cittadellarte - fondazione pistoletto
A LIFE IN COMMON
Arte e cultura per un cambiamento degli aspetti chiave della vita urbana Art and culture changing key aspects of urban life
A Life in Common arte e cultura per un cambiamento degli aspetti chiave della vita urbana È stato predetto che la città sia il terreno in cui i nuovi conflitti sociali diventeranno visibili e, alla fine, verranno appianati. Parlando da una prospettiva europea (e non solo), dal 2008 la bolla speculativa ha oscurato, per diversi anni, molte delle spaccature e fratture che si erano create nella società, spingendole nella parte nascosta della nostra vita quotidiana. La trasformazione socio-economica della società “moderna” fallisce dagli anni ’80 in poi, quando il neoliberalismo inizia a rappresentare l’utopia del futuro e molti diventano seguaci del suo mantra. I risultati conflittuali dei cambiamenti nelle tendenze politiche e nelle modalità economiche, le variazioni demografiche e altri fattori che definiscono le interrelazioni tra i cittadini, hanno continuato a erodere la società dall’interno. L’improvviso scoppio della bolla nel 2008, che si è manifestato prima come crisi del possesso della casa in cui si vive e, attualmente, come una prolungata crisi economica, non ha solo infranto l’illusione della possibilità di un avanzamento individuale e di una vita migliore, senza la necessità di un investimento collettivo, ma ha addirittura portato in primo piano gli stenti in molti aspetti chiave della vita urbana e delle nostre città: l’impossibilità e la difficoltà per molti a mantenere un alloggio in città, l’aumento della competitività e della perdita del lavoro, i tagli ai budget collettivi che rendono le questioni base come il servizio sanitario sempre più inaccessibili, e molto altro. Chiunque si guardi intorno vedrà una società indurita, meno solidale. Sebbene sia stato predetto che il mondo sarà diverso dopo questa crisi, non è stato definito esattamente in che modo lo sarà. Ma, allo stesso tempo, all’interno delle ovvie spaccature e fratture, possiamo scorgere qua e là il nascere di nuovi tentativi, nuove iniziative, nuovi approcci talvolta difficili da afferrare, siccome sfidano molte delle stanche polemiche o delle trincee ideologiche scavate nelle ultime decadi. Un periodo significativo, quindi, non in ultimo per alcune organizzazioni, gruppi e iniziative negli ambiti dell’arte e della cultura che hanno stabilito la loro missione nello sperimentare o provocare un necessario cambiamento nella società. Nel corso degli ultimi anni alcuni di questi hanno spostato il loro obiettivo al di là del ambito culturale e hanno iniziato ad avere un impatto sulla vita urbana—questa volta realmente, sempre più attivamente, e in modo innovativo, al punto da costruire letteralmente i fram-
menti di una nuova società. Nonostante se ne parli poco, si tratta dello sviluppo di un nuovo senso di responsabilità. A Life in Common prende in considerazione sette aspetti chiave della vita urbana ed esamina alcuni degli straordinari, audaci e talvolta semplicemente provocatori, modi pragmatici in cui l’arte e la cultura possono ridefinire la nostra città, nei termini di come viviamo (alloggiamento), come produciamo (economia), delle risorse che abbiamo a disposizione (cibo, corrente, acqua..), di nuova civitas (cittadini, immigrazione) e di politica della città (il processo decisionale collettivo) tra gli altri. Non si evidenziano solo le motivazioni e il potenziale di questo impegno, ma si considerano anche alcune delle questioni che lo accompagnano: “Siamo testimoni di un rappezzamento a breve termine delle incoerenze delle nostre società o stiamo assistendo ad una ridefinizione a lungo termine di ciò in cui operatori artistici e culturali sono coinvolti? E quanto lontano può arrivare la loro capacità in questo senso?” Per il progetto A Life in Common, Cittadellarte ha aperto un dialogo con STEALTH. unlimited proseguendo la collaborazione di EVENTO 2011, che ha portato a un’investigazione di ciò che potrebbe essere il futuro esplorando gli impegni presi da una serie di organizzazioni, gruppi e iniziative. Questa ricerca ha preso forma per la prima volta con la mostra durante la rassegna Arte al Centro 2012, sviluppata intorno a una serie di enormi pannelli e “ambienti” in cui venivano presentati sette diversi modi di proporre un impegno di tipo sociale. Per Cittadellarte, che da oltre dieci anni mette l’arte “al centro di una trasformazione sociale responsabile” e che ha conosciuto il potenziale di un estensivo coinvolgimento urbano, l’analisi di questi approcci e il promuovere legami forti con altre iniziative e organizzazioni che mostrano impegno nel settore, sono indispensabili. A Life in Common non si è quindi prudentemente limitata a essere una mostra, ma è entrata in conversazione con ognuna di queste iniziative e organizzazioni. Uno scambio che ha portato alle interviste che appaiono in questa pubblicazione e che ci permette di intravedere ciò che ci sarà da fare al di là dell’immediato. Ana Džokić e Marc Neelen (STEALTH.unlimited) e Juan Esteban Sandoval (Cittadellarte – Fondazione Pistoletto)
A Life in Common art and culture changing key aspects of urban life It has been predicted that the city is the terrain where the new conflicts in society will become visible—and ultimately, will get settled. Speaking (not only) from a European perspective, at least up to 2008, the economic bubble for many years has obscured much of the ruptures and breaks that have appeared in society, pushing them to the underbelly of our everyday life. With neo-liberalism getting accepted as the horizon, and many adhering to its mantra, the socio-economic makeover of “modern” society broke down from the 1980s onward. The conflicting outcomes of shifts in political tendencies and economic modalities, demographic changes and other factors that define interrelations in society kept eroding the society from within. The abrupt burst of the bubble, first manifested in 2008 as a “crisis of home-ownership” and currently as a sustained economic crisis, has not only shattered the illusionary possibility of individual advancement (in short: a better life) without the need for collective investment, but it has actually brought the hardship directly to the foreground in many key aspects of urban life—and our cities: the foreclosures and difficulties for many to maintain their housing situation in the city, the increased competitiveness and loss of jobs, the cuts in collective budgets which make basic issues like healthcare increasingly unaffordable, and much more. Everyone who takes a look around will see a hardened, less supportive society. Although it has also been predicted that the world will look different after this crisis, it remains unclear in what respect exactly. However, in the obvious breaks and ruptures, we can recognize here and there the appearance of new attempts, new initiatives, new approaches, sometimes difficult to grasp, as they defy many of the exhausted polemics or ideological trenches dug over the last decades. A significant time therefore, not in the least for some of the organizations, groups and initiatives in the field of art and culture that set their mission to experiment or provoke a necessary change in society. Over the last years, some of them have taken their focus beyond the cultural domain, and have started impacting urban life—this time increasingly hands-on, breaking the ground, to sometimes literally build the fragments of a new society. While not much spoken of, it is a new responsibility assumed. A Life in Common looks at seven key aspects of urban life, and examines some of the breathtaking, daring or sometimes
just provokingly pragmatic ways in which art and culture can re-define our cities, in terms of how we live (housing), how we produce (economy), the resources we have at hand (food, energy, water...), the new civitas (citizens, migration), and the politics of the city (collective decision making) among the others. It does not just highlight the motives and the potential of this commitment, but it also looks at some of the questions that go hand in hand with this: “Are we witnessing here a short-term patching of the inconsistencies of our societies, or are we looking at a long-term redefinition of what art and cultural operators are involved in, and equally, how far can their capacity in this respect reach?” For A Life in Common, Cittadellarte has reached out to extend its collaboration with STEALTH.unlimited from EVENTO 2011, which has resulted in an exploration of what might lay ahead if one would sample together the commitments made by these organisations, groups and initiatives. This saw the light in the form of an exhibition at Arte al Centro 2012, centered around a set of large billboards and “environments” where seven different positions towards societal commitment were outlined. For Cittadellarte, having placed art “at the center of socially responsible transformation” for more than a decade now, and having investigated the potential of extensive urban engagement, exploration of such approaches and fostering strong ties with other initiatives and organizations that show their commitment in this field is indispensable. Therefore, A Life in Common has not kept itself at bay within the safety of an exhibition, but has stepped into conversation with each of these initiatives and organisations, resulting in a number of interviews to be found in this publication, through which this exploration may give a glimpse of what is to be done beyond tomorrow. Ana Džokić and Marc Neelen (STEALTH.unlimited) and Juan Esteban Sandoval (Cittadellarte – Fondazione Pistoletto)
INFLUSSO (DELLE CULTURE)
una messa alla prova della conformità nazionale, sfidando ciò che viene percepito come benvenuto, collaterale, pericoloso
INFLUX (OF CULTURES)
putting national conformity to the test, by challenging
what is culturally perceived welcome, collateral or endangering
Con il progetto della durata di due anni Be(com)ing Dutch, il museo d’arte contemporanea Van Abbemuseum (Eindhoven) si è focalizzato su quelle che sono diventate questioni delicate per i Paesi Bassi, come identità, nazionalità, cittadinanza e coesione sociale. In quei due anni artisti, intellettuali, politici e gente di Eindhoven sono stati invitati a trovare possibili risposte a domande che mettono in difficoltà: “Cosa significa essere olandese o diventare olandese nel ventunesimo secolo? E comunque, chi sono “gli olandesi”, e come vogliono essere visti da se stessi e dagli altri?” Be(com)ing Dutch è stata un’impresa insolita per un museo, dal momento che affronta un argomento apertamente politico e sociale, e lo traduce in espressioni artistiche tra accese discussioni, nei Paesi Bassi, su “chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando” e su regole e valori nel mondo globalizzante. Ma ancora più insolita è stata la decisione di avventurarsi al di fuori dell’ambiente sicuro del museo attraverso importanti discussioni pubbliche (come l’Eindhoven Caucus) e lavori artistici. Questa decisione ha portato lodi e premi al museo, ma allo stesso modo (con più risonanza) anche riscontri indignati (“una vergogna e una minaccia alla nostra cultura”), violente intimidazioni al museo, discussioni nel Parlamento Nazionale sullo “spreco del denaro pubblico in pericolosi hobby multiculturali politicamente corretti” da parte del museo e richieste di abbandonarne il finanziamento.
With the two-year project Be(com)ing Dutch, the Van Abbemuseum for contemporary arts (Eindhoven) focused on what have become sensitive issues for the Netherlands, such as identity, nationality, citizenship and social cohesion. In those two years artists, intellectuals, politicians and the people of Eindhoven were invited to find possible answers to awkward questions: “What does “being Dutch” or “becoming Dutch” mean in the 21st century? Who are “the Dutch” anyway, and how do they want to be seen by themselves and others?” Be(com)ing Dutch has been an unusual endeavour for a museum, as it takes on an outright political and social subject and translates it into artistic expressions amidst heated discussions in the Netherlands about “who we are, where we come from, where we are heading” and about norms and values in a globalising world. But even more unusual has been the decision to embark with Be(com)ing Dutch through major public discussions (such as the Eindhoven Caucus) and artistic works outside of the “comfort zone” of the museum. This decision has resulted in praise and awards for the museum, but equally (and more voiced) in angry responses (“a shame and a threat to our culture”), violent intimidations to the museum, discussion in the National Parliament about the “wasting of taxpayers’ money on dangerous politically correct multicultural hobbies” of the museum and calls to abandon its financing.
Il Van Abbemuseum è uno dei primi musei pubblici di arte contemporanea nati in Europa. Il museo ha un approccio sperimentale incentrato sul ruolo dell’arte all’interno della società. L’apertura, l’accoglienza e lo scambio di conoscenze sono importanti, per museo e visitatori, per mettersi alla prova nel pensare all’arte e al suo posto nel mondo.
The Van Abbemuseum is one of the first public museums for contemporary art established in Europe. The museum has an experimental approach towards art’s role in society. Openness, hospitality and knowledge exchange are important, to challenge itself and its visitors to think about art and its place in the world.
www.becomingdutch.com, http://vanabbemuseum.nl
www.becomingdutch.com, http://vanabbemuseum.nl
UNO SCAMBIO CON
Annie Fletcher (curatrice del Van Abbemuseum) Guardando a Be(com)ing Dutch, sembra che esso sia stato appositamente creato per affrontare una questione totalmente politica e sociale, per portarla al di là dei muri del museo. Cosa vi ha fatto decidere, come istituzione d’arte, di toccare temi quali identità, nazionalità, cittadinanza e coesione sociale?
risposta ad alcune di queste domande fosse attivare il museo, dandogli un ruolo indagatore ed esplorativo, al fine di capire quali fossero le richieste provenienti dall’esterno e le modalità per re-direzionare il museo affinché si legasse maggiormente alle esperienze di vita vera, in un mondo che cambia molto rapidamente.
Considerando l’urgenza nel mettere in discussione il ruolo tradizionale del museo e di consolidare le identità nazionali o determinate identità, uno dei punti chiave di partenza del progetto è stato il desiderio di esplorare la capacità del museo di rivolgersi al suo stesso pubblico. In tale ricerca sono state fondamentali le domande: “Chi è effettivamente il pubblico, in un periodo di sempre maggiore mobilità e globalizzazione? A chi ci stiamo rivolgendo? E l’eredità culturale di chi stiamo raccogliendo?”. Altre domande connesse al progetto sono: “Come può un museo funzionare come spazio pubblico nel 21° secolo? Che tipo di funzione civile dovrebbe effettivamente avere in un periodo in cui le nozioni di spazio pubblico, istituzioni pubbliche e intellettuale pubblico si stanno rapidamente disgregando?”. Penso che l’unico modo per dare una
In particolare nel caso del lavoro Read the masks. Tradition is not given (sulla tradizione di “Zwarte Piet”), degli artisti Petra Bauer e Annette Krauss, qual è stata la spinta che il Van Abbemuseum ha dato al progetto verso l’obiettivo che ci si era dati (la marcia di protesta, le minacce di violenza, la minaccia del politico Wilders direttamente al museo)?
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Eravamo tutti molto coscienti della delicatezza del progetto e della natura di “tabù” di tale argomento per la società olandese. Non avevamo specificatamente deciso di affrontare questo tema dall’inizio, ma non mi ha assolutamente sorpresa il fatto che emergesse come soggetto di interesse durante le discussioni preparatorie, né che alla fine venisse proposto dai due artisti per l’evento. Sarebbe stato preferibile che
la tradizione dello Zwarte Piet fosse stata affrontata da artisti olandesi non di colore, perché è proprio quella la parte di popolazione che celebra questa festività e ne nega la valenza razzista. Indipendentemente dalla qualità del loro progetto, sapevamo che gli artisti sarebbero stati denigrati in quanto stranieri. Ciò è quanto poi accaduto, nonostante uno di loro vivesse da oltre dieci anni, e avesse cresciuto un figlio, in Olanda. La stragrande maggioranza della critica si fondava sul loro essere stranieri (così come noi curatori) e sulla loro scarsa conoscenza di ciò di cui stavano parlando. Questo ha finito con il sollevare aspetti interessanti sui temi del senso di appartenenza e del nazionalismo. In sostanza, quando (se mai) uno straniero o un immigrato iniziano ad appartenere alla propria nuova nazione? Il progetto ha acquistato sempre più importanza in modo piuttosto interessante. Alcuni elementi, in forma di installazione, erano già esposti al museo dall’inizio della mostra a maggio, ma è stato solo quando è stata organizzata, a fine agosto, la “marcia di protesta” nello spazio pubblico che le cose sono sfuggite di mano. Nonostante sia stato difficile e stressante da gestire, eravamo
di fatto contenti che almeno un elemento del progetto fosse riuscito ad avere un impatto significativo nella sfera sociale più ampia. Nel weekend dopo la cancellazione della performance, per esempio, se ne è parlato in vari articoli d’opinione su quasi tutti i giornali. Una delle nostre domande chiave era: “Può un museo avere un impatto più diretto in termini realmente sociali e politici all’interno della società, o le sue attività rimangono sempre protette e neutralizzate dalla struttura del museo stesso e dal fatto che risieda nel contesto dell’arte?”. Su questo livello, ci ha veramente soddisfatto il riuscire a provocare un dibattito più esteso e di grande impatto, su una questione pressante. A seguito del progressivo smantellamento dello stato di welfare (con le sue istituzioni) e in una condizione “postideologica”, c’è un’ovvia mancanza di strutture, organizzazioni politiche e istituzioni che trattino in modo efficace la questione dell’“olandesità” in tutti i suoi aspetti. Che posizione (lasciata libera da qualcun altro o di nuova creazione) occupavate con Be(com)ing Dutch? Penso che sia esattamente quella del museo che, con il proprio ruolo, si colloca tra le ultime tracce dell’istituzione democratica. Abbiamo indagato domandandoci se potevamo ancora tenerla attiva e significativa, o se potevamo almeno usare, ancora, la sua visibilità pubblica, così come il sentimento che lo circonda, per fare domande più provocatorie sullo “stato post-democratico”... Ovviamente era implicita in tutte queste domande la questione di come potessimo reinventare l’istituzione stessa in questo momento di cambiamento. In una recente intervista, Charles Esche (direttore del Van Abbemuseum) ha affermato: “Visto che siamo un museo e viviamo in questo momento storico, dobbiamo essere al centro delle questioni politiche. Dobbiamo essere al centro dei processi di cambiamento sociale.” Questo indica una ridefinizione di quello che dovrebbe essere l’impegno culturale? Come museo d’arte moderna e contemporanea, prendiamo i nostri obiettivi seriamente. Cosa significa essere contemporanei e lavorare con l’arte che emerge dal mondo che ci circonda? Vuol dire entrare in contatto, interpretare e discutere il presente e rendere le istituzioni in grado di vivere con le difficoltà, o—come direbbe Donna Haraway—di convivere con i problemi. Questo è certamente un impegno a lungo termine: è semplicemente lavorare con il mondo. Come viene percepito il vostro imbarcarvi in questo settore da coloro che si sono occupati di “olandesità” in modo convenzionale (come i partiti e i movimenti politici, le piattaforme di cittadini, le organizzazioni di immigrati)?
Con grande difficoltà. Siamo tutti pressati a raggiungere e mantenere risultati. Il puntare deliberatamente il dito alle crepe, alle fenditure e alle difficoltà non è ovviamente molto rassicurante! La nostra stessa deliberata trasparenza, per quanto riguarda la nostra mission e la nostra volontà di discuterla, sono state spesso percepite come inopportune e ci hanno reso un bersaglio piuttosto visibile e facile. Inoltre, non è considerato culturalmente appropriato “osare sfidare l’opinione altrui”. Ma tutte le istituzioni culturali sono a rischio, come si percepisce nel commento di Elizabeth Povinelli: “il capitale più recente non ha più bisogno di democrazia per sopravvivere”. Su questo piano è, quindi, ancora più importante utilizzare la
solida posizione di visibilità che abbiamo, per suggerire alternative. Se sopravviviamo, dati questi presupposti, l’agire concreto non sta, alla fine, a noi. Sta ai politici. Qual è la forza della voce del Van Abbemuseum in questo senso? Noi ci proviamo, ma siamo coscienti del nostro raggio d’azione e della necessità di ascoltare ciò che viene detto localmente sul territorio, piuttosto che tuffarsi a cercare di risolvere le cose. Abbiamo quindi un approccio che procede “lentamente”. (Settembre 2012)
AN EXCHANGE WITH
Annie Fletcher (curator at Van Abbemuseum) If we look back at Be(com)ing Dutch, it seems it was purposefully set up to engage with an “outright political and social issue” and take it beyond the museum walls. What made you, as an art institution, decide to enter this territory of identity, nationality, citizenship and social cohesion? Considering the urgency to question the museum’s traditional role in consolidating national identities or certain fixed subjectivities, one of the key points of departure was the desire to explore the capacity of the museum to address its own public. Fundamental to that is the question “Who
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is actually its public in a time of increasing mobility and globalization? Whom are we addressing and whose cultural heritage are we collecting?”. Another question related to that is how the museum can function in the 21st century as a public space, and what kind of civic function should it actually have in a period where the notions of public space, public institutions and public intellectuals are rapidly disintegrating… I think the only way to answer some of these questions was to set the museum into a kind of inquiring and exploratory mode in order to see if we could listen to what sort of demands were out there and think about how to reorient the museum so that it becomes more relevant to our real life experiences in a rapidly changing world. In the particular case of the work Read the masks. Tradition is not given. (on the tradition of “Zwarte Piet”) by the artists Petra Bauer and Annette Krauss, how much has the Van Abbemuseum itself been pushing the project to the scope it has gotten (the protest march, the threats of violence, the politician Wilders’ direct threat to the museum)?
despite the fact that one of them had been living and raising a child in the Netherlands for over ten years—the vast majority of the critique was about the fact that they (and we, as curators) were foreigners and didn’t know what we were talking about. This ultimately raised interesting aspects about belonging and nationalism. In essence, when (if ever) as a migrant or foreigner do you belong in your new state and gain access to its public sphere? It escalated in the end in a rather interesting way. Elements of the project, in an “installation” form, had already been on display in the museum from the beginning of the exhibition in May, but it was only when the “protest march” performance was planned in a public space in late August that things exploded. Although it was difficult and stressful to manage, I think we were in fact happy that at least one element of the project managed to significantly impact the broader social sphere. The weekend after the cancellation of the performance, for example, it was addressed in opinionated pieces in almost all of the newspapers. One of our key questions was “Can a museum make a more direct impact in real social and political terms within society, or
I suppose it was precisely the role of the museum as one of the last vestiges of the democratic institution. We explored if we could still keep it active and resonant—or at least still use its public visibility and even the sentiment surrounding it to ask more provocative questions about the post democratic state… Obviously, implicit in all of these questions was the issue of how we could reinvent the institution itself for these changing times. In a recent interview Charles Esche [director of the Van Abbemuseum, ed.] stated “We have to be in the middle of political questions, as we are a museum today. We have to be in the middle of processes of social change.” Does this point to a long-term re-writing of what cultural engagement should be about? As a museum of modern and contemporary art, we take our brief seriously. What does it mean to be contemporary and to work with art that emerges from the world around us? It is about encountering, interpreting and discussing the present, and gearing the institutions towards living with the difficulties or, as Donna Haraway would put it: “Staying with the trouble”. This is an absolutely long-term commitment: simply about working in the world. How do those who have been conventionally active with “Dutchness” (like political parties, political movements, citizens platforms, migrant organizations) perceive your embarking into this arena?
We were both very aware of the sensitivity of the project and the taboo nature of the subject in Dutch society. We did not specifically decide to bring it up, but it absolutely did not surprise me that it came up as an object of interest for artists during the exploratory discussions and that it finally got proposed by two artists for the show. Preferably, someone ethnically white and Dutch would have tackled the tradition of Zwarte Piet, because this is precisely the demographic that promotes this festivity and denies its racially charged terms. We knew that, no matter how excellent their project was, the artists would be dismissed as foreign. This turned out to be the case,
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would its activities always remain protected or neutralized by the framework of the museum and the fact that it dwells in the realm of art?”. On that level, it has been really satisfying to provoke a larger debate about an urgent issue, which has a broad impact. Following the gradual dismantling of the welfare state (with its institutions) into a “post-ideologic” condition, there is an obvious lack of structures, political organizations or institutions that effectively deal with the issue of “Dutchness” in all its aspects. Which position (abandoned, or newly opening) did you occupy with Be(com)ing Dutch?
With great difficulty. We are all under pressure to entertain and achieve “results”. So deliberately pointing to crack and fissure and difficulties is obviously not very comforting! Our very deliberate transparency about our mission and our willingness to debate it are often perceived as inappropriate and make us a pretty visible and easy target. Besides, it is not deemed culturally appropriate in the Netherlands “to put one’s head above the parapet” as it were. But all cultural institutions are under threat as Elizabeth Povinelli remarks: “late capital no longer needs democracy to survive”. On that level it is therefore even more important to use the robust visible position we have to suggest alternatives. Whether we survive given this stance is ultimately not up to us. It is up to the politicians. How far does the “calling” of the Van Abbemuseum reach in this respect? We do try, but again we are aware of our scope and the need to listen to what is being said on the ground locally, rather than to jump in and try to fix things. So we take a “slowly-slowly” approach.
(September 2012)
“IL MUSEO È UNA DELLE ULTIME ISTITUZIONI PUBBLICHE CHE PUÒ PENSARE IN MODO NON ALLINEATO. TRASGREDIRE È INCREDIBILMENTE IMPORTANTE IN DEMOCRAZIA. SI RELAZIONA AD UNA CERTA IDEA DI DEMOCRAZIA INTESA NON COME GOVERNO DELLA MAGGIORANZA, MA COME GOVERNO DELLA POPOLAZIONE.” CHARLES ESCHE, DIRETTORE DEL VAN ABBEMUSEUM “[THE MUSEUM] IS ONE OF THE LAST PUBLIC INSTITUTIONS THAT CAN THINK DEVIANTLY. DEVIANCY IS INCREDIBLY IMPORTANT IN DEMOCRACY. IT RELATES TO A CERTAIN IDEA OF DEMOCRACY NOT BEING THE RULE OF THE MAJORITY, BUT BEING THE RULE OF THE PEOPLE.” CHARLES ESCHE, DIRECTOR OF VAN ABBEMUSEUM
IN MOSTRA :
ESPOSTI: il film Read the Masks. Tradition Is Not Given. degli artisti Petra Bauer e Annette Krauss, uno dei lavori che ha avuto origine da Be(com)ing Dutch. Il film esamina le implicazioni sociali e politiche della tradizione olandese di Zwarte Piet (Pietro il Nero), parte di una delle più celebrate, e contemporaneamente controverse e razziste, tradizioni olandesi. Questa indagine ha causato forte scalpore in parlamento tra i partiti politici, e nei media, come si può vedere negli estratti stampa e servizi TV che accompagnano il film. Read the Masks. Tradition is not Given. Petra Bauer e Annette Krauss Video, 70 min, 2008-2009 Realizzato nell’ambito del progetto Be(com)ing Dutch, sulla controversa questione razziale a riguardo di Zwarte Piet (Pietro il Nero), personaggio “di colore” della tradizionale festività di San Nicola. Successivamente alla cancellazione della marcia di protesta programmata dagli artisti, il film è una drammatica storia sul ruolo che il Van Abbemuseum svolge nel propugnare la libertà di espressione su temi particolarmente “impopolari”.
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IN THE EXHIBITION :
VIDEO REPORTAGE
FEATURED: the film Read the Masks. Tradition Is Not Given. by the artists Petra Bauer and Annette Krauss, one of the works that originated from Be(com)ing Dutch. The film looks at the social and political implications of the Dutch tradition of Zwarte Piet (Black Pete), part of one of the most celebrated, however controversial and racist, Dutch traditions. This investigation caused considerable uproar in the Dutch parliament, among political parties, and in media, introduced in press clippings and TV reports accompanying the film.
IMMAGINE IN ESPOSIZIONE: preparazione per la marcia di protesta fatta partire dall’artista Kurasi Kusolwong. I cartelli di protesta, portati attraverso la città, presentavano domande poste e scritte nell’arco di oltre sei mesi dai visitatori del Van Abbemuseum. (Foto: Pieter Cox).
Read the Masks. Tradition is not Given. Petra Bauer and Annette Krauss Video, 70 min, 2008-2009 Realised within the project Be(com)ing Dutch on the controversial racial issue around Zwarte Piet (Black Pete), a “blacked up” character from the traditional Saint Nicholas festivities. After the cancellation of the protest march planned by the artists, the film is a dramatic story of the role the Van Abbemuseum plays in supporting freedom of speech on extremely “unpopular” issues.
PANNELLI
Fonti: Eindhovens Dagblad, De Telegraaf, Lijst Pim Fortuyn Eindhoven, Omroep Brabant, NRC, Volkskrant Estratti stampa, 2008 Dieci articoli dalla stampa olandese sulla controversa questione razziale riguardante Zwarte Piet (Pietro il nero) e Be(com)ing Dutch, dai titoli quali: “Commozione per la protesta contro Pietro il Nero”, “Interrogazione parlamentare sui Pietro razzisti”, “Cancellata la marcia di protesta contro Pietro il Nero” o “Tensione sul tema dell’identità olandese”. Fonti: TV Omroep Brabant, TV NCRV, RTV Rijnmond, TV AT5, MissKittyShow Video, 18 min, 2008-2011 Cinque brevi video reportage sulla controversia relativa a Zwarte Piet (Pietro il Nero), avviata dalla marcia di protesta attivata dagli artisti Petra Bauer e Annette Krauss, come parte di Be(com)ing Dutch.
TABLOIDS
Sources: Eindhovens Dagblad, De Telegraaf, Lijst Pim Fortuyn Eindhoven, Omroep Brabant, NRC, Volkskrant Press clippings, 2008 Ten articles from Dutch newspapers picking up on the rising tensions around “Zwarte Piet” and Be(com)ing Dutch, with titles like: “Commotion about protest against Black Pete”, “Parliamentary questions on racist Petes”, “Protest march against black Pete cancelled” or “Tensed by the Dutch identity”. MEDIA REPORTS
Sources: TV Omroep Brabant, TV NCRV, RTV Rijnmond, TV AT5, MissKittyShow Video, 18 min, 2008-2011 Five short media reports on the controversy around Zwarte Piet (Black Pete), provoked by the protest march initiated by artists Petra Bauer and Annette Krauss, as part of Be(com)ing Dutch. BILLBOARD IMAGE: preparations for the protest march initiated by artist Kurasi Kusolwong. The protest signs, carried through the city, contained questions asked and written over six months by visitors of the Van Abbemuseum. (Photo: Pieter Cox).
CITTADINANZA (ATTIVATA)
mobilitare la richiesta dei cittadini per un futuro urbanistico inclusivo
(ACTIVATED) CITIZENSHIP
mobilizing citizens’ demand for an inclusive urban future
Con l’iniziativa Pravo na grad (Diritto alla Città, Zagabria) una coalizione di operatori culturali indipendenti, organizzazioni giovanili e un’organizzazione ambientalista attivista hanno iniziato ad agire contro una gestione dello spazio che viola l’interesse pubblico ed esclude i cittadini dal processo decisionale nello sviluppo di Zagabria. Durante un periodo di privatizzazione criminale dei beni pubblici, favorita dall’amministrazione pubblica, e il conseguente “sblocco” di investimenti speculativi in beni immobili, Right to the City è riuscita a mobilitare un sempre crescente circolo di attivisti e cittadini in una reazione, e costretto gli operatori pubblici coinvolti a rispettare le (loro stesse) norme e regole nel rispetto del bene comune. Ciò che è iniziato nei primi anni del 2000 dalla semplice necessità di queste organizzazioni di trovare uno spazio in cui lavorare, produrre e presentare le loro attività, ha avuto un’importante svolta nell’opinione pubblica nel 2006 con l’avvio di Right to the City. Come conseguenza, molto dell’attuale impegno pubblico, per esempio, dell’Istituto Multimediale di Zagabria (MI2), si realizza attraverso le sue attività per l’iniziativa Right to the City, incanalate verso la lotta a favore della corretta gestione dello spazio urbano. Un’organizzazione con un background nella cultura mediatica (digitale) è entrata in questo modo in una dimensione notevolmente fisica: occuparsi proprio della forma che oggi le nostre città prendono. Le ingegnose, performative e visibilmente attraenti azioni pubbliche (talvolta supportate da decine di migliaia di cittadini di Zagabria) spesso superano l’essere ignorati dai mezzi di comunicazione tradizionali e assicurano visibilità e riconoscimento nell’arena pubblica. Questa è stata una delle ragioni per focalizzarsi su casi altamente simbolici di abuso delle risorse pubbliche, come la parziale privatizzazione della piazza centrale della città, Piazza dei Fiori, quali veri e propri luoghi contesi. Anche se sta affrontando una dura resistenza da parte di politici in carica, di associazioni private e pubbliche della città, Right to the City sta attualmente trasmettendo le sue competenze e la sua capacità d’azione collettiva a simili conflitti in tutta la Croazia.
With the initiative Pravo na grad (Right to the City, Zagreb) an alliance of independent cultural actors, youth organizations and an environmental activist organization started to take action against a management of space that violates public interest and excludes citizens from the decision making process in the development of Zagreb. Amidst a period of criminal privatisation of public assets facilitated by public administration, and of the speculative investments in real-estate that are “unlocked” through this, Right to the City manages to mobilise ever-growing circle of activists and citizens in response, and forces the public actors involved to respect their (own!) rules and regulations in respect of the common. What began in the early 2000s from the simple necessity of these organisations to find space to work, produce and present their activities, made a significant turn into a public focus with the initiation of Right to the City in 2006. As a result, much of the current public engagement of, for instance, Zagreb’s Multimedia Institute (MI2), is through its activities for the Right to the City initiative channelled into the fight for the proper management of urban space. An organisation with a background in (digital) media culture enters with this remarkably physical dimension: addressing the very form our cities take today. The clever, performative and visually attractive public actions (at times supported by tens-of-thousands of Zagreb’s citizens) often circumvent the ignorance of mainstream media and ensure visibility and recognition in the public arena. This has been one of the reasons to focus on highly symbolic cases of misuse of public resources, like the partial privatisation of the city’s central Flower Square, as the very site for contention. Even if Right to the City faces stiff resistance from vested political, private and public actors in the city, it is actively transferring its expertise and capacity for collective action to related conflicts throughout Croatia.
Multimedia Institute (MI2) è nato nel 1999 come organizzazione non governativa con lo scopo di promuovere ed educare il pubblico alla media culture, agli approcci alle nuove tecnologie coniugati all’ambito sociale e agli ultimi sviluppi nelle nuove tecnologie. I lavori che l’organizzazione porta avanti uniscono attivisti politici, media artists, autori di musica elettronica, hackers e sviluppatori di free software, gruppi di sostegno omosessuale, fino alla comunità che lavora nell’animazione.
Multimedia Institute (MI2) emerged in 1999 as a non-governmental organisation with the goal to promote and educate the public on media culture, socially inflected approaches to new technologies and the newest developments in social theory. Its works bring together political activists, media artists, electronic music makers, theorists, hackers and free software developers, gay and lesbian support groups, up to the anime community.
www.pravonagrad.org, www.mi2.hr
www.pravonagrad.org, www.mi2.hr
UNO SCAMBIO CON Tomislav Medak (Multimedia Institute e Right to the City, Zagabria)
RTTC è nato da un’alleanza tra giovani, ambientalisti, operatori culturali e altri di tipo sociale che cercavano un luogo di lavoro, ma è presto andato oltre a quella necessità immediata per entrare nella lotta contro la sistematica cattiva gestione dello spazio e delle risorse pubblici. Perché M12, come istituto di comunicazione e quale parte delle organizzazioni a capo di RTTC, ha deciso di fare questo passo? Il nome Istituto Multimediale può in qualche modo ingannare. È vero che, inizialmente, nel 1999 il fulcro della nostra attenzione era Internet, che
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stava emergendo con la propria cultura nascente e attraverso l’attivismo mediatico, ma non era un interesse fine a se stesso, quanto quello nei confronti di una piattaforma unificante e facilitatrice per i diversi temi toccati dalle persone che si erano radunate intorno alla nostra organizzazione. Tali interessi spaziavano dal media design, alla programmazione software, al giornalismo, alla filosofia, all’azione diretta. Due tendenze sono rimaste per molti versi costanti nel lavoro di M12: l’una a creare piattaforme che riunissero un ampio numero di operatori e l’altra a lavorare collettivamente, per trasformare i limiti strutturali del campo
in cui operiamo, così da intervenire in un contesto più ampio. Questo orientamento non era specifico di MI2, bensì caratteristico di un momento e conseguenza di circostanze particolari: le istituzioni pubbliche, sociali e culturali degli anni ’90 servivano un progetto politico nazionalista, e l’unico modo di lavorare e intervenire in un contesto di totale sussunzione della società nel progetto nazionalista era partendo da una posizione di esclusione ed emarginazione. Ciò significava che azione collettiva e tattiche erano tutto ciò che importasse. Sebbene il progetto nazionalista all’inizio di questo secolo si fosse già largamente dissolto,
l’esclusione sistematica di antagonismi sociali da parte delle istituzioni è rimasta invariata e, nella nostra società, questo doppio modus operandi resta quindi alla base del lavoro degli operatori non istituzionali. Prestando attenzione al potenziale per l’azione collettiva e a uno spazio d’azione talvolta molto ristretto, a Zagabria abbiamo aiutato a far sì che i cittadini si mobilitassero e si alleassero con le organizzazioni culturali, ambientaliste e giovanili nella campagna Pravo na grad. Ma non dovremmo prenderci tutto il merito. Molto era già nell’aria ed è stato reso possibile dallo sforzo collettivo dei nostri collaboratori. Il nostro contributo è stato quello di non distogliere la nostra attenzione dal contesto sociale, normativo e politico, in parallelo al nostro lavoro culturale.
si e contestare la collusione tra investitori e autorità politiche in pratiche di sviluppo urbano “predatorie”. A Zagabria molti urbanisti e lavoratori del settore si sono schierati con RTTC, talvolta anche commettendo atti di disobbedienza professionale. Vale però la pena notare che la categoria degli architetti, data la propria posizione vulnerabile di dipendenza dagli investitori, era parecchio combattuta. Mentre il loro supporto iniziale alla campagna di Varšavska era a dir poco ambivalente, si è poi consolidato a mano a mano che il conflitto cresceva e la professione – incluse l’Associazione degli Architetti Croati, la Camera Croata degli Architetti e l’Associazione degli Architetti di Zagabria—hanno dovuto definire una
libero...), vediamo che lo spazio diventa un punto nevralgico per la mobilitazione sociale e l’azione politica. Nel caso di RTTC, l’azione collettiva di radunarsi in un luogo conteso trascende il significato locale, l’aspetto “parrocchiale” della situazione, e si apre a questioni di eguaglianza sociale, diversità e sostenibilità. Di conseguenza, dopo la lotta di Varšavska abbiamo finito con l’aiutare iniziative locali in tutto il paese. Da allora, RTTC ha passato la maggior parte del suo tempo contestando lo sviluppo speculativo di campi da golf su terreni protetti, agricoli o comunali e aiutando i lavoratori dell’industria tessile Kamensko, la cui fabbrica stava venendo portata alla bancarotta al fine di acquisirne e usarne l’edificio per una speculazione edilizia.
posizione più chiara sull’inclusione dei cittadini nei processi di pianificazione e sviluppo urbano.
Ma ci sono dei limiti per una cittadinanza così impegnata. Attraverso la campagna in Varšavska, RTTC ha costruito un’ampia struttura di esperti, attivisti, cittadini interessati che vanta migliaia di persone nelle loro fila con vari gradi di impegno e partecipazione. Tale piattaforma non può, però, essere facilmente trasportata in un altro luogo o “ingrandita” a livello nazionale. Ogni situazione richiede un suo processo di “arruolamento” e una sua forma di azione collettiva, che devono essere specifici alle circostanze locali. E, ciò che più conta, queste forme d’impegno devono costantemente combattere una dura battaglia contro i debilitanti effetti delle pressioni economiche, la privazione dei diritti civili e una rappresentazione controversa da parte dei mass media “sponsorizzati”. La questione fondamentale diventa come interconnettere queste lotte e renderle
Sebbene uno possa supporre che il contesto di privatizzazione dell’economia nazionale (dagli anni ’90), l’investimento speculativo nello spazio urbano (dal 2000) e il trascurare l’interesse pubblico che lo accompagna abbiano le loro specificità in Croazia o a Zagabria, sembra che tutto questo sia in realtà parte di un crollo più ampio dello “stato sociale” (in questo caso socialista) in una realtà urbana post-ideologica, guidata dalle leggi di mercato. Considerando questo crollo, alla mancanza di quali ruoli, istituzioni o provvedimenti risponde RTTC? RTTC Zagabria non sostituisce nessuna istituzione, si trova piuttosto in una situazione in cui la funzione sociale delle istituzioni pubbliche è diventata obsoleta nel contesto del modello economico e politico che abbiamo in Croazia. E, come abbiamo imparato dalla dura lezione della campagna di Varšavska, l’autonomia e l’integrità di ognuna delle istituzioni coinvolte, che si dovrebbero basare sulla competenza e sulla consultazione con il pubblico e dovrebbero agire nell’interesse del pubblico, si sgretolano di fronte ai capitali in attesa di essere investiti. Questo non vuol dire che non abbiamo provato ad aiutare le istituzioni urbanistiche a mantenere la loro autonomia, che non abbiamo creato una commissione alternativa di urbanistica che includesse architetti, urbanisti, sociologi, storici dell’arte, esperti di trasporto; o che non avessimo una squadra di legali. Ma a Varšavska è servito poco. Con il declino delle istituzioni pubbliche e di un’urbanistica guidata dall’interesse pubblico, l’ambivalenza propria della città capitalistica—permettere quell’autonomia e allo stesso tempo sfruttarla—si accentua, portando a uno scontro sempre più aspro tra gli abitanti e chi dirige gli affari economici, avendo sullo sfondo la preoccupazione collettiva dei cittadini per l’ambiente abitativo comune. A giudicare dallo stato di sviluppo della città post-socialista, la posizione di RTTC è quella di incoraggiare la capacità delle persone ad auto-organizzar-
Vediamo questa possibilità di una cittadinanza più attiva come aspetto chiave di RTTC. Una cosa essenziale come lo spazio urbano può considerarsi area chiave in cui sperimentare nuove forme di cittadinanza impegnata? C’è un aspetto fondamentale ed essenziale nella lotta per lo spazio. A mano a mano che l’accumulo forzato—attraverso privatizzazione, partnership tra pubblico e privato, commercializzazione—sconfina nell’ambiente abitativo, creando barriere economiche alla partecipazione ad aspetti più o meno essenziali della vita sociale (alloggiamento, lavoro, spazio pubblico, mezzi di trasporto, tempo
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“MOLTO DI CIÒ ERA GIÀ NELL’ARIA ED È STATO RESO POSSIBILE DAGLI SFORZI CONGIUNTI DEI NOSTRI COLLEGHI. IL NOSTRO CONTRIBUTO È STATO L’AVERE SEMPRE, PARALLELAMENTE AL NOSTRO LAVORO CULTURALE, MANTENUTO LO SGUARDO ATTENTO AL CONTESTO SOCIALE E POLITICO.” MI2, CO-INIZIATORI DI RIGHT TO THE CITY
“MUCH OF IT WAS IN THE AIR AND MADE POSSIBLE BY THE JOINT EFFORTS OF OUR PEERS. OUR CONTRIBUTION IS THAT WE HAVE ALWAYS, PARALLEL TO OUR CULTURAL WORK, KEPT OUR EYES ON THE SOCIAL, POLICY AND POLITICAL CONTEXT.” MI2, CO-INITIATORS OF RIGHT TO THE CITY
sostenibili oltre il contesto immediato che le ha scatenate. Che ciò sia una nuova forma di cittadinanza o semplicemente un lavoro di soccorso, inizia da piccolo e in un vuoto istituzionale. Il suo potenziale di crescita è influenzato dalle circostanze socio-economiche e dipende dalla sua capacità di definire la sua specifica lotta come parte di una condizione universale di privazione dei diritti civili in segmenti più ampi della società. In Croazia (e nell’area della ex-Jugoslavia) incontriamo altre organizzazioni culturali che iniziano ad affrontare attivamente le questioni di giustizia spaziale. Lo vede come un “rattoppo” temporaneo o una soluzione definitiva al vuoto istituzionale che ha indicato? Quando parliamo di RTTC dovremmo essere coscienti del fatto che il suo ambito è più ampio di quello culturale, ma per rispondere alla sua domanda che mira specificatamente al ruolo degli operatori culturali che ne fanno parte, questo impegno sicuramente occupa il vuoto in cui le istituzioni esistenti mancano di affrontare le questioni sociali, economiche e politiche serie. Questo non deve sorprendere. In questi paesi tocca di solito agli operatori non istituzionali organizzare e intervenire, che sia nella cultura, nell’istruzione superiore, nella protezione dell’ambiente, nell’urbanistica o nella forza lavoro organizzata. Uno potrebbe però chiedersi se questo debba essere un lavoro portato avanti da chi si occupa di cultura, se la giustizia spaziale sia l’arena giusta per un intervento culturale. A tutti piace concordare con l’idea che la cultura dovrebbe mantenere una relazione critica verso la realtà sociale, ma poi ci si chiede: “La critica rimane destinata alla capacità riflessiva del contenuto simbolico prodotto dal lavoro culturale, o può uscire dalla posizione assegnatale e provare ad agire effettivamente su una realtà sociale in declino? Può essere, più di un’alternativa, un’effettiva opposizione?” Per concludere, considerando che siamo immersi in quello che chiamiamo il “secondo processo di privatizzazione”, quello che viene dopo la privatizzazione dell’economia degli anni ’90 e che cerca profitto nella speculazione di spazio e territorio urbano, e che, dato il fatto che le istituzioni pubbliche sono state indebolite e danneggiate strutturalmente, questa forma di impegno deve continuare, perché nessuno sembra rendersi disponibile a prendere il testimone. Sia che questo impegno lentamente si dilegui (come tende a succedere con forme di attività non istituzionali) o venga sostituito da un’improbabile composizione in cui istituzioni pubbliche, interesse pubblico e le collettività recupereranno un ruolo consolidato nel definire lo sviluppo sociale, non dipende interamente dalle sue stesse azioni e resta una questione aperta. (Agosto / settembre 2012)
AN EXCHANGE WITH Tomislav Medak (Multimedia Institute and Right to the City, Zagreb)
While RTTC emerged from an alliance of cultural, youth, environmentalist and other civil-society actors in search for workspace, it soon stepped beyond that immediate necessity to enter the struggle against systematic mismanagement of public space and public resources. Why did MI2 as a media institute, and one of the organizations spearheading RTTC, decide to take this step? The name Multimedia Institute might be somewhat misleading. True, our initial focus in 1999 was the emerging Internet with its nascent culture and media activism, but it was less an interest in itself and more a unifying, enabling platform for the diverging interests of people who came together around the organization. These interests ranged from media design, to coding, to journalism, to philosophy, to direct action. Two tendencies would in many ways remain constant in the work of MI2: creating platforms that would bring together a broad number of actors and working collectively to transform the structural limitations of the field we work in and intervene in the broader social context. This orientation, however, was not something specific to MI2, but was characteristic of the time and a product of circumstances: the public social and cultural institutions in the 1990s served a nationalist political project, and the only way to work and intervene in the context of a total subsumption of the society under the nationalist project was from the position of exclusion and marginalisation, which meant that collective action and tactics were all that mattered. Although the nationalist project by the early 2000s had largely dissipated, the systematic exclusion of social antagonisms by institutions of the society remained unchanged, thus this double modus operandi still remains the basis for much of the work of non-institutional actors throughout our society. Being attentive to that potential for collective action and the sometimes very narrow room for action, we have helped mobilize citizens to stand in alliance with the cultural, environmentalist and youth organizations in the Right to the City Zagreb campaigns. But we should not take too much credit. Much of it was in the air and made possible by the joint effort of our peers. Our contribution is that, in parallel to our cultural work, we have always kept our eyes on the social, policy and political context. Although one might speculate that the context of privatisation of the national economy (since 1990s), the speculative investment in urban space (from 2000s) and the neglect of public interest that has gone hand-in-hand
with that have their specificities in Croatia or Zagreb, it looks like it is also part of the larger breakdown of a (in this case socialist) welfare state into a “post-ideological” market driven urban reality. Considering this breakdown, to the lack of which roles, institutions, or provisions does RTTC respond? RTTC Zagreb does not substitute any institution, it rather finds itself in a situation where the social function of public institutions has become obsolete through the economic and political model that we have in Croatia. And, as we have learned the hard way through the Varšavska campaign, any of the involved institutions’ autonomy and integrity that would rest on expertise, consultation with the public, and work for the public interest, crumbles in the face of capital waiting to be invested. That is not to say that we didn’t try to help the planning institutions maintain their autonomy; that we didn’t create an alternative board of urban planning experts that included architects, urban planners, sociologists, art historians, transport experts; that we didn’t have a litigation team. But with too little effect in Varšavska. With the decline of public institutions and public-interest-driven city planning, the inherent ambivalence of the capitalist city to both allow that autonomy and, at the same time, to parasite on it becomes acute, leading to an ever greater confrontation with the inhabitants, the governance of economic affairs and the joint care of citizens for their common living environment. Judging from the current stage of development of the post-socialist city, the RTTC’s position is to foster the capacity of people to self-organize and contest the collusion of investors and political decision makers in practices of predatory urban development. Many urban planners in Zagreb and people working in the field took side with the RTTC, sometimes even committing acts of professional disobedience. It is worth noting, however, that the architectural profession, given its vulnerable position of dependency on investors, was deeply embattled. While their initial support to the Varšavska campaign was ambivalent to say the least, it grew as the conflict escalated and the profession— including the Association of Croatian Architects, the Croatian Chamber of Architects and the Zagreb Association of Architects— had to articulate a clearer position on the inclusion of citizens into the processes of urban planning and development. We see this possibility of a much more active citizenship as a key aspect of RTTC. Is something essential like city space a key area where we can experiment with new forms of engaged citizenship? There’s a fundamental and basic aspect to struggles about space. As the processes of accumulation through dispossession—such as privatisations, public-private partner-
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ships, marketization—encroach on that living environment, creating economic barriers to participation in some essential and some less essential aspects of social life (housing, work, public space, public transport, free time...), we see how the space and spatial resources become a rallying point for social mobilizations and political action. In the case of RTTC, the collective action of rallying around a contested site transcends the local significance, the parochial “neighbourhood” aspect of the situation, and opens up to questions of social equality, diversity and sustainability. Consequently, after the Varšavska struggle we ended up helping local initiatives across the country. The RTTC has since spent a greater part of its time contesting the speculative development of golf courses on protected, agricultural or communal land and helping workers of the textile company Kamensko, whose factory was driven into bankruptcy in order to acquire and use the factory site for real-estate speculation. But there are limitations to such engaged citizenship. Through the campaign in Varšavska the RTTC has built a broad structure of experts, activists, concerned citizens that numbers thousands in its ranks with varying degrees of engagement and participation. But these cannot be easily transported to another location or scaled to a national level. Each situation requires its own process of capacity building and its own form for collective action that both need to be specific to the local circumstances. And, most importantly, these forms of engagement constantly have to fight an uphill battle against crippling effects of economic pressures, political disenfranchisement and
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divisive reporting by advertiser-dependent media. The fundamental question becomes how to interconnect these struggles and make them sustainable beyond the immediate situation that sparked them. Be that a new form of citizenship or just a firefighting work, it is starting small and in an institutional void. Its potential to grow is influenced by socio-economic circumstances and depends on its capacity to articulate its specific struggle as part of a universal condition of disenfranchisement for larger segments of the society. In Croatia (and the post-Yugoslav region) we increasingly encounter cultural organizations that start to actively address the issues of spatial justice. Do you see this as a temporary
“patch” or “fix” of the institutional void you indicated? When speaking of RTTC we should be aware that its constituency is broader than culture, but to answer your question that points specifically to the role of the cultural actors in it, this engagement surely does occupy a void where the existing institutions fail to address the acute social, economic and political issues. This, however, comes as no surprise. In these countries, more often than not, it falls onto the non-institutional actors to organize and intervene, be that in culture or higher education or environmental protection or urban planning or organized labour. One may wonder if this should be a work of culture though, if spatial justice is a
proper arena for cultural work. We all like to subscribe to the idea that culture should maintain a critical relation to the social reality, but then: “Does the critique remain doomed to the reflective capacity of symbolic content produced by cultural work, or can it step outside of its ascribed position and try to effectively act on an unravelling social reality? Can it be more than an alternative, can it be an effective opposition?” And, to conclude, given that we’re deep in what we call the “process of second privatisation”, one that comes after the privatisation of the economy in the 1990s and that seeks profit in speculation with urban space and land, and given that public institutions have been structurally weakened and undermined, this form of engagement has to continue as nobody seems to be willing to take up its baton. If this engagement will slowly dissipate (as it tends to happen with the noninstitutional forms of activity), or will be superseded by an unlikely recomposition where public institutions, public interest and collectivities regain a strengthened role in defining social development, does not depend entirely on its own action and remains an open question. (August / September 2012)
IN MOSTRA :
IN THE EXHIBITION :
ESPOSTI: serie di poster rappresentanti le varie azioni pubbliche realizzate da Right to the City negli ultimi anni, a mostrarne il carattere ingegnoso, performativo e visivamente accattivante, che ha suscitato il sostegno di decine di migliaia di cittadini di Zagabria; i media report mostrano l’impatto che le azioni hanno avuto sul dibattito pubblico.
FEATURED: series of posters, depicting the various clever, performative and visually attractive public actions of Right to the City over recent years, at times supported by tens-of-thousands of Zagreb’s citizens, and media reports which show the impact these actions had on the public debate.
Right to the City POSTER Foto: Cropix, Sandro Lederer, membri di Zelena akcija e Pravo na grad; design: Dejan Dragosavac Rutta 18 poster, 50 x 70 cm, 2010.
Right to the City POSTERS Photos: Cropix, Sandro Lederer, members of Zelena akcija and Pravo na grad; design: Dejan Dragosavac Rutta 18 posters, 50 x 70 cm, 2010.
REPORTAGE VIDEO
MEDIA REPORTS
IMMAGINE IN ESPOSIZIONE: attivisti di Right to the City e cittadinanza riempiono la Piazza dei Fiori di Zagabria, dove ha raggiunto il culmine la lotta per difendere l’interesse pubblico (2007-2011). Trasportano 54 000 carte firmate contro il discusso piano di sviluppo urbano. (Foto: archivio Pravo na grad / Zelena akcija).
BILLBOARD IMAGE : activists of Right to the City and citizens fill Zagreb’s Flower Square, where the struggle to defend public interest (2007 – 2011) culminated. They carry 54 000 cards with signatures against the controversial real-estate development. (Photo: Pravo na grad / Zelena akcija).
Fonti: TV HRT, net.hr, Queer Zagreb, Dušan Matić, Tomislav Domes, Jadran Boban, zdgrunf Video, 50 min, 2007-2011 Quindici brevi video reportage sulle azioni di Right to the City a Zagabria.
Sources: TV HRT, net.hr, Queer Zagreb, Dušan Matić, Tomislav Domes, Jadran Boban, zdgrunf Video, 50 min, 2007-2011 Fifteen short media reports on actions of Right to the City in Zagreb.
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SVILUPPO URBANO (COLLABORATIVO) istigare la nascita di un ambiente urbano creato da, per e attraverso iniziative locali
(COLLABORATIVE) CITY DEVELOPMENT
instigating an urban environment made by, for and through local initiative
Il progetto Haagse Havens (I Porti dell’Aia) è stato avviato da Stroom Den Haag (L’Aia) per esplorare nuovi metodi di sviluppo urbanistico, per cui la zona industriale di Haagse Havens funge da terreno di prova. In quest’area la pianificazione urbanistica tipica standard non ha funzionato e si è cercato, invece, un nuovo avvio a partire dalla situazione esistente, in attiva collaborazione con piccole organizzazioni locali. Questo approccio richiede una maggiore comprensione degli attuali punti di forza, un modo più flessibile di gestire la pianificazione e la regolamentazione urbana, un modo diverso di progettare e un miglior uso del capitale a disposizione oltre ai soldi, nella forma di tempo disponibile, energia, amore e impegno degli imprenditori e dei residenti dell’area. Con Haagse Havens, Stroom continua una serie di attività che nel corso di una decade hanno portato questo centro per l’arte e l’architettura sempre più vicino al modellamento dell’effettiva organizzazione fisica della città; come istituzione culturale è così, esso stesso, diventato un operatore attivo nella (ri)costruzione della città dell’Aia, promuovendo nuove coalizioni per sperimentare il futuro della città. In una situazione in cui lo sviluppo urbano si è per anni focalizzato sulla costruzione, la crescita e il profitto, le organizzazioni qui coinvolte hanno recentemente deciso di (e sono state forzate a) mettersi al passo. Insieme al Dipartimento di Urbanistica, al Mobiel projectbureau OpTrek e al TU Delft si delineano e testano nuove prospettive nel costruire la città. Servono un nuovo metodo di lavoro e una nuova etica, che richiederanno un modo diverso di lavorare, guardare, apprezzare, finanziare, controllare, progettare e regolare. Quanto ciò avvenga in modo diverso, quello è il tema di Haagse Havens.
The project Haagse Havens (Harbours of The Hague) has been initiated by Stroom Den Haag (The Hague) to explore new ways of urban development, for which the industrial area Haagse Havens functions as a training ground. In this area the typical urbanistic “blueprint” planning failed, and a new start is sought starting from the existing situation, instead, and in active collaboration with local, small-scale actors. This approach calls for a much better understanding of the current qualities, a more flexible handling of urban planning and regulation, a different way of designing and a better use of the capital available beyond money, in form of available time, energy, love and commitment of entrepreneurs and residents in the area. With Haagse Havens, Stroom continues a line of activities that have brought this center for art and architecture over the period of a decade increasingly closer to shaping the actual physical organisation of the city; as a cultural institution it has thus become itself an active agent in the (re) development of the city of The Hague, spearheading new alliances to experiment the city’s future. In the situation where for years urban development focused on construction, growth and profit, the actors involved here have recently decided (and have been forced) to mark time. Together with the Department of Urbanism, Mobiel projectbureau OpTrek and the TU Delft new perspectives on making city are being sketched and tested. There is a need for a new working method and ethos, which will require a different way of working, looking, appreciating, financing, controlling, designing and regulating. How different exactly, is the subject of Haagse Havens.
Stroom Den Haag è un centro indipendente per l’arte e l’architettura fondato nel 1989 che copre un ampio raggio di attività. Stroom, in collaborazione con altre istituzioni, vuole contribuire allo sviluppo permanente di riflessioni sulla città e sul ruolo che le arti visive possono interpretare in tale realtà.
Stroom Den Haag is an independent centre for art and architecture with a wide range of activities, founded in 1989. Stroom, in collaboration with other institutions, wants to contribute to the permanent development of the reflection on the city and the part that can be played by the visual arts in this context.
www.haagsehavens.cc, www.stroom.nl
www.haagsehavens.cc, www.stroom.nl
UNO SCAMBIO CON
Francien van Westrenen (curatrice di Stroom Den Haag) Il coinvolgimento di Stroom nell’esplorare, inventare, sviluppare e testare un nuovo approccio verso lo sviluppo urbano risale a qualche tempo fa. Di fatto Stroom, come organizzazione culturale, ha essa stessa gradualmente assunto il ruolo di una sorta di imprenditore edile. Cosa vi ha spinto in questa direzione? Le nostre motivazioni sono radicate nel potere dell’arte di orientare la nostra visione della realtà verso nuovi orizzonti, elemento che è alla base di tutti i nostri progetti. Ciò che si è rafforzato nel corso del tempo è la nostra coscienza sociale. Dal 2005 siamo diventati una piattaforma che si impegna a contribuire alle problematiche urbane. Parallelamente è diventata più forte la richiesta di alternative da parte della società. Il mondo dell’arte può effettivamente aiutare nella ricerca di alternative al modo convenzionale in cui la città funziona. Un artista, per esempio, non si
prefigura necessariamente un’immagine finale ma crea quell’immagine durante il processo di realizzazione, attraverso la ricerca, lasciando spazio a idee inaspettate, dove giocano un ruolo l’improvvisazione e la temporalità. Inoltre, dalla sua posizione autonoma, un artista può fare domande diverse, domande che cambiano la nostra visione della realtà, domande che mirano a ciò che è stato dimenticato o trascurato. Stroom vede la sua mission nel mediare tra questa autonomia radicale dell’arte e la pragmatica realtà della società. Il progetto di Haagse Havens è emerso nel 2011 in seguito a un bando della Biennale d’Architettura di Rotterdam per il programma Counter Sites: aree in cui si assume un approccio particolare verso specifiche sfide urbane. All’interno di questa cornice, Stroom ha proposto al Dipartimento di Urbanistica della città dell’Aia di presentare l’area di Binckhorst come un laboratorio per una nuova forma
di urbanesimo. Alla fine è poi emerso il programma congiunto di Haagse Havens, in collaborazione con la curatrice urbana Sabrina Lindemann (Mobile project office OpTrek) e l’architetto Job Roos (dell’Università di Tecnologia di Delft). Reazioni di svolta e di apertura di nuove strade alle sfide poste dallo sviluppo urbano—di per sé parte integrante della continua crisi ecologica ed economica—sono ampiamente assenti nel lavoro degli operatori ritenuti convenzionalmente responsabili (politici, economisti, urbanisti, architetti, ecc.). In questo vuoto, che posizione prendete con Haagse Havens? Innanzitutto la posizione di coloro che fanno domande, che osservano, che improvvisano, che mettono in dubbio: una posizione che si vede raramente nei processi urbani. Mentre gli operatori convenzionali guardano nella stessa dire-
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che riguardano problematiche urbane e sociali. Stroom è fondamentalmente un centro d’arte e architettura, ma ci stiamo sempre più presentando come mediatori indipendenti, centro di conoscenza, piattaforma per discussioni, luogo di sviluppo di progetti, scuola di vita. Per assurdo, talvolta diciamo che idealmente un’istituzione come Stroom alla fine si dissolve nella società, eliminando il confine tra arte e società. Tuttavia, c’è ancora molta strada da fare prima che la cultura sia veramente parte della norma e non un extra. L’impegno di Stroom nei processi di sviluppo urbano è visto come un coinvolgimento positivo? O vi aspettate piuttosto, per esempio, di essere tollerati come una momentanea “intrusione” da parte di un operatore culturale che ponga fine al periodo di stallo nello sviluppo di quest’area? zione e a stento si prendono un momento per ripensare, noi abbiamo mostrato approcci alternativi alla comprensione del contesto urbano, e possibilità di sviluppo in quest’area, molto prima che le altre figure coinvolte li afferrassero. In secondo luogo stiamo giocando il ruolo di imprenditori, principalmente incaricando artisti e architetti di dare un impulso all’area urbana sviluppando proposte che si distinguano per la loro capacità di innovare o di porsi in contrasto. Questa posizione è simile al nostro coinvolgimento nell’arte nello spazio pubblico ma, nel caso dell’area di Binckhorst, siamo parte di un processo urbano più ampio con forze in azione ancora più difficili da influenzare. Ci vogliono quindi molto tempo e una dedizione quotidiana. Questa è anche la ragione per cui abbiamo iniziato a collaborare con una curatrice urbana, che si è trasferita a Binckhorst più di un anno fa. Stiamo anche lavorando con partner sociali, imprenditoriali e culturali che in qualsiasi evenienza hanno la capacità e la volontà di continuare il progetto a lungo termine. Un terzo ruolo può essere quello di mediatore e tramite tra le diverse parti e persone coinvolte nell’area. Ciò che interessa a Stroom è il modo in cui la città si sviluppa, non il riscontro economico, cosa che dà una certa posizione d’indipendenza al nostro impegno a lungo termine nell’area. Ma, come detto, ci sono poteri in azione che non possono essere controllati. C’è la minaccia di un’enorme disfatta finanziaria per l’area di Binckhorst, il che significa che la nostra influenza è ancora modesta. Per Stroom queste posizioni sono una scelta cosciente, non un impegno temporaneo che riguarda solo questo progetto. Siamo convinti che all’interno del mondo dell’arte vengano dette e fatte cose di grande valore per i processi
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Il fatto che in Haagse Havens, Stroom collabori con il Dipartimento di Urbanistica dell’Aia significa che ci stanno prendendo seriamente, specialmente nel nostro ruolo di “coloro che fanno domande”. Per loro non siamo semplicemente un elemento provvisorio ma un partner in uno sforzo congiunto alla ricerca di un nuovo approccio verso lo sviluppo urbano. Ma il processo è stato complicato. Anche come partner nel progetto abbiamo scoperto che parlavamo talvolta due linguaggi completamente differenti e optavamo per un diverso approccio alla situazione. Si potevano a grandi linee distinguere due tipi di persone. Primo, coloro che credono che il cambiamento nel modo in cui lavoriamo sia inevitabile perché il contesto è cambiato (e non per via della crisi!). Il loro approccio è: smetti di disegnare e inizia a parlare alla gente per scoprire ciò che vuole—che è probabilmente qualcosa di diverso rispetto a ciò che un urbanista ha in mente. E secondo, coloro che pensano: con qualche piccolo accorgimento ce la possiamo fare, specialmente se ci atteniamo a ciò in cui siamo bravi, come progettare e disegnare. Stroom mantiene la prima posizione, quella critica, quella che alcune persone trovano irritante e non così importante. Ma con il nostro intervento con Haagse Havens siamo almeno riusciti a dimostrare come partendo dalle caratteristiche dell’area stessa (invece che dalle idee degli urbanisti) sia possibile smuovere una situazione di assoluta passività. Durante un’intervista Charles Esche, direttore del Van Abbemuseum, ha detto: “Non so se l’arte e la cultura siano il posto giusto per fare ciò che voglio fare. È la migliore opzione disponibile al momento. Ma penso che noi dobbiamo restare autocritici a proposito dei nostri limiti disciplinari.” Pensa o
ha esperienza del fatto che assumere il ruolo di organizzazione culturale in impegni come Haagse Havens sia controverso o rischioso? Non potremmo che concordare con la citazione di Charles. Viene dai nostri cuori. Ma necessita di un’attenta lettura: crediamo fermamente che l’arte sia la giusta disciplina da impegnare in queste problematiche e tematiche. Grazie alla sua natura autonoma, l’arte può contribuire alla società in modo distintivo. Se l’arte dovesse essere messa al servizio di obiettivi esterni, il suo risultato cadrebbe nella categoria di consulenza, marketing o lavoro sociale di bassa qualità. Tuttavia, così come (secondo molti) l’architettura deve “andare a letto col potere” per esistere, ed è quindi pervasa di potere, l’arte è inerte e senza potere. Nei migliori dei casi legittimata. Dobbiamo quindi chiederci se il contesto dell’arte è il luogo giusto per creare la potenziale rilevanza sociale di un manifesto artistico. Probabilmente no. Ma qual è allora il posto giusto? La nostra strategia porta ad una posizione che va oltre a quella di una regolare istituzione d’arte—“tuffandosi sotto il radar della gestione del traffico nel mondo dell’arte”—permettendoci così di ispirare parti della società al di là del mondo dell’arte. In quel modo ci avviamo verso nuovi spazi, esplorando nuovi territori. Qualche volta fisicamente, organizzando progetti e mostre in luoghi inediti, qualche volta metaforicamente, modificando le premesse che stanno alla base dei programmi culturali, incluso il nostro. In tutto ciò il problema più grande è probabilmente trovare una posizione d’influenza per l’arte e gli artisti, senza compromettere il loro punto di partenza autonomo. (Agosto / settembre 2012)
“SCHERZANDO OGNI TANTO DICIAMO CHE UN’ISTITUZIONE COME LA NOSTRA POTREBBE FINALMENTE INSERIRSI NELLA SOCIETÀ, CHE LA BARRIERA TRA ARTE E SOCIETÀ È STATA SOLLEVATA. MA C’È ANCORA MOLTA STRADA DA FARE PRIMA CHE LA CULTURA SIA DAVVERO PARTE DELLE POLITICHE E NON SIA CONSIDERATA UN EXTRA.” STROOM DEN HAAG “JOKINGLY WE SOMETIMES SAY THAT AN INSTITUTION LIKE OURS IDEALLY WOULD EVENTUALLY GO UP IN SOCIETY, THAT THE BOUNDARY BETWEEN ART AND SOCIETY HAS BEEN LIFTED. BUT THERE’S STILL SOME WAY TO GO BEFORE CULTURE IS REALLY PART OF THE POLICY AND NOT SOMETHING EXTRA.” STROOM DEN HAAG
Francien van Westrenen (curator architecture at Stroom Den Haag) AN EXCHANGE WITH
Stroom’s involvement in exploring, inventing, developing and testing a new approach to urban development goes back quite a while. De facto, Stroom, as a cultural organization, has gradually taken up the role of a developer of sorts itself. What has been the drive behind this? Our motivation is rooted in the power of the arts to tilt our view of reality towards new horizons, which is the base of all our projects. What has become stronger in the course of time is our social consciousness. Since 2005, we have grown into a platform that commits to contributing to urban issues. In parallel, society’s demand for alternatives has also grown stronger. In the search for alternatives to the conventional way of working in the city, the art world can actually be of help. An artist, for example, does not necessarily depart from a final image, but creates that image during the process of making, by using research, space for unexpected ideas, where improvisation and temporality play a role. Also, from his/her autonomous position, an artist can ask different questions, questions that can shift our view of reality, questions that point to what has been forgotten or overlooked. Stroom sees its mission in mediating between this radical autonomy of the arts and the practical reality of a society. Haagse Havens emerged as a project in 2011, following a call by the International Architecture Biennial Rotterdam for the program Counter Sites: areas in which a special approach to specific urban challenges is taken. Within this framework, Stroom proposed to the Urban Planning Department of the city of The Hague to present the Binckhorst area as a laboratory for a new form of urbanism. Ultimately, in collaboration with urban curator Sabrina Lindemann (Mobile project office OpTrek) and architect Job Roos (Delft University of Technology), the joint program Haagse Havens emerged. Breakthrough and pioneering responses to the challenges of urban development—itself an integral contributor to the ongoing ecologic and economic crisis—are largely absent from actors conventionally expected accountable (politicians, economists, planners, architects, etc.). In this void, what position do you take with Haagse Havens? First of all the position of the questioner, of the observer, of the improvisator, of the doubter: a position you rarely see in urban processes. While conventional actors gaze in the same direction and hardly take a moment to rethink, we’d shown alternative approaches to the understanding of the urban context and the possibilities of urban
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development in this area long before the others involved grasped them. Secondly we’re playing the role of developers, mostly by commissioning artists and architects to give an impulse to the urban area by developing proposals that excel for their innovative or counter-acting capacity. This position is similar to our involvement with art in the public space, but in the case of the Binckhorst area we’re part of a larger urban process with even more powers at work that are hard to influence. It therefore takes a lot of time and almost daily attention. That’s also the reason why we’ve started collaborating with an urban curator, who moved to the Binckhorst area more then a year ago. We are also working with social, entrepreneurial or cultural partners who are, at a given moment, able and willing to continue the project on the long run. A third role might be that of a mediator and interconnector between different parties and people involved in the area. Stroom’s concern and interest lies in the way the city develops and not in making money from this, which gives us a certain independent position in our long-term engagement here. But, as said, there are powers at work that can’t be controlled. There’s a huge financial debacle hanging over the Binckhorst area, which means that our influence is still modest. For Stroom these positions are a conscious choice—not a temporary engagement that concerns this project only. It’s our belief that within the art world things which are of great value for processes regarding urban or social issues are being said and done. Stroom is basically an art and architecture centre, but we’re presenting ourselves more and more as an independent mediator, a centre of knowledge, a platform for discussion, a developer of projects, a school of life. Jokingly, we sometimes say that ideally an institution like Stroom eventually disperses into society, lifting the boundary between art and society. However, there’s still a long way to go before culture is really part of the policy and not an extra. Is Stroom’s engagement in urban development processes seen as a welcome involvement? Or do you rather expect it to be tolerated as a temporary “intrusion” by a cultural actor to break the current deadlock in the development of the area, for instance? The fact that, in Haagse Havens, Stroom now collaborates with the Department of Urbanism of The Hague means that they are taking us seriously, especially in our role of questioners. We’re not merely an interim actor for them, but a partner in a joint effort to find a new approach to urban development. But the process was a complicated one. Even as partners in this project, we discovered that we sometimes spoke utterly different languages and chose a different approach to the situation. In the process you could distinguish
roughly two types of people. First, those who believe that change of the way we’re working is inevitable because the context has changed (and not only because of the crisis!). Their approach would be: stop drawing, start talking to people to find out what they want—which is probably something different from what you have in mind as a planner. And second, those who think: with some small adjustments we can manage, especially when we stick to what we’re good at, for example designing and drawing. Stroom holds the former, critical position, that some people find disturbing and of no great importance. But with our interference with Haagse Havens I think we at least showed that by starting out from the qualities of the area itself (instead of the ideas of the planner) action is possible in a very passive situation. Charles Esche, director of Van Abbemuseum, has stated in an interview: “I don’t know if art and culture are completely the right place to do what I want to do. It is the best option available at the moment. But I think we have to remain self-critical of our own disciplinary borders.” Do you consider or experience your take of the role of a cultural organisation in engagements like Haagse Havens to be (potentially) controversial or risky? We couldn’t but agree with Charles’s quotation. It’s taken from our hearts. But it needs close reading: we firmly believe that art is the right discipline to engage in these issues and subjects. Due to its autonomous germ, art can contribute in a distinctive way to society. If art were put to the service of external objectives, its results would fall into the category of second-rate consultancy, marketing or social work. However, just as architecture (according to many) has to “sleep with power” in order to exist, and is therewith also imbued with power, art is the wallflower and stands powerless. Condoned, at its best. So, we do need to ask ourselves if the art context is the right locus to make the potential social relevance of art manifest. It probably isn’t. But which one is? Our strategy leads to a position beyond that of a regular art institution—“diving under the radar of the traffic management in the art world”—thus enabling to inspire beyond that art world to other parts of society. With that, we’re heading for new grounds, entering unknown territory. Sometimes physically, by organizing projects and exhibitions in unprecedented venues, sometimes metaphorically, by re-adjusting the premises that underlie cultural programs, including our own program. In this, probably the most difficult problem is finding an influential position for art and artists, without compromising their autonomous starting point. (August / September 2012)
IN MOSTRA :
ESPOSTI: poster che richiamano l’attenzione su una diversa lettura e su un diverso punto di vista, che facciano comprendere il potenziale dell’area Haagse Havens, e una rivista che presenta in modo dettagliato il nuovo approccio sperimentato da Stroom e dai suoi partners ad Haagse Havens. CAMPAGNA DI MANIFESTI DI
Haagse Havens Roosje Klap, in collaborazione con Ferguut den Boer, Tom Lugtmeijer, Duygu Ölçek, Irene Salo (studenti di Graphic Design, Royal Academy of Art, The Hague). Poster, vari formati, 2012
Haagse Havens MAGAZINE Squadra del progetto: Erik Pasveer e Loes Verhaart (Comune de L’Aia), Arno van Roosmalen e Francien van Westrenen (Stroom Den Haag), Sabrina Lindemann (Mobiel Projectbureau OpTrek), Job Roos (MIT/Delft University of Technology); design: Koehorst in
‘t Veld. Magazine, realizzato per la 4a Biennale Internazionale d’Arte di Rotterdam, 2012. IMMAGINE IN ESPOSIZIONE: vista sugli Haagse Havens, con il loro curioso mix di industria, attività portuali, piccole imprese, uffici e abitazioni—il palcoscenico per un nuovo approccio nei confronti dello sviluppo urbano guidato da Stroom Den Haag. (Foto: Joris Wijsmuller).
IN THE EXHIBITION :
FEATURED: posters that call our attention to a different reading, but also to a different understanding of the potential of the area of Haagse Havens, and a magazine that details the new approach pioneered by Stroom and its partners in Haagse Havens. POSTER CAMPAIGN OF Haagse Havens Roosje Klap, in collaboration
with Ferguut den Boer, Tom Lugtmeijer, Duygu Ölçek, Irene Salo (students Graphic Design, Royal Academy of Ar t, The Hague). Posters, various formats, 2012 Haagse Havens MAGAZINE Project team: Erik Pasveer and Loes Verhaart (Municipality of The Hague), Arno van Roosmalen and Francien van Westrenen (Stroom Den Haag), Sabrina Lindemann (Mobiel Projectbureau OpTrek), Job Roos (MIT/Delft University of Technology); design: Koehorst in ‘t Veld Magazine, made for the 4th International Architecture Biennal Rotterdam, 2012. BILLBOARD IMAGE:
view on the Haagse Havens, with its curious mix of industry, harbour activities, small-scale enterprises, offices and housing—the setting for a new approach to urban development spearheaded by Stroom Den Haag. (Photo: Joris Wijsmuller).
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PRODUZIONE (COLLETTIVA)
introdurre economie peer-to-peer che mettano in gioco (materialmente e intellettualmente) i concetti di proprietĂ , rappresentazione e competizione
(COLLECTIVE) PRODUCTION
introducing peer-to-peer economies that challenge
(material and intellectual) property, representation and competition
Con MACAO (Milano), un eterogeneo gruppo di artisti, curatori, critici, guarda sala, designer, performer, attori, danzatori, musicisti, scrittori, giornalisti, insegnanti d’arte, fotografi, videomaker, tecnici ricercatori, studenti si è riconosciuto come cuore dell’economia creativa di Milano, affermando collettivamente l’intenzione di non assecondare i meccanismi di mancata redistribuzione e di sfruttamento attualmente in atto negli ambiti artistici e culturali della città. Avamposto del terziario avanzato, essi rifiutano di sottostare a precarie condizioni lavorative, quali ad esempio la difficoltà di accesso al reddito, l’assenza di protezioni e coperture assicurative, l’impossibilità di essere considerati interlocutori nelle discussioni per le attuali riforme del lavoro. Assieme hanno dato vita ad un processo costituente che ripensa le forme di produzione e di fruizione dell’arte proponendo un’idea di cultura come soggetto attivo di trasformazione sociale, prodotta attraverso la messa al servizio delle proprie competenze e intelligenze per la costruzione del bene comune. Mentre non è di per sé nuovo che artisti trattino temi quali la logica e l’economia sottostanti al sistema dell’arte, ciò che è particolarmente significante nel caso di MACAO è l’intenzione di cambiare collettivamente i modelli stessi di produzione. MACAO è uno spazio per riunirsi e inventare un nuovo sistema di regole per una gestione comune e partecipata che, in maniera autonoma, ridefinirà il tempo e le priorità del lavoro e consentirà di sperimentare nuovi linguaggi comuni di produzione culturale. Dopo il succedersi di una serie di occupazioni e sgomberi di spazi pubblici in disuso, MACAO si è stabilito in un mattatoio abbandonato. Si tratta di un luogo dove incontrare e creare un nuovo sistema di regole per una forma di gestione condivisa e partecipata che, autonomamente, ridefinirà i tempi e le priorità del lavoro e consentirà la sperimentazione di nuovi linguaggi comuni di produzione culturale.
With MACAO (Milan), a miscellaneous group of artists, curators, critics, museum wardens, designers, performers, actors, dancers, musicians, writers, journalists, art professors, photographers, videomakers, technical researchers, students and others—has established itself at the heart of the Milan’s creative economy. They collectively express the intention not to comply with the lack of redistribution and with the exploitation mechanisms currently in place in the art and culture fields of the city. As outposts of the advanced tertiary sector, they refuse to be subjected to precarious working conditions, which mean a difficulty in having a regular income, an absence of protection and insurance cover, an impossibility to take part in discussions relative to changes in work regulations. Together they created a constituent process which rethinks the forms of art production and fruition, proposing the idea of culture as an active element of social transformation, triggered by the services of skills and competences aimed at the common good. While it is not something new for artists to deal with topics like the logic and the economy underlying the art system, what makes MACAO’s project particularly meaningful is its intention to collectively change the actual models of production. After a cat-and-mouse sequence of occupations of deserted public and private spaces, MACAO settled in an abandoned slaughterhouse. It is a place to meet and create a new system of rules for a shared and participative form of management, which, autonomously, will redefine timings and priorities of the work, and will allow the experimentation of new common languages of cultural production.
MACAO è il nuovo centro per l’arte, la cultura e la ricerca di Milano. L’iniziativa è cominciata quando un gruppo di lavoratori delle arti ha aperto, attraverso assemblee pubbliche, un confronto sulla propria condizione lavorativa e sui modelli di produzione, affermando la cultura come bene comune. Diversi i luoghi attraversati da MACAO. Partendo dall’occupazione, nel maggio del 2012, dei 33 piani abbandonati della Torre Galfa, sgomberata dopo 10 giorni, MACAO ha occupato la strada sottostante ottenendo una forte attenzione da parte della città. Oggi sta occupando il macello nel complesso del dismesso mercato generale di Milano.
MACAO is a new centre for art, culture and research in Milan. The initiative started when a group of art workers opened a debate on their working conditions and the models of production through public meetings, declaring culture a common good. MACAO has moved through different sites. Starting from the occupation, in May 2012, of 33 floors of the abandoned Torre Galfa, cleared after ten days, MACAO then occupied the street just below, gaining the city wide recognition. Today it is occupying the slaughterhouse at Milan’s former wholesale market area.
www.macao.mi.it
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UNO SCAMBIO CON
i membri di MACAO MACAO ha raccolto una sfida specifica: creare una “non-istituzione” strutturata per indagare, ripensare e ricostruire la logica e l’economia della produzione culturale. Com’è nata quest’idea? E che cosa vi ha reso possibile mettere da parte la vostra produzione artistica/culturale personale (almeno per un po’) per cominciare ad affrontare la logica a essa sottostante? Nel 2011 abbiamo cominciato a promuovere assemblee in cui operatori nel campo della cultura discutevano delle condizioni in cui si trovavano durante la produzione del loro lavoro. Queste riunioni hanno fatto affiorare come l’espressione artistica dipenda fortemente dal modo in cui gli artisti vivono,
dal grado di accessibilità ai mezzi di produzione e dal grado di emancipazione dei tanti sistemi di controllo a cui sono soggetti. A dicembre 2011 abbiamo occupato il PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea) di Milano, assieme a cittadini non riconducibili a particolari movimenti politici o a correnti artistiche. Questo è stato il vero momento di svolta. Abbiamo preso la decisione di fare un’assemblea dei cittadini per discutere di come una serie di spazi culturali, che erano stati privatizzati e resi entità di profitto, sarebbero dovuti tornare a uso pubblico, cioè definiti e gestiti dal basso. Sono seguite poi altre azioni, come l’occupazione della Torre Galfa, un grattacielo nel cuore di Milano, abbandonato da 16 anni e proprietà di uno dei più potenti e corrotti speculatori edilizi
e finanziari d’Italia. Il fatto che migliaia e migliaia di persone abbiano dimostrato di volere cambiare il corso della storia della città, trasformando quel grattacielo in un centro di produzione culturale autogestito, è un gesto molto significativo. Se da una parte la speculazione edilizia e finanziaria condiziona la produzione culturale, obbligando l’arte ad avere una funzione di ornamento, di moneta di scambio o di pretesto per accumulare il reddito a favore di pochi e a danno di molti, dall’altra MACAO ha cercato di fare arte spezzando questo meccanismo, creando degli spazi che possano innescare processi alternativi. Per farlo, il lavoro di analisi politica e culturale del contesto in cui si opera è essenziale al fine di creare azioni uniche e irripetibili. Tale lavoro di condivisione delle nostre
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conoscenze è assolutamente una forma di produzione artistica e culturale. Dobbiamo combattere la percezione che MACAO sia la storia di alcuni artisti che smettono di fare arte per dedicare un po’ di tempo alla politica e alla protesta, ma che finiranno poi col tornare ai loro lavori e a un successivo processo di istituzionalizzazione e normalizzazione. Nella primavera 2012, MACAO ha indetto un bando per la presentazione di progetti che ha ottenuto un impressionante numero di risposte. Come gestite la sfida che questi progetti non diventino “soltanto” un pool di produzioni artistiche senza ricostruire radicalmente la logica della produzione che sta alle loro spalle, soprattutto se si comprende la precarietà della posizione dei membri stessi di MACAO e la pressione nel generare una produzione artistica da qualsiasi fonte di finanziamento che diventi disponibile? La formula del bando è intesa anch’essa come una provocazione. È stato gestito con una logica diametralmente opposta al modo in cui questo strumento viene usato dalle istituzioni potenti. Invece di creare una lobby, favoritismi e grandi privatizzazioni, il concorso divenne un primo porto d’accesso verso la costruzione di un centro per l’arte, attraverso un processo collettivo. La necessità di affrontare la questione della trasformazione degli artisti in “lavoratori creativi” è una delle ragioni che ha fatto emergere MACAO. C’è un’ovvia mancanza di strutture o istituzioni che supportino i lavoratori precari in questo settore dell’economia urbana che si sta velocemente imponendo. Che posizione prende MACAO? Un po’ di tempo fa un Ministro dell’Economia italiano, per giustificare i tagli ai
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fondi pubblici per la cultura, disse che “di cultura non si mangia”. Dalla nostra indagine risulta che a Milano 66.000 persone all’anno trovano impiego nel settore delle “industrie creative”: da grafici a guardasala dei musei, da macchinisti in grandi eventi a performer, da pubblicisti a designer, da fotografi ad attori... un’area attualmente al primo posto nella produzione economica. Le industrie creative non sono qualcosa da aiutare e da preservare, sono essenziali a qualsiasi città europea per potersi assicurare un ruolo sulla mappa del rilancio economico dei prossimi anni. L’inganno retorico del Ministro ha quindi lo scopo di svalutare proprio ciò su cui si può poi iniziare a speculare. Si distruggono il welfare e i diritti contrattuali dei lavoratori creativi con la scusa che ci sono altre priorità, quando si possono invece fare affari appetitosi sull’elevato costo della formazione professionale, la non contrattualizzazione e lo sfruttamento di questo settore. Affermando, da più di un anno, come la cultura sia un bene comune, MACAO ha
capito che la vera sfida sta nell’inventare dei processi costituenti di nuove istituzioni civili e di nuovi modelli di produzione. Come si relazionano le autorità cittadine e gli altri operatori connessi alla logica della produzione culturale alle attività di MACAO in questo settore chiave dell’economia? MACAO ha provocato un’onda d’urto piuttosto ampia che ci ha posto di fronte a una serie di situazioni e reazioni piuttosto diversificate. Gli interlocutori istituzionali e le reti organizzate che si sentono in dovere e nell’interesse di avere a che fare con ciò che MACAO rappresenta, in alcuni casi rispettano e partecipano in modo attivo al processo, in altri lo osteggiano in modo ideologico e competitivo, o cercano di approfittarne, non riconoscendo, però, la complessità e l’unicità del suo processo complessivo. A un certo punto, per esempio, il comune di Milano ha cercato di ridurre MACAO a un problema di luoghi per l’arte. MACAO non sta lavorando per una maggiore offerta di atelier per artisti, ma per un ripensamento dei metodi di produzione della cultura. L’agenda del comune di Milano è sensibilmente cambiata da quando MACAO è nato. Si è, ad esempio, riacceso il dibattito sugli spazi inutilizzati della città da destinare ad attività culturali. L’assessore De Cesaris ha coraggiosamente proposto di vietare a chiunque sia proprietario di un immobile sfitto o in disuso di poterne costruire uno nuovo. Tutti i palazzinari le hanno dichiarato guerra rendendo facilmente irrealizzabile la sua provocazione. Quello che stiamo chiedendo a tutti gli interlocutori istituzionali è di valorizzare il processo di MACAO e di aiutare a dargli sostanza e a costruirlo dal basso secondo le loro aree di competenza, basate sui principi del bene comune, della democrazia diretta e della legittimazione di nuove forme di auto-governo. Quello che invece non accettiamo è che si guardi a MACAO
solo per alcuni dei suoi aspetti – i suoi ideali sono buoni ma l’occupazione è illegale; la portata politica non può essere sottovalutata ma le regole orizzontali e di condivisione decisionale non possono funzionare... Questo atteggiamento di “vivisezione amica” è particolarmente insidioso in molti ambiti e crediamo che non sia che un’anticamera a processi di sussunzione e di lento decadimento. Con MACAO, voi esplorate un modello organizzativo che si basa sul lavoro collettivo (i tavoli) che si discosta radicalmente da molti dei modelli (gerarchici, o quasi di rappresentanza) che abbiamo conosciuto fino ad ora. Come è nato il modello dei tavoli? I tavoli nascono dall’articolazione delle competenze interne che ci sono a MACAO. Se ci sono architetti automaticamente si forma un tavolo di architettura, se ci sono ricercatori uno di teoria, cineasti uno di video, giardinieri uno di giardinaggio, e così via... Quest’articolazione disciplinare è funzionale alla strutturazione di MACAO. Naturalmente le competenze di ogni tavolo vanno a comporre l’organigramma organizzativo e produttivo di MACAO. C’è poi un altro elemento organizzativo che è trasversale e comprensivo di ogni tavolo e che è l’assemblea gestionale. Queste assemblee sono inclusive e aperte a chiunque abbia un ruolo attivo in MACAO, non seguono il metodo del voto ma del consenso: per decidere e approvare un orientamento piuttosto che un altro, occorre che tutta l’assemblea sia concorde e che nessuno si opponga. Rifiutiamo l’idea di delega e di leader per non cadere in un consolidamento di potere gestito da pochi e in modo gerarchico. Ci sforziamo di alternare i rappresentanti e le figure di spicco, anche qualora qualcuno sia effettivamente più efficace e più adatto a ricoprire quel ruolo. La democrazia partecipata è un lavoro serio e difficile da affrontare con rigore,
intelligenza e molta perseveranza. Da una parte occorre mantenere regole che garantiscano l’accessibilità e l’inclusività continua del maggior numero di attori possibili, dall’altra occorre avere una sapienza condivisa e comune su come affrontare la staticità, la scarsa agilità decisionale e l’abbassamento della qualità del lavoro che sono spesso sinonimi di orizzontalità. Questo è un campo di battaglia su cui costruire relazione e processo. Credete forse che il modello dei tavoli si svilupperà in un vero e proprio modello per la produzione culturale in sé? Come diventerebbe la produzione culturale in questo caso? Non c’è costruzione del “common” al di fuori di un terreno di conflitto. Occorre quindi avere ben presente che il comune non è qualcosa di dato, su cui c’è semplicemente da trovare un accordo nell’ottica di una semplice condivisione di interessi tra pari, ma è il frutto di una lotta che parla di un mondo fatto di disparità, di mancata redistribuzione del reddito e dei diritti delle persone e dei territori, che parla di lavoro vivo sistematicamente messo a valore dai grandi capitali. Noi siamo all’interno di questa contraddizione e non possiamo utopisticamente immaginarci in un “al di fuori” inefficace, illusorio e inesistente. Per questo la rete di tutti gli spazi occupati in campo culturale, di cui MACAO fa parte, si sta interrogando su come poter istituire nuovi modelli di produzione e di condivisione dei bisogni e delle risorse. Molte persone stanno mettendo le loro competenze, il loro tempo e i loro beni per costruire dal basso questa cooperazione. Ma questo richiederà la collaborazione di istituzioni esistenti come università e centri di ricerca e di produzione che favoriscano la crescita di questo processo. (Settembre 2013)
AN EXCHANGE WITH
members of MACAO MACAO has taken on a particular challenge—to create a structured “non-institution” to investigate, rethink and remake the logic and economy of cultural production. How did that come about, and what has made it possible for you to (at least for a while) set aside your personal artistic/cultural production in order to address its underlying logic? In 2011, we began promoting assemblies where workers in the field of culture discussed the conditions they found themselves in during the production of their work. These assemblies brought to the surface that the question of artistic expression strongly depends on the way you live, on the level of accessibility of the means of production and on the level of emancipation towards the many control systems that we are subject to. Then, in December 2011 we occupied PAC (the Contemporary Art Pavilion) in Milan, joined by citizens not affiliated to any particular political movement or artistic current. This was a real turning point. The decision was taken to conduct a citizens’ assembly to discuss how a number of cultural spaces that have been enclosed and turned into for-profit entities should be returned to a public use, which means determined and selfmanaged from the bottom up. Other actions followed, like the occupation of the Galfa Tower, a skyscraper which had been standing abandoned for over 16 years in the centre of Milan. It belongs to one of the most influential and corrupt speculators in Italy. The fact that thousands and thousands of people have come together around the Galfa Tower and demonstrated their will to change the course of the city’s future—by transforming that skyscraper into a self-managed centre for cultural production—was a very significant gesture. If on one hand real estate and financial speculators condition cultural production, forcing art to have an ornamental function, to be a commodity or a pretext to accumulate revenue for a few at a cost of many, on the other hand MACAO has tried to make art smash this very system, creating spaces that can trigger alternative processes. In doing so, a work of political and cultural analysis of the context is a precondition to construct unique and unrepeatable actions. This work of sharing our knowledge is absolutely a form of artistic and cultural production. And we need to discredit the perception that MACAO is a story of some artists who stopped making art for a while in order to spend a bit of time on politics and protest, but who would eventually go back to their work and the subsequent process of industrialisation and normality.
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“STIAMO REALIZZANDO CHE LA QUESTIONE DELL’ESPRESSIONE ARTISTICA DIPENDE FORTEMENTE DAL MODO IN CUI SI VIVE, DAL LIVELLO DI ACCESSIBILITÀ AI MEZZI DI PRODUZIONE E DAL LIVELLO DI EMANCIPAZIONE DAI NUMEROSI SISTEMI DI CONTROLLO CUI SIAMO SOTTOPOSTI.” MACAO
“WE ARE REALISING THAT THE QUESTION OF ARTISTIC EXPRESSION STRONGLY DEPENDS ON THE WAY YOU LIVE, ON THE LEVEL OF ACCESSIBILITY OF MEANS OF PRODUCTION AND ON THE LEVEL OF EMANCIPATION FROM THE MANY CONTROL SYSTEMS THAT WE ARE SUBJECT TO.” MACAO
In spring 2012 MACAO opened a call for projects that received an impressive amount of responses. If you realise how precarious the position of the members of MACAO is, and the pressure of generating an artistic production from any financial source that might be available, how do you manage the challenge for these projects not to become “merely” a pool of artistic creation, without radically rebuilding the logic of production that sits on their shoulders? MACAO’s call was equally intended to be a provocation. It was managed in the diametrically opposite way to the way this device is used by powerful institutions. Instead of creating a lobby, favouritism and grand enclosures, it became a first port of access towards the construction of the centre for art through a collective process. A necessity to address the transformation of artists into “creative workers” is one of the reasons for MACAO to emerge. There is an obvious lack of structures or institutions that support precarious workers in this rapidly establishing part of the urban economy. What position does MACAO take in this? A little while ago, in order to justify cuts to public funding in culture, an Italian Minister of Economy said: “you can’t eat culture”. According to our research, Milan has 66,000 workers annually entering this vast sector of “creative industries”—from graphic designers to museum invigilators, from conductors of large events to performers, from publicists to designers, from photographers to actors—a sector that is currently in first place in economic production. The creative industries are not something marginal to be helped and preserved; on the contrary, without them no large European city could secure a place on the map of economic revival in the next years. Therefore this Minister’s rhetorical trick has the aim to devalue something on which one can consequently start speculating. Welfare and contract rights of creative workers are destroyed with the excuse that there are other priorities, when instead the most attractive deals can be made on the elevated cost of professional training, the non-contractual nature and the exploitation of this sector. Therefore, by affirming culture as a common good for over a year now, MACAO has understood that the real challenge lies in inventing constituent processes of new civic institutions and new models of production. How do the municipal authorities, and others connected to the logic of cultural production, relate to the
activities of MACAO in this key segment of economy? MACAO has provoked a strong enough shock wave to get positioned at the forefront of diverse situations and reactions. The institutional spokesmen and women and the networks of organisations who feel obliged and urged to be involved with what MACAO represents sometimes respect and participate actively in the process, at other times they oppose it in ideological and competitive ways, or try to benefit from its singular aspects, while not recognising the complexity and uniqueness of this process. At a certain point, for example, the Municipality of Milan has tried to reduce MACAO to a problem of space for the arts. MACAO does not work for a better offer of artists’ ateliers, but for a rethinking of the methods to produce culture. The Municipality of Milan’s agenda, however, has noticeably changed since MACAO first came into being. There is a renewed debate to reappoint unused spaces in the city for cultural use. The local councillor De Cesaris proposed a courageous move to forbid anyone owning an unoccupied or disused building to construct a new one. The real estate speculators declared war on her, which made her proposal untenable. What we are asking to all the institutions is to enhance the process of MACAO, and help sustain it and build it from the bottom up according to their capabilities, based on the principles of common good, direct democracy and legitimisation of new forms of self-government. What we don’t accept is that MACAO is looked upon solely through some of its aspects—while its ideals are OK and good, the act of occupation is illegal; its political message can not be undervalued, but its horizontal rules and the sharing of decisions can’t work…—this selective “vivisection” is particularly insidious and we believe that it can be nothing more than an antechamber to the processes of subsumption and slow decay of its principle aspects. With MACAO you explore an organizational model based on collective work (the “tables”) that radically departs from many of the (hierarchical, or almost representational) models we have known till now. How did this model of the tables come about? The tables emerged from the articulation of the internal capabilities available at MACAO. If there are architects, a table of architecture is automatically formed. If there are researchers, one for theory; film-makers, one for video; gardeners, one for gardening, and so on… This disciplinary articulation is functional to the structure of MACAO. Naturally, the capabilities of each table go towards composing the organisa-
tional and productive organogram of MACAO. There is also another organisational element that is transversally comprehensive to every table: the managing assembly. These assemblies are inclusive and open to anyone who has an active role in MACAO. They don’t follow the voting method but rather that of consensus: to decide and approve one direction over another, the whole assembly must be in agreement with no one blocking it. We reject the idea of delegation and leaders so as not to fall into a consolidation of power managed by a few in a hierarchical way. We push for an alternating of representatives and figureheads, even if some are better than others and more suitable to the roles. Participatory democracy is a serious and difficult work. On one hand you have to maintain rules that guarantee that accessibility and inclusiveness are kept on by as large a number of activators as possible, on the other hand you have to have a shared and common wisdom on how to deal with immobility, scant agility in decisions and a flattening of quality of work that are sometimes synonymous with horizontality. This is a battleground on which to build relations and process. Do you imagine that the model of tables will grow into an actual model for cultural production itself? What would cultural production look like in that case? There is no construction of commonality outside a conflict territory. Therefore, we need to be well aware that commonality is not a given where we find agreements in the perspective of a simple division of interests between parties, but it is the fruit of a struggle that speaks of a world made from disparity, of missing redistribution of revenues and the rights of people and territory, that speaks of a living work that is systematically positioned towards the value of the great capital. We are on the inside of this contradiction and we cannot utopically imagine ourselves to be on the “outside” of ineffective and illusionary interfaces. Because of this, the network of all the occupied spaces in the cultural field in Italy, which MACAO is part of, is examining how to institute new models of production and sharing of needs and resources. Many people are inputting their abilities, their time and their good will to construct this cooperation from the bottom up. But this will also need the contribution of existing institutions like universities, research and production centres to foster the growth of this process.
(September 2013)
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IN MOSTRA :
ESPOSTI: una costellazione di tavoli, massima rappresentazione dell’organizzazione del processo decisionale e della delegazione di attività a MACAO, insieme a cartoline e a frammenti video delle loro attività. MACAO Video, 14 min, 3 min e e-book, 2012 Selezione di video e e-book/diario del Summer Camp (1 Agosto – 16 settembre 2012) di MACAO presso la Borsa del Macello di Milano. Aforismi Cartoline, 10 x 15 cm, 2012 Design: MACAO
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IMMAGINE IN ESPOSIZIONE: assemblea di MACAO nell’ingresso della Borsa del Macello (ufficialmente abbandonata e ora occupata), sui terreni del mattatoio di Milano. (Foto: Photomacao / Eugenio Marongiu).
IN THE EXHIBITION :
FEATURED: a constellation of tables, paramount for the organisation of the decision-making and the delegation of activities at MACAO, along with postcards and video fragments of their activities.
MACAO Video, 14 min, 3 min and e-book, 2012 Video selection and e-book/diary of the MACAO Summer Camp (August 1 – September 16, 2012) at Milan’s Slaughterhouse Terrains. Aphorisms Postcards, 10 x 15 cm, 2012 Design: MACAO BILLBOARD IMAGE :
assembly of MACAO in the hall of the (formerly abandoned, and now occupied) trade exchange building of Milan’s slaughterhouse terrain. (Photo: Photomacao / Eugenio Marongiu).
(INVENTARE) ABITAZIONI
rompere i giochi con la costruzione di case dal costo sostenibile
(DEVISING) HOUSING
breaking the ground with economically sustainable housing
La Row House Community Development Corporation (Corporazione per lo Sviluppo della Comunità di Row House, Third Ward, Houston) è stata istituita nel 2003 per trasferire famiglie da condizioni di vita inadeguate, in uno dei quartieri più carenti di Houston, a nuove accessibili unità abitative in affitto. Nel frattempo si sta impegnando per fornire case di proprietà nella stessa area. La Corporazione per lo Sviluppo della Comunità di Row House è una notevole progenie di ciò che una decade prima era cominciata come l’iniziativa artistica Progetto Row House (PRH), nata dalla volontà di artisti afroamericani di stabilire una presenza positiva e creativa nella loro stessa comunità. Nel 1993, quando in una delle comunità afro-americane più vecchie venne individuata, dall’artista e attivista della comunità Rick Lowe, un’area con 22 shotgun houses come sito per entrare in azione, questa divenne la perfetta opportunità di perseguire la creazione di una nuova forma d’arte. Nel 2003, la necessità di ampliare l’obiettivo del PRH per preservare la comunità (non in ultimo da promotori immobiliari opportunisti e speculatori edilizi) innescò la nascita di un affiliato meno artistico del PRH: la Corporazione per lo Sviluppo della Comunità. Da allora, la Corporazione per lo Sviluppo della Comunità di Row House ha attivato due aree con 24 unità abitative accessibili, principalmente in un adattamento contemporaneo della tipica architettura shotgun/bungalow del Third Ward. In questo momento, attraverso un progetto di Riabilitazione / Affitto-per-acquisto, aiutato da donazioni in natura e contributi finanziari da parte di donatori vari, la Corporazione per lo Sviluppo della Comunità di Row House sta acquisendo, rinnovando e affittando (a prezzi accessibili) fino a 38 ulteriori unità. La Corporazione per lo Sviluppo della Comunità di Row House non si occupa solo dell’urgenza di alloggi appropriati per residenti da basso a modesto reddito, ma mira anche a fornire spazi pubblici e a proteggere il carattere del quartiere storico.
The Row House Community Development Corporation (Third Ward, Houston) was set up in 2003 to relocate families from substandard living conditions in one of Houston’s most challenged neighbourhoods, into new affordable rental units. Meanwhile, it is working its way toward providing owner-occupied homes in the area. Row House CDC is a remarkable offspring of what a decade prior had started as the artistic initiative Project Row House (PRH), which resulted from the drive among African-American artists to establish a positive, creative presence in their own community. In 1993, when in one of the city’s oldest African-American communities an abandoned site with 22 shotgun-style houses got discovered by the artist and community activist Rick Lowe as the site to start action, this became the perfect opportunity to pursue the creation of a new form of art. In 2003, the need to broaden PRH focus to preserve the community (not least from opportunistic developers and real-estate speculators) sparked the initiation of a less artistic affiliate to PRH: the Community Development Corporation. Meanwhile, the Row House Community Development Corporation has activated two sites with 24 affordable housing units, mainly in a contemporary “duplex” adaptation of the typical shotgun/bungalow architecture of Third Ward. At this moment, through a Rehabilitation/Rent-to-Own Project assisted by in-kind and financial contributions from various donators, the Row House CDC is acquiring, renovating, and (affordably) renting up to 38 further units. The Row House CDC does not only address the urgency of appropriate housing for low-to-moderate income residents, but it also aims at providing public spaces and protect the character of the historic neighbourhood.
La Row House Community Development Corporation (Row House CDC) è nata nel 2003 come organizzazione sorella di Progetto Row House (iniziato nel 1993 da Rick Lowe, artista e attivista nella comunità, con altri artisti afroamericani), con lo scopo di concentrarsi esclusivamente sulla sfida relativa ad abitazioni economicamente accessibili nell’area Third Ward di Huston.
The Row House Community Development Corporation (Row House CDC) formed in 2003 as a sister organization to Project Row House (initiated in 1993 by artist and community activist Rick Lowe and fellow African-American artists), in order to solely focus on the issue of affordable housing in Houston’s Third Ward area.
www.rowhousecdc.org
www.rowhousecdc.org
UNO SCAMBIO CON
Rick Lowe (co-iniziatore della Row House Community Development Corporation) Il Progetto Row House (PRH) è iniziato nel 1993 dall’iniziativa di sette artisti e si è affermato come organizzazione artistica e culturale di quartiere. Dieci anni più tardi, l’organizzazione ha fatto un balzo in avanti per formare una società di sviluppo della comunità (RHCDC), rendendo disponibili alla comunità locale alloggi dal costo contenuto. Per iniziare, perché avete deciso di fare questo passo? PRH è partito dall’idea di fare qualcosa che potesse avere conseguenze pratiche sulla comunità. D’altra parte, come artisti, siamo interessati alla poetica che è parte integrante dell’arte e dell’estetica, non è quindi sorprendente che volessimo avere un effetto pratico: era il nostro scopo. Forse ci ha un po’ sorpresi lo scoprire che potevamo farlo
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effettivamente. La sfida più grande era quella di trovare un modo che avesse un impatto sostenibile a lungo termine e allo stesso tempo mantenesse vivo il nostro interesse estetico nel lavoro. La questione di come unire servizi sociali e residenziali a temi di tipo simbolico, poetico ed estetico è stata per noi una sfida come lo sono stati l’acquisire immobili, il costruire case e il provvedere servizi. Cerchiamo di tenere questi due opposti in comunicazione. Per esempio, ho fatto nascere un progetto, con PRH, che si chiama Cookie Love’s Wash and Fold che consiste, in pratica, in una lavanderia a gettone, la cui idea venne, però, da un’investigazione di tipo artistico. Ero alla mia lavanderia di quartiere a fare il bucato, dovetti allontanarmi e chiesi quindi a una signora che conoscevo di vista se poteva trasferire il mio bucato dalla lavatrice
all’asciugatrice. Quando sono tornato aveva piegato tutto per bene e dopo aver parlato un po’ con lei ho scoperto che spesso faceva il bucato per altri, e ho quindi iniziato a portarle il mio bucato. Mi venne poi l’idea di creare un’identità riconoscibile per la signora e un nuovo servizio di lavanderia chiamato Cookie Love’s Wash and Fold. L’immagine promozionale è un suo ritratto che allo stesso tempo rappresenta la soluzione a una necessità molto pratica all’interno della comunità di Row House. Questa rappresentazione artistica ha causato anche la “trasformazione” di un membro della comunità in partecipante produttivo, che è ora riconosciuto dagli altri abitanti del quartiere. In questo contesto, RHCDC si confronta con i duri effetti di uno sviluppo immobiliare opportunistico, della speculazione
e della distruzione delle istituzioni della comunità. Riesce a identificare alla mancanza di quali ruoli, istituzioni o provvedimenti stiate rispondendo con il RHCDC? O in altre parole: quale posizione (lasciata libera da qualcun altro o di nuova creazione) occupate? Siccome RHCDC possiede una significativa quantità di proprietà, la gente ci deve in qualche modo prendere seriamente. RHCDC è una piattaforma che ci dà voce in capitolo in ciò che sta succedendo nel quartiere. Ma RHCDC ha un ruolo limitato, al di là del prendere una posizione su come vorremmo che il nostro quartiere apparisse e fosse percepito costruendo un particolare tipo di alloggi. Come organizzazione artistica, PRH, d’altro canto, può essere sovversiva, provocatoria, e lavorare oltre i confini di ciò che ci si aspetta. Quindi il ruolo che PRH gioca è quello di attirare l’attenzione sulle problematiche che sorgono e di sfidare la comunità a pensare creativamente come affrontarle. Talvolta lo facciamo organizzando incontri di pianificazione e creatività, camminate per il quartiere, ecc. Altre volte, artisti che invitiamo mettono in discussione la nostra comunità e le nostre istituzioni, inclusa la nostra stessa organizzazione. Pensa che oggi sia una particolare responsabilità delle iniziative artistiche l’addentrarsi in questioni di necessità esistenziali primarie, come il provvedere alloggi in affitto o da acquistare per le classi meno abbienti? Vedo il tipo di lavoro impegnato socialmente, che mi interessa, come legato all’idea di giustizia sociale. Non dico che sia così per tutto il lavoro di impegno sociale, ma questa è certamente la mia posizione. Ci sarà sempre una lotta tra quelli che hanno il potere e quelli che ne hanno un accesso limitato. Mentre coloro che ce l’hanno possono perpetuarlo attraverso le strutture e le istituzioni che hanno lo scopo di proteggerlo, quelli che ne hanno un accesso limitato devono trovare modi per aumentare la loro influenza senza un supporto istituzionale forte e strutturato. Questi ultimi devono gestire la quotidianità della sopravvivenza e accedono raramente alla natura simbolica della loro lotta o alla connessione poetica tra essi stessi. Qui è dove gli artisti possono diventare una grande forza a favore della giustizia sociale, usando la loro creatività per generare un nuovo valore dall’interno, per aumentare il potere di coloro che vi abbiano accesso limitato. È nella natura degli artisti organizzare materiale che ha generalmente di per sé poca importanza, in modo da aumentarne il valore. Come prendere vecchie case e ricontestualizzarle. Si potrebbe disquisire se abbia senso che artisti usino il loro tempo occupandosi di questo, forse per alcuni no, ma per me è un contributo di cui si ha molto bisogno. Non penso tuttavia che sia responsabilità degli artisti risolvere questa situazione, è semplicemente naturale per loro offrire un contributo. Sono cosciente del fatto che centrare la produzione creativa sui più deboli sia un cambiamento
Qualche anno fa la Fondazione Ford creò un gruppo di circa sette organizzazioni che si occupavano di arte il cui operato avesse un impatto sullo sviluppo della comunità. Per un periodo di circa cinque anni c’è stata una rete tra questi collettivi. Siccome la maggior parte di noi non è educata allo sviluppo della comunità, penso sia stato molto utile che questi gruppi fossero in contatto in modo da scambiarsi esperienze. E se il settore continuerà a crescere—e penso che lo farà, perché parecchie università degli Stati Uniti stanno istituendo programmi di pratica sociale—qualche tipo di rete emergerà. radicale per alcuni artisti perché, particolarmente in America, essi sono tradizionalmente e principalmente supportati da mecenati benestanti e dalle istituzioni. La maggior parte delle iniziative su cui ci focalizziamo con A Life in Common sperano di co-creare, co-possedere e co-gestire risorse urbane. Da questo punto di vista, per RHCDC ci aspetteremmo piuttosto una cooperativa di sviluppo della comunità piuttosto che una società. Perché avete scelto questo specifico format? Anche se capiamo i limiti degli attuali sistemi che supportano l’edilizia, lo sviluppo economico, i servizi, ecc. il nostro scopo a PRH non è mai stato quello di rivoluzionare il sistema per fornire questi servizi. Il nostro approccio è stato quello di manipolare e sfruttare le strutture esistenti ove possibile. I modelli cooperativi sono rari negli Stati Uniti, non abbiamo una storia da cui attingere. Quindi, invece di fare opposizione al sistema, abbiamo deciso di usarlo per migliorarne i risultati. Come si rapportano con le attività del nuovo arrivato RHCDC coloro che sono stati convenzionalmente attivi nel costruire alloggi? Penso che la reazione maggiore sia quella di essere seccati. Quando PRH iniziò, le autorità cittadine, gli urbanisti, gli agenti immobiliari e l’industria edile avevano stabilito che l’area in cui stiamo lavorando sarebbe diventato il prossimo quartiere borghese vicino al centro città. I nostri sforzi di connettere la popolazione di colore meno abbiente alla storia architettonica e istituzionale dell’area non hanno incontrato grande entusiasmo. Non capiscono il nostro approccio. Penso che siano principalmente infastiditi dal fatto che il nostro interesse nel fare ciò che stiamo facendo non sia il desiderio di generare ricchezza per noi stessi. Crede ci sia una tendenza, da parte degli artisti o delle organizzazioni culturali, a entrare nel processo di creazione concreta della realtà urbana negli Stati Uniti? Negli Stati Uniti, per la maggior parte, gli artisti non si dedicano a progetti che vanno al di là della fase creativa. Si muovono principalmente di progetto in progetto facendo una carriera nella pratica artistica che generalmente non riguarda molto il concreto.
Per finire: perché ci vuole proprio un artista per iniziare una cosa come RHCDC? Se ci pensi chiunque può fare ciò che RHCDC sta facendo, ossia costruire case e fornire servizi. La chiesa e le sue autorità, cui appartengono programmi di sviluppo della comunità, lo fanno continuamente. In generale, però, il loro operato non è affatto esteso come quello di RHCDC e sono convinto che ciò sia conseguenza della componente artistica che PRH porta al suo lavoro. In fondo, non è solo questione di fornire alloggi e servizi, si tratta anche di raccontare la storia delle persone che usufruiscono di questi alloggi. Questo dà all’operato una dimensione simbolica e genera conversazioni sugli alloggi, sulle persone che ci vivono, sui costi, sul contesto, sull’architettura, ecc. Sembra un lusso l’avere un artista che prenda così tanto in considerazione il contesto, l’architettura, la narrazione, ecc., ma in realtà, se dobbiamo gestire lo sviluppo della comunità come argomento di giustizia sociale, dobbiamo considerare l’elemento artistico come parte integrante dell’intero progetto. (Settembre 2012)
AN EXCHANGE WITH
Rick Lowe (co-initiator Row House Community Development Corporation) Project Row House (PRH) started in 1993 as an initiative of seven artists and has established itself as a neighbourhood art and cultural organisation. Ten years later the organisation took a leap beyond this scope to form a community development corporation (RHCDC), making affordable housing available to the local community. To begin, why did you decide to take this step? PRH started from the idea of doing something that could have a practical impact on the neighbourhood. On the other hand, as artists, we are interested in the poetics embodied in art and aesthetics. So the part of having a practical impact is not surprising for us. It was our intent. Maybe it was a little surprising that we found that we could actually do it. The biggest challenge was to
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figure out the system of doing it that had a long-term sustainable impact, while at the same time upholding our aesthetic interest in the work. The question: “How do we layer housing and social services with symbolism, poetry, and aesthetic concerns?” has been a challenge for us equal to the challenges of how to acquire real estate, build houses, and provide services. We try to have these two opposites inform each other. For instance, I generated a project with PRH called Cookie Love’s Wash and Fold. In its practical form, it’s a laundromat. But the idea came from an artistic investigation. I was at a local laundromat to wash my clothes. I had to run out so I asked a familiar woman if she would transfer my laundry from the wash to the dryer. When I returned, she had folded them all nice and neatly. I engaged in conversation with her and found that she often washes and folds for others. So I started taking my clothes to her. Later I came up with the idea of creating an identity for her and a new laundry service called Cookie Love’s Wash and Fold. The marketing image is a portrait of her but at the same time it represents the fulfilment of a very practical need in the Row House community. This artistic representation is also a transformation of a community member into a productive participant who is now recognized by all of her neighbours. In its context, RHCDC is faced with the harsh effects of opportunistic real-estate development, speculation, and the destruction of community institutions. Is it possible for you to locate to the lack of which roles, institutions, or provisions you are responding with the RHCDC? Or in other words: which position (abandoned, or newly opening) do you occupy?
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As RHCDC owns a significant amount of properties, people have to take us somewhat seriously. RHCDC is a platform that gives us a voice concerning what is happening in the neighbourhood. But beyond making a statement about what we want our neighbourhood to look and feel like by building a particular kind of housing, the RHCDC has a limited role. This is where the interplay between the practical and artistic comes in. RHCDC plays a very practical role, which is buying land and building houses. As an arts organization, PRH, on the other hand, can be subversive, challenging, and working outside the boundaries of what is expected. So the role that PRH plays is one of calling attention to issues that are coming our way and challenging the community to think creatively about how to respond. Sometimes we do this by hosting planning and visioning meetings, neighbourhood walks, etc. Other times, invited artists challenge our community and institutions, including our own organization.
is in the nature of artists to organize material that generally has little value in itself in a way that increases its value. Like taking old discarded row houses and re-contextualizing them increasing their value. One can question whether it is meaningful for artists to spend their time doing such work, for some maybe not, but for me, it’s a much-needed contribution. However, I don’t think it is the responsibility of the artists to solve this condition, it is just natural for them to contribute. I am aware that it is a radical shift for artists to target their creative output toward the powerless because, particularly in America, major support for artists traditionally comes from wealthy patrons and their institutions. Most of the initiatives which we focus on with “A Life in Common” are looking to co-create, co-own and co-manage urban resources. From that perspective, we would rather expect a community development co-op than a corporation structure for RHCDC. Why did you choose this specific format? While we understand the limits of the existing systems that support housing, economic development, services, etc., our goal at PRH has never been to revolutionize the systems to deliver these resources. Our approach has been to manipulate and exploit the existing structures when possible. Cooperative models are rare in the U.S. We don’t really have a history to draw upon. Therefore, instead of trying to address the systems, we decided to use them to improve the outcomes. How do those who have been conventionally active in housing provision relate to the activities of RHCDC as a newcomer in this field?
Do you regard it a particular responsibility of artistic initiatives today to enter into such issues of primary existential necessity like the provision of lowincome rental and home ownership? I see the socially engaged work I am interested in as being tied to social justice. I’m not saying this is for all socially engaged work. But it is certainly my position. There will always be a struggle between those with power and those with limited access to power. While those who have it can sustain their power through the structures or institutions that are in place to protect it, those with limited access to power must find ways to increase their influence without strong institutional and structured support. They are dealing with the mundaneness of survival, and rarely access the symbolic nature of their struggle or the poetic connections among themselves. This is where artists can become a powerful force towards social justice, drawing upon creativity to generate new value from within, to increase the power of those with limited access. It
I think that the major response is one of annoyance. When PRH initially started, city officials, planners, real estate agents, and the construction industry slated the area we are working in to be the next gentrified neighbourhood near down town. Our efforts to connect the low-income black population to the architectural and institutional history of the area have not been greeted with enthusiasm. They don’t quite get our approach. I think they are most bothered that our interest in doing what we do is not driven by generating wealth for ourselves. However, they respect us as viable competitors because of our ability to somewhat awaken this community. Is there a tendency from the side of artists or cultural organizations in the US to enter the very making of the urban reality? If so, it would be interesting if you could envision some of these initiatives coming together to form a network. In the US, for the most part, artists are not committed to projects beyond the artistic phase. They largely move from project to project establishing a career of artistic prac-
“ABBIAMO CAPITO CHE DOVEVAMO FARE QUADRATO. POTEVAMO SIA RESTARE IN DISPARTE E AVERE A CHE FARE CON IL TEMA DEGLI ALLOGGI SIMBOLICAMENTE O POTEVAMO TENTARE DI ENTRARE NELLA PRODUZIONE STESSA DELLE ABITAZIONI. COSÌ ABBIAMO SCELTO LA SECONDA VIA.” RICK LOWE, INIZIATORE DI ROW HOUSE CDC
“WE REALISED WE HAD TO MAKE A STAND. EITHER WE WERE GOING TO SIT BACK AND DEAL SYMBOLICALLY WITH THIS ISSUE OF HOUSING OR WE WERE GOING TO TRY GET INTO THE HOUSING PRODUCTION. SO: WE CHOSE TO DO THAT.” RICK LOWE, INITIATOR ROW HOUSE CDC
tice that generally does not touch too much on the practical. A few years ago, the Ford Foundation funded a group of about seven arts centered organizations whose work was impacting community development. For a period of about five years, there was a kind of network among those groups. As most of us are not trained in community development, I think it was very helpful to bring these groups together to trade experiences. And if the field continues to grow—and I believe it will, because several universities in the US are establishing social practice programs— some kind of network will emerge.
Finally: why does it take exactly an artist to initiate something like RHCDC? If you think of the output of RHCDC, i.e. building houses and providing services, people from all walks of life are doing this. Churches and church leaders from CDCs do this work all the time. But in general, the work they produce is not nearly as far reaching as RHCDC. I’m convinced the reason is because of the artistic component PRH brings to its work. It is not just about providing housing and services – it is about telling a story of the people who
IN MOSTRA :
ESPOSTI: una vista aerea dell’area Third Ward di Houston, dove si incentrano le attività di Row House CDC, con documentazione delle case realizzate, comprendenti disegni architettonici delle case da due e tre camere da letto, e il film Third Ward TX a proposito del progetto. Third Ward TX Andrew Garrison (regista), Nancy Bless, Noland Walker e Sandra Guardado Video, 55 min, 2007 Questo documentario su arte, vita e beni immobili si focalizza sulla rinascita delle “shotgun houses” (tipiche abitazioni del sud degli Stati Uniti) promossa da Progetto Row House nell’area Third Ward di Houston. Questo luogo è diventato un’impensata sede dell’arte d’avanguardia e di una riflessione visionaria sul rinnovamento all’interno della città.
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use this housing. This makes it also symbolic and generates conversations about housing, the people who live there, the costs, the context, the architecture, etc. On one hand, it seems like a luxury to have artists pay so much attention to context, architecture, story telling, and so on, but in reality, if we are to deal with community development as a social justice issue, we have to consider the artistic element integral to the whole development. (September 2012)
IN THE EXHIBITION :
Third Ward, vista aerea Stampa fotografica, 210 x 85 cm, 2012 Vista aerea del Third Ward di Huston, presentata con una mappa storica. DOCUMENTAZIONE
Selezione di foto e progetti dal Progetto Row House e Corporazione per lo Sviluppo della Comunità di Row House. IMMAGINE IN ESPOSIZIONE : vista sulle rinnovate “shotgun houses” nel Third Ward, Houston. Le case offrono un’alternativa economicamente accessibile alle condizioni di estremo degrado che erano tipiche del quartiere. (Foto: Donna K.).
FEATURED: an aerial view of Houston’s Third Ward area where the activities of the Row House CDC are centred, along with documentation of the realised houses including architectural drawings of the two and three bedroom homes, and the film Third Ward TX on the project. Third Ward TX Andrew Garrison (director), Nancy Bless, Noland Walker and Sandra Guardado Video, 55 min, 2007 This documentary about art, life and real estate centers on the re-birth of the shotgun houses of Project Row House in Houston’s Third Ward. This area has become the unlikely home of cutting-edge art and visionary thinking about inner-city renewal.
Third Ward, aerial view Photo print, 210 x 85 cm, 2012 Aerial view on Houston’s Third Ward, along with a historic map. DOCUMENTATION
Selection of photos and construction drawings from the Project Row House and Row House Community Development Corporation. BILLBOARD IMAGE:
view on renovated “shotgun” houses in Third Ward, Houston. The houses offer an affordable alternative to the otherwise almost slum-like conditions that have been typical for this neighbourhood. (Photo: Donna K.).
(RE-INVENTANDO) COMUNITĂ€ URBANE concepire forme colletive di accesso, governo e uso delle risorse urbane
(RE-INVENTING) URBAN COMMONS conceiving forms of collective access, governance and usage of urban resources
La strategia R-Urban, iniziata dall’Atelier d’Architecture Autogérée (AAA, Parigi) esplora e mette in pratica alternative agli attuali modelli di vita, produzione e consumo. R-Urban si basa sull’idea che un cambiamento radicale nel nostro modo di gestire e usare lo spazio implichi una riappropriazione e una reinvenzione del nostro terreno comune, o, in altre parole, una cultura di collaborazione e di condivisione dal basso verso l’alto. Affinché questo accada sono necessarie nuove categorie e nuove istituzioni, nuove forme di gestione e governo, nuovi spazi e operatori, così come un collegamento attivo tra urbano e rurale. Questo progetto a lungo termine ha tre strutturefulcro gestite da residenti a Colombes, un quartiere nel nord-est di Parigi con 80 000 abitanti, dove R-Urban incoraggia una vera partecipazione e un’amministrazione democratica da parte della gente locale in vari processi, dal riciclaggio alle fattorie urbane. Ciò che rende il lavoro dell’AAA specialmente significativo è che (dalla sua posizione di piattaforma d’architettura con un background culturale) affronta gli aspetti sociali ed economici dei terreni comuni urbani, ma si occupa anche sempre più dello spazio dell’economia stessa—in sostanza, di come anche le risorse e i “mezzi di produzione” possano essere acquisiti o installati e condivisi da una comunità. Può darsi che proprio integrando localmente la produzione nella città (di nuovo) e nella comunità urbana (finalmente) si possa attuare una svolta fondamentale in una forma resistente di urbanità. Durante l’ultima decade, AAA ha costruito e testato un certo numero di prototipi a Parigi e dintorni, in cui sono stati sperimentati semplici metodi di attuazione di un approccio ecologico a livello di vita quotidiana (produzione di cibo ed energia, strategie di riciclo, gestione dei rifiuti) e competenze e procedure di autogestione collettiva. Ora, con R-Urban, queste esperienze si stanno espandendo, permettendo la partecipazione e imbrigliando le energie latenti dei cittadini, mirando a creare un radicale modello alternativo di sviluppo urbano come conseguenza.
The R-Urban strategy initiated by Atelier d’Architecture Autogérée (AAA, Paris) explores and implements alternatives to the current models of living, producing and consuming. R-Urban is based on the idea that radical change in our ways of managing and using space implies re-appropriation and re-invention of our commons, or in other words: bottom-up cultures of collaboration and sharing. For this, new categories and new institutions, new forms of management and governance, new spaces and actors are necessary, as well as an active link between the urban and the rural. This long-term project started three experimental residents-run hub facilities in Colombes, a northwestern suburb of Paris with 80 000 inhabitants, where R-Urban encourages real participation and democratic governance by local people in various processes, from recycling to urban farming. What makes the work of AAA especially significant is that (from its position as an architectural platform with a cultural background) it tackles social and ecological aspects of urban commons, but increasingly also addresses the space of economy itself—in essence how the resources and the “means of production too” can be appropriated or installed, and shared by a community. It may be exactly by integrating the production locally in the city (again) and in the urban community (at last) that a breakthrough in a resilient form of urbanity can be made. During the last decade, AAA has constructed and tested a number of prototypes in and around Paris, in which simple methods of implementing an ecological approach at the level of everyday life (food and energy production, recycling strategies, waste management) and self-managed collective skills and practices have been tested. Now, with R-Urban these experiences are scaling up, enabling participation and harnessing the latent energy of citizens, aiming at resulting in a radical alternative model of urban development as a consequence.
Atelier d’Architecture Autogérée (Studio per l’Architettura Autogestita) è una piattaforma collettiva che agisce attraverso “tattiche urbane”: incoraggiando la partecipazione degli abitanti all’autogestione di spazi urbani in disuso, oltrepassando contraddizioni e stereotipi attraverso la proposta di progetti mobili e non permanenti, iniziando pratiche interstiziali che esplorano il potenziale delle città odierne.
Atelier d’Architecture Autogérée (Studio for Self-managed Architecture) is a collective platform that acts through “urban tactics”; encouraging the participation of inhabitants at the self-management of disused urban spaces, overpassing contradictions and stereotypes by proposing nomad and reversible projects, initiating interstitial practices which explore the potential of contemporary cities.
http://r-urban.net, www.urbantactics.org
http://r-urban.net, www.urbantactics.org
UNO SCAMBIO CON Doina Petrescu e Constantin Petcou (Atelier d’Architecture Autogérée, co-iniziatori di R-Urban)
Con R-Urban stimolate una forma di cittadinanza molto più attiva, in cui la comunità si riappropri delle risorse e dei mezzi di produzione e l’intera logica della produzione e del consumo venga ridefinita. Avete particolari capacità che vi hanno permesso di cimentarvi in questo campo come architetti e operatori culturali? La capacità di stimolare pratiche collettive e di crearne gli spazi necessari (attraverso strutture, strumenti e condizioni), un’abilità che secondo noi cade nell’ambito dell’architettura, o più specificatamente nell’ambito dell’architettura attivista. A noi interessano i processi che queste pratiche e questi spazi generano, il modo in cui funzionano e le persone che coinvolgono nelle
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fasi di costruzione e fruizione, piuttosto che il prodotto tridimensionale. Ciò vuol dire che, all’interno della strategia di R-Urban, noi agiamo come architetti/urbanisti che progettano opportunità di creare realtà solide, invece di oggetti. Ciò presuppone la partecipazione di un certo numero di istituzioni e persone, mentre la progettazione consiste in un certo numero di azioni, edifici e organizzazioni che generano una rete di spazi e progetti, che portano a loro volta a una rigenerazione di un quartiere dal basso. Progettiamo anche il modo in cui questi elementi possono relazionarsi, complementarsi e chiudere cicli ecologici. Non ci fermiamo, però, alla fase di progettazione: cerchiamo di mettere tutto in pratica muovendoci su tre linee (AgroCité, RecycLab ed EcoHab, che facilitano rispet-
tivamente l’agricoltura, il riciclo e l’alloggiamento), punti di partenza per la creazione del nucleo di una struttura metabolica locale e di una rete che la renda sostenibile. Questo nucleo funziona secondo processi locali chiusi di produzione e di consumo, seguendo i principi del cradle-to-cradle ma includendo anche processi non materiali, culturali e sociali. In questo modo, cicli che iniziano in modo materiale (per esempio con gli scarti organici da riciclare come input) potrebbero chiudersi in modo materiale (con compostaggio, energia e cibo come output) o culturale (con conoscenze sul compostaggio, l’energia verde e la coltivazione di alimenti come output). Tutto ciò implica una duplice interpretazione della condizione che André Gorz ritiene imperativamente necessaria per
superare la crisi attuale: “consumare ciò che produciamo e produrre ciò che consumiamo”. “Produrre ciò che consumiamo” è un’affermazione ecologica: significa agire localmente, essere in grado di provvedere alle nostre necessità, di ridurre la nostra impronta ecologica producendo il più possibile localmente. Anche “consumare ciò che produciamo” può essere interpretato come un principio ecologico ed etico: consumare la stessa qualità e quantità di prodotto che siamo in grado noi stessi di produrre a livello locale. Il progetto R-Urban permette alla gente di produrre il proprio cibo, di immaginare e costruire la propria casa e di creare il proprio lavoro, in modo tale da sentirsi eticamente “affezionati” a essi. Una dimensione etica di questo tipo, una dimensione di cura e attenzione è necessariamente insita in un resiliente modo di vivere, consumare e produrre. Una particolare abilità potrebbe essere quella di riuscire a mantenere un alto livello di energia e motivazione a cambiare le cose nel corso di un processo molto lungo, una sfida talvolta ardua! Ora che vi state avventurando in questo campo con R-Urban, riuscite a definire alla mancanza di quali ruoli, istituzioni o provvedimenti R-Urban risponde? R-Urban è un progetto di emancipazione per tutti coloro che vi partecipano. Durante questo processo tutti impareremo qualcosa e cambieremo. È un’esperienza di esplorazione che sfida in qualche modo tutti i ruoli e le posizioni: il Comune non fa la parte del fruitore ma del partner, noi agiamo sia come architetti, sia come co-imprenditori edili insieme a un certo numero di investitori. Verranno acquisiti degli spazi per le nuove unità immobiliari, che saranno gestiti da un Fondo di Sviluppo Cooperativo di R-Urban. Il Comune dovrebbe aiutare a ridistribuire le unità e a offrire finanziamenti e supporto logistico. In generale, i Comuni devono anche imparare a supportare economie alternative come questa, di cui non sono più i clienti principali. I governi locali devono giocare un nuovo ruolo in questo tipo di iniziative dei cittadini, permettendo che un nuovo modello di strutture civiche e autogestite emerga quale soluzione permanente. Questo è il passaggio da uno stato di welfare a un’economia civica che dovrebbe essere costituita principalmente da nuove forme di partnership tra il pubblico e il civile.
intensamente coinvolti all’inizio; mentre altri restano coinvolti un po’ alla volta, il nostro ruolo si riduce col tempo. Questo è come abbiamo (strategicamente) operato nei nostri progetti precedenti. Noi concepiamo questi progetti come un modo per creare strumenti (o mezzi) piuttosto che prodotti: strumenti che altri possano fare propri e sviluppare ulteriormente, che altri possano acquisire e usare in altri contesti. Oltre al nucleo dei tre progetti portanti, stiamo ora lavorando per istituire un fondo per acquisire collettivamente terreni che R-Urban possa usare come aree di sviluppo urbano, che coinvolgerà coloro che vogliono partecipare al “movimento” a qualsiasi livello: locale, regionale, nazionale o internazionale.
Partendo dall’esperienza dei vostri prototipi e progetti precedenti, come riesce R-Urban ad andare oltre al limite del settore della produzione culturale (come, ad esempio, nel caso delle economie creative) a cui generalmente le pratiche spaziali si rivolgono? Con R-Urban inventiamo nuove pratiche e professioni. In AgroCité c’è la posizione del contadino urbano (una nuova professione), che coltiverà in specifiche aree di spazio pubblico. In RecycLab avremo riciclatori urbani e rici-costruttori, che edificheranno secondo nuove logiche e nuovi valori, generando, speriamo, nuovi comportamenti. Da tutto questo emergeranno nuove professioni
La considerate una “missione” a lungo termine o piuttosto una temporanea deviazione dalla produzione di spazi convenzionali necessaria per esplorare possibili alternative? È un impegno a lungo termine di fronte alla necessità di vivere e lavorare in modo diverso nelle nostre città e periferie (che dobbiamo cambiare ma non demolire e ricostruire). Tra le persone che prendono parte al processo, noi siamo quelli più
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“INVENTIAMO NUOVE PRATICHE E PROFESSIONI, COME UNA POSTAZIONE PER UN CONTADINO URBANO CHE COLTIVERÀ ANCHE NELLO SPAZIO PUBBLICO E SUI TETTI DEI GRANDI COMPLESSI IMMOBILIARI.” AAA, INIZIATORI DI R-URBAN “WE INVENT NEW PRACTICES AND PROFESSIONS, LIKE A POST FOR AN URBAN FARMER WHO WILL ALSO FARM ON PUBLIC SPACE AND ON THE ROOFTOPS OF THE HIGH-RISE HOUSING ESTATES.” AAA, INITIATORS OF R-URBAN
e specializzazioni, “economie diverse”, pratiche ecologiche (collettive) e culturali nelle loro varianti locali. C’è naturalmente anche la dimensione che riguarda l’effettiva esperienza e competenza nell’ambito dell’architettura e delle pratiche spaziali: la costruzione degli edifici. Ci si aspetterebbero dei cambiamenti sostanziali in questo campo, apportati da pratiche, competenze e operatori economici diversi, non solo perché definisce la gran parte dell’economia immobiliare e di conseguenza dell’economia in generale, ma anche perché i modelli della sua produzione attuale non sono sostenibili e sono stati alla radice del collasso economico del 2008. Con R-Urban siamo riusciti a trovare risorse per un progetto con un respiro molto più ampio dei soliti progetti “spazio-culturali” e, attraverso il Fondo per lo Sviluppo Cooperativo, a sviluppare altre realtà e ad amplificare e moltiplicare le dinamiche di cambiamento necessarie a una definitiva trasformazione della città. Con R-Urban siete anche entrati nel campo dell’alloggiamento cooperativo. Un centinaio di anni fa, le cooperative di alloggiamento erano il risultato di movimenti sociali. Perché oggi è necessario che sia una pratica culturale a iniziare una forma di co-abitazione? Perché questa pratica deve essere reinventata in un contesto diverso, e, se possibile,
Ci si potrebbe chiedere se un approccio di micro-urbanismo che si affida a piccole pratiche locali debba essere accompagnato da un cambiamento del sistema più ampio, per esempio di istituzioni, forme di gestione e forme di governo che siano più della somma di iniziative locali che trovano spazio d’azione nelle “fessure”. Pensate che una spinta dall’alto sia necessaria per andare oltre a un impatto periferale?
senza alcuna associazione a una particolare ideologia politica (come l’anarchismo, il socialismo utopico, ecc.). Pur essendoci una storia a cui riferirsi, per una parte della popolazione (ad esempio per gli immigranti che costituiscono la maggior parte dei residenti delle periferie) quella memoria e quella conoscenza non ci sono mai state o si sono perse nel tempo. Noi, come pratica culturale (e architettonica), creiamo le condizioni affinché emergano nuove culture di vita. Culture che diffondano un senso e una comprensione del vivere/abitare visto in modo diverso dall’ottica funzionalista dell’architettura moderna. Reinventare nuove esperienze di vita comune potrebbe portare a un movimento, o a movimenti... Vivere in un modo specifico può essere un modo per fare politica, nel qual caso è di per sé una pratica culturale. Ci poniamo in contrasto con gli architetti di fama che si interessano a progetti su larga scala e con grossi budget, ma senza alcuna dimensione sociale ed economica. Noi abbiamo scelto di avviare piccoli progetti che potrebbero stimolare visioni sociali, economiche ed ecologiche sostenibili. La parte che si occupa di alloggiamento cooperativo, così come R-Urban in generale, promuove la prospe ttiva ecologica e gli aspetti di solidarietà e mutualità più di ogni altro sistema di alloggiamento, specialmente nel contesto delle metropoli, dove queste dimensioni vengono tremendamente dimenticate.
(Settembre 2012)
buildings and organisations that generate a network of spaces and projects which in turn lead to a bottom up regeneration of a neighbourhood. We design also the way in which they can relate to each other, work with complementary functions and close ecological cycles. We do not stop at the design stage, but try to put this into practice and realise three hubs (AgroCité, RecycLab and EcoHab; facilitating respectively agriculture, recycling and housing), which will set up a minimal core for a local metabolic functioning and an emerging network of resilience. This core will function through locally closed processes of production and consumption, following cradle-to-cradle principles but including also non-material, cultural and social processes. In such a way cycles that start materially (for example with organic waste to be recycled as input) could be closed both materially (with compost, energy and food as output) and culturally (with knowledge on composting, green energy and growing food as output). This entails a two-fold interpretation of An-
dré Gorz’s imperative condition necessary to overpass the current crisis: “to produce what we consume and consume what we produce”. “To produce what we consume” is an ecological statement: it means to act locally, to be able to supply our needs, to reduce our ecological footprint by producing locally as much as possible. “To consume what we produce” can be also interpreted as an ecological and ethical principle: to consume the same quality and quantity of products that we are capable of producing ourselves at a local level. The R-Urban project enables people to produce their own food, to imagine and build their own housing and to create their own jobs in such a way that they can feel ethically attached to them. Such an ethical dimension, a dimension of care, is necessarily embedded in a resilient way of living, consuming and producing. A particular skill might be to know how to maintain a high level of energy and motivation to change things within a long-term process; sometimes a very tough task!
Idealmente, una struttura superiore a misura di cittadino sarebbe utile—una che non limiti ma incoraggi, supporti, assista... senza sfruttamento. Questo è fino a un certo punto il caso dei finanziamenti dalla Commissione Europea—di cui noi come R-Urban ci avvaliamo—che è una struttura finanziaria che aiuta in un modo molto pragmatico. Ma non sempre e non in tutte le fasi. Sicuramente programmi governativi e locali potrebbero funzionare altrettanto bene. D’altra parte crediamo nel centro come posizione strategica, a metà tra un sistema dal basso e un sistema dall’alto, e tale è la posizione che architetti, accademici e specialisti potrebbero prendere. Questa dovrebbe, probabilmente, essere una posizione “mobile”, in cui ruoli, gerarchie e direzioni (di potere, di conoscenza) vengano costantemente messi in discussione.
AN EXCHANGE WITH Constantin Petcou and Doina Petrescu (Atelier d’Architecture Autogérée, co-initiators of R-Urban)
With R-Urban you urge a much more active form of citizenship, in which the resources and means of production get appropriated within a community and the entire logic of production and consumption gets rewritten. Is there a particular skill set that enables you to move into this field as architects and cultural producers? The ability of inciting collective practices and creating the space for it (through facilities, tools and conditions); a skill that for us falls within the realm of architecture—more specifically, activist architecture. We are interested in the processes these practices and space generate, in how they work and whom they involve in their making and using, rather than in their spatial products. This means that, within the R-Urban strategy, we act as architects/urban planners who design resilience agencies, instead of objects. These involve the participation of a number of institutions and people, while the design consists of a number of actions,
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attached to the “acknowledged” expertise and competence of architecture and spatial practice itself: the production of buildings. One would expect major shifts in this field prompted by various practices, fields of expertise and economic actors, not only as it defines a large part of the real-estate economy and with that a substantial part of the economy in general, but also because the unsustainable models of its current production have been at the very base of the 2008 economic collapse. With R-Urban, we have managed to find resources for a project which is of a much larger scale than the usual “spatial cultural” projects and, through the Cooperative Development Trust, to develop other projects and to amplify and multiply the dynamics of change necessary for a resilient transformation of the city.
Now that you are embarking into this field with R-Urban, can you identify to the lack of which roles, institutions, or provisions R-Urban responds? R-Urban is an emancipatory project for all those who participate in it. We all learn by doing it and all get transformed in the process. It is somehow an experience and exploration that challenges all roles and positions. Thus, the municipality does not act as a client but as a partner. Also, we act as both architects and co-developers together with a number of stakeholders. Spaces for new units will be acquired and managed by an R-Urban Cooperative Development Trust. The municipality is meant to help relocate the units and offer funding and logistical support. Yet overall, municipalities also need to learn how to support such alternative economies when they are no longer the main client. Local governments need to play a new role in such citizens’ initiatives; allowing new types of civic, self-managed facilities to emerge and to last. This is the passage from the Welfare State to a civic economy in which new forms of public-civic partnerships should be key components. Do you regard this as a long-term mission, or rather as a necessary temporary excursion from the conventional spatial production in order to explore possible alternatives? It is a long-term engagement towards the necessity of living and working differently in our current cities and suburbs (which we need to change but not to demolish and rebuild). Among those involved in the process, we are more intensively engaged in the set up, along others that get involved little by little, while our role will diminish over time. This is how we (strategically) did it in
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our previous projects. We conceive these projects as tools (or devices) rather than outputs: tools for others to take over and develop further, tools for others to learn from and apply in other contexts. Along with the core of three hubs, we are now working to set up a land trust to collectively acquire estates for R-Urban developments, which will involve those that would like to be part of the “movement” at different levels: local, regional, national, international. Building upon the experiences from your previous prototypes and projects, how does R-Urban manage to expand beyond the thin slice of “cultural production” (like in creative economies etc.) generally addressed by spatial practices? In R-Urban we invent new practices and professions. In AgroCité there is a post for an urban farmer (a new profession) who will also farm on specific spots of public space. In RecycLab, we will have urban recyclers and recyc-builders, working within new logics and values for construction, and hopefully generating new behaviours. From this, new jobs and specialisations, “diverse economies”, ecological (collective) practices and different local forms of cultural practice will emerge. Of course there is also one dimension
With R-Urban, you have also entered the field of co-operative housing. Some 100 years ago, housing co-ops were one of the outcomes of the social movements. Why does it take a cultural practice to initiate something like cohousing today? Because this practice needs to be reinvented in a different context, and possibly without attachment to a particular ideology (i.e. anarchism, utopian socialism, etc.). While there is a history to relate to, for some part of the population (i.e. people from immigrant background like most of the residents of the suburbs, etc.) that memory and that knowledge were maybe never there, or have been lost in the course of time. We, as a cultural (and architectural) practice, create the conditions for new cultures of living to emerge. Cultures that broaden a sense and understanding of living/housing different from seeing it in a functionalist way as in modernist architecture. By reinventing new experiences of living together, this might lead to a movement, or movements... Living in a particular way can politicise. In that case it is a cultural practice in itself. We place ourselves in opposition to the star architects who involve themselves in large-scale projects with big budgets, but with no social and economic dimension. We have chosen to initiate small-scale projects that could instigate sustainable social, economic and ecological visions. The cooperative housing hub, as all the other R-Urban hubs, promotes the ecological perspective and the aspects of solidarity and mutualisation more than all the other housing types, especially in a big city context, where those dimensions are tremendously missing. One could question if an approach of micro-urbanism, relying on micro-local practices, needs to be accompanied by a macro-scale systemic change. For instance: institutions, forms of management and forms of governance that go beyond the assemblage of local initiatives emerging from the “gaps” (or interstices) as spaces for action. Do
you think such a “top-down” momentum is necessary in order to move beyond a peripheral impact? Ideally indeed, a citizen-friendly top-down framing would be helpful—one that doesn’t refrain but encourages, supports, assists... without exploitation. This is to a certain degree the case of the European Commission funding—that we, for example, use for RUrban—which is more than a funding framework that helps in a very pragmatic way. But not always, and not at all stages. Certainly more governmental and local programmes could function as well. On the other hand we equally believe in the middle as a strategic position, the “in-between” amidst the bottom-up and the top-down, which is the position that architects, academics and specialists could take. This should likely be a mobile positioning, in which roles, hierarchies and directions (of power, of knowledge) are constantly challenged. (September 2012)
IN MOSTRA :
IN THE EXHIBITION :
ESPOSTI: un elenco dei comuni sviluppati da AAA nell’arco degli ultimi 10 anni, assieme a una mappa su larga scala in cui si mostrano i vari siti di intervento di R-Urban, e uno slideshow con le strategie di R-Urban a Colombes.
FEATURED: a catalogue of commons developed by AAA during the last 10 years, along with a largescale map in which the various sites of R-Urban interventions can be seen, and a slideshow with R-Urban strategy in Colombes.
R-urban commons. Atelier d’Architecture Autogérée (AAA) Catalogo, mappa, slideshow, 2012 Catalogo: abitanti di R-Urban; mappa: interventi di R-Urban a Parigi; slideshow: la strategia di R-Urban. Presentazione di R-Urban realizzata per La Biennale di Venezia - 13a Mostra Internazionale di Architettura.
R-urban commons. Atelier d’Architecture Autogérée (AAA) Catalogue, map, slideshow, 2012 Catalogue: R-Urban commons; map: R-Urban interventions in Paris; slideshow: R-Urban strategy. Presentation of R-Urban produced for The Venice Biennale - 13th International Architecture Exhibition.
IMMAGINE IN ESPOSIZIONE: lavori in corso all’AgroCité di R-Urban— che consiste in una micro fattoria sperimentale, in giardini comunitari, in spazi educativi e culturali e in dispositivi per la produzione di energia, per il composting e il riciclo dell’acqua piovana. (Foto: AAA).
BILLBOARD IMAGE:
works in progress at R-Urban’s AgroCité—which will consist of a micro-experimental farm, community gardens, educational and cultural spaces and devices for energy production, composting and rainwater recycling. (Photo: AAA).
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(DEMOCRATIZZANDO) LE POLITICHE promuovere una partecipazione effettivamente democratica al sistema amministrativo (di una cittĂ )
(DEMOCRATISING) POLITICS
making actual democratic part-taking in (city) governance work
Il progetto Shadow City (Reykjavík) è il risultato di un tentativo da parte degli attivisti mediatici di revisionare—o democratizzare—la democrazia dell’Islanda a seguito del collasso finanziario del 2008, che ha avuto ripercussioni su tutta la sua popolazione (320 000 abitanti) e ha portato a un’auto-indagine collettiva da parte degli islandesi. Con il progetto Shadow City e l’elezione di un nuovo sindaco che ha cercato un modo diverso di far politica, il coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali di Reykjavík ha fatto una svolta radicale. Rilanciato dalla città sotto il nuovo nome di Betri Reykjavík (Reykjavík Migliore), attraverso il sito Internet e i social media, i cittadini stanno dando voce, dibattendo e dando un ordine di priorità alle idee per migliorare la loro città. In cambio, la città si è impegnata ad attuare le proposte centrali nella discussione. Per prima cosa, all’inizio del 2010, l’attivista informatico Smári McCarthy (direttore esecutivo dell’Iceland Modern Media Initiative) ha creato il Progetto Shadow Parliament (Parlamento Ombra), un’idea che è stata immediatamente colta da Róbert Bjarnason a Gunnar Grímsson, che hanno lanciato un sito Internet che permetteva ai cittadini di votare su disegni di legge, proporre emendamenti, e discutere sui dibattiti in corso in Parlamento. Nella corsa alle elezioni locali del 2010, essi hanno fondato Shadow City (e la Citizens Foundation) per permettere ai cittadini di decidere parte dell’agenda politica della città. La piattaforma, “messa insieme” da attivisti mediatici motivati, è stata uno dei rari casi in cui la nuova cultura dei media ha un profondo impatto sulle strutture stesse della politica. Dopo le elezioni, il Best Party, un nuovo movimento politico capeggiato dal comico Jón Gnarr e una schiera di musicisti e artisti, ha preso potere a Reykjavík e ha deciso di integrare fermamente il concetto di Shadow City nel processo decisionale. Il Best Party ha supportato lo sviluppo dell’attuale piattaforma Betri Reykjavík. A mezzogiorno dell’ultimo giorno lavorativo di ogni mese, le cinque idee più dibattute dalla piattaforma sono presentate a una giuria di revisione per essere elaborate e—dopo l’approvazione del consiglio della città—essere portate alla realtà.
The Shadow City project (Reykjavík) is the result of a quest by media activists to overhaul—or democratise—Iceland’s democracy in the aftermath of the financial collapse of Iceland in 2008, which sent shock waves through its 320 000 inhabitants’ society, and has been leading to a collective selfinvestigation by the Icelanders themselves. With the Shadow City project, and the election of a new mayor seeking a different way of doing politics, the involvement of citizens in the decision-making about Reykjavík has made a radical breakthrough. Re-launched by the city under the new name Betri Reykjavík (Better Reykjavík), through its website and social media, citizens are voicing, debating and prioritising ideas to improve their city. In turn, the city has committed itself to execute the most discussed proposals. First, in early 2010, information activist Smári McCarthy (executive director of the Iceland Modern Media Initiative) came up with the Shadow Parliament Project, an idea that was quickly picked up by Róbert Bjarnason and Gunnar Grímsson, who set up a website that allowed citizens to vote on bills, propose amendments, and discuss ongoing debates in the Parliament. Running up to the 2010 local elections, they set up the Shadow City (and the Citizens Foundation) to allow citizens to decide part of the city’s agenda. The platform, “hacked together” by motivated media activists, is one of the rare cases where new media culture deeply impacts the very structures of politics. After the elections, the Best Party, a new political movement fronted by comedian Jón Gnarr and a host of musicians and artists took power in Reykjavík and decided to firmly integrate the Shadow City concept in the decision-making process. The Best Party supported this development to the current Betri Reykjavík platform. At midday on the last working day of each month, the five ideas most debated through the platform are taken to review panels to be worked out and—after approval in the city council—to be brought to reality.
Smári McCarthy è uno sviluppatore di software, scrittore, hacker e combattente per la libertà. Nei vari ruoli e nelle posizioni che ha ricoperto (come ad esempio quella di direttore esecutivo di IMMI, Icelandic Modern Media Institute) ha duramente lottato con i governi e ha costruito infrastrutture tecniche, politiche e sociali.
Smári McCarthy is a software developer, writer, hacker, freedom fighter. In his various roles and positions (like executive director of the Icelandic Modern Media Institute, IMMI), he wrestles with governments and builds technical, political and social infrastructures.
www.smarimccarthy.is
www.smarimccarthy.is
The Citizens Foundation è un’organizzazione no-profit con la missione di far incontrare le persone e di farle discutere, allo scopo di rendere prioritarie idee innovative che migliorino la vita delle loro comunità. The Citizens Foundation ha sviluppato la piattaforma Betri Reykjavík, che ha ricevuto nel 2011 un premio, vincendo gli European e-Democracy Awards.
The Citizens Foundation is a non-profit organization with the mission to bring people together to debate and prioritize innovative ideas to improve their communities. The Citizens Foundation developed the Betri Reykjavík platform, for which it was awarded in 2011, winning the European e-Democracy Awards.
http://betrireykjavik.is, http://citizens.is
http://betrireykjavik.is, http://citizens.is
UNO SCAMBIO CON
Smári McCarthy (iniziatore di The Shadow City) L’ultima decade ha visto un proliferare di e-lab, iniziative di cultura mediatica, piattaforme virtuali, ecc., ma queste iniziative hanno raramente avuto un impatto tangibile. Con le iniziative che voi avete avviato (Digital Freedoms Society, International Modern Media Organisation, Constitutional Analysis Support Team), invece, ridefinite chi effettivamente legifera e come la democrazia possa essere democratizzata. Avete
delle capacità particolari che vi hanno reso possibile entrare in questo campo? Non posso elencare delle capacità che mi rendano particolarmente adatto a questo lavoro, ma, d’altronde, non sono sicuro che qualcuno possa. La mia conoscenza di come funzionano i sistemi formali è sicuramente stata utile, così come la capacità di pensare in modo astratto che ho imparato studiando matematica. Due capacità piuttosto insolite.
Lei è legato a una serie di organizzazioni come quelle menzionate. Le forniscono un ausilio istituzionale, necessario per sviluppare progetti come The Shadow City, Shadow Parliament, CAST? Avere attori diversi può essere utile per rendere una persona e i suoi complessi punti di vista più comprensibili dall’esterno. Se io dovessi fare tutto ciò che faccio semplicemente come “Smári” non creerei
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che confusione. Molte persone, inoltre, lavorano con me con ruoli diversi. C’è chi collabora con me in un’ampia gamma di progetti, ma che potrebbe non essere interessato ad altri. Avere alle spalle delle organizzazioni può aiutare a identificare e a dare un nome alle cose. L’ausilio istituzionale esiste per svariati motivi. Principalmente permette alle persone di riuscire a fare cose che non sarebbero altrimenti possibili. Cosa che penso essere positiva. Sebbene ci siano molti segnali che i cittadini ripongano poca fiducia negli attuali modelli di democrazia rappresentativa (che mostrano scarsa capacità di affrontare le sfide che si trovano di fronte), coloro sui quali la società confiderebbe affinché reinventassero tali modelli (politici, scienziati politici, legislatori...) falliscono ampiamente nel proporre alternative. Che posizione assume lei personalmente, o stimola gli altri a prendere? Uno degli effetti collaterali della transizione storica dal feudalesimo ai moderni sistemi democratici è che lo squilibrio di potere che esisteva prima delle varie guerre civili, rivoluzioni, etc. ha fatto sì che chi aveva piena autorità prima, mantenesse parte del potere dopo il periodo di transizione, grazie a meccanismi di tipo economico. Di conseguenza, e anche a causa dei ruoli assunti dalla borghesia europea nel diciannovesimo secolo, alcune classi di persone sono riuscite a crearsi un’aura di irraggiungibilità—dottori e avvocati ne sono forse l’esempio più comune. C’è una serie di buone ragioni per cui non ammettiamo superficialità nei professionisti. Tuttavia per molte applicazioni della legge non è strettamente necessario avere un’educazione formale in legge, così come uno non ha bisogno di essere un ingegnere per cambiare una gomma o controllare
l’olio dell’automobile. Molte delle “informalità” nella legiferazione derivano dal fatto che nella maggior parte dei paesi i legislatori non sono avvocati. È più importante avere rappresentanti di tutti i diversi punti di vista e delle minoranze della società, e far sì che questi rappresentanti siano assistiti da appositi avvocati o, ancora meglio, da specialisti di ogni settore. Applichiamo ora una proporzione a quell’idea. E se noi decidessimo di bloccare un adempimento formale laddove l’adempimento formale non è necessario, o ancora meglio, se creassimo dei meccanismi di adempimento formale distribuiti fra pari per poi semplicemente permettere a ogni gruppo di valutarne il bisogno caso per caso? La folle situazione che ne emerge è che all’improvviso si hanno un mucchio di esperti di poltrone con potere legislativo che si alzano dalle loro poltrone e fanno cose interessanti. A questo proposito, il ruolo che ho assunto in questo processo di democratizzazione è quello di “traduttore”, facilitando lo scambio tra ruoli espliciti e impliciti, formali e informali. Molto sta nell’aiutare la gente a capire che non ha bisogno di nessuno— men che meno di me—che le dica che può fare ciò che vuole, un’altra parte sta nel rendere più facile alle persone esprimere ciò che vogliono... e molto è software. Come percepiscono politici e burocrati il suo imbarcarsi (con Gunnar Grímsson e Róbert Bjarnason) su una piattaforma di democratizzazione come Betri Reykjavík? I politici più conservatori pensano che siamo pazzi, idioti, o entrambe le cose. Ma sono per la maggior parte innocui. Le persone che si lamentano per quello che stiamo facendo sono i burocrati. Vedono che ciò che stiamo proponendo è di far oscillare una barca che loro hanno accuratamente tenuto
zavorrata, con il loro gusto all’inerzia istituzionale, per secoli. Dal loro punto di vista, nel migliore dei casi, li rendiamo più efficienti nel loro lavoro, nel peggiore li rendiamo ridondanti, dando la possibilità a gruppi di cittadini interessati di ottenere tutto ciò che ottengono loro, ma meglio, più velocemente e più economicamente. Ciò li preoccupa. Detto ciò, ci sono anche coloro che sono interessati a un cambiamento, sia in politica sia in burocrazia. Molte persone entrano in questi campi per smuovere le cose, per ritrovarsi però vittime della bestia che sono venuti ad addomesticare. Se le persone che generano questa rottura hanno il buon senso di renderla istituzionalmente comprensibile, allora prenderanno il potere e promuoveranno i cambiamenti quando vedranno una possibilità, un’eventualità, uno squarcio nelle nuvole. L’implementazione del voto per procura, della produzione p2p, dell’esercizio dei diritti comuni, etc. mostra un potenziale quasi illimitato per una relazione più diretta tra i cittadini e il contesto in cui vivono oggi o in cui potrebbero decidere di vivere un domani. Sotto questo aspetto, vede il suo impegno come un “rattoppo” temporaneo di una condizione impropria (poi da assumersi da altre organizzazioni o istituzioni) o come una ridefinizione a lungo termine di ciò che sarà l’impegno da parte del settore dei mass-media e della cultura elettronica? Rattoppare o ridefinire è il grande enigma dello sviluppo dei software. Idealmente vorrei mettere in atto una vera e propria ridefinizione della legge a lungo termine, perché questo significherebbe sia creare una nuova struttura sia avere la capacità di aggiustare tutto in una volta sola. Ciò richiederebbe l’introduzione di nuovi “bachi” e di molti test, cosa piuttosto difficile da fare in una società. Siccome ci vuole un po’ di tempo affinché una completa ridefinizione si stabilizzi, e dato che questa necessita di un maggior impegno e sforzo che rattoppare un’imperfezione, è talvolta sensato rappezzare un po’ le cose. Incontra di norma meno resistenza ed è generalmente più accettato. La manutenzione è sempre più noiosa che la creazione, ma sono entrambe tecniche necessarie. Le nostre società operano su molto del vecchio codice. Le leggi più vecchie in vigore in Islanda sono del dodicesimo secolo. Uno penserebbe che siano superate, ma in effetti le cose più vecchie sono, talvolta, le più equilibrate. Se le cose erano state fatte bene nel dodicesimo secolo, perché cambiarle? Ma è anche vero che quando le cose vecchie si rompono il danno è talvolta maggiore, perché così tante cose nuove ne dipendono. Vale comunque sempre la pena di fare controlli e revisioni ogni tanto. Noi facciamo entrambi, tra le altre cose. (Novembre 2012)
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“NEL 2007, IL PAESE IN CUI VIVO AVEVA UNA DELLE PIÙ FORTI ECONOMIE DEL MONDO. DAL 2008, CIÒ È CAMBIATO. È FALLITO. NEL RISVEGLIO DOVUTO AL COLLASSO SIAMO PASSATI DAL RICOSTRUIRE L’ECONOMIA DEL PAESE ALLO SVILUPPO DI VARI STRUMENTI PER LA DEMOCRAZIA.” SMÁRI MCCARTHY, PROGETTAZIONE CONCETTUALE DI THE SHADOW CITY
“IN 2007, THE COUNTRY I LIVE IN HAD ONE OF THE STRONGEST ECONOMIES IN THE WORLD. BY 2008, THAT HAD CHANGED. IT FAILED. IN THE WAKE OF THE COLLAPSE WE’VE GONE FROM REBUILDING THE COUNTRY’S ECONOMY TO DEVELOPING A SERIES OF TOOLS FOR DEMOCRACY.” SMÁRI MCCARTHY, CONCEPTUALISER OF THE SHADOW CITY
AN EXCHANGE WITH
Smári McCarthy (initiator of The Shadow City) The last decade or so has seen a proliferation of e-labs, media culture initiatives, virtual platforms, etc., but these initiatives seldom had a tangible impact. However, with the initiatives you started up (the Digital Freedoms Society, International Modern Media Organisation, the Constitutional Analysis Support Team among others) you do actually rewrite who makes legislation, or how democracy can be democratized. Is there a particular skill set that has made it possible to enter into these fields? I cannot list any skills that make me particularly suitable for this kind of job, but on the other hand, I am not sure anybody does. My knowledge of how formal systems function has definitely been useful, plus the abstract thinking I learned while I was studying mathematics. These skills are far too uncommon. You are connected to a span of organizations, like the ones mentioned. Do they provide a necessary “institutional backup” to develop projects like The Shadow City, Shadow Parliament, CAST? Having multiple hats can be useful to make a person and his complex viewpoints more legible to the outside. If I were to do everything that I do simply as “Smári”, it would be confusing to everybody. Also, a lot of people work with me under many different hats. There are some people I collaborate with on a wide range of projects, but they might not be interested in other projects. Having organizations behind these things can help with mapping out which is which and with giving people a logo to slap on things. Institutional backup exists for a very wide range of reasons. It mostly just enables people to get stuff done in ways they might not otherwise. That is good, I think. Although there are many signs that current models of representative democracy have limited trust among citizens (and show little capacity to address the major challenges ahead), those whom society would count on to reinvent those models (politicians, political scientists, legislators...) largely fail to propose alternatives. Which position do you take or provoke others to take toward this? One of the side effects of the historical transition from feudal governance to modern democratic models is that the power disequilibrium that existed prior to the various civil wars, revolutions, and so on made it possible for those who possessed hard power before to retain soft power post-transition through monetary mechanisms. As a result of this, and not least due to the roles adopted amongst the bourgeoisie of Europe in the 19th century, certain classes of people have managed to
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create an aura of ineffability for themselves— doctors and lawyers are perhaps the most common examples here. There are a lot of relatively good reasons why we do not allow much flippancy for doctors. However, for many applications of law, it is not strictly necessary to have a formal education in law, any more than one needs a formal education in engineering to change a tire or check the oil of a car. A lot of the current informality in legal practice comes from the fact that in most countries, relatively few lawmakers are lawyers. It is more important to have representatives of all of the different viewpoints and segregations of society, and have those representatives assisted by dedicated lawyers, not to mention specialists from every field. Now, let’s apply a scale to that idea. What if we decide to stop formal enforcement where formal enforcement is not necessary, or even better, what if we create distributed peer-to-peer formal enforcement mechanisms, and then just allow each group to evaluate the need for it on a case-by-case basis? The kind of crazy situation that arises is that you suddenly have lots of armchair experts with a regulatory capacity to get out of their armchairs and do interesting things. In that regard, the role I have taken for myself in this democratization movement is that of a “translator”, facilitating the exchange between explicit and implicit roles and between formal and informal roles. A lot of that is about helping people understand that they don’t need anybody—least of all me—to tell them they can do whatever they want. Another part of that is making it easier for people to express their will... and a lot of that is software. How do politicians and bureaucrats perceive your embarking (with Gunnar Grímsson and Róbert Bjarnason) onto a democratization platform like Betri Reykjavík? Most conservative politicians think we’re crazy, idiotic, or both. But they are mostly harmless. The people who really have a beef with what we are doing are the bureaucrats. They recognize that what we are proposing is to rock a boat that they have been very carefully ballasting with their own flavours of institutional inertia for centuries. In their view, in the best case, we’ll make them more effective in their work, and in the worst case, we’ll make them
redundant by making it possible for groups of concerned citizens to achieve everything they achieve: faster, better, cheaper. That’s scary. That said, there are those within both politics and the bureaucracies that are interested in change. A lot of people get into these fields to shake things up, only to find themselves being consumed by the beasts they came to tame. If the people bringing that break about have the sense to make it institutionally legible, then they will take over and push the changes when they see an option, a possibility, a break in the clouds. The implementation of proxy voting, p2p production, commoning, etc. shows an almost unlimited potential of a more direct relationship between citizens and the context they live in today, or could decide to be living in tomorrow. Do you see your engagement in that respect as a temporary “patching” of an improper condition (subsequently picked up by other organizations or institutions), or is it a long term re-writing of what engagement from the field of media or e-culture is to be about? Patch vs. rewrite is the great conundrum of software development. Ideally, I would want to be doing proper, long-term rewrites of the law, because that implies new architecture and an ability to fix everything in one go. It also implies introducing whole new families of bugs, and it requires lots of testing, which is kind of hard to do on a society. But because full rewrites take a while to stabilise and need a lot more focus and effort than patching bugs, it is sometimes sensible to just patch things up a bit. It’s normally going to meet less resistance that way and be generally more accepted. Maintenance is always more boring than designing, but both are necessary techniques. Our societies run on a lot of old code. The oldest laws in effect in Iceland are from the 12th century. You would think that they would be outdated, but actually the older stuff is sometimes the most stable. If people got things right in the 12th century, why fix it? But then again, when old stuff breaks, it sometimes breaks harder because so much new stuff depends on it. Either way, it’s always worth doing audits and reviews every now and then. We do both and more. (November 2012)
IN MOSTRA :
ESPOSTI: una campagna di video promozionali a favore di Betri Reykjavík, lanciata dal sindaco Jon Gnarr. Nei video un cittadino di nome Thrandur si impegna in dialoghi surreali con il sindaco, sul tema del voto telematico. Inoltre, video che presentano i lavori di Betri Reykjavík (di The Citizens Foundation) e Smári McCarthy che parla a proposito delle vie per democratizzare la democrazia. Do not be like Thrandur Betri Reykjavík Video, 5.30 min, 2012 Le campagne di pubbliche relazioni condotte dal sindaco di Reykjavík, Jon Gnarr (comico di professione), in relazione alla prima votazione elettronica su Betri Reykjavík, dal 29 Marzo al 3 Aprile 2012. Nel film, il sindaco prova a convincere un cittadino chiamato Thrandur dell’eccellenza di questo nuovo processo democratico.
IN THE EXHIBITION :
Thrandur ha però un punto di vista abbastanza differente sulla rilevanza di questi strumenti interattivi. Entrambi i ruoli sono interpretati da Jon Gnarr. About Us, Democracy is Changing e Field Trips for Reykjavík Schools The Citizens Foundation Video, 5 min, 2012 Tre video promozionali sugli strumenti online utilizzati per migliorare il dibattito democratico in Islanda e nel mondo. Gruppi, città o stati possono anch’essi utilizzare questo servizio per migliorare le loro comunità. IMMAGINE IN ESPOSIZIONE: Incontro Nazionale a Reykjavík, 2009. Qui 1200 persone, prese a caso dal registro nazionale, e 300 rappresentanti di organizzazioni e istituzioni si sono ritrovate a discutere il futuro dell’Islanda. (Foto: Brian Suda).
FEATURED: a PR campaign videos for Betri Reykjavík launched by mayor Jon Gnarr. In the videos a citizen named Thrandur engages in surreal dialogues with the mayor about the e-voting. Also, videos that explain the working of Betri Reykjavík (by the Citizens Foundation). Do not be like Thrandur Betri Reykjavík Video, 5.30 min, 2012 PR campaigns lead by Reykjavík’s mayor Jon Gnarr (comedian by profession) for the first e-voting on Betri Reykjavík, from March 29 to April 3, 2012. In the film, the mayor tries to convince a citizen called Thrandur of the excellence of this new democratic process. Thrandur however has quite different views on the significance of such interactive tools. Both characters are played by mayor Jon Gnarr.
About Us, Democracy is Changing and Field Trips for Reykjavík Schools The Citizens Foundation Video, 5 min, 2012 Three promotional videos about online tools to enhance the democratic debate in Iceland and worldwide. Groups, cities, or countries can also use this service to improve their communities. BILLBOARD IMAGE : the 2009 National Meeting in Reykjavík. Here 1200 people, picked randomly from the national registry, along with 300 representatives of organisations and institutions, got together to discuss Iceland’s future. (Photo: Brian Suda).
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Aree di lavoro di Cittadellarte nel contesto di A Life in Common Oltre a esplorare le iniziative e gli esempi presentati da A Life in Common, stiamo prendendo in considerazione un cambiamento nel campo dell’arte e della cultura che richiede una costante riflessione da parte di coloro che ne sono coinvolti. Innanzitutto perché convenzioni e pratiche (culturali, professionali, ecc.) vengono costantemente messe alla prova, e farlo è una complessa sfida tra “rattoppare” e ridefinire radicalmente, così come è stato fatto notare da Smári McCarthy. C’è poi anche il pericolo che le pratiche innovative vengano stravolte al punto da uniformarsi al sistema a cui gli operatori stanno osando opporsi. In questo senso, A Life in Common crea un contesto per il tipo di impegno che Cittadellarte si è prefissa. Un impegno che, collocandosi nello stesso ambito d’azione, richiede una riflessione altrettanto costante. I due recenti esempi di coinvolgimento di Cittadellarte che hanno avuto un impatto sulla pianificazione urbana qui riportati possono essere intesi come interventi nel paesaggio e nel tessuto della città e, come tali, sono laboratori di vita reale aperti, in progress e dall’esito incerto, in cui teorie e visioni incontrano le difficoltà e le opportunità quotidiane. Essi sfidano le nozioni di responsabilità e di mercato, particolari ruoli sociali e tendenze determinate dalle autorità. Nel 2011 Michelangelo Pistoletto / Cittadellarte è stato il direttore artistico della biennale urbana di Bordeaux EVENTO. Nel nome dell’ “arte per una (ri)evoluzione urbana”, EVENTO 2011 ha coinvolto, oltre a numerosi artisti, gli abitanti e i visitatori nel processo creativo di idee e progetti nel cuore della città. Un certo numero di questi lavori ha lasciato segni tangibili su quello che sarebbe stato il futuro della città di Bordeaux, che sono sommariamente presentati nella mostra A Life in Common attraverso un diagramma che cerca di analizzare e ricostruire i ragionamenti alla base e l’impatto finale di questo vasto progetto urbano. Il secondo impegno assunto nel re-immaginarsi una città si focalizza sulla Pigna, un quartiere storico di Sanremo degradato e dalle complesse dinamiche sociali. Nel 2012, per il terzo anno consecutivo, Cittadellarte ha coinvolto la sensibilità artistica dei residenti UNIDEE per instaurare un legame con quell’area della città e i suoi abitanti. Pigna presenta una sfida molto particolare: “Come ricostituire questa parte di Sanremo ampiamente isolata e trascurata senza compromettere la natura unica della sua popolazione e delle sue relazioni sociali?” Nel 2012, durante la spedizione alla Pigna, i residenti UNIDEE hanno preso la significativa decisione di far squadra e lavorare a un unico progetto. Hanno istituito
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Alongside exploring the initiatives and examples featured in A Life in Common we are simultaneously looking at a change in the field of art and culture that requires constant reflection from those
tain real life laboratories where theories and visions can meet everyday constrains and opportunities. They challenge the notion of authorship, market, specialist social roles and control driven trajectories. In 2011, Michelangelo Pistoletto / Cittadellarte has been the artistic director of the urban biennial EVENTO in Bordeaux. Under the motto “art for an urban (re-)evolution”, EVENTO 2011 reached out to include, apart from a large number of artists, the local inhabitants and visitors in the production of ideas and creative projects at the heart of the city. A number of these works have left a tangible imprint on Bordeaux’ urban future, of which a condensed overview has been brought to the A Life in Common exhibition through a diagram that makes an attempt at de- and re-constructing the prior motives and resulting impact of this vast urban project. The second outreach in re-imagining the city focuses on Sanremo’s dilapidated and socially complex historic core Pigna. In 2012, for the third time, Cittadellarte has involved the capacities of UNIDEE residents to engage with this area of the
involved. First of all, because (cultural, professional) conventions and practices are being put to the test, and doing so is a tricky challenge between patchingup and radically re-writing, as aptly remarked by Smári McCarthy. Equally, there is a risk of pioneering practices to be encroached upon and absorbed into exactly what they try so daringly to resist. In that sense, A Life in Common also renders a context for the engagements Cittadellarte has set out for. Engagements that, taking place in the same dynamic field, in an identical manner require a constant reflection. Two recent examples of Cittadellarte’s involvement in impacting the urban agenda, featured here, can be understood as working sites in city-scape and -fabric and as such are open, in progress and uncer-
city and its inhabitants. Pigna incorporates a particular challenge: “How to reconstitute this largely isolated and neglected part of Sanremo within the city, without selling out its unique make-up of population and social relations?” In 2012, during the expedition to Pigna, the UNIDEE residents took the relevant step to work as one team on a common project. They established an international collective called UNIDESCO to address themes regarding an alternative concept of common and immaterial heritage, challenging the postulates of UNESCO, showcased in two quite particular documents: a video which lets us peep into the forging of individual residents into a group to answer the challenge brought by Pigna, and the resulting common action that has arisen from this tense, emotional and demanding start.
un collettivo chiamato UNIDESCO che affronta le tematiche relative al concetto di patrimonio comune e immateriale, mettendo in discussione i postulati dell’UNESCO. Questo approccio è stato ben rappresentato da due documenti molto particolari: un video che ci permette di assistere al consolidamento di singoli residenti in un gruppo per affrontare le sfide poste da Pigna, e la successiva azione comune nata da questo inizio teso, emozionale e impegnativo.
Cittadellarte’s work sites within the context of A Life in Common
IN MOSTRA :
ESPOSTI: Le due aree dedicate al lavoro di Cittadellarte presentano un grande diagramma, pubblicazioni che documentano una selezione di progetti realizzati e un archivio fotografico di EVENTO 2011; il portfolio di UNIDESCO, un documentario girato a Pigna e le uniformi di UNIDESCO. EVENTO 2011 – Shared Knowledges Project Redatto da Luigi Coppola e Eríc Troussicot Diagramma, 8 pubblicazioni e video, 5 min, 2012 Nel 2011, Michelangelo Pistoletto / Cittadellarte è stato il direttore artistico della biennale di Bordeaux “Evento”. Secondo il motto “arte per una (ri)evoluzione urbana”, Evento 2011 è riuscita a includere cittadini e visitatori, oltre a un grande numero di artisti, nella produzione di idee e progetti creativi realizzati nel cuore della città. http://evento2011.com IN THE EXHIBITION :
FEATURED: Cittadellarte’s two work sites feature a large diagram, publications documenting selected realised projects and a photo archive from EVENTO 2011; UNIDESCO’s portfolio, a documentary made in Pigna and UNIDESCO’s “uniforms”. EVENTO 2011 – Shared Knowledges Project Compiled by Luigi Coppola and Eríc Troussicot Diagram, 8 publications and video, 5 min, 2012 In 2011, Michelangelo Pistoletto / Cittadellarte was the artistic director of the biennial Evento in Bordeaux. Under the motto “art for an urban (re-)evolution”, Evento 2011 reached out to include, apart from a large number of artists, local inhabitants and visitors in the production of ideas and creative projects at the heart of the city. http://evento2011.com
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UNIDESCO in La Pigna UNIDESCO Video, 33.30 min, 2012
Per la prima volta, con la spedizione del 2012 nel quartiere Pigna di Sanremo, i residenti UNIDEE hanno deciso di presentarsi come gruppo e lavorare a un unico progetto comune. Hanno istituito un collettivo internazionale chiamato UNIDESCO che affronta temi legati a un concetto alternativo di patrimonio comune e immateriale, sfidando quello postulato dall’UNESCO. http://unidee2012.wordpress. com/sanremo The Asshole UNIDEE e Loris Bellan Video, 630 min, 2012 Durante la preparazione dell’intervento di UNIDEE nel degradato quartiere Pigna di Sanremo, il direttore teatrale Borut Šeparović (nel suo ruolo di “stronzo”) ha sfidato la motivazione e la rilevanza delle proposte progettuali dei residenti UNIDEE. Questi due giorni emozionanti e impegnativi di workshop sono stati catturati interamente in un video. UNIDESCO in La Pigna UNIDESCO Video, 33.30 min, 2012 For the first time, with the 2012. expedition to Sanremo’s neighbourhood Pigna, the UNIDEE residents declared themselves a team working on one common project. They established an international collective called UNIDESCO that addresses themes regarding an alternative concept of common and immaterial heritage, challenging the postulates of UNESCO. http://unidee2 012 .wordpress. com/sanremo The Asshole UNIDEE 2012 and Loris Bellan Video, 630 min, 2012 In preparation for UNIDEE’s intervention in Sanremo’s dilapidated neighbourhood Pigna, performance director Borut Šeparović (in his role of “the asshole”) challenges the UNIDEE residents on their motives and the relevance of their project proposals. This emotional and tough 2-day workshop has been entirely captured on video.
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Cinque incontri pubblici Partendo dalle diverse posizioni prese dalle organizzazioni, gruppi e iniziative partecipanti che, come Cittadellarte, vedono il settore artistico e culturale come il fulcro da cui sviluppare una trasformazione responsabile della società, si è tenuta un’accesa conversazione all’interno dell’hub di A Life in Common. L’hub è stato allestito come un elemento spaziale fatto di pezzi di WikiHouse, riconoscibile dalle strutture di legno accuratamente fatte a mano. La WikiHouse (www.wikihouse.cc) è un set di costruzione open-source. Il suo scopo è quello di permettere a chiunque di progettare, scaricare e “stampare” i componenti di una casa lavorati con una fresatrice a controllo numerico, che possono essere assemblati con capacità ed esperienza minime nell’edilizia. All’interno di questo dibattito, in una sessione pomeridiana, cinque “iniziatori di trasformazione” hanno preso la parola: Rick Lowe, artista di Houston, Texas, fondatore del Project Row Houses e del Row House Community Development Corporation e Francien van Westrenen, curatore di architettura a Stroom Den Haag (L’Aia), i cui due progetti sono presentati in questa pubblicazione; Gertrude Flentge, manager del programma culturale
internazionale della Fondazione DOEN di Amsterdam; Luca Zevi, curatore del padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia del 2012, che ha parlato del bisogno di stabilire una nuova alleanza tra cultura ed economia, essenziale per la ripresa dell’Italia; Jeanne van Heeswijk, artista visiva di Rotterdam che stimola e sviluppa una produzione culturale e crea o rimodella spazi pubblici e collaborazioni. L’argomento del dibattito è poi diventato se (e fino a che punto) i partecipanti considerassero l’arte e la cultura gli strumenti giusti per affrontare le sfide che la società si trova ora a dover affrontare.
Five public encounters Expanding on the different positions taken by the participating organisations, groups and initiatives that, like Cittadellarte, see the artistic and cultural field as a core from which a “social responsible transformation” can be undertaken, a lively discussion has been held within the A Life in Common’s hub. The hub has been set up as a spatial element consisting of pieces of the WikiHouse, recognizable as carefully crafted
wooden structures. The WikiHouse (www.wikihouse.cc) is an open source construction set. Its aim is to allow anyone to design, download, and “print” CNC-milled house components, which can be assembled with minimal building skills or training. Within it, for an afternoon session, five “initiators of transformation” took the floor: Rick Lowe, an artist from Houston, Texas, founder of Project Row Houses, and the Row House Community Development Corporation and Francien van Westrenen, curator architecture at Stroom Den Haag (The Hague), with both cases featured here in this publication; along with Gertrude Flentge, manager of the international culture program at DOEN Foundation in Amsterdam; Luca Zevi, curator of the Italian Pavilion at the 2012 Architecture Biennial in Venice, who explored the need to establish a new pact between culture and economy, essential for Italy’s recovery; and Jeanne van Heeswijk, a visual artist from Rotterdam who stimulates and develops cultural production and creates or remodels public spaces or encounters. The discussions ventured into the question if (and to what extent) the participants considered art and culture the right tools to address the societal challenges at hand.
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“MOLTO SPESSO, QUANDO SI HA A CHE FARE CON ARTISTI CHE LAVORANO FUORI DAL MONDO TRADIZIONALE DELL’ARTE, LE PERSONE PENSANO CHE TALE DIMENSIONE FINIRÀ PER RICONNETTERSI AL MONDO DELL’ARTE, ALL’INTERNO DI UN PERCORSO PREVISTO. SONO QUASI 20 ANNI, AD OGGI, E NON È ANCORA SUCCESSO, E QUESTO CI PONE IN QUALCHE MODO AL LIMITE DI QUELLA COMUNITÀ ARTISTICA.”
RICK LOWE
“OFTENTIMES WITH ARTISTS WHO WORK OUTSIDE OF THE TRADITIONAL ART WORLD, PEOPLE THINK THAT IT IS GOING TO CONNECT BACK INTO THE ART WORLD, INTO A WAY THAT THEY EXPECT. IT IS NEARLY 20 YEARS NOW, AND IT HASN’T HAPPENED, WHICH NOW PUTS US SOMEHOW ON THE EDGE OF THAT ART COMMUNITY.” RICK LOWE
“CI SONO MOLTE ISTITUZIONI CHE HANNO A CHE FARE CON LE STESSE SFIDE COLTE DA NOI, MA CHE VOGLIONO ANCORA PRESENTARLE ALL’INTERNO DEL MONDO DELL’ARTE. NOI CERCHIAMO, SEMPRE DI PIÙ, DI USCIRE DAL MONDO DELL’ARTE, PERCHÈ LA SOCIETÀ HA BISOGNO DI PROSPETTIVE NUOVE O ALTERNATIVE SUI PROPRI PROBLEMI.” FRANCIEN VAN WESTRENEN
“THERE ARE A LOT OF INSTITUTIONS THAT DEAL WITH THE SAME ISSUES AS WE DO, BUT STILL LIKE TO PRESENT THEM WITHIN THE ART WORLD. WE, MORE AND MORE, TRY TO GET OUT OF THE ART WORLD – BECAUSE SOCIETY NEEDS NEW OR ALTERNATIVE PERSPECTIVES ON ITS ISSUES.”
FRANCIEN VAN WESTRENEN
“NON SAREI D’ACCORDO NEL DIRE CHE NOI VEDIAMO L’ARTE COME STRUMENTO NONOSTANTE, CERTAMENTE, ANCHE NELLA NOSTRA FONDAZIONE, SIA SEMPRE VIVA LA LOTTA A PROPOSITO DELLA SUA STRUMENTALIZZAZIONE. SPECIALMENTE SE I PROGETTI ARTISTICI DEVONO PORSI ACCANTO A PROGETTI ECONOMICI O AMBIENTALI, CHE SONO VISTI COME MOLTO PIÙ D’IMPATTO.”
GERTRUDE FLENTGEE
“ALTHOUGH I WOULDN’T AGREE WITH SAYING THAT
WE SEE ART AS A TOOL, OF COURSE, EVEN IN OUR FOUNDATION THERE IS ALWAYS THIS STRUGGLE AROUND ITS INSTRUMENTALISATION. ESPECIALLY IF ARTISTIC PROJECTS HAVE TO STAND NEXT TO THE CLIMATE AND ECONOMY PROJECTS, WHICH ARE SEEN AS MUCH MORE IMPACTFUL.”
GERTRUDE FLENTGE
“MOLTO SPESSO [IN ITALIA E IN EUROPA] C’È UN ATTEGGIAMENTO DI CHIUSURA, PERCHÈ SEMBRA CHE CHIUDERSI SIA UN MODO DI DIFENDERSI. NELLA CRISI ATTUALE CI SONO MOLTE SPINTE ALLA CHIUSURA E AL FERMARSI. NONOSTANTE CIÒ SIA IMPOSSIBILE, IN ITALIA LA MANCANZA DI PROGETTO E LA PRESENZA DI SPINTE ALLA CHIUSURA SONO DUE GROSSI PERICOLI.”
LUCA ZEVI
“BOTH IN ITALY AND IN EUROPE WE OFTEN FIND
AN ATTITUDE OF CLOSURE, BECAUSE CLOSURE SEEMS TO BE A WAY OF DEFENDING ONESELF. IN THE PRESENT CRISIS PEOPLE ARE SPURRED TO CLOSURE AND INACTIVITY. ALTHOUGHT THIS IS IMPOSSIBLE, IN ITALY THE LACK OF PROJECTUALITY AND THE GENERAL DRIVE TOWARDS CLOSURE ARE TWO BIG DANGERS.”
LUCA ZEVI
“PERCHÉ FARLO? PERCHÉ COSTRUIRE LE NOSTRE CITTÀ, O COSTRUIRE I NOSTRI FUTURI, DOVREBBE ESSERE UN PROCESSO INCLUSIVO; DOVREBBE LASCIARE ALLE PERSONE LA POSSIBILITÀ DI ESSERNE PARTE. SI TRATTA DI QUALCOSA DI PIÙ DI UNA “PARTECIPAZIONE”. SIGNIFICA DIVENTARE TU STESSO UNA FORZA CHE INTERVIENE SUL TUO AMBIENTE ATTUALE.”
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JEANNE VAN HEESWIJK
“WHY DOING THIS? BECAUSE BUILDING OUR CITIES, OR BUILDING
OUR FUTURES, SHOULD BE AN INCLUSIVE PROCESS; IT SHOULD ALLOW PEOPLE TO TAKE PART IN IT. THAT IS MORE THAN “PARTICIPATION”—IT IS BECOMING YOURSELF A FORCE IN SHAPING YOUR IMMEDIATE ENVIRONMENT.” JEANNE VAN HEESWIJK
A Life in Common
arte e cultura per un cambiamento degli aspetti chiave della vita urbana / Art and culture changing key aspects of urban life CONCEPT, RICERCA E REDAZIONE
/ CONCEPT, RESEARCH AND EDITORIAL Ana Džokić e Marc Neelen (STEALTH.unlimited), Juan Esteban Sandoval IN CONSULTAZIONE CON / IN CONSULTATION WITH Paolo Naldini ASSISTENTE / ASSISTANT Elisabetta Rattalino PARTECIPANTI / PARTICIPANTS Van Abbemuseum (Eindhoven), Right to the City e MI2 (Zagabria), Stroom Den Haag (L’Aia), MACAO (Milano), Row House Community Development Corporation (Houston), Atelier d’Achitecture Autogérée (Parigi), Smári McCarthy and The Citizens Foundation (Reykjavík), EVENTO 2011 (Bordeaux), UNIDESCO EXHIBITION DESIGN
Ana Džokić e Marc Neelen (STEALTH.unlimited), Juan Esteban Sandoval
GRAPHIC DESIGN
Liudmila Ogryzko
TRADUZIONI E LETTURA DI BOZZE / TRANSLATIONS AND PROOFREADING Luca Furlan, Elena Pasquali, Margarita Vazquez Ponte, Carlotta Cireddu COORDINAMENTO / COORDINATION Luca Furlan FOTO DELLA MOSTRA / PHOTOS OF THE EXHIBITION Enrico Amici, Ana Džokić e Marc Neelen (STEALTH. unlimited)
IMMAGINI E OPERE DI / IMAGES AND WORKS BY Tintin Wulia, Surasi Kusolwong, Petra Bauer e Annette Krauss, Roosje Klap and students Graphic Design Royal Academy of Art - The Hague, Photomacao, Sam Durant, Project Row Houses, R-Urban, Brian Suda, Citizens Foundation, Pierre Planchenault, UNIDESCO
Via Serralunga 27 - 13900 Biella, Italy 015 28400 - www.cittadellarte.it
President Giuliana Carusi Setari Vice President Maria Pioppi Artistic Director Michelangelo Pistoletto Director Paolo Naldini Project research and exhibition coordination Juan Esteban Sandoval, assistant Elisabetta Rattalino Exhibition Project Manager Alessandro Lacirasella Press and Communications Office Margherita Cugini Graphic Design Liudmila Ogryzko Editor Luca Furlan Web Daniele Garella Web community Marcello Venturini System Administration Andrea Oitana Architecture Office | n.o.v.a civitas Emanuele Bottigella, Tiziana Monterisi, Armona Pistoletto Education Office | UNIDEE Linda Mercandino artists’ curator Margarita Vazquez Ponte assistant Elisabetta Rattalino Fashion Office Cittadellarte Fashion BEST Olga Pirazzi Politics Office | Lovedifference Filippo Fabbrica, Emanuela Baldi Production and Design Office Armona Pistoletto Administration Elisa Cicero, Luciana Friaglia, Annalisa Marchioro, Roberto Melis Archive Marco Farano Store Elena Pasquali Facilities Salvatore Falcone, Sandra Ottino
CittADELLArtE EDiziOni BiELLA, 2012-2013.
StAmPAtO PrESSO tiPOgrAFiA grAFiCA BiELLESE SrL Su CArtA CErtiFiCAtA / PrintED On PAPEr CErtiFiED F.S.C. FOrESt StEwArDShiP COunCiL, E.C.F. ELEmEntAL ChLOrinE FrEE mEtALLi PESAnti ASSEnti – hEAvy mEtAL ABSEnCE
In partnership with REGIONE PIEMONTE
With the support of MiBAC Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT, Fondazione Cassa di Risparmio di Biella
ISPIRARE E PRODURRE UN CAMBIAMENTO RESPONSABILE NELLA SOCIETÀ ATTRAVERSO IDEE E PROGETTI CREATIVI
Cittadellarte is a new form of artistic and cultural institution that places art in direct interaction with the various sectors of society. An organism aimed at producing civilization, activating a responsible social transformation necessary and urgent at local and global level.
Cittadellarte è un nuovo modello di istituzione artistica e culturale che pone l’arte in diretta interazione con i diversi settori della società. Un organismo inteso a produrre civiltà, attivando un cambiamento sociale responsabile necessario ed urgente a livello locale e globale.
Cittadellarte is an open community where individual and collective energies get activated towards the achievement of a common good in the different areas that constitute the social structure: from sustainable architecture and town planning to sustainable fashion, from industrial design and production to the development of craftsmanship, from international political relations to communication, nourishment and spirituality.
Cittadellarte è una comunità aperta in cui le energie individuali e collettive sono attivate, verso la realizzazione del bene comune, nei diversi settori che costituiscono la struttura sociale: dall’architettura e urbanistica alla moda sostenibili, dal design e produzione industriale allo sviluppo dell’artigianato, dalle relazioni di politica internazionale alla comunicazione, al nutrimento e alla spiritualità.
Cittadellarte is a non-profit organization of social utility, recognized by and under the patronage of the Region of Piedmont since 1998. Its headquarters are in Biella, in a 19th Century former wool mill, itself a piece of industrial archeology and protected by the Ministry of Cultural Assets.
Cittadellarte è un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale, riconosciuta nel 1998 dalla Regione Piemonte e con essa convenzionata. Ha sede a Biella in un’ex manifattura laniera (sec. XIX), complesso di archeologia industriale, tutelato dal Ministero dei Beni Culturali.
EURO
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