Pietro e Dalila L'uomo ci stava fissando da una finestra al secondo piano. Secondo la mia sorellina, invece, era al terzo, perché, come tutti i bambini, contava a partire dal pianterreno. Mi chiese di spiegargliela per bene, questa faccenda dei piani; l'ultima volta l'aveva capita, ma non se la ricordava più. Provai a ripetergliela, distratto dal sospetto che quel maniaco avesse adocchiato mia sorella. Fui costretto a cedere: aveva ragione lei. Per quale ragione il piano terra dev'essere considerato come una specie a parte? “Piano” vuol dire “superficie piatta” e cos'è il piano terra? Una superficie piatta! Molto stupido escluderlo dal conteggio. Guardai di nuovo su, al terzo piano, ma la faccia pulita di quel perditempo non c'era più. - Andiamo via, Dalila!- Dove andiamo?- A casa!- Siamo arrivati ora! Non voglio andare via- Andiamo!- No Pietro, daaai!Ci provava sempre con la tecnica di fare la "a" più lunga del mondo. A volte funzionava, a volte no, in ogni caso riusciva a farmi perdere tempo. Mi sono impegnato a fondo nell'educare mia sorella, per sopperire all'assenza di nostra madre, ma non sono mai riuscito a farle capire che solo talvolta insistere è indice di determinazione, mentre in genere è da capricciosi. Come risultato, Dalila poteva andare avanti una mattinata intera a chiedere di ordinare la pizza nonostante fosse Pasqua. Era il 1988 e la nonna aveva preparato come ogni anno un pranzo elaborato e invitante che avremmo lasciato tranquillamente a piangere sugo in frigorifero se ci fosse stata una pizzeria aperta facile da raggiungere, pur di placare le urla isteriche della piccola. Invece avremmo dovuto ordinare la pizza a Grosseto, a quarantotto chilometri da casa nostra: pizzerie ce ne sono dappertutto, ma durante le feste comandate restano chiuse, nei luoghi isolati come la campagna dove siamo cresciuti. Sfortuna aveva voluto che le serrande fossero abbassate anche sul più vicino Monte Argentario, quell'anno, a causa del mal tempo e di una violenta tromba d'aria. La sera del parco persi qualche minuto a sgolarmi per convincerla a rincasare, infine capii che trascinarla via di peso sarebbe stato meno stancante di farle cambiare idea. - Mi fai male ai ginocchi!- gridava, anche se non era possibile e non aveva senso, al massimo poteva sentire dolore alle braccia. O ai bracci, come diceva lei per farmi arrabbiare. Dovevo portarla via a tutti i costi, quindi non mi sarebbe importato nemmeno di farle male. La stava fissando. Un maledetto porco sulla cinquantina che chissà come mai alle quattro del pomeriggio era in casa da solo, senza nessuna occupazione se non quella di guardare mia sorella giocare sulle altalene. Avevo appena dodici anni ma la vita di campagna mi aveva portato alla conclusione che quasi tutti gli uomini sbavassero dietro alle ragazzine. L'idea che qualcuno sfiorasse la piccola testa bionda della mia Dalila mi faceva impazzire e perdere del tutto il controllo delle mie azioni. Anche anni dopo, quando entrambi diventammo adolescenti e poi giovani adulti, il solo sospetto che quella scatolina sarebbe stata maneggiata da uno di quegli imbecilli che incontravo a scuola mi faceva salire la temperatura corporea e ribollire il sangue nelle mani, subito pronte ad accanirsi finanche contro il più mite dei ragazzi, nonostante non fossi un tipo violento. Arrivammo dalla nonna. - Siete già tornati? Che piove? O poer'ammé, i panni” - si lamentò. - Stai buona, non piove! Solo, volevamo giocare con il Lego - inventai. Mia nonna parlava un incrocio di fiorentino e di senese. Veniva da San Casciano in Val di Pesa e non avrebbe mai perso la sua parlata, nonostante avesse vissuto a Roma dagli anni Sessanta fino al trasferimento a Marsiliana. Io, invece, non avevo inflessioni di sorta, in buona parte per via della fissazione con la dizione corretta della zia Tullia. Una rompicoglioni formidabile nei calcoli che, nullafacente e zitella, si era accollata l'incarico di far di me un futuro ragioniere. Avrebbero potuto farmi giurare
con la mano sul tetto del pollaio che avrei scelto ragioneria dopo le medie. Sarei stato ai patti, tenevo molto alle galline. Preferirono piuttosto indottrinarmi fin dalla prima elementare affidandomi alle lezioni di una donna femminile come un pilota di F-104 e poco versata per l'insegnamento. Ci eravamo trasferiti a Marsiliana quando ero piccolissimo, insieme ai miei nonni materni. Il nonno era morto quasi subito. Il male che lo stroncò in Maremma lo stava consumando da diverso tempo, ma per mia madre fu il primo presagio di una scelta infelice, quella di rilevare una tenuta agricola e improvvisarsi contadini. Zia Tullia viveva con noi dal 1980. Mai capito perché, se si era trasferita per farmi da educatrice, fosse arrivata con almeno tre anni d'anticipo, quando andavo ancora all'asilo. Forse mi cantava le canzoncine con i numeri per instradarmi all'amore per i calcoli, ma, conoscendola, dubito che mi abbia considerato, a quel tempo: i bambini non facevano per lei. Impossibile trovarla simpatica, ma non era nemmeno detestabile, odiosa né dispotica. Solo inutile. La mamma non era mai stata d'accordo sulla decisione di prenderla con noi. Diceva che era sbagliato mescolare le famiglie, una chiusura che, mi pare di ricordare, trovavo esagerata per quanto anche io avrei preferito non averla con noi. La casa era grande e c'eravamo sempre solo io, la mamma e la nonna, prima che arrivasse Tullia e che, l'anno dopo, nascesse Dalila. Sono cresciuto tra le donne, miracolo che non sia diventato omosessuale. In compenso, secondo me, mia zia s'era fatta lesbica, visto l'interesse dimostrato per la cavità orale della ragazza del latte, che passava a ritirarlo ogni due giorni e palesava carenze d'affetto. Le vidi più volte, ma non chiesi mai niente, pensando che se stavano dentro un fossato era probabile che preferissero non essere viste. E poi non me ne fregava niente di mia zia, la sopportavo e basta. Dopo molti anni, avrei capito che era una persona più importante di quello che credevo e, ciononostante, non la rivalutai. Da piccolo, la rispettavo solo perché qualche litro del suo sangue veniva da quello di mia mamma. Per colpa del modo di dire "sangue del suo sangue", che si usa per indicare i fratelli e le sorelle, avevo infatti finito per pensare che queste persone ne condividessero davvero una parte. Ammetto che il concetto mi risultava piuttosto oscuro, ma all'epoca prendevo alla lettera tutte le frasi fatte, incapace di distinguere lo scherzo dalla verità e il formale dal concreto. Ero da schiaffi, ma il senso dell'umorismo non abbondava da quelle parti e così me la cavai senza essere soppresso per la troppa ingenuità. Tullia e mia madre, ad ogni modo, non sembravano condividere molti liquidi, perché non si assomigliavano affatto, neanche come carattere. Zia Tullia, tra l'altro, era bionda e parlava con accento tedesco. La spiegazione ufficiale di questa inflessione risiedeva nel fatto che mio nonno aveva trascorso molto tempo con i tedeschi durante la seconda guerra mondiale e, come aggiunse una volta nonna Adele, anche lei. Dovevano averlo attaccato a Tullia. - Mamma, ma tu non sai il tedesco e nemmeno il babbo lo sapeva!- obiettò una volta mia madre e allora la nonna aggiunse un altro pezzo alla storia. Tullia era nata quando i tedeschi erano ancora dalle parti di casa loro e le parlavano spesso. Ero un ignorante patentato, per questo non mi ero sentito d'insinuare che il discorso non quadrava. Mi limitavo a constatare che ai miei nonni non si era mai attaccato il grossetano in oltre un decennio di vita in Maremma, mentre erano bastati pochi mesi al germanico per contagiarli. Scoprivo inoltre dalle parole di mia nonna che il dopoguerra era stato un periodo molto tranquillo e che i tedeschi, apparentemente, lo avevano sfruttato per trattenersi in Italia addirittura fino al 1954 quando nacque mia zia, cosa che non sembrava proprio fattibile stando al mio libro di storia. Ripeto, ero un ignorante. Il fatto che contava, alla fine, è che mia zia viveva con noi affinché io diventassi commercialista. O che almeno andassi bene a scuola nelle materie commerciali. Dalila non dovette mai studiare niente su costrizione, ma adesso stavo parlando di me, perdonatemi l'accesso d'invidia. Quella volta, a Pasqua, convinsero la moglie di Amilcare, il fattore di un podere vicino, a infornare una decina di pizze. Una soltanto non era abbastanza per accendere il forno a legna, -per una decina si può anche fare, al limite - disse il contadino. In cambio regalammo loro un quarto di vitello, morto ovviamente. All'epoca non mi parve uno scambio sensato: l'odore della pizza era molto migliore di quello della povera bestia.
Dopo le medie, Dalila decise di frequentare l'artistico, anche se a Orbetello non c'era. Abitavamo a Marsiliana, uno spiazzo campestre preceduto e seguito da una successione di località tutte sdraiate lungo un'unica strada. Rappresentava un'area preziosa per la Maremma grazie ai suoi campi, in parte di proprietà di una grossa azienda ortofrutticola italiana, per il resto abitata solo da chi li coltivava. A quanto mi risulta è ancora così. Troppo lontani dal capoluogo di provincia, Grosseto, eravamo abbastanza vicini a Orbetello e a due passi da Albinia, l'agglomerato sul fiume Albegna nato dopo la bonifica del territorio, voluta da Mussolini. Per i pochi giovani di questo grappolo di località da venti abitanti medi ciascuna, le possibilità erano tre: studiare a Orbetello, attingendo da una scelta limitata di scuole secondarie, iscriversi a Grosseto, dove vi erano ogni sorta di istituto professionale e i licei, o lasciare gli studi, darsi all'agricoltura e impiccarsi in una stalla a trentadue anni. Serbo ancora del rancore per le scelte impostemi quando ero piccolo, solo per questo tendo a portare ad estreme conseguenze il prospetto di una vita a Marsiliana o dintorni, pur non avendo mai saputo di nessuno che si è davvero ammazzato come ho scritto poco fa. Le storie di droga, in compenso, non mancavano, molte dal finale tragico, ma non suicida. In simili posti dove il tempo è trascorso ma le attività sono rimaste quelle di un secolo fa, quelli che non hanno avuto il coraggio di andarsene muoiono di overdose o rimangono fulminati per sempre da tutto quello che si sono fumati, iniettati, bevuti e sniffati. Si crea una catena, dove l'anello che ha visto fondersi il migliore amico decide di lasciarsi sfinire a sua volta e così via, finché non rimane solo la palla di piombo, il nocciolo duro di un paese: gli anziani che giocano a briscola. Anche se la colpa non è di nessuno e non dovrebbe essere il luogo a forgiare la persona, è difficile non avercela con i genitori, quando cresci in un luogo isolato e circondato da una cultura che si fa scudo con l'ignoranza, fregiandosene come fosse una base di partenza molto buona. Se le tue scelte non sono mai vere scelte, ma decisioni altrui, continuerai a incamerare risentimento ogni volta che la strada presa ti sembrerà sbagliata per qualche motivo. Dopo anni e anni, avrai lo stomaco tanto pieno di materiale accumulato che rifiuterai quella seconda birra, non c'entrerà più niente. E schiatterai. Le acque chete sono pericolose; credo che questo concetto esista declinato nei diversi dialetti di tutte le lingue del mondo. O almeno di quelle dei paesi dove si pensa tanto. Avvicinandosi all'Equatore forse se ne parla meno, anche perché parlare di acqua in zone desertiche sembra poco rispettoso. Io ero un'acqua cheta, e di materiale ne accumulavo a tonnellate. Verso la fine delle medie, dovetti compilare la preiscrizione al commerciale, senza sedute di orientamento, né conversazioni su quello che mi sarebbe piaciuto studiare. Quello che mi venne "caldamente suggerito" mi parve accettabile e comunque non sapevo niente dell'esistenza di alternative all'obbedienza. Mia sorella era ancora troppa piccola per mostrarmi come funzionassero. Mio padre doveva aver deciso così perché quella del commercialista era una professione abbastanza sicura e remunerativa. "L'ideale per costruire una famiglia e vivere senza grosse difficoltà economiche"; immaginai che se gli avessi chiesto spiegazioni mi avrebbe risposto con una frase del genere. Che senso ha fare una domanda se si conosce la risposta? Improvvisarsi intuitivi è sciocco, ma non lo sapevo. Sarebbe più saggio invece chiedere sempre "perché": i filosofi smettono forse di porsi dei quesiti quando, ormai vecchi, hanno studiato buona parte dello scibile? Mio padre voleva che mi iscrivessi a ragioneria solo perché andassi a scuola a Orbetello e risparmiassi i soldi dell'autobus fino a Grosseto. Unica motivazione che mi costrinse a cinque anni in un posto d'inferno. In casa nostra la parola commercialista è passata di moda quando per me si è fatta abbastanza vicina l'ora di pensare all'università o a un corso di specializzazione. Anzi, la sentivo circolare poco già al secondo anno di superiori, nonostante la permanenza della zia Tullia che in teoria avevano chiamato per iniziarmi alla professione. Di lezioni durante le superiori me ne faceva davvero poche, ma nessuno obiettava. Di certo non io: per quello che me ne importava! Odiavo i calcoli. Mi sarebbe piaciuto tanto andare a scuola a Grosseto. Grosseto non è New York, ma per uno della Marsiliana è la città in fondo al campo di pomodori infinito che ha visto tutte le sue prime volte, dal fumo alla masturbazione. Almeno per il primo bacio sarebbe stato bello avere sullo sfondo un palazzo simile a quelli di Parigi, col marmo e le finestre laccate di bianco. Sarebbe stato bello che il primo libro letto di nascosto per
fuggire dallo studio fosse stato in riva a un fiume. Che dopo la prima canna fumata ci fosse stato un terrazzo con la musica da discoteca e un gruppo di amici a dirti che eri stato proprio forte e che ora vi andavate a divertire. Sembreranno romanticherie di matrice femminile, ma non lo sono. Provateci voi ad abitare in un posto che conta due case, a volte tre a seconda che si considerasse o meno il casolare dell'austriaco, disabitato da trent'anni o giù di lì. Lo vedrete se dopo non diventate dei piccoli Giacomo Leopardi, che idealizzava persino il colore del cielo oltre una siepe. Io pensavo a Grosseto, almeno. Era un sogno razionale, anche se non incluso nella mia biografia di perdente, che non prevedeva dipartite da Marsiliana. D'altronde, secondo mio padre dire che casa nostra si trovava in un luogo isolato sarebbe stata un'esagerazione. C'era tutto quello che serviva, come osservò lui stesso una sera. La circostanza non me la ricordo bene, ma eravamo in salotto, dopo cena, e la mamma lo aveva accusato di averla confinata in un ricovero di casi umani. Lui enumerò i vantaggi della zona. Sono sicuro che abbia citato la Coop di settecento metri quadri dell'Albinia, come se la dimensione di un supermercato cambiasse la vita delle persone. Oggi capisco che quell'uomo si era integrato. Trascorreva le giornate con i contadini, i fornitori e i commercianti a manovrare tutto l'apparato della nostra fattoria e aveva finito con l'adottare un modo di pensare diverso dal nostro. Lontano dalla mentalità cittadina che un tempo lo aveva reso compatibile con la mamma. Dal punto di vista delle donne di zona, la metratura del posto dove facevano la spesa aveva un impatto sulla qualità della vita. A mia mamma veniva da piangere al sol pensiero di spingere il carrello in un posto che a fatica metteva insieme duemila abitanti. Eppure un tempo era piaciuta anche a lei, la nostra campagna. Quando ero piccolo sembrava piuttosto felice, aiutava nei campi e il venerdì andava a vendere la merce al mercato. Una volta ero stato con lei al grande mercato di Orbetello, che apriva alle sette di mattina e restava in strada fino alle tre del pomeriggio, quando iniziavano a smontare. Mi piacque molto, era pieno di colori e faceva brontolare lo stomaco con un inconfondibile profumo di pane e porchetta che si mescolava all'aria fresca e salmastra di Orbetello. La mamma era al banco della frutta insieme a due signore, mogli dei contadini che lavoravano per noi, e a un venditore. In tutto il giorno non non aveva toccato un solo frutto ad eccezione di una pesca che strofinò con cura e poi mi regalò. Amavo le pesche ed ero felice di trascorrere una giornata diversa dalle altre, ma pensandoci anni dopo era molto strano l'atteggiamento di mia madre, con gli occhi fissi sulle palme del viale adiacente e impegnata solo in brevi conversazioni con qualche signora. Mio padre, lo ricordo bene, si arrabbiava anche allora, ma con meno violenza. Nonna Adele mi ha poi raccontato che la mamma era una persona molto speciale e che per questo lavorare le riusciva difficile. Il concetto non mi era comprensibile: perché una donna perfetta come lei non sapeva fare il suo dovere? Forse il suo compito era un altro, ipotizzò la nonna. E tra sé e sé, sussurrò: -La sua strada, la sua strada era un'altra.- Soffriva, nonna Adele e doveva essere piena di rabbia anche: dopo la partenza della mamma era andata a vivere da sola, sia pure nella vicina Orbetello, incapace di sostenere la vista di mio padre. Solo le nostre visite le davano un poco di allegria. Mi chiedevo sempre perché zia Tullia non andasse da lei. A trovarla o a viverci, ma ammetto che la seconda idea era mossa più che altro dal desiderio di levarsela di torno. Inspiegabilmente Tullia non faceva visita a sua madre a meno che non fosse costretta a trascorrere diverse ore a Orbetello per sbrigare delle commissioni, quindi per vedere la lattaia con più comodo, immagino. Nonna Adele non sembrava patirne, né trarre consolazione dalla figlia rimasta sana e rintracciabile. Il motivo mi appariva ovvio: zia Tullia non era dolce e simpatica come la mamma. Dev'essere tremendo andare avanti con il pensiero di una figlia impazzita e fuggita chissà dove, ma a dire il vero non m'importava troppo. Ero molto geloso del mio dolore ed ero sicuro che a nessun'altro pesasse tanto l'assenza della mamma quanto a me. A volte immaginavo di incontrarla e chiederlo a lei: - Mamma perché sei andata via? Dimmi che non è colpa mia, che non è perché sono stupido. Cosa ti ha fatto fuggire? Dimmelo, ti prego! - L'uomo sbagliato, il posto peggiore del mondo, un sacco di insulti e nessuna gioia - rispondeva
lei. Non ho mai avuto l'opportunità di rivolgerle davvero delle domande e forse è meglio così, visto il tono patetico che avrei usato e soprattutto alla luce di tutto quello che avrei scoperto nel tempo. Felice forse non lo era mai stata, nella nostra casa a Marsiliana, ma quando ero piccolo rideva, correva, leggeva. Si prendeva cura di me. Con Dalila fu molto diversa. Cambiò completamente, dopo averla avuta. - Pietro, promettimi che farai il bravo. - mi disse un giorno; avevo quattro anni - Andrò a Roma con la zia, staremo sole io e lei per un pochino. Facciamo così: tu farai il bravo come sempre; io tornerò presto e ti porterò un regalo.” - L'elicottero? - volevo un elicottero, l'avevo chiesto a Babbo Natale e me ne aveva portato uno finto e piccolo, al massimo poteva salirci Big Jim. Io non ci stavo. - No. Avrai una bella sorellina, tutta per te.- Torni tardi?- chiesi io, che intendevo tardi quella sera stessa, dopo essere stata al mercato a comprarmi una sorellina. - Starò via qualche settimana, ma non sarai solo. C'è sempre nonna Adele e ci sarà anche il babbo, che starà con te tutte le sere e la domenica. Ti porterò anche dei bei giocattoli, quelli belli che fanno solo a Roma.Fu il periodo più brutto della mia vita. Con “qualche settimana" intendeva oltre dieci mesi, anche se non ho mai avuto modo di sapere perché lei e Tullia non ci avessero raggiunto subito dopo la nascita della piccola. Il babbo, ovviamente, trascorse meno tempo possibile con me e non si prese la briga di darmi ragguagli su come nascono i bambini o altre informazioni che mi avrebbero rassicurato sul fatto che la mamma sarebbe tornata davvero. Mi sopportava, all'epoca, ma non sono mai stato una delle sue priorità. Una volta mi fece giocare a scala quaranta con i figli di amici in visita e davanti a loro fu gentile con me, quasi lezioso. Per il resto non rammento accortezze o dimostrazioni d'affetto. Meglio così, nonna Adele era una persona eccezionale e con lei stavo sempre bene. Mi mancava tanto la mamma, però, anche se telefonava tutti i giorni. La sera piangevo e spesso anche nel pomeriggio, mentre aiutavo la nonna nelle tante faccende di cui si occupava quasi da sola. Arrivarono una mattina all'improvviso, non ci speravo quasi più. L'abbandono era già entrato nel mio cuore, ancora prima di sperimentarlo sul serio. Sentii la macchina da lontano, riconobbi il motore della vecchia Seicento della mamma. Era rimasta uguale, coi capelli castani lunghi e il vestito da estate verde. Come fu bello rivederla! Mi abbracciò forte, sembrava non volesse lasciarmi più. Piangemmo a lungo, tutti e due, mentre di sottecchi vedevo la nonna sdilinquirsi davanti a un oggetto nuovo: una carrozzina blu e bianca. La sorellina! - Questa è Dalila. Dalila, lui è Pietro, tuo fratello! - disse la mamma, con una luce strana negli occhi. La mamma è stanca, pensai, perché ha fatto la sorellina. Doveva essere così, altrimenti come mai era triste? Ai miei occhi la mamma fu sempre poco felice dopo aver portato Dalila a casa. Crescendo mi dissi che, dopo aver vissuto di nuovo in città, il ritorno a Marsiliana doveva essere stato un brutto trauma. Povera mamma, non immaginavo le vere ragioni della sua infelicità. Capivo perfettamente solo che vivere lì fosse un calvario, per lei. Lo sarebbe stato anche per me, sempre di più. E come avrebbe potuto essere diversamente? Donne, solo di quelle coi calzoni. Di gente nei dintorni, però, ne circolava. Ogni giorno, da noi veniva qualcuno a ritirare della merce. In più c'erano gli aiutanti del babbo: un plotone selezionato dei più colti contadini della bassa Toscana. Ce n'erano pure un paio che avevano letto un libro, mi pare. Mio padre si faceva delle gran risate a ripeterci le frasi sgrammaticate che erano in grado di tirar fuori durante il lavoro nei campi. Un tempo scherzava tanto, dopo mangiato. A volte però la pasta era scotta o troppo salata e allora invece di scherzare diventava una belva e non gli si poteva rivolgere la parola per ore. Mia nonna cucinava bene, per fortuna. C'era da incrociare le dita le volte che i fornelli toccavano alla mamma, ma di questo ho pochi ricordi e solo in formato audio, senza immagini, perché quando succedeva mi irrigidivo tutto
verso l'interno come per sparire, puntavo gli occhi sul pavimento e li tenevo ben serrati, stringendo anche un pugno, quello che lui non poteva vedere, di solito il destro. Avevo paura che lo notasse; avrebbe detto che stare a pugni stretti era un atteggiamento da bambine e che oltre che stupido ero pure una checca e quindi, per finire, mi avrebbe picchiato. - Deficiente! - l'aggrediva - L'hai fatto di nuovo! Quante volte te l'ho detto che devi provarla ogni tre minuti dopo che ha staccato il bollore? - L'ho fatto, solo che non siete arrivati subito, quando vi ho detto che era pronto! - Dovevi scolarla prima! Lasciami almeno il tempo per cambiarmi dopo il lavoro, e che cazzo! - Ma vaffanculo! - Zitta troia! Non dire le parolacce davanti a Dalila! Puttana! Dalila aveva due anni e non ha serbato memoria di questi episodi, che si stavano facendo sempre più abituali. In seguito nessuno avrebbe più urlato, davanti a lei. D'altronde all'età di quattro anni i suoi occhi si trasformarono in due cristalli azzurri. Nessuno farebbe piangere i cristalli azzurri, perché diventerebbero ancora più belli. Ci toccò giocare con il Lego per davvero, quella sera di tanti anni fa che la portai via dal parco dopo solo dieci minuti di altalena. - Sei ingiusto Pietro! Aveva gridato così per tutto il tragitto, anche se la trainavo piano. - La città è pericolosa, Dalila. Siamo abituati a stare fuori quanto ci pare perché da noi non ci sono pericoli, ma qui è diverso.- Allora perché ci veniamo?Lei lo chiedeva, “il perché”. Avrei dovuto imparare da lei. Era un buon cervello la mia sorellina. - Perché ogni tanto dobbiamo stare anche con la nonna!- Potrebbe tornare lei da noi, è lei che se ne è andata. Io non gli voglio più tanto bene!Parlava male di proposito, quando faceva i capricci. - Le vuoi più bene, semmai. In ogni caso non si dicono queste cose!- Io voglio dire sempre la verità.- Però non vorresti che nonna Adele diventasse triste per colpa tua, vero?Aveva un vestitino bianco con i risvolti verdi, decorato a roselline. - Che mi importa?- Dalila, non fare la principessa!- Le principesse mica le dicono le cose così! Se ero una principessa parlavo di thé e collane di ghiamantiLasciai perdere le correzioni: fatica sprecata. - Giochiamo, dai!Dalila mise su' il broncio e persi il suo sguardo. - Tiro fuori la monorotaia?I cristalli rotearono, il labbro inferiore si spostò verso sinistra. I primi segnali della resa. La monorotaia era un treno futuristico con tanto di stazione iperspaziale che richiedeva un lungo montaggio. Una sola seduta di gioco non bastava per metterlo a punto; se decidevamo di aprirlo, dovevamo presentare richiesta anticipata a nonna Adele, che ci avrebbe riservato una stanza, tutta per la monorotaia. Per un paio di settimane sarebbe stata il campo di gioco. La nonna aveva scelto quella specifica scatola di Lego per farci stare da lei anche più giorni di fila e non solo dalla mattina alla sera. Ignorava, quando l'acquistò, che nostro padre ci avrebbe sbolognato a lei fin troppo spesso. Nonna Adele non sapeva neanche che Dalila sarebbe impazzita per quel gioco. Montata, la monorotaia occupava tre metri per uno. Bianca e celeste, correva su una rotaia grigia tutta curve. Aveva anche una stazione, che diventava super attrezzata quando mi ricordavo di portare da casa la scatola da scarpe con i Lego misti e aggiungevamo spazi non previsti dalle istruzioni. Dovevo essere meticoloso nel registrare le aggiunte. Alla fine avevo trovato conveniente segnare con un punto di pennarello Tratto i mattoncini misti, così da poterli distinguere in fase di smontaggio e lasciare nella scatola di ogni costruzione solo i suoi pezzi originali. A Dalila piaceva che ogni volta ci fosse qualcosa di diverso da far fare agli omini.
Erano soprattutto loro a farla contenta: gli omini della monorotaia. Erano diversi da tutti gli altri della Lego che avevamo: portavano il casco, alcuni blu e altri giallo. Ce n'era pure uno vestito di verde e faceva il capotreno. L'incarico era stato conferito da Dalila in persona, con tanto di cerimonia: un'attenzione credo abbastanza unica per i capotreno. Tirai fuori lo scatolone senza interpellare la nonna, quella volta, tanto saremmo tornati a Marsiliana in serata, al rientro del babbo da Civitavecchia. Ogni due settimane doveva fare una trasferta per smerciare parte del latte della fattoria a una delle gastronomie più fornite del porto laziale, un negozio di passaggio ben noto per le sue mozzarelle fiordilatte, le stesse che coprivano parte del compenso pattuito con nostro padre. Dei bocconcini - si chiamano così - deliziosi, che il babbo poteva girare agli abitanti del circondario, generando un piccolo commercio sommerso che gli avrebbe portato più spese che profitti. Di solito se doveva fare almeno cinquanta chilometri al volante, cercava di abbinare più impegni possibile e spesso prendeva anche noi e ci portava dalla nonna. Ero sempre pronto per una tregua dalle inutili lezioni della zia Tullia. Un dolore alle spalle mi ricordò l'altra ragione per chiedere sempre prima a un adulto se potevamo usare quel gioco, ossia il peso della confezione. Il piccolo sforzo fu ripagato con la gioia di Dalila all'ingresso dell'equipaggio di teste-gialle. Il suo uomo ideale, pensai, sarà simile a loro. Avevo già discrete difficoltà a immaginarmi un eventuale cognato, figuriamoci un demente col sorriso fisso e l'itterizia! Meglio soprassedere. Cominciammo a giocare, io fiero di aver recuperato l'entusiasmo della mia sorellina, lei dimentica di tutti i parchi del mondo, attratta solo dal capotreno e dai fantanauti, come li chiamavamo noi. Il rombo dell'auto creò il solito silenzio irreale. - C'è Roberto!- sussultò come sempre mia nonna. I rapporti tra quei due, nonostante non fossero più parenti, erano rimasti buoni: lui ci aspettava fuori dal portone, in piedi accanto allo sportello aperto, e lei ci raccomandava di mangiare e di non farlo arrabbiare troppo, poi si metteva a piangere. Povera nonna Adele, chissà quanto le mancava la mamma. E chissà quanto odiava mio padre! Una volta si erano addirittura scambiati gli auguri di Natale, ma solo perché era stato lui ad alzare la cornetta del telefono di casa. Evento più unico che raro e infatti credo che non l'abbia fatto mai più, almeno fino a quando abbiamo vissuto insieme. Salire in macchina di mio padre era diverso, dopo la fuga della mamma. Il profumo di lavanda era svanito, lo sostituiva l'odore di frutta marcia e terra. I rumori erano cambiati anche loro. Un tempo la vecchia Passat tintinnava di ninnoli delle vacanze esotiche risalenti a prima della mia nascita, quando i miei genitori erano “due cittadini con regolare busta paga tredici mesi su dodici”, diceva la mamma. Il ruzzolio delle noci e a volte i vetri di qualche fiasco erano il nuovo ritmo di quell'auto usata come vagone merci. A nostro padre piaceva regalare le bottiglie di vino etichettate con il nome della nostra fattoria e ne teneva sempre alcune in macchina, a ruzzolare. Il fatto che non avesse nessuna creanza nello scaraventarle sul pavimento del veicolo rendeva l'ambiente sospetto e faceva pensare a un alcolizzato al volante, nonostante lui non si ubriacasse mai, se non con i super-alcolici. Anche quella sera, le bottiglie ruzzolavano insieme a noccioli di frutta e monetine, mentre lui stava zitto. Dalila iniziò a cantare: - Living uord o wisdom, Lady Bì. Lady Bì, Lady Bì. Lady Bììì, oooh Lady Bì!...- Era la sua preferita nel repertorio dei Beatles. Un viaggio eterno, come sempre. D'estate sognavo di svegliarmi vecchio per avvicinarmi alla morte e sentire un silenzio più leggero di quello che c'era in quella fottuta macchina, con il mio carissimo padre. A parte questo, ero un ragazzino felice. Come non esserlo, al ritmo di Lady Bì? Immagino di aver voluto bene a quell'uomo e gliene volevo ancora, se soffrivo tanto per il suo modo di fare. Lo consideravo l'unico responsabile di quello che era successo alla mamma. - Che tragedia! Che disgrazia!- per fortuna ci sono sempre delle anziane meridionali a portata di mano, quando una famiglia è sconvolta da un triste imprevisto. La signora Crocefissa Dalbene aveva reso quelle giornate molto più pittoresche con le sue esclamazioni colorite, oltre a riempirci di sfogliatelle consolatorie. Dal profumo sembravano deliziose e Dalila riuscì persino a mangiarne qualcuna. Lasciò cadere tre cubetti di ghiaccio nella tazza. Con espressione soddisfatta, si rilassò davanti alla sua bevanda preferita.
- Ancora con questa mania di mettere il ghiaccio nel latte! Guarda che ti fa male, diventa troppo freddo!- Solo col ghiaccio viene il Latte Più!- Latte Più?Cazzo. - Sì, latte più!- Che ne sai tu, del latte più?- Gnente!- dodici anni e diceva ancora “gnente", se le tornava comodo. - Ti avevo detto di non toccare quella videocassetta!- Io non ho toccato le tue videocassette!- Dalila! Lo so che hai preso proprio l'unica che ti avevo detto di non toccare! - Quella con le scritte arancioni?- Sì, quella.Vidi passarmi davanti l'immagine di Alex, il protagonista di Arancia Meccanica, mentre fa uso di un gigantesco fallo di porcellana. Oh, Cristo! - Non l'ho presa!- mi fissò seria, con le trecce ferme. Dondolavano quando faceva i capricci o mentiva, se invece era sincera stavano ferme. Di solito. Le donne sono imprevedibili, anche a dodici anni. - Che ne sai allora del latte più?- Lo bevono in quel film, no?Meglio strangolarla o strapparle le trecce coi denti? Le botte in testa erano un’altra opzione soddisfacente. - Sì - risposi esasperato - lo bevono in quel film. Come diavolo fai a saperlo, se non hai preso il video?- L'ho visto quando lo guardavi tu!- cantilenò con finta innocenza. - Come cavolo...Comunque ti avevo detto che non potevi guardarlo!- Per questo ho pensato che fosse interessante - prosegue con sguardo disinteressato, seccata dalla mia interruzione - e l'ho guardato dalle scale. Fa schifo, non si capisce niente e poi si picchiano e c'è tanto succo di pomodoro. Però il latte più sembrava così buono che ho imparato a farlo anche io. Molto meglio del latte senza.Senza che? Mi spaventava più quando parlava così bene di quando faceva l'infante per fregarmi. Fine della discussione, ad ogni modo. Dalle scale si vedeva la televisione riflessa nel mobile a vetrina, che per fortuna era zeppo di porcellane che rendevano la visione meno nitida e definita. Oltretutto lo schermo del nostro apparecchio non era abbastanza grande da riflettere troppi dettagli su una superficie lontana qualche metro. La lasciai in cucina ad atteggiarsi col suo latte più, dopo averlo assaggiato per sincerarmi che non ci fossero prodotti strani. A dire il vero, lo assaggiai per curiosità e pur sapendo che Dalila non era così stupida da ingollare roba pericolosa. Lo stupido, sotto quell'aspetto, ero io e battevo milioni di bambini, nel campo dei liquidi strani. Alle elementari, di solito quando stavamo studiando e zia Tullia si allontanava controllare la gola della lattaia, scolavo antigelo come fosse Coca-Cola. Ammetto di averla sparata grossa, ma è un fatto di cui mi vanto e l'unico che posso gonfiare nei miei racconti, non avendo mai fatto altre sperimentazioni intrepide. Tra asilo e elementari, mi scolai sia la gamma dei grandi classici per bambini, come l'antigelo e la naftalina schiacciata e mischiata al Nesquick, sia le diverse delizie offerte da un'azienda agricola all'avanguardia come quella dove vivevo. Veleni inclusi, s'intende. A un certo punto la mamma doveva aver capito che era inutile tentare di mettere sotto chiave tutti i prodotti a rischio di ingestione da parte mia. Molto più semplice rinchiudere me a giorni interi tutte le volte che mi bevevo qualcosa di proibito. Il problema era che tra il momento della folle bevuta e quella della punizione c'era un sacco di tempo, tra la ricerca del dottore e l'eventuale corsa in ospedale. Un paio di volte addirittura mi ricoverarono. Il mio cervello ne usciva confuso, perché se prima erano tutti in ansia per me e "Piccino ora passa" e "Bravo Pietro, quanto sei bravo. Domani ti compro i Transformers, fai il bravo ora!", dopo stavo di nuovo bene e arrivavano le mazzate, seguite dalla condanna all'ergastolo. Mi volevano bene, o no? Nel
dubbio, mi veniva voglia di farmi un goccio di carbonella. Meno male che nacque Dalila e diventai responsabile, altrimenti sarei morto dopo aver assaggiato il cianuro. La tentazione che si prova di fronte ai teschi crociati è micidiale. "Si morirà davvero?" viene da chiedersi. Con quello che avevo provato la volta precedente sarei dovuto finire diritto al creatore, secondo il pediatra. Invece ero ancora lì, vispo e in piene forze a infilare il dito nella bottiglia di un misterioso medicinale "ad uso esterno" di nonna Adele. Tutto da gustare! Tutto no, avevo un cervello e un palato anche io, ma un bel sorso, sì! "ATTENZIONE, VELENO!" avvertiva l'etichetta bianca e rossa. I segnali di pericolo erano bianchi e neri o neri e gialli, l'avevano detto a scuola. Quello l'aveva attaccato il dottore, che era anche il pediatra e vedeva la morte dappertutto, a quanto mi sembrava. Di nuovo, me la cavai. Dalila non ha mai fatto niente di tanto stupido. Nel suo latte più c'erano solo latte, ghiaccio, yogurt, miele e un goccio di tamarindo, che le aveva sempre fatto schifo ma stava nella ricetta di quei ragazzi, mi riferì lei. Stava diventando bellissima. Da subito dopo il diploma avevo iniziato a lavorare tutto il giorno in fattoria, svegliandomi prima dell'alba, alle quattro e dieci. Iniziavo ad attendere il ritorno da scuola di Dalila già dalla prima ora di lavoro, alle cinque. Lei stava ancora dormendo, era ancora a pochi metri da me, ma per sperare di vedere i cristalli azzurri dovevo aspettare almeno dodici ore . La dose giornaliera di seghe mentali raccomandata a tutti gli aspiranti maniaci. Alle tre del pomeriggio raggiungevo il picco di euforia: stava per arrivare. E se il pullman si fosse fermato per un guasto? Se fosse rimasto imbottigliato in una lunga coda verso Roma, causa incidente? Di incroci a raso non ne mancavano, sull'Aurelia. Alle tre e mezzo arrivavano le paranoie. - Ciao scemo!- mi disse una volta, appena arrivata nel grande prato davanti casa nostra. A quell'ora mi trovavo sempre qualcosa da fare in prossimità della strada, che cosa curiosa. Dovevo vederla arrivare. C'era una bella luce, il sole stava scendendo ma il cielo era ancora azzurro, con nuvole bianche da affondarci le mani tanto sembravano soffici. Ci stava da dio, mia sorella, con quello sfondo dietro. Anche vestita da idiota come la obbligava a fare mio padre. - Hei cretina, come ti permetti?- ribattei, con l'autorità di Mr. Bean che mette in riga il suo orsacchiotto. - Che fai?- chiese lei con la faccia di una bimba con le trecce e il lecca-lecca mentre cerca di attirare l'attenzione di un adulto per farsi portare alle giostre. - Vado a zappare dietro.- Una delle poche volte in cui non avevo trovato un motivo reale per mettermi a lavorare davanti casa. Stavo fingendo di prendermi cura di una siepe che stava benissimo com'era. Era tempo di rimettersi al lavoro, la natura ha tempi obbligati, non concede pause caffè. - Poi mi metto ad annaffiareFaceva ancora buio sul presto, ma non ricordo che mese fosse. - Tutto bene a scuola?- le chiesi, ancora fermo dove mi aveva trovato. - Ora non ho voglia di parlarne!- rispose, la testa protesa verso di me con lo slancio di chi sta sputando. Aveva fatto anche un passo in avanti, il tono secco senza essere sbrigativo. La sua era una reazione premeditata e ciononostante carica di impulsività. Lo faceva quasi ogni giorno. Al ritorno da Grosseto era stanca e aveva voglia di attaccare briga, con me o con chiunque le si parasse davanti. Un altro possibile bersaglio erano le galline, le più quotate nella sua classifica dei capri espiatori. Detestava loro e tutto il pollaio di cui io andavo tanto orgoglioso. “Un salottino”, lo chiamava mia nonna, ammirandone la pulizia e l'aspetto accogliente. Avevo messo finanche le tende alle feritoie. Faceva molto fattoria di Nonna Papera, ma si adattava alla perfezione al carattere delle galline, che come tutti gli animali di sesso femminile necessitano di attenzioni, più che di cure. Espressione piena ed esasperata - avevo messo le tendine! - dell'anima contadina, immaginavo che per Dalila quell'angolo fosse insostenibile. La faceva arrabbiare ancora di più contro il destino che l'aveva collocata tra le zolle di terra. Avrebbe potuto aspirare a un futuro luminoso, ripeteva nei suoi periodi di stanchezza, se solo non fosse stata prigioniera tra i muri di pietra, circondata da uomini rozzi e isolata dalla
società. - Non rinnegare le tue origini, te ne pentirai!- l'ammoniva spesso la nonna. Pensavo la stessa cosa, ma non ero in grado di esprimerla, perché non ero sicuro di avere ragione. Voler bene alla fattoria mi aveva portato a crescere forte e onesto, ma anche ad emarginarmi. Niente fidanzate, nessun amico dotato di materia grigia, solo compagni di bevute. E mia sorella come chiodo fisso, piantato a martellate nella certezza che ne sarebbe andata. Sgomento. Tredici, quattordici, quindici anni. Il compleanno di Dalila lo vivevo come una sentenza, persa, che sanciva l'inasprimento della mia condanna. Ogni torta con le candeline mi trovava più innamorato e più schivo. Oltretutto il mio profilo corrispondeva grosso modo all'identikit del maniaco sessuale: altezza media, fisico magro, capelli neri lisci spesso lasciati crescere fin sotto le orecchie, occhi piccoli e scuri, naso affilato, la pelle del viso pallida nonostante mi cuocessi al sole tutto il giorno. Era soprattutto quest'ultima caratteristica a rendermi simile a un delinquente, unita alle occhiaie scure, tendenti al nero, e alle dita affusolate, quasi femminili. Mi salvavano i muscoli, anche se ad uno sguardo attento non sarebbe sfuggita la loro inadeguatezza sul mio corpo: sembravano applicati col Vinavil sopra il fusto di un omino di gomma, di quelli con le gambe e le braccia lunghe lunghe col fil di ferro infilato dentro per farli piegare. L'età della ragione mi convinse a preoccuparmi del mio aspetto, anche visto quanto mi sentivo a rischio. Potevano scoprirmi da un momento all'altro e sarebbero stati guai seri, per non dire cazzi. Così iniziai a preoccuparmene. E basta. Di concreto non feci niente, però mi guardavo allo specchio e mi lamentavo con me stesso. A volte facevo delle ipotesi su come migliorarmi, senza tuttavia decidere se mi serviva un parrucchiere, un pomeriggio di compere o una pulizia del viso. Dalila dal canto suo continuava a crescere e mutare d'aspetto. Divenne troppo alta, poi eccessivamente tonda. Si ricoprì di brufoli e si tinse i capelli del colore sbagliato. Il babbo, tra parentesi, non se ne accorse, altrimenti l'avrebbe sgozzata. Dalila gli inventò che andavano di moda i cappelli a tesa larga e ne tenne uno calcato sulla testa per ben tre settimane. Per sua fortuna avendo pochi soldi aveva acquistato una tinta temporanea al supermercato, di quelle che sbiadiscono ad ogni lavaggio. Due docce al dì e in capo a dieci giorni era tornata quasi uguale a prima. Una settimana supplementare di cappello la mise al riparo dai rischi, anche se in quel periodo nostro padre non sembrava far caso a niente: non faceva domande, non controllava nemmeno che mangiassimo! Aveva perfino allentato il controllo sul mio lavoro in fattoria e non escludo che Dalila avrebbe potuto sperare di passarla liscia se anche senza coprire il rosso acceso della sua chioma. Si trasformò ancora, divenne magra e formosa, poi secca e spigolosa, infine semplicemente Dalila. Verso i quindici anni aveva iniziato a vestirsi in modo succinto e quella volta trovò il babbo molto più sveglio e decisamente poco permissivo. Fu ammonita con tanta severità da ricorrere a uno degli stratagemmi preferiti dalle adolescenti. Usciva di casa in jeans e felpa per poi cambiarsi al bar prima di andare a scuola oppure in pullman. Avevamo visto fare la stessa cosa alla ragazza di una serie tv che guardavamo insieme e l'idea l'aveva stuzzicata. Venni a saperlo in paese, a Orbetello, da Samuele. Samu era un ritardato di ventitré anni che, tra droga e problemi mentali, aveva schiantato sette anni di vita alle medie. Il bello è che i genitori avevano ritenuto valesse la pena di fargli proseguire gli studi, forse confidando in una resipiscenza tardiva o in un talento nascosto che sarebbe potuto emergere solo liceo. Lo iscrissero allo scientifico. Chissà in quale ispirazione speravano. Almeno cambiò ambiente, dopo 15 anni. Sfigatissimo, aveva frequentato il Don Milani di Orbetello, un istituto che comprende materna, elementari e medie, tutto nello stesso edificio. Miracolo che non si sia suicidato, lì dentro. Ci provò anche, dicono, ma il Vetril non uccide. Nemmeno mescolato con la Coca-Cola. Bene non fa, penso, ma tanto Samu era già bruciato di suo e semmai a fargli male era l'hashish. Cominciai a parlarci proprio dopo che si fu diffusa la notizia del suo cocktail alternativo. Dentro di me ho sempre conservato la voglia di darmi alle bevande proibite e non è facile trovare altri esseri umani con la stessa passione. L'alcol è banale, a ragazzi come me rimane solo quello, se non sono già in acque profonde, cioè se non vogliono drogarsi. La maggior parte di quelli cresciuti in un "paese senza paese" è così.
Sapevamo talmente poco del mondo da non poterne vedere le possibilità. Fermi qualche gradino al di sotto di quelli che avevano letto un libro, visto un film, fatto una gita e che in una di quelle occasioni avevano incontrato qualcuno e intravisto qualcosa. "Quelli che qualcuno qualcosa". Per noi esistevano solo termini vaghi per riferirsi al resto del mondo, un tutto sconosciuto e lontano dal nostro angolo, l'unica realtà accessibile. Il lavoro per noi iniziava subito dopo pranzo, i libri non serviva nemmeno comprarli, a meno che l'insegnante non ci tenesse a vederli sul banco la mattina. Con questo criterio io ne avevo ogni anno solo tre o quattro, anche alle superiori, ed erano già troppi. Tempo per studiare ce ne sarebbe stato di domenica sera, ma preferivo vedere il calcio in televisione, perciò dei testi non ho sentito la mancanza. Altrimenti forse mi sarei ribellato. - Tre?! Hai preso tre? Cazzo ti ho fatto studiare con tua zia tutti questi anni? Allora sei stupido davvero!- infieriva mio padre. Aveva ragione, in fondo. Dovevo essere poco dotato se non mi bastavano le lezioni di una presunta esperta di ragioneria per prendere la sufficienza senza studiare, dormendo sul banco tutta la mattina per la stanchezza che la notte di sonno non aveva eliminato. Certe volte avvertivo dei cali nel rispetto che mi portava quell'uomo, per non parlare della sensazione di disagio che mi avvolgeva quando lo sentivo nominare mia zia. Sembrava parlasse di una dea da temere e riverire. Da quando la mamma lo aveva lasciato era diventato a poco a poco più diretto, con dei picchi durante le fasi critiche delle sue attività economiche e, immagino, delle relazioni che aveva con donne di cui ci era dato sapere molto poco. Nel momento in cui la mamma aveva varcato la soglia era anche sparito il motivo che giustificava la presenza di Tullia in casa nostra. D'insegnamento ne sapeva ben poco, si limitava a schiaffarmi di fronte quaderni coi quadretti strani, rettangolari o forse erano quadrati oblunghi, nati male. Mi ordinava di calcolare il reddito di una famiglia immaginaria e altre panzane, poi si metteva a leggere poesie o a scriverne lei stessa. Da quel poco che ne sapevo, le lesbiche preferivano la poesia alla prosa. Scriveva robaccia, giuro. A volte leggevo il suo quaderno di nascosto, bastavano poche righe per capirlo. Sono uno dotato di buon gusto dalla nascita, l'avrei capito se ci fosse stato del buono. Lo faceva per atteggiarsi e piacere a quella del latte, la sua amante. Perso nei quadretti strani, intanto, fantasticavo su una libertà che forse non volevo nemmeno. Come l'avrei sfruttata? Troppo difficile immaginarlo. Vedevo città, autobus, donne. E la mamma a farmi da guida, dappertutto. Morale della favola: ai tempi delle medie per fare i compiti della zia Tullia non mi dedicavo a quelli che mi assegnavano la mattina e finivo col trovarmi impreparato anche in materie più semplici come la storia o la geografia. Un coglione beffato dalle troppe ore passate a sgobbare sui libri in età prematura. Sgobbare. Insomma. Sudare, piuttosto. Sbuffavo come un mantice, d'inverno e d'estate. Ribadisco, tutto questo solo a me. A Dalila liceo artistico a Grosseto, nessun obbligo in fattoria e tanti "tutto quello che vuoi tesoro". Definirmi invidioso sarebbe stato riduttivo. Ero geloso di ogni parola che le veniva rivolta. Proprio tutte no, ad esempio "sei proprio bella" sarebbe stato strano e spiacevole da sentire, per il resto li avrei voluti io, i complimenti. Io i sorrisi. Io i passaggi al cinema. Io gli amici che pendevano dalle sue labbra. Io i vestiti belli. Io gli ammiratori a fissarmi mentre mi cambiavo di nascosto sull'autobus. Per tornare a Samu, lui la fissava. - Tua sorella è proprio gnocca quando si sveste, sai?- Cazzo dici, coglione?- il mio tono era teso, l'avrei anche ammazzato se solo non fosse stato ovvio che stava mentendo. Voleva farmi credere di essersela fatta? Impossibile che Dalila si filasse uno come lui. - Dico che è gnocca!- Non fare il cretino Samu che poi non ti sai difendere!- Ho detto solo che è bella- E che ne sai tu?- La mattina si cambia sul pullman per andare a scuola vestita da puttana!A quel punto non lo vidi più per diverso tempo. Era una fighetta e quando lo cazzottavano rimaneva barricato in camera per un mese buono. Tanto mi aveva già detto abbastanza. Una
mattina scappai dall'orto alle cinque e mezzo. Mi misi sotto il cappotto dei vestiti da deficiente, roba di mio padre scovata in soffitta. Misi un basco di curiosa provenienza, occhiali scuri e, colpo di genio, i baffi finti che avevo vinto da piccolo alla Festa dell'Unità con la mamma. Ero surreale, ma poco riconoscibile. Mio padre era via dalla mattina precedente, sarebbe rincasato in serata, e nessuno mi vide allontanarmi. Sull'autobus stavano almeno sessanta ragazzi. Nessuno fece caso a me, anche perché al mattino l'attenzione degli esseri umani tra i quattordici e i diciannove anni non è particolarmente alta, persa a rotolare tra le pieghe delle lenzuola salutate malvolentieri. La guardai salire e sedersi accanto a Serena, l'amica del cuore, che, più mattiniera, le teneva il posto. Sembrava proprio una bambina. Sorrisi tra me. Era sempre lei, solo con un po' troppo petto. A me piaceva anche con meno tette, era meno vistosa. Verso Fonteblanda cominciò il delirio. La felpa sparì in un secondo, infilata nello zaino dove non metteva più tutti i libri, in modo da aver spazio per il cambio d'abito. Mi ero seduto in terzultima fila. Dall’ultima avrei visto meglio, perché era sopraelevata, ma sarei stato costretto ad affiancarmi ad altri quattro imbecilli. Inoltre avrei attirato l'attenzione. In fondo si siedono i fighi, quelli che non studiano e vanno male per scelta o se la cavano solo perché sanno copiare. Ero arrivato presto per scegliermi un posto strategico, con gli occhi puntati su Serena che mi informava senza volere sulla posizione di mia sorella. L'ultima fila era rimasta libera fino a cinque minuti prima della partenza, segno che lì i posti erano assegnati per tacito accordo. C'era un grande rispetto per i fighi. Le leggende volevano che avessero anche detto “vaffanculo” ad almeno un professore, tutti, a voce alta e ben scandito. Meglio non sfidarli. Via la maglietta, una manica dopo l'altra. Avevo dunque preferito la terzultima fila, quattro posizioni dietro a Dalila. Ero fuori di me. Sarebbe stato meno rischioso presentarsi vestito come al solito e stare attento a non essere visto. In quel caso, se mi avesse beccato, sarebbe bastato inventarsi che dovevo fare una commissione a Grosseto. Dentro di me covavo qualcosa di insano e lo preservavo dai sospetti di Dalila che mi considerava un fratello normale. Rompicoglioni come quasi tutti gli appartenenti alla categoria sono costretti a diventare. Perché non è una scelta. Siamo tutti innamorati di loro, ma solo io e pochi altri ce ne rendiamo conto. Anche se ero sospettabile, non sono mai stato un pedofilo e non mi sono mai macchiato d'incesto. Eppure avrei ucciso il maciste di due metri che mi bloccava a tratti la visione sullo spogliarello di mia sorella. Lo conoscevo solo di vista. Era un imbecille dell'Albinia che mi stava sulle palle a priori, in quanto mi impediva di vedere bene Dalila. S'inclinò in avanti, io mi protesi, tanto dormivano tutti con gli occhiali da sole e le visiere calate per ripararsi dalla luce del mattino. Come facevano a dormire con la musica sparata nelle orecchie? La maggior parte di loro aveva un lettore abbandonato sul ventre o ciondolante dal sedile e dai ronzii che ne scaturivano s'indovinava musica da discoteca, in perfetto stile da truzzo del Monte Argentario e dintorni. Il secondo strato di panni si dileguò nell'intervallo tra due curve. Aveva solo una maglietta a maniche lunghe nera adesso e sotto, speravo, una canottiera. Da piccoli, tutti e due avevamo imparato a vestirci seguendo l'ordine seguente: mutande, canottiera, calzini, pantaloni, maglietta e, a seconda della stagione, il resto. Per me, le basi erano rimaste le stesse. Durante le superiori la canottiera costituì una minima aggravante alla mia condanna da sfigato. L'etichetta mi era stata appuntata comunque per altre ragioni, estetiche e caratteriali e allora preferii non cambiare abitudine. Nessun altro la indossava, erano roba da nonni. Scacciavano pure la figa, rincaravano la dose i miei compagni. Per circa un mese andai a scuola senza. Di figa, manco a pagarla. Prese in giro, invece, sempre come se piovesse. Ero un po' più alla moda, ma non se ne accorse nessuno. Avevo visto delle foto di mio nonno Anselmo. In canottiera, ma un gran donnaiolo lo stesso. Dalila rimase a lungo con la t-shirt basta, lasciandomi riflettere sulle magliette della salute. Superato il bivio per Talamone si liberò dell’indumento. La vidi, piegata in avanti, nello spazio tra i sedili. Il maciste era crollato sulla destra e non costituiva più un impedimento. Che fosse da sfigati o meno, mia sorella non aveva corso il rischio. Era a pelle nuda, chiara e senza vergogna. Avrebbe dovuto arrossire, anche sulla schiena. Una sorella non può fare certe cose senza mostrare il massimo del pudore, a costo di sfidare la biologia del corpo umano. Notai spigoli che mi erano sconosciuti, su quella schiena di latte. Notai anche che avevo un'erezione. Dalila nel frattempo armeggiava spostandosi da destra a sinistra. Il mio collo
si allungò fino a farmi male mentre tenevo coperto l'attrezzo con lo zaino vuoto, preso in soffitta per darmi un atteggiamento. Il reggiseno, si tolse perfino il reggiseno! Ero choccato e troppo eccitato per rimanere lucido. Il mio cervello non connetteva le immagini al vissuto. Mi ripetevo che quella era Dalila, ma non lo capivo fino in fondo. Ero più ubriaco che da sbronzo. Mia sorella procedette tranquilla, senza guardarsi intorno. Pescò un secondo reggiseno dallo zaino e lo indossò. Sembrava uno di quelli che usava la mamma, a push up. Aveva il pizzo, questo riuscivo a vederlo con chiarezza. Chissà come aveva fatto a permetterselo. La mia erezione stava diventando sempre più notevole. Porca miseria. L'idiota al mio fianco dormiva e i pantaloni di mio padre, impennati in modo inequivocabile, erano abbastanza larghi da consentirmi di nascondere a me stesso l'orribile verità: ero un maniaco. Dalila continuò l'opera. Mise una maglietta attillata bianca e srotolò con cura un paio di collant velate sulle gambe ancora un tozze, residuo d'infanzia di una ragazza non ancora donna. Prese dallo zaino un sacchetto di plastica ben chiuso sottile come se ci fosse dentro un quaderno e ne estrasse un quadrato color jeans che, aperto con calma, si rivelò essere una minigonna. Dove li prendeva i soldi per i vestiti? Saranno mica stati i risparmi delle feste di compleanno, quelli che servivano per le emergenze? Per finire, dalla borsa senza fondo fece uscire una bustina di stoffa colorata, che riconobbi immediatamente perché era di nostra madre. Era piena da scoppiare, sporca e colorata con delle scritte a pennarello. Meglio fingere di non averla vista; non tolleravo gli interventi sui pochi ricordi lasciati dalla mamma. Dalila si dedicò a una complessa operazione di trucco, riuscendo miracolosamente a non ficcarsi la matita nell'occhio, nonostante la guida sbrigativa dell'autista della Rama, l’allora compagnia di trasporti locale. Completò l'opera quando la città era già in vista, poco prima del ponte la precede, quello fatto costruire da Mussolini sul fiume Ombrone. Mentre lanciavo uno sguardo al fiume mia sorella appesantì il suo look con spessi bracciali borchiati e una cintura dal peso di almeno due chili. Risolto il problema dell’erezione: non trovavo niente di sensuale in lei, in quel momento. Sentivo solo il fastidio di vedere che mia sorella si conciava come una puttana e che non aveva rispetto per gli oggetti di sua madre. Sembrava la compagna toscana di Avril Lavigne, una cantante americana che avrebbe spopolato qualche anno dopo spacciandosi per punk ma propinando musica commerciale. Cosa stavo facendo? Oltre a coprirmi di ridicolo non avrei potuto fare niente, ora che sapevo come si vestiva. Considerai di nuovo la mia bardatura. Lei poteva passare per una prostituta, ma io ero vestito come un pescatore nostalgico del suo passato di figlio dei fiori! Mio padre ignorava la mia scappatella, anche se avevo detto ai contadini che sarei andato in città per una visita e avevo lasciato loro disposizioni per la giornata, affinché si dividessero i miei compiti fino a che non sarei rientrato, all'una. Mio padre non metteva bocca sulle visite mediche e le altre necessità legate alla mia vita privata, anche perché non ne avevo, in effetti. Di solito, però, lo informavo la sera prima, se dovevo assentarmi. Fui sorpreso quando lo incontrai in fattoria poche ore dopo e non mi disse nulla. Fece il suo solito cenno di saluto, un'alzata di testa. Lì stava tutta la sua paternità. Da un pezzo non mi succedeva di vederlo infervorato, sembrava stanco, anzi esausto, ma ringiovanito. Ipotizzai che avesse una nuova amante. Anche se era un uomo libero ormai da anni, continuava impostare solo relazioni segrete. Le fidanzate non rientravano nel suo standard, credo non ne abbia più volute, dopo il matrimonio. Francamente non me ne fregava nulla. Gli anni passarono lenti, troppo lenti. Stagioni e raccolti per me; quadrimestri e lingue in bocca per Dalila. Esageravo, nella mia testa la trattavo come fosse una puttanella di paese e in effetti confesso che per me lo era sul serio. L'avrei voluta tutta per me e lei se la spassava apparentemente con chiunque. La mia vita era occupata dal lavoro, impossibile sviluppare dei rapporti sani. Avevo alcuni conoscenti quasi amici, sempre gli stessi dalle elementari. Bravi ragazzi con cui sfasciarsi di birra o di vino. Si chiamavano Alfredo, Filippo, Dario e Walter. C'erano anche degli altri ma non mi ricordo i nomi. L'erba ci piaceva ancora più, ma non sempre potevamo permettercela, almeno fino a che Filippo non cominciò a spacciare e a tenerci da parte quello che bastava per andare in botta. Robaccia, in genere, ma avevamo 16 anni e la qualità era l'ultimo dei nostri criteri di scelta. Gli davamo una mano ogni tanto in qualche consegna se ne
capitavano di vicine alle nostre case più che alla sua: Filippo era pigro e chiunque lo sollevasse da una minima fatica era degno di ricompensa. Riuscivo a dormire tutte le notti e stavo bene, a patto che fumassi. Senza canne, era l'inferno. Mia madre e mia sorella erano due pensieri ricorrenti, in tutte le loro declinazioni più mostruose. Nella mia testa erano entrambe molto belle anche in versione mostro, constatazione che non mi aiutava a riporre mia sorella nell'apposito scomparto mentale riservato alla famiglia. Io, Pietro Nistri, non avevo un futuro, solo un perpetuo presente. Imprigionato in un circolo chiuso, mi sentivo vecchio a vent'anni. Come un ottantenne arrapato, gettavo occhiate vogliose ora alle cosce, ora alle scapole di mia sorella, unico oggetto delle mie tante fantasie sessuali. Lavorare su un trattore non concede la possibilità di scegliere se annoiarsi e meno e non è questione di decidere se stai bene o ti senti depresso. Stare su un trattore, è stare su un trattore. Sono lavori lunghi e lenti, che richiedono attenzione e presenza mentale, oltre che fisica. Accusi il caldo dei mesi estivi e sopporti il freddo di quelli invernali coprendoti con strati di vestiti logori, passati da qualcun altro. Intanto vivi la terra, respiri la terra, tocchi la terra, provi la terra. Per averne assaggiate alcune zolle da bambino so che, in casi di fame estrema, è meglio di niente. Sostanziosa lo è più di tanti moderni integratori alimentari, su questo non c'è dubbio. Ero convinto che se durante la giornata fossi stato sempre solo con la terra sarebbe stato meglio, anche se le parentesi di gastronomia sperimentale facevano supporre il contrario. Per mia sfortuna, ad ogni modo, dovevo anche parlare con i contadini assunti da mio padre. In fin dei conti ero un dipendente anche io, ma di categoria speciale, in quanto non percepivo stipendio e non potevo rivendicare diritti di alcun tipo. Mi fregiavo però di un grado più alto, che si traduceva nella facoltà di massacrare i miei sottoposti. Ripetere sugli altri quello che mio padre poteva fare, e faceva, a me. Simpatie, tra cui minacce di morte appena dimenticavo di annaffiare le zucche nel giorno giusto o bastonate se mi trovava a riposare sotto un albero. Succedeva di rado, ma poteva accadere, specie d'estate. Il sole battente non concilia il recupero da una sbronza e a volte la sosta s'impone da sola, senza chiederti se può farti cadere in avaria subito o deve aspettare che tu abbia finito di lavorare. Prendersi una rivalsa sui contadini sarebbe stato un buon metodo per espellere l'ira che stavo accumulando da anni contro l'intransigente genitore, ma non avevo abbastanza spina dorsale da approfittarne. Ero più che cortese con Agostino, Palmiro e Delfo. Quello di mezzo era il più giovane, nato negli anni Cinquanta, come lasciava intuire il nome. Palmiro si fermava spesso a guardarmi per poi elargirmi un benevolo "Ah, come ti capisco!", senza mai articolare il commento. Lo attribuivo ora all'una, ora all'altra pena tra quelle che mi affliggevano e ne facevo motivo di ulteriori seghe mentali, come se non me ne facessi abbastanza. Li consideravo tutti e tre miei pari, anzi a volte erano loro a sottomettere me. Sei braccia importanti, uomini fidati, che lavoravano sodo. Peccato non capissero niente. Erano ignoranti come sanno esserlo solo i contadini orgogliosi di non aver mai sfogliato un giornale o aperto un libro. Intendiamoci, di gente più ignorante di loro ce n'era a palate senza nemmeno andare lontano a cercarla, ma io avevo loro tre come esempio e una mandria di montoni come termine di paragone. I branchi tendevano a fare quello che gli intimava il bastone da pastore, mentre i contadini spesso erano pure restii agli ordini, perché a volte non li capivano e altre non sentivano e si vergognavano a chiederti di ripetere, o non gliene fregava nulla di farlo. Avevano sempre da lamentare fame, sete, freddo o caldo e a parte questo non sapevano mettere in piedi un discorso. Durante il giorno erano il mio massimo contatto con la società: sempre meglio che essere lasciato in preda ai miei pensieri incestuosi o ad offendermi da solo. Di notte avevo il gruppo del paese. Ragazzi volenterosi: manco a promettergli un silos pieno di film porno ti davano un mano a scaricare un camion o a rimettere le bestie nel recinto. Per bere, al contrario, c'erano sempre. A dieci anni, allo stesso modo, non mancavano mai per giocare a pallone. Dai quattordici in poi, erano sempre in prima fila anche par parlare delle doti femminili. L'argomento mi imbarazzava, soprattutto se c'era Dario, il puttaniere della zona. S'era cavalcato tutte le ragazze scopabili del circondario e poi aveva dato una scorsa a quelle brutte. Trovandoci, con sorpresa, più soddisfazione. Diceva che si bagnavano prima perché lui era belloccio e loro senza speranza. A quelle fighe non faceva caso niente, erano abituate ai complimenti e ai baci lunghi.
Alcune s'incazzavano perfino, sosteneva lui, se non le facevi venire o se ci mettevi troppo tempo a eiaculare, perché dovevano fare fatica e per giunta significava che lui era imbecille se non impazziva d'eccitazione davanti alla loro bellezza. Anche un po' finocchio, di sicuro. Se invece schizzava troppo presto, raccontava lui, sbuffavano con un mezzo sorriso di quelli che dopo puoi andare a buttarti nella laguna e sperare che la melma ti soffochi. Dario ne aveva assaggiate di dolci come il miele e di disgustose da sputare per terra dopo un bocchino. Raccontava lui. Avevamo quindici anni e quel coglione forse ne aveva viste una di vagine, quella di Diana, una prostituta che passava da Albinia una volta la settimana. Faceva il giro delle campagne a prezzi da modella approfittando dei disperati e poi tornava a Orbetello, dove il lavoro non mancava, ma doveva normalizzare il tariffario. A Dario, secondo me, gliel'aveva appena fatta vedere, per quelle trentamila lire che le aveva dato. Però leggeva, il coglione, e sapeva recitare da dio. Di tutti noi, non a caso, è il solo ad aver iniziato una vera carriera, abbandonati i campi. Andò a vivere a Roma, studiò economia e fu assunto da un'azienda. Si schiantò contro un auto con la moto una sera, rincasando con alcuni litri di vino in corpo e la droga ancora in circolo da una pippata che risaliva forse all'ora di pranzo, se non alla notte precedente. Preferii non indagare troppo, tanto sopra c'era stato ricamato ampiamente e non era nemmeno troppo interessante. Era uno sparapalle di campagna e la cravatta non l'aveva riabilitato. Le grandi città danno alla testa ai piccoli. Noi rimanemmo più a lungo di lui a farci le canne e a cadere di motorino per schivare ostacoli immaginati. A quindici anni, comunque, nemmeno lui ne aveva assaggiate per davvero. Anche perché di dolci come il miele, come le descriveva lui, non credo ne esistano, altrimenti nessuno metterebbe il miele sulle fette biscottate. L'argomento mi metteva in forte imbarazzo perché loro non ne sapevano nulla e io invece sì, anche se dovevo fingere il contrario. Una volta, al bar, sentii raccontare che il vecchio Spatuzzi, l'ex dottore di zona, da pensionato s'era ringalluzzito tanto da fare tutto quello che girava per la testa. Ascoltai, anche perché era lo zio di Martina, una delle mie compagne di classe più "significative" da un certo punto di vista. Poteva diventare un'arma di ricatto. Era anche più interessante di quello che potevo ipotizzare. Un pomeriggio, dissero, il vecchio aveva sostituito le tende delle finestre di camera della nipote con delle altre, nuove, colorate di giallo come le altre, ma in un modo che potevi vederci attraverso molto bene. Martina tornò da scuola e si spogliò per mettersi i vestiti da casa. L’anziano zio, intanto, si tirò una sega dietro a una siepe, sotto alla finestra. Passò del tempo prima che Martina chiedesse di avere delle tende più coprenti e lo Spatuzzi ebbe di che tenersi in vigore quasi ogni giorno fino a che non cedette e fece ripristinare il vecchio tendaggio. Al bar avevano scommesso che appena le avrebbero cambiato le tende il povero Spatuzzi ci avrebbe lasciato la buccia, magari proprio dietro quella siepe. Invece rimase vivo. Magari aveva capito che bastava spiarla dalla serratura, alla Martina. Aveva ottantatré anni all'epoca della sua furbata. Ne avevo quattordici, all'epoca della mia. In assenza di nipoti, guardavo Dalila. Ancora non era come l'avrei vista sull'autobus mentre si spogliava e vestiva da battona. Ero da galera, a maggior ragione. D'altronde ero minorenne anche io, quindi grosse responsabilità non potevo averne. Le camere davano sul giardino. C'erano la mia, quella di Dalila, il camerone del babbo - e, un tempo, della mamma - e la stanza di Palmiro, che, vedovo, abitava con noi. Mia zia stava dall'altro lato del corridoio, affacciato sulla corte interna. A lei non mi sarei mai sognato di guardarla. Dalila, invece, la osservavo con gusto. Ero un pervertito, ma non lo sapevo. A consentirmi una simile volgarità era un lo stesso ragionamento alla base del bere liquidi velenosi. Se una cosa mi piaceva, non capivo perché avrei dovuto evitare di farla. Al babbo piaceva mangiare il fritto e la roba salata, poi i dottori gli intimarono di smettere, dato che aveva il colesterolo alto, ma lui se ne infischiò: non gli andava di rinunciare ai suoi piatti preferiti. Per me era lo stesso. Mi piaceva Dalila e la guardavo, tanto più che nessuno mi diceva che stavo sbagliando. Nessuno mi vedeva, nessuno sospettava. A undici anni era un incanto liscio di morbidezza rosa. Scivolare libero, con i miei occhi, su quella pelle di piccola regina, era un incanto che tuttora non saprei riversare sulla carta. Col tempo, la contemplazione si fece anche più intrigante. Dovevo limitarmi, farlo tutti i giorni era rischioso. Mi contentavo di concedermelo
ogni tanto, anche perché avevo una tutrice, la zia Tullia, che esigeva qualche ora di finta attenzione. Pomeriggi sprecati in cui mi somministrava esercizi sempre più difficili, impossibili da risolvere visto che non avevo mai trovato una soluzione, nemmeno ai più elementari. Mi erano quindi ancora più gradite le occasioni di mettermi in giardino a leggere libri mai iniziati che sfogliavo fa cima a fondo anche due volte, incantato da mia sorella che dipingeva al davanzale o giocava con le bambole, passando davanti alla finestra di tanto in tanto. Per mia fortuna, non mi persi il giorno dell'inizio della svolta. Incredula, Dalila osservò lo specchio per ore, in realtà minuti, scrutando quello che sarebbe diventato il segreto meno recondito del suo corpo. Prima a tetraedro, poi a sfera, infine due sacchetti antistress pieni di farina. Seguire un seno che cresce regala soddisfazioni più grandi delle piante di pomodoro che spuntano. La fioritura pre-adolescenziale mi dava piaceri quotidiani. Mia sorella era in casa quasi sempre e anche io, scuola a parte. In pieno tornado ormonale, sfogavo tutto il mio desiderio sull'immagine di mio sorella. Il mio cuore e i miei occhi l'avevano resa più attraente di Marylin Monroe, speziata da una serie di afrodisiaci impareggiabili, dall'incesto alla blasfemia, fino al feticismo. Le caviglie di Dalila provocavano in me effetti inconsulti anche al mare e in altre occasioni in cui non ero appartato a spiarla ma con lei, a vivere come se niente fosse. A vent'anni ero ancora nello stesso stato, pur avendo baciato un paio di ragazze più la signora Francofulli, un caso umano che, impazzita e sola, aveva un tale bisogno di carne giovane da essere costretta a dare ripetizioni e convincere i genitori degli studenti più in difficoltà a mandarli da lei, per sfinimento. Le due ragazze le avevo conosciute a scuola ma non avevo approfondito molto, anche perché non sembravano contente di venire a bere con me e i miei amici e io di altri svaghi non sapevo offrigliene. Parentesi che ebbero la loro importanza ma che non diminuirono il desiderio di poter amare mia sorella, amarla come un marito ama la moglie, possederla come un amante possiede il suo amore proibito. Si verificò un fatto rilevante. Vidi che mio padre con Tullia sulla trebbiatrice, in una posizione che non credevo interessasse a mia zia, che come vi ho spiegato era lesbica. Avevo vent'anni, ribadisco. Stupefatto, fui sul punto di gridare, ma mi trattenni. Siccome non mi avevano visto, ne approfittai invece per saperne di più. Per una volta fui lungimirante e invece di urlare approfittai del mio punto di osservazione per riflettere e indagare. Da come la baciava non sembrava essere la prima volta che facevano sesso. Riuscivo a distinguere abbastanza bene le parole e ne conclusi che avevano una relazione seria, da diverso tempo. Me ne andai, disgustato. Ero un pervertito e un pedofilo, ma avevo uno stomaco anche io e vedere mio padre che si sbatteva la sorella di mia madre mi dava i conati. Riflettei tutta la notte sul da farsi. Giunsi alla conclusione che la strategia più adatta fosse fare finta di niente e tenerli d'occhio. Mio padre non aveva problemi a trovarsi le donne, lo dicevano in paese e potevo crederci, anche perché era un bell'uomo ed era uno stronzo, un grosso vantaggio con le donne. Come mai si era ridotto a farsi la zia che, con tutto il rispetto, era un cesso? Capire era difficile, ma utile. Dovevo andare a fondo. Cominciai a prestare attenzione al loro atteggiamento a tavola e negli altri momenti conviviali e quello che vidi non mi piacque affatto. C'era una sottile intesa tra i due, ma erano molto accorti nel renderla impercettibile. Mi resi conto che da almeno un anno l'atteggiamento di mio padre verso Tullia era cambiato. Ci avevo già pensato una volta, concludendo però che il vecchio stava scivolando nella senilità, addolcendo il suo modo di fare. Una sera mi fece una terribile sfuriata. Venne fuori che ero stato io a fare la dichiarazione dei redditi quell'anno, al posto di mia zia, naturale deputato alle funzioni di controllo amministrativo dell'azienda agricola, unica a poter vantare un titolo di studio pertinente. Durante un controllo, il fisco aveva rilevato degli errori nel sette e trenta e avremmo dovuto pagare una multa. La colpa non era mia. Ero stato praticamente obbligato dalla zia a occuparmi del carteggio, visto che lei si rifiutava di aggiornarsi sulle modifiche legislative. “Devi applicare quanto ti ho insegnato!” insistette. Avevo ribattuto che non mi andava di mettere a rischio l'azienda di famiglia, che erano documenti delicati e non sapevo nemmeno da che parte rifarmi. Per tutta risposta lei mi aveva seguito nella compilazione delle prime caselle, suggerendomi di acquistare uno speciale de Il Sole 24 Ore appena uscito e di
usarlo come guida per seguire i nuovi emendamenti e fare un lavoro preciso. Impiegai un mese intero nell'impresa, chino su quei maledetti fogli tutte le sere. Il più delle volte non sapevo cosa fare, imprecavo, sudavo e piangevo per delle ore intere, ma alla fine devo ammettere che concludevo qualcosa e ogni giorno era un passo verso la conclusione. La mattina ero addirittura felice di andare nei campi e occuparmi in qualcosa di pratico e fruttuoso. Alla fine consegnai i moduli alla zia affinché li controllasse e inserisse alcuni dati che proprio non ero riuscito a calcolare. Si prese il merito come il solito, ma quando emerse l'errore ammise con candore di aver delegato l'operazione al nipote fresco di studi e dalla vista buona. Mio padre andò su tutte le furie. Di lacune pareva ne avessi disseminate parecchie; alla revisione della zia dovevano essere sfuggite, ma non al fisco e alla fine la multa era un salasso. Mio padre ci andò giù pesante e nell'insultarmi parve aver ritrovato intatte le sue forze. - Un inetto, un cretino che non combinerà mai un affare decente! Figurati chi se lo sposa, un tale idiota! Questo mi ha lasciato quella codarda!- Uno sguardo severo guizzò da mia zia a mio padre, forse in difesa della sorella, forse no. Colpì duro finché poté. Lo stronzo non sapeva fino a che punto fossi indegno di essere suo figlio, gli erano sconosciuti i miei pensieri incestuosi. - Che hai da guardare tu?- gridò contro Tullia - Codarda sì, questo era quella pazza. E mi ha lasciato qui solo, con voi che non capite una mazza.- Basta!- urlai inferocito- Insultami quanto vuoi, ma non toccare la mamma!- . - Razza di coglione ritardato, non azzardarti a interrompermi!Rimasi impassibile di fronte al crescendo di gentilezze paterne, incapace di pensare e senza controllo sul mio respiro. Fissavo la tovaglia come se avessi gettato un'ancora dai miei occhi al tavolo e non potessi guardare in punti diversi da quello. Sentivo le parole di mio padre cadermi sulla testa: sassi piccoli ma lanciati con forza da un tiratore attento. Nella mia testa, intanto, vorticavano le immagini di quando a subire quel trattamento era la mamma. E la rabbia montava, accecante. Tirargli un bicchiere in faccia mi avrebbe dato una soddisfazione insufficiente. Spaccargli la faccia con le dita sarebbe stato molto meglio, premere forte e piegargli i denti, cavargli occhi senza alcuna pietà. Fin da piccolo, quando qualcuno mi faceva arrabbiare sentivo l'impulso di spiaccicargli la faccia, imprimendo forza finché durava il mio astio. Quella sera il mio odio non stava montando, per fortuna di mio padre aveva già raggiunto il livello massimo contenibile da una persona buona come ero io da giovane. Dico per sua fortuna perché come ogni passivo ero pericoloso, una bomba che sarebbe deflagrata in un'unica esplosione potente da uccidere il peggiore dei nemici. Quanto lo avrei ammazzato volentieri! Quello sì che sarebbe stato un piacere gratificante. Dopo avrei potuto considerarmi libero, anche con le manette ai polsi. Purtroppo dovevo trattenermi e accumulare ancora. Davanti a Dalila non avrei mai fatto niente di violento. Cercai di concentrarmi sui tipi di fiore: la dalila, la margherita, l'ortensia...maledetto stronzo. Come chiamarlo padre? - Sei talmente scemo che non conta quanti anni tu abbia studiato. L'abbiamo sempre saputo che non avresti imparato niente, sempre! Tua madre lo diceva che non eri portato per lo studio, ma almeno due calcoli credevo tu sapessi farli! Nemmeno quelli. Solo a spiare le ragazzine, sei capace!- sentenziò con cattiveria. - Che diavolo stai dicendo?!- mi pentii subito di una domanda di cui non volevo sentire la risposta. - Lavoro da più di dieci anni senza mai chiedere niente, cosa vuoi di più? Mi hai rovinato la vita in tutti i modi possibili. Mi hai tolto mia madre, mi hai impedito di fare una scuola che mi piacesse, mi hai rinchiuso in questo posto in culo al mondo. Dimmi che cosa vuoi di più? Cosa?- stavo schiantando, ma ormai non mi importava più di difendere mia mamma e nemmeno della condotta tremenda di mio padre. Aveva insinuato un fatto molto vicino alla realtà ed ero terrorizzato. Che sapesse quello che provavo per Dalila? Dovevo spostare quella discussione in un'altra stanza, mettere le orecchie di mia sorella al riparo di quello che ne sarebbe potuto scappare fuori. - Ora vorresti rigirare la frittata? Per colpa tua dobbiamo pagare e beccarci i controlli supplementari e tu tenti di rinfacciarmi come ti ho cresciuto? Per stasera ne ho abbastanza, non voglio rovinarmi il fegato per un ingrato come te. Scusa Dalila, tesoro, non avresti dovuto sentire tutte queste cattiverie- Si alzò, le diede un bacio sulla nuca e lasciò la sala da pranzo. Lo
sentimmo prendere le chiavi della macchina e allontanarsi. La zia fece un sussulto e, caso quasi unico, andò a lavare i piatti. Andammo a dormire presto, senza sforzarci di creare una finta normalità con un film o una partita a carte. Penso che anche mia sorella fosse abbastanza provata dalla discussione, perché nei suoi occhi avevo notato una dolcezza morbida, quasi compassionevole, nei miei confronti. Sembrava davvero dispiaciuta che mio padre mi stesse maltrattando, per una volta. Dal giorno dopo in poi trascorsero alcune settimane molto tranquille, se i ricordi non m'ingannano. Mi aspettavo che succedesse qualcosa di sconvolgente, invece tutto restò immutato. Ero condizionato dalla mia recente scoperta e attendevo che mio padre compiesse un passo falso più grave di una sfuriata che rientrava nella normalità della vita con lui. La situazione era snervante: ogni giorno combattevo con la tentazione di urlargli contro quello che sapevo, ma lui era così placido e indifferente da allontanare qualsiasi appiglio di conversazione. Senza esagerare, posso dire di aver scambiato con lui al massimo un centinaio di battute in quei giorni ed erano davvero poche, anche se tra noi non esistevano "Buongiorno" o altri convenevoli. Doveva comunque darmi brevi indicazioni su cosa dire ai vari distributori che si sarebbero presentati in giornata e quali priorità far seguire ai contadini nei giorni in cui lui era fuori. Curioso che mi ritenesse un buono a nulla e avesse fatto di me il suo vice, addestrandomi vita natural durante allo scopo. Per qualche ragione, mi aveva sempre odiato. In quei giorni ricordo di averci riflettuto fino a sentire la testa scoppiare. Mi ero quasi risolto a pensare di essere per lui un doloroso ricordo dei tempi felici con mia madre, quelli di cui io non ho memoria perché ero troppo piccolo, ma poi mi sono ricordato delle sue espressioni nelle foto dei miei primi anni di vita. Se era un uomo felice, sapeva nasconderlo bene. Andai a Orbetello per dei pagamenti e mi fermai un po' dalla nonna. Volevo farla parlare, concedendole per una volta il piacere di vedermi sorseggiare uno dei suoi irrinunciabili thé bollenti con lo spicchio di limone. Nessuno li voleva mai e quando le chiesi io di preparare il bollitore per tutti e due colse la balla al balzo per rispolverare una tazza mai vista prima, dalla capacità record di cinque litri o giù di lì. Meglio, mi serviva di farla chiacchierare a lungo, così non si sarebbe insospettita per le domande che mi stavano davvero a cuore. Arrivammo al sodo, ero piuttosto ansioso. Per prima cosa scoprii di aver sbagliato pista, in quanto i miei non erano mai stati felici insieme. - Forse non dovrei dirtelo, – cominciò nonna Adele, sfoderando il tipico incipit di quando sapeva di dover tacere su qualcosa, ma moriva lo stesso dalla voglia di tirarla fuori - tua madre e tuo padre non volevano sposarsi. Si conoscevano da poco tempo e nessuno dei due aveva le idee chiare sul futuro. La mamma andava ancora alle superiori, pensa. Si incontrarono a una festa in casa; lei non era nemmeno da sola, ma si trovarono. Me la ricordo il giorno dopo: con gli occhi persi mi chiese se sapevo com'è quando non si è capaci di resistere all'attrazione. Tra quei due c'è stato qualcosa di potente, per diversi anni. Si scannavano, ma se si trattava di fare l'amore...Beh, insomma si sposarono a pochi mesi dal primo incontro. Si resero conto quasi di non avere niente in comune, ma era troppo tardi.A questo punto si bloccò e mi guardò per un attimo, poi spostò lo sguardo oltre il bordo del tavolo, verso il pavimento. Una pausa strategica o il senso di colpa per essersi addentrata in un argomento che avrebbe dovuto davvero mantenere segreto? Il secondo. - Troppo tardi in che senso?Mentre la nonna cercava chissà quali parole, ci arrivai da solo. Ammetto di averci messo troppo per quanto era banale la conclusione. - Era incinta?- Sì- confermò lei, cercando di sorridere. Nonna Adele sorrideva sempre. Aiutava. Vedere il suo viso allargarsi in un sorriso infondeva un senso di quiete confortante, quasi come un “andrà tutto bene" di quelli che mi ripeteva mia mamma quando bevevo i detersivi. Mi attaccai a quel conforto per affrontare il turbine di voci e di accuse che si scatenò nella mia testa appena appresa una verità che non avevo mai subodorato prima. Per questo che mi odiava. Ero il colpevole di tutto quello che sarebbe avvenuto. Unica causa di
un matrimonio affrettato e non voluto, di una vita nei campi, di una moglie impazzita, di chissà quante altre cose. Magari mi incolpava pure perché in fondo era per istruire me che avevamo in casa quella donna dalla sessualità incerta, la zia Tullia, che ora lo stava seducendo con il probabile obiettivo di imporsi come erede della fattoria. Ignoravo che c'era molto altro da scoprire e che quel turbine non era che un mulinello staccatosi da un maremoto. Per mio padre ero ancora più colpevole di quello che credevo. E la zia Tullia non viveva con noi per essere la mia insegnante, oltre a non aver sedotto mio padre e a non mirare a un ingresso nell'azienda di famiglia. La nonna mi aveva dato informazioni preziose, ma per colpa sua ora sentivo una pulce ronzarmi nella testa. “Perché non le dicesti niente, quando ti disse che voleva sposarlo? Lo conoscevi, no? Eri contenta che si sposassero così in fretta?” “No, non lo ero. Roberto lo conoscevo e non mi piaceva neanche a quei tempi. Si vedeva che era un uomo collerico. Sempre meglio però del ragazzo che aveva allora tua mamma.” “Il ragazzo della mamma? Eh?!” “Credevo ti avesse parlato di Luigi!” la nonna aveva la faccia di quando aveva sforato e non sapeva come cavarsela. “Sì, mi ha detto che a scuola aveva un amico speciale, Luigi, il suo primo amore, ma che lui aveva dei problemi e la loro storia non era potuta funzionare” “Sì, era un ladro.” “Un ladro?” “Furtarelli da poco, ma insomma...rubava anche a casa nostra: qualche soprammobile, le monetine dai salvadanai. Cose piccole, ma spiacevoli.” “Era cleptomane?” “...No. Si drogava.” “Oh!” “Stavano bene insieme, lui e Ginestra, ma non poteva durare. Lei lo amava, ma lui era su una brutta strada e la trattava male. Non sapevo come fare: doveva dimenticarlo e invece continuava a ricascarci.” La nonna fissava il bordo del tavolo, le pupille rivolte a destra, concentrata sui ricordi. Raccontò che dopo mia mamma aveva conosciuto mio padre e aveva tradito Luigi con lui. Dopo due mesi si sposò e Luigi sparì dalla sua vita. La nonna mi fece vedere anche le foto, di questo Luigi. Erano due foto in bianco e nero di lui e la mamma su una via costeggiata da due casette con i giardini pieni di fiori. L'insieme era molto hippy o almeno lo sembravano i loro vestiti e la faccia di lui. Aveva qualcos'altro però quel ragazzo, oltre all'espressione sveglia di chi si è appena fatto fuori mezza piantagione di marijuana. Io e nonna Adele ci guardammo per qualche istante, in silenzio. Il dubbio maturò con i giorni, silente ma rapido. Mi resi conto di doverne parlare, non potevo farne a meno. Per affrontare il discorso con lui occorse un percorso più lungo di quello che era stato sufficiente con mia nonna. Con mio padre non avevo mai avuto un dialogo continuativo, solo informazioni di servizio, per cui andare sul personale richiedeva una ragionata applicazione, oltre a un quintale di coraggio. - Babbo...scusa, ho bisogno di parlarti.- riuscii a chiedergli una sera, sorpreso dal mio stesso ardore. - Che c'è?- Ecco, c'è qualcosa che devo chiederti.- Soldi?Il tono era diffidente, ma non iracondo. Era il momento di approfittarne e andare dritto al punto, senza sprecare energie a girarci intorno. - No. Ho sentito dire delle cose dai contadini – inventai -. Storie su te e la mamma. Il suo sguardo si puntò su di me mentre tutto il resto del viso assumeva l'abituale aspetto minaccioso. - E allora?- Dicono che...che...-
- Ora mi stai facendo girare le palle- . Non fosse stato per la severità con cui l'aveva pronunciata sarebbe stato simpatica, come risposta. - Dicono – replicai senza prendere il respiro - che io e Dalila non siamo fratello e sorella. Che lei è tua figlia e io...della mammaRimase calmo. - Ci credi?- il tono era minaccioso. Voleva un "no" e che fosse un no vero, altrimenti sarebbe esploso con tutta la sua rabbia. - Te lo sto chiedendo- Ah.- ...- Non ho sentito la domanda- E' vero?- Ormai è un pezzo che se ne è andata, non tornerà. Lo sai questo?- . Non cambiare argomento, testa di cazzo. - Lo so, so che è guarita e ha un'altra famiglia. Lo so.- Devi lavorarci con i contadini, non chiacchierare. Non capiscono un cazzo.- E' vero, babbo?- Non c’è stata solo tua madre nella mia vita, non me ne faccio una colpa.Per la miseria! - Vai a caricare le cassette, è tardiSe ne andrò, dopo aver lanciato una bomba di proporzioni inaspettate. Rimasi bloccato, di nuovo incapace di dominare un nuovo eccesso di novità. Mai, mai avrei immaginato una simile grazia. Dalila non era mia sorella. La mia mente era lucida, nessuna confusione nello scoprire di non essere figlio dell'uomo che chiamavo padre. Che sollievo, semmai, non aver nulla a che fare con quello stronzo! E Dalila...Dalila. Doveva essere figlia di un angelo. Un angelo confuso che aveva scelto di unirsi a mio padre per sbaglio. Mi lasciai andare al ricordo del venerdì sera precedente. Era ancora estate. Con Dalila eravamo stati a passeggiare nel vigneto. Il profumo dell'uva me la faceva amare di più, quasi fosse lei a emanarlo. - Come capire se sono i grappoli a sapere di te o tu a averne assorbito l'essenza?Poterglielo dire sarebbe stato bello, invece le chiesi se era triste che le vacanze stavano per finire. Lei mi disse con parole bellissime cose molto normali. Le parole che usava sembravano sue, tanto erano belle. Aveva iniziato a studiare per davvero e i libri le avevano cambiato il linguaggio. Dipingeva ogni giorno alla finestra, dopo la scuola e di sera. Ritraeva i paesaggi della Marsiliana e ci disegnava sopra le città, a volte piene di persone, a volte senza. Leggeva poco, ma con l'interesse di chi non sa abbastanza da rendersi conto dei difetti di un testo o di una storia. La entusiasmava quasi tutto e traeva piacere da ogni cosa. Mi stava appunto raccontando di questo libro che aveva letto per la scuola, mi pare fosse di Pirandello, ricordo che avevo provato a leggere anche io ma non avevo mai finito, perché la sera ero sempre troppo stanco e sui libri mi addormentavo. Il romanzo l'aveva divertita, ma a scuola non voleva tornarci, doveva finire tanti altri compiti, perché l'estate finisce ogni volta? Dissi di non saperlo. Spiegò che la filosofia era bella e che quella la studiava volentieri, ma non capiva perché doveva fare gli esercizi di matematica: se aveva scelto l'artistico non era forse perché non le andava di studiare, soprattutto l'algebra? Risposi che era un mondo difficile, bisognava sempre impegnarsi anche in cose prive d'interesse per noi. La sua matematica era ben distante da quella che era stata imposta a me e avrebbe potuto ben sopportarla in silenzio, ma lei non era abituata a essere obbligata, avrebbe continuato a fare quello che le piaceva e basta. - Spiegami qualcosa di filosofia, io non l'ho mai fatta!- le chiesi. Lei si mise a parlare di Kant, anche se poi non era sicura di aver capito bene: era tanto difficile! Mi sembrava andasse benissimo come lo diceva lei. Se mai studierò un filosofo, pensai, sarà questo qui. Le dissi di fermarsi e iniziai a spiegarle le stelle mentre lei le indicava, come facevamo da piccoli al mare la notte. - Pietro, come mai non andiamo più al mare?- . Ci
aveva ripensato anche lei. - Che ne so!? Sarà che io lavoro e tu studi!- D'estate non vado a scuola e tu sei il padrone, puoi fare quello che ti pare, anche andare in spiaggia, una volta!La verità era che ci aveva sempre portati la mamma ed ero spaventato all'idea di andarci senza di lei. Preferivo evitare. A Dalila non sembrava mancare la mamma. Per anni avevo pensato che fingesse di star bene o che fosse troppo piccola per ricordarla. E invece. C'era qualcosa di spontaneo nel suo non nominarla mai. Lei non la pensava nemmeno. Avrei presto capito che le mie non erano sensazioni. Quella sera ero felice. L'aria frizzante, mia sorella, il vestito blu con le roselline tanto piccole da sembrare daddolini. Ci sdraiammo sull'erba a parlare di niente e di stelle. - A volte vorrei che fosse morta.- Chi?- La mamma.- Piè ma che dici?- Se fosse morta, le parlerei sotto le stelle. Così invece è come se fosse morta nel senso che non la posso vedere, ma non ci posso parlare nemmeno per finta- Dalila si voltò ad abbracciarmi e mi strinse forte. Piansi, in silenzio, senza che lei se ne accorgesse. Le lacrime non erano per mia madre, ma per me stesso. Ero un pervertito e questo era più triste di un genitore scappato di casa. Amavo tutto di mia sorella. La conoscevo sempre meno, però, e questo mi faceva soffrire. Al liceo Dalila aveva una vita sociale, era popolare e adorata. Persino mio padre la vezzeggiava: con lei ritrovava il cuore. Dalila era abituata a chiedere e ottenere, senza dare mai più di tanto. - A volte vorrei che tu non fossi mio fratello, sai?Rimasi di stucco. Nel buio non avrei potuto vedere la sua espressione, ma tanto non riuscivo a voltarmi. Mi aveva pietrificato e perdonatemi l'assonanza con il mio nome. Trovai che l'unico modo per interrompere quel momento fosse farle una domanda: - Perché?- Tu sei diverso, Pietro. Gli altri ragazzi non sono gentili come te. Vogliono subito...cose. Tu sai come si vive, non perdi tempo a fare le prove generali sui banchi di una scuola.- Anche io ci sono stato a scuola, polpetta. Solo che ho finito prima di te!Rise. - Sei stato un lampo!- Uno studente modello!- scherzammo. Mi sfiorò la mano. Smisi di ridere. Che diavolo stava facendo? Tempo un minuto e mi sarei esibito nel più imbarazzante degli alzabandiera notturni. Quando succede di giorno può essere anche peggio, se per esempio ti succede dal fruttivendolo e sei nudo o davanti al tuo capo o durante una ripresa cinematografica della scena di un lutto. Circostanze in cui non mi ero mai ritrovato e che quindi non sminuivano la pesantezza di quel momento. - Sai quanto mi piace studiare - sorrisi, ironico - Pensi che sia tonto?- le domandai. Volevo che mi compatisse, così poi mi avrebbe consolato. Una carezza, un abbraccio, tutto materiale da mettere in magazzino e rivivere all'infinito su un maledetto trattore. Il patetismo è qualcosa in cui non si dovrebbe mai cadere, è come dichiarare guerra senza uomini né strategia, dandosi per spacciati in partenza. In linea di principio almeno. S'impara vivendo che di principi è meglio averne pochi. - Tonto?! Sei la persona più intelligente che conosco Pietro! Guarda che sarai il solo di quelli che conosco che tra vent'anni avrà una vera vita e un lavoro. Noialtri saremo una massa di sbandati e pagheremo lo scotto di aver voluto studiare per sfizio, senza imparare niente di pratico. Dai retta a me, sarà così.Parlavo poco con Dalila, forse per questo mi stupiva trovarla così arguta. Sembrava troppo bella per sapere così tanto. Il sapere, in genere, abbrutisce. - Lo troverai anche tu un lavoro, e sarà bello, inventato da te.- Sei molto carino con me Pietro.- Ti voglio bene.Mise una mano sulla mia spalla, si voltò e mi puntò gli occhi dentro. Fu strano. Uno sguardo più
intenso del mio primo bacio, del secondo, del terzo e di quando pure io ero andato con la prostituta dell'Albinia. In quell'occhiata c'erano una pomiciata, una carezza intima, un paio di labbra premute sulla scapola; nel tuffo di quegli occhi c'era perfino il vuoto che segue l'amplesso, mischiato all'aspettativa carica di terrore di quando lo senti arrivare. Tutto ingentilito dal fatto di essere fratelli. Senza sfiorarsi, se non per la mano calda di Dalila sulla mia spalla idiota, scema come me: il più patetico di tutti i pervertiti della Terra. Ci alzammo e tornammo a casa. Fu una serata indimenticabile. Dalila provava qualcosa per me, era evidente e fu alla luce di questo che, quando alcuni giorni dopo ebbi il famoso discorso con mio padre, pensai di avere in pugno la chiave per una vita felice, verso il desiderio di cui mi ero sempre vergognato e che mai avrei sperato potesse farsi realtà. Con questa letizia nel cuore, studiai il momento migliore per informare Dalila di quanto avevo strappato al mio non-padre. Dopo cena rimanemmo da soli in salotto, come sempre. Faceva un caldo terribile. La nonna era davanti alla televisione, zia Tullia a letto. Il padre di Dalila era uscito in macchina, come sempre senza dire dove andava e quando sarebbe rientrato. - Ti vanno due passi?- Sì, è fresco fuori!Tornammo alle vigne dal cielo blu. Avevo portato del vino e iniziammo a berlo già lungo la strada, così arrivammo al nostro posto abbastanza brilli. Ci avevano abituati a bere fin da piccoli, ma solo pochi bicchieri e pasteggiando. Un fiasco in due l'avrebbe stroncata. - Dalila?- Sì?- Hai il ragazzo?- No, adesso no.Sorrisi, protetto dal buio blu. - Saresti geloso?- MoltoSentii i suoi occhi girarsi e fissarsi su di me. Salivazione a livelli mai registrati a quelle latitudini. - E se...- ammetto di non ricordare con esattezza le sue parole, ma sono sicuro che abbia detto qualcosa, anche perché rammento per certo di averla interrotta: - Hai bevuto, Dalila.- Lo so, anche tu.- Io sono un uomo.- Un uomo...- ripeté Dalila. Il buio e la confusione nella mia testa uccisero un paio di istanti. Mi baciò. Caramelle esplosive, di questo sapeva la sua bocca. Di colpo ero anch'io un diciottenne, sedotto a morte da una sorella pervertita. Sapevo che lei non era più mia sorella; lei invece non sapeva che io non ero suo fratello e mi stava baciando lo stesso. Tenni a bada le mie reazioni fisiche. Ero nel mezzo del momento più bello della mia vita e volevo serbarne memoria, se possibile senza farmi arrestare per molestie. Fu un bacio d'infanzia, dolce e colorato. A intermittenza vedevo immagini di formine da spiaggia, prendisole, palloni sugli alberi, pistole ad acqua, more pescate dal fondo di un bicchiere, impermeabili rossi, una station wagon blu, una borsa di paglia. Mi staccai dalla sua bocca. - Dalila...- la voce ridotta a un filo fatto oscillare da un burlone seduto a un'estremità. Lei era troppo confusa anche solo per accennare una risposta. - Io e te non siamo fratelli.- Lo so- Da quanto?- Da sempre, più o meno- . Aveva bevuto, ma non così tanto da inventarsi di sana pianta una cosa
del genere. Se mi aveva baciato era perché lo sapeva, non poteva essere diversamente. - Chi te l'ha detto?- Siamo così diversi, non abbiamo niente in comune. L'avrai certo notato anche tu. Si vede bene che non siamo parenti, solo noi siamo sempre stati convinti del contrario. Lo dicevano tutti in paese, ne ho sentito parlare molte volte.- Allora non eri sicura!- Me l'ha detto l'Annalisa qualche anno fa. Pare che io e te abbiamo genitori diversi, la mamma ti ha avuto da un altro uomo e io sono figlia di un’amante del babbo- Annalisa era la veterinaria, una donna che non parlava troppo ma nemmeno poco. Esercitava da tanti anni nel circondario e conosceva i miei genitori da vicino, perché erano coetanei e in passato avevano trascorso insieme più di un fine settimana, andando alle terme o a visitare un museo. Feci una domanda idiota, di cui non m'importava niente: - E che cosa dicono in paese di queste cose? Ne parlano?- Non più, non credo. Però parlano ancora tanto di quella cosa...- Della mamma?- No...di te.- Di me?!- Sì.- Quale cosa, scusa?- Che sei innamorato di me. Lo dicono tra loro, non a me. Io, però, l'ho sentito.- Da chi?- ero annichilito, ma cercai di non darlo a vedere. - Dal Nelli, la prima volta. Diceva che mi avevi seguito fino a Grosseto, sull'autobus, per starmi a guardare mentre mi cambiavo.!- Non è vero!- Gli avrei strappato i bulbi oculari, a quel pettegolo. Sarebbero stati deliziosi, con un ricco contorno di spinaci. Oppure con i funghi, sì i funghi sarebbero stati l'abbinamento perfetto. Volevo ammazzarlo, per colpa sua mi sentivo un coglione, più del solito. - Che ci facevi conciato in quel modo sul pullman, allora?Mi aveva visto anche lei. Chiesi di morire subito, ma nessuno parve ascoltarmi, nell'alto dei cieli. - Samu mi aveva detto che ti vestivi da battona per andare a scuola. Dovevo controllare!- Era stato il babbo a chiederti di farlo?- No, lui non ne sa niente.- Ne sa, eccome. Me le ha date di santa ragione quando gli hanno raccontato questa storia.- Ma...chi gliel'ha raccontato?Di male in peggio. - E' importante?- No. Quel bastardo non dovrebbe picchiarti!- E' mio padre, non chiamarlo bastardo, per favore.- ScusaRise. - Chiamalo 'stronzo', gli sta meglio!Risi anche io. - Così ora mi tocca andare a scuola come una monaca, visto che il nostro gentiluomo ha bruciato tutti i vestiti che tenevo di nascosto.- Chi te li aveva dati?- Martina, in prestito. A dire il vero li avevamo presi a metà al mercato e ce li passavamo.Sapevo che a quell'età “prendere” qualcosa al mercato significava rubarlo. Con accortezza, ma rubarlo. Era strano parlarsi come niente fosse dopo aver saputo che tutto il paese mi riteneva un pervertito. Sul momento mi ero sentito sprofondare, se non altro per la ricchezza di novità sconvolgenti di quella sera. - Mi dispiace.- Di cosa?- Di averti fatto vergognare.- Quando?-
- In tutti questi anni. Dev'essere stato difficile, no?- Un po'. Però poi il Nelli mi ha raccontato che io e te non siamo fratelli e sono stata meglio, molto meglioNe sapeva di cose quello lì. - Cosa hai pensato quando hai saputo?Rimase in silenzio per molto tempo. Tremavamo tutti e due, pur sudando un poco. Pensai che era un sogno e che potevo dire tutto quello che volevo, tanto non era vero. - Ho pensato che era...meglio!Sorrisi, come si sorride alle frasi infantili durante i discorsi seri. Sorrisi belli da far innamorare. - Fosse, ho pensato che fosse meglio- la ripresi. Rise anche lei, poi proseguì: - Era meglio perché allora tu non eri uno strano. E nemmeno io- . - Cioè...un poco sì, perché mi piaceva mio fratello e anche se non sei mio fratello è strano lo stesso, in qualche modo, no?- pronunciò la frase d'un sol fiato, tremando un po'. Silenzio. Sono nel mio letto, questo è un sogno. Oppure sono impazzito come la mamma, vedo cose che non ci sono e sento parole uscite dalla mia testa. - Hey!- Ti ho sentita. Cosa devo dire?- Sei tu il maggiore, Pietro. Ti ho solo spiegato come stanno le cose.- Ti piaceva tuo fratello. Capisco. Che sarei...io?- Sì, scemo. Chi se no?Mi accorsi di una cosa molto bella. Potevamo dirci tutto, in quel momento. Nessuno ci avrebbe sentito. Eravamo lontani dall'ingranaggio spietato del nostro paese, sempre ingordo di episodi grotteschi o violenti. La mia famiglia ne aveva serviti tanti da banchettarci. Quei momenti tra le vigne erano il dessert di panna e fragole che ci saremmo tenuti tutto per noi. - A che cosa pensi?- mi chiese Dalila. - A cosa dire.- Smetti, allora.Mi baciò di nuovo. Sentivo il retrogusto freddo dell'errore, di un proibito che non invogliava a trasgredire. In qualche modo Dalila restava mia sorella. Per me era così; lei, al contrario, non portava segni di turbamento, procedeva spontanea e coinvolta, come fosse un atto normale, lecito. Aveva bevuto, ma dubito fosse solo colpa del vino. Avrei mai potuto dirle "amore mio"? O anche solo "piccola mia"? Presto le mie remore furono spazzate via dall'eccitazione, anche perché Dalila sapeva come usare la lingua e come muovere tutto il corpo su stesso eccitandomi a morte. Anni di sogni davanti alla sua finestra avevano portato il mio desiderio alle stelle, al punto che non sapevo dove toccarla, paralizzato da un eccesso di passione e confuso dal disgusto che continuavo a percepire. L'idea di fare l'amore mi tagliò in due. La massima gioia era anche il peggiore degli incubi. Come quando ti svegli e hai sognato di aver picchiato un bambino o di aver ucciso il bidello per sbaglio. La fermai, preoccupato che potesse andare avanti. - Cosa vuoi fare, Dalila?- la mia voce mi suonava viscida e ne provai vergogna. - Facciamolo- disse lei. Avrebbe potuto essere il più grande degli errori, ma come resisterle? La amavo da sempre. Volevo disperatamente che fosse mia, mia soltanto e per sempre. La baciai con slancio, un bacio vero, senza residui d'infanzia, come facevano quegli uomini d'altri tempi che incantavano mia nonna dalle telenovelas che si sorbiva al mattino. Ci stringemmo forti, in un modo che ora a ricordarlo fa male. Fu la notte più strana della mia esistenza e spero anche della sua. Rifuggo il sospetto che abbia fatto di peggio. Sfidammo il decoro, le convenzioni, il buon senso, le nostre stesse pulsioni. Anche lei ebbe dei dubbi, lo lessi nel suo sguardo e lo ascoltai nella voce pentita del mattino. Da parte mia, avevo avvertito forte l'istinto a strapparle i jeans di dosso, poi subito dopo l'impulso a proteggerla, a scagliarmi contro quel marrano molestatore, picchiandomi da solo.
Il giorno seguente fu tremendo. Ero sfinito dalla notte insonne e movimentata e non fu semplice tenere gli occhi aperti alla guida del trattore. Mentre Dalila era a scuola smettere di pensare a lei era una pretesa impossibile. Il calar del sole arrivò dopo un'infinità di ore e ci riunimmo per la cena. C'era il roast-beef con le patate a far da seguito a un brodo molto buono, uguale a tutte le minestre che mangiavamo quasi ogni sera. Avevamo un'ottima cuoca. Mi concentrai sul cibo per evitare di guardare Dalila. Qualsiasi atteggiamento avrebbe potuto tradirci, mi sembrava. - Domani parto. Rientrerò tra qualche giorno.- Mia zia aveva rotto il silenzio e creato un diffuso stupore. Era solita consumare i suo i pasti in silenzio, con garbo e lentezza. Una gentildonna di quelle che ostentano le loro buone maniere. Pareva non fosse creanza interrompere un pasto per parlare, nella sua dimensione. In rare occasioni ricordo di averla sentita proferir parola, a tavola. Mio padre aveva mutato l'espressione. Lo vidi trasformarsi nel mostro rabbioso che aveva fatto diventare mia madre una psicopatica costringendola a fuggire per la vergogna e l'eccesso di violenze subite. Era un uomo lunatico e imprevedibile. - E dove andresti?- chiese, con la faccia scura di chi non lascerà uscire dalla sua dimora nemmeno un moscerino. - In vacanza.- Non l'avevamo stabilita.- L'ho stabilita personalmente- , rispose la zia con i suoi modi da cortigiana. Mio padre si alzò e con due falcate fu nell'ingresso. - Vieni!- ordinò. La zia lo seguì, senza abbassare lo sguardo né curarsi di noi. Li seguimmo a distanza di un minuto o due, senza farci notare. L'aveva condotta in camera sua, dove ebbe parecchio da urlarle contro. - Dimmi chi cazzo è! Ancora quella puttana, vero? Rispondi!- Ti prego, non gridare. Ti sentiranno tutti!- Che sentano allora! Chi cazzo se ne frega!Dopo tanti anni ancora non riesco a dimenticare quello scontro. Mio padre sembrava più incazzato di tutte le altre volte, anche più di quando alla fine cacciò mia madre dandole della puttana schizofrenica. - Roberto calmati, lo sai che amo solo te. Avrò pur diritto a prendermi un po' di tempo per stare da sola!- Da sola? Con quella troia saresti sola?!Sospettavo si trattasse della ragazza del latte. Ero sempre rimasto dell'idea che quelle due stessero insieme. - Siediti qui, ragioniamo con calma...Che schifo sentire la zia parlare con tenerezza. Era sempre stata felicemente acida. Io e Dalila ci guardammo, complici. Mi piombò negli occhi mentre ascoltavamo il silenzio nella stanza di suo padre, l'uomo da cui non ero nato. Il rumore di baci fu disgustoso per tutti e due. C'era della logica, comunque, in quella relazione o almeno questo rimuginai prima che riprendessero a parlare. - Allora mi lascerai andare?- chiese lei, affettuosa. - Davvero non capisco che bisogno tu ne abbia.- mai sentito mio padre così mite. - Devo staccare, Roberto. Tutti questi anni senza mai andare da nessuna parte. Ho bisogno di qualche giorno lontana da...- Da me?- . Mio padre, il padre di Dalila in realtà, uomo fragile di fronte alla propria amata?! Le avevo viste tutte. - Anche da te, ma soprattutto da Dalila.- da Dalila?! Quando mai se l'era filata lei, Dalila? Cresce in modo così strano...- Sta prendendo cattivi abitudini - continuò - Esce con i ragazzi, studia materie che non servono a niente, non vuole lavare, né cucinare...Mi aspettavo ben altro da lei.- Dalila è brillante e intelligente: farà strada. - Questo era l'uomo che per tanti anni avevo creduto un padre! - Lei non è come Pietro!- Sì, era proprio lui.
- Hai ragione, ma Pietro non è figlio di un uomo come te...- Né di una donna come te. Per questo Dalila è...perfetta.Panico. Tentai di voltarmi verso Dalila, ma la testa si rifiutò di farlo, paralizzata. Dalila era la figlia di zia Tullia? Il passato sembrò cadermi davanti come una valanga; davanti, non addosso, per fortuna. Io non c'entravo niente. Tutta quella gente aveva distrutto mia madre, rinnovandone ogni giorno il supplizio di doversi fingere quello che non era: succube. Immaginai quanto sarebbe stato liberatorio sterminarli tutti, senza risparmiare sui proiettili. Colpirli fin quando non avrei reso piena giustizia alla mamma. Inutile. Alla violenza non cedo, è una facile tentazione, ma non risolve alcunché. Senza contare che non disponevo di armi, stavano tutte nel baracchino da caccia. Senza pensarci troppo, me ne andai. Quei due stavano mormorando cose che non mi riguardavano più, mentre mia sorella, o meglio mia cugina, ascoltava, tutta bianca in viso. Per la prima volta non ero in grado di aiutarla e non volevo starle accanto, dovevo salvare me stesso, domare la rabbia verso chi aveva fatto soffrire mia madre, la sola persona che amavo più di Dalila. Per di più mi ero appena reso conto di aver fatto l'amore con mia cugina e non sapevo come gestire lo schifo che provavo. Così la lasciai sola e uscii a prendere la macchina, colto dall'urgenza di guidare. Rimasi in giro diverse ore. Arrivai fino a Roma e tornai indietro, fermandomi in località sconosciute e che non avrei rivisto. Formulai un piano d'azione: dovevo lasciare tutto, dimenticare la fattoria e quell'uomo che mi sopportava solo per non perdere due braccia forti e gratuite. Andarsene sarebbe stato doloroso, ma avrei dato una svolta alla mia esistenza, finalmente. Dalila avrebbe superato il trauma con la sua solita forza. Il mio abbandono l'avrebbe fatta soffrire, se davvero provava dei sentimenti per me, cosa di cui ero abbastanza sicuro: era una ragazza fragile con la tendenza a gettarsi tra le braccia altrui, ma quella sera in mezzo alla vigna era stata sincera e con la sua apertura mi aveva fatto rendere conto di quanto ero sempre stato importante per lei. Ad ogni modo era un'attrazione malsana la sua, visto che ero suo cugino, e comunque le sarebbe bastato trovare un ragazzo da amare, impresa tutt'altro che ardua, per una come lei. Era il rapporto materno a lasciare poco da sperare. Difficile immaginarla chiamare Tullia "mamma". No, non l'avrebbe mai fatto. Il legame tra madre e i figli è tanto forte quanto può diventarlo la repulsione dei secondi per i falsi genitori, capace addirittura di manifestarsi a livello inconscio, come doveva essere successo con Dalila con mia madre. A posteriori mi sembra naturale dubitare di una gravidanza così sospetta, spostata a Roma, lontano dai nostri occhi per ragioni misteriose; ero troppo piccolo per avere dei sospetti, ma se proprio qualcuno avrebbe potuto averne, quello ero io, non certo Dalila. Il piatto le era stato servito già pronto: ben arrivata Dalila, lì ci sono la mamma e il babbo, lui invece è tuo fratello Pietro, lei è la zia Tullia e poi c'è la nonna. Fin dalle prime settimane, però, non si era affezionata alla mamma, come se sapesse di non appartenerle. Quando la mamma impazzì e fu allontanata da noi, Dalila pianse e seguitava a chiedere quando sarebbe tornata, ma dopo un mese se ne era dimenticata del tutto e ne parlava malvolentieri. Se era così intuitiva da sentirsi estranea a mia madre, allora avrebbe dovuto esserlo abbastanza anche da percepire un legame con Tullia; invece era cresciuta con le caratteristiche ricorrenti nelle ragazzine orfane di madre, pur avendo quella naturale vicina. Se almeno non l'avesse mai scoperto! Rimase un'eterna bambina, persino dopo la nascita di Silvia, la figlia avuta dall'insegnante di Roma che la lasciò mentre era incinta. Dalila si suicidò a trentaquattro anni, incapace di badare a se stessa e imbottita di psicofarmaci. Una vita di uomini e sostanze stupefacenti- , aveva commentato la sua vicina di casa, una signora che di primo acchito mi parve molto bigotta, ma che al funerale pianse col cuore. La bambina aveva due anni quando finì in mano ai servizi sociali, che in seguito l'avrebbero data in adozione a una coppia di Torino. Al momento del suicidio era già sotto controllo da qualche tempo, in seguito a un brutto episodio. Pochi mesi prima proprio la signora della porta accanto aveva chiamato un'ambulanza dopo che per tre giorni aveva bussato senza che Dalila rispondesse,
allarmata dal pianto della piccola. Le trovarono sveglie, ma Dalila delirava e la bimba era denutrita e sporca, al limite del deperimento e quasi disidratata. Silvia fu curata e data in affidamento; Dalila finì in un centro di recupero per drogati. Pesava trentanove chili, si faceva di eroina. Quando uscì non volli vederla, ma mi tenni informato, fino a quando non seppi che non c'era più. Una tragedia a cui ancora oggi mi rifiuto di credere. Mi pento con tutto me stesso di essere rimasto tanto distaccato, anche se non vedo in quale altro modo avrei potuto gestire i miei sentimenti, per dimenticarla e andare avanti. La mia non è stata una scelta, quanto più un obbligo verso i miei bambini. Dalila avrebbe sconvolto tutto, non per causa sua, ma per quello che avevo provato per lei e per la confusione in cui mi gettava anche il solo vederla o ricordarla. Il giorno del mio quarantacinquesimo compleanno ho capito che l'infanzia non sarebbe rimasta ferma stipata nel mio cervello per sempre, dovevo svuotare lo sgabuzzino. C'è stato un evento preciso che mi ha fatto giungere alla conclusione di dover ricorrere a una forma di sfogo profonda e duratura. Una scoperta che mi ha costretto a scrivere queste pagine e che ancora non riesco a rivelare; spero di farlo prima della fine del racconto, che mi riprometto di concludere tra qualche giorno, dopo che mi sarò preso il necessario distacco da quanto scritto finora. Quella che avete appena letto è la storia di Dalila da quanto ho potuto vedere negli anni vissuti insieme e da quel poco che ho ricucito sulla sua giovinezza. Nei miei sogni da adolescente, Dalila era spesso un'eroina di fiaba che, bellissima e triste, moriva presto. L'amavo e non volevo che le venisse torto neanche un capello, ma avevo il sentore che fosse destinata a restare giovane per sempre. A dissolversi insieme a una primavera, dopo pochi anni di vita. Pensavo anche, però, che la sua bellezza sarebbe rimasta con lei, non che se ne sarebbe sbarazzata per distruggersi lentamente. L'ultima volta che l'ho vista aveva trentadue anni e ne dimostrava cinquanta. Faceva impressione, con le scapole puntate verso l'esterno, due occhi giganteschi cerchiati di nero e lacrimosi, il viso smunto, pieno di acne. Indossava un paio di jeans troppo larghi per lei, strappati alle estremità per risparmiare la fatica di fare l'orlo o di trovare una sarta. Una bambina vecchia, orribile da vedersi e incapace di seguire un discorso. Provai in vano a imbastire una conversazione normale, ma conclusi che non era il giorno adatto. Era infatti il funerale di suo padre, l'unico babbo della mia vita. Eravamo comunque cugini, figli di due sorelle. Se non fosse stato per questa parentela non sarei mai andato via dalla fattoria senza di lei. A costo di dover vedere quell'uomo ridursi a un rudere e crepare di cirrosi, sarei rimasto per stare con Dalila, che sarebbe diventata mia moglie, se l'avesse voluto. Ma eravamo parenti, anche se faticavo ad adattarmi al fatto che mia sorella non fosse mia sorella, ma mia cugina. Così, a pochi mesi dalla sfuriata tra il padre di Dalila e Tullia, ero andato a vivere da solo a Grosseto, dove avevo trovato lavoro in un consorzio agrario. Quell'uomo non aveva potuto farci niente e io non chiesi soldi, né comprensione. Mantenni il legame con nonna Adele, che purtroppo morì dopo pochi mesi. Telefonavo a Dalila abbastanza spesso, ma parlavamo solo di fatti superficiali, senza superare i cinque minuti di conversazione. Sul lavoro, non li pensavo mai. Neanche a lei. L'amore cominciò a tirarsi indietro. Un giorno ero andato a sfogliare i giornali alla biblioteca comunale. Nelle vicinanze c'era un piccolo parco giochi per bambini molto curato. Ero un frequentatore sporadico, capitavo nei giorni liberi dal lavoro e mi fermavo solo un paio d'ore al massimo, tanto per tenermi informato. La vidi mentre ero indeciso se tirare dritto verso la biblioteca o riposarmi prima al sole un paio di minuti mangiando in anticipo il pranzo, un panino portato da casa. Vivevo da solo in un piccolo appartamento e non mi piaceva desinare al tavolo della cucina, senza compagnia. Se c'era bel tempo preferivo consumare i pasti all'aperto. Mentre sostavo in piedi nell'indecisione su quando addentare il sandwich, vidi una ragazza. Sedeva su una panchina, rivolta verso la spalliera. Se ne stava così, al contrario, a osservare un cespuglio, una pianta carica di piccoli frutti verdi della dimensione di ciliegie e simili a minuscole mele. Mi avvicinai piano, come quando si vede un
gatto e si vuole toccarlo evitando che scappi. C'erano speranze che non s'impaurisse, le ragazze carine sono abituate agli approcci, ma si sarebbe senz'altro infastidita, se avessi interrotto la sua contemplazione. Mi avvicinai alla pianta restando a destra della panchina e senza mutare la naturale direzione dello sguardo, che quindi la inquadrò. Mi misi anche io a guardare un frutto acerbo. - Che frutti sono?- chiese lei senza guardarmi, ma dando così prova di avermi visto. - Non li riconosci?- chiesi io, sorridendo. - Ah, sono...?!- Tranquilla, non lo so nemmeno io. E pensa che faccio l'agricoltore!- Cavoli! Così giovane! Nessun ragazzo fa più il contadino al giorno d'oggi! Dove lavori?Iniziò così. Ho saputo solo pochi anni fa che mia nonna aveva tradito il nonno con un soldato tedesco: ne era nata Tullia, e con lei un ramo della famiglia del tutto staccato dal mio. Quella che ho raccontato non è la storia di mia sorella, ma nemmeno quella di mia cugina: solo quella della prima donna di cui mi sono innamorato. E che, per una strana ragnatela di bugie, non ho mai potuto amare.