Pietro e Dalila L'uomo ci stava fissando da una finestra al secondo piano. Secondo la mia sorellina, invece, era al terzo, perché, come tutti i bambini, contava a partire dal pianterreno. Mi chiese di spiegargliela per bene, questa faccenda dei piani; l'ultima volta l'aveva capita, ma non se la ricordava più. Provai a ripetergliela, distratto dal sospetto che quel maniaco avesse adocchiato mia sorella. Fui costretto a cedere: aveva ragione lei. Per quale ragione il piano terra dev'essere considerato come una specie a parte? “Piano” vuol dire “superficie piatta” e cos'è il piano terra? Una superficie piatta! Molto stupido escluderlo dal conteggio. Guardai di nuovo su, al terzo piano, ma la faccia pulita di quel perditempo non c'era più. - Andiamo via, Dalila!- Dove andiamo?- A casa!- Siamo arrivati ora! Non voglio andare via- Andiamo!- No Pietro, daaai!Ci provava sempre con la tecnica di fare la "a" più lunga del mondo. A volte funzionava, a volte no, in ogni caso riusciva a farmi perdere tempo. Mi sono impegnato a fondo nell'educare mia sorella, per sopperire all'assenza di nostra madre, ma non sono mai riuscito a farle capire che solo talvolta insistere è indice di determinazione, mentre in genere è da capricciosi. Come risultato, Dalila poteva andare avanti una mattinata intera a chiedere di ordinare la pizza nonostante fosse Pasqua. Era il 1988 e la nonna aveva preparato come ogni anno un pranzo elaborato e invitante che avremmo lasciato tranquillamente a piangere sugo in frigorifero se ci fosse stata una pizzeria aperta facile da raggiungere, pur di placare le urla isteriche della piccola. Invece avremmo dovuto ordinare la pizza a Grosseto, a quarantotto chilometri da casa nostra: pizzerie ce ne sono dappertutto, ma durante le feste comandate restano chiuse, nei luoghi isolati come la campagna dove siamo cresciuti. Sfortuna aveva voluto che le serrande fossero abbassate anche sul più vicino Monte Argentario, quell'anno, a causa del mal tempo e di una violenta tromba d'aria. La sera del parco persi qualche minuto a sgolarmi per convincerla a rincasare, infine capii che trascinarla via di peso sarebbe stato meno stancante di farle cambiare idea. - Mi fai male ai ginocchi!- gridava, anche se non era possibile e non aveva senso, al massimo poteva sentire dolore alle braccia. O ai bracci, come diceva lei per farmi arrabbiare. Dovevo portarla via a tutti i costi, quindi non mi sarebbe importato nemmeno di farle male. La stava fissando. Un maledetto porco sulla cinquantina che chissà come mai alle quattro del pomeriggio era in casa da solo, senza nessuna occupazione se non quella di guardare mia sorella giocare sulle altalene. Avevo appena dodici anni ma la vita di campagna mi aveva portato alla conclusione che quasi tutti gli uomini sbavassero dietro alle ragazzine. L'idea che qualcuno sfiorasse la piccola testa bionda della mia Dalila mi faceva impazzire e perdere del tutto il controllo delle mie azioni. Anche anni dopo, quando entrambi diventammo adolescenti e poi giovani adulti, il solo sospetto che quella scatolina sarebbe stata maneggiata da uno di quegli imbecilli che incontravo a scuola mi faceva salire la temperatura corporea e ribollire il sangue nelle mani, subito pronte ad accanirsi finanche contro il più mite dei ragazzi, nonostante non fossi un tipo violento. Arrivammo dalla nonna. - Siete già tornati? Che piove? O poer'ammé, i panni” - si lamentò. - Stai buona, non piove! Solo, volevamo giocare con il Lego - inventai. Mia nonna parlava un incrocio di fiorentino e di senese. Veniva da San Casciano in Val di Pesa e non avrebbe mai perso la sua parlata, nonostante avesse vissuto a Roma dagli anni Sessanta fino al trasferimento a Marsiliana. Io, invece, non avevo inflessioni di sorta, in buona parte per via della fissazione con la dizione corretta della zia Tullia. Una rompicoglioni formidabile nei calcoli che, nullafacente e zitella, si era accollata l'incarico di far di me un futuro ragioniere. Avrebbero potuto farmi giurare