Degustare

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Filippo Radaelli

ENOCIDIO IN SMOKING

Se degustare può fare male (ai vini)


ο δ' ενδυκεως κρέα τ ησθιε πίνε τε οινον άρπαλεως ακεων Omero, Odissea, XIV, 109-110

[La traduzione? A tempo debito]

Xè bon! Pia Schiratti (1971)

Gli italiani hanno dimenticato tutto ciò che, sul vino, essi conoscevano perfettamente. Oggi non sanno più riconoscere quando è buono e quando non lo è. Mario Soldati, Vino al vino


Degustare è arte nobile: si centellinano piccoli sorsi d’un vino per valutarne sapore e qualità. Quel prefisso, de-, par proprio una particella nobiliare: come in de’ Juliis o in de’ Medici, tanto per intenderci. Evoca signorile eleganza e principesca sobrietà. Io sarò plebeo, ma io faccio a meno di quel de’. Per me, gustare è meglio. È molto meglio. Ecco perché. Non è solo la sensazione che l’arte del degustare ormai sia svilita in uno strampalato e tronfio artificio snob, spassosamente messo in scena da Antonio Albanese. Non è neppure tanto il fatto che le schede tecniche d’una guida di vini e i risultati delle analisi delle urine rischiano sempre più pericolosamente di rassomigliarsi e che l’esame visivo d’un Pinot Gris, alla mia canuta età, suscita reazioni dannatamente simili a quelle della lettura d’una cartella clinica: “Colore giallo paglierino, con riflessi dorati”. Oddio, che sarà mai? L’azotemia? I trigliceridi alti? E già mi piglia l’ansia da colesterolo. Neanche è per quello stile forbito, frivolo e dozzinale quella cattiva letteratura da brochure, informe, pomposa e senz’anima, buona a tutti gli usi e consumi. Un esempio? Servito: “Vino bianco dal colore molto

chiaro, con riflessi verdognoli. Di sapore molto fresco e secco, è ottenuto da uve della zona pedecollinare romagnola. È un classico vino che si adatta ad ogni cibo e va bevuto molto fresco”.


Beh? Che vino è? Magari un’Albana di Romagna DOCG? Ci potrebbe stare, no? Una bella Albanetta beverina… Manco per niente! È Tavernello. Il testo, ben redatto, l’ho preso tal quale, copia e incolla, dal sito aziendale. Altrove si celebrano fragranze aspre di mela verde, o bouquet di frutta matura, mela golden, susina bianca… Il dubbio è: ma nel bicchiere c’è vino o c’è frullato?

“Sentori di frutti di bosco, direi mirtillo e lampone”. Santi numi! Se proprio avevo voglia di mirtilli o lamponi, chiedevo una fetta di torta a Nonna Papera, ti pare? Per non dir di strampalati profumi di liquerizia, caffè, cuoio bagnato, crescione, melissa o verbena, gariga… Ecchè! I vini d’Eta Beta sono? E che mai è ‘sta gariga? Brutta letteratura: le schede di degustazione sono letteratura brutta e futile. Famo a capisse, come se dice a Roma: la sommelierie, comme on dit à Paris, è una seria disciplina scientifica, con metodi e strumenti propri e con termini tecnici, con espressioni gergali che, col tempo, han costituito un vocabolario condiviso da tutti gli addetti ai lavori: assaggiatori, cantinieri, enologi, sommelier. Vale a dire, esperti vari che hanno a che fare col vino dovendolo produrre, emendarne eventuali difetti, conservare, commerciare, studiarne gli abbinamenti con le pietanze per suggerirli agli avventori in enoteche e ristoranti, ovvero ai lettori delle rubriche di gastronomia.


Arricchire il proprio lessico di suggestioni insolite, perfin poetiche, rende il lavoro di questi professionisti più piacevole e, pure, più eccitante: il che non guasta. Anche pittori e grafici fan ricorso a una terminologia piena di spunti deliziosi e intriganti. La lista dei colori s’apre con acquamarina. La chiude zafferano profondo. Comprende addirittura espliciti richiami enologici come bordò, che poi sarebbe il bordeaux, e borgogna, chiamato anche vino rosso o, semplicemente, vino. Beh, trovatemi un Vittorio Sgarbi o un Philippe Daverio che, d’un capolavoro del Caravaggio o di René Magritte, ne reciti la gamma cromatica con fantasioso puntiglio, aspettandosi l’interesse e poi l’applauso dell’uditorio! Ecco come, invece, una Guida prestigiosa (e costosa), recensisce un vino veneto che anche io ho assaggiato:

“Il suo gran profumo, il suo gran frutto, limoneggiante, pompelmeggiante, floreale nella sua linfatica livrea di polline, di mandarino puro. Le più morbide frange dell’albicocca, della banana e l’uva. Queste le più tonde e polpute. Un vino di gran fittezza, di gran varietà d’aroma e di richiami analogici a pomi morbidamente maturi e polposi. Ad echi di fiore e di frutto di silvestre e clorofillosa fragranza espressiva. Morbidezza, nitidezza enologica e grande suadenza compositiva”. In due parole: “Bianco d’eccezionale suadenza floreale, di maiuscola purezza enologica esecutiva. Chapeau”.


Limoneggiante? Pompelmeggiante? Hahahahahahaha!!!! Frange tonde e polpute della banana? Hahahahahaha!!!! Clorofillosa fragranza espressiva? Hahahahahahaha!!!! Letteratura inutilmente ampollosa, volutamente futile. Me lo vedo, Antonio Albanese, sottofondo ballerino, agitare il bicchiere, immergervi il naso, centellinare qualche sorso, sciorinare immaginifici nonsense, concentrarsi meditativo e sbottare, infine, entusiasta: “Chewing-gum!”. Pausa. Largo sorriso: “Alla frutta!”. Un’altra guida, dello stesso vino riferisce ch’è ottenuto da Trebbiano x Traminer e succintamente lo definisce: “Esotico e di succosa beva”. Tutto qui. Basta e stop. Vabbeh… Almeno ci risparmia grottesche logorree. La terza guida, infine, fa il suo mestiere: assaggia e, senza sbavature, fornisce, in essenza, le informazioni:

“Incrocio molto particolare di Trebbiano e Traminer, dalle peculiarità minerali. Paglierino, con sfumature di susina, erbe aromatiche, fiori d’arancio e agrumi. Buona struttura, gustosa freschezza, sapidità”. È una scheda tecnica, fatta da tecnici per chi, del vino, precisamente agli aspetti tecnici guarda con interesse. Degustazione ha qui il senso classico del termine, descritto compiutamente dal Prof. Giovanni Dalmasso, già nel ’31, all’apposita voce sull’Enciclopedia Treccani: un attento e sistematico esame organolettico che mira a determinare il valore commerciale d'un vino.


Insomma, degustare è una degna attività professionale di rilevanza economica: né più né meno che fornire l’expertise d’un quadro per batterlo in una casa d’aste. Ma se visiti una galleria d’arte, un museo, una mostra, mica ti procuri le expertise delle opere esposte. Cerchi un saggio, un buon articolo, che ti faccia capire, con chiare spiegazioni, utili richiami e arguti commenti, il come e il perché dei capolavori che vai ad ammirare. Così, se devo far provvista per la mia cantina, va bene, va benissimo consultare le schede di degustazione, (purché siano ben fatte, e io pure un poco ne capisca), o una costosa guida firmata da affidabili sommelier. Che a questo servono: a valutare i pregi organolettici d’un vino, classificarlo e fare una stima del suo prezzo. Il problema, qual è? È che le necessità commerciali tengono conto dei gusti prevalenti dei consumatori, adeguandosi ad essi ma anche, al tempo stesso, piegandoli alle esigenze economiche delle produzioni. Per secoli, anzi, per millenni tutto ciò ha contribuito allo sviluppo di una vitivinicoltura fatta di molteplicità: di vini antichi, il cui successo s’affidava alla tradizione, e di vini nuovi, la cui improvvisa popolarità dimostrava la capacità dei bevitori d’ampliare la gamma dei gusti, il loro interesse a fare esperienza in terre inesplorate dove fragranze, aromi e sapori negletti o sconosciuti offrivano inediti piaceri, suscitavano rinnovati incanti.


Negli ultimi decenni, però l’equilibrio s’è infranto, determinando due effetti simultanei di segno opposto: l’apparente innalzamento del gusto dei consumatori, che appaiono sempre più esigenti in fatto di qualità, assieme al notevole restringimento della loro capacità di apprezzare vini minori, antichi, a volte antichissimi, prodotti con vitigni oramai quasi totalmente espiantati, e con tecniche di vigna e cantina credute obsolete. È un bene, tutto ciò? È un male? Questione di gusti! Io, poco incline alle divise, a bere dei vini in uniforme (fin nelle schede di degustazione, spesso scopiazzate) io, mi prende lo sconforto. Ci ho la sbornia triste, io. La serialità di quelle specie di cocacole alcoliche fermentate in barrique… Boh… Non è meglio l’astemìa? E diamine! Cibi e vini permettono ciò che in altri campi è quantomeno disdicevole: aver molteplici esperienze, buttarsi in avventure, concedersi scappatelle, fuggire stabili legami. Non dico solo in amore, ma pure in fatto di passioni amatoriali (tipo musica, hobbies o sport), l’infedeltà è un rischio: ci si affeziona a un genere, divenendone a poco a poco esperti, dei veri intenditori. Ma se subentra la noia, è un guaio! Come col partner… Con i vini, cambiare è necessario: è parte del piacere. La vasta varietà dei vini è una ricchezza da tener cara. Essa dipende dalla notevole numerosità dei vitigni, ma anche da altri due elementi di non minore importanza:


dalla versatilità d’uno stesso vitigno seconda il terroir (si pensi all’adattabilità di grandi vitigni internazionali: Merlot, Pinot, Cabernet, Sauvignon, Müller Thurgau…) e dalla pluralità di modi di manipolar le uve, in cantina, per ottenere vini differenti. Un esempio? I trevigiani bevono e amano l’antica versione tranquilla di Prosecco, ma al resto del mondo lo fan bere solo con le bollicine. Il bello è proprio questo: che un vino vivo – se è vivo – è multiforme, sfaccettato e complesso per se stesso. Un vino è vivo (se per davvero è vino) se cambia gusto secondo cru e annata, ma pure di bottiglia in bottiglia, o nella medesima bottiglia riaperta il giorno appresso, e muta perfino nel bicchiere, solo il tempo d’un pranzo. La mutevolezza del vino non è un difetto: è una qualità. Il vino vivo è come le persone: mostra il suo carattere, cambia d’umore. Prima sussurra, poi fa la voce grossa. A volte promette, poi non mantiene, s’eclissa, svanisce; altre fa l’umile, il dimesso lo schivo: poi, d’improvviso, matura e ruba la scena forte, durevole, potente. Il carattere d’un vino muta, muta l’opinione di chi beve. Pretendere di fissarlo attraverso una scheda tecnica è come voler supporre un’indole da una carta d’identità, magari logora, sbiadita, pure scaduta. Comunque, muta. Coi vini, il piacere risiede proprio nell’aprire i sensi gli occhi e le narici e tutte le papille di lingua e palato – all’infinità di sensazioni che la loro molteplicità offre.


Perché ridurre il ventaglio delle possibilità sensoriali? Chi toglierebbe alcuni colori dalla tavolozza del pittore solo perché sono i meno frequenti o oltremodo scuri? Chi, da uno spartito, eliminerebbe i toni più bassi perché si senton poco, e quelli più alti perché irritano? Avrebbe senso sopprimere dall’alfabeto le consonanti z, q, b e f perché hanno una frequenza inferiore all’1% e r, s, t per via dei troppo diffusi difetti di pronuncia? Beh, vedi un po’: questo è proprio quanto è avvenuto per un gran numero di vini le cui qualità sensoriali risultano stonate rispetto al gusto medio dei bevitori. Viti estirpate o inselvatichite, vini trascurati o estinti: a chi addebitare la colpa di cotal sciagurato enocidio? Michel Le Gris, ricorrendo a toni un po’ savonaroleschi, con approfondita analisi identifica ogni responsabilità. Il Dionisio crocifisso (ed. DeriveApprodi, Roma, 2012) è un duro pamphlet contro la vitivinicoltura industriale: quella dei vigneti intensivi monovarietali, sterilizzati e ipermeccanizzati, e delle cantine dove sovrabbondano gli interventi enologici rivolti non più a correggere piccole o meno piccole anomalie delle uve e del mosto, ma per orientare l’intero processo alla produzione di vini perfetti. O, a dir meglio, perfettamente uniformi: conformi al gusto dettato non da incontrollabili mode, ma da campagne ben pianificate e molto remunerative progettate del marketing enoindustriale. In definitiva, vini imbalsamati, vini replicanti, vinoidi. Vini senza vita.


Michel Le Gris ha non solamente una, ma mille ragioni. Il modo suo d’esprimersi è brusco, acido, arcigno. Manca di leggerezza, no? A leggerlo è ostico e legnoso. Quì e là anche tedioso e urticante. Giusto, vabbeh… Però… A Roma se dice pure che quanno ce vo’, ce vo’. Perdinci! Ci son voluti millenni affinché il succo d’uva acquisisse la complessità di fragranze, aromi e sapori estratti da vitigni via via nuovi, ottenuti con pazienza, per vaglio selettivo o con ben azzeccate impollinazioni, o trattenuti nel vino attraverso espedienti pazzeschi tenacemente testati, in un mix d’ingegno e di fortuna. Ma quando tutto ciò ha preso la piega di vera scienza – l’enologia – e ha messo in campo tecnologie impensabili, ecco che il magro risultato è quello di bere vini irreali: vini somiglianti fra di loro, calchi d'un modello ideale. Vini fabbricati. Vini automatici, seriali. I vini di Barbie. Prima di Le Gris lo aveva già denunciato Mario Soldati: in Vino al vino (Mondadori, 2006) scrisse bell’e chiaro:

“Uno degli errori più gravi è di credere che un certo vino, riconoscibile al nome e all'etichetta, debba essere sempre uguale a se stesso, e sempre buono se una volta è stato trovato buono: come se si trattasse di aranciata, di birra, addirittura d’un frigorifero”. Quarant’anni dopo, cantine molto blasonate han fatto Brunello con Merlot. Mica per risparmiare. Macché! Semplicemente, per vendere di più.


Ma insomma: alla fine, che strada resta? C’è rimedio? Ci potremo mai salvare dall’entropia del gusto? Fra il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà è impari, la battaglia? La sottospecie sapiens sapiens, facendo lentamente estinguere perfino i mammut, s’avviò in fretta a una dieta povera di proteine carnee. Ma giusto mentre trangugiava le prime pappine d’orzo, dimostrò acume e talento e si rivelò capace d’inventare la più sublime e complessa fra tutte le bevande: il vino. Mi frulla in capo un bel brano tratto dai Vangeli (testi scritti da gente che su viti e vini ci capiva davvero) che, sulla faccenda, appare di stringente pertinenza.

“Ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e (…) fu invitato alle nozze anche Gesù. Venuto a mancare il vino, la madre gli disse: "Non hanno più vino", (…) e ai servi: "Fate quello che vi dirà". Vi erano là sei giare di pietra (…) contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: "Riempite d'acqua le giare"; e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: "Ora attingete e portatene al maestro di tavola". Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (…), chiamò lo sposo e gli disse: "Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un pò brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono".


Il testo è bello zeppo di spunti molto, molto intriganti. Mi piacerebbe soffermarmi sulla questione delle giare e approfondire il tema del ricorso ai recipienti d’argilla per conservare e bere il vino: nell’antichità, e oggi. Nicola Finotto, www.iamwine.it, m’ha raccontato i suoi viaggi in Georgia, lì dove tutto è incominciato. Lì dove, tutt’oggi, il mosto fermenta nei qvevri, orci interrati, per diventare vino. E dove, ancor adesso, il vino si beve dalle coppe di terracotta o dai qanci, i corni potori d’ariete, di capra o di toro, somiglianti a quelli usati dagli sposi, dal maestro di tavola, da Maria e Gesù e dagli altri invitati, durante le miracolose nozze di Cana. E mi piacerebbe riflettere sulla qualità dei vini antichi riservati alle occasioni importanti: se avrebbero deluso il nostro palato delicato, di fini bevitori postmoderni, urtandolo con sapori asprigni, agri, bruschi e dozzinali; o se, piuttosto, lo avrebbero sorpreso, fino a umiliare l’eccellenza dei cru d’oggi: perché è questo che a me sembrano suggerire i corni potori più raffinati, d’avorio, oro o vetro sottile un’ostia e dai tenui colori: senza alcun dubbio più eleganti, preziosi e leggiadri che non i più bei flut dei tempi nostri. E mi piacerebbe discutere se maestro di tavola potremmo tradurlo senza forzature sommelier, e quali fossero i rituali d’un banchetto di nozze, oltre che servire vino più scadente quando gli invitati son brilli.


Ma la vera ragione per cui ho citato il testo evangelico è che trovo veramente strabiliante e prodigioso che

“Gesù diede inizio ai miracoli e manifestò la sua gloria” (son queste le parole di Giovanni) trasformando acqua in vino – e in vino davvero eccellente – per il sol motivo di togliere d’imbarazzo l’inavveduto sposo. Dico: è il primo miracolo di Gesù. In seguito ad esso, precisa Giovanni, “i suoi discepoli credettero in lui”. Possibile mai che lo start up di una grande religione – cui in breve si convertirono milioni di persone e che, dopo due millenni, con all’incirca due miliardi di fedeli, è oggi la più diffusa sul pianeta – possibile che l’incipit del cristianesimo non sia stato ridar la vista a un cieco, la parola a un muto, l’udito a un sordo, l’arto a un monco (tutti miracoli per così dire ‘sensoriali’, faccio notare) o moltiplicazioni di pani e pesci dopo un gran discorso (Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saran saziati: non soltanto i prodigi, ma anche le memorabili metafore sono spesso gastronomiche), tacendo di tempeste placate, di camminate sulle acque, d’esorcismi, di trasfigurazioni, d’apparizioni di profeti, di risurrezioni di Lazzari e non so qual altri portenti? Possibile che il debutto d’un grande credo universale fu tale prodigio senza miracolati: acqua mutata in vino? Un evento soprannaturale per evitare l’imbarazzante flop del banchetto nuziale d’amici imprevidenti?


Il miracolo di Cana con cui Gesù manifestò la sua gloria è un miracolo che attiene al gusto. Non soltanto l’acqua vien cambiata in vino, ma quel vino si rivela pregevole. Migliore di quello servito fin lì, tanto da sconcertare l’attonito ed esterrefatto sommelier galileo. Non ho intenzione d’avventurarmi in esegesi bibliche, né in speculazioni teologiche: non ci ho il metafisico… Nemmeno intendo arrischiarmi in qui pro quo blasfemi. Questo primo, semplice rilievo è che non il vino in sé, ma il gusto stesso del vino ha meritato una centralità che nessun altro alimento, eccetto il pane, mai ebbe nella storia, nella mitologia e nella cultura umane. Ma mentre il pane sfama, il vino è fatto per dar gusto. Il piacere del vino è valore fondamentale ed esclusivo. Sorriderò sempre della genuina spontaneità con cui mia nonna Pia, nata a Pieve di Soligo, terra di Prosecco, s’adattò all’innovazione postconciliare dell’Eucarestia somministrata sotto le due specie, del pane e del vino. Durante la celebrazione del matrimonio d’un parente, la Pia (il suo nome interpreta anche la sua viva fede) prese devotamente il boccone di casareccio dal cesto e lo inghiottì, raccogliendosi in preghiera. Quindi, sorseggiò la coppa passatale dal prete: e lì, se ne uscì con un “Xè bon!” sonoro e schietto, bevendone ancora, con pieno gusto. Anche a Cana, non ho alcun dubbio, coi primi discepoli, avrebbe bevuto. Bevuto, sì: e creduto.


Io, per fede, son pecora selvatica, più che smarrita. Ma quanto a bere, mi sento degno nipote di nonna Pia: nelle mie vene scorre Raboso, scorre Marzemino, scorrono Verdiso e Prosecco, scorre il Vin Bacher. Penso spesso, quando bevo, a quel “Xè bon!” esclamativo. Non solo per Pia e per la sua generazione, ma per Gilgameš e Noè e Magone e Colummella e Plinio, fino a Monelli e Soldati, “el vin o xè bon, o no xè bon”. Logica sempliciotta? Semmai, stringente logica binaria. Però, ocio! Ch’el vin o xè bon, o no xè bon significa mica che il vino o è buono o è cattivo, ma che è buono, o no. E non è buono non significa la stessa cosa che cattivo. Non è buono vuol dire che non è riuscito, che qualcosa non ha funzionato in vigna, o in cantina, o in bottiglia. Tutto il lavoro del vignaiolo, del cantiniere e dell’oste, è fatto per versare nel bicchiere del vino buono. Succede che il vino riveli difetti, che non sia buono: forse uva raccolta tardi, forse una botte pulita male, forse un travaso con luna crescente o, cavolo, il tappo! Banalità: sviste, incuria, e ecco ch’el vin no xè più bon. L’assaggio preliminare si fa a ogni apertura di bottiglia. Tale era l’ufficio del maestro di tavola, in quel di Cana, e così va interpretato il primo sorso di mia nonna Pia, alle nozze di Padova. Inveterata, atavica abitudine, dacché mondo è mondo o, viepiù, dacché vino è vino.


“Xè bon!” non fu candida espressione d’una ingenuotta: la nonna Pia sprovveduta non era affatto, ma donna colta e fine tanto quant’era concreta e schietta e vera.

“Xè bon!” fu la valutazione necessaria per poter bere quel secondo, beato sorso che solo a occhi maliziosi può apparire spia d’un’inclinazione ad alzare il gomito che, ripeto, fu del tutto estranea all’indole temperante di mia nonna. La quale, semmai, aveva una seria conoscenza del vino. Come il fratello, Bepi, “celebre per la passione enologica” – come scrive Mario Soldati in Vino al Vino:

“Sotto la farmacia ha una splendida cantina, e un’attigua taverna rivestita di pannelli di legno, con scaffali pieni di bottiglie antiche e pregiate: insomma, un’enoteca”. Una ‘enoteca’. Cinquant’anni fa era mica, come mo’, sinonimo di ‘vineria’, di ‘spaccio di vini’ in alta uniforme. L’espressione designava una ‘collezione di vini pregiati’, una cospicua raccolta di bottiglie di vino, talvolta rare, ordinata secondo i più severi e scrupolosi criteri ampelografici, enologici, geografici. Un’enoteca stava ai vini come una pinacoteca ai dipinti, una biblioteca ai libri, una glittoteca alle sculture. Precisamente. E proprio questo è il punto: che un vino, come un libro, come un dipinto o come una scultura, essenzialmente è un prodotto dell’ingegno umano.


A farla breve, i vini son prodotti di cultura. Bere un vino è come leggere una poesia o un romanzo, come contemplare un affresco, un bronzo o un marmo, come ascoltare un brano musicale o vedere un film.

“Xè bon!” è un giudizio estetico, tal quale il “Xè beo!”, “È bello!”, che può strappare la vista di un’opera d’arte: è sunto icastico, d’immediata efficacia paradigmatica, delle inesprimibili emozioni suscitate da un capolavoro, o delle più semplici e pur gradevoli sensazioni lasciate da un delizioso racconto poliziesco di Martin Sutter, dalla sensuale copertina di un suo giallo appena finito, dalla sagoma della lanterna di sant’Ivo alla Sapienza intraveduta per via, tra la libreria e il Sant’Eustacchio, da travolgenti danze slave per violino e fisarmonica eseguite magistralmente da lui e lei, due anziani Sinti… È bello! Come altro s’esprime quest’emozione? Xè beo! E il vino? Il vino è buono! Come altro dirlo? “Xè bon!”, se possiedi la schiettezza vernacolare di mia nonna Pia. Questa è l’essenza del vino, il suo più profondo senso. Il vino deve essere piacevole al palato, ma deve poi entrare nel sangue, dare forza, infondere allegrezza. Il vino è una mescolanza di emozioni che appartengono sia all’intimità della solitudine che nello star assieme.

Quest’ultimo è il caso delle nozze di Cana, dove proprio la sua improvvisa mancanza è avvertita come minaccia all’allegria festosa che nella circostanza ci si aspetta.


Ma fondamentale è anche, e prima, il godimento intimo, profondo, interiore cui si deve l’importanza del vino nella storia e nella cultura umana. Bere insieme è bello. Da sempre il vino è rito sociale: dal simposio greco al convito etrusco e, poi, romano, dal convivio medievale al banchetto rinascimentale… Oggi ha un nome bello e chiaro: è happy hour. Ma c’è un bere solitario che è raccogliersi in se stessi, trovarsi, assaporare con intensità il vino, le sue storie, le persone, i luoghi, i paesaggi, le stagioni. Tutto. Sono momenti speciali. Alle volte unici. Momenti topici. Come l’episodio epico d’Ulisse che, dopo tante odissee, torna infine a Itaca, accolto dal fedele porcaro, Eumeo, che lo crede un mendicante e, compassionevole, gli arrostisce un maialino lì, sui due piedi, per sfamarlo. Crea lirici versi, allora, Omero. Versi di rara intensità:

ο δ' ενδυκεως κρέα τ ησθιε πίνε τε οινον άρπαλεως ακεων Ed egli mangiava la carne e beveva il vino, con gusto, in silenzio Omero, Odissea, XIV, 109-110 Bere il vino. Con gusto. In silenzio. Ecco ciò che volevo dire, in poche e appropriate parole. Come il vecchio poeta cieco, chi mai è riuscito?


Le immagini rielaborate della copertina e della contro copertina sono tratte da Winephantom's Blog (http://winephantom.wordpress.com/wine-cartoons/)


Chi pensa che degustare non faccia alcun male (ai vini), perchÊ, se non è astemio, finisce sempre che li sputa?

Experienced spitter L’esperto sputacchiatore

Filippo Radaelli - Degustatore di territori 338 2213364 ciao@filipporadaelli.net


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