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IL MEGAFONO

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Numero IV Maggio 2015

Periodico di politica, cultura e attualità a tema unico. Clan “R.Zappulo”

Oggi non si chiama schiavitù

Evoluzione del modello familiare

Commetteremmo un grosso errore se associassimo alla parola schiavitù un’immagine sbiadita, vecchia, legata al trasferimento via nave di schiavi da un continente all’altro: qualcosa di lontano, non solo nel tempo, ma anche distante dalle nostre “civilissime” società. La realtà non è questa.Oggi non si chiama più schiavitù. Oggi ha il nome rinnovato di “sfruttamento commerciale e/o sessuale”, oppure “matrimonio precoce e forzato”, o ancora “lavoro forzato”. » segue, pg. 4

Si nasce una volta sola

Editoriale Nell’era del villaggio globale sarebbe uno sforzo superfluo, se non inutile, quello di scrivere un giornale puramente divulgativo: oggi è molto semplice accedere ad ogni tipo di notizia, e sembra anzi quasi impossibile sfuggire dal vortice di informazioni che scorre continuamente dalla televisione e dal web. Tuttavia la voglia di rimettere in piedi una redazione per il “Megafono” nasce da un’analisi della realtà ben più profonda, un’analisi critica sulla qualità delle informazioni a cui si ha accesso. Crediamo che chiunque voglia assumere un ruolo di mediatore della realtà debba, prima ancora di informare, innanzitutto passare per uno stadio di formazione personale riguardo ai temi da trattare. » segue, pg. 2

Chi spezza la catena?

La Giovanna d’Arco di Curti

Se è vero che la famiglia è il luogo dove crescere insieme, educarsi vicendevolmente, amare ed imparare ad amare; dove in primis esprimere la propria personalità e le proprie vocazioni, e successivamente accogliere quelle altrui; se è in questo senso che la famiglia costituisce il nucleo primo e fondamentale della più vasta giungla della società, allora dovrebbe essere senz’altro logico, nonché naturale, che ciascuno possa avere la possibilità di scegliere, qualora lo desideri, di intraprendere un simile percorso di vita. » segue, pg. 2

L’ analogia di nomi con quello dell’eroina francese non è una banale casualità: Giovanna ha 47 anni, vive a Curti, in provincia di Caserta, ha tre figli e tre lavori. Quando racconta la sua storia, il numero sempre più elevato di donne costrette, sole, a combattere contro l’incubo della violenza domestica e l’ipocrisia di una società omertosa e maschilista, acquisisce un volto ben definito, contornato da una lacrima e talvolta da un sorriso» segue, pg. 5

Annabella è nata nel 2001 : la data esatta, però, non possiamo conoscerla con certezza; in realtà, neanche lei la conosce, perché quando l’istituto ha consegnato i dati anagrafici ai suoi genitori, non ha specificato in quale giorno, mese o anno fosse nata, “approssimativamente ha 4 anni” hanno detto. Ma il 2001 è un anno importante: è “nata”, se vogliamo rimanere in tema... » segue, pg. 3

LE NOSTRE RUBRICHE

Terra dei fuochi, diritto alla salute e alla giustizia

26 milioni di si non bastano per l’acqua pubblica!

Armiamoci di “coscienza”

Le cave e la cementir

Locanda del migrante


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Editoriale

Nell’era del villaggio globale sarebbe uno sforzo superfluo, se non inutile, quello di scrivere un giornale puramente divulgativo: oggi è molto semplice accedere ad ogni tipo di notizia, e sembra anzi quasi impossibile sfuggire dal vortice di informazioni che scorre continuamente dalla televisione e dal web. Tuttavia la voglia di rimettere in piedi una redazione per il “Megafono” nasce da un’analisi della realtà ben più profonda, un’analisi critica sulla qualità delle informazioni a cui si ha accesso. Crediamo che chiunque voglia assumere un ruolo di mediatore della realtà debba, prima ancora di informare, innanzitutto passare per uno stadio di formazione personale riguardo ai temi da trattare. La formazione è il processo più lungo e quello fondamentale, se si vuole essere davvero testimoni di verità e non di “notizie da bar”. Tutto quello che ci gira intorno va epurato da ogni strumentalizzazione o idealizzazione, e per farlo bisogna indossare la tuta da lavoro scendendo a fondo nelle questioni, incontrando i protagonisti delle vicende, scambiando punti di vista, lottando contro i propri pregiudizi smascherando false convinzioni. Questo è in sintesi ciò che comunitariamente abbiamo fatto per dar vita a questo giornale, un processo che noi chiamiamo “capitolo”. Dopo la presa di coscienza, siamo stati pronti ad urlare attraverso il Megafono e contro informare: informare sì, ma contro una serie infinita di tabù, preconcetti e nozioni asettiche. Al centro c’è un’idea ben precisa, che deriva da qualcosa che abbiamo visto: è in questo senso che il Megafono non è oggettivo, se per oggettivo intendiamo qualcosa privo di una linea di pensiero caratterizzante e critica. Da qui il desiderio che tutto ciò abbia un

ruolo provocatorio nella cittadinanza, che smuova chi legge e lo indirizzi ad una presa di posizione sui temi proposti: il Megafono è una piena e chiara espressione politica, segno dell’appartenenza alla nostra terra e a Caserta, espressione della volontà di mantenere attente le coscienze dei nostri concittadini. Accanto agli articoli ed alle rubriche inerenti al capitolo, abbiamo ritenuto opportuno mantenere degli articoli fissi, che rimarranno costanti per ciascuna uscita del Megafono; essi riguardano la politica del disarmo, la gestione dell’acqua pubblica, gli aggiornamenti sulla Terra dei fuochi e la comunità dei migranti a Caserta. Sono argomenti scottanti e di primaria importanza per noi e per tutta la città, sui quali riteniamo importante mantenere l’obiettivo puntato. Il capitolo che ci ha visti impegnati da qualche mese a questa parte, e da cui nasce questa prima uscita del Megafono, ha come tema portante la famiglia, uno dei luoghi fondamentali della quotidianità e della crescita. Siamo partiti con mille e più dubbi da voler chiarire, mille e più domande da voler esaurire e soprattutto mille e più certezze da voler mettere in gioco. La famiglia, a dispetto di una visione conservatrice che la vorrebbe ben definita e determinata, è in continuo evolvere, e ciò è testimoniato dall’aumento dei modelli familiari a cui assistiamo da circa mezzo secolo a questa parte. Ciò non deve tuttavia lasciar spazio ad una visione meramente relativista, ma anzi deve farci interrogare ancor più attentamente su quali siano gli ingredienti essenziali e primari sui quali si fonda il nucleo familiare, come l’impegno a crescere ed ad educarsi insieme, la gratuità dell’amore per un compagno di vita, per un figlio o per entrambi, la consapevolezza che ognuno all’interno di essa ha una diversa

strada da percorrere, e che quella dei figli dovrà essere migliore di quella dei genitori. La famiglia è anche un soggetto legislativo, e come tale dovrebbe godere di alcuni diritti imprescindibili per una sana esistenza: purtroppo la realtà dei fatti non è positiva nel nostro Paese, e risulta quindi un dovere per noi denunciare una serie di diritti negati e combattere affinché essi siano riconosciuti, poiché, sebbene sia una minoranza ed esserne effettivamente privata, essi sono di fatto sottratti a chiunque. Queste le linee guida che caratterizzano questo primo numero del Megafono. Speriamo di portare a chi legge un pizzico di consapevolezza in più e, perché no?, di sana indignazione. La redazione Clan “Raffaele Zappulo”, Caserta II

Chi spezza la catena? Se è vero che la famiglia è il luogo dove crescere insieme, educarsi vicendevolmente, amare ed imparare ad amare; dove in primis esprimere la propria personalità e le proprie vocazioni, e successivamente accogliere quelle altrui; se è in questo senso che la famiglia costituisce il nucleo primo e fondamentale della più vasta giungla della società, allora dovrebbe essere senz’altro logico, nonché naturale, che ciascuno possa avere la possibilità di scegliere, qualora lo desideri, di intraprendere un simile percorso di vita. Di vivere una vita così. Eppure, ad oggi, il diritto di costruirsi una famiglia non è ovvio, o, perlomeno, non lo è per tutti. Nel milennio dagli evoluti slogan occidentalistici che parlano di globalizzazione, della caduta di ogni frontiera, del progresso tecnologico e sociale dell’industria e delle menti, non è possibile ignorare il ritardo italiano in materia legislativa sul riconoscimento delle unioni civili omosessuali e, di conseguenza, sul matrimonio tra persone dello stesso sesso. Senza il bisogno di allargare eccessivamente il nostro sguardo sul mondo, ma mantenendo l’obiettivo puntato sull’Europa, si nota che sono una dozzina i paesi che si sono espressi favorevolmente riguardo alla legalizzazione del matrimonio omosessuale,

mentre il numero raddoppia se consideriamo gli Stati che hanno ufficializzato le unioni civili. Coerentemente con queste linee legislative, esistono in Europa Stati che approvano l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso . Il Bel Paese risulta così ancora una volta un passo indietro rispetto ai suoi fratelli, anche se, in questo preciso caso, lo sforzo per raggiungerli non dovrebbe essere così eccessivo. In ogni caso sappiamo bene e per esperienza che il percorso che porterebbe alla realizzazione di una riforma legislativa di tale portata sarebbe lungo e tortuoso, e comunque non ignoriamo che qualcosa si stia muovendo nelle file parlamentari . Ci interessa invece più da vicino l’impatto che questi temi hanno sull’opinione delle persone, i pregiudizi o le prospettive positive che lasciano intravedere. In una domanda: se “l’alta politica” è in ritardo, come ci stiamo muovendo noi dal basso? Bisogna ammettere per onestà che siamo poco abituati a mettere in gioco le nostre certezze e a toccare temi che non ci riguardano strettamente da vicino. Spesso ci si fa portavoce di progresso, di cambiamento e di apertura mentale ma si rimane sul piano puramente dialettico: le belle parole restano tali e non ci toccano nel


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profondo. Basterebbe, in teoria, mettere da parte le nostre credenze ed andare incontro all’altro. Scopriremmo che non c’è nulla di atipico in una persona dai gusti sessuali differenti dai nostri. Ma dove si trova l’altro? A causa di un meccanismo escludente così radicato, fatto di mancanza di diritti, diffidenza e preconcetti, tanto profondi nel nostro cervello che non li riconosciamo più, è facile che la maggioranza dei ragazzi LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender) decida di non sprecarsi troppo per una simile lotta di accettazione, ma al contrario di tenersi stretta la propria cerchia di amicizie fidate e così vivere una vita tranquilla. Il percorso di emancipazione passa infatti per le coscienze di tutti: anche gli omosessuali hanno da combattere con la loro porzione di omofobia interiore, e non è scontato che tutti riescano a sconfiggerla. Ci si sente fuori posto, in errore, contro natura. A questo punto del discorso è lecito porsi la domanda: chi spezza la catena? Se la politica non è pronta, se le persone sono cieche, se gli stessi omosessuali si chiudono in se stessi e spesso non hanno la forza di combattere questo meccanismo perverso, chi è che spezza la catena? La spezzano i ragazzi che scendono in piazza per urlare il diritto ad avere diritti, gli LGBT che ci mettono la faccia durante i Gay Pride e tutti coloro che vi partecipano a prescindere dall’orientamento sessuale, riconoscendo che un diritto negato

ad una persona è una prerogativa sottratta a chiunque; la spezzano gli associati all’AGEDO, coloro che hanno saputo rinascere come genitori, coloro che hanno cancellato i rimpianti e il malcontento per le aspettative disilluse dai propri figli, e hanno avuto la forza di scommettere su se stessi e sull’idea di famiglia che prima avevano: i “2 volte genitori”; la spezza il “Gruppo Ponti Sospesi”, omosessuali che non rinunciano alla propria dimensione etica e religiosa cristiana, che fanno proprio il senso più profondo di comunità del messaggio evangelico, e lo esprimono con forza nonostante le evidenti contraddizioni clericali; la spezzano i ragazzi Rain, ognuno con la propria storia e i propri percorsi, che promuovono sul territorio casertano la cultura LGBT contro ogni tipo di omofobia, bifobia e transfobia, tutti con la convinzione che la conoscenza, il dialogo e l’incontro possano abbattere la diffidenza e i pregiudizi; la spezzano le Famiglie Arcobaleno, che testimoniano come una famiglia omogenitoriale funzioni come ogni altra, nell’educare i figli, nel crescere insieme, nell’imparare a rispettarsi e ad amarsi. Domenico Giaquinto

Si nasce una volta sola Annabella è nata nel 2001 : la data esatta, però, non possiamo conoscerla con certezza; in realtà, neanche lei la conosce, perché quando l’istituto ha consegnato i dati anagrafici ai suoi genitori, non ha specificato in quale giorno, mese o anno fosse nata, “approssimativamente ha 4 anni” hanno detto. Ma il 2001 è un anno importante: è “nata”, se vogliamo rimanere in tema, la legge n 149, che sostituisce la n 148 del 1983, la quale disciplina “l’adozione e l’affidamento dei minori”, una legge che cerca di andare al passo con i tempi ma che presenta ancora tanti limiti, non ultimi quelli imposti dalla burocrazia, i cui tempi continuano ad essere incredibilmente lunghi in relazione ai tempi veloci dell’età evolutiva. Ma facciamo un passo indietro: che cos’è un’ adozione e che cosa significa affido? Una cosa si sa: non è possibile darne una definizione univoca e ben accetta e tanto meno possiamo accogliere una definizione fredda e meccanica come quella giurisprudenziale; ci possiamo affidare solo all’ esperienza di chi ha vissuto l’adozione e l’affido in prima persona. Adottare significa scegliere di prendersi cura di qualcuno per tutta la vita , così come l’affido è la fiducia che si da’a un soggetto che temporaneamente si prenderà cura di un’altra persona che ne ha bisogno perchè chi dovrebbe farlo al momento non può o non vuole. La persona di cui stiamo parlando è

classificata come” il minore” , cioè più piccolo, quasi a voler dire “meno importante”,ma non come “ bambino” perché, nella maggior parte dei casi di adozione in Italia, se tutto va bene, passano anni e il bambino cresce, diventa adolescente, senza ancora aver avuto al suo fianco una figura di riferimento. Allora che si fa? Il tempo non si può fermare, sei semplicemente già cresciuto e due sono le opzioni: o sei fortunato e riesci ad essere adottato, perchè hai fratelli ancora piccoli più richiesti, o, al contrario, continui a crescere dentro un istituto fino ai tuoi 18 anni, quando sei finalmente responsabile delle tue azioni. Può capitare anche che i bambini non adottati dalle coppie possano essere adottati dai single “in casi particolari”. Si tratta di ragazzini ormai adolescenti che non possono essere affidati , con qualche difetto o disabilità, per cui la legge dà la “possibilità” anche a singoli di adottare, ma è tutto più difficile. Sì, si vuol far credere che esistano bambini di serie A e bambini di serie B, piccoli e sani da un lato e disabili, adolescenti con difetti fisici dall’altro. In realtà recenti studi di carattere internazionale dimostrano che non è tanto l’età dell’adottato a determinare il buon esito dell’adozione, quanto il modo in cui questo è stato trattato nelle primissime relazioni affettive. Ogni adozione comporta una sinergia di forze, per cui per adottare un bambino si

devono compiere determinate operazioni la coppia si rivolge all’equipe adozioni dei consultori familiari, dove riceve le prime informazioni; deve quindi seguire corsi di formazione e sensibilizzazione per un certo periodo di tempo; può infine scegliere tra due vie entrambe difficili e costose: l’adozione nazionale o quella internazionale. In entrambe si ottiene dal tribunale dei minori l’ idoneità ad adottare dopo aver accertato le garanzie della coppia e il rispetto della legge. Nel caso delle adozioni nazionali si procede all’ abbinamento e al successivo affidamento sorvegliato sempre da esperti come psicologi e assistenti sociali che sono chiamati a preservare l’interesse del minore. Nel caso delle adozioni internazionali si riceve un buono di 100 euro dall’ equipe adozioni dei consultori da spendere presso un ente autorizzato che, una volta dichiarata l’idoneità ad adottare, procederà ad individuare il bambino da abbinare. C’è un viaggio da sostenere nel paese contattato e si valuta la relazione tra bambino e coppia e per un tempo equivalente a 3 anni si è seguiti dagli esperti. CHI? Secondo la legge sono dichiarati “adottabili” i bambini abbandonati di cui non si conosce l’origine familiare. Mentre sono dichiarati “affidabili” quei bambini al-


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lontanati dalla famiglia d’origine perché sussistono gravi maltrattamenti o omissioni nella cura del minore,oppure perché la madre o il padre single è affetta/o da una grave malattia e in entrambi i casi è impossibile occuparsi del minore. La differenza fondamentale consiste nel fatto che, mentre con l’adozione si tagliano i ponti con la famiglia d’origine, con l’affido si mantengono i rapporti. L’affido può durare un massimo di due anni che possono essere prorogati dal Tribunale per i Minorenni nel caso in cui, al termine di questo periodo, sussistano ancora le difficoltà iniziali alla base di tale provvedimento, dopodiché il minore o ritorna nella sua famiglia che nel frattempo è “guarita”, oppure è dichiarato adottabile e non è detto che sarà adottato dalla stessa famiglia affidataria dove fino a quel momento è cresciuto. Questo perché la famiglia deve avere determinati requisiti per poter adottare e non sono gli stessi requisiti richiesti a una famiglia affidataria: gli affidatari possono essere adulti in coppia con o senza figli, sposati o conviventi, ma anche persone singole, mentre l’adozione è consentita solo a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. La legge ha cercato di accorciare questa notevole distanza tra affido e adozione dichiarando che, qualora la famiglia affidataria sia effettivamente interessata al minore e vi sia la

presenza di un legame costruttivo tra il soggetto e la famiglia, dove c’è stato un rapporto di cura e di frequentazione particolarmente significativo, essa può adottare direttamente il minore superando anche il requisito del matrimonio . Ma i tribunali, in molti casi, continuano a impedire che la famiglia affidataria possa divenire anche adottiva, proprio perché i genitori non sono sposati. È mai possibile che il delirio di onnipotenza contagi chiunque assuma il compito di decidere della vita degli altri? Il matrimonio, infatti, sembra essere l’unica garanzia di stabilità della coppia e quindi del futuro dei bambini adottati e poca importa se divorzi e separazioni sono in continuo

aumento. Ma non dovrebbe essere la decisione di adottare già di per sè una garanzia ? A prova di ciò è il fatto che ci sono delle coppie che desiderano essere dei genitori non perché hanno la capacità di generare figli, ma perchè hanno la capacità di regolare le loro vite, di dare il proprio amore, prendendosi cura di qualcuno che non è il loro figlio biologico e che, probabilmente, la sua famiglia riporterà a casa o che sarà affidato a qualcun altro, e di renderlo al mondo attraverso un’educazione nel bene e per il bene. È bene che l’ adozione non si ammanti di connotazioni pietistiche; è bene essere consapevoli che non si adotta per aiutare un povero bambino ma perché accogliere un bambino nella nostra vita ci gratifica, è un atto d’amore. La possibilità che hanno i genitori attraverso l’adozione è proprio quella di capire realmente chi è un genitore e qual è il suo ruolo, di mettersi in gioco, di riprogrammare la propria vita facendo spazio ai bisogni dell’altro, cosa che ogni genitore è chiamato a fare. Ad oggi, Annabella festeggia lo stesso il suo compleanno, il 28 marzo; la data precisa non la conosce né può rinascere una seconda volta, ma ci dice che, nonostante tutto, è cresciuta, ha 14 anni e nella vita desidera essere felice. Cristina Taglialatela

Oggi non si chiama schiavitù Commetteremmo un grosso errore se associassimo alla parola schiavitù un’immagine sbiadita, vecchia, legata al trasferimento via nave di schiavi da un continente all’altro: qualcosa di lontano, non solo nel tempo, ma anche distante dalle nostre “civilissime” società. La realtà non è questa. Oggi non si chiama più schiavitù. Oggi ha il nome rinnovato di “sfruttamento commerciale e/o sessuale”, oppure “matrimonio precoce e forzato”, o ancora “lavoro forzato”. Siamo stati così civili da sostituire un termine troppo disumano con altri più morbidi da pronunciare. Eppure milioni di uomini, donne e bambini in tutto il mondo, ancora oggi, sono costretti a vivere come schiavi. Le persone sono vendute come oggetti, obbligati a lavorare gratis o per una paga minima, e sono alla completa mercé dei loro datori di lavoro. Rispetto al passato, la problematica oggi è molto cambiata. Innanzitutto la schiavitù non è più riconosciuta dal diritto e quindi il “diritto di proprietà” su una persona non può più essere rivendicato. La conseguenza è che tutte le forme di sfruttamento sono illegali. Inoltre oggi, il mercato degli schiavisti, è alimentato da una realtà ormai diffusa su scala globale: la fortissima necessità di emigrare per migliorare la propria condizione di vita. Questo causa un abbassamento del costo d’acquisto. Gli sfruttatori approfittano di queste persone finché sono giovani e forti e poi le abbandonano trovando molto facilmente “merce più fresca”. Lo schiavista dunque, non ha alcun interesse a spendere ed investire per lo schiavo come accadeva in passato. Gli sfruttatori ricavano così profitti altissimi. La prostituzione oggi è la terza voce di guadagno per il crimine internazionale dopo le armi e la droga. In Italia il business si aggira sui 32 miliardi

di euro all’ anno. Un ultimo aspetto riguarda l’origine del problema. In passato tutto si basava sulla differenziazione razziale: una piccola differenza genetica significava schiavitù a vita. Attualmente invece, la distinzione chiave è di ricchezza e potere, non di casta. Gli schiavi del terzo millennio sono circa 27 milioni. Il problema ovviamente non riguarda esclusivamente uomini e donne ma anche minori. L’Italia insieme alla Spagna, “vanta” il record del Paese europeo con più alto numero di minori stranieri non accompagnati. Arrivano principalmente da paesi mediterranei e dall’est europeo; sono circa 11.000, ma la cifra non tiene conto di tutti quelli che rimangono irreperibili, quindi non segnalati. L’Organizzazione internazionale per la tutela dei minori “Save the Children” ha diffuso recentemente il Dossier 2014 “Piccoli schiavi invisibili” in cui riporta dati particolarmente preoccupanti per la consistente realtà dei piccoli migranti esposti maggiormente al rischio di sfruttamento, proprio perché senza “identità”. La storia di Kubra è solo una tra le migliaia di storie che si potrebbero raccontare parlando dello sfruttamento sessuale delle straniere in Italia. E’ un fenomeno così diffuso eppure ancora così sommerso che neanche i dati sono chiari, pur se con cifre in ogni caso sconvolgenti. Sono principalmente albanesi, rumene, moldave e nigeriane. Spesso vengono cedute dalla famiglia di origine ancora giovani a qualcuno che promette loro di mettere al sicuro la figlia. Da qui finiscono nelle mani di chi ne ha fatto un mercato ricco e vasto. Una volta nel Paese di destinazione, la ragazza viene messa al corrente che sarà costretta a pagare un debito altissimo per restituire il “favore”. Non hanno alternative: una volta entrate nel giro l’unico modo


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per uscirne è pagare con la propria vita. Oppure scappare, come ha fatto Kubra. E una cosa è conoscere i dati statistici sul fenomeno, altra è conoscere Kubra. A Caserta Kubra qualche speranza può avercela, però. Sono passati ormai dieci anni da quando Suor Rita Giaretta, insieme

ad altre consorelle, decise di incontrare le piaghe umane di queste donne, e da qui l’’esperienza di “Casa Rut”, fiore all’occhiello per la nostra comunità cittadina e riferimento indispensabile per l’agire della Chiesa locale. “Strappare” letteralmente una ragazza dalla strada, è il primo passo per donarle una vita nuova. All’esperienza di prima accoglienza nella casa alloggio seguono vari percorsi: quello sanitario, di acquisizione dei documenti, apprendimento della lingua italiana, conseguimento della licenza media, fino ad arrivare ad una piena autonomia con l’inserimento lavorativo, insomma ciò che porta una persona ad avere o riavere una piena dignità personale, una riconoscibile identità sociale. E allora grazie a te Kubra, sorella e amica, per aver dato voce alla mia e alla tua indignazione. Francesco Natale

La Giovanna d’Arco di Curti L’analogia di nomi con quello dell’eroina francese non è una banale casualità: Giovanna ha 47 anni, vive a Curti, in provincia di Caserta, ha tre figli e tre lavori. Quando racconta la sua storia, il numero sempre più elevato di donne costrette, sole, a combattere contro l’incubo della violenza domestica e l’ipocrisia di una società omertosa e maschilista, acquisisce un volto ben definito, contornato da una lacrima e talvolta da un sorriso. “ Una donna che subisce violenza…”- ci spiega Elisa, operatrice del centro antiviolenza di Curti – “Vive rinchiusa in solitudine tra le mura di casa, in una gabbia dorata, costretta a sopportare soprusi fisici e psicologici, circondata dall’indifferenza dei cari e la superficialità delle istituzioni, e tutto questo solo per IGNORANZA!”. E’ di ignoranza che si parla, nel significato più stretto del termine, “di chi ignora”. Il compito del centro è infatti quello di seguire le donne in un percorso di coscientizzazione, di scoperta dei diritti e anche di lotta. L’”iter” da affrontare – ci descrive Giovanna - è un’odissea,

e inizia solo dopo un travaglio che di solito dura anni, anche decenni,” fino a quando i bambini diventano grandi, perché altrimenti gli assistenti sociali te li tolgono”. La denuncia è il primo passo; raccontare, superando il luogo comune che aleggia ramificandosi in un’idea di famiglia medioevale, superando il continuo fare “da cuscinetto” di polizia e carabinieri, ancora troppo poco informati e formati sull’argomento della violenza domestica. Il secondo è quello dell’allontanamento, non solo ideale tramite il divorzio, ma anche fisico; le più fortunate hanno qualche familiare da cui andare, altre si rivolgono alle case rifugio, altre ancora prima di conoscere l’esistenza di queste ultime passano le notti in albergo o perfino per strada. Le case rifugio (preposte a fornire, a titolo gratuito, alle vittime di violenza, maltrattamenti e abusi extra o intrafamiliari, aiuti pratici ed immediati per sottrarle alle situazioni di pericolo e per ricreare condizioni di vita autonoma e serena, garantendo anonimato e gratuità) ci racconta ancora Elisa, si reggono grazie ai

contributi versati dallo stato unicamente per le donne con bambini, che devono bastare anche per chi i bambini non riesce a portarli con sé, perché spesso, nei casi più gravi le donne devono abbandonare la città in cui vivono e costruire una nuova vita altrove. “ Per gli uomini non va mai a finire male!” perché le leggi fantasma sulla “Prevenzione e contrasto di fenomeni di particolare allarme sociale” sono valide solamente tra la polvere delle carte burocratiche e non vengono applicate concretamente. Ma non ci sono vittime e carnefici, bensì solo vittime, perché se per le donne esistono, resistendo, dei centri di ascolto e dei percorsi di rinserimento sociale, per gli uomini, povere vittime di se stessi, non esiste nulla e sono lasciati abbandonati ai loro problemi. Ma ritorniamo a Giovanna; se è vero che la famiglia è retta dalla figura del “pater familias” , allora Giovanna rappresenta il ribaltamento del concetto di famiglia tradizionale. Il paradosso di una famiglia “diversa” ( diversa da chi?) ce lo esprime concretamente Giovanna quando dice : “La famiglia siamo noi”, una frase che pronuncia con orgoglio, di chi ha saputo difendere il concetto di famiglia da soprusi e maldicenze, aggrappandosi all’amore per quei tre bambini cresciuti, grazie a lei, con l’esempio di resistenza e non di violenza. Il “potere” si è trasformato in sacrificio, a Giovanna tocca occuparsi di tutto, di quei tre bambini, di quei tre lavori, delle bollette, della scuola, di tutelare le sporadiche visite del padre, di tenere pulita la casa; ma a Giovanna va bene così, perché in cambio ha tutto quello che possa desiderare:“la Famiglia”. Manuel Di Martino


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Un punto di vista obiettivo “La forma delle mani altrui mi distrae; immagino sempre storie dietro quelle mani e finali dietro quelle storie. Un ciclo infinito.”

“L’ amore ha care le mani più di ogni altra cosa, per tutto ciò che hanno preso, fatto, dato, piantato, raccolto, nutrito, rubato, carezzato, sistemato, addormentato, offerto.”

John Berger Francesco Natale


Angolo del giurista “Esistono provvedimenti penali contro chi esercita violenza contro le donne?” Sì. In Italia ci sono leggi che prevedono delle pene per coloro che esercitano violenza contro le donne, ancor di più se incinte o se in presenza di minori. La Legge del 15 ottobre 2013, n. 119 infatti arricchisce il codice penale di nuove aggravanti aumentando di un terzo la pena se alla violenza assiste un minore e/o se la vittima è in gravidanza e/o se la violenza è commessa dal coniuge (anche se separato o divorziato … non importa) e dal compagno (anche se non convivente) o da chi sia o sia stato legato da relazione affettiva e amplia al contempo le misure a tutela delle vittime di maltrattamenti e violenza domestica. La legge, inoltre, stabilisce che sul piano finanziario annuo una parte dei soldi pubblici dovranno essere destinati per realizzare un piano d’azione antiviolenza e per creare e sostenere la rete di case-rifugio. Non sempre, però, tutto ciò viene rispettato, come ci è stato raccontato da alcune donne del centro antiviolenza di Curti che ci hanno reso partecipi della loro esperienza di “fuga” dalla propria città in seguito a mancati provvedimenti penali presi contro il marito violento. Nonostante sia previsto dalla legge un aiuto finanziario da parte degli Enti Pubblici, molti centri antiviolenza che sostengono donne, vittime di violenza fisica e psicologica, non ricevono questi sussidi. La legge prevede comunque delle misure di protezione per le donne. In caso di violenza sulle donne è garantita la segretezza delle generalità del segnalante. E’ previsto l’arresto obbligatorio in caso di flagranza. La polizia giudiziaria se autorizzata dal pm può applicare la misura ‘precautelare’ dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Chi è allontanato dalla casa familiare potrà essere controllato attraverso il braccialetto elettronico o altri strumenti elettronici. “E’ vietato in Italia il matrimonio omosessuale?” L’Articolo n. 29 della Costituzione sancisce che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.” Questo articolo afferma che una famiglia per potersi considerare tale e quindi godere dei diritti ad essa riservati dalla legge dovrà essere fondata sul matrimonio, definito come unione di due coniugi, laddove la Costituzione non ha premura di indicarne il sesso, la religione, l’etnia. Questo particolare potrebbe far pensare, quindi, che il matrimonio omosessuale ufficialmente non sia vietato, ma non è così. L’articolo 143 del Codice Civile infatti recita che “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi

diritti e assumono i medesimi doveri [...]” In questo articolo viene specificato che gli stessi “ coniugi” citati nella Costituzione debbano essere uomo (marito) e donna (moglie). Così stando le cose il matrimonio omosessuale in Italia non può essere riconosciuto. Si ricordi però che è la Costituzione che garantisce e stabilisce i limiti entro cui le Leggi nel tempo dovranno muoversi. Partendo dalla Costituzione e nel rispetto degli articoli 2 e 3 della stessa in cui si sancisce che si rende necessario riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali – quali, appunto, la famiglia- e pertanto rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale che, di fatto, limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, è dunque urgente una modifica del Codice Civile nel rispetto delle manifeste esigenze dell’istituto della famiglia che sta nel tempo cambiando forma, si sta evolvendo. L’auspicio è che il legislatore così come nel tempo ha verificato la necessita di modificare parte della disciplina relativa all’istituto matrimoniale, come ad esempio la legge sul divorzio, n° 898/1970 e successive modifiche, abbia presto a provvedere in tema di convivenze e matrimoni tra omosessuali . Alcune città italiane, come Napoli, Milano, Bologna, Roma, Firenze e tante altre, hanno deciso di trascrivere le nozze tra persone dello stesso nei registri di stato civile. Un esempio è la coppia formata da Giuseppe e Stefano, che dopo essersi sposati con rito civile a New York nel 2012, grazie al giudice di Grosseto Paolo Cesare Ottati, hanno ottenuto il permesso di trascrivere la loro unione nel registro di stato civile. Questa è una delle vicende che ci fa capire che l’Italia sta facendo dei passi in avanti e che ci porta un pizzico di speranza in più. Perchè i singoli non possono adottare? Pare sia da tempo che non ci si ponga questa domanda, infatti la disciplina, i requisiti e l’efficacia dell’istituto dell’adozione risalgono alla vecchia legge n. 184 del 1983 successivamente modificata dalla legge del 28 marzo 2001, n. 149. Leviamo sin da ora ogni dubbio e partiamo col dire che i requisiti previsti dalle sopracitate norme per poter essere dichiarati idonei per l’adozione e quindi per poter “garantire un ambiente sano al minore” sono tutti riferiti ad una coppia di coniugi uniti in matrimonio e solo “in via del tutto eccezionale” sarà consentito ai singoli di adottare. Si badi bene, “l’adozione in casi particolari” non va confusa con l’adozione

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tradizionale o così detta “legittimante”,quella cioè compiuta da una coppia coniugata, essendo ben diversi i presupposti e gli effetti dell’una e dell’altra. L’adozione dei singoli, infatti, non avrà lo stesso effetto dell’adozione fatta da una coppia coniugata. Infatti, quanto ai presupposti, l’adozione in casi particolari è un’ipotesi residuale che si applica solo quando non è possibile l’adozione legittimante, ossia quando il minore non è in stato di abbandono. Quanto agli effetti, questo tipo di adozione mantiene inalterato il rapporto di parentela con la famiglia di origine, ossia non produce effetti legittimanti, il minore non sarà mai riconosciuto nel proprio stato di famiglia. Sul punto, sono state sollevate delle perplessità circa l’applicazione o meno della L. n. 219/2012, provvedimento che ha inteso eliminare qualsiasi forma di discriminazione tra figli legittimi e figli naturali, ossia nati fuori dal matrimonio . Prescindendo da quale sia l’opinione di ciascuno, qui, come in molti altri casi, purtroppo, si sta parlando di diritti negati … non ad un individuo di poter diventare genitore, quanto piuttosto ad un minore di poter diventare figlio, vivere quindi in un ambiente accogliente e amorevole, a prescindere da se vi sia la presenza di una mamma e di un papà. Presto o tardi il Parlamento dovrà fare i conti con le esigenze che cambiano e nell’interesse esclusivo del minore provvedere ad una sostanziale riforma che ammetta l’adozione legittimante anche da parte dei singoli. Le ultime pronunce della Corte di Cassazione lasciano intravedere uno spiraglio di cambiamento possibile. La Suprema Corte infatti avrebbe voluto accogliere un ricorso presentatogli ed acconsentire all’adozione da parte di un singolo “augurandosi” che l’esempio venisse seguito anche dal Legislatore “… il legislatore nazionale ben potrebbe provvedere ad un ampliamento dell’ambito di ammissibilità dell’adozione di minore da parte di una singola persona anche con gli effetti dell’adozione legittimante” Emanuela Scandura e Francesca Satolli


Facciamo un po’ di ordine

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1800

Si passa da una famiglia classica borghese a una famiglia “manageriale”, di classe media, fortemente privatistica e privilegiata nell’accesso a beni e servizi.

Avvengono importanti cambiamenti storici quali la nascita del welfare state parallelamente al crescente processo d’industrializzazione.

Ridimensionamento del primato maschile nella famiglia.

1900 1948, la Costituzione Repubblicana dedica alla famiglia alcuni articoli importanti sui rapporti etico-sociali: con gli art. 29, 30 e 31 la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale basata sul matrimonio.

1970, va in vigore la legge 898 sul divorzio. Alla famiglia operaia si sostituisce una famiglia a carattere nucleare, relativamente privatizzata, puericentrica e con uno stile di vita orientato al consumismo.

a cura di Nausicaa, Marco, Domenico e Mattia.

1975, riforma del diritto di famiglia: la podestà è condivisa da entrmbi i coniugi che sono uguaali davani alla legge; è resa possible la separazione per intollerabilità della prosecuzione della convivenza.


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2000 1983, la legge sull’adozione fa assumere al minore adottato lo stato legittimo degli adottandi dei quali porta anche il cognome; è formalizzata l’adozione internazionale.

1978, sono approvate la legge 194 sull’Aborto e diverse norme per la tutela sociale della maternità.

2001, i Paesi Bassi sono i primi ad approvare un matrimonio omosessuale; la legge va in vigore il primo aprile.

2005, nascono sul modello dell’associazione francese “Association des Parents Gays et Lesbiens” le Famiglie Arcobaleno per promuovere il dibattito pubblico sull’omogenitorialità.

2004, il parlamento italiano approva la legge 40: viene legittimata la fecondazione assistita che è permessa solo in stato di infertilità certificata dal medico; tuttavia non è consentita la fecondazione eterologa.

2013, Decreto legge 154: non c’è più differenza tra figli naturali e figli legittimi.

2014, procedura di negoziazione assistita: i coniugi possono ottenere il divorzio senza una sentenza del giudice ma con il semplice ausilio di un avvocato.


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Cave di Caserta “La situazione, d’una beltà straordinaria, nella più fertile pianura del mondo; eppure i giardini si distendono insino a’ monti. Un acquedotto vi porta un vero fiume per irrigare il castello e i dintorni, e tutta questa massa d’acqua può essere gittata su rocce, artisticamente disposte, così da formare una magnifica cascata. I giardini sono belli ed armonizzano a meraviglia con una contrada, che è tutta quanta un giardino.” (Caserta, 14 marzo 1787)

Così Goethe, nella sua opera “viaggio in italia”, descriveva Caserta. La definì il “giardino d’Italia”. Eppure oggi, a distanza di più di tre secoli, basta guardarsi intorno per non avere la sua stessa impressione. Viviamo in una valle circondata dai colli Tifatini che fanno da splendida corona alla nostra città regale. O meglio, facevano. Secondo un resoconto di Legambiente del 2014, sul territorio della provincia di Caserta, più nello specifico in 104 comuni, sono ben 317 le cave abbandonate, 59 quelle chiuse e ben 46 quelle autorizzate. Tra le maggiori, ricordiamo quella della Cementir, a Maddaloni, a cui nel 2010 è stata concessa la possibilità di proseguire le attività estrattive fino al 2017, nonostante la forte opposizione. Un altro esempio è la cava Statuto, nel Comune di San Prisco (CE), dove, per estrarre calcare, sono stati “strappati” di fatto porzioni di montagna senza creare le strutture necessarie per il ripristino dell’habitat naturale se non attraverso nuovi prelievi di materiale. Ma come è possibile che siamo arrivati a tutto questo?

E i politici casertani, coloro che hanno il dovere civile di difendere i diritti del popolo, che ruolo hanno giocato in questo panorama? Alle 20 cave di cui 7 tutt’ora in attività infine si aggiungono le problematiche relative ai due cementifici, (Moccia e Cementir), le cui strutture, altamente incidenti sulla qualità dell’aria, sono saldate alle città di Maddaloni e Caserta, posti a circa 500 metri di distanza l’uno dall’altro. Ripercorrendo a ritroso la storia della martoriata Caserta, ricordiamo la figura di Mons.Nogaro, Vescovo emerito della nostra città a cui sono legati le migliori espressioni della nostra Chiesa, che per vent’anni, quando ormai la situazione era quasi irrecuperabile, ha senza sosta combattuto e urlato contro questa ingiustizia. “Appena arrivato a Caserta ho avuto l’impressione di essere circondato da gironi infernali”, così descrive lo scempio dei monti Tifatini. Le continue proteste e manifestazioni da parte di Nogaro e di alcuni esponenti della società e della politica locale hanno scosso temi importanti riguardo la “malattia” delle cave. Infatti il problema paesaggistico non è l’unico elemento di evidenza: ad esso si aggiungono le modalità con cui alcune cave sono state portate avanti, oltre alle possibili infiltrazioni che proprio dalle attività estrattive hanno il punto di partenza per i traffici illeciti legati al ciclo del cemento e a quello dei rifiuti. “In Campania e nella provincia di Caserta”, recita infatti il testo della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite

connesse al ciclo dei rifiuti del febbraio 2013 “il problema è particolarmente sentito per l’elevato numero di cave.” Un’altra conseguenza riguardante questo scempio , e anche di maggior rilievo, ai colli casertani è quello legato alla salute dei cittadini: non è solo un problema ambientale e di paesaggio, è un problema gravissimo anche per il pulviscolo che viene rilasciato nell’aria dall’estrazione che è altamente cancerogeno. Se “tutela del bene comune” rimane il presupposto di qualsiasi amministrazione politica, resta da capire come questo concetto trova riscontro in salute pubblica negata e paesaggio sfregiato, nella responsabilità esercitata nel consentire processi che col bene comune non hanno nulla che vedere. Ada Rella e Marco Di Dino

26 milioni di sì non sono sufficienti per l’acqua pubblica! ”Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla!” A più di mezzo secolo di distanza, le parole di Martin Luther King risultano quanto mai attuali. Dopo il grande passo avanti del referendum del 12 e 13 giugno 2011 che chiedeva gestione pubblica e partecipata dei servizi pubblici locali, in primis dell’acqua, abbiamo fatto troppi passi indietro. E’ un regredire. I quattro Governi che si sono succeduti (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) hanno smantellato e continuano a farlo, la democrazia, il processo di ripubblicizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali. È la svendita di un nostro bene e non di certo a nostro favore! Ma come siamo arrivati a tutto questo? Provo a fare un po’ d’ordine. Dopo che il 54% degli elettori si disse contrario a qualsiasi forma di privatizzazione di beni, sembrava fatta. E invece dal 2011 ad oggi non esiste ancora nessuna norma che assecondi la precisa volontà popolare. Si sono istituiti vari comitati per l’acqua pubblica, che inizialmente nascevano come nuclei informativi e che si sono poi trasformati in veri e propri “custodi del voto”. La battaglia principale si sta combattendo contro le tariffe. Sempre nel referendum, i cittadini avevano votato per l’abolizione della “adeguata remunerazione del capitale investito dai gestori”. Quindi i cittadini, pagando la bolletta non avrebbero più dovuto finanziare le casse delle aziende. Problema risolto dunque? Non proprio. Alla fine del 2012 l’Aeeg, l’Autorità per l’energia

elettrica e il gas, che si occupa anche di calcolare le tariffe del servizio idrico, ha inserito una nuova voce: “rimborso degli oneri finanziari”. Questa formula non è altro che un modo per continuare a garantire un incasso ai gestori. È cambiata la forma ma non la sostanza. Per questo partì il ricorso al Tar della Lombardia, regione sede dell’Aeeg, la quale a sua volta respinse ogni accusa. “Se vogliamo che l’acqua sia effettivamente un bene pubblico gratuito, di buona qualità e disponibile a tutti, i costi devono essere coperti. A cominciare da quelli molto rilevanti per gli investimenti e per la tutela ambientale”, spiegò Cristina Corazza, direttore comunicazione dell’Aeeg. Intanto, in attesa che gli enti locali approvino il nuovo modello, sulla bolletta continua a pesare la remunerazione del capitale. In pratica per le tasche degli italiani poco è cambiato e poco cambierà. Per ora. Perché qualcosa si è mosso. Diverse amministrazioni locali hanno fatto della pubblicizzazione dell’acqua un obiettivo concreto. Piccole gocce nel mare, ma che sono la speranza che un modello diverso è possibile. Il primo successo è stato ottenuto a Napoli. Pochi mesi dopo il referendum, il consiglio comunale ha dato il via libera alla trasformazione dell’azienda Arin Spa in un ente di diritto pubblico, ‘Acqua bene comune Napoli’. Pochi mesi dopo sembrava che anche altri comuni avessero seguito l’esempio. E invece no. Quelli di Imperia, Palermo, Forlì, Savona, Vicenza, Varese, Piacenza e Reggio Emilia sono testimonianze in cui il sogno di affidare la gestione dell’acqua ad un’azienda speciale, cioè ad un ente pubblico senza scopo di lucro, non è mai divenuto realtà. In questo periodo Napoli si fa portavoce della ripubblicizzazione,


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finalmente è stata varata la messa in sicurezza per 30 anni del servizio idrico! Un grande passo che porta speranza ai piccoli e grandi comuni della Campania e dell’Italia intera, e questo tipo di gestione già sta dando i primi risultati positivi: maggiore trasparenza, bollette più basse e più qualità nei controlli . Ma nonostante ciò Caldoro e Romani continuano a proporre il cosiddetto d.d.l. “Madia” che affiderebbe la gestione del servizio alla Gori S.p.a., ripagando i propri debiti finanziari e ignorando di fatto l’esito della votazione referendaria. Smantellando di tutti gli ATO, che suddividono il territorio campano in macro aree, per meglio gestire il servizio. Accentrando il potere decisionale e amministrativo nelle mani di un consiglio a livello regionale, che ha poco riguardo per gli interessi dei piccoli comuni e delle loro tasche. Ma il COORDINAMENTO DEI MOVIMENTI CAMPANI PER L’ACQUA continua a lottare nel rispetto della volontà popolare dei 27 milioni di elettori italiani del referendum, che con la partecipazione di sindaci e cittadini, sta gettando le basi per un nuovo sistema idrico pubblico e democratico. Francesco Natale

Terra dei fuochi, diritto alla salute e alla giustizia “Terra dei fuochi e rischio tumori, screening gratuiti: esami disertati”: questo è il titolo d’apertura del quotidiano “Il Mattino” dello scorso 4 gennaio. Valutare che solo un cittadino su dieci ha usufruito degli screening gratuiti non significa verificare se realmente ogni cittadino abbia avuto l’opportunità di venirne a conoscenza, e quindi di prenotarsi e rientrare nelle statistiche oggetto di analisi campione. Per fortuna oltre agli “esami disertati” ci sono screening gratuiti di cui i giornali non ne parlano, come quelli condotti dall’ Associazione Ammalati di Tumore alla Tiroide ed Associati (ATTA), organizzati direttamente presso le scuole medie del triangolo dei fuochi. Il dott. Volpe, presidente dell’ associazione, afferma che: “il 60% degli alunni risulta avere alterazioni strutturali della tiroide”. L’ associazione ha già previsto terapie preventive per circa 80 ragazzi (11-14 anni). Ma a questi dati vanno aggiunti anche quelli dello studio “Sentieri” in merito alla terra dei fuochi, condotti dall’Istituto superiore della sanità, che evidenziano un aumento di malattie oncologiche, neoplasie e casi di leucemia nei bambini e ragazzi delle zone inquinate da roghi, sversamenti e discariche. Sembra più che mai irresponsabile, se non addirittura doloso, affermare ancora che non c’è un nesso causale tra inquinamento e tumori, e in tal senso le dichiarazioni inadeguate del ministro della salute Lorenzin riguardo al nostro stile di vita si fanno sempre insensate e irrispettose. Godere del diritto alla salute e del diritto a vivere in un ambiente sicuro non sono cose scontate. Se da un lato efficaci risposte dello stato tardano ad arrivare, i cittadini, le associazioni e i piccoli comuni stanno ottenendo i primi risultati positivi, come la discussione della proposta di legge popolare “rifiuti zero” in parlamento, è il risultato di una petizione di 80.000 firme che punta a ridurre l’“impronta ecologica” con l’eliminazione degli sprechi

e con una quasi totale re-immissione dei materiali trattati nei cicli produttivi. Obiettivi che si possono ottenere massimizzando la riduzione dei rifiuti, il riuso dei beni durevoli, il riciclaggio e la differenziata, minimizzando fino a tendere a zero lo smaltimento di materia nociva e non riciclabile. Tuttavia sappiamo che questa è la punta di un iceberg ben più grande, e che ci riguarda, e che copre la fitta relazione tra malapolitica ed economia dell’illecito. Nella nostra terra si chiede a gran voce il diritto alla giustizia, cittadini che coraggiosamente denunciano e mettono a repentaglio la propria vita, vedono cadere in prescrizione la maggior parte dei reati che hanno portato alla situazione attuale. E’ il caso dei 19 imputati dell’inchiesta sull’avvelenamento delle acque da parte dell’impianto della Montedison che sono stati tutti assolti perché il reato di disastro ambientale è stato derubricato a disastro colposo, e quindi caduto in prescrizione. Stessa cosa è successa a Praia a Mare, dove sono stati assolti tutti gli imputati della fabbrica Marlane, tra cui l’imprenditore Pietro Marzotto, azienda ormai chiusa dopo aver determinato la morte di decine di dipendenti a causa di cicli produttivi a contatto

con sostanze tossiche. Ma ci sono storie anche come quella di Alessandro Cannavacciuolo, nipote del pastore Vincenzo, che a sua volta denunciò fino alla morte, avvenuta per avvelenamento da diossina, la distruzione del territorio di Acerra da parte degli speculatori collusi con la politica. Racconta come i rifiuti speciali e tossico-nocivi industriali venivano trasformati “virtualmente” in prodotti non nocivi e poi avveniva lo spargimento nei terreni sotto forma di pseudo compost. I terreni contaminati hanno avvelenato il loro bestiame. Dopo circa dieci anni finalmente il 29 Gennaio Antonio Montesarchio insieme a Giovanni, Cuono e Salvatore Pellini sono stati condannati a 7 anni di reclusione per disastro ambientale. E’ la dimostrazione che con coraggio e perseveranza anche in questa terra martoriata è possibile avere giustizia, una giustizia che assume una connotazione collettiva nel momento in cui si lotta per i diritti non solo individuali ma diritti che appartengono a tutti i cittadini di questa terra. Mattia Granato


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Armiamoci di coscienza

A Gaza il conflitto che vede protagonisti gli Israeliani e i Palestinesi si fa sempre più intenso e i tentativi di stipulare una tregua sono ancora allo stato embrionale ; la Siria vede contrapposte militarmente le forze governative a quelle dell’opposizione : questi, sono solo due degli otto conflitti armati che complicano la lettura degli eventi sociopolitici in Medio Oriente. Non di meno il continente africano conta ben 27 stati in guerra e 174 gruppi di guerriglieri. In America Centrale e in America Latina si contano 5 stati in conflitti militari. Fra questi, la Colombia e il Messico sono impegnati in guerra contro i gruppi del narcotraffico. L’Asia vede coinvolti 16 stati in azioni di guerra, tra cui Afghanistan, Filippine e Thailandia. Nel continente europeo invece sono 9 gli stati in guerra tra cui Cecenia e Ucraina. E l’Italia? Il nostro è un Paese che come riporta l’Art.11 della Costituzione “ ….. ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”. Una indicazione così esplicita nella carta costituzionale lascerebbe pensare che

l’Italia è un paese che prende le distanze da ogni forma di conflitto. Dati resi pubblici, dallo “Stockholm International Peace Research Institute” (Sipri), indicano che l’Italia è situata al settimo posto nell’elenco dei maggiori stati produttori di armi al mondo. Inoltre, il nostro paese, ha venduto armi per 3,2 miliardi di dollari in cinque anni, dal 2007 al 2011. A questi dati, mancano quelli relativi agli ultimi anni in cui, certamente, la produzione di armi non è diminuita. Sempre grazie al Sipri, sappiamo che nel 2010 abbiamo speso per la difesa ben 27 miliardi di euro. Nel 2012 siamo passati a una spesa annua di 20 miliardi di euro, per poi passare ai 25 miliardi nel 2013. Nel 2014 la Difesa ha speso 5 miliardi di euro in cacciabombardieri, navi da guerra, blindati ed elicotteri da combattimento, cannoni, siluri, bombe, droni e satelliti spia. Purtroppo anche per il 2015 sono stati previsti costi per altrettanti 5 miliardi, nel dettaglio una spesa di 70 milioni di euro al giorno in armi L’Italia, inoltre, è il secondo paese al mondo ad esportare armi leggere e di piccolo calibro. Quasi superfluo precisare che, tra i maggiori acquirenti del “Made in Italy”, ci sono paesi come Israele, Etiopia e Thailandia, che purtroppo vivono quotidianamente il dramma delle guerra. Potremmo dunque dire che, nonostante l’Italia

sia un paese che ripudia la guerra, è anche uno dei paesi che più la fomenta. “Le armi sono un vero e proprio affare di Stato”, afferma il giornalista Vignarca autore del libro ”Armi: un affare di Stato”. “Tutti pensano che nel business degli armamenti il problema sia rappresentato dai trafficanti e da quelli che smerciano illegalmente. In realtà i veri protagonisti sono i governi che, da una parte dovrebbero controllare coloro che producono armi, ma poi sono coloro che provvedono materialmente ad acquistarne. I soldi vengono spesi a vantaggio di un’unica consorteria, che comprende politici, industriali ed esponenti dell’esercito.” Ma andando a scavare più a fondo, scopriamo un vero conflitto interno nella politica italiana. Un potere di controllo che è stato introdotto nella legislazione italiana con una norma dall’aspetto innocuo ma di portata dirompente: l’articolo 4 della legge 244 del 31 dicembre 2012. Dal giorno della sua approvazione è in atto uno scontro durissimo, una continua guerra di posizione tra il Parlamento e la Difesa che non vuole accettare questa legge che pone fine a decenni di spese incontrollate. Il problema quindi appare molto più grave e nascosto di quanto sembri anche ai nostri parlamentari. Al momento, uno dei pochi documenti ufficiali rimane il cosiddetto Dpp (Documento programmatico pluriennale) della Difesa per il triennio 20132015 presentato nel mese di aprile del 2013 dall’allora ministro della Difesa Di Paola – oggi consulente di Finmeccanica – che presenta una serie di voci e progetti di spese dello stato italiano. In questo clima di guerra in cui non è facile affrontare i meccanismi militari ed economico-industriali insieme, sembra quanto mai indispensabile sottolineare l’iniziativa intrapresa a livello nazionale da diversi movimenti pacifisti per la raccolta di firme per promuovere una Legge di iniziativa popolare tesa ad istituire un “Dipartimento di Difesa civile, non armata e nonviolenta”, che si basi sulla collaborazione e sul finanziamento di corpi civili di Pace. Strettamente legata a questa iniziativa è quella che si pone come obiettivo il boicottaggio delle Banche cosiddette “armate”, in riferimento a quegli istituti di credito coinvolti nella vendita a Paesi terzi di materiale bellico da parte di aziende nazionali: la legge 185 del ’90 obbliga il Parlamento a rendere noto quali siano le Banche coinvolte in questo traffico, e obbliga noi privati cittadini a scegliere con coscienza. Marco Di Dino e Cristiano Minino


La locanda del migrante Sono originario della Costa d’Avorio e sono nato a Dimbokro. Provengo da una famiglia molto numerosa: ho quattro fratelli e due sorelle. Tradizione del mio villaggio è che all’età di otto anni devi affrontare la tua prima esperienza di caccia con tuo padre. Così io insieme ai miei fratelli mi procuravo la carne e le mie sorelle si occupavano del resto. Ho deciso di andare via dal mio villaggio quando è iniziata la guerra nel 2002, ho sempre pensato a lavorare e quel giorno mentre tornavo a casa un gruppo di civili mi ha preso e mi ha malmenato, ho avuto paura e sono scappato via. Temevo per il futuro della mia famiglia ma non potevo restare nel mio paese perché mi avrebbero ucciso. Avevo 19 anni quando sono partito per il Ghana dove sono stato per circa quattro anni ad Accra, la capitale. Qui ho lavorato come meccanico di moto e dopo vari problemi con il mio capo sono ripartito per il Niger, ma solo di passaggio per andare in Libia, precisamente a Tripoli, dove sono rimasto per tre anni circa, lavorando come contadino finché non sono partito per l’Italia. Conoscendo la situazione il mio capo mi ha aiutato donandomi un po’ di soldi. Avevo abbastanza denaro per partire e così mi sono imbarcato. Il viaggio è durato dieci giorni credo. Avevamo pochissimo cibo e l’acqua scarseggiava. Credevo che non sarei mai arrivato ma poi la mattina ho visto la terra in lontananza. Sono entrato in Italia da Lampedusa il 5 Marzo 2010 senza documenti e dopo tre o quattro giorni mi trasferirono a Caltanissetta. Nel centro non facevo nulla, così io con altri ragazzi ho deciso di scappare. Ho preso il piccolo zaino che avevo con me e sono salito su un treno diretto a Caserta. Uno di loro ci aveva detto che ci erano già andati altri suoi amici. Arrivato a Caserta ho abitato presso la Caritas ma poi a novembre del 2013 sono andato a Rosarno per lavorare e trovare una casa dove vivere. Qui ho ricevuto il mio permesso di soggiorno valido per sei mesi. Lavoravo dalle sei di mattina fino alla sera e guadagnavo 20 euro al giorno. Dormivo in una fabbrica abbandonata con altri tre ragazzi. Due senegalesi e un tunisino. Spesso i nostri datori di lavoro ci accompagnavano presso la Caritas per mangiare. Era il 7 gennaio del 2014. Mentre tornavamo alla

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fabbrica dove dormivamo, lungo la strada, abbiamo visto degli italiani che ci hanno chiesto dove eravamo diretti. Non ci hanno dato neanche il tempo di rispondere: hanno iniziato a picchiarci. Io ho perso sangue dal naso, altri due riuscivano a stento a camminare. Per paura quella notte non abbiamo dormito nella fabbrica ma nei campi d’arance. Il giorno dopo abbiamo lavorato regolarmente fino a mezzogiorno quando il nostro capo è venuto avvisandoci che era scoppiato un conflitto tra i nostri amici e gli italiani. Così abbiamo deciso di fermarci e di andare alla Caritas a mangiare e li abbiamo trovato un blocco di italiani. Prima ci hanno fatto passare poi ci hanno bloccato per picchiarci con bastoni di ferro. Mi hanno colpito sulle braccia, sulle gambe e sul volto. Dopo aver subito queste percosse ci siamo rifugiati nuovamente nei campi d’arance. Il giorno dopo il datore di lavoro non è venuto a prenderci per paura di conseguenze gravi anche su di lui. Il 9 gennaio ci siamo incamminati per le campagne senza una meta e ci siamo fermati vicino una casa dove il proprietario, sentendo il cane abbaiare, è uscito e ci ha chiesto chi fossimo. Eravamo malconci con i pantaloni e le maglie rotte. Il signore ci ha fatto entrare e ci ha regalato dei vestiti, ha chiamato il figlio che ci ha accompagnato fino a Gioia Tauro. Ci ha regalato un biglietto del treno per Napoli e siamo partiti. Sono molto grato ad entrambi, mi hanno slavato la vita! Da Napoli sono tornato a Caserta dove però, per chi non ha i documenti, o come me li ha scaduti, non è semplice vivere. Ho trovato lavoro in un ristorante ma il proprietario ha detto che c’è bisogno dei documenti che però sono scaduti. Io voglio lavorare onestamente e non voglio rivivere l’esperienza di Rosarno. Voglio vivere senza paure, in regola. Io non sono cattivo sono una persona che vuole vivere onestamente e non voglio essere trattato come un delinquente e essere maltrattato. Piuttosto che tornare in africa preferirei vivere in carcere in Italia.


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La locanda del migrante Il mio nome è Kubra e prima di venire in Italia vivevo in un villaggio nella periferia di Kaduna. La mia famiglia,

molto povera, era composta da mio padre, mia madre e cinque figli. Io ero la più grande. Non sono andata a scuola. Probabilmente per guadagnare un po’ di soldi mia mamma mi ha venduto, all’età di 13 anni, ad un’amica connazionale la quale non aveva figli. Presso questa donna dovevo fare tutto: badare alla casa, fare le pulizie, andare al mercato, cucinare. Ero tenuta come una piccola schiava e venivo maltrattata. Spesso non mangiavo e non riuscivo a dormire, stavo male con quella donna ma non avevo altre vie d’uscita. Una mattina, andando al mercato, avevo fatto conoscenza con un ragazzo di nome Osas il quale, sapendo la mia condizione di sofferenza, aveva promesso di aiutarmi e di portarmi in Europa. Il 4 febbraio del 2013, avevo allora 16 anni, insieme a lui ho lasciato Kaduna in autobus per trasferirmi a Kano, nel nord della Nigeria. Qui ho passato la notte e l’indomani, con un altro autobus siamo ripartiti per un’altra meta. Non so dire i posti dove mi sono fermata. Credo di aver fatto tre o quattro soste. Da qui con un camion carico di gente, tra cui donne e bambini, siamo ripartiti per la Libia. Il viaggio è durato tre giorni. Non avevamo cibo, solo un po’ d’acqua. Il viaggio è stato durissimo. Arrivata a Tripoli vi sono rimasta circa dieci mesi. Vivevo in un piccolo appartamento dove c’erano altri connazionali. Osas, che viveva in un’altra casa, mi portava regolarmente del cibo. Poi nel novembre del 2013 mi avvisa che da lì a sei giorni sarei dovuta partire per l’Italia. Osas che mi aveva pagato il viaggio era rimasto in Libia. Arrivati sulle coste della Sicilia sono stata portata dalla polizia in un centro. Qui sono stata foto segnalata. Ho dato le vere generalità ma probabilmente nella trascrizione hanno sbagliato a scrivere il cognome. In questo campo sono rimasta diciotto giorni e poi sono stata trasferita con un autobus nel campo di Foggia dove non facevo nulla, mi avevano dato solo un cartellino identificativo per poter entrare e uscire liberamente. Durate le mie ore di uscita dal campo ho conosciuto un mio connazionale, Umar, il quale ha dimostrato delle attenzioni nei miei confronti e ha anche promesso di aiutarmi. Ero piccola avevo 17 anni e ho creduto nelle promesse di aiuto di questo ragazzo. Così alla fine del novembre 2013 ho lasciato il campo seguendo il “mio” ragazzo, andando a vivere con lui ad Aversa. Ho sempre vissuto chiusa in quella casa senza sapere dove mi trovassi. Umar mi portava il cibo e i vestiti. Ero tranquilla in casa. Umar ed io occupavamo solo una stanza mentre nelle altre due vivevano una ragazza e due ragazzi nigeriani. Io pensavo che il mio ragazzo si procurava dei soldi andando a chiedere l’elemosina. Nel gennaio 2014 mi disse di andare con lui in Danimarca per salutare un amico connazionale. Dopo avermi procurato un passaporto falso ci siamo diretti ad un aeroporto e dopo tre ore di viaggio, al momento del controllo una volta arrivati in svizzera, sono stata fermata dalla polizia in aeroporto, in quanto il passaporto presentato risultava falso. Intanto Umar si era dileguato lasciandomi da sola nelle mani della polizia che mi ha portato in una stanza dove sono rimasta cinque giorni. Con me c’erano altre donne, una delle quali era nigeriana come me. Si chiamava Zharah e grazie al suo telefono ero riuscita a rintracciare Umar. Lui mi ha detto di dire la mia vera identità tranne l’età perché ero minorenne. Qui sono stata mandata in un hotel e mi hanno nuovamente interrogata e invitata a ritornare in Italia. Dopo avermi rilasciato ho chiamato un’altra volta il mio ragazzo e lui mi ha indicato che treno prendere per la Danimarca. Una volta arrivata a casa dell’amico, scoprì la dura realtà. La casa era un rifugio di prostitute. Sono stata costretta a prostituirmi. Umar minacciava di picchiarmi e di uccidermi se non l’avessi fatto. Lavoravo nella casa di giorno e di notte e tutti i soldi che guadagnavo li dovevo dare a lui. Ho lavorato lì per circa sei mesi. Il 14 novembre del 2014 siamo ritornati ad Aversa nella nostra casa e la mattina del 25 novembre 2014 verso le quattro del mattino, ho sentito che Umar parlava a telefono con una donna nigeriana. Sentendo qualcosa di strano ho fatto finta di dormire e ho ascoltato che diceva a questa donna di venire presto a prendermi per poi mettermi a lavorare sulla strada. Quando Umar è andato in bagno sono uscita silenziosamente dalla casa senza portare nulla con me. Erano circa le cinque e le strade erano ancora buie. Ho chiesto indicazioni per la stazione e dopo aver camminato di notte impaurita ho raggiunto la stazione di Aversa. Qui sono salita sul primo treno. Dopo pochi minuti sono scoppiata a piangere. Affianco a me sedeva un italiano che vista la situazione, con l’aiuto di un mio connazionale che faceva da interprete, mi ha detto di andare a Caserta perché c’era un posto che accoglie ragazze immigrate. Arrivata a Casa Rut , accompagnata da questo ragazzo, sono rimasta sulle scale ad aspettare. Dal 25 novembre 2014 sono stata ascoltata dal centro Caserta e sono stata inserita in un percorso di protezione e ai sensi dell’ex art. 18 del Testo Unico sull’immigrazione, in quanto mi trovavo in una situazione di vulnerabilità e soprattutto di grave rischio per la mia incolumità personale. Ringrazio Rita e tutti coloro che mi sono stati vicino nel mio percorso di rinascita.


IL MEGAFONO PAGINA 15

E’ più facile spezzare un atomo che un pregiudizio I figli degli omosessuali crescono deviati Il concetto di famiglia sta lentamente cambiando, ma appare comunque difficile modificare la propria concezione di nucleo familiare basato sul modello padre-madre. Diventa infatti difficile accettare un modello familiare diverso che prevede due genitori dello stesso sesso. In realtà recenti studi, condotti dall’università di Melbourne, hanno dimostrato che i figli di genitori dello stesso sesso hanno addirittura un maggior stato di benessere rispetto alla media. The Australian Study of Child Health in Same-Sex Families ha coinvolto 315 genitori e 500 bambini. Gli indicatori utilizzati riguardano: autostima, emotività, tempo trascorso con I genitori, stato di salute e coesione familiare. I bambini cresciuti in una same-sex family hanno ottenuto i punteggi più alti, soprattutto per la salute e la coesione familiare. Questo perché i genitori dello stesso sesso non sono costretti negli stereotipi di genere e quindi i figli hanno più libertà per quanto riguarda desideri e propensioni personali. Lo studio ha inoltre dimostrato che la salute di questi bambini è influenzata negativamente solo dalle discriminazioni a cui sono sottoposti ma che ciò non influisce abbastanza da modificare il risultato dello studio. Inoltre in queste famiglie i figli hanno maggior desiderio di affrontare quello che subiscono con i loro genitori e il modo di affrontare le discriminazioni ha un effetto positivo in quanto favorisce l’apertura mentale, rafforza il carattere e il legame con i genitori.

L’omossesualità è contro natura

Parlando di natura dobbiamo per forza soffermarci sulla sessualità degli animali che prevede l’omosessualità in molti casi e forme. In alcuni casi si tratta di normali impulsi sessuali, in altri si tratta invece di vere e proprie relazioni durature. Sono numerose le specie animali in cui si riscontrano relazioni omosessuali. In particolare ne sono un esempio i leoni, da sempre espressione di leadership, che spesso abbandonano le femmine per creare comunità di soli machi. Un altro esempio è rappresentato dagli albatri di Laysan. E’ stato studiato che il 31% delle coppie di questi volatili sono lesbiche. Esibiscono i classici atteggiamenti delle coppie, impegnandosi addirittura nella nidificazione. Infine, riscontriamo atteggiamenti bisessuali anche tra i delfini che spesso hanno dimostrato di apprezzare il contatto fisico dello stesso sesso come dell’opposto.

L’omossesualità è una malattia Scientificamente, l’omosessualità non è una malattia ma semplicemente una variante della sessualità umana. Di fatto, è stata cancellata dal Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali (manuale dove gli psicologi possono trovare le linee guida con cui stabilire la presenza o meno di un disturbo mentale) già dal 1973. Tuttavia, dalle ricerche scientifiche, risulta che gli omosessuali presentano una più alta percentuale di disturbi (quali ansia, attacchi di panico, depressione e tentativi di suicidio) rispetto agli eterosessuali. Questo succede a causa dei pregiudizi e delle discriminazioni alle quali queste persone sono soggette in quanto minoranza, come descritto dall’ipotesi definita con il termine “minority stress”. Definita tale dalla psichiatria americana, letteralmente significa “stress delle minoranze” e definisce il disagio dovuto alle discriminazioni sociali di una minoranza. Questo disagio è particolarmente accentuato nell’età adolescenziale, quando la personalità è in formazione. Queste dinamiche possono, infatti, portare ad un disprezzo della propria stessa persona che, in casi spiacevolmente sempre più frequenti, possono tradursi in tentativi di suicidio. L’omosessualità non è nulla di tutto questo ma semplicemente un modo di essere, di chi seguendo la propria natura si sente attratto affettivamente e sessualmente da persone dello stesso sesso.


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Controinformati

Tema Adozioni e affidi Libri consigliati:

-”Una famiglia un po’ diversa” di Anna Genni Miliotti(spiega con particolare vena ironica le difficoltà di carattere burocratico ed emotivo dopo aver deciso di adottare) -”I figli che aspettano” di Carla Forcolin (testimonianze e normative sull’adozione attraverso l’analisi del divario che esiste tra la disponibilità ad adottare e le adozioni attuate)

a cura di Nausicaa Ebraico

LGBT Libri:

”Angeli da un’ala soltanto” di Sciltian Gastaldi (un romanzo che affronta la realtà dell’identità sessuale tra i giovani adolescenti) ”Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop” di Fannie Flagg (storia di una donna che riscopre l’amore per la vita attraverso il racconto di una storia d’amore lesbica)

Film-Documentari:

Film consigliato:

-”La mia casa è la tua” di Emmanuel Exitu (in un film sei storie di affidi familiari racconta le gioie, i dolori, le fatiche, le soddisfazioni e l’amore che riesce ad abbracciare tutto, anche i nodi irrisolti.)

”Due volte genitori” di Claudio Cipelletti (attraverso un delicato lavoro di ascolto, il film indaga il percorso tra le aspettative disilluse dei figli e l’accettazione, al di là dell’omosessualità in quanto tale, della propria rinascita come genitori. È un documentario che insegna che è possibile accettare di essere diversi ai propri figli)

”100% Human” (documentario sulla storia di un ragazzo che a soli 22 anni decide di cambiare sesso) ”I segreti di Brokeback Mountain” è un film del 2005 diretto da Ang Lee con Heath Ledger e Jake Gyllenhaal tratto dal romanzo di Annie Proulx (racconta la drammatica passione amorosa tra due cowboy).

Violenze Libri:

“Questo non è amore”

(venti storie che raccontano la violenza domestica sulle donne) “Stato di famiglia. Le donne maltrattate di fronte alle istituzioni” di Daniela Danna (le leggi dello stato italiano proteggono le donne dai maltrattamenti ma come agisce chi le deve concretamente mettere in pratica?) “Paralisi crudeli:donne e violenza domestica. Una ricerca sociologica un Italia e Polonia” di Eugenia Porro (sguardo sulla realtà della violenza domestica)

Documentario:

-”Una su tre” di Nerina Fiumanó (documentario che racconta attraverso testimonianze reali la violenza domestica sulle donne).


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