 1958) – premio speciale della giuria al infernale unito a una serie Festival di Cannes nel 1958. di contrattempi faranno sì Les vacances de M. Hulot che il viaggio si complichi («Le vacanze di Monsieur Hulot», 1953) oltremisura, con Hulot Jour de fête («Giorno di festa», 1949) – candidato al Leone d’Oro alla Mostra che tenta, senza successo, del Cinema di Venezia nel 1949. di porre rimedio agli L’école des facteurs inconvenienti. Questa volta («La scuola dei portalettere», 1947) Gai dimanche (1935) Hulot diventa il cantore 6

della modernità, facendone comunque sottilmente oggetto di satira. Segue l’ultima apparizione della sua carriera «Parade» («Il circo di Tati», 1974), cronaca realizzata per la tv di un suo spettacolo in cui ripercorre, attraverso i suoi personaggi, la sua carriera. Jacques Tati è morto a Parigi il 4 novembre del 1982. Curiosità sul film – Al film prendono parte i veri abitanti del paese di Saint Sévèr sur Indre. – Il film venne girato contemporaneamente in bianco e nero e a colori con due macchine da presa ma distribuito, in origine, solo nella sua versione in bianco e nero contro il volere di Tati a causa delle difficoltà nello sviluppare il procedimento Thomsoncolor. Nel 1994, per volere della figlia di Tati, la pellicola a colori è stata restaurata e redistribuita nelle sale in occasione del quarantacinquesimo dalla sua prima uscita. (rr)

Sceneggiatura Blake Edwards, Tom Waldman, Frank Waldman Musica originale Henry Mancini Fotografia Lucienne Ballard Montaggio Ralph E. Winters Interpreti principali Peter Sellers, Claudine Longet, Marge Champion, Steve Franken, Fay McKenzie, J. Edward McKinley

La trama Hrundi V. Bakshi, una goffa comparsa di origine indiana, fa esplodere per errore il set del film cui sta partecipando in un ruolo estremamente marginale. L’appunto in cui il produttore segnala che la comparsa va licenziata finisce per errore a ingrossare la lista degli invitati a una festa privata nella villa del produttore stesso, con conseguenze disastrose.

Il film Quando girano «The Party», Peter Sellers e Blake Edwards sono reduci dai grandi successi dei due film con il personaggio dell’ispettore Clouseau come protagonista («The Pink Panther», «La Pantera Rosa», 1963 e «A Shot in the Dark», «Uno sparo nel buio» dell’anno seguente, usciti entrambi nel 1964) ma hanno anche giurato di non lavorare mai più insieme a causa dei dissidi nati tra loro in occasione della lavorazione dei due film. Blake Edwards pensa che una tra le ragioni del rancore che l’attore provava nei suoi confronti dipendesse dal fatto che erano stati proprio i film leggeri legati al personaggio della Pantera Rosa a renderlo famoso, più che altri film da lui interpretati e che considerava più impegnati. Quando Blake Edwards, grande estimatore del regista Leo McCarey e del suo famoso film «Duck Soup» del 1933 con protagonisti i fratelli Marx, decide di rendere omaggio al cinema comico dell’epoca girando un film muto, non gli viene però in mente un protagonista migliore dell’istrionico attore inglese. Peter Sellers è già noto allora per la sua capacità di trasformismo, nato e

lungamente esercitato ai tempi della radio, che gli permette di interpretare più ruoli nello stesso film (come in, giusto per fare un esempio, «Dr. Strangelove: or How I Learnt to Stop Worrying and Love the Bomb» – «Il dottor Stranamore», 1964, di Stanley Kubrick). Edwards inizia quindi a scrivere «The Party» pensando proprio a Peter Sellers per il personaggio principale e oggi spiega così la sua scelta: «Lavorare con Peter Sellers significava divertirsi come non mai o l’esatto contrario. Quando decisi di fare «The Party», calcolai che mi sarei divertito come non mai. Ne valeva la pena perché lui, a suo modo, era un genio» e «(Peter Sellers) doveva interpretare diversi personaggi distanti da sé per divertirsi. Non esisteva se non nei panni dei suoi personaggi più estremi».1 La lavorazione inizia con una sceneggiatura di sole 63 pagine, chiaro indice di quanto spazio fosse stato previsto per l’improvvisazione. Secondo le intenzioni del regista, il film avrebbe dovuto essere muto e sottotitolato e girato in una vera villa ma cambiò idea su tutti questi aspetti. Il film venne girato in studio e il set costruito in una vasca che permettesse l’utilizzo di tutti i giochi d’acqua che si vedono nel film. «The Party» venne girato in dodici settimane tra il giugno e l’agosto del 1967 e il produttore Walter Mirisch racconta che fu immediatamente chiaro che il film sarebbe stato un grande successo comico in quanto gli attori si fermavano sul set a seguirne la lavorazione anche quando non erano impegnati nelle scene, tanto che si era presa l’abitudine di modificare le scene se attori e maestranze non ridevano mentre le scene venivano girate. Al film si deve anche l’invenzione di uno strumento che rivoluzionò il modo di girare: Blake Edwards aveva segnalato l’esigenza, 7


proprio per la particolare natura del film, di visionare le scene subito dopo averle girate anziché a fine giornata nei cosiddetti giornalieri. Questo gli era necessario per poter eventualmente rigirare immediatamente una scena non riuscita anziché dover attendere il giorno seguente. Inoltre gli era indispensabile verificare le inquadrature a causa del grande numero di comparse utilizzate. Venne chiesto al produttore associato Ken Wales di trovare una soluzione e questi pensò a un sistema già utilizzato da Jerry Lewis per i suoi film, ossia fissare una videocamera a lato della cinepresa per poter verificare su un monitor, come si faceva in televisione, ciò che si stava girando. La soluzione però offriva un risultato approssimativo in quanto ciò che mostrava il monitor non era esattamente ciò che la camera stava riprendendo, considerato che la posizione della videocamera era leggermente diversa. La Panavision venne modificata in modo da poter incamerare la videocamera che quindi venne rivolta verso il basso e puntata su un sistema di specchi che riportava l’inquadratura quasi identica a quella ripresa dalla cinepresa. Questo sistema, inventato dalla Video West, iniziò a venire conteso dalle produzioni dell’epoca tanto che era impossibile accontentare tutti. Ceduta l’invenzione alla Panavision, gettò la base per il modo di girare attualmente utilizzato.

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Curiosità sul film – Il film, contrariamente a quanto accade abitualmente, venne girato seguendo l’ordine cronologico esatto delle scene. – Il produttore associato Ken Wales racconta che la scena in cui un elefante viene lavato nella piscina all’interno del salone della villa, venne realizzata utilizzando lo schiumogeno in dotazione ai pompieri dell’aeroporto di Los Angeles a simulare la schiuma del sapone. Poiché lo schiumogeno trovava la sua efficacia proprio nell’eliminazione dell’ossigeno dal fuoco, le persone che si trovavano nella piscina furono vittime di malore dovuto a soffocamento.2 Il regista William Blake McEdwards nasce il 26 giugno 1922 in Oklahoma. Nipote del regista J. Gordon Edwards (autore di film come «The Queen Sheba» del 1922), Blake Edwards inizia a lavorare come attore prima e autore radiofonico dopo. Lavora quindi come sceneggiatore alla Columbia, dove inizia un sodalizio con il regista Richard Quine («Sound Off», 1952, «Rainbow ‘Round My Shoulder» e «Cruisin’ Down the River», entrambi del 1953), e come produttore associato per la televisione. Nel 1955 gli viene offerta l’opportunità di girare li suo primo film «Bring Your Smile Along», che gli vale un contratto con la Universal per cui gira i suoi primi grandi successi commeciali: la commedia con Tony Curtis «Mister Cory» («Le avventure di Mister Cory», 1957) e «Operation Petticoat» («Operazione sottoveste», 1959) con Cary Grant. Risale al 1958 l’invenzione della serie TV «Peter Gunn» in occasione della quale nasce il lungo sodalizio con l’autore di colonne

sonore Henry Mancini. Nel 1961 gira il suo capolavoro «Breakfast at Tiffany’s» («Colazione da Tiffany», premio Oscar per la migliore colonna sonora), tratto da un romanzo di Truman Capote, seguito da «Days of Wine and Roses» («Il giorno del vino e delle rose», 1962). Nel 1963, Blake Edwards ci introduce allo scoppiettante personaggio dell’Ispettore Clouseau in «A Shot in the Dark» («uno sparo nel buio») , immediatamente seguito da «The Pink Panther» («La pantera rosa», 1964), usciti entrambi, ma in ordine inverso, nel 1964. Nel 1965 gira «The Great Race» («La grande corsa»), grande successo con un cast che annovera, tra gli altri, Jack Lemmon, Tony Curtis, Natalie Wood e Peter Falk. Al 1969 risale «Darling Lili» (la cui protagonista Julie Andrews sposerà nello stesso anno), un poco riuscito film drammatico massacrato dalla Paramount in fase di montaggio, che rappresenta un vero e proprio passo falso da cui si risolleverà solo nel 1979 grazie a «10», cui segue nel 1981 il riuscito «S.O.B.» (l’acronimo sta per «Son of a Bitch»), feroce satira di Hollywood. I seguiti della Pantera Rosa («Revenge of the Pink Panther» – «La vendetta della Pantera Rosa», 1978, «The

Pink Panther Strikes Again» – «La Pantera Rosa colpisce ancora», 1976, e «The Return of the Pink Panther» – «Il ritorno della Pantera Rosa», 1975) offrono risultati altalenanti comunque non all’altezza dei due titoli capostipite. Meno riusciti ancora sono «Curse of the Pink Panther», girato nel 1983 montando materiale edito e non con Peter Sellers, scomparso tre anni prima, con scene girate ex novo, e «Trail of the Pink Panther» del 1982, in cui Sellers non appare. Un ulteriore tentativo di sfruttare il personaggio con «The Son of the Pink Panther» («Il figlio della Pantera Rosa», 1993), con Roberto Benigni protagonista, si risolve in un fallimento. Negli anni ‘80 gira diverse commedie, tra le meno riuscite della sua intera carriera: «Blind Date» («Appuntamento al buio», 1987), «Sunset» (1988), «Skin Deep» («Skin Deep – il piacere è tutto mio», 1989) e Switch («Nei panni di una bionda», 1991). Nel 1995 torna agli antichi fasti con la commedia «Victor/Victoria» con Julie Andrews nel ruolo di una donna che, nella Parigi degli anni ‘20, finge di essere un uomo travestito da donna per ottenere successo nei cabaret della città. Il film è un grande successo di critica e pubblico e porta all’attrice una candidatura all’Oscar (la terza dopo quella per «Mary Poppins, che otterrà, e «The Sound of Music», in italiano «Tutti insieme appassionatamente»). Il regista Shawn Levy sta attualmente ultimando le riprese del rifacimento di «The Pink Panther» con Steve Martin nel ruolo che fu di Peter Sellers. Troverete nel prossimo numero un ritratto di Peter Sellers

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Diario dalla sessantunesima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia

I fratelli Dinamite

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VENEZIA

di Roberto Rippa

CITTÀ APERTA

Mercoledì primo settembre

Giovedì 2 settembre

Tra viaggio e interminabile coda per ritirare l’accredito, tre ore sotto un sole cocente, rimane giusto il tempo per correre (la corsa sarà una costante di questa mostra) a vedere l’imperdibile primo appuntamento con la retrospettiva Italian Kings of the Bs (dedicata alla storia segreta del cinema italiano, ossia al cinema cosiddetto di genere): il cartone animato I fratelli Dinamite del 1949, realizzato da Nino Pagot (creatore con il fratello Toni di Calimero). L’opera in questione è il primo lungometraggio animato realizzato in Italia nonché il primo a colori in Europa. Dato per disperso da 55 anni, recentemente ritrovato e quindi restaurato da una copia in positivo (il lungo lavoro di recupero è riassunto per sommi capi nella scheda dedicata al film), narra dei fratelli Din, Don e Dan che, dopo una felice permanenza su un’isola deserta in seguito a un naufragio, vengono ritrovati da zia Cloe che tenta di reinserirli nel mondo civilizzato. Il lungometraggio è un capolavoro ed è un piacere poterlo finalmente vedere dopo averne sentito tanto parlare. Pare che verrà pubblicato in DVD e forse anche proiettato nelle sale di alcune città italiane nel corso dell’autunno. Speriamo, ne vale la pena. Italian Kings of the Bs, retrospettiva fortemente voluta da Marco Müller, è una prima occasione tanto attesa di rivedere film che fino ad ora cercavamo disperatamente sulle reti televisive locali o nazionali per poi vederli, magari massacrati e mutilati di minuti e minuti per ragioni di censura, perché contenenti pubblicità (quanta acqua Pejo o Fernet Branca nei poliziotteschi, per non parlare dei pacchetti si sigarette tenuti in mano in favore della camera perché se ne leggesse bene la marca) o, più spesso, perché recuperati da chissà dove e poi tagliati con il falcetto per infarcirli di spot pubblicitari. Venezia 61 fa benissimo a dedicare al cinema di genere la restrospettiva in questione. Molti film, e diversi loro autori, meritano una rivalutazione proprio ora che non sono più confusi in una produzione vasta e piuttosto omogenea come ai loro tempi. E poi si tratta di cinema vitale, seppur sempre commerciale, che fa ancora più effetto in un periodo in cui la televisione, con l’egemonia composta da Rai Cinema e Mediaset attraverso Medusa, ne ha azzerato la produzione in favore di «operine carine» adatte allo sfruttamento sul piccolo schermo. Gli estimatori del genere, brillantemente definiti da Marcello Garofalo «catecumeni», sono esperti attentissimi e collezionisti rigorosi che sanno perfettamente, per esempio, che la versione DVD giapponese (si parla di film reperibili da anni in mezzo mondo ma non in Italia, dove iniziano a venire pubblicati solo ora) di «Avere vent’anni» di Fernando Di Leo presenta una manciata di secondi in più di quella uscita in videocassetta anni prima in Italia. I film presentati a Venezia sono stati recuperati, grazie al lavoro mirabile e sicuramente difficile dei curatori Marco Giusti e Luca Rea (responsabili anche della trasmissione di Raidue «Stracult»), restaurati e finalmente riportati agli antichi splendori.

Alle 9 sono già al Palatim per The Terminal di Steven Spielberg. Il film è teso, duro e soprattutto realistico come un qualsiasi film di Natale della Disney, con l’aggravante che questo trae ispirazione da una storia che reale lo è. Il protagonista che, proveniente dall’immaginaria Krakozhia, a causa di un golpe nel suo Paese rimane bloccato all’aeroporto JFK di New York, esiste davvero. Solo che quello autentico, Merhan Karimi Nasseri, iraniano d’origine divenuto apolide per una questione burocratica intricata, vive invece dal 1988 anni all’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi, e, soprattutto, la sua vita non è certamente cosparsa di uno spesso strato di melassa come qui. Il film non ci risparmia alcun luogo comune, da New York vista come paradiso contrapposto all’aeroporto-purgatorio (il resto sarebbe quindi l’inferno?) alla bella (Catherine Zeta Jones che non ci risparmia una pubblicità nemmeno troppo occulta al marchio di prodotti cosmetici con cui ha un contratto) che dell’uomo apprezza la sensibilità che manca al suo compagno, dal rozzo facchino dal cuore d’oro allo stesso protagonista che, quando la situazione nel suo Paese si sblocca lasciandolo libero, prima di ripartire compie la sua ultima missione negli Stati Uniti: ottenere l’autografo di un musicista jazz mancante alla collezione del padre morto. Convinti di avere assistito a un maldestro rifacimento di «E.T.», con un protagonista che parla come certi americani pensano che parlino gli stranieri, si esce dalla sala con la tentazione (la neccessità?) di farsi iniettare dell’insulina per abbassare il tasso di zucchero nel sangue. Sulla stampa (il film per i giornalisti è stato proiettato il giorno prima) leggo un paragone tra Tom Hanks, Charlie Chaplin, Jacques Tati e Buster Keaton. Sì, certo... come se non ci fosse una grandissima differenza tra una grande maschera e una macchietta. Di corsa per il primo film che vedrò nella sezione Giornate degli autori: lo sloveno Predmestjie (titolo internazionale «Suburbs», ossia periferie) è un bel film, crudo (questo sì) e capace di mettere in scena in modo molto efficace un concetto difficile da rendere, quello del vuoto umano (vedi scheda).

Predmestjie

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Delivery

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Mi precipito alla sala Volpi per vedere il secondo (per me) film della retrospettiva Italian Kings of the Bs, La mala ordina (1972) di Fernando Di Leo. È un piacere vederlo per la prima volta sullo schermo. La filmografia di Di Leo non è argomento che possa essere liquidato in poche righe e quindi rimando l’appuntamento a uno dei prossimi numeri. Proseguo con Colpo rovente, del 1969 di Pietro Zuffi. Del film non si capisce granché e questo lo confessano anche la protagonista Barbara Bouchet, presente in sala al fianco di Quentin Tarantino, e il co-curatore della rassegna Marco Giusti. Però è un noir modernissimo, ultima sceneggiatura del compianto Ennio Flaiano, con splendide immagini e un Carmelo Bene, nel ruolo di un killer, strepitoso. La sala Volpi ha un centinaio di posti ed è qui e nella più capiente sala Perla che si svolge la retrospettiva. Le sue dimensioni favoriscono l’impressione di fare parte di una congrega di appassionati (in un clima quasi da loggia massonica) che parlano un linguaggio tutto loro e che stanno mezz’ora in coda per vedere un film di un regista di cui la maggior parte del pubblico non ha mai sentito neppure il nome. Continuo a pensare che sia una bellissima occasione per i sostenitori di un cinema che trova finalmente una meritata rivalutazione. Galvanizzato dalla visione de La mala ordina, decido di proseguire con la retrospettiva, che prevede la proiezione di un film che non ho mai visto: Estratto dagli archivi segreti della polizia di una capitale europea (1972) di Riccardo Freda, regista noto per i suoi peplum (come vengono chiamati i film mitologici in costume, un titolo per tutti: «Maciste alla corte del Gran Khan» del 1961) risalenti agli anni ’50 e ’60 e per i suoi gialli degli anni ‘70. Il film, un pasticciaccio produttivo disconosciuto dal regista stesso (che conosciamo per prove decisamente migliori), mostra un gruppo di ragazzi costretto a trovare riparo dalla pioggia in una villa dove avrà presto luogo una messa nera con tanto di sacrificio umano (sì, una di loro). Il film non ha capo né coda, è risibile in gran parte ma ci permette di capire da dove abbia tratto ispirazione Tarantino per le esagerate decapitazioni a mezzo di sciabola del suo «Kill Bill vol. 1». Il pubblico ride soddisfatto. E comunque Freda è un maestro. Vedere «L’orribile segreto del Dr. Hichcock (sic)», «L’iguana dalla lingua di fuoco» o, appunto, uno dei suoi peplum a basso costo per capire quanto anche il suo cinema sia stato saccheggiato nel tempo. Dopo una doverosa pausa per evitare, a qualche ora dall’inizio, la sensazione di avere assistito a un solo film molto confuso, vado a vedere Delivery di Nikos Panayoitopoulos (Pardo d’Oro a Locarno nel 1978 per «I tembelides tis eforis kiladas») che narra degli emarginati di Atene attraverso la storia di un ragazzo (l’attore protagonista, Thanos Samaras, ne offre un’interpretazione straordinaria) che vive lentamente in un mondo che si muove veloce. Delivery non manca di raccontare coloro che sono stati spazzati via dai luoghi delle Olimpiadi a causa di una pulizia della città per nulla dissimile

da quella effettuata dall’ex sindaco Giuliani a New York. Ne sento parlare male, ma a me è non è dispiaciuto. Certo, talvolta ci si trova a difendere un film magari non troppo riuscito in considerazione del tema che tratta o lo si apprezza per il coraggio o le buone intenzioni... Dopo un’altra pausa, a mezzanotte e mezza sono in coda alla sala Perla per il dittico di Di Leo Milano Calibro 9 (1972, vedi scheda) e Il Boss (1973). Si tratta di due film noir molto belli, il primo soprattutto, ma qui si tratta di gusti personali. Barbara Bouchet, presente nel primo titolo, è seduta in sala tra Tarantino e Joe Dante, e i più maligni osservano che il suo seno, decisamente sproporzionato sul suo corpo minuto, è ben diverso da quello che si vedrà tra breve nel film, costretto in un bikini di perline. Impossibile non osservare come, quando il curatore segnala al pubblico la presenza dei due registi americani, l’applauso destinato a Joe Dante sia molto più caloroso e prolungato di quello tributato al suo più giovane collega. La proiezione dei due film è anticipata da una chicca molto attesa: «Nocturno» (per saperne di più: www.nocturno.it), la migliore e più autorevole rivista sul cinema di genere, con la più recente «Cine 70», presenta uno degli speciali sul regista da essa curati, un’intervista molto interessante che ci dà modo di assaporarne l’intelligenza, la cultura e l’ironia, che saranno inclusi nei DVD di prossima pubblicazione. La rivista è mossa da un vero amore, e da una conoscenza senza eguali, per questo cinema e per i suoi autori. Infatti saranno proprio i suoi fondatori, i prodi Manlio Gomarasca e Davide Pulici, a collaborare in maniera determinante alla prossima pubblicazione dei DVD di Di Leo (e di Fulci con la trilogia citata poco sotto). Sono loro ad avermi fatto scoprire Di Leo ed il suo cinema, sono loro gli unici ad avere ore e ore di interviste filmate con il compianto regista, scomparso alla fine dello scorso anno. Le due proiezioni terminano intorno alle 4. Di corsa al vaporetto, mi sa tanto che domani non sarò al Lido per le 9 come previsto.

Venerdì 3 settembre

Confituur

Mai dire mai, non sono ancora le 9 e sono in coda per vedere il nuovo film di François Ozon 5x2 (ribattezzato in italiano «5x2 Frammenti di vita amorosa»), che ripercorre una storia d’amore a ritroso: dal divorzio al primo incontro casuale attraverso cinque tappe. A me piace ma, sentendo i commenti all’uscita, ho l’impressione di essere l’unico. Non c’è tempo di rielaborare l’opinione, devo correre alla Sala Volpi dove per i catecumeni del cinema di genere italiano c’è un appuntamento tra i più attesi, quello con Non si sevizia un paperino (1972, vedi scheda) di Lucio Fulci. Si tratta di uno tra i suoi film più apprezzati unitamente a «7 note in nero» (1977, il preferito dal regista) e alla cosiddetta trilogia dell’orrore di cui si parla nella scheda. L’ho già visto ma doppiato malissimo in inglese e comunque mai in sala. Il film supera la prova del tempo con la sua atmosfera malsana e la sua descrizione di credenze e superstizioni ben lungi dall’essere scomparse. Memore dell’ottima esperienza fatta con i cortometraggi francofoni a Locarno quest’anno, decido di dedicarmi alla nuova scena cinematografica belga andando a vedere Confituur (vedi scheda) di Lieven Debrauwer, proiettato nella sezione Giornate degli autori. La fiducia non viene tradita: il film è ironico, doloroso e reale. Uno di quei film che ti fanno rendere conto alcune ore dopo la visione di avere assistito a qualcosa di più profondo e complesso di ciò che, pur validissimo, si è appena seguito. Grazie alla co-produzione TSR speriamo trovi spazio anche sui nostri schermi. 13


Alle 16.30 appuntamento con un altro classico di Fulci: L’aldilà... e tu vivrai nel terrore (1981), parte della trilogia che comprende anche «Quella villa accanto al cimitero», sempre del 1981, e «Paura nella città dei morti viventi» del 1980. Lucio Fulci, per chi non lo conoscesse, e sarebbe una vergogna, è un maestro del cinema italiano, con alle spalle decine di film di vario genere: dal western ai finti 007, dalle commedie con Franco e Ciccio (uno per tutti: «Come svaligiammo la Banca d’Italia» del 1966) a Totò («I ladri», 1959) e all’horror, tutti generi in cui ha saputo imprimere un suo stile personale evidenziando che se avesse avuto più mezzi a disposizione, o comunque più fortuna, la sua carriera avrebbe potuto portargli altre soddisfazioni. «L’aldilà» è un horror «artaudiano» (a dire dello stesso regista) su un albergo costruito sopra una delle porte d’accesso all’inferno. Quando una ragazza lo eredita e decide di riaprirlo, non tarderà a pentirsi. Corpi che si sciolgono, occhi che vengono trafitti (una costante del regista) e altri, chiamiamoli così, «effettacci» mi avevano addirittura causato conati di vomito quando lo vidi per la prima volta al cinema Paradiso di Lugano a 15 anni aggirando il divieto ai minori. Oggi mi fa molta più impressione un qualsiasi segmento di «Buona domenica» con Costanzo. Comunque, vedere Michele Mirabella (il conduttore di «Elisir» su Raitre) divorato dall’interno del suo stesso corpo da disgustosi ragni è un momento di vero culto. Peccato solo per l’incongruente finale con gli zombi, imposto a suo tempo dai distributori tedeschi contro il parere del regista. Quando uscì, oltre a una buona segnalazione su «Positif», il film si guadagnò persino una critica positiva da parte di Tullio Kezich che, sul Corriere della Sera, scrisse: «si nota che, tra banalità dei contenuti e cattivo gusto sanguinolento, riesce a farsi strada una scrittura cinematografica efficace e persino elegante» («Stracult», Marco Giusti, 2004, pp. 15-16). Il pubblico è divertito e commosso e l’applauso che tributa al nome di Fulci sui titoli di testa è sincero e commovente. In sala è presente anche Dardano Sacchetti, sceneggiatore di tanto cinema italiano (da Mario Bava a Dario Argento, da Umberto Lenzi a Ruggero Deodato), che interviene per alcuni minuti a fine proiezione, a causa del suo ritardo all’inizio. Sacchetti è una miniera di aneddoti sul cinema che amiamo, ma il tempo stringe e non può che raccontarne giusto un paio (la sceneggiatura per Lenzi scritta in poche ore con il supporto di due bottiglie di vodka e undici pacchetti di Marlboro), lasciandoci la voglia di ascoltarlo per ore. Grazie a un ritardo nelle proiezioni, posso andare a vedere Mysterious Skin di Gregg Araki al Palagalileo (la sala più scomoda dell’universo. Considerando che ci siano sale cinematografiche anche su altri pianeti, questa sarebbe comunque la più scomoda). Ad Araki mi avvicino con enorme diffidenza, in fondo non ho mai visto un suo film che mi sia piaciuto, ad eccezione forse di «Doom Generation» ma il fatto che ora non me lo ricordi per nulla non depone a favore di ciò che ho appena scritto. «Mysterious Skin», però, si rivela un’eccezione: Araki smette di raccontare sempre la stessa storia, anche perché stavolta trae ispirazione dal bel romanzo di Scott Heim che porta lo stesso titolo. «Mysterious Skin» è la storia di due 14

ragazzi molto diversi tra loro, uno dei quali spiega a sé stesso un suo vuoto di memoria con la convinzione di essere stato rapito, bambino, dagli alieni. L’incontro tra i due farà affiorare la dura verità su quanto accaduto, permettendo forse loro di lasciarsi alle spalle ciò che fino a lì li ha condizionati. La proiezione di Collateral di Michael Mann non è accessibile agli accreditati, viene proiettato solo per la stampa e il pubblico pagante (ma perché? oltretutto il biglietto per le proiezioni delle 19.30 in Sala Grande costa 30 Euro). Lo vedrò quando uscirà nelle sale, non è che le scelte alternative qui manchino. Peccato però, Mann è, secondo me, un regista dalla carriera altalenante ma con alle spalle almeno due film che ho amato molto: «Thief» (in italiano «Strade violente», 1981) e «Manhunter» («Manhunter – frammenti di un omicidio», 1987), due opere molto personali, due noir stranianti e dilatati. Il secondo è la prima trasposizione filmica del personaggio di Hannibal Lecter creato da Thomas Harris (verrà rifatto nel 2002 da Brett Ratner con il titolo «Red Dragon» sotto la sciagurata produzione di De Laurentiis) che verrà poi seguito dall’altrettanto bello, e molto diverso, «The Silence of the Lambs» («Il silenzio degli innocenti», 1991) di Jonathan Demme. Nel caso non aveste visto nessuno dei due, vi consiglierei di recuperarli. È ora di una pausa e torno a Venezia (mentre scrivo questo diario continua a venirmi in mente la rubrica di Cuore «E chi se ne frega»...). A mezzanotte dovrò essere di nuovo al Lido per la «Notte Tarantino» in programma alla Sala Perla. Quentin Tarantino si presenta al pubblico venuto appositamente per la notte a lui dedicata (noi lo abbiamo visto tutti i giorni precedenti), ed è tenuto sotto costante mira dall’obbiettivo della videocamera di Enrico Ghezzi. Il film in programma, «I padroni della città» di Di Leo, non c’è: dice che è stato inserito nel programma per errore e annuncia la proiezione a sorpresa della sua copia personale di Cosa avete fatto a Solange?, giallo del 1971 di Massimo Dallamano, che vede Fabio Testi professore in un college (ah, la magia del cinema...) sospettato del delitto di una sua allieva, mentre altri efferati omicidi seguiranno di lì a poco. La copia è scolorita e doppiata in inglese (ma tanto, quando in sala Tarantino ride – e ride spesso! – i dialoghi chi li sente più?) il film l’ho già visto e quindi me ne vado. Mal me ne colga, il giorno dopo vengo a sapere della proiezione a sorpresa di 7 note in nero di Lucio Fulci (che, tra l’altro, presenta una curiosità: la scena del suicidio della madre all’inizio è costruita in modo identico alla morte finale di «Non si sevizia un paperino», cambiano solo le fattezze dei manichini utilizzati). Me ne faccio una ragione e decido che comprerò il DVD francese (l’unico esistente, comunque ha la traccia originale in italiano e formato corretto). Tra l’altro, la retrospettiva fa sentire gli echi di un divismo che, diventato appannaggio esclusivo di calciatori e di quella categoria femminile Barbara + Quentin = Love che fa lavori che finiscono tutti in «ine» – letterine, schedine, veline, e quant’altro, roba da far venire la nostalgia per le «Tate di Toto (Cutugno)» – il cinema italiano non offre più: sui giornali si parla della notte Di Leo di ieri sera con Tarantino e Bouchet che si sarebbero fatti portare in sala ostriche e champagne da consumare durante le proiezioni. Sarà, ma io ero vicino a loro e non ho visto nulla di tutto ciò. Due parole su Tarantino: è gentile e disponibile con la gente che, nella piccolissima Sala Volpi, gli pone domande, critica qualcosa che ha fatto o magari chiede solo una fotografia vicino a lui. Anche nelle occasioni ufficiali non smette mai di riconoscere il suo debito nei confronti del cinema italiano degli anni ‘70. Insomma, è una persona modesta. 15


Che questa sia una mostra diversa, lo dimostra anche l’esistenza della Global Beach (per la presenza della quale ha trattato Müller stesso), ossia lo spazio alternativo alla mostra ufficiale gestito dai Disobbedienti e da diversi centri sociali, dove poter andare a mangiare a prezzi politici, ascoltare musica, vedere spettacoli e assistere a dibattiti. La spiaggia è lontana ma è sempre affollata. Lo spazio è caratterizzato da un pubblicizzatissimo leone in cartapesta costato 800 euro, in contrapposizione ai, francamente brutti e un po’ cafoni, leoni dorati realizzati da Dante Ferretti, costati 800’000 euro, che fanno mostra di sé davanti al Palazzo del cinema. È sera tardi quando giunge la notizia della strage nella scuola di Beslan in Ossezia. Qui sembra di essere in un mondo a sé stante: i quotidiani si leggono la mattina, spesso solo per sapere cosa scriva la stampa di un film visto dai giornalisti il giorno prima e che noi vedremo il giorno stesso, e non c’è tempo per guardare la televisione. Ma la notizia si propaga velocissima da persona a persona. Mi viene voglia, e non sono il solo, di abbandonare tutto. Più tardi andrò alla Global Beach: questo è un dolore che va condiviso.

Sabato 4 settembre La giornata per me inizia alle 11 con la visione di Rois et reines di Arnaud Desplechin, film in concorso. Bellissimo e crudo, narra la storia di due persone, Nora e Ismael, un tempo sposati e da tempo separati. Lei ha coronato il suo progetto di sposare finalmente un uomo che le si confaccia, lui è invece finito in un ospedale psichiatrico dove non gli viene risparmiata una serie di esperienze al limite del grottesco. Si rincontrano quando Nora va a chiedergli di adottare suo figlio, cosa che lui, alla fine, non farà perché, come dice lui stesso, non avrebbe nulla da offrirgli. È il racconto di due realtà profondamente diverse e distanti: Nora vive di ricordi e rischia di non riconoscere più il suo presente; Ismael, sebbene sia rinchiuso, non può fare a meno di protendersi verso la libertà. Esco convinto di avere appena visto il Leone d’Oro di quest’anno.

Rois et reines

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Alejandro Agresti e Monica Golan, Tim Robbins, Jonathan Demme

Il film dura due ore e mezza e quindi, dopo, posso vedere solo Un mundo menos peor di Alejandro Agresti (vedi scheda). È bellissimo, e mi dispiace quasi andarne a vedere un altro subito dopo ma – la vita da festival non ammette tentennamenti – esco dalla sala e mi rimetto in coda per Agnes und seine Brüder di Oskar Röhler. Il film narra di tre fratelli, uno è un travestito o un trans, uno un maniaco sessuale e il terzo un politico in ascesa che vede la sua famiglia sfasciarsi. Misto di «Todo sobre mi madre» («Tutto su mia madre», 1999, di Pedro Almodóvar), «Ma come fanno bene quei giochini le erotiche ragazze dei villini» (sconosciuto) e «Perdòno» (1966 di Ettore Maria Fizzarrotti con Caterina Caselli) per come tenta di illustrare le dinamiche famigliari nei lati anche più grotteschi, e di Derrick per gli ambienti allegri ed eleganti, il film è piuttosto indigeribile e quindi ne approfitto per dormicchiare un poco, giusto il tempo di non perdere lo scontatissimo finale in cui il politico riesce a riavvicinarsi alla moglie e di conseguenza al figlio turbolento, il maniaco sessuale incontra la donna della sua vita e fugge con lei, mentre il travestito sta forse per morire (lo si intuisce dal fatto che perde sangue da sotto la gonna, chissà poi perché). Il finale vorrebbe essere aperto (in realtà lo si intuisce al momento dei titoli di testa) ma comunque vada abbiamo la certezza che finirà tragedia. Sicuramente minore di quella vissuta da noi spettatori. Tentando di togliermi di dosso la sensazione di disgusto per il film appena inflittomi, vado a vedere Embedded / Live di Tim Robbins, ripresa di uno spettacolo dal vivo ora in scena a Londra dopo essere stato rappresentato a New York e Los Angeles. Tim Robbins mette in scena una satira sulla guerra in Irak mettendo a nudo le manovre del Pentagono e del governo per pilotare la stampa. Tim Robbins è un uomo impegnato e coerente, il film non esattamente riuscito anche se è impossibile non apprezzarne l’intento e il coraggio. L’applauso in sala ha il sapore del riconoscimento più dell’impegno che del risultato. Tim Robbins sarà l’unico ospite illustre, unitamente a Naomi Klein, ad andare alla Global Beach a presentare il suo film e a sottoporsi a un incontro con la gente presente. La conferenza stampa di presentazione di «Lavorare con lentezza – Radio Alice 100.6 MHz» di Guido Chiesa diventa teatro di battaglia tra alcuni lavoratori dello spettacolo francesi, che da mesi manifestano contro la riforma dei diritti sociali nel loro settore, e la sicurezza che interviene con ingiustificata veemenza per cacciarli. Marco Müller, consapevole del momento delicato e anche per questo interlocutore diretto dei ragazzi di Global Beach, stigmatizza la reazione della sicurezza. Mi è venuta voglia di vedere il film domani. Riesco a entrare anche per The Manchurian Candidate di Jonathan Demme, rifacimento del film omonimo del 1962 diretto da John Frankenheimer (uscito in Italia con il titolo «Va e uccidi») . Ci vado perché sono un estimatore di Demme sin dal periodo della sua appartenenza alla «factory» 17


I padroni della città

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di Corman o quando scrisse il soggetto di «Black Mama, White Mama», filmone con Pam Grier del 1972. Sono anche un estimatore della controversa pellicola originale, uno tra i migliori esempi di thriller politico americano, che narra di un gruppo di reduci dalla guerra in Corea sottoposti al lavaggio del cervello e trasformati in agenti del nemico. Il rifacimento di Demme sposta la vicenda ai giorni nostri, con i reduci dalla guerra del Golfo (e qui il nemico non sono più le spie russe bensì gli uomini che muovono i fili dell’economia). Uno di loro si insospettisce quando viene a sapere che un suo compagno si è candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti. È un film riuscito, che non manca di sottintendere un discorso chiaro, pur se indiretto, sull’attuale presidenza. Meryl Streep, nel ruolo della perfida senatrice Eleanor Shaw, madre del candidato, offre un’ottima interpretazione, degna di quella di Angela Lansbury nell’originale. La sorpresa della giornata è un cortometraggio diretto da Mario Soldati, scritto da Cesare Zavattini e commissionato dal Vaticano (attraverso la casa di produzione Orbis) nel 1948 per mostrarlo nelle scuole elementari come strumento educativo di preparazione alla prima comunione. Chi è Dio? vede un gruppo di bambini porre la domanda del titolo a una serie di adulti. Realizzato nel più puro stile neo-realista, è divertente e profondo, ma il suo essere troppo avanti nel tempo (e molto probabilmente il fatto che contiene un proverbio arabo a sostenere la risposta alla domanda del titolo, momento di apertura ecumenica in un periodo storico in cui «Ebrei, Arabi e persino cristiani protestanti erano considerati peccatori mortali per il solo fatto di essere fuori dalla verità cattolica», come cita nel numero monografico sull’opera la rivista Ciemme) fa sì che il Vaticano se lo dimentichi. Del cortometraggio nessuno saprà più nulla fino a quando Maria Carla Cassarini, autrice del volume «Miracolo a Milano, storia e preistoria di un film» troverà in una rivista dell’epoca uno stralcio della sceneggiatura e si metterà quindi a cercare con successo riferimenti all’opera nei quotidiani del periodo. Scatterà quindi la caccia alla pellicola, che verrà trovata, dopo un anno di infaticabile ricerca, nell’archivio dell’Istituto Luce dopo essere stato per anni nei magazzini delle suore Paoline di Roma. La pellicola viene restaurata presso Cinecittà Studios. Il progetto è curato da Cinit – Cineforum Italiano, che pubblica un numero speciale della sua rivista «Ciemme» (numero 144, agosto 2004) dedicato interamente all’opera ritrovata. Alle 22 vedo I padroni della città, altro Fernando Di Leo. Si tratta di un film sullo scontro tra due boss in cui si inserisce un giovane delinquentello ambizioso. Vera e propria caccia tra gatto e topo, momenti di grande commedia e finale mozzafiato ma, soprattutto, un grandioso Vittorio Caprioli nel ruolo del ladruncolo «Napoli». Quando esco mi viene spontaneo chiedermi come sia possibile dimenticare un attore così straordinario in ogni ruolo, anche i minori, che ha interpretato. L’appuntamento per lo spettacolo della notte è con W la foca di Nando Cicero, opera irrinunciabile per ogni vero estimatore del cinema di serie b. Sgomberiamo immediatamente il campo da ogni dubbio: «W la foca» è praticamente inguardabile, un vero orrore. Tipico esempio di film che mette in scena, senza nemmeno preoccuparsi di creare una parvenza di legame logico, una serie di barzellette di

grana non proprio finissima. Il genere, comunemente denominato barzelletta-movie, è stato in voga per un breve periodo all’inizio degli anni ‘80 (« I Carabbimatti», 1983, di Giuliano Carnimeo, e «La sai l’ultima sui matti?», 1982, di Mariano Laurenti) per giungere a un tentativo di rilancio proprio quest’anno con «Le barzellette», diretto da Carlo Vanzina. Scenografia da saldi del Mercatone del mobile, interpretazioni come manco in una televendita e tono visivo generale da film porno italiano primi anni ‘80, ha un suo culto che gli deriva dai numerosi sequestri, dovuti soprattutto al titolo, che hanno fatto sì che sparisse completamente dalla circolazione fino a questa occasione. Le scene-barzelletta sono inframmezzate da continue docce di Lory Del Santo (la quale, probabilmente, sul set è stata sotto la doccia per una giornata intera per un’unica scena che poi è stata montata lungo tutto il film). Ho anch’io i miei limiti e quindi attendo la scena chiave del film (la Del Santo passeggia in un parco con la foca in una carrozzina – sì, nel film la foca vera c’è! (e se non è metacinema questo...) – quando incontra un giovane che è a spasso con un mastino. Vedendola, il ragazzo esclama: «Hai visto che foca?» e il cane risponde: «Che Dio la benedoca!«) ed esco. Davvero terribile. Commovente però il caloroso e sincero applauso che il pubblico tributa a Bombolo, protagonista della pellicola, all’apparire del suo nome nei titoli di testa.

Domenica 5 settembre Alle 8.45 sono già al PalaTim per Mar adentro di Alejandro Amenábar (il giovane regista di «Thesis», 1996, «Abre los ojos», «Apri gli occhi», 1997 e «The Others» del 2001), che molti discutono ma io trovo bellissimo e struggente. È la storia di Ramon, che vive immobilizzato da trent’anni a causa di un incidente occorsogli al mare. Il suo unico desiderio è quello di darsi la morte e in questo è sostenuto dal suo avvocato, Julia, che lo difende in un’aspirazione che trova legittima mentre una donna del paese, Rosa, tenta di convincerlo che vale la pena di continuare a vivere. Le granitiche certezze delle due donne verranno messe però a dura prova dalla personalità stessa di Ramon. Il film presenta tutti gli elementi classici propri del dramma (la tensione psicologica, la musica struggente a sottolineare il pathos delle situazioni) ma Amenábar è un maestro nel dosare questi elementi (nonché spietatezza e dolcezza) senza farli mai apparire eccessivi né scontati e sa giostrarsi in una storia che, alla prima caduta di tono, potrebbe scivolare definitivamente nel patetico. La voglia che mi aveva preso ieri, dopo gli incidenti nel corso della conferenza stampa, di vedere Lavorare con lentezza – Radio Alice 100.6 Mhz di Guido Chiesa è rimasta. Il film, sceneggiato da Chiesa con il collettivo Wu Ming (cinque narratori al lavoro su diversi media. Hanno pubblicato, tra gli altri «54», Einaudi, 2002, e «Giap!», Einaudi, 2003), racconta di Radio Alice, nata a Bologna nel 1976 e da subito portavoce del movimento studentesco nonché roccaforte di un nuovo concetto di lavoro, sesso e cultura. Chiesa allaccia la storia della radio a quella di due ragazzi della periferia sud, Sgualo e Pelo, due pedine di un gioco più grande di loro, che stanno scavando su commissione del ricettatore per cui lavorano un tunnel verso la Cassa di Risparmio di Piazza Minghetti. Descrive il contrasto con le istituzioni ma anche con il Partito Comunista Italiano, la frattura generazionale, mostra un concerto degli Area di Demetrio Stratos, però proprio qui il film pare sfaldarsi, arrivando ad essere un mero testimone del semplice colore dell’epoca, assumendo quasi toni da commedia giovanilistica pronta per il piccolo schermo. Il titolo trova origine nella canzone di Enzo Del Re che faceva da sigla all’inizio delle trasmissioni della radio. 19


Una de dos, opera prima di Alejo H. Taube (vedi scheda), è un film argentino costato due anni e mezzo di riprese (ovviamente non continue) partendo proprio dal momento più nero della crisi del Paese, con i «padroni» che abbandonano le fabbriche e i risparmi del popolo che si volatilizzano nelle banche. Estación Contes, 80 km da Buenos Aires, è un piccolo centro i cui abitanti non hanno che due possibilità di scelta: resistere (ma come?) o arrendersi. «Una de dos», appunto. Un giovane, «il biondo», traffica per conto della malavita in denaro falso ma nessuno lo sa, anche se il suo tenore di vita al di sopra della media (ha i soldi per la benzina e paga da bere una sera al bar) porta i suoi amici a porsi delle domande, mentre gli altri, per poter acquistare qualcosa nel negozio del villaggio devono prima passare i soldi dalla porta chiusa. Girato in digitale, è un film in cui l’emozione non ha mai momenti convenzionali. Per adesso è nella rosa dei tre che ho amato di più. In questa mostra è impossibile non notare quanto il cinema argentino sia in fermento: opere vitali e coraggiose che fanno pensare che la spinta che muove gli operai a occupare le fabbriche e i cineasti a realizzare le loro opere sia esattamente le stessa. Davanti al Palazzo del Cinema alcuni ragazzi tengono un lungo striscione che reca la scritta: «La mostra è qui ma il mostro dov’è?» con foto di Berlusconi con tanto di bandana. Un bambino che non avrà più di tre anni non riesce a staccare gli occhi dalla foto e ride da non riuscire quasi a reggersi sulle gambe. I genitori cercano di portarlo via ma non ci riescono tanto è stremato dal gran ridere. La scena mi fa pensare che c’è ancora speranza.

Lunedì 6 settembre Vedo Vanity Fair di Mira Nair più che altro perché è il primo film della giornata e, essendo alle 8.30, non c’è altro. Storia di un’orfana che, nell’Inghilterra dell’800, scala l’alta società non trascurando alcun mezzo per raggiungere il suo scopo, è una bella copertina per un libro che però manca. Fino a ieri se ne parlava come di uno dei possibili candidati al Leone d’Oro ma, dopo la visione, nessuno ci scommetterebbe più un centesimo. Mentre sulla stampa sto leggendo delle polemiche che infuriano a causa dei disguidi organizzativi (ritardi che raggiungono in alcuni casi le due ore, biglietti venduti in quantità superiore ai posti disponibili) penso di essere stato fortunato sino a qui in quanto, a parte i rigidi controlli che fanno sì che non si entri in alcuna sala se non pochissimi minuti prima dell’orario della proiezione, non mi è capitato di sentirmi vittima di alcun disguido. Certo, i dieci minuti che in gran parte dei casi, da programma, separano la fine di una proiezione dall’inizio della successiva nella stessa sala non sono sufficienti – ma è possibile che qualcuno lo abbia davvero pensato? – e quindi capita che il ritardo nell’inizio della proiezione successiva faccia saltare tutto il programma seguente. Si può anche dire che i film sono tanti, quasi troppi, e leggendo il programma si nota subito che sarà assolutamente impossibile vederne alcuni per una questione di sovrapposizioni. Alle 17 assisto a La femme de Gilles di Frédéric Fonteyne. Francia anni ‘30: Elisa è una donna e una sposa felice, madre di due deliziose bambine e in 20

attesa di un terzo figlio. Il marito Gilles completerebbe un quadretto idilliaco se non fosse che è innamorato della cognata Victorine. Elisa, pur soffrendo le pene di inferno, lo incoraggia e conforta quando Victorine decide di sposarsi e lo lascia. Poi Elisa si butta dalla finestra. Tutto qui? Sì, tutto qui. Però dura 103 minuti. Di seguito vedo Vera Drake di Mike Leigh (vedi scheda), un regista che da «Life is Sweet» del 1990, «Naked» del 1993, «Secrets and Lies» («Segreti e bugie») del 1996 ai sottovalutati «Career Girls» del 1997 o «Tupsy-Turvy» del 1999 non ho più smesso di apprezzare comunque, anche nelle prove meno riuscite. La storia di una madre di famiglia che pratica aborti, senza ricavarne alcun utile, su ragazze in difficoltà diventa anche un efficace ritratto dell’Inghilterra degli anni ‘50, con una lotta tra ricchi e poveri ben lungi dall’essere diventata un ricordo. Girato con un equilibrio raro e sostenuto da interpretazioni di insuperabile classe (è uno di quei film inglesi in cui anche l’ultima delle comparse sembra avere calcato per anni i palcoscenici), una spanna sopra tutti quella di Imelda Staunton, il film è semplicemente molto bello. Mike Leigh ha una tesi ma non sente la necessità di urlarla e inoltre sceglie di mantenere la vicenda su un piano intimo, evitando per esempio di coinvolgere la Chiesa nel discorso (grazie!). Secondo me rischia di vincere. La giornata si conclude con la proiezione notturna del capolavoro del 1970 di Sergio Martino Lo strano vizio della signora Wardh, giallo con venature erotiche (allora, perché oggi vederci qualcosa di erotico è davvero complesso) che lancia Edwige Fenech come «scream queen» italiana, nonché primo film con lei prodotto da Luciano Martino, inizio di lungo un sodalizio che li vedrà attraversare nel tempo tutti i generi (e da cui nasceranno le famose «Soldatesse alle grandi manovre», «Insegnanti», ecc.). È la storia di una moglie insoddisfatta e ancora ossessionata da un legame precedente dai risvolti masochistici (è questo lo strano vizio del titolo) con Ivan Rassimov. Julie Wardh teme che il maniaco responsabile di alcuni delitti che stanno avvenendo in città sia proprio il suo ex compagno. Quasi condotta alla pazzia da strane manie di persecuzione, è in realtà vittima di una trama ordita dal marito che mira al suo patrimonio. Si salverà dalla morte ben organizzata dal venale consorte? Il film è un fulgido Ruth Sheen e Imelda Staunton in «Vera Drake» esempio di giallo all’italiana (che gode di grande considerazione in mezzo mondo, Stati Uniti in prima linea) diretto da un prolifico regista del cinema di genere italiano, fratello del produttore Luciano Martino, capace di passare dal western al giallo, dalla commedia sexy (suo è il mitico «Giovannona Coscialunga disonorata con onore», sempre con la Fenech) agli sceneggiati TV da prima serata. 21


Martedì 7 settembre La retrospettiva presenta Colpo di stato (1969) di Luciano Salce. Il film, che da anni è completamente scomparso, narra di un computer americano che, nel 1972, sbaglia nel dare come vincitori alle elezioni i comunisti con tutto ciò che ne consegue (il governo avverte il Presidente, che mette subito in allarme il sistema missilistico, mentre la televisione non sa come dare la notizia). Il tentativo di fare satira fantapolitica è abbastanza riuscito ma Salce (a proposito, non sarebbe ora di riconoscergli il ruolo che merita nella storia del cinema italiano?) l’ho preferito in altre prove. Di Ovunque sei di Michele Placido, in concorso, riesco a sopportare giusto mezz’ora, che mi diranno tra poco essere stata anche la più riuscita. Il film è un pasticcio indigeribile tra echi di Pirandello, «The Sixth Sense» («Il sesto senso» di M. Night Shyamalan del ‘99) e una qualche commediola scollacciata degli anni ‘70. La premessa vede un medico, finito nel Tevere con ambulanza e giovane collega, morire e da lì il suo spirito seguire le vicende dei vivi. Il commento più bello sul film lo leggo sul pannello allestito da Gianni Ippoliti nello spazio che ha chiamato «Ridateci i nostri soldi!» e destinato alle critiche sul festival e i film: «Ovunque sei... è mejo che nun te trovo!». Non c’è molto di più da dire. Ah si, invece: «W la foca», visto quattro giorni fa, è altrettanto brutto ma se non altro più onesto. La sezione Settimana della critica propone Le grand voyage (vedi scheda) di Ismaël Ferroukhi, splendido racconto di un padre che decide che sarà suo figlio, malgrado l’estrema riluttanza di quest’ultimo, ad accompagnarlo dalla Francia alla Mecca dove va per fare il suo dovere di buon Musulmano. Il viaggio si effettuerà in automobile e quando il figlio chiede perché sprecare giorni e giorni per uno spostamento che in aereo richiederebbe giusto qualche ora, il padre gli spiega con estrema semplicità che «l’acqua dell’oceano diventa pura e dolce solo quando arriva in cielo e per fare questo ci vuole del tempo». Padre e figlio non si conoscono per nulla e mai potrebbero essere più distanti tra loro, il figlio non è nemmeno osservante e in più non si nega alcun piacere del mondo occidentalizzato, ma il viaggio li porterà lentamente se non a capirsi comunque ad avvicinarsi. Un film su un viaggio in cui è il percorso a contare più che la destinazione (anche se la destinazione qui ha un ruolo importante nella storia, come si vedrà). Meritatissimo premio Luigi De Laurentiis come migliore opera prima. Alla proiezione il pubblico ride, piange e alla fine fa la coda per stringere la mano al neo regista, commosso anche lui alle lacrime. Alle 17 corro a vedere Tout un hiver sans feu (vedi scheda) di Greg Zglinski, di cui Marco Müller ha parlato molto bene sulla stampa svizzera. Ne esco entusiasta, soprattutto per la grande capacità di mettere in scena una storia dolorosa evitando compiacimenti o toni eccessivi, che avrebbero certamente disturbato una vicenda che non tarda a richiamare l’empatia verso i due personaggi. Co-produce la TSR, speriamo lo si possa vedere presto sui nostri schermi. Promised Land di Amos Gitai parte bene, con una camera a mano che segue il trasporto, vera e propria discesa agli inferi, di alcune Greg Zglinski, regista di «Tout un hiver sans feu» ragazze provenienti dall’Estonia attraverso il deserto israeliano dove vengono vendute come bestiame da una Anne Paillaud (già «Nikita») in versione super trucida che ne magnifica le doti («completamente vergine», «faccia da maiala», «totalmente sottomessa» e via discorrendo). Le ragazze sono destinate al mercato della prostituzione israeliano e fino a poco dopo questa scena il film è potente e forte. Le ragazze arrivano nel locale dove dovranno lavorare e vengono, sempre al ritmo di continue urla, fatte spogliare, lavate con una pompa e quindi fatte vestire con i miseri e volgari costumini che saranno la loro divisa di lavoro. Botte, 22

Promised Land

violenze sessuali e tutto il resto che non dobbiamo sforzarci per immaginare in quanto accadono, identiche, anche sotto le nostre finestre. Queste scene da campo di concentramento (tra urla disumane e pompa dell’acqua il paragone non è certo peregrino) sono le ultime a creare un autentico disagio e a far credere di assistere a un film dal tono volutamente documentaristico, poi tutto si sfalda. L’arrivo di una matronale Hanna Shygulla in versione tenutaria superlesbo di bordello (come manco in un film di Aristide Massaccesi – Joe D’Amato) e l’entrata di personaggi che non ci si spiega da dove arrivino e chi siano (una per tutte la splendida ragazza bionda vestita in cachemire anziché in slip di leopardo. Si capirà solo grazie alla conferenza stampa di Gitai che è l’amante di un pappone e quindi gode di qualche privilegio) rendono il film a tratti incomprensibile e certo contribuiscono a trasformarlo in un melodramma che spesso suona poco onesto e comunque poco riuscito. Il continuo alternare dal tono documentaristico (camera a mano, riprese mosse) al tono cinematografico (troppo) sceneggiato (il personaggio della ragazza elegante, il finale con l’autobomba che esplode proprio davanti al locale permettendo alle ragazze di fuggire) causa un risultato discontinuo e dai toni esasperatamente drammatici, come se la storia non lo fosse già abbastanza di per sé, e fa pensare che il regista non sapesse esattamente quale film costruire. Grandi applausi alla fine della proiezione, tutti ne parlano, ovviamente, benissimo (ma si può parlare male di Gitai?) ma certo non è questa la prova migliore del regista israeliano. Tra l’altro, qualcuno può spiegargli che l’uso della videocamera in continuo movimento dopo un’ora inizia a dare un senso di vertigine misto a nausea? Evito Enduring Love di Roger Michell, tratto da un il libro che ho già detestato di Ian McEwan. I commenti che sentirò più tardi mi faranno capire di avere fatto bene a defilarmi. Strano come, al di là di questo film di cui anche lo spunto letterario era discutibile, McEwan sia maltrattato dal cinema. Come non pensare al suo bel romanzo «The Comfort of Strangers» («Cortesie per gli ospiti») , trasformato nel 1990 da Paul Schrader in un polpettone indigesto? Stanotte Italian Kings of the Bs presenta un’altra pellicola scomparsa da anni: Il Dio serpente, erotico-esotico-psichedelico del 1970 diretto da Piero Vivarelli (regista, tra gli altri, di «Rita, la figlia americana» del 1965 con Rita Pavone protagonista e di «Satanik» del 1968) che lanciò l’allora sconosciuta Nadia Cassini e l’autore della colonna sonora Augusto Martelli. Pur consapevole della sacralità dell’occasione, non ce la faccio e me ne torno a casa. 23


Mercoledì 8 settembre È il giorno di Palindromes di Todd Solondz, il regista di «Happiness» (1998) e «Storytelling» (2001). Si tratta della storia di Aviva, una dodicenne, che vuole disperatamente diventare madre, e scappa di casa quando rimane incinta e i suoi genitori la vogliono costringere ad abortire. Il film inizia ogni capitolo della storia con una diversa attrice nel ruolo di Aviva. Solondz nei suoi lavori sembra voler sviscerare a fondo la stessa storia: come gli uomini non riescano a cambiare sé stessi per quanti sforzi facciano. A me il film piace ma certo non eguaglia «Happiness». Il palindromo del titolo è ovviamente il nome del personaggio, Aviva. Nemmeno il destino, opera seconda del regista Daniele Gaglianone, è una di quelle «operine» che mi fanno venire voglia di strapparmi un braccio per scagliarlo contro il regista durante la proiezione. In breve: Ferdi, Alessandro e Toni sono amici e tutti e tre faticano a dare un senso alle loro giornate. Il primo ha un padre alcolizzato minato da un male incurabile conseguenza del suo lavoro in fabbrica, il secondo è figlio di una ragazza madre che fa le pulizie in un istituto gestito da suore. E il terzo? non si sa, ma tanto scompare in fretta (si uccide?). Poi c’è il bidello della scuola con sua moglie e il loro immutato dolore per il figlio morto (probabilmente si è ucciso anche lui ma nel film non viene detto). Poi Ferdi si ammazza lanciandosi con il motorino dal tetto di una fabbrica, poi la madre di Ale dà fuori di testa e non fa altro che ricordare il tempo in cui, sola, si prostituiva per poter mantenere l’amato figlio. Quando Ale sembra volerci lasciare lanciandosi in un dirupo (lo stesso del figlio del bidello) durante la sua permanenza in un istituto di recupero (il perché non lo spiego, troppo lungo), il film si conclude. A questa trama aggiungete un regista che andrebbe arrestato per abuso di flashback, sovrapposizioni di voci e altri effettacci (altro che quelli usati da Fulci nella sua trilogia dell’orrore!) e vi sarete fatti una pur vaga idea dell’effetto che fa. Produce Domenico Procacci con la sua Fandango ma non se ne capisce il perché. Il film che cancellerà il ricordo di qualsiasi cosa si sia vista oggi è Melancholian Kolme Huonetta («The 3 rooms of Melancholia», vedi scheda) della regista finlandese Pirjo Honkasalo. La pellicola, che giunge a pochi giorni dalla strage di Beslan, ferita ancora aperta, ha sullo sfondo proprio la guerra senza regole né pietà in Cecenia e si divide tra tre spazi («le tre stanze della malinconia» del titolo): nell’isola di Kronstadt, di fronte a San Pietroburgo, c’è un’accademia militare per orfani (voluta da Putin, ma qualcuno se ne sorprende?) dove viene insegnato l’odio per il nemico ceceno. A Grozny i bambini, randagi come cani, giocano tra le macerie; e nel resto del Paese, intanto, Xhadizhat Gataeva fa da madre a 63 orfani, i cui genitori sono stati uccisi in gran parte dall’esercito russo. È la storia di Aslan, undicenne abusato dai soldati russi, del ceceno Adam, la cui madre impazzita ha cercato di buttarlo dal nono piano, di Milana, che a dodici anni ha già abortito dopo uno stupro subito dai soldati russi, e di tanti altri ancora. Il racconto di una guerra di cui nessuno può dire di non essere vittima. La visione del film mi impone una lunghissima pausa, per oggi pomeriggio non sarò più in Melancholian Kolme Huonetta grado di vedere nulla. 24

Italian Kings of the Bs presenta uno tra gli appuntamenti più attesi, quello con Come inguaiammo il cinema italiano – La vera storia di Franco e Ciccio di Daniele Ciprì e Franco Maresco, rivelati anni fa da «Cinico TV».Questo ritratto (il cui titolo fa il verso al loro «Come inguiammo l’esercito» del 1965, diretto da Lucio Fulci) della celebre coppia di comici siciliani Franco Franchi e Ciccio Ingrassia è diviso in due parti: la prima, più documentaristica, segue la coppia dagli esordi nell’avanspettacolo fino al successo, mentre la seconda ha un filo conduttore sceneggiato, un exc ursus tra i tanti film in cui sono apparsi. È un profilo della coppia che, con le sue cento e più pellicole, spesso girate in pochi giorni e spesso circolate in periferia, ha fatto maggiormente incassare i produttori, che di loro si vergognavano, tanto da produrre i loro film con marchi diversi da quello principale (come faceva la Titanus che li distribuiva sotto altro nome). Si tratta di un omaggio affettuoso, competente e interessante, che però soffre della scarsa durata a dispetto delle sue due ore. Comunque da vedere perché contiene una parte importante del cinema popolare italiano.

Giovedì 9 settembre Vedo Birth di Jonathan Glazer – regista di Sexy Beast (2000), mica pizza e fichi! – decisamente sottovalutato qui alla mostra. Vedo anche la Kidman, che è alta più o meno come una grondaia e sembra pesare non più di una fetta di pancetta coppata (non ho detto nulla dei divi visti a Venezia, ma a qualcuno interessa?). La storia vede Nicole Kidman convincersi che un bambino di dieci anni è la reincarnazione (consapevole però) del suo defunto marito, morto proprio nel momento della nascita del piccolo. Il film (che sì, a tratti strappa involontariamente la risatina) viene seppellito da una risata fragorosa ma in realtà non se lo merita. Non sarà un capolavoro ma è curioso e non utilizza nessuna soluzione scontata (non è «Ghost», tanto per intenderci). Nel film c’è anche Lauren Bacall. O quinto império – Ontem como hoje di Manoel de Oliveira (il cui penultimo lavoro è il bellissimo e modernissimo «Um filme falado», «Un film parlato» del 2003) è tratto dal dramma «El Rei Sebastiao» di José Régio, che narra e analizza la figura del re Sebastiao, scomparso nella guerra detta «dei Tre Re» ma il cui ritorno è sempre atteso in quanto il suo corpo non fu mai trovato. Questo mito del Nascosto appartiene anche alla mitologia musulmana: il dodicesimo Imam musulmano dovrebbe tornare, esattamente come il re Sebastiao, in un mattino di nebbia a distruggere il male del mondo e stabilire la pace tra i popoli. Si tratta di un film importante e molto bello che il regista spiega così, cito dal catalogo della Mostra: «Questa storica e utopica ossessione del quinto impero sembra tornare ad essere una realtà. Già vissuta dall’ONU, si afferma ora nell’Unione Europea. Nel frattempo il mondo sembra oggi essere vittima di un ritorno al Medioevo, di un terrorismo spietato che colpisce gli innocenti e che sconvolge gli Stati Uniti quanto l’Europa, cercando di distruggere la civiltà occidentale. Questa sorta di ritorno a una lotta atavica e incoerente mi sembra in un certo modo un ritorno al mito del quinto impero, all’atteso e al nascosto. L’insieme di circostanze si ricollega così miticamente al quinto impero, situazione già sperimentata, senza successo, dall’Imperatore Carlo V, nonno del re Sebastiao. Tali le ragioni che mi portano oggi a dare al film il titolo O quinto império – Ontem como hoje, ieri come oggi». Manoel de Oliveira, nato a Oporto nel 1908, verrà premiato con il Leone alla carriera. 25


Sabato 11 settembre Finalmente vedo uno tra i titoli italiani più attesi (il più atteso?) di questa mostra: Le chiavi di casa di Gianni Amelio. Amelio è un regista serio e questo gli ha sempre evitato di scivolare nel melodramma a buon mercato (pensate a come sarebbe potuto risultare il soggetto de «Il ladro di bambini» in altre mani) e quindi anche Le chiavi di casa (le chiavi come simbolo della raggiunta maturità), che narra del primo incontro tra un ragazzo sedicenne gravemente impedito fisicamente e con un ritardo mentale, con il padre che non ha mai visto in quanto è scappato quando sua madre è morta in sala parto alla sua nascita, non scivola mai nel patetico. È anzi tenero nel mostrare la costruzione di un rapporto, e duro e spietato quando mostra le difficoltà del vivere quotidianamente con una persona così gravemente danneggiata. Kim Rossi Stuart offre un’efficacissima interpretazione tutta fatta di sottrazioni e Charlotte Rampling, interprete sempre straordinaria e figura orgogliosa con le sue rughe da sessantenne (basta con le attrici che a sessant’anni sembrano delle comunque improbabili ventenni) offre la figura della madre di una ragazzina anche lei con gravissime difficoltà, dolente e consapevole dei pesi della propria vita. Sue sono le battute più forti del film: la prima quando incontra Kim Rossi Stuart per la prima volta in ospedale e gli chiede se sia il padre del ragazzo. Quando questi risponde di no, lei dice «è difficile vedere un uomo qui dentro, questo è il lavoro sporco delle donne, gli uomini non ce la fanno». E la seconda quando descrive la dedizione vicina alla schiavitù che la lega alla figlia e confessa «ogni tanto vorrei che morisse». Cinico? no, umano e vero. Alla riuscita del racconto contribuisce in modo determinante anche il ragazzo che interpreta Andrea, vera forza della natura, capace di ironia, a non scivolare mai nel banale o nel patetico. Andrea, che nella vita di anni ne ha 18, soffre davvero dei disturbi del suo personaggio e nel film è stato guidato da Amelio e dagli altri attori. Chi ha partecipato alla prima proiezione del film non dimenticherà mai che lui stesso, all’ovazione riservatagli dal pubblico, dopo essersi alzato si è rivolto al padre seduto dicendogli «A pà facciamo in fretta che voglio annà a magnà co’ Gianni», dimostrando così un sano distacco dal delirio mediatico che lo stava circondando. Film del regista rumeno Mircea Danieluc, Ambasadori, cautam patrie narra dell’ambasciata a Bucarest di uno stato africano sotto dittatura che si trova in una situazione economica disastrosa. Sul catalogo ufficiale, la trama viene così riportata: «L’ambasciatore è deciso ad attrarre l’attenzione dei media recandosi a una mensa per i poveri. Là conosce una persona che è stata ferita nella rivoluzione del dicembre 1989. Si chiama Nelu ed è un morfinomane. Lo aiuta il suo amico Titi, una persona ambigua. Quando si innamora di Nona (la segretaria dell’ambasciata, questo sono riuscito a capirlo. Ndr), Nelu tenta di rinunciare alla droga. Intanto dalla Turchia arriva Misu, marito di Nona. Tutto si complica per l’antipatia che questi prova per Titi. Ad aggravare la situazione c’è la relazione che tra Nola e Nelu. La donna ha un incidente ed è ricoverata in ospedale. Ha bisogno di calmanti e da qui alla droga il passo è breve. Per creare un mercato di stupefacenti anche in ospedale, Misu e Titi spingono anche Nona a farne uso (ma perché? ndr). Il film, presentato come una grottesca parodia della rivoluzione del dicembre 1989, viene anticipato dalla voce ufficiale della mostra che spiega che i sottotitoli in italiano sono stati supervisionati dal regista stesso, nel desiderio che siano il più possibile fedeli al linguaggio originale. Ma sottotitoli che recitano frasi come «fame una grimassa», durante la scena in cui la segretaria giace svenuta sul pavimento (e tutti gli altri sottotitoli sono più o meno dello sono tenore, i più comprensibili sono quelli che ottuplicano la quantità di consonanti nelle parole, come per esempio «guarrrrrrrda!«) , non riescono a rendere comprensibile il film e quindi, a meno di non conoscere bene la lingua rumena, si è costretti a uscire. 26

È il momento della premiazione, trasmessa da Raidue e che vedo proiettata su schermo in diretta alla Sala Perla. La cerimonia, con tempi televisivi tali da impedire ai premiati di proferire parola (ma non alla Loren, riesumata dal suo sarcofago per l’occasione, di mostrarci un vestito dalla scollatura più adatta a una ventenne) è, tagliamo corto, brutta e poco professionale. Probabilmente si vogliono evitare le lungaggini dello scorso anno quando la trasmissione venne bloccata temporaneamente dal telegiornale che intanto diede notizia dei premi assegnati. Se in sala gli applausi sono calorosi per «Le grand voyage» e per i Leoni d’Oro e d’Argento, già impazzano le polemiche sul mancato premio a «Le chiavi di casa» (si saprà in seguito che comunque è il film selezionato dall’Italia per i premi Oscar 2005). Addirittura salta fuori che la giuria avrebbe avuto l’insana idea di premiarne il protagonista (ottimo ma non recita, è sé stesso guidato mirabilmente da regista e attori), ipotesi respinta con giusto orrore dal regista Gianni Amelio che ha già dichiarato quanto una scelta del genere sarebbe stata inopportuna. I premiati Javier Bardem e Imelda Staunton rappresentano due scelte felici e certamente più giustificate. Chi vedrà le interpretazioni che sono valse i riconoscimenti ai due attori, non potrà che condividere la scelta. Comunque anche loro devono prendere il premio e svanire Leone d’Oro per il miglior film: nel nulla per non rallentare il ritmo. In platea intanto la camera si sof- Vera Drake di Mike Leigh ferma, secondo un piano stabilito, sui volti di Marcello Veneziani, di Alberoni, del ministro (questo sì che è degno di Italian Kings of the Bs) Leone d’Argento Giuliano Urbani scatenando in sala fragorose risate e fischi potenti per (Gran Premio della Giuria): convinzione. Mar adentro di A. Amenábar L’interprete dall’inglese, traducendo un intervento sulla retrospettiva Italian Kings of the Bs, trasforma per ben due volte e senza Leone d’Argento che venga corretta, Enzo G. Castellari (il regista di «Quel maledetto (Premio Speciale per la Regia): treno blindato») in Castellitto, ma ancora più ridicolo il Corriere della Kim Ki-duk per il film Bin Jip Sera che, irridendo l’incidente il giorno dopo, lo cita come Castellani (Renato Castellani, scomparso nel 1985 a 72 anni, era un regista e Coppa Volpi per la migliore sceneggiatore attivo sia nel cinema che in televisione. Suo è «Questi interpretazione maschile: fantasmi» del 1968, celebre film con Loren, Gassman e Adorf). Claudia Javier Bardem per Mar adentro Gerini cerca di giustificarsi come può e a un certo punto sbotta dicendo che la colpa del disastro non è sua. Coppa Volpi per la migliore Per le riprese di una premiazione così approssimativa, piut- interpretazione femminile: tosto che il teatro La Fenice, la RAI avrebbe potuto utilizzare la sagra Imelda Staunton per Vera Drake dello gnocco fritto di Finale Emilia. Che tristezza... Premio Marcello Mastroianni: agli attori Marco Luisi e Tommaso Ramenghi per Lavorare con lentezza – Radio Alice 100.6 MhZ Leone del futuro – premio Luigi De Laurentiis per la migliore opera prima: Le grand voyage di Ismael Ferroukhi Premio Venezia Orizzonti: Le petit fils di Ilan Duran Cohen

Mike Leigh e Ismael Ferroukhi

Menzione speciale Giuria Venezia Orizzonti: Vento di terra di Vincenzo Marra 27


I FRATELLI DINAMITE Italia, 1943–1949 Regia, soggetto e disegni Nino Pagot Direzione tecnica Paolo Gaudenzi Direzione animazione Fernando Palermo, Toni Pagot Animazione Osvaldo Cavandoli, Luciano Paganini, Osvaldo Piccardo, Gualtiero Boffini, Glauco Coretti, Giancarlo Livraghi, Carlo Bachini, Anacleto Marosi, Fernando Carcupino, F. Pelorosso Scenografia Ugo Heinze, Sergio Toffolo, Franco Cagnoli Fotografia Franz Birtzer, Toni Pagot, Bruno Panozzo, Marco Visconti Musiche originali Giuseppe Piazzi Canzoni Fernando Palermo Restauro curato da Fondazione Cineteca Italiana, Milano

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La trama La signora Cloe racconta alle amiche le avventure dei tre nipotini, i fratellini Din, Don e Dan. Questi, figli del capitano Spugna, naufraghi su un’isola deserta, cresciuti da una vacca e nutriti dalle belve, sono stati trascinati nuovamente in mezzo alla civiltà dalla zia e stentano ad adattarsi alle convenzioni sociali. La zia racconta quattro loro fantastiche avventure tra inferno e paradiso.

Il film – un intervento di Mario Verger Esiste ancora un’unica copia di un film italiano d’animazione, che tanto successo ha avuto nel passato. Indubbiamente molti che lo videro a suo tempo gradirebbero rivedere ancora questo capolavoro della cinematografia italiana. La copia tuttavia è fatta su pellicola infiammabile: difficili quindi le lavorazioni e ancor più pericolosa la proiezione. Si tratta del film I Fratelli Dinamite, nel quale si possono rintracciare le radici dello stile che gli straordinari Nino e Toni Pagot svilupperanno con Calimero appena un decennio dopo. Nino Pagot (Pagotto) – definito dal figlio Marco e dal collaboratore Attilio Giovannini con un’accezione che di lui spiega tutto, cioè «un artista» – nacque a Venezia nel 1908 da genitori friulani e si trasferì a Milano nella seconda guerra mondiale. Dopo essersi diplomato fuochista e macchinista delle Ferrovie dello Stato, conseguì un secondo diploma all’Istituto Feltrinelli come perito tecnico e costruttore meccanico elettrotecnico. Alla

fine degli anni ’20 collaborò come disegnatore di fumetti esordendo con delle tavole su «Attorno al fuoco», organo ufficiale dei boys-scouts italiani. In seguito, sul «Corrierino» della Cardinal Ferrari e per «Il Giornale delle Meraviglie», realizzò delle tavole didattiche concernenti il progresso della scienza e della tecnica. Per il «Balilla», subentrò ad Antonio Rubino come direttore artistico ed in seguito vignettista ed illustratore al «Travaso», al «Guerin Meschino» e «L’audace». Dal 1937 al 1941, Pagot collaborò attivamente con «Topolino» e «Paperino» realizzando originalissime storie, dal tratto decisamente barocco e poco disneyano, tra cui, sceneggiate da Federico Pedrocchi, Biancaneve e il mago Basilico e I sette nani cattivi contro i sette nani buoni. Quest’ultima esperienza lo avvicinerà al cartone animato, attività che aveva iniziato parallelamente già dal 1936. Pagot, al pari di Cossio e Petronio, era stato tra i protoautori della pubblicità cinematografica animata. Per i fratelli Leoni della Scalera, che già era impegnata in cortometraggi sperimentali, come L’Orchestrina, su soggetto di Attilio Giovannini per la regia di Walter Faccini, avvalendosi dei futuri collaboratori della ‘Pagot Film’, cortometraggio rimasto incompiuto cui fecero seguito La Lampada di Aladino (1939-40) e il più riuscito La fine di John Bull (1941), di propaganda bellica; entrambi per la regia di Nino Pagot, tratti da sceneggiature di Attilio Giovannini ed animati da Dante Vernice, Pino Tovaglia e Luciano Paganini. Nel 1942 Nino Pagot e suo fratello minore Toni, nell’Ars-Film, in co-produzione con la Scalera, intrapresero un nuovo cortometraggio animato, sempre su soggetto e sceneggiatura di Attilio Giovannini, dal

1 Walter Alberti, Il cinema di animazione, Edizioni Radio Italiana, Torino, 1957, p. 145 2 Cfr. Gec (Enrico Gianieri), Storia del cartone animato, Editoriale Omnia, Milano, 1960, p. 198.

titolo Tolomeo; film cui ne seguirono altri e che sarà unito in un unico lungometraggio ultimato nel 1947 dal titolo definitivo I fratelli Dinamite. La lavorazione fu lunga e travagliata; non ultima una bomba che, durante il conflitto bellico, distrusse l’intero studio dei Pagot, tanto che il film fu completamente ricominciato daccapo; ‘voce’ circolata per anni nell’ambiente dell’animazione italiana e smentitami nel 1992 dallo stesso prof. Giovannini: «Non è vero niente. La storia della bomba era un’invenzione, evidentemente per dare importanza alla laboriosità del film. Il titolo originale doveva essere ‘Tolomeo’ e, finito un episodio, dopo aver terminato ‘Lalla, piccola Lalla’, con Nino e Toni Pagot, decidemmo di aggiungerne un secondo, e poi un terzo. Alla fine, nel ‘47, pensammo di radunarli in un unico lungometraggio, intitolandolo ‘I fratelli Dinamite’». Nel 1946, non ancora concluso il lungometraggio, i Pagot, presentarono Lalla, piccola Lalla, una fiaba delicata di ottima confezione che ottenne, in seguito, la «Medaglia d’oro» al Festival di Venezia. Lalla, la bambina che diventa piccola come un fungo, è un caratteristico personaggio dell’universo pagotiano; creatura dalle fattezze semplici, con la testa grande e dai tratti aggraziati, congiunge sapientemente lo spirito dell’Alice di Carroll all’illustrazione fresca ed originale dei Pagot. Come aveva osservato Walter Alberti, «Lalla rimane nella memoria più che come un personaggio ben definito, come una dolce creatura bizzarra uscita da un sogno e qualche volta

ricorda le ‘Silly Symphonies’ dove i fiori e i pargoletti intessono ghirlande e cantano dolci memorie. Lalla prelude ad un mondo poetico tipico dei Pagot dove le piccole cose luccicano di una viva luce come in un firmamento posticcio legato ad un sogno esile»1. Accanto alla protagonista, «col compito del Mefistofele Faustiano, è il Rospo Eustaccio»2, ed è interessante notare che lo stesso personaggio di Lalla, con gli opportuni ritocchi, comparirà anche all’interno dell’episodio del Carnevale di Venezia de I fratelli Dinamite. Ma torniamo al lungometraggio dei Pagot: il film, iniziato nel ’42 col titolo «Tolomeo», venne realizzato da questa équipe: Attilio Giovannini e Gilberto Loverso in qualità di soggettisti e sceneggiatori; Pino Tovaglia, Dante Vernice, Luciano Paganini e Osvaldo Piccardo quali animatori. Lasciati i fratelli Leoni, l’artista veneziano fondò in proprio la ‘Pagot Film’ aggiungendo un nutrito gruppo di collaboratori, tra cui: Fernando Palermo e Toni Pagot quali direttori delle animazioni; Osvaldo Cavandoli (che in seguito diverrà celebre con ‘La Linea’), Gualtiero Boffini, Glauco Coretti, Giancarlo Livraghi, Carlo Bachini, Anacleto Marosi, ed altri come Paolo Piffarerio, alcuni dei quali rimarranno a lungo alla ‘Pagot Film’, animando personaggi straordinari come ‘Calimero’ e ‘Jo condor’, fino ai più recenti ‘Porfirio e Pepe’ e ‘Grisù il draghetto’. I fratelli Dinamite, ultimato nel 1947 in Technicolor, fu in realtà uno dei primi lungometraggi europei a colori e si compone di «gag» indipendenti legate fra loro da un unico filo conduttore: I fratelli Dinamite, Din, Don, Dan, figli del capitano Spugna, che vivono liberi in un’idilliaca isola deserta, fino a quando vi sbarca una 29


3 Op. cit., p. 199.

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zitella altruista che si incaponisce per reinserirli nel mondo. Per i fratelli Dinamite cominciano i guai, trovandosi sbattuti contro realtà non del tutto piacevoli. Nasce, perciò, un profondo dissidio tra Din, Don, Dan e la civiltà degli uomini, con una serie di situazioni originalissime che vanno dal circo al Carnevale di Venezia, alla fuga in gondola, al concorso per voci liriche, all’avventura subacquea. «Questi contrasti, in chiave caricaturale e con un pallido sapore volterriano, costituiscono il succo del lungometraggio del Pagot, il quale trabocca di trovate e di episodi e da cui affiora sovente una salace satira di costume. [...] Ed è realizzato con una fantasia ed un gusto caricaturale inequivocabilmente latini»3. E’ interessante notare che Nino e Toni Pagot furono i primi autori italiani ed ambientare il loro film «in Italia», anzi nella città lagunare a loro cara, senza ricorrere a fiabe o racconti stranieri, ma facendo vivere le avventure dei tre scanzonati fratelli nella nazione dei loro autori rivista però attraverso la pirotecnica fantasia dell’originalissimo Nino Pagot. Curiosa l’idea di inserire Lalla, nei panni di una malinconica bimba che, a Venezia, sotto il Ponte di Rialto, piange per aver perduto la bambola in acqua, attorniata dai tre fratelli, che cercheranno di recuperarla. Insomma, i Pagot non diedero requie ai loro Dinamite all’insegna di trovate scoppiettanti e, spesso, parossistiche, senza seguire una traccia precisa che si alimenta quasi totalmente con la forza del ritmo e con la genialità delle gag. Discostandosi nettamente dalla narrativa classica disneyana, fu da alcuni critici ritenuto piuttosto frammentario e disomogeneo. Ma i Pagot ebbero l’unico torto, con I fratelli Dinamite, di aver precorso i tempi: da un certo

punto di vista il film lo si potrebbe valutare meglio oggi che la forza narrativa di un cartoon è tracciata. La parossistica esasperazione dei movimenti e il non essersi agganciato ad alcuno stile, mostrano chiaramente che quella fresca inventiva un po’ anarchica ha straordinariamente giovato al suo stile. Ne I fratelli Dinamite il segno di Pagot trova il maggior sfogo d’espressione nell’episodio del Carnevale di Venezia, per le trovate geniali e lo spirito d’avanguardia di cui è intriso: «I tre fratelli arrivano nella città lagunare durante il famoso carnevale e sullo sfondo di una scenografia incantata e ricca di sfumature pittoriche i tre portano una nota scoppiettante e intempestiva. Mentre le maschere folleggiano creando una sequenza ricca di colore e ispirata al più puro folklore della nostra tradizione, i Dinamite partecipano ad un concorso di canto. Qui alcune trovate originali confermano le doti dei Pagot, l’«humour» col quale vengono presentati i concorrenti crea delle situazioni paradossali che presentano delle soluzioni grafiche interessanti. Una bocca diviene smisurata fino a tramutarsi in un boccascena entro il quale danzano alcune ballerine scaturite dai denti del cantante. I Dinamite vincono il concorso e la folla inneggia a loro ma essi si distraggono alla ricerca di una bambola persa da una bimba. Così il popolo si rivolta contro di loro per il disinteresse che dimostrano nei confronti della festa ed essi sono costretti a fuggire in gondola. L’inseguimento delle gondole è un altro pezzo di spirito e di bravura. In una pacifica e morta laguna, il velocissimo passaggio delle gondole dei Dinamite e degli inseguitori, che per districarsi nella gimcana si piegano e si contorcono, è una divertente trovata fantasiosa tra le più interessanti dei

nostri disegni animati»4, aveva scritto Walter Alberti, Mario Verger, romano, membro della ASIFA in uno dei primi testi sul (Associazione Italiana Film d’Animazione), è cinema di animazione, autore di film di animazione nonché ricercatocommentando il film. Oggi, re della storia del cinema italiano d’animaziopurtroppo, al contrario de ne. Luca Raffaelli, direttore del Festival Internazionale del Cinema di Salerno, lo definisce La Rosa di Bagdad non è uno dei pochi animatori europei che si ispiri possibile fare apprezzare al all’attualità per realizzare cartoni animati. grande pubblico I fratelli È «Tina» (1995, sulla tratta delle prostitute Dinamite poiché ne esiste nigeriane), del mediometraggio «Milingo, the Spirit of Africa» (1988, con colonna solo una copia su pellicola sonora di Lucio Dalla cantata dallo stesso infiammabile e non è stato arcivescovo Milingo, anche supervisore della fatto finora un controtipo. storia) e quindi di «Giulio Andreotti» e di Angela Rever, vedova di «Wojtyla», primo film di animazione sul Papa. Del 2002 è «Berluscomic», vincitore del Pagot, cedette a Marco premio Giusti un brano del film per il migliore cortometraggio di animazione che fu programmato con al Festival Internazionale del Cinema di Salerno. successo, qualche anno fa, in www.asifaitalia.org Rai. Ci auguriamo che anche I fratelli Dinamite dei Pagot, come è stato fatto per il film di Domeneghini, possa essere oggetto di attenzione da parte della Cineteca Nazionale e del Reparto Restauro di Cinecittà, ed essere finalmente, oggi, nel nuovo millennio, apprezzato come uno dei reperti più straordinari ed innovativi del secolo scorso. Mario Verger (utilizzato su autorizzazione dell’autore) 4 W. Alberti, Op. cit., p. 148

Il film è stato quindi restaurato fotogramma per fotogramma, sia manualmente che automaticamente, ritrovando i colori del disegno originale. Si è quindi proceduti al riversamento su master digitale sia per la realizzazione del DVD, sia per il riversamento in negativo su 35mm, condizione d’oblligo per la nuova stampa di copie in positivo È prevista per il prossimo futuro la distribuzione nelle sale italiane, nonché la pubblicazione in un DVD (novembre 2004) ricco di contenuti speciali edito da Medusa. Bibliografia sul film Una storia molto animata Roberto Della Torre e Marco Pagot (a cura di) Editrice Il Castoro, Milano 2004 (rr)

Sul restauro Dopo 55 anni di assenza dagli schermi, «I fratelli Dinamite» (che vanta il primato di antesignano lungometraggio di animazione italiano nonché primo a colori in Europa) è tornato alla Mostra di Venezia, dove era stato proiettato per la prima volta nel 1949. Recuperato miracolosamente, con il patrocinio della Fondazione Cineteca Italiana di Milano, da una copia in nitrato positivo (quindi infiammabile) utilizzando le più avanzate tecniche per ripulirla dai residui elettrostatici accumulati e quindi trasferita su supporto digitale grazie al telecinema. 31


PREDMESTJE titolo internazionale: Suburbs, Slovenia, 2004

MILANO CALIBRO 9 Italia, 1971

Regia, soggetto e sceneggiatura Vinko Möderndorfer

La trama Un gruppo di cinquantenni e oltre, che si ritrovano regolarmente nel sala bowling della Fotografia cittadina in cui vivono, peralDusan Joksimovic tro senza mai giocare, passano Montaggio il loro tempo bevendo e parAndrija Zafranovic lando di nulla, mostrandoci le loro vite fatte di solitudine Interpreti principali e squallore. All’apparenza Renato Jencek, Peter Musevski, innocui, diventeranno periJernej Sugman, Silvio Bozic, colosi quando una giovane Tadej Tos, Maja Lesnik coppia straniera diventerà dirimpettaia di uno di loro. È proprio il confronto con la giovane coppia, ingenua, cortese e piena di ottimismo che la loro bassezza e il loro vuoto si palesa con decisione ancora maggiore ai nostri occhi. Dal decidere di piazzare una videocamera che riprenda dall’esterno i due giovani mentre sono a letto insieme a un’esplosione di intolleranza e violenza, il passo sarà brevissimo. Musica originale Jani Golob

Il film Il film ci mostra un luogo squallido e spesso vuoto (che fanno apparire i luoghi mostrati in «Hundstage» di Ulrich Seidl un posti incantevoli e allegri) in cui un gruppo di amici sta bevendo e parlando. Si tratta del bowling locale, dove il piccolo gruppo si ritrova regolarmente occupando una pista senza mai giocare e parla. Le parole sono tante, i significati pochissimi.

Vinko Möderndorfer dixit «Predmestje» è un film su tutte le periferie del mondo, tratta delle zone più recondite dell’animo umano. Sono convinto che la storia di Predmestje possa essere universale, poiché tratta di un odio irrazionale, quello che ancora brucia e cova in tutta Europa.

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Regia e sceneggiatura Fernando Di Leo Nel rapporto tra loro il cinismo la fa da padrone e nessuno pare interessarsi ai rispettivi drammi individuali tanto che nessuno pare accorgersi che uno di loro, sposato, osserva con desiderio un giovane che gioca nella pista a fianco, rendendo evidente ai nostri occhi una repressione sessuale che nessuno di loro pare vedere. Il fragile equilibrio delle loro esistenze viene spezzato dal trasferimento di una giovane coppia straniera nel condominio di uno di loro. È proprio in quel momento, nel confronto tra i due giovani e loro, che lo squallore delle loro vite si mostra ai nostri occhi in modo ancora più palese. All’inizio sono complici solo nell’idea di riprenderli, nascondendo una videocamera in un albero, nei loro momenti di intimità cui assistere insieme in seguito, ma poi la discesa agli inferi delle loro menti si spingerà verso un finale violento e, per loro, risolutivo nel cancellare chi ha mostrato loro il vuoto delle loro esistenze o più semplicemente chi ha davanti una vita che loro hanno già sprecato. Il regista Nato nel 1958, è uno tra i più importanti a prolifici artisti sloveni. Negli ultimi venti anni ha scritto opere teatrali, sceneggiati radiofonici e televisivi. Ha pubblicato una trentina di lavori tra romanzi, saggi e sceneggiature. «Predmestje» è la sua prima prova cinematografica. (rr)

Soggetto tratto dal racconto «Stazione Centrale ammazzare subito» scritto da Giorgio Scerbanenco (contenuto nella raccolta di racconti che dà il titolo al film) Musica originale Luis Enrique Bacalov Fotografia Franco Villa Montaggio Amedeo Giomini Interpreti principali Gastone Moschin, Barbara Bouchet, Frank Wolff, Mario Adorf, Philippe Leroy, Luigi Pistilli, Ivo Garrani, Lionel Stander

La trama Uscito di prigione dopo avere scontato una pena per rapina, Ugo Piazza viene aggredito da «L’americano», per cui faceva traffico di valuta, che lo sospetta di avere trattenuto per sé 300’000 dollari che gli erano stati affidati. Poiché Piazza nega, «L’americano» decide di riprenderlo con sé per poterlo controllare...

Il film Vorticoso ed elaborato «noir», forse il migliore italiano di sempre, ispirato a un breve racconto di Giorgio Scerbanenco (uno tra i più considerati scrittori di letteratura noir, vero nome Vladimir, Kiev 1911 – Milano 1969) contenuto nella raccolta da cui Di Leo prende il titolo per il suo film. Sorretto da un cast di grandissimo livello, «Milano Calibro 9» è fedelissimo, se non al racconto, alle atmosfere proprie dello scrittore milanese d’adozione. Da quando Ugo Piazza esce dal carcere, allo spettatore non viene più dato tempo per riflettere. Ogni personaggio sembra avere una sua strategia che muta, necessariamente, di continuo mentre i colpi di scena si susseguono scanditi da un tempo che ha tutto il sapore di un conto alla rovescia verso qualcosa che non sappiamo. La costruzione dei personaggi, che tradiscono il loro essere attraverso pochi ma efficacissimi segnali (un tic, uno sguardo, una frase), è segno di un talento non comune, di una capacità introspettiva che è propria del regista e che si può notare anche nei suoi episodi

minori. La corsa verso il finale, nerissimo e imprevedibile, ci lascia senza fiato e ci coglie di sorpresa. Impossibile non osservare come Di Leo riesca con rara efficacia a trasporre nel giallo metropolitano elementi del cinema western più strutturato. Il regi sta Fernando Di Leo (San Ferdinando di Puglia 1932 – Roma 2003) inizia a lavorare nel cinema come sceneggiatore di numerosissimi film come i coevi: «Una pistola per Ringo» (1965), «Il ritorno di Ringo» (entrambi diretti da Duccio Tessari), «Per un pugno di dollari» (1964, Sergio Leone), «Per qualche dollaro in più» (1965, sempre di Sergio Leone) per i quali non viene accreditato (né, spesso, pagato) nonché decine di altri. Di «Tempo di massacro» (1966, regia di Lucio Fulci) è anche autore del soggetto. In queste sceneggiature, più strutturate del solito, Di Leo inserisce elementi psicologici e culturali che fino ad allora erano stati trascurati da un genere che veniva considerato e trattato come «di consumo». Il suo debutto come regista avviene nel 1963 con l’episodio «Un posto in Paradiso» del film «Gli eroi di ieri... oggi... e domani...» che nel titolo cita il famosissimo «Ieri, oggi, domani» (dello stesso anno e anch’esso a episodi) di Vittorio De Sica. Segue il dramma bellico «Rose rosse per il führer» in cui è impossibile non notare l’antimilitarismo del regista. Nel 1969 dirige il dittico «Brucia, ragazzo, brucia» e «Amarsi male», entrambi pr odotti dalla Ferti (società di produzione di Fernando Di Leo e Tiziano Longo). Il primo, che tratta del piacere femminile, viene sequestrato per oscenità mentre il secondo, che nelle intenzioni dovrebbe approfondire i temi del 33


precedente, appare subito meno riuscito e va incontro a un insuccesso al botteghino. «I ragazzi del massacro» (1969), tratto anch’esso come «Milano Calibro 9» da Scerbanenco, è un film sul sottobosco della delinquenza giovanile di Milano e periferia. Un gruppo di ragazzi stupra (una tra le violenze carnali più disturbanti mai Barbara Bouchet senza Quentin Tarantino viste al cinema) e uccide la sua insegnante. Il commissario che indaga cerca di capire chi possa nascondersi dietro questo atto. Il film 1 «L’uccello dalle piume di mette in evidenza lo stile personale cristallo» (1970), «Il gatto a nove del regista. «La bestia uccide a sangue code» e «4 mosche di velluto freddo» del 1971 è una pellicola girata grigio» (entrambi del 1971) sono su commissione sull’onda del succesgrandi successi commerciali di Dario Argento che hanno dato so ottenuto in quegli anni da Dario il via a una serie di gialli italiani Argento1 e considerato poco riuscito che, richiamandone le atmosfere dallo stesso Di Leo. È dell’anno e i titoli, tentavano, in alcuni casi seguente «Milano Calibro 9» che, con esito positivo, di bissarne il successo («Una farfalla con le ali unitamente al già citato «I ragazzi del insanguinate», 1971 di Duccio massacro» e a «La mala ordina» del Tessari, «L’iguana dalla lingua di 1972, è parte integrante di un’ideale fuoco», 1971 di Riccardo Freda, trilogia sulla Milano di Scerbanenco2. «Una lucertola con la pelle di donna», 1971 di Lucio Fulci e Nel 1973, il regista compie la sua ter«Il gatto dagli occhi di giada», za incursione nel cinema drammatico1977 di Antonio Bido non sono erotico, visto dalla parte della donna, che alcuni tra i tanti esempi). con «La seduzione», storia di un 2 Se nei titoli di testa di «Milano uomo sedotto sia dalla sua ex comcalibro 9» si legge che il film è tratpagna, Lisa Gastoni, sia dalla figlia to da Scerbanenco (ma è tutt’al adolescente di lei, Jenny Tamburi. La più ispirato da un suo racconto), caratteristica di tutti i film del genere nel caso di «La mala ordina» non c’è alcun riferimento allo scrittore, firmati da Di Leo, contrariamente a sebbene il film tragga ispirazione tutti i film del genere dell’epoca. è che proprio dal racconto «Milano affidano alla donna, con i suoi desideby calibro 9» che curiosamente ri, il ruolo di protagonista, lasciando dà il titolo al (quasi) omonimo film, ispirato invece da «Stazione all’uomo la parte del comprimario. Centrale: ammazzare subito». Nel 1973, Di Leo torna alle amate atmosfere noir con «Il Boss» che, come 3 Sarà finalmente possibile racconta «Nocturno» , vive una farlo tra breve, alla pubblicazione del film in dvd curata da disavventura giudiziaria dai toni piut«Nocturno» (editore «Raro»). tosto esilaranti in quanto il ministro democristiano per i rapporti con il 34

Parlamento, Giovanni Gioia, si sente in qualche modo diffamato dal film e ne chiede il sequestro ritirando poi, in un secondo tempo, la denuncia. Nel 1974, a differenza dei «poliziotteschi» in voga all’epoca, in «Il poliziotto è marcio» ( grande titolo che gli fa rischiare un altro sequestro) l’agente Luc Merenda (attore francese specializzato in ruoli tutore della legge senza macchia e senza paura) appare dapprima come un eroe e poi viene mostrato per quello che davvero è, un uomo al soldo della malavita. «Colpo in canna» (1975) e i coevi «I padroni della città» e «Gli amici di Nick Hezard» (1976) spingono più sul pedale della commedia. Soprattutto «I padroni della città», forse il più riuscito con il suo ritratto del sottobosco della malavita romana e con il personaggio di Vittorio Caprioli, «Napoli», borseggiatore della vecchia generazione. Sorretto da una solida sceneggiatura e da alcune mirabili interpretazioni, il film presenta scene d’azione efficaci e un finale (una caccia al topo in una fabbrica abbandonata) che tiene lo spettatore con il fiato in gola. «Avere vent’anni» (1978), ultimo capitolo del regista sul desiderio femminile, pare non sia stato visto da nessuno nella sua forma originale3 a causa dei sequestri e dei successivi rimontaggi che fanno sì che sia circolato in più versioni. Nel film, interpretato dalle due stelline della commedia erotica del tempo Gloria Guida e Lilli Carati, due ragazze provocatrici e un po’ arroganti viaggiano avventurosamente per l’Italia e verranno punite con una morte terribilmente violenta proprio per la loro ostentazione (per l’epoca) di indipendenza e per la loro consapevolezza nella ricerca del piacere. Negli anni ‘80 Di Leo affronta come molti altri la crisi del cinema di genere e si barcamena

con pellicole di minor valore ma in cui è possibile notare l’immutatezza del suo tocco d’autore: «Razza violenta», avventuroso costruito sul modello di «Rambo», la serie televisiva in sei epidosi «L’assassino ha le ore contate», destinato a Raiuno ma mai trasmesso per problemi tra produttore e televisione nazionale, e il suo ultimo «Killer Vs. Killers» (1985) di cui, come dice Di Leo stesso, il produttore non chiese mai la nazionalità e che quindi è circolato solo all’estero in videocassetta. Fernando Di Leo è scomparso a Roma il primo dicembre del 2003.

Filmografia di Fernando di Leo Killer Contro Killers (1985) Razza violenta (1984) Vacanze per un massacro (1980) Avere vent’anni (1978) Gli amici di Nick Hezard (1976) Diamanti sporchi di sangue (1977) I padroni della città (1976) La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori (1975) Colpo in canna (1974)

Il poliziotto è marcio, Il (1974) Il boss (1973) La seduzione (1973) La mala ordina (1972) Milano calibro 9 (1972) La bestia uccide a sangue freddo (1971) I ragazzi del massacro (1969) Amarsi male (1969) Brucia, ragazzo, brucia (1969) Rose rosse per il Führer (1968) Gli eroi di ieri, oggi, domani (1964) Bibliografia su Fernando di Leo Il mensile «Nocturno» si è occupato in più occasioni di Fernando Di Leo. È consigliata la lettura del dossier «Calibro 9 – Il cinema di Fernando Di Leo» che contiene, oltre a una lunghissima e accuratissima intervista, schede sui suoi film divisi per argomento o periodo nonché una serie di annotazioni che ne contestualizzano l’opera. (Nocturno 14, settembre 2003, Cinema Bis Communication s.r.l., Gorgonzola (MI). www.nocturno.it) (rr)

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CONFITUUR titolo internazionale: «Sweet Jam» , Belgio, 2004

UN MUNDO MENOS PEOR Argentina, 2004 Regia, soggetto e sceneggiatura Alejandro Agresti

Regia Lieven Debrauwer

La trama Tuur, il calzolaio di un piccolo centro belga, è sposato da cinquant’anni con Emma, Musica originale con cui festeggia all’inizio Mas Smeets del film proprio l’anniverFotografia sario di matrimonio. La Philippe Guilbert coppia vive con Gerda, la sorella invalida di lui. Montaggio Poco entusiasta dei festegPhilippe Ravoet giamenti organizzati per Interpreti principali l’anniversario dalla moglie, Marilou Mermans, Rik Van Uffelen, Tuur se ne va di casa e si traViviane De Muynck, Ingrid De Vos, sferisce dall’altra sorella, JoChris Lomme, Jasperina De Jong, sée, che gestisce un cabaret Jaak Van Assche con la sua compagna Odette. Quando decide di tornare dalla moglie, questa, che nel frattempo ha trasformato la calzoleria in un negozio dove vende le sue buonissime marmellate, lo accoglierà con scarso entusiasmo. Sarà l’intrattabile Gerda a offrire loro una soluzione, seppur dolorosa. Sceneggiatura Lieven Debrauwer, Jacques Boon

Lieven Debrauwer dixit C’è solo una cosa in più, ed è l’AMORE. Sono affascinato dal modo in cui le persone trovano il proprio modo di comunicare l’amore e come da questa molteplicità nascano le relazioni. Oggigiorno, i media mostrano costantemente la violenza, con uno stile altrettanto aggressivo... In risposta a questo, «Confituur» propone una ricerca piena di amore per le sfumature, l’ironia e il riconoscimento dell’individualità.

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Il film Vicenda agrodolce in cui i personaggi sono costretti a rivedere le proprie vite ed ammettere – come nel caso di Gerda, sorella invalida e caratterialmente difficile protagonista Tuur – quanto la vita in comune possa diventare di estremo condizionamento per gli altri. Tuur ama sua moglie; ciò che non sopporta più sono l’ingombro causato dalla sorella e l’abitudinarietà di un’esistenza dettata dal campanello del negozio che suona quando entra un cliente. Il suo trasferimento da Josée – emarginata da Gerda che non le perdona la relazione omosessuale con Odette – in un ambiente certo più vivace grazie al cabaret che la sorella gestisce, permette anche a Emma di dare una svolta alla propria vita. Emma dapprima tenta, goffamente, di portare avanti l’attività del

negozio di calzoleria, poi deciderà di vendere le sue ottime marmellate, trasformando la vetrina del negozio. Quando Tuur decide di tornare a casa, Gerda, resasi conto di quanto la sua condizione e soprattutto il suo carattere reso aggressivo e capriccioso dall’infermità condizioni le vite di Emma e Tuur, sarà costretta a trovare autonomamente una soluzione, seppur dolorosa, per se stessa. Film delicato in cui i rapporti sono messi a nudo senza scene madri e senza mai scivolare nel melodramma, «Confituur» racconta di rapporti semplici e lascia trasparire umanità, comprensione e affetto per ogni personaggio, con un risultato agrodolce che accompagna anche dopo la visione. Il regista Nato in Belgio nel 1969, dopo avere studiato fotografia e cinema Lieven Debrauwer esordisce nella regia con il cortometraggio «Tredici» (1987) cui seguono altri otto corti tra cui «Leonie» (1997), premio della giuria a Cannes come migliore cortometraggio nel 1997. Il suo primo lungometraggio, «Pauline et Paulette» (2001), storia di una donna con un forte ritardo mentale la cui sorella che la accudisce muore lasciando nel testamento disposizioni precise sul suo futuro alle altre due sorelle, ha ottenuto numerosi premi, tra cui la Piramide d’oro al Festival del film del Cairo, il premio con menzione speciale della giuria ecumenica al Festival di Cannes e il premio del pubblico al Festival di Gardenie, in Francia. (rr)

Musica originale Philippe Sardé Fotografia José Manuel Cajaraville Montaggio Alejandro Broderson Interpreti principali Monica Galan, Julieta Cardinali, Carlos Roffe, Ulises Dumont, Mex Urtizberea

Alejandro Agresti dixit Nel film provo di nuovo a parlare di noi argentini. Cerco di far riflettere su come continuiamo a resistere senza smettere di amare e sentire la bellezza della vita, in mezzo a una realtà e a un passato che provano a distruggere l’essenza dei nostri sentimenti.

La trama Una donna scopre che il marito, creduto morto da più di vent’anni, vive in un piccolo villaggio turistico nel sud dell’Argentina ai confini con la Patagonia. Si mette quindi in viaggio con le due figlie con l’intenzione di incontrarlo.

Il film Chi aveva già avuto modo di apprezzare «Valentìn» (2002, premiato dall’associazione dei critici argentini), sa con quanta tenerezza e malinconia il regista Alejandro Agresti sappia narrare le vicende legate alla sua martoriata terra natale. L’Argentina, con il suo recente passato politico e economico a dir poco tragico, viene narrato dal regista attraverso la forza dei sentimenti dei suoi personaggi. «Un mundo menos peor» racconta una storia dolorosa: Isabel scopre che suo marito Cholo, creduto morto vent’anni addietro, è vivo e abita in un piccolo villaggio nel sud dell’Argentina. Intraprende quindi un viaggio con le due figlie: la piccola, frutto di un’altra unione, e la più grande, che è nata proprio da quel matrimonio ma non ha mai conosciuto suo padre . Il rapporto tra le due donne è talvolta teso e difficile, ma anche sorretto da complicità nella ricerca di una grande speranza comune. Giunte a destinazione, scoprono che Cholo vive una vita semplice, senza particolari emozioni e, soprattutto, sembra avere perso la memoria. Si capisce che l’uomo, a causa di un evento traumatico, non ha avuto altra possibilità che rimuovere tutto ciò che lo riposta al quel periodo. Combattuta tra il desiderio di ricominciare e il ricordo del doloroso passato, Isabel fa di tutto per riavvi-

cinarsi all’uomo, che però la sfugge dicendo di non conoscerla. Mentre lo spettatore si chiede se lui finga per evitare un dolore del passato troppo forte per essere affrontato di nuovo o se davvero la sua memoria non gli permetta di ricordare la donna, il film si avvia verso una conclusione aperta ma densa di speranza. Il film è sorretto da una sceneggiatura di ammirevole misura, che mai scivola nel patetico, efficace nel ritrarre personaggi cui sembra mancare un tassello per poter tornare a una vita piena. Il regista Alejandro Agresti, regista, sceneggiatore, attore e direttore della fotografia, nasce a Buenos Aires nel 1961. Nel 1978 realizza il suo primo lungometraggio, «El zoologico y el cementerio» seguito nel 1989 da «Boda secreta», premio per la migliore sceneggiatura e premio al regista al Dutch Film Festival. Il tema della famiglia ritrovata è al centro di «Buenos Aires Vice Versa» del 1996, in cui due figlie adolescenti di desaparecidos cercano una risposta alle loro radici violentemente estirpate. Per questo film gli viene attribuito, per la seconda volta, un premio al Nederlands Film Festival, anche in questo caso grazie alla sceneggiatura. Nel 1998 esce il divertente «El viento se llevò lo que», premiato come migliore film a San Sebastian, Newport, Istanbul e all’Habana Film Festival. In «Una noche con Sabrina Love» (2000), un giovane riesce ad incontrare la pornostar dei suoi solitari sogni. Nel 2002, «Valentìn» racconta di un adolescente che spera di ritrovare la madre che lo ha abbandonato da bambino. «Un mundo menos peor» ha ottenuto a Venezia 61 il premio «Città di Roma» come miglior film. 37


UNA DE DOS Argentina, 2004

NON SI SEVIZIA UN PAPERINO Italia, 1972

Regia, soggetto e sceneggiatura Alejo Taube

Regia Lucio Fulci

Fotografia Segundo Cerratto

La trama Un giovane chiamato «il biondo», che traffica in Montaggio denaro falso, torna al suo Alejandro Carrillo Pepaese da Buenos Aires novi e Alejo Taube proprio nei giorni più caldi Interpreti principali della grande crisi del 2001. Adrián Airala, Jimena Anganuzzi, L’economia del Paese è allo Pablo De Nito, Jorge Sesán, sbando, con i «padroni» che Ariel Staltari abbandonano le fabbriche, i risparmi di una vita bloccati nelle banche e i commercianti che non possono più fare credito ai loro clienti. Mentre eguiamo le vicende della piccola comunità, sullo sfondo ci sono le immagini della televisione che mostrano le rivolte, i saccheggi e i violenti scontri con la polizia. Il film La piccola comunità che vediamo nel film è una sorta di metonimia di ciò che accade nel Paese intero. L’improvvisa crisi economica lascia il popolo senza denaro, senza mezzi di sostentamento, senza cibo e, soprattutto, senza alcuna speranza. Alejo Taube ci racconta de «il biondo», trafficante in denaro falso che si trova emarginato dalle persone per cui lavora perché probabilmente tenuto sotto controllo dalla polizia. Torna al suo paese dove si fa notare per essere l’unico ad avere soldi,

visto che paga da bere agli amici e aiuta la madre nelle spese. Gli uomini si stringono l’uno all’altro come per esorcizzare la paura, e raccontano di sé, della perdita della speranza, dell’incertezza che li attanaglia mentre sullo schermo irrompono di tanto in tanto le immagini della televisione, che mostra le proteste, gli scontri, i saccheggi messi in atto per il più nobile dei motivi: la fame. «Il biondo» viene trovato dalla polizia e arrestato ma riesce a scappare grazie a uno scontro a fuoco tra quest’ultima e i suoi complici. Lo vediamo raggiungere una strada dove riesce a farsi dare un passaggio da un camionista in un finale che sa di speranza. Il film, che offre una visione originale dal punto di vista narrativo e in cui l’utilizzo del video è di estrema efficacia cinematografica, racconta dello scorrere dei giorni per un gruppo di persone che sopravvive tentando di non soccombere definitivamente alla mancanza di prospettive. È un racconto di grandissima forza in cui denuncia sociale e introspezione psicologica si fondono mirabilmente, senza che mai l’uno prevalga sull’altro.

Soggetto Lucio Fulci, Roberto Gianviti Sceneggiatura Lucio Fulci, Roberto Gianviti, Gianfranco Clerici Musica originale Riz Ortolani La canzone «Quei giorni insieme a te», di Ortolani-Fiastri, è cantata da Ornella Vanoni Fotografia Sergio D’Offizi Montaggio Ornella Micheli

La trama In un paesino della Lucania, tre bambini muoiono di morte violenta. I carabinieri, seguiti da un giornalista in vacanza nel posto, indagano su alcuni sospetti, soprattutto una ricca ragazza ex tossicomane allontanata da Milano dal padre e una donna sconvolta dalla morte del figlio, avvenuta anni addietro, e pratica di riti di magia nera. Ma la realtà è ben diversa...

Il film Lucio Fulci mette in scena una storia inquietante, dove credenze popolari e superstizione la fanno da padroni. Il paesino di Accendura, in cui la storia è ambientata, sembra essere fermo a un secolo prima, con le prostitute che vengono da fuori a dare un po’ di divertimento ai contadini, lo scemo del paese che viene preso a sassate e le donne che stanno in casa. E in più ci sono la superstizione e la fede alle credenze popolari, che portano

Interpreti principali Florinda Bolkan, Barbara Bouchet, Tomas Milian, Irene Papas, Marc Porel, George Wilson

alla lapidazione di colei che viene ritenuta una strega, e soprattutto un discorso tutt’altro che celato sulla chiesa cattolica e la repressione. Difficile immaginare come un film così abbia potuto superare indenne la commissione di censura in quegli anni, con il suo giovane prete pedofilo, che uccide le proprie vittime per consegnarle pure al paradiso. Due sono le scene più disturbanti: quella in cui la presunta strega (Florinda Bolkan) viene notata, sanguinante e morente dopo la lapidazione avvenuta sulle note della canzone «Quei giorni insieme a te» di Ornella Vanoni, da una famigliola di passaggio sulla strada e che decide di allontanarsi come non volesse far sfiorare da un mondo tanto lontano. Curiosità sul film La scena in cui Barbara Bouchet, adagiata completamente nuda su una poltrona, invita il bambino ad avvicinarsi fu ovviamente presa di mira dalla censura. Il regista fu costretto a dimostrare che dalla soggettiva dell’attrice nella scena c’era il bambino che vediamo, mentre per i controcampi era stato utilizzato un nano.

Il regista Alejo Taube è nato nel 1972 a Buenos Aires. «Una de dos» è il suo primo film. (rr)

Florinda Soares Bulcao

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Il regista Nato a Roma nel 1927 e morto nella stessa città nel 1996, Lucio Fulci è una delle figure meno classificabili del cinema italiano. Dotato di una lingua tagliente, che certo non gli avrà portato grandi amicizie nel suo ambiente, e di un sottile umorismo nero, inizia la sua avventura nel cinema – dopo l’abbandono degli studi di medicina – come sceneggiatore e assistente alla regia. Nel 1959 debutta nella regia con il film «I ladri», con Totò e Giovanna Ralli, prima commedia di una carriera che pare avere attraversato ogni genere del cinema, dal western al «musicarello», dal giallo all’horror più truculento. Risale al 1969 il suo primo giallo, «Una sull’altra», il cui successo gli garantisce la possibilità di realizzare «Beatrice Cenci» (1969) un film cui tiene molto e Filmografia di Lucio Fulci che narra di una donna che Voci dal profondo (1991) Hansel e Gretel (1990) nel XVII secolo mette in Demonia (1990) atto un piano per uccidere Un gatto nel cervello (1990) il padre che abusa di lei. La Casa del tempo (1989) (TV) Il film, e soprattutto il suo La dolce casa degli orrori (1989) (TV) Il fantasma di Sodoma (1988) discorso sulla chiesa cattoliQuando Alice ruppe lo specchio (1988) ca, mettono a repentaglio la Zombi 3 (1988) (completato da Claudio Fragasso carriera di Fulci, che riprene Bruno Mattei) derà quota solo nel 1971 con Aenigma (1987) Il miele del diavolo (1986) il giallo «Una lucertola con Murderock – Uccide a passo di danza (1984) la pelle di donna», seguito I guerrieri dell’anno 2072, I (1984) l’anno dopo dalla commedia La conquista (1983) «(Nonostante le apparenze Manhattan Baby (1982) Lo squartatore di New York (1982) e purché la nazione non Quella villa accanto al cimitero (1981) lo sappia...) All’onorevole ...e tu vivrai nel terrore! L’aldilà (1981) piacciono le donne» in cui Il gatto nero (1981) un politico non riesce a Paura nella città dei morti viventi (1980) Luca il contrabbandiere (1980) sottrarsi ai frequenti raptus Zombi 2 (1979) che lo portano ad attaccarsi Sella d’argento (1978) a qualsiasi gonna si avvicini, 7 note in nero (1977) tanto da costringere i suoi La pretora (1976) Il Cav. Costante Nicosia demoniaco, famigliari ad affidarlo alle ovvero: Dracula in Brianza (1975) cure di un prete psicanalista. I quattro dell’apocalisse, I (1975) Giacinto De Puppis, questo Il ritorno di Zanna Bianca, Il (1974) è il nome del personaggio, si Zanna Bianca (1973) Non si sevizia un paperino (1972) presenta come appartenente All’onorevole piacciono le donne «al gruppo di sinistra di una (Nonostante le apparenze... e purché corrente di destra del partito la nazione non lo sappia) (1972) di centro». Ovvio che la Una lucertola con la pelle di donna (1971) 40

Democrazia Cristiana dell’epoca, sentendosi messa alla berlina, lo metta all’indice rendendo difficile l’attribuzione del visto di censura. Il film successivo, «Non si sevizia un paperino», certo non gli porta le simpatie della chiesa. Seguiranno quindi due film d’avventura, girati su commissione, «Zanna Bianca» (1973) e «Il ritorno di Zanna Bianca» (1974). Nel 1975 gira un altro western, «I quattro dell’apocalisse», seguito dalle commedie «Cav. Costante Nicosia, demoniaco: ovvero, Dracula in Brianza» (1975) e «La pretora» (1976). Del 1977 è il film che Fulci considerava come il suo preferito: «7 note in nero». Fortemente influenzato da Edgar Allan Poe, il film narra di una donna che sin da bambina, dopo avere assistito al suicidio della madre, ha visioni premonitrici. Quando inizia a «vedere» un omicidio, non capisce che la persona che sta per morire è proprio lei. Il finale è lo stesso de «Il gatto nero « di Allan Poe: murata viva, nel racconto una donna verrà salvata grazie al miagolio di un gatto murato per errore insieme a lei, mentre nel film sarà il carillon di un orologio a farla scoprire dalla polizia presente nella stanza. Fulci porterà ancora il racconto sullo schermo nel 1981, con il film «Black Cat». Dopo un’ultima incursione nel western, nel 1978 con «Sella d’argento», il regista firma il suo film a tutt’oggi forse più famoso nel mondo intero: «Zombi 2», così titolato per sfruttare il successo di «Dawn of the Dead» di George A. Romero, cui il coproduttore Dario Argento aveva proprio dato il titolo «Zombi» per l’Italia. Quando Argento lo accusò di plagio, Fulci ribattè che il titolo Zombie è presente nel cinema sin dagli anni ‘40 (un titolo per tutti: «I Walked With a Zombie», 1943, di Jacques Tourner). Effettivamente, con l’originale il film ha poco a che vedere e anche la forma espressiva ne è molto distante. Grazie al suo stile visivo personale, alla violenza grafica inaudita ed efficace,

Los desesperados (1969) (co-regista) Beatrice Cenci (1969) Una sull’altra (1969) Operazione San Pietro (1967) Il lungo, il corto, il gatto (1967) Come rubammo la bomba atomica (1967) Tempo di massacro (1966) Come svaligiammo la banca d’Italia (1966) I due parà (1965) 002 operazione Luna (1965) Come inguaiammo l’esercito (1965) I due pericoli pubblici (1964) 002 agenti segretissimi (1964) I due evasi di Sing Sing, I (1964) I maniaci, I (1964) Gli imbroglioni (1963) Uno strano tipo (1963) Le massaggiatrici (1962) I due della legione straniera (1962) Colpo gobbo all’italiana (1962) Urlatori alla sbarra (1960) I ragazzi del Juke-Box (1959) I ladri (1959)

«Zombi 2» apre a Fulci le porte del genere horror, fino ad allora solo lambito, in cui eccellerà grazie a pellicole come «Paura nella città dei morti viventi» (1980), «...e tu vivrai nel terrore! L’aldilà!» (1982, noto anche come «L’aldilà») e «Quella villa accanto al cimitero», pellicole che lo rendono famoso in tutto il mondo, prima di tutto negli Stati Uniti. Seguono due pellicole gialle più classiche, cui però non Bibliografia consigliata mancano i momenti di vio– Nocturno – Dossier «L’opera al nero – Il cinelenza grafica che lo contradma di Lucio Fulci» (no. 3, settembre 2003). distingono: «Lo squartatore Editore Cinema Bis Communication S.r.l., di New York» e «Manhattan Milano. Per informazioni: www.nocturno.it – «Il terrorista dei generi», a cura di Paolo Baby», entrambi del 1982. Albiero e Giacomo Cacciatore, Editore Negli anni ‘80, a causa dei Un Mondo a Parte, Roma, 2003 suoi problemi di salute e alla difficoltà nel trovare produttori che gli finanziassero i film, Fulci gira alcune pellicole di rapido consumo come «I guerrieri dell’anno 2072» (1984), «Murderock – Uccide a passo di danza» (1984), l’erotico «Il miele del diavolo» (1986), «Aenigma» (1987) fino ad arrivare al distrastroso «Zombi 3» del 1988. Ben lontano dal progetto di uno «Zombi 3D» per anni covato ma sempre accantonato per una questione di costi, accetta di dirigere il film, scritto da Claudio Fragasso, unicamente per ragioni «alimentari». Non gli riesce però di portarne a termine la lavorazione a causa delle ormai precarie condizioni di salute. La pellicola viene terminata da Fragasso e Bruno Mattei e risulta un pasticcio improbabile e brutto in cui spiccano per stile e perizia solo le scene girate da Fulci. Alcuni film girati per la televisione, per una serie che avrebbe dovuto intitolarsi «Lucio Fulci presenta...» e mai trasmessa, nonché alcuni

titoli non degni della sua fama a causa anche della mancanza di denaro, concludono la carriera del regista. Lucio Fulci muore a causa del diabete che da anni lo tormenta nel marzo del 1996, mentre sta lavorando a un rientro in grande stile con il rifacimento del classico di Mario Bava «La maschera di cera», prodotto da Dario Argento (film che poi girerà l’addetto agli effetti speciali Sergio Stivaletti) Curiosità su Lucio Fulci – Fulci è co-sceneggiatore di «Un giorno in pretura» (1954), film in cui appare per la prima volta il personaggio di Nando Moriconi, che Alberto Sordi riproporrà lo stesso anno in «Un Americano a Roma» diretto come il precedente da Steno (nella vita Stefano Vanzina) e sceneggiato anch’esso da Fulci. – Sul set de «I ragazzi del juke box», Adriano Celentano avrebbe dovuto cantare una canzone dal titolo «Capri, amore e cia cia cia» che però non convinse Fulci il quale, li per lì, si inventò co n il co-sceneggiatore Piero Vivarelli la canzone «Il tuo bacio è come un rock», che divenne uno tra i maggiori successi del cantante. – All’esame di ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, Fulci ebbe come presidente della commissione d’esame Luchino Visconti (i membri erano, tanto per dare un’idea, Michelangelo Antonioni, Pietro Germi e Antonio Pietrangeli). Quando Visconti, durante l’esame, gli disse: «lei che mi sembra preparato, ha visto ‘Ossessione’?», Fulci rispose elencandogli tutte le inquadrature che Visconti aveva copiato da Renoir. La risposta di Visconti fu: «Bravo, lei è un candidato che ha coraggio» e Fulci fu ammesso con il massimo dei voti. (rr) 41


VERA DRAKE UK, 2004 Regia, soggetto e sceneggiatura Mike Leigh Musiche originali Andrew Dickson

La trama Londra 1950: Vera, suo marito Stan e i figli Sid Fotografia e Ethel sono una famiDick Pope glia serena e unita. Montaggio Vera lavora come donna Jim Clark delle pulizie ma ha anche un’altra, disinteressata e Interpreti principali segreta, attività: aiuta ad Imelda Staunton, Phil Davis, abortire, senza farsi pagare, Adrian Scarborough, Daniel Mays, giovani donne in difficoltà. Alex Kelly Quando, in seguito proprio ad un aborto, una di queste giovani ragazze viene ricoverata in ospedale, le indagini della polizia portano a Vera cui, improvvisamente, il mondo crolla addosso. Il film Vera è una donna compassionevole e altruista: aiuta le persone in difficoltà, tutte le persone in difficoltà che incontra nel suo cammino. Questa attività costante non sembra provarla, al contrario, ne ha fatto lo scopo della sua esistenza. Ma nemmeno la sua famiglia sembra immune a questa gioia interiore: né il marito Stan, che lavora come meccanico nell’officina di suo fratello Frank, che guadagna molto più di lui sebbene la quantità di lavoro sia la stessa, né i figli Sid, che lavora presso una sartoria, ed Ethel, timidissima operaia in una fabbrica di lampadine il cui ritmo di lavoro la rende invisibile agli altri. Loro si sentono comunque ricchi, grazie a Vera. Questo ritratto di famiglia è, come sempre nei film di Leigh, vivido e reale, con i personaggi che parlano un linguaggio credibile, proprio del loro ceto sociale, senza mai apparire «cinematografici». Sono proprio questi ritratti personali, definiti senza che il regista sembri avere timore di deviare dal racconto principale quando vuole contestualizzarlo 42

attraverso i personaggi, a renderlo un vero poeta del cinema. Quando assistiamo al primo aborto praticato da Vera, è subito chiaro che il tono non è politico o rivendicativo di un diritto, stiamo assistendo a una vicenda privata e lo stato con le sue leggi qui non c’entra nulla e tantomeno c’entra la Chiesa con i suoi dogmi. L’aborto era già una scelta possibile nell’Inghilterra di quegli anni, ma era un intervento troppo costoso per il popolo. Nel film, la figlia di una famiglia per cui Vera lavora, viene violentata e rimane incinta. Quando si rivolge a un medico, questi, sapendo che la ragazza non vuole parlare dell’accaduto alla sua famiglia, le chiede per l’intervento una cifra molto alta, troppo per lei. Sarà Vera ad aiutarla con la consueta cura e delicatezza, ma una complicazione nell’intervento costringerà la ragazza al ricovero in un ospedale, dove la polizia inizierà fare domande, giungendo presto all’esecutrice dell’intervento. Portata via dalla polizia, Vera lascia la famiglia sconvolta in quanto totalmente ignara dell’attività della donna. Mentre la protagonista è presentata come un personaggio piacevole e a mabile, non tutti gli abortisti sono mostrati con altrettanto riguardo, anzi, il film ne mostra alcuni particolarmente sgradevoli così come non tutte le donne che si sottopongono a un aborto sono mostrate come personaggi degni di pietà. «Vera Drake» è una bella storia capace di diventare anche un efficace ritratto dell’Inghilterra degli anni ‘50, con le sue disparità tra i ceti. Il film è girato con un equilibrio raro, Mike Leigh ha certo una sua tesi ma non ritiene importante renderla troppo esplicita nella storia, e sostenuto da interpretazioni di insuperabile classe da parte di tutti gli attori. Imelda

Staunton, che nella seconda parte della vicenda offre un’interpretazione tutta giocata sulle espressioni del suo volto, è stata premiata alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel settembre 2004. Il regista Considerato uno tra i maggiori registi inglesi del nostro tempo, Mike Leigh è noto per i drammi della gente comune che mette in scena con grande efficacia. Spesso accomunato a Ken Loach per la sua sensibilità i temi sociali, Mike Leigh se ne discosta evitando di rendere troppo esplicito il discorso puramente politico nei suoi film e riportando le vicende in una sfera intima e personale. Nato il 20 febbraio del 1943 nei pressi di Manchester, Leigh inizialmente mostra ambizioni da attore e per questo frequenta la Royal Academy of Dramatic Art di Londra per poi però decidere di optare per la scrittura e la regia teatrale. Nel 1972 traspone una sua commedia teatrale dal titolo «Bleak Moments» al

cinema, ottenendo l’attenzione della critica ma non quella del pubblico. Seguono alcuni film realizzati per la televisione prima del ritorno al cinema nel 1988 con «High Hopes», spaccato di vita di una giovane coppia della classe operaia nell’era post Tatcher che gli vale il premio FIPRESCI a Venezia. «Life is Sweet» del 1990 viene seguito tre anni dopo da «Naked», suo primo grande successo. Il film narra di un uomo che scappa da Manchester, per evitare ritorsioni da parte della famiglia di una ragazza, a Londra, dove farà diversi incontri curiosi. Grazie a «Naked», Leigh viene premiato come migliore regista a Cannes. Il film seguente, «Secrets and Lies» del 1996, è un dramma sul difficile rapporto tra una figlia e la sua madre biologica, che l’aveva data in adozione, nonché sulle reazioni della famiglia della madre quando viene a sapere del loro ricongiungimento. Il film porta numerosi e prestigiosi premi in tutto il mondo ai suoi bravissimi interpreti, la Palma d’Oro a Cannes per regista e attrice protagonista nonché una candidatura all’Oscar per il regista. Il sottovalutato «Career Girls» (1997) mette in scena la storia di due donne che, dopo avere convissuto ai tempi della scuola e avendo perso in seguito i contatti, si rivedono per un fine settimana in cui getteranno le basi per un nuovo rapporto. Nel 1999 esce «Topsy-Turvy» con cui Leigh si cimenta in un tema inedito per il suo cinema: la storia di due autori di operette realmente esistiti che, in seguito ad un insuccesso si separano. Nel 2002 gira l’apprezzatissimo «All or Nothing» (2002), delicata storia di una coppia in crisi che un dramma farà riavvicinare. «Vera Drake» è il suo nono film per il cinema. (rr) 43


LE GRAND VOYAGE Marocco-Francia, 2004

TOUT UN HIVER SANS FEU Francia-Svizzera, 2004

Regia, soggetto e sceneggiatura Ismaël Ferroukhi

Regia Greg Zglinski

Musica originale Fowzi Guerdjou Fotografia Katell Dijan Montaggio Tina Baz Interpreti principali Nicolas Cazalé, Mohamed Majd, Roxanne Mesquida, Kamel Belghazi

La trama Marsiglia: un ragazzo arabo totalmente «occidentalizzato» e musulmano non praticante viene costretto dal padre ad accompagnarlo da Aix-enProvence alla Mecca in un viaggio in automobile di più di cinquemila chilometri. Attraverso Italia, Slovenia, Croazia, Bulgaria, Siria e Giordania, il lungo viaggio permetterà loro di accorciare le distanze più che tra i luoghi tra loro stessi.

Il film Quando il giovane Reda, costretto dal padre a un lunghissimo viaggio in automobile dalla Francia alla Mecca, gli chiede perché non possano effettuare il viaggio in aereo, questi risponde che «l’acqua del mare diventa dolce e pura solo quando giunge in cielo e per ottenere questo ci vuole del tempo». È questa la migliore sintesi di un film che vede due persone molto distanti affrontare insieme un’esperienza faticosa e tortuosa che cambierà entrambi. Sentendosi ormai anziano, Mustafà, il padre, decide che è il momento di fare il suo dovere di musulmano e di recarsi alla Mecca, viaggio che ogni buon musulmano (islamico???) dovrebbe fare una volta nella vita. L’uomo è ostinato e orgoglioso nel rifiutare un presente fatto di tecnologia e consumismo mentre il figlio, nato e cresciuto in Francia, è totalmente immerso in quel mondo e non disdegna neppure gli alcolici, che suo padre, da buon musulmano, aborre. In un percorso fatto di momenti drammatici quanto di spunti umoristici, sarà proprio il progressivo abbandono dei reciproci pregiudizi ad avvicinarli 44

Paese dopo Paese e a consentire loro di ritrovarsi, giusto in tempo, non più estranei proprio alla fine del viaggio. Il film, che narrando non solo di un padre e di suo figlio bensì dell’incontro di due mondi solo apparentemente distanti e perfettamente in sintonia una volta abbandonati i reciproci pregiudizi, mette in scena un classico viaggio in cui è il percorso a contare più che la destinazione. Le interpretazioni dei due protagonisti sono mirabili per misura e adeguatezza in ogni scena. Il regista Ismaël Ferroukhi è nato a Kenitra (Marocco) nel 1962 e cresciuto nel sud della Francia. Il suo esordio nel cinema avviene nel 1992 con il cortometraggio «L’exposé» (premio Kodak nel 1993 a Cannes) cui segue un connubio con Cédric Kahn in qualità di sceneggiatore dei suoi «Trop de bonheur» (1994) e «Culpabilité zéero» (1996, film per la televisione). Ancora suoi sono il cortometraggio «L’inconnu» (girato per la televisione nel 1996) e il film per la televisione «Petit Ben» (2000). «Le grand voyage» è il suo primo lungometraggio per il grande schermo come regista. Grazie a questo film, Ismaël Ferroukhi ha ottenuto il premio Luigi De Laurentiis alla 61a Internazionale del Cinema di Venezia (2004). (rr)

Sceneggiatura Pierre Pascal Rossi

La trama Jean e Laure hanno perso la figlia di cinque anni nel rogo Musica originale della loro stalla nel Canton Jacek Grudzien, Mariusz Ziemba Giura. Le loro vite sono Fotografia distrutte: lui medita di abWitold Plociennik bandonare l’alpeggio in cui lavora e lei, debilitata nella Montaggio psiche e nel fisico, viene Urszula Lesiak necessariamente ricoverata Interpreti principali in una clinica per riprenderAurélien Recoing, Marie Matheron, si. La loro unione è messa Gabriela Muskala, Blerim Gjoci a durissima prova dalla di lei sorella, che ritiene Jean responsabile per negligenza di quanto accaduto, e da Laure stessa, cui il marito ricorda una situazione più dolorosa di quanto lei possa al momento sostenere. Impiegatosi presso la Von Roll, Jean conosce un giovane profugo kosovaro e sua sorella Labinota, probabilmente vedova anche se non rinuncia alla speranza di rivedere il marito scomparso da tempo. Sarà proprio il comune dolore ad avvicinarli, anche se solo per poco: Laure, uscita dalla clinica, vuole riavvicinarsi al marito.

Il film Un inverno senza fuoco che ha gelato, più ancora che le membra, il cuore dei due protagonisti, vittime di una tragedia che ha cambiato le loro vite. A causa di un incendio che ha distrutto la loro stalla, Jean e Laure hanno perso Marie, la loro bambina di cinque anni. Assistiamo alla disperazione dei due genitori, vissuta in maniera profondamente diversa: se Laure tenta di rifuggire la realtà attaccandosi con forza ai ricordi per evitare una realtà troppo dura per lei, Jean tenta di voltare pagina, affrontando una vita che non sarà mai più la stessa ma dalla quale sa di non potersi nascondere. Il loro rapporto è in una fase di stallo, lei lo vede come parte integrante di una vita che vuole rimuovere per sopravvivere e lui non riesce a fare breccia nel muro di protezione che lei ha costruito per continuare a vivere. Laure acconsente di farsi ricoverare in una clinica e Jean decide, anche per motivi economici, di abbandonare l’alpeggio per trovare lavoro in fabbrica. Qui incontra Labinote, una profuga kosovara il

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cui marito, che lei non smette di sperare di poter rivedere, è scomparso in seguito ad un’offensiva serba. Il dolore comune li avvicinerà per un momento senza far perdere loro la consapevolezza di cosa li accomuna. Con l’avvicinarsi del capodanno si prospetta forse la possibilità per tutti di una vita da affrontare di nuovo insieme. La tristezza della storia è tale da lasciare senza fiato, anche se sono la forza disperata e la dignità del protagonista a risaltare ai nostri occhi. Jean nasconde il proprio dolore con pudore, Laure non può nasconderlo e improvvisamente tutte le persone che li circondano, e le cui esistenze ci sembrano normali, ci appaiono portatrici di un dolore più o meno forte ma sempre condizionante. Lucido, intenso ma nel contempo asciutto, il dolore qui è sinonimo di pudore. Sorretto da interpretazioni di grande misura ed efficacia, è un film da vedere assolutamente.

MELANCHOLIAN KOLME HUONETTA titolo internazionale: «The 3 rooms of Melancholia», Finlandia, 2004

Musiche originali Sanna Salmenkallio Fotografia Pirjo Honkasalo Montaggio Nils Pagh Andersen, Pirjo Honkasalo

Il regista Greg Zglinski nasce a Varsavia nel 1968. Dopo avere vissuto, tra il il 1978 al 1992, in Svizzera, torna in Polonia per studiare alla scuola di cinema di Lodz. Nel 2002 gira il mediometraggio «Na swoje podobienstwo», di cui è anche sceneggiatore e di cui cura il montaggio. «Tout un hiver sans feu» è il suo primo lungometraggio. A Venezia 62 il film ha ottenuto i premi CinemAvvenire e SIGNIS. (rr) Pirjo Honkasalo dixit* Il mio film e’ un ritratto di quello che noi esseri umani facciamo gli uni agli altri. E nasce dal mio sentimento di vergogna. Lo considero il mio contributo ai negoziati di pace in varie parti del mondo.

Greg Zlinski dixit La natura umana tende a polarizzarsi, a distinguere le cose attribuendole alla sfera del bene o del male, dopodiché è più semplice prendere decisioni. La maggior parte della nostra vita si svolge nelle zone grigie tra quei due estremi e questo ci disorienta. Su cosa possiamo contare, sulle nostre emozioni? Possiamo fare affidamento su di esse?

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Il film Film-documento che mostra la guerra senza regole né pietà in atto in Cecenia. Il film si divide tra tre spazi («le tre stanze della malinconia» del titolo): nell’isola di Kronstadt, di fronte a San Pietroburgo, c’è un’accademia militare (voluta da Putin ma qualcuno se ne sorprende?) per orfani dove viene insegnato l’odio per il nemico ceceno, a Grozny i bambini, randagi come i cani, giocano tra le macerie e nel resto del Paese, intanto, Xhadizhat Gataeva fa da madre a 63 orfani, i cui genitori sono stati uccisi in gran parte dall’esercito russo. È la storia di Aslan, undicenne abusato dai soldati russi, del ceceno Adam, la cui madre impazzita ha cercato di buttarlo dal nono piano, di Milana, che a dodici anni ha già abortito dopo uno stupro subito dai soldati russi e di tanti altri ancora. Il racconto di una guerra di cui nessuno può dire di non essere vittima. «The 3 Rooms of Melancholia» ha ottenuto a Venezia lo «Human Rights Film Network Award»

Regia, soggetto, sceneggiatura Pirjio Honkasalo

Quello che è successo in Ossezia credo sia opera di un terrorismo internazionale che però trova adesioni in una popolazione decisa a combattere fino all’ultima persona per l’indipendenza. (...) La Cecenia da un lato è diventata un ottimo business per gli ufficiali che trafficano in armi e droga, dall’altro è la guerra privata di Putin, che sa reagire come gli è stato insegnato. Perché un uomo del KGB rimane tale anche se, come diciamo in Finlandia, lo friggete nel burro.

La regista Nata a Helsinki nel 1947, Pirjo Honkasalo si diploma ventunenne alla

scuola di cinema. Gira il suo primo documentario, «Ikäluokka» (1976), a 29 anni. È nota per i suoi documentari rigorosi e premiati (premio AFI della giuria a Los Angeles nonché premio della giuria dei giovani a Locarno per «Tulennielijä» (1998), premio come documentario per «Tanjuska ja seitsemän perkelettä» (1993) ai premi Amanda in Norvegia, premio Joris Ivens nel 1996 per «Atman»). (rr) Filmografia Melancholian kolme huonetta (titolo internazionale: «The 3 rooms of Melancholia», 2004) Pimeys (titolo internazionale: «Darkness», 2000) Tulennielijä (1998) Atman (1996) Tallinnan Tuhkimo (1996) Tanjuska ja seitsemän perkelettä (1993) Mysterion (1991) Da Capo (1985) 250 grammaa – radioaktiivinen testamentti (titolo internazionale: «250 Grammes: A Radioactive Testament», 1983) Tulipää (1980) Kainuu 39 (titolo internazionale: «Two Forces», 1979) Vaaran merkki (titolo internazionale: The Sign of Danger», 1978) Ikäluokka (1976)

*durante la conferenza stampa a Venezia 61, parlando della Strage di Beslan

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I GENERI DEL CINEMA 01. Breve introduzione alla «blaxpoitation»: le eroine di Jack Hill e Pam Grier

di Roberto Rippa

«blaxploitation» – una breve storia Il genere denominato «blaxploitation», nato e proliferato nella prima metà degli anni ‘70 e reso visibile al mondo grazie soprattutto a pellicole come «Shaft» (1971) e «Superfly» (1972), caratterizzava pellicole a basso costo, fortemente di genere, i cui personaggi principali, gli eroi, e molto meno frequentemente il cast tecnico e meno ancora la produzione, erano afro-americani. Il genere si componeva in gran parte di pellicole d’azione e poliziesche ma fu capace anche di prendere a prestito elementi che Hollywood pareva avere in quel tempo messo un po’ in disparte come il western, la fantascienza e l’orrore (un titolo per tutti: «Blacula», 1972, variante black di Dracula). La sua nascita fu dettata dal fatto che, agli inizi degli anni ’70, le principali case di produzione di film di genere, come la American International Pictures, produttrice dei primi film di Roger Corman, si erano rese conto della necessità di portare al cinema la comunità afroamericana per poter superare la crisi che stavano attraversando e il creare eroi cinematografici della stessa etnia era parsa una scelta vincente. Del resto, pure la televisione americana, desiderosa di attrarre lo stesso pubblico, iniziò in quell’epoca a mettere in onda serie «all black», che nulla avevano però a che fare con la blaxploitation», come «Sanford and Son» (1972-1977), «Good Times» (1974-1979), «What’s Happening (1976-1979), e, più tardi, «The Jeffersons» (1975-1985). La «blaxploitation» incontrò un grande successo determinato da un pubblico eterogeneo ma si dimostrò caduco tanto che già a metà degli anni ‘70 era entrato in forte crisi e sarebbe morto di lì a poco. Alla crisi del genere non fu certo estranea la consapevolezza della comunità afro-americana di essere stata usata a fini commerciali da case di produzione composte e dirette da bianchi e la conseguente diserzione delle sale cinematografiche in cui i film venivano proiettati. I volti principali del genere sono quelli degli ex giocatori di football americano Jim Brown e Fred Williamson (quest’ultimo in seguito molto attivo nel cinema bis italiano), dell’ex modello Richard Roundtree e dell’eroina incontrastata Pam Grier. Occorrerà attendere una decina di anni perché una nuova cinematografia black prenda vita, questa volta mettendo in luce autori in un modo più alto, grazie a nomi come, tra gli altri, Spike Lee e John Singleton (suo «Boyz N the Hood» del 1991, candidato all’Oscar come migliore sceneggiatura e migliore regia, ma anche il deludente rifacimento di «Shaft» del 2000). Dei film appartenenti al genere Blaxploitation va sottolineata l’importanza delle colonne sonore, generalmente bellissime, composte da musicisti del calibro di James Brown («Black Caesar»), Willie Hutch («Foxy Brown»), Roy Ayers («Coffy»), Bobby Womack («Across 110th Street» poi ripreso come tema di «Jackie Brown» di Quentin Tarantino), Isaac Hayes (il famosissimo tema di «Shaft»), Curtis Mayfield («Superfly»), tra gli altri.

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Filmografia consigliata (il nome indicato tra parentesi è quello del regista, gli asterischi indicano un giudizio sul film) Cotton Comes to Harlem 1970) – Ossie Davis *** Friday Foster (1971) – Arthur Marks * Shaft (1971) – Gordon Parks *** Across 110th Street (1972) – Barry Shear *** Superfly (1972) – Gordon Parks Jr. ** Shaft’s Big Score! (1972) – Gordon Parks (seguito di «Shaft») * Hammer (1972) – Bruce D. Clark * Slaughter (1972) – Jack Starrett * Blacula (1972) – William Crain (versione black di «Dracula») ** Scream, Blacula, Scream (1973) – Bob Kelljan (seguito di «Blacula») * Cleopatra Jones (1973) – Jack Starrett * Blackenstein (1973) – William A. Levey (versione black di «Frankenstein») * Black Caesar (1973) – Larry Cohen *** Slaughter’s Big Rip–Off (1973) – Gordon Douglas (seguito di «Slaughter») * Hell Up in Harlem (1973) – Larry Cohen (seguito di «Black Caesar») * Foxy Brown (1974) – Jack Hill (non ufficialmente seguito di «Coffy») *** Sheba Baby (1975) – William Girdler * Bucktown (1975) – Arthur Marks ** Dr. Black, Mr. Hyde (1976) – William Crain * Jackie Brown (1997) – Quentin Tarantino ***

Bibliografia consigliata – Blaxploitation Films , Michel J. Koven Trafalgar Square, USA, 2001 – That’s Blaxploitation!: Roots of the Baadasssss’Tude (Rated X by an All-White Jury), Darius James, St. Martin’s Press, USA, 1995 – Nocturno Book #15 (novembre 2000), Dossier Blaxploitation (www.nocturno.it)

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COFFY USA, 1973 Regia soggetto e sceneggiatura Jack Hill Cenni biografici su Pam Grier Nata nel 1949 come Pamela Suzette Grier, Pam Grier è stata una tra le più celebri attrici cinematografiche afro-americane degli anni ‘70. La sua carriera ha inizio nel 1971, quando Roger Corman la lancia nei film «The Big Doll House» (1971) e «The Big Bird Cage» (1972), entrambi di ambientazione carceraria. La sua forte presenza le guadagna un contratto di cinque anni con Samuel Z. Arkoff e la American International Pictures, casa di produzione che la eleva a protagonista di diversi film d’azione come «Black Mama, White Mama» (1972), «Coffy» (1973), «Scream Blacula Scream» (1973, seguito di «Blacula» dell’anno precedente), «Foxy Brown» (1974), «Black Mama, White Mama» (1974, scritto da Jonathan Demme), «Friday Foster» (1975) e «Sheba Baby» (1975). Nel corso degli anni ‘80, appare regolarmente nella serie TV «Miami Vice», ha un ruolo nel film della Disney «Something Wicked This Way Comes» (1983) e torna al cinema d’azione al fianco di Steven Seagal in «Above the Law» (1988). Negli anni ‘90, Quentin Tarantino le offre il ruolo della sua vita in «Jackie Brown» (1997), il cui titolo si rifà evidentemente a «Foxy Brown» e il cui personaggio è un omaggio ai ruoli sostenuti negli anni ‘70. Appare quindi in ruoli di contorno in Mars Attacks! di Tim Burton (1996), in «In Too Deep» (1999) e, in un ruolo brillante, in «Jawbreaker» (1999). Recentemente è apparsa in «Ghosts of Mars» di John Carpenter (2001) ed è stata al fianco di Snoop Dogg in «Bones» (2001). La sua carriera, ormai trentennale, prosegue senza cedimenti pur senza ruoli di grande spessore. Curiosità su Pam Grier Pam Grier si era sottoposta a un provino per «Pulp Fiction» di Quentin Tarantino (1994) ma le venne preferita Rosanna Arquette. Tarantino si ricordò di lei al momento della scelta della protagonista di «Jackie Brown» nel 1997. Il suo personaggio, addirittura, venne trasformato dall’originale Jackie Burke (dal romanzo di James Ellroy da cui il film è tratto) in Jackie Brown, in omaggio a «Foxy Brown». Quando era studentessa alla UCLA, ha lavorato come corista per Bobby Womack. Curiosamente, la canzone di Bobby Womack «Across 110th Street» (tema portante del film omonimo del 1972) venne scelta per accompagnare titoli di testa e di coda di «Jackie Brown». E’ stata la prima donna di colore ad apparire, nel 1975, sulla copertina della rivista «MS. Magazine». E’ stata inclusa dalla rivista «Ebony» nella lista delle cento donne più affascinanti del XX secolo.

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Musiche originali Roy Ayers Fotografia Paul Lohmann Montaggio Chuck McClelland (citato nei crediti come Charles McClelland) Interpreti principali Pam Grier, Booker Bradshaw, Robert DoQui, William Elliott, Allan Arbus, Sid Haig, Barry Cahill

La trama Coffy è un infermiera la cui giovanissima sorella è in coma a causa di una dose di eroina tagliata male. Per vendicarsi, Coffy compie una discesa agli inferi tra magnaccia, spacciatori e mafiosi mettendo in atto una giustizia sommaria di cui vittime sono tutti i delinquenti che incrociano il suo cammino.

Il film Coffy, uno tra gli esempi più fulgidi, del genere «blaxploitation», narra di una sorta di personaggio come quello interpretato da Charles Bronson in «Death Wish» («Il giustiziere della notte», 1974) ma con le tette, la visione delle quali, nel corso del film, non viene lesinata. Coffy è una donna dura, arrabbiata e determinata, il cui obiettivo è quello di ripulire le strade da spacciatori et similia, e per farlo non fa risparmio di armi, taglienti lamette nascoste tra la folta chioma, bottigliate in testa senza però mai perdere in sex appeal, esattamente come alcune eroine del cinema d’azione più recente come Sigourney Weaver in «Alien» (1979) o Linda Hamilton in «Terminator 2» (1991), i cui sex appeal però non necessitavano dell’esibizione di petti nudi a piè sospinto. La sete di vendetta di Coffy per la giovane sorella in coma a causa di spacciatori e magnaccia, non si placa e, soprattutto, non si ferma davanti a nulla. La prima scena la vede fingersi tossicodipendente in crisi di astinenza mentre propone il suo corpo in cambio di una dose. Pochi istanti dopo, in un appartamento dove lei avrebbe dovuto concedere le sue grazie, il cervello dello spacciatore

è già distribuito sulle pareti grazie a un ben assestato colpo di pistola, mentre il suo tirapiedi morirà di lì a poco di una overdose indotta. Risolta questa prima pendenza, Coffy decide di vendicare il suo amico poliziotto Carter, anch’esso in coma in seguito allo scontro con alcuni malviventi intenzionati a fargli pagare il fatto che non ha accettato di apparire sul loro libro paga. «Se sarà fortunato, potrà ancora recarsi al gabinetto da solo», dice di lui un medico che deve avere mancato le lezioni di sensibilità verso i parenti dei malati, e Coffy parte a caccia dei mafiosi che l’hanno ridotto così. Malgrado il regista Jack Hill tenti di riempire il film con tutti i clichés propri del genere, violenza grafica e pretesti vari per fare uscire le sue attrici dai vestiti il più frequentemente possibile, «Coffy» si eleva sui film coevi dello stesso genere grazie ad alcune scelte non scontate e grazie al carisma di Pam Grier, che qui mostra una capacità interpretativa efficace ancorché acerba. In un genere caratterizzato da nudi gratuiti, violenta senza requie e, soprattutto, la glorificazione degli stereotipi razziali, per non citare la povertà della produzione, «Coffy» rimane un film di grande intrattenimento e un ottimo mezzo per capire un genere che negli anni ‘70 ha senza dubbio contribuito a salvare il cinema statunitense. Come per ogni film del genere «blaxploitation», non va trascurata l’ottima colonna sonora, in questo caso ad opera di Roy Ayers. (rr)

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FOXY BROWN USA, 1974 Regia, soggetto e sceneggiatura Jack Hill Musiche originali Willie Hutch Fotografia Brick Marquard Montaggio Chuck McClelland Interpreti principali Pam Grier, Antonio Fargas, Peter Brown, Terry Carter, Katheryn Loder, Harry Holcombe, Sid Haig, Juanita Brown

La trama Foxy Brown è una donna il cui compagno, un agente federale, è stato ucciso da una banda di criminali che fanno capo alla coppia composta da Steve Elias e Miss Katherine. Foxy non tarderà a cercare vendetta ma scoprirà anche di essere stata tradita da una persona a lei molto vicina.

Il film «Foxy Brown» era stato pensato come seguito di «Coffy» (1973, vedi scheda relativa), il suo titolo avrebbe dovuto essere infatti «Burn Coffy Burn», titolo bocciato in quanto la produzione (la solita «American International») riteneva che i seguiti dei film blaxploitation fossero votati all’insuccesso (un esempio per tutti «Black Caesar» del 1973 e il suo seguito «Hell Up in Harlem» dello stesso anno). Foxy è in cerca di giustizia sommaria dopo che il suo compagno, un agente federale, è stato ucciso da una banda di criminali capeggiati da Steve Elias e Miss Katherine, dediti al traffico di droga così come alla gestione di una rete di prostituzione ad alto livello. L’uccisione del poliziotto è favorita dal di lei fratello (l’attore Antonio Fargas, di lì a poco nel ruolo dell’informatore nella serie televisiva «Starsky and Hutch, in onda originariamente dal 1975 al 1979), che vende l’informazione in cambio di una dose. Cosa può fare una ragazza sola in questa situazione? Dichiarare guerra alla mafia, ovviamente, e combattere questa guerra sola, con l’aiuto di varie armi, sostanze infiammanti e quant’altro. 52

Si potrebbe trattare di un film sul potere femminile, come dichiara il regista Jack Hill nel commento contenuto nel DVD americano di questo film, ma la dichiarazione appare pretestuosa e i frequenti nudi sono lì a smentirlo. Per un film a bassissimo costo basato sul trinomio crimine-sesso-droga, il risultato è sinceramente divertente e godibile, utile senz’altro per avere un esempio illuminante del genere e di come venisse trattato a Hollywood prima che si decidesse di sostenerlo con investimenti più importanti e risorse autoriali più autorevoli. La visione del film, così come quella del precedente «Coffy», è caldamente consigliata agli amanti di «Jackie Brown» (1997) di Quentin Tarantino. Ottima la colonna sonora di Willie Hutch. (rr)

Il cinema in casa a cura di Roberto Rippa

I FILM DEL MESE Elvis Presley è vivo e, in seguito a uno scambio di identità con un suo sosia che dopo avere comunicato la morte del vero re del rock gli impedisce di ritornare nei suoi panni, abita in una casa di riposo in Texas nutrendosi dei ricordi dei bei tempi che furono. Questo fino a quando una mummia egiziana inizia a divorare gli ospiti della residenza per succhiare loro l’anima e tornare in vita. BUBBA HO-TEP Per combattere il male, a U.S.A., 2002 Elvis non resterà che unirsi Regia e sceneggiatura a un altro ospite dell’istituto, Don Coscarelli il nero Ossie Davis che dice di essere John F. Kennedy e Soggetto di essere stato tinto di nero Joe R. Lansdale dal governo per nascondere Interpreti principali al mondo la verità sulla sua Bruce Campbell, Ossie Davis, sparizione. Ella Joyce, Heidi Marnhout Don Coscarelli, responsabile dei film di culto «Phantasm» (1979, titolo italiano «Fantasmi») e dei successivi episodi (l’ultimo è «Phantasm IV: The Oblivion» del 1998) nonché di «The Beastmaster» (1982), si unisce allo scrittore Joe R. Lansdale («The Mambo Bear» – «Il Mambo degli orsi», «Bad Chili» e «The Drive-In» – «La notte del drive in», tutti pubblicati in Italia da Einaudi) per mettere in scena una storia che mescola abilmente commedia e orrore, tensione e ironia. Lo aiutano nell’impresa il grande Bruce Campbell (già visto in «Evil Dead», 1981, «Evil Dead II», 1987, e «Army

of Darkness», 1993, tutti diretti da Sam Raimi) e Ossie Davis, visto a Venezia in «She Hate Me» («Lei mi odia») di Spike Lee. Produzione indipendente girata in economia ma con grande talento nel sopperire con fantasia e capacità alla mancanza di grossi capitali, il film ha ottenuto un seguito sorprendente nel circuito indipendente negli Stati Uniti La bella edizione speciale della MGM presenta due commenti audio, ad opera di Don Coscarelli e Bruce Campbell, il documentario sulla lavorazione che spiega come sia stato possibile realizzare il film con l’1% del costo di un normale film hollywoodiano, un breve documentario sulla musica del film, vera co-protagonista unitamente ai personaggi, uno sul trucco utilizzato per la mummia, uno sui costumi e quindi foto di scena e scene eliminate. Bubba Ho-Tep (MGM) Origine dvd: U.S.A. (regione 1) Durata: 92’ Lingue: ENG Sottotitoli: ENG / ESP / FRA Extra: vedere articolo

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Nato dal connubio tra il regista Paul Verhoeven e lo sceneggiatore Joe Eszterhas, responsabili appena tre anni prima del successo planetario dello scarsissimo «Basic Instinct», «Showgirls» è senza ombra di dubbio uno tra i film più brutti della storia del cinema. Perché allora viene voglia di consigliarlo? SemSHOWGIRLS plicemente perché è uno dei U.S.A., 1995 casi in cui sono proprio la bruttezza e l’ingenuità delRegia l’opera a renderla sublime. Paul Verhoeven Improbabilissima storia di una Soggetto e sceneggiatura spogliarellista che passa dai pali Joe Eszterhas della lap dance di Las Vegas all’audizione come ballerina Interpreti principali di fila in un musical messo in Elizabeth Berkley, Kyle MacLachlan, scena dallo «Stardust Casino» Gina Gershon, Glenn Plummer per scoprire che il mondo dello spettacolo non è meno duro e insidioso di quello frequentato fino a quel momento, «Showgirls» è celebre per scene incredibili come quella che vede un coreografo verificare con le sue stesse mani se una ballerina ha davvero le mestruazioni come dice. Ma tutto il film è sbagliato: dalla sceneggiatura che pare scritta da un adolescente pruriginoso – le ragazze pare siano interessate solo a parlare dei loro corpi nudi e delle loro unghie – al fatto che i nudi stessi siano talmente insistiti da far perdere al film ogni carattere erotico. La protagonista, poi, non ne azzecca una: è piagnucolosa ma al contempo spregevole nella sua scalata al successo e in più è dotata di un enorme talento, che nel film tutti sembrano notare ma noi no, cosa che non tarda a trasformarla nella nostra eroina. Il film, che nelle intenzioni dovrebbe palesemente scioccare ma invece risulta ridicolo, va recuperato ora che esce in un’edizione speciale della MGM completa di carte da gioco, bicchieri da tequila con il logo del film, un imperdibile video che insegna l’arte della lap dance e un gioco da tavolo. Per quanto riguarda gli extra veri e propri, imperdibile è il 54

commento audio di David Schmader, grande estimatore del film (che definisce «la più incompresa opera d’arte del XX secolo). Il motivo per cui la MGM lo ha contattato per il commento audio risiede nel fatto che Schmader ha accompagnato con il suo particolare senso dell’umorismo alcune proiezioni pubbliche del film a Seattle. Questa V.I.P. Edition, volutamente studiata per sottolineare se non addirittura enfatizzare il carattere kitsch del film, è consigliatissima per le fredde serate invernali con gli amici (e non mancate per alcun motivo di usare i bicchieri parte della confezione). Abbinatela, se lo desiderate, con un qualsiasi film di Bert I. Gordon. Personalmente consiglio «The Village of the Giants» del 1965 in cui un piccolo Ron Howard, il Ritchie Cunnigham di «Happy Days» ora regista di film come «The Da Vinci Code» (2005), «A Beautiful Mind» (2001, per cui ha ottenuto un premio Oscar), «Apollo 13» (1995) e «Cocoon» (1985), scopre una formula che permette di ingigantire gli essere viventi, tra cui un giovanissimo Beau Bridges. Anche questo film lo trovate presso MGM (nella collana «Midnite Movies) in regione 1 a un prezzo stracciato. Showgirls V.I.P. Edition (MGM) Origine dvd: U.S.A. (regione 1) Durata: 131’ 2 DVD Lingue: ENG / FRA / ESP Sottotitoli: ESP / FRA Extra: vedere articolo Showgirls (MGM) Origine dvd: U.K. (regione 2) Durata: 125’ (6’ in meno rispetto al dvd U.S.A.) Lingue: ENG / FRA / ESP Sottotitoli: ESP / FRA Extra: trailer The Village of the Giants (MGM) Origine dvd: U.S.A. (regione 1) Durata: 81’ Lingue: ENG

IL CINEMA DI BRIAN DE PALMA Brian De Palma firma con «Dressed to Kill» uno dei suoi film più hitchcockiani mettendo in scena una Angie Dickinson vittima di repressioni sessuali e il suo psichiatra, un fantastico Michael Caine, che non le è da meno. Nudi, pugnalate e travestiDRESSED TO KILL menti creano un gioco delle «Vestito per uccidere», U.S.A., 1980 parti godibilissimo. Divertente il discorso sull’uso dei Regia, soggetto e sceneggiatura «Body Double» (le controBrian De Palma figure) nelle scene di sesso Interpreti principali con Angie Dickinson, che Michael Caine, Angie Dickinson, De Palma riprenderà quattro Nancy Allen, Keith Gordon anni dopo nel film omonimo (in italiano «Omicidio a luci rosse», che ha rivelato MelaBLOW OUT nie Griffith nel ruolo di una (U.S.A., 1981) pornostar che, inconsapevolRegia, soggetto e sceneggiatura mente, presta il suo corpo in Brian De Palma un pericoloso scambio tra guardone e prossima vittima Interpreti principali di un omicidio) in un gioco John Travolta, Nancy Allen, sul cinema nel cinema. John Lithgow, Dennis Franz Se ne consiglia la visione nella edizione speciale della MGM (regione 1) che presenta la versione censurata e quella integrale nonché, negli speciali, un confronto tra le diverse versioni (anche televisive) del film e un documentario sulla lavorazione e genesi del film. La versione pubblicata sempre dalla MGM in regione 2 non contiene nulla di tutto ciò e il film appare tagliato di qualche secondo. Da vedere unitamente a «Blow Out» (1981), in cui John Travolta, rumorista per il cinema, registra casualmente il rumore di uno sparo che causa un incidente mortale di cui è vittima un candidato alla presidenza degli Stati Uniti (esattamente come in «Blow Up», 1966, di Michelangelo Antonioni in cui è un fotografo a cogliere inconsapevolmente un dettaglio testimoniante un crimine). A salvarsi è la ragazza

(Nancy Allen) che lo accompagnava e la cui vita è da quel momento in pericolo. Insuccesso al botteghino, è in realtà uno tra i migliori film di De Palma.

Dressed To Kill Special Edition (MGM) Origine dvd: U.S.A. (regione 1) Durata: 105’ circa (durata della versione integrale) Lingue: ENG / FRA Sottotitoli: ESP / FRA Extra: documentario «The Making of a Thriller» (45 minuti), «Slashing Dressed to Kill» mini documentario, «Dressed to Kill: An Appreciation by Keith Gordon» mini documentario, paragone tra versione censurata, integrale, vietata ai minori («R-rated») e trasmessa dai network. Dressed To Kill (MGM) Origine dvd: U.K. (regione 2) Durata: 100’ (5’ meno della versione integrale presente nel dvd U.S.A.) Lingue: ENG Sottotitoli: ESP / FRA / ENG / ITA / ENG e DEU per deboli d’udito Extra: trailer Vestito per uccidere (MGM) Origine dvd: ITA (regione 2) Durata: 100’ (5’ meno della versione integrale presente nel dvd U.S.A.) Lingue: ENG / FRA / DEU / ESP Sottotitoli: ESP / FRA / ITA / ENG e DEU per deboli d’udito Extra: trailer Blow Out (MGM) Origine dvd: ITA (regione 2) Durata: 107’ Lingue: ENG / ESP / FRA / ITA Sottotitoli: FRA / DUT / ITA / ENG e DEU per deboli d’udito Extra: trailer 55


IL BILLY WILDER DIMENTICATO Orville J. Spooner e Barney Milsap, autori dilettanti di canzoni, vivono nella speranza che qualcuno ascolti il risultato dei loro sforzi (in realtà, nel film, canzoni scritte da Ira Gerschwin) e offra loro un contratto. Quando si presenta l’occasione di manomettere l’automobile del famoso intrattenitore Dino (Dean Martin) costringendolo a fermarsi nella piccola cittadina in cui abitano e in cui lui è di passaggio da Las Vegas, non se la fanno scappare. Lo scopo è quello di fargli ascoltare le loro canzoni per ottenere di lavorare per lui ma Orville, gelosissimo della moglie Zelda (Felicia Farr), inizia a vivere nel terrore che questa possa cadere vittima del fascino del cantante, famoso e spietato donnaiolo. La soluzione più efficace sembra quella di allontanare momentaneamente la moglie facendone assumere il ruolo dalla prostituta Polly the Pistol (Kim Novak), ma la situazione presto si complica, fino a sfuggire loro completamente di mano. Commedia che risale ai tempi in cui nei film di Hollywood nemmeno le coppie sposate potevano essere mostrate a dormire nello stesso letto, «Kiss Me Stupid» è una farsa piuttosto densa di sottintesi e di situazioni inusuali per KISS ME STUPID l’epoca: troviamo adulterio, «Baciami stupido», U.S.A., 1964 citazione di varie parti del corpo e, addirittura, il persoRegia naggio di una prostituta la Billy Wilder cui condotta non viene sotSoggetto toposta a condanna morale. Anna Bonacci (dalla sua Davvero molto per un film commedia «L’ora della fantasia») di quegli anni, e come sia stato possibile realizzarla senza Sceneggiatura cadere nelle maglie della cenI.A.L. Diamond, Billy Wilder sura preventiva (quella che giuInterpreti principali dicava la possibilità di realizDean Martin, Kim Novak, zare un film dopo un attento Ray Walston, Felicia Farr esame della sceneggiatura) si 56

spiega solo in due modi: o il copione non fu mandato del tutto alla commissione oppure ne fu mandato uno diverso da quello poi effettivamente utilizzato. Quando «Kiss Me, Stupid» venne distribuito, Billy Wilder era reduce da una serie ininterrotta di successi: «The Apartment» («L’appartamento», 1960) aveva ottenuto diversi premi Oscar, tra cui quello per il migliore regista e quello per il miglior film, e l’appena precedente «Irma La Douce» (1963) aveva ottenuto uno straordinario successo di pubblico, per non parlare di «Some Like It Hot» («A qualcuno piace caldo», 1959), uno tra i maggiori successi di tutti i tempi nel mondo intero, anch’esso candidato a vari premi Oscar. «Kiss Me Stupid», invece, fu accolto malamente sia dalla critica che dal pubblico e, anche a causa della condanna della «Legione cattolica per il pudore», venne bandito dalle sale di alcune città degli Stati Uniti e scaricato dal distributore originale, la «United Artists», che lo cedette a un suo marchio specializzato nella distribuzione di film artistici di scarsa circolazione, la «Lopert Films». Sebbene qualche ingenuità possa farlo apparire talvolta un poco datato, «Kiss Me Stupid» rimane comunque un film di Billy Wilder e quindi nemmeno il finale positivo riesce a nascondere il tocco cinico del regista né un’amarezza di fondo.

Adattato da una commedia di Ferenc Molnár, Wilder e I.A.L. Diamond – già responsabili di «Kiss Me Stupid» – realizzano una frenetica farsa sulla guerra fredda densa di situazioni comiche e malintesi, offrendo a James Cagney il ruolo della sua vita. Cagney interpreta la parte di un dirigente della Coca Cola nella Berlino dell’est impegnato nel rompere la cortina ONE TWO THREE di ferro introducendovi il U.S.A., 1961 consumismo americano. Il suo sogno di venire premiato Regia con la dirigenza di tutto il Billy Wilder settore Europeo dell’azienSoggetto da rischia di venire infranto Ferenc Molnár dalla notizia che la giovane figlia del suo superiore ad Sceneggiatura Atlanta, in visita a Berlino Billy Wilder, I.A.L. Diamond sotto la sua responsabilità, Interpreti principali ha segretamente sposato James Cagney, Horst Bucholz, un giovane tedesco (Horst Pamela Tiffin, Arlene Francis Bucholz) nemico dichiarato degli americani e del loro stile di vita, in poche parole un comunista. La situazione precipita quando l’inconsapevole capo di Atlanta decide

di recarsi in Germania e ci sono solo poche ore per sistemare la disperata situazione. Nel film, Wilder irride entrambi i protagonisti di un conflitto tra due opposti che terrorizzava la gente dell’epoca, ritraendo gli americani come arroganti, ignoranti, ossessionati dal sesso e interessati solo al successo e non salvando nemmeno tedeschi e russi, ritratti come arroganti, vili e paranoici. Malgrado il suo essere satira di una guerra fredda ormai da tempo terminata, il film non è per nulla invecchiato e rimane godibilissimo per il ritmo sostenuto e anche come brillante testimonianza del tempo che fu. One, Two, Three (MGM) Origine dvd: U.K. (regione 2) Durata: 109’ Lingue: ENG / ESP / DEU / FRA / ITA Sottotitoli: ENG / FRA e altre Extra: trailer

Kiss Me Stupid (MGM) Origine dvd: U.K. (regione 2) Durata: 126’ Lingue: ENG / ESP / DEU / FRA / ITA Sottotitoli: ENG / FRA e altre Extra: trailer

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IL CINEMA DI GENERE ITALIANO GIOVANNONA COSCIALUNGA DISONORATA CON ONORE

Momenti di culto: Karin Schubert racconta che all’epoca del film Edwige Fenech si era appena fatta sistemare chirurgicamente il naso, che ancora presentava un bubbone post-operatorio, e che quindi il regista, nelle scene in cui erano entrambe presenti, la utilizzava per mettere in ombra il profilo dell’attrice franco-algerina e nasconderne il momentaneo difetto. Il dvd della Alan Young presenta il film in versione integrale ridigitalizzato e nel formato cinematografico corretto.

Prodotto da Luciano Martino per permettere alla Fenech di cimentarsi nel suo primo ruolo brillante, il film narra di un industriale poco attento alle questioni ambientali che decide di evitare un controllo corrompendo un politico influente offrendogli le grazie di una prostituta, che spaccia per sua moglie (praticamente lo stesso soggetto dell’episodio «Eritrea» di Luigi Comencini con la stupenda Silvana Mangano, contenuto ne «La mia signora», film a episodi del 1964). Il film, una farsa ben costruita e molto ritmata, non ottenne il successo sperato e il regista Sergio Martino attribuisce la ragione del fallimento al poco raffinato titolo scelto dalla produzione che, secondo lui, tenne il pubblico lontano dalle sale. Il titolo di lavorazione era «Un grosso affare per un piccolo industriale» ma venne cambiato per seguire l’onda del successo di «Mimì metallurgico, ferito nell’onore» di Lina Wertmüller, anch’esso del 1972. La Fenech è doppiata in marchigiano e Vittorio Caprioli è impagabile nel ruolo del politico affetto da priapismo. La fotografia è di Stelvio Massi (regista notissimo di vari «poliziotteschi» degli anni ’70) e l’aiuto regista è Michele Massimo Tarantini, poi autore in proprio di tante commediacce con soldatesse, infermiere e liceali protagoniste. Il dvd della Alan Young presenta il film in versione integrale ridigitalizzato e nel formato cinematografico corretto.

Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda (Alan Young) Origine dvd: Italia Durata: 86’ Lingue: ITA Sottotitoli: ITA Extra: commento audio di Mariano Laurenti moderato da Franco Grattarola di Cine70, trailer originale

Giovannona Coscialunga disonorata con onore (Alan Young) Origine dvd: Italia Durata: 90’ Lingue: ITA Sottotitoli: ITA Extra: commento audio di Sergio Martino moderato da Franco Grattarola di Cine70, trailer originale

Italia, 1972 Regia Mariano Laurenti Soggetto Tito Carpi, L uciano Martino Sceneggiatura Tito Carpi, Carlo Veo Interpreti principali Edwige Fenech, Pippo Franco, Karin Schubert, Umberto D’Orsi, Gabriella Giorgelli

Italia, 1972 Regia Sergio Martino Soggetto Tito Carpi, Luciano Martino Sceneggiatura Franco Mercuri, Francesco Milizia, Carlo Veo Interpreti principali Edwige Fenech, Pippo Franco, Vittorio Caprioli, Riccardo Garrone, Gigi Ballista

QUEL GRAN PEZZO DELL’UBALDA TUTTA NUDA E TUTTA CALDA Forse più un grande titolo che un grande film che sfrutta, muovendosi naturalmente su ben altro piano, «Il decameron» di Pier Paolo Pasolini del 1971 (il cui successo diede involontariamente la stura al genere cosiddetto decamerotico, composto in seguito da numerosissime pellicole tra cui, «Boccaccio mio statte zitto», «Sollazzevoli storie di mogli gaudenti e mariti penitenti» e «La bella Antonia, prima monica e poi dimonia», ancora di Laurenti con la Fenech, tutti del 1972). Il film è molto meno spinto di quanto il titolo faccia supporre (oggi poi sarebbe da oratorio) e spinge molto più sulla componente comica, ben sostenuta da solidi caratteristi come Umberto D’Orsi e lo stesso Pippo Franco, che su quella erotica, che si 58

limita a qualche innocente nudo delle due protagoniste. Nel film, Olimpio e mastro Oderisi desiderano l’uno la moglie dell’altro. Arrivano quindi a proporre uno scambio di consorti, non prima di averle però subdolamente protette con una cintura di castità. Negli anni ‘90, Walter Veltroni riabilita la pellicola tessendone pubblicamente le lodi, permettendo così alla Fenech di smettere di vergognarsene. Nel suo «Stracult» (Sperling e Kupfer Editori, novembre 1999), Marco Giusti racconta che negli anni ‘90 Enrico Ghezzi aveva scritto un soggetto per un rifacimento-omaggio che avrebbe dovuto intitolarsi «Quel gran pezzo dell’Ubalda, tutta (ri)nuda e tutta (ri)calda» ma il produttore Luciano Martino ne produsse uno meno ardito («Chiavi in mano», 1996) che non ebbe alcun successo.

Giovannona

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