Attraverso "Spazio e Società" di Giancarlo De Carlo. La rivista, il contesto, i temi.

Page 1

Attraverso “spazio e società“ di Giancarlo de carlo la rivista, il contesto, i temi

Politecnico di Milano Scuola di Architettura e Società Corso di laurea triennale in Scienze dell’Architettura Anno Accademico 2016/2017 Relatrice: Prof. Chiara Merlini Tesi di Laurea Triennale di: Claudia Miglio #818133

1


2


Scuola di Architettura e Società Corso di laurea triennale in Scienze dell’Architettura Anno Accademico 2016/2017

Attraverso “Spazio e Società“ di Giancarlo De Carlo la rivista, il contesto, i temi

Relatrice: Prof. Chiara Merlini Tesi di Laurea Triennale di: Claudia Miglio #818133



“È stata sicuramente una bella storia. […] Credo che ormai non sia più il suo tempo. Oggi una rivista dovrebbe essere una cosa molto agile… io la cambierei in una raccolta di sensazioni. È un mondo talmente in movimento il nostro, ormai, che non si può che offrire osservazioni, spunti. Non più di flash. Non è possibile dare risposte, giudizi, emanare editti. E paradossalmente questo avviene in un mondo in cui è impossibile sottrarsi a un poderoso flusso di informazioni. Si è completamente rovesciata la situazione negli ultimi decenni e la vita della rivista ha proprio attraversato questa trasformazione.”

Giuliana Baracco, dietro le quinte. Intervista di Francesco Samassa, in “Una sezione longitudinale sulla rivista” appendice di “Spazio e Società – Space & Society”, dicembre 2001, p. 13.


INDICE

INTRODUZIONE Le ragioni della ricerca Obiettivi e metodologia della ricerca

7 11

1 LA RIVISTA “SPAZIO E SOCIETÀ” 1.1 Le origini: da “Espaces et Sociétés” a “Spazio e Società” 1.2 La struttura: i 92 numeri 1.3 Gli autori e i collaboratori 1.4 La copertina e l’apparato iconografico

15 23 29 33

2 IL DIBATTITO CULTURALE 2.1 Il dibattito architettonico in Italia e il ruolo delle riviste 2.2 Dai CIAM al Team X 2.3 La figura di Giancarlo De Carlo e il ruolo che ha avuto all’interno del dibattito sull’Architettura del Dopoguerra

35 39 43


3 TEMI 3.1 La “voce” di Giancarlo De Carlo 3.1.1 Gli editoriali 51 3.1.2 La partecipazione 65 3.1.3 L’ambiente: dimensione fisica, 77 natura e realtà sociale

3.2 Le Città del Mondo 3.2.1 La città indiana 3.2.2 La città cinese 3.2.3 La città islamica 3.2.4 La città americana 3.2.5 La città italiana

93 95 99 101 103 107

CONCLUSIONE Una nuova comprensione

111

APPENDICE

115

BIBLIOGRAFIA

159


INTRODUZIONE

8


Le ragioni della ricerca Le motivazioni che hanno orientato la tesi attorno allo studio della rivista “Spazio e Società”, sono dovute al forte interesse sviluppato in questi anni di università nei confronti delle relazioni che inevitabilmente si instaurano tra lo spazio in cui viviamo e che ci circonda, e la società che vive all’interno di esso. Infatti ritengo che, a differenti livelli di consapevolezza, questi due aspetti si fondano inevitabilmente in un susseguirsi di legami che ne autodeterminano la stessa esistenza e ragione d’essere. Avendo maturato un interesse per questo tema – il rapporto tra lo spazio e la società - ho ritrovato nel pensiero di Giancarlo De Carlo uno spunto per poter cominciare una riflessione più approfondita sul tema e, in particolare, ho voluto focalizzare l’attenzione sull’impresa che più fortemente esprime il pensiero dell’architetto relativamente a questi aspetti, ovvero la rivista “Spazio e Società”. Infatti, tramite i suoi contenuti e grazie alla partecipazione di nomi importanti all’interno del panorama culturale e sociale dell’epoca, la rivista ha lasciato una forte impronta nel dibattito sull’architettura e la città, caratterizzandosi proprio per un approccio originale, che ha messo al centro il rapporto tra lo spazio e la società, che ha inteso l’architettura come dimensione inscindibile dall’uomo che la abita. Tramite questa ricerca, la rivista verrà indagata e approfondita in diversi aspetti: si cercherà di comprenderne la struttura, i principali temi, i rapporti con gli autori, le relazioni tra il dibattito in Italia e in altre parti del mondo. La rivista può essere infatti considerata come una sorta di finestra sul panorama nazionale ma anche e soprattutto internazionale; come un luogo in cui informazioni, opinioni, idee, questioni e proposte possono essere scambiate, come occasione di dialogo aperto tra autori e lettori. 9


La rivista, nasce in Francia come “Espaces et Sociétés”, diretta da Anatole Kopp e Henry Lefebvre. Già il titolo si pone come una vera e propria dichiarazione di intenti e mette l’accento sui temi trattati che, nella versione francese, vedono l’analisi della società come presupposto di partenza per la successiva ricerca intorno al tema dello spazio. Dal 1978 invece la rivista passa sotto la direzione di De Carlo, che la indirizzerà piuttosto verso una riflessione sui vari tipi di conformazione spaziale; lo scopo è comprenderne i caratteri e le relazioni che si instaurano con la società, con gli abitanti che intorno a quelle conformazioni spaziali vivono. Inoltre, l’impostazione della versione italiana della rivista con De Carlo alla direzione, metteva al centro la relazione con i lettori. Invece di fornire delle risposte soggettive e che avessero un unico punto di vista, si preferiva lasciare aperta una finestra di dialogo; il lettore si sentiva in questo modo coinvolto nel dibattito in modo attivo, e non era considerato come un semplice destinatario a cui si dovessero proporre una serie di informazioni o di soluzioni precostituite, tutte orientate dalla esperienza e competenza degli autori della rivista. La direzione della rivista non segue dunque una linea predefinita e univocamente orientata ai problemi dell’architettura, ma affronta tematiche diverse in cui il filo conduttore si ritrova nello studio delle varie forme dello spazio in diversi contesti, e nelle relazioni con il tema della abitabilità. Infatti questa ricerca non si limita a prendere come esempio solamente casi appartenenti al panorama nazionale o francese (nel caso dei primi quattro numeri dell’edizione italiana, che erano diretta traduzione dell’edizione francese), ma rivolge lo sguardo in modo più ampio anche alla scena internazionale, coinvolgendo così anche collaboratori stranieri e utilizzando casi studio di località provenienti dall’allora definito

10


Terzo Mondo, che presentavano condizioni del tutto differenti dai casi italiani. Altri temi ricorrenti ed innovativi che si possono ritrovare all’interno della rivista sono l’uso delle nuove tecnologie che stavano prendendo piede all’epoca, le relazioni tra architettura e il passato, la crisi e le trasformazioni che stava subendo la città contemporanea e l’insegnamento dell’architettura. Un altro degli aspetti significativi di “Spazio e Società” è la dimensione autocritica: la rivista è sempre messa in discussione, sia nei contenuti che nella struttura, non da terzi ma dal suo direttore in prima persona, che ne fa una sede di continua ricerca personale. Infatti De Carlo, assumendosi completamente la responsabilità di meriti e demeriti, mantiene costantemente un atteggiamento autocritico e autoriflessiovo del suo lavoro di direzione, non nascondendo quelle che potevano essere considerate delle “imperfezioni”, ma anzi dichiarandole esplicitamente all’interno degli editoriali in apertura di ogni numero. In cui in alcuni casi la struttura del testo è proprio questa: De Carlo elenca tutto ciò che è stato fatto in pratica e si sofferma sui punti che occorre ancora migliorare . Questo approccio dimostra qual era la vera essenza della rivista stessa, ovvero la ricerca non di una verità “assoluta” ma di un punto di vista, di una prospettiva che potesse in qualche modo inserirsi, anche lateralmente e in maniera eccentrica rispetto alle posizioni dominanti, in quello che era il dibattito sull’architettura e la città del tempo. Questa “voce

fuori dal coro” di cui si parlava inizialmente viene indirizzata non solo agli esperti del settore, ovvero ai progettisti, ma anche e soprattutto agli utenti dello spazio, che quello spazio vivono e definiscono costantemente e quotidianamente. Ancora una volta, non si parla solo di spazio e architettura ma anche di società e di cittadini, di quello che interessa la gente 11


”Un maggior rapporto con la gente ci permetterebbe di cogliere i problemi e di portarli a galla”1: è questo il punto di vista che De Carlo cerca costantemente di perseguire nella direzione della rivista, sia nei contributi che fornisce direttamente, sia nei testi e nei progetti che ospita sulle sue pagine. Una rivista dunque che propone una linea di riflessione originale e per certi versi anticipatrice, il cui significato emerge oggi, a distanza di anni, con molta chiarezza, fornendoci ancora molti elementi di riflessione.

Giancarlo De Carlo, “Spazio e Società. Una sezione longitudinale sulla rivista”, Appunti della riunione, pag. 32 1

12


Obiettivi e metodologia della ricerca

Il riferimento è indirizzato verso le riviste “Domus”, fondata da Giò Ponti e Giovanni Semeria nel 1928, “Casabella”, fondata da Guido Marangoni nel 1928, e“Abitare”, fondata nel 1961 da Piera Peroni, con il nome “Casa Novità”. Queste riviste hanno, infatti, subito nel corso degli anni e nel susseguirsi delle pubblicazioni, numerosi e rilevanti cambi di direttori, che hanno modificato e dato alle riviste contributi sempre nuovi e differenti. 1

L’obiettivo di questa ricerca, è quello di entrare dentro alla rivista “Spazio e società”, attraverso lo studio e l’analisi dei suoi contenuti, della sua struttura, dei suoi caratteri, riflettendo sia sui temi principali, sia sui modi della sua produzione e sui suoi protagonisti (ovvero la composizione della redazione e l’insieme dei suoi collaboratori). Per fare questo occorre tuttavia mettere la rivista sullo sfondo di due aspetti: da un lato occorre confrontarla con il contesto storico di riferimento nel quale si inserisce, dall’altro lato occorre cercare di comprendere il ruolo e i temi cari al solo e unico direttore che ne ha tenuto le redini per tutti i 92 numeri, ovvero Giancarlo De Carlo. Infatti, a differenza di altre riviste italiane che in quel momento si confermavano nel panorama del dibattito italiano divenendo uno strumento anche di ampia diffusione,, “Spazio e Società” ha svolto un ruolo più ai margini anche se di grande importanza, focalizzando il suo interesse principale attorno a quelle questioni, ancora oggi di rilievo, di cui De Carlo è stato sostenitore e anticipatore.1 La ricerca presentata in queste pagine ha seguito un approccio per successivi approfondimenti. Dopo una prima fase di ricerca bibliografica e di approccio ai numeri della rivista, l’analisi è stata convogliata su tre binari differenti, ma al tempo stesso paralleli. Nella prima parte il lavoro è stato rivolto alll’analisi della rivista stessa, dalle sue origini, alla pubblicazione della omologa rivista francese “Espaces et Sociétés”, fino all’arrivo in Italia e ai successivi cambi editoriali e di direzione, arrivando alla versione finale proposta da De Carlo.

13


Quindi un primo approccio ai contenuti, agli autori e collaboratori, per cercare di comprendere la direzione che De Carlo intendeva dare alla rivista e lo spazio che avrebbe occupato all’interno del panorama italiano ma anche internazionale. Nella seconda parte dell’analisi, mi sono concentrata maggiormente sullo studio del contesto storico e culturale di riferimento in cui la rivista nasce e si sviluppa, cercando di approfondire il ruolo che ha avuto De Carlo all’interno del dibattito che si stava avviando in quegli anni, e quindi cecando di definire anche la posizione che la rivista assume rispetto agli avvenimenti del tempo. In particolare mi sono occupata di restituire un quadro sintetico delle vicende del Dopoguerra, dei CIAM e della nascita del Team X. L’ultima parte dello studio si concentra maggiormente sull’approfondimento di alcuni temi che hanno sempre fatto parte del pensiero di De Carlo e che rappresentano, all’interno di “Spazio e Società”, delle costanti che vengono continuamente riprese da vari collaboratori e autori. Quindi, a partire dalla raccolta degli editoriali scritti da De Carlo, ho sviluppato una parte di approfondimento per quanto riguarda tre aspetti che sono centrali nella rivista e che mi sono sembrati di particolare interesse: il tema della partecipazione dei cittadini nel progetto d’architettura, il tema della rilevanza dell’ambiente, e infine l’insegnamento che la rivista ci fornisce attraverso la sua apertura allo studio di architetture e città provenienti da varie culture e parti del mondo.

14


Disegno tratto da “Spazio e Società “, n. 22 giugno 1983, p. 109.

15


1 LA RIVISTA “SPAZIO E SOCIETÀ”

16


1.1 Le origini: da “Espaces et Sociétés” a “Spazio e Società”

«Espaces et Sociétés» n. 1, novembre 1970.

Henri Lefebvre (19011991), sociologo, urbanista e filosofo francese. Nel suo libro La produzione dello spazio (ed. it. Milano, 1976), sostiene la tesi secondo la quale la transizione da un modo di produzione a un altro presuppone la costruzione di uno spazio sociale appropriato. 1

Anatole Kopp (19151990), architetto e urbanista francese, sostenitore del movimento marxista dei pianificatori (dal 1960 al 1970). Secondo Kopp soltanto “le nuove forme” potevano portare a nuovi rapporti sociali basati sulla “mente collettiva”, sull’abolizione dello sfruttamento e sulla programmazione economica. 2

Presentazione, “Espaces et Sociétés” n. 1, giugno 1975, p. 6. 3

La rivista francese “Espaces et Société” viene fondata nel 1970 da Henri Lefebvre1 e Anatole Kopp2 come rivista internazionale di architettura e urbanistica. Venne fondata con l’intenzione di costituire un riferimento importante “per i problemi legati all’organizzazione del territorio, della città, della società, in una parola per quanto e tutto quello che riguarda lo spazio in cui gli uomini vivono. Spazio inteso non come dimensione o rapporto tra uomo e oggetto, ma come contenitore totale di molteplici interrelazioni fisiche, economiche, di pensiero, di comportamento”.3 I numeri dell’edizione francese erano caratterizzati da un approccio teorico nel modo di affrontare le questioni, con testi rigorosi che proponevano o facevano riflettere sulle soluzioni possibili, selezionandole a seconda del grado di realizzabilità. Sia Lefebvre che Kopp, credevano che fosse possibile costruire una nuova società, fondata su nuovi rapporti di produzione, attraverso la costruzione di una nuova struttura spaziale dove l’uomo, vivendovi, si sarebbe trasformato. Insieme, dirigono la rivista fino al 1978, pubblicando 18 numeri di cui alcuni doppi, trattando soprattutto temi relativi alla politica urbana, alla partecipazione nei processi progettuali, con uno sguardo particolare alla parte più povera del mondo che stava iniziando ad intraprendere un processo di sviluppo economico, sociale e culturale. Accanto a questi, troviamo anche temi come la formazione dell’architetto e altri più di natura sociologica come il lavoro, la ricerca di un alloggio per i lavoratori, l’emigrazione.

17


Nel 1978, dal n. 28-29, la direzione passa a Raymond Ledrut1 che ne mantiene la struttura e le linee-guida ma si allontana dal marxismo per linee di pensiero differenti e anche per disaccordi interni; così la rivista perde un punto di vista specifico aprendosi ad un dibattito discordante e mutevole, ma pur sempre con una prospettiva critica. Con la morte improvvisa di Ledrut, nel 1987 la direzione passa a Jean Remy2 il quale cambia la grafica e il formato tendendo sempre più a produrre un giornale scientifico di ricerca, e meno di orientamento politico. Oggi “Espaces et Sociétés” ha perso la denominazione di rivista internazionale di pianificazione, architettura e urbanistica definendosi rivista interdisciplinare di scienze umane e sociali, anche se, osservando il contenuto dei suoi articoli, si può notare un continuo interesse per la città e l’architettura. In Italia, i primi due numeri della rivista, dal titolo “Spazio e Società”, sono usciti nel 1975, come semplice traduzione della rivista francese “Espaces et Sociétés”, diretta da Kopp e Lefebvre, con l’aggiunta di qualche integrazione italiana. Fu Nicola Giuliano Leone3 a dichiarare che la rivista arrivò in Italia grazie a Carlo Doglio4, che conosceva personalmente Lefebvre e affidò a Riccardo Mariani5 l’edizione italiana come sua traduzione. L’edizione della rivista francese si distingue da quella italiana per il modo teorico di affrontare le questioni, in quest’ultima quasi sempre argomentate attraverso i progetti di architettura e presenti nella rivista francese quasi soltanto nei primi numeri. Il numero tre (pubblicato nel 1976) presenta già una nuova configurazione: Giancarlo De Carlo è membro della redazione, Riccardo Mariani è il capo redattore, mentre la direzione era ancora legata alla rivista francese.

18

Raymond Ledrut (19191987), sociologo, ha svolto un ruolo importante nel coordinamento e nella direzione di “Espaces et Sociétés”. 1

Jean Remy, professore emerito della Facoltà di Economia, Politiche e Sociali dell’Università Cattolica di Lovanio. Attualmente insegna sociologia urbana e rurale e aspetti sociologici della pianificazione urbana e regionale. Fondatore, con Liliane Voye, del Centro per la Sociologia urbana e rurale, dirige la rivista francese “Espaces et Sociétés”. 2

Nicola Giuliano Leone (1943), ordinario di progettazione urbanistica presso la Facoltà di Architettura di Palermo, fu assistente di Leonardo Urbani negli anni ‘70 e di Carlo Doglio a Napoli. 3

Carlo Doglio (1915-1995) è stato docente di pianificazione ed organizzazione territoriale presso l’Università di Bologna, dopo avere insegnato presso la Facoltà di architettura di Palermo, Napoli e Venezia. Ha partecipato a diverse esperienze di pianificazione territoriale in Italia, attraverso una pianificazione dal basso. Detenuto politico durante il fascismo, ex-partigiano, Carlo Doglio era stato prima legato al partito d’Azione e poi al movimento anarchico, pubblicando il giornale clandestino «Il Libertario». 4

Riccardo Mariani, professore dell’Università di Ginevra e ordinario di Urbanistica nell’Università di Firenze. Fra le sue opere si annoverano: “Abitazione e città nella Rivoluzione industriale” (1975), “Fascismo e città nuove” (1976), “Latina, storia di una città” (1982), “Città e campagna in Italia, 1917-1943 (1986). 5


Luigi Alberto Colajanni (Bricherasio, 2 ottobre 1943) è un politico e scultore italiano, esponente del Partito Comunista Italiano, del Partito Democratico della Sinistra e dei Democratici di Sinistra e già parlamentare europeo. 1

Gaddo Morpurgo (1947), professore associato di Disegno Industriale presso presso la Facoltà di Architettura dell’Università IUAV di Venezia. Nell’articolo affronta il problema dello squilibrio fra il centro storico ed il territorio della terraferma, criticando le scelte attuate dai politici e proponendo una ristrutturazione del territorio mediante una concreta partecipazione della popolazione. 2

Daniele Pini nasce a Venezia il 5 ottobre 1944. Si laurea in Architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV) nel 1969. Dal 1975 al 1982 è stato redattore della rivista internazionale di architettura e urbanistica “Spazio & Società”, diretta da Giancarlo De Carlo. Ha svolto inoltre un’intensa attività didattica presso numerose istituzioni universitarie italiane e straniere. 3

In realtà le intenzioni, già dall’uscita del terzo numero, sono quelle di intraprendere una strada del tutto nuova, che corre parallelamente a quella della rivista francese, conservandone ancora i rapporti di scambio, ma proseguendo verso una propria autonomia. Insieme a De Carlo, facevano parte della redazione anche Luigi Colajanni1, Gaddo Morpurgo2 e Daniele Pini3. Dal quarto numero della rivista, si prosegue sulla linea tracciata dal numero precedente con la nuova redazione, ma se ne accentuano gli argomenti e i materiali con maggiore chiarezza. Prima della sua pubblicazione però, il numero fu tenuto fermo in tipografia poiché c’era bisogno di una maggiore chiarezza editoriale, in quanto si erano verificate delle tensioni interne alla redazione e si voleva aggiungere al numero un inserto in cui venivano definiti i cambiamenti editoriali e rassicurare i lettori sul futuro della rivista. Dal numero cinque del 1978, avviene la svolta definitiva: Giancarlo De Carlo assume ufficialmente il ruolo di Direttore della Rivista, liberandosi quindi della direzione francese e scalzando Mariani dalla sua posizione. In realtà, tra i propositi enunciati nel quarto numero c’era quello di continuare la collaborazione con l’omologa rivista francese, ma in seguito, vediamo che De Carlo non scriverà mai nella rivista francese e, allo stesso modo, nella rivista italiana non saranno più presenti articoli degli autori che hanno scritto in quella francese. Una delle ragioni di ciò potrebbe risiedere nel fatto che l’anno in cui la rivista italiana ricomincia dal n. 1 (1978) è lo stesso in cui Lefebvre lascia la redazione della rivista francese. Un’altra ragione di ciò, potrebbe risiedere nel fatto che il legame con Lefebvre era in qualche modo labile, in quanto istaurato personalmente da Riccardo Mariani, per il tramite di Carlo Doglio. 19


Sotto la nuova direzione, vengono raccolti diversi materiali provenienti da autori italiani e stranieri e viene assicurato nell’editoriale la sicurezza della continuità della rivista per almeno i quattro numeri successivi. De Carlo, vista la veste completamente nuova che la rivista aveva assunto, decide di proseguire con il nome di “Spazio e Società” ma ripartendo dalla pubblicazione del numero uno. Il bilancio di questa prima uscita presenta alcuni problemi nella coordinazione e distribuzione delle copie e con l’editore, ma complessivamente le critiche e la accoglienza da parte di esperti (architetti, studiosi stranieri, critici, storici, ecc.) è stata positiva, a tal punto che alcuni di loro si sono offerti volontariamente come collaboratori per i prossimi numeri. Giancarlo De Carlo si dimostra fin dall’inizio un direttore capace di autocritica e sempre rivolto a cercare di migliorare alcuni aspetti che riteneva cruciali, ad esempio in termini di formato, grafica del frontespizio, caratteri, impaginazione, tipo di carta, ecc., poiché trattandosi di una rivista di architettura e urbanistica, ogni aspetto legato alla forma e alla presentazione, doveva essere minuziosamente studiato per essere impeccabile. Il nuovo apparato della rivista, consiste nel Direttore (Giancarlo De Carlo), nel Comitato di Redazione, e nella Redazione in cui erano presenti anche una Segretaria e un suo aiuto. La sede della redazione si trova a Firenze insieme alla Tipografia.Gli autori della rivista collaborano gratuitamente, mentre viene attribuito a loro un rimborso spese per le eventuali trasferte. I compiti di cui si occupava la Redazione erano la raccolta dei materiali, la corrispondenza con gli autori, la scelta delle illustrazioni, l’impaginazione, la composizione, la correzione

20

«Espaces et Sociétés» n. 1, novembre 1970.

«Espaces et Sociétés» n. 2, mars 1971

«Espaces et Sociétés» n. 28-29, mars-juin 1979.


«Espaces et Sociétés» n. 100, janvier 2000.

«Espaces et Sociétés» ed. italiana, n. 1, giugno 1975.

“Spazio e Società. Una sezione longitudinale sulla rivista”, appendice di “Spazio e Società”, 2001, p.38 1

delle bozze, il controllo tipografico e, dal terzo numero in poi, la grafica dell’impaginazione. Dal quinto numero, viene confermato il carattere fortemente internazionale che si voleva dare alla rivista, cominciando quindi a tradurre il corpo centrale delle pubblicazioni (saggi e progetti) in lingua inglese, mentre i contributi degli autori che scrivevano in altre lingue venivano ritradotte e proposte in versione italiana e inglese. Le aspirazioni della rivista così concepita volevano coprire un ampio spazio sia in Italia che all’estero. Infatti la maggior parte delle collaborazioni sono con autori stranieri e la rete di comunicazione della rivista si rivela molto efficace. Poste le basi per questo nuovo progetto, la rivista subirà nel corso degli anni diversi cambi editoriali, di formato e di contenuto, pur mantenendo i propri caratteri. La rivista “Spazio e Società” diretta da Giancarlo De Carlo, non presenta una vera e propria dichiarazione dei contenuti, ma una dimostrazione pratica di essi è ritrovabile tramite l’analisi dei temi trattati di volta in volta nei vari numeri pubblicati. Alcuni di essi sono già identificabili dopo l’uscita dei primi numeri, ma De Carlo, durante la presentazione della rivista alla tavola rotonda presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma (26 febbraio 1980), specifica una serie di assunti su cui i contenuti della rivista si sono basati, e da cui si è partiti. Il primo di essi è che “l’architettura è organizzazione e forma dello spazio fisico”1, e che non bisogna operare nessuna distinzione tra architettura e urbanistica. A parte distinzioni di tipo strumentale infatti, nella rivista non si accennerà mai a differenze di tipo concettuale tra le due discipline, proprio per evitare quella confusione che ha caratterizzato il panorama dell’architettura contemporanea di quel periodo.

21


Il secondo assunto dichiara che non viene riconosciuta l’architettura come sovrastruttura di una base economica, ma come struttura stessa della società. Infatti, l’architettura ha conseguenze su di essa, è capace di modificarne gli aspetti indirettamente. E quindi “l’atto dell’organizzare e dar forma allo spazio, siccome cambia indirettamente il mondo, implica una responsabilità”1. Compito dell’architetto è quindi quello di prendere in considerazione questo aspetto in modo serio e consapevole. Inoltre si assume che l’architettura non può essere definita come autonoma (come sosteneva ad esempio Boullée2). Infatti essa si nutre di tutti i fatti esterni che la circondano e la penetrano, costringendola al continuo confronto con essi rendendola automaticamente e per definizione “eteronoma”3. L’ansia di autonomia ha portato alla specializzazione, rendendo così il linguaggio dell’architettura accessibile soltanto agli studiosi della materia, privando gli altri della comprensione del suo significato nel quale non riescono più a riconoscersi. Dunque viene meno la capacità di comunicazione attraverso l’architettura, una prerogativa che, prima della specializzazione delle discipline, era invece un modo per poter tramandare la storia delle comunità. Dall’idea di architettura come linguaggio universale ora si è arrivati alla definizione di architettura come linguaggio per pochi. Secondo De Carlo, questo fatto ha rappresentato “una delle più grandi perdite che ha impoverito gli esseri umani, ma forse è ancora possibile fare qualcosa per recuperare”4. Scopo della rivista quindi, è quello di interessarsi alle situazioni dove la capacità di comunicazione universale dell’architettura ancora trapela. Per finire, l’ultimo assunto riguarda la necessità di conoscere profondamente ogni sfaccettatura del progetto che si sta prendendo in esame, in tutte le sue motivazioni e

22

«Espaces et Sociétés – Spazio e Società», n. 2, ottobre 1976.

“Spazio e Società. Una sezione longitudinale sulla rivista”, appendice di “Spazio e Società”, 2001, p.39 1

Étienne-Louis Boullée (Parigi, 12 febbraio 1728 – Parigi, 6 febbraio 1799) è stato un architetto e teorico dell’architettura francese del periodo neoclassico. Nei suoi progetti utilizzò volumi elementari, monolitici e di scala colossale, in modo da creare edifici con un valore simbolico accentuato e drammatizzato dal gioco delle luci e ombre. 2

“Spazio e Società. Una sezione longitudinale sulla rivista”, appendice di “Spazio e Società”, 2001, p.39 3

4

Ibidem


conseguenze, in modo da poterlo giudicare e realizzare in modo consapevole. Quindi un architetto che non abbia questa consapevolezza, è irrilevante. La grandezza dell’architettura, secondo De Carlo, sta nella continua capacità di rigenerarsi in un processo che non finisce mai, autogenerandosi ma generandone anche altri. Sulla base di questi assunti e dei contenuti che da essi prendono le basi, si struttura l’organizzazione della rivista. «Spazio e Società – Espaces et Sociétés», n. 3, gennaio-marzo 1976.

«Spazio e Società – Espaces et Sociétés», n. 4, giugno 1976.

23


24


Nella pagina accanto, le copertine dei 92 numeri di “Spazio e Società”

Henri Lefebvre (19011991), sociologo, urbanista e filosofo francese. Nel suo libro La produzione dello spazio (ed. it. Milano, 1976), sostiene la tesi secondo la quale la transizione da un modo di produzione a un altro presuppone la costruzione di uno spazio sociale appropriato. 1

Anatole Kopp (19151990), architetto e urbanista francese, sostenitore del movimento marxista dei pianificatori (dal 1960 al 1970). Secondo Kopp soltanto “le nuove forme” potevano portare a nuovi rapporti sociali basati sulla “mente collettiva”, sull’abolizione dello sfruttamento e sulla programmazione economica. 2

Presentazione, “Espaces et Sociétés” n. 1, giugno 1975, p. 6. 3

1.2 La struttura: i 92 numeri Il campo d’indagine e di esplorazione della rivista è in continua evoluzione e De Carlo cerca di definirlo attraverso i Saggi, i Progetti, le Rubriche. Alcune questioni sono ricorrenti nei 92 numeri, altre sono legate ad una certa fase della rivista. Il cuore della rivista è rappresentato dai saggi e dai progetti, insieme all’appendice delle rubriche, ovvero gli argomenti, gli avvenimenti, le recensioni e le congetture. I progetti pubblicati non vengono scelti soltanto per il loro valore formale e, a differenza di altre riviste di architettura, non ne vengono esaminati soltanto gli aspetti esteriori più brillanti, ma anche il modo in cui si rapportano col contesto fisico e sociale, tenuto conto anche delle conseguenze prodotte nell’ambiente. Siccome la rivista ha cadenza trimestrale, in queste sezioni vengono illustrati i diversi fatti che sono ritenuti rilevanti per il panorama dell’architettura di quegli anni e non solo. Infatti, in alcuni casi, si parla anche di altri settori in cui l’architettura gioca un ruolo fondamentale. Inoltre, l’impostazione di “Spazio e Società” è aperta al dialogo con il suo pubblico, motivo per il quale vengono posti diversi quesiti che si pongono in modo stimolante al lettore, con il quale è possibile intraprendere una discussione. Tale compito viene affidato alle Questioni, ovvero paragrafi dedicati al commento dei Progetti e dei Saggi. Non si tratta di giudizi o critiche sul tema trattato, ma piuttosto di spunti che riprendono il tema cercando di aprirne il contenuto ad una discussione più ampia che coinvolge il destinatario. Dal numero 33 cominciano i Dossier, sullo stato 25


dell’architettura in alcuni Paesi stranieri, come Argentina, Cina, India, Uruguay, ma anche in città italiane e straniere, come Genova, Catania, Torino, Palermo, Parigi, Hong Kong, Johannesburg. Nello specifico, Il primo numero dell’edizione italiana (del 1975), si configura come la traduzione dell’edizione francese, mentre dal secondo numero sono presenti alcuni interventi italiani e un report sugli avvenimenti internazionali di gestione dello spazio. Il primo articolo del primo numero dell’edizione italiana si intitola Riflessioni sulla politica dello spazio, scritto da Henry Lefebvre. Nello stesso numero un altro articolo riporta un dibattito con Lefebvre tenuto presso un seminario nel corso di urbanistica di Leonardo Ricci1 presso la Facoltà di Architettura di Firenze. Nel secondo numero di ”Espaces et Sociétés” cominciano i contributi italiani alla rivista con un articolo di Giuseppe Samonà, La città in estensione2, e uno di Raffaele Mazzanti, Il parco pubblico agricolo-naturale “Prati di Mugnano” a Sasso Marconi.3 Vengono inoltre inserite delle rubriche: Città e dintorni, in cui troviamo una corrispondenza di Carlo Doglio e I documenti con una relazione sulla legislazione e pianificazione in Inghilterra dai primi del Novecento fino al ‘68. Il n. 3 della rivista dichiara che al cambiamento della redazione corrisponde un relativo cambiamento dell’orientamento della rivista: questo numero ha una nuova struttura divisa in due parti, una centrale, che contiene saggi critici e illustra dei progetti, e poi una serie di rubriche. I saggi sono costituiti da argomenti teorici su questioni e dibattiti svolti in circostanze diverse su emergenze attuali o possibili nella scena dell’architettura internazionale.

26

Leonardo Ricci (Roma, 8 giugno 1918 – Venezia, 29 settembre 1994) è stato un architetto italiano. Leonardo Ricci aspira a rendere l’uomo il protagonista della sua architettura: egli sostiene, infatti, che la prima vera operazione architettonica non è prendere un pezzo di carta e disegnare forme e schemi distributivi. È immaginare nello spazio il movimento di coloro che lo abiteranno. 1

L’articolo pubblicato su “Espace et Sociétés” nel 1976 è successivo ad una conferenza tenuta presso la Facoltà di Architettura di Palermo nello stesso anno, pubblicato poi dallo stesso come monografia. Giuseppe Samonà, La citta in estensione: conferenza tenuta presso la Facoltà di architettura di Palermo il 25 maggio 1976, STASS Edizioni, Palermo, 1976. 2

Raffaele Mazzanti, nell’articolo Il parco pubblico agricolo-naturale ‘Prati di Mugnano’ a Sasso Marconi racconta un’esperienza nella collina bolognese di riappropriazione del territorio agricolo, dalla conservazione all’uso sociale delle risorse per una nuova politica di sviluppo. L’articolo fu scritto in occasione di una mostra dal titolo “Avanguardie e cultura popolare” svoltasi nel maggio 1975 presso la Galleria di Arte Moderna di Bologna. 3


I progetti sono sia quelli di recente realizzazione, sia altri realizzati da più tempo, sui quali è possibile verificare la loro capacità di reggere l’uso. In entrami, saggi e progetti, sono presenti commenti redazionali all’interno di una specifica colonna chiamata Questioni, sul cui contenuto i lettori sono invitati a intervenire e controbattere, per favorire una partecipazione diretta. Le rubriche che compaiono da questo numero sono: Congetture, Argomenti, Avvenimenti, Documenti, Libri e Riviste, Da Espaces et Sociétés. In particolare, la rubrica Congetture nasce per accogliere argomenti che aprono problematiche utili per futuri approfondimenti della rivista, ma anche contributi su materiali già pubblicati o derivanti dalle Questioni; nella rubrica Argomenti troviamo recensioni di libri che riguardano problemi e tematiche da esplorare; la rubrica Avvenimenti contiene articoli su fatti attinenti allo spazio fisico e alla sua organizzazione; nei Documenti vengono raccolti materiali relativi ai temi affrontati nei saggi, nei progetti e nelle rubriche; in Libri e Riviste sono riportate alcune pubblicazioni e le parti più interessanti di queste. Infine, inizialmente, seguendo l’intenzione dichiarata di continuare il rapporto con la rivista francese, i contributi provenienti da essa sarebbero stati riportati all’interno della rubrica Da Espaces et Sociétés; lo stesso, reciprocamente, avrebbe fatto la rivista francese, portando avanti uno scambio tra le redazioni. Ma in realtà, come già accennato, il rapporto viene interrotto molto presto: con il n. 28 (1978) la rivista francese cambia direttore e inizia a seguire un percorso autonomo. Nel 1978 «Spazio e Società» riparte dal n. 1, sotto la direzione di Giancarlo De Carlo, rinnovando l’impianto grafico, il formato e la redazione. 27


La redazione si appoggia alla casa editrice Moizzi per la sede della rivista. Il pubblico di lettori a cui si rivolge è formato da “tutti quelli che per professione osservano o trasformano – in via diretta o indiretta – l’ambiente fisico e umano; gli studenti, inclusi i giovani che non sono studenti in senso istituzionale e tuttavia si preparano a osservare e trasformare; ma anche quelli che non sono ammessi a osservare e trasformare e perciò soffrono con maggiore acutezza gli effetti di osservazioni superficiali e di trasformazioni irresponsabili”.1 Gli obiettivi di questa rivista – dichiara il direttore – al pari di quelli di un progetto di architettura, sono variabili e dunque vanno continuamente verificati. La struttura della rivista mantiene le scelte fatte nel numero precedente: un nucleo principale con saggi critici e progetti, e una lunga appendice che contiene le rubriche. Le rubriche presenti nel primo numero sono qui confermate: Congetture, Argomenti e Avvenimenti, Documenti. Si presentano con una struttura flessibile che può aumentare o diminuire, in estensione e nel numero, secondo i temi trattati e le decisioni redazionali. Dal n. 33 iniziano i Dossier sullo stato dell’architettura in alcuni Paesi stranieri e in alcune città italiane e straniere. Scriveva De Carlo: “Eppure io sono convinto, che “Spazio e Società” ha svolto un ruolo che altre riviste di architettura non si assumono. Per esempio nessuna rivista italiana, e pochissime straniere, si occupano dei Paesi del Terzo mondo. Noi ce ne siamo occupati, con inchieste, articoli e perfino dossier sull’India, sul Brasile, sull’Argentina, su Paesi detti in via di sviluppo. Siamo persuasi che in quei Paesi è ancora possibile trovare connessioni interessanti tra i problemi dello spazio e quelli della società; che lì ancora esistono focolai di invenzione, architettura candida e aderente ai luoghi”.2

28

Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società” n. 1, gennaio 1978, pp. 3-4. 1

Marcello Balzani, Editoriale, Architetto, fai qualcosa di sociale, in “e-zine” n. 39, Rimini, giugno 2011, p. 2. 2


Dopo 92 numeri c’è la consapevolezza di aver raggiunto dei risultati, ma la resistenza viene meno, anche a causa del forzato abbandono, per motivi di salute, di Giuliana Baracco moglie di De Carlo1 e soprattutto storica responsabile del coordinamento di redazione, traduttrice di molti testi pubblicati, cuore pulsante della rivista, sempre attenta a riportare l’attenzione sulle cose che riguardano la gente: “È stata sicuramente una bella storia. É finita per me un po’ bruscamente, un paio di anni fa. È andata avanti ancora la rivista e adesso si prepara l’ultimo numero, [...] credo che ormai non sia più il suo tempo. Oggi una rivista dovrebbe essere una cosa molto agile... Io la cambierei in una raccolta di sensazioni. È un mondo talmente in movimento il nostro, ormai, che non si può che offrire osservazioni, spunti. Non più di flash. Non è possibile dare risposte, giudizi, emanare editti. E paradossalmente questo avviene in un mondo in cui è impossibile sottrarsi a un poderoso flusso di informazioni. Si è completamente rovesciata la situazione negli ultimi decenni e la vita della rivista ha proprio attraversato questa trasformazione. Ed è per questo che, come dico, oggi non potrebbe che essere molto diversa. Ma forse ha più senso che altri ne facciano di nuove”.2 Giuliana Baracco, moglie di Giancarlo e Carlo, ha tenuto il coordinamento di redazione dal n. 1 al n. 89 di “Spazio e Società” 1

2

Giuliana Baracco, dietro le quinte. Intervista di Francesco Samassa, in “Una sezione longitudinale sulla rivista” appendice di “Spazio e Società – Space & Society”, dicembre 2001, p. 13.

29


disegno di Anna De Carlo, in “Spazio e Società” » n. 3, settembre 1978, p. 74.

30


1.3 Gli autori e i collaboratori Gli autori che collaborano con la rivista non sono solo italiani ma anche e soprattutto internazionali. In questo modo era possibile interessare una scena dell’architettura più vasta e trattare gli argomenti provenienti da tutto il mondo. Una delle prerogative di De Carlo era appunto la promozione di uno scambio che ampliasse i propri orizzonti il più possibile. Si cerca di proseguire sulla scia tracciata dalla Bauhaus, dei CIAM e del Team X, che operavano in modo da confrontare a livello internazionale esperienze compiute in luoghi specifici, ma che potessero avanzare proposte e riflessioni adatte a tutti. Ogni collaborazione con gli autori è stata fondamentale per definire certi contenuti e pubblicare molti progetti importanti, ai quali sono state dedicate molte pagine per offrire al lettore una documentazione completa di essi e sui quali, nei 92 numeri della rivista, sono stati raccontati più volte, anche da diversi autori, offrendo molteplici punti di vista e innescando quel tanto sperato processo di discussione con i lettori. Purtroppo, non si riesce a stilare una mappa ben definita di tutti gli autori che hanno collaborato alla rivista, poiché troppo numerosi e tutti troppo rilevanti per poterne trattare alcuni, lasciandone indietro altri. In questo senso, un approccio più ampio si ritiene necessario per ricostruire un quadro

generale delle tipologie di intervento che si rintracciano in “Spazio e Società”. Molti degli autori sono chiamati a scrivere e pubblicare dei loro stessi progetti, come accadde con Erskine, che ha pubblicato la sua esperienza a Byker, ripercorrendo tutta la sua storia in modo “intimo” e confidenziale con il lettore, 31


trovandosi a confessare di aver avuto dei ripensamenti sul progetto a posteriori, in certe sue parti che avrebbero potuto essere sviluppate in modo diverso (lui li chiama “afterthoughts”, “pensieri fatti dopo”). Allo stesso modo, sono stati pubblicati i progetti di Doshi, il Centro De Falla a Granada, e vari edifici di Aldo Van Eyck. Anche Hertzberger ha pubblicato il suo progetto del Centro Musicale di Utrecht. In questo procedimento, l’autore del progetto, che diventa qui anche voce del progetto stesso, è lasciato in piena libertà di esprimersi e illustrare ciò che ritiene “istruttivo” illustrare. E questo viene fatto con un approccio differente da quello che veniva scelto ad esempio da “Domus”. In “Spazio e società”, si entra nel progetto cercando di capire il processo progettuale esplorandolo, e comprendendone l’essenza dentro il quale viene a costituirsi. Oltre ai progetti veri e propri pubblicati dagli autori stessi, vediamo come diversi collaboratori si siano posti in primo piano nella trattazione dei temi più cari alla rivista, ma anche a De Carlo stesso, il quale si impegnava, all’interno di ogni numero, di chiedere la collaborazione di diverse figure provenienti da ogni campo disciplinare, che potessero contribuire a dare visioni differenti sulla stessa tematica. Infatti, si trovano i diversi punti di vista degli autori nelle tematiche riguardanti la partecipazione, il recupero della creatività popolare, il senso della forma architettonica, il problema della qualità ambientale e, derivante da esso, la questione paesaggistica, che è stato un problema che sembrava non esistesse per l’architettura italiana del tempo, ma che invece determina la mancanza di una componente fondamentale dell’organizzazione dello spazio fisico. In questa direzione, hanno condiviso il proprio punto di vista e sapere, autori come Colin Ward, John Turner, Donlyn Lindon, Raman, Peter Smithson, Dalisi, e altri.

32


Moltissimi collaboratori si sono messi a disposizione nella stesura dei Dossier sulle città del mondo, ma anche di vari articoli all’interno di diversi numeri, a proposito delle diverse realtà architettoniche e urbane appartenenti sia al panorama italiano che estero. Questa è forse una, se non la più importante e innovativa forma di collaborazione che ritroviamo all’interno della rivista, in quanto gli autori chiamati ad interpretare e restituire una visione su queste realtà, appartenevano ai luoghi stessi e quindi restituivano un tipo di visione sincera e precisa, essendo coinvolti ne proponevano di riflesso un racconto coinvolgente anche per i lettori. Sul Terzo Mondo e il ruolo dell’architetto in questo contesto ha collaborato John Habraken, Theo Crosby, Pyotok, Doshi, Van Eyck e altri. Anche il tema della tecnologia è stato trattato da più punti di vista e più volte. De Carlo attribuisce alla tecnologia l’espressione di “un animale che può essere feroce o domestico secondo come ci si comporta nei suoi confronti”1. Si cerca quindi di dimostrare, tramite il contribuito di diversi collaboratori che hanno scelto di presentare i loro progetti, che se è “domestico” i suoi contributi sono positivi e fecondi, ma se è “feroce” i suoi apporti sono aridi, negativi fino ad essere distruttivi. Si tratta di questo tema prendendo spunto ed esempio dal progetto del quartiere laurentino a Roma di Pietro Barucci, che lo ha pubblicato sulla rivista in collaborazione con Crosby. Sul tema della tecnologia povera, si è data la parola a Van Eyck, Dalisi, Chermayeff, Ludovico Quaroni e Renzo Pia-

Una sezione longitudinale sulla rivista” appendice di “Spazio e Società – Space & Society”, dicembre 2001, 1

no, che ha discusso di tecnologie di intervento leggere per i centri storici. Parallelamente a questo tipo di interventi, la “battaglia” di De Carlo contro il neo-formalismo e il Postmoderno, viene portata avanti. Egli afferma che il pretesto della sua stessa esistenza si fondi su una distorsione fondamentale degli scopi dell’architettura. 33


Ciò porta ad assumere, nel nome della sua autonomia, che l’architettura finisce quando è disegnata: e perciò invece di costruirla e usarla, è meglio appenderla sotto forma di quadri nelle gallerie d’arte. Da qui -prosegue il pensiero di De Carlo- si arriva a sostenere che il Movimento Moderno e l’architettura stessa sono morti insieme. Molte riviste italiane si sono allineate a queste posizioni, e questo per Giancarlo De Carlo è inaccettabile; per affermare una diversa concezione dell’architettura e per rispondere a questa deriva del postmodernismo, De Carlo chiama a sé una schiera di collaboratori pronti a dare il proprio punto di vista a riguardo. Sul significato, la rilevanza e i limiti del Movimento Moderno hanno pubblicato Heres Jedece, Robbins, Quaroni, Jhon McKean, Daniele Pini, Luciana Miotto e Aldo Van Eyck. Insomma, ciò che emerge è questa idea secondo cui discutere è vitale per l’esistenza stessa della rivista, ed essa fa in modo di aprire molte discussioni. Non c’è solo l’intento di pubblicare, attraverso gli autori, fatti architettonici già accaduti; si vorrebbe invece esplorare i problemi attuali dell’architettura per esaminarli e farli dialogare, per riaccendere una passione che allora sembrava troppo flebile, se non addirittura esaurita. Il percorso che Giancarlo De Carlo si ripropone di seguire attraverso la rivista, porta la discussione lontano e sconfina oltre lo specifico del progetto architettonico. L’architettura è un campo ampio ed è un processo che tende a organizzare e a dare forma allo spazio fisico in modo da poter essere esperito con ragione, soddisfazione e spensieratezza dagli esseri umani.

34


1.4 La copertina e l’apparato iconografico Le copertine di «Spazio e Società» richiamano spesso, specie nella fase iniziale della vita della rivista, quanto è illustrato o discusso nel numero; inoltre è evidente una coerenza di aspetto tra le varie copertine dei diversi numeri, poiché attraverso la continuità della grafica è possibile recuperare la disomogeneità dei soggetti. Anche le immagini che si affiancano alle parti concettuali del testo, proprio per il loro misterioso e a volte muto accostamento, concorrono a creare un contesto ampio, uno scenario vasto che invita a decodificarne la presenza, in relazione, a conferma o a contrasto, con il contenuto dei testi. All’interno della rivista, i testi scritti sono quasi sempre accompagnati da immagini, prevalentemente fotografie, che riassumono perfettamente il contenuto del testo, rendendolo così più accessibile e comprensibile a tutti. Nell’illustrazione dei progetti, vengono sempre affiancati disegni tecnici che però non risultano indecifrabili al lettore meno esperto, ma, al contrario, è percepibile la volontà di rendere l’analisi del caso studio in esame, più approfondita e completa, ma che sia al tempo stesso chiara e leggibile.

35


2 IL DIBATTITO CULTURALE

36


Pagano Pogatschnig, Giuseppe fu architetto e urbanista (Parenzo 1896 Mauthausen 1945). Esponente di primo piano dell’architettura razionale in Italia, venne ucciso in un campo di sterminio nazista. Figura di primo piano nella storia dell’architettura razionale in Italia, attraverso la rivista Casabella, della quale fu direttore dal 1930 al 1943 (fino al 1936 in collaborazione con E. Persico), svolse un’infaticabile attività di divulgazione dei problemi dell’architettura moderna. Nel 1943 aderì al movimento di resistenza nelle file del Partito socialista e partecipò alla Resistenza; arrestato, fu deportato dai Tedeschi nel campo di concentramento di Mauthausen e ivi ucciso nell’aprile 1945. 3

Rògers, Ernesto Nathan fu un architetto (Trieste 1909 - Gardone 1969). Dopo essersi laureato al politecnico di Milano si unì a G. L. Banfi, L. Belgioioso e E. Peressutti, formando il gruppo BBPR. R. ha svolto anche un importante ruolo come docente (univ. di Milano, 1952-69), critico e saggista, attraverso la collaborazione a periodici come Le arti plastiche (1931-33) o La Fiera letteraria (1932-33) e soprattutto con la direzione di Quadrante (1933-36) e di Casabella-Continuità (1953-64). 4

2.1 Il dibattito architettonico in Italia e il ruolo delle riviste Per poter definire il ruolo che la rivista “Spazio e Società” diretta da Giancarlo De Carlo ha avuto all’interno del dibattito culturale dell’epoca, è necessario inquadrarla all’interno di un confronto con tre tra le principali riviste di architettura e urbanistica presenti in Italia nello stesso periodo. Infatti, come più volte ribadito, la rivista proposta da De Carlo, si è sempre differenziata dalle altre, sia per i temi trattati, caratterizzati da una forte impronta sociale e da un interesse verso realtà non solo italiane, che si riferivano ad un panorama più vasto, di stampo internazionale, sia per la forte presenza della “voce” del direttore, percepibile dall’inizio alla fine della pubblicazione. Dopo il 1978, la rivista ha infatti sempre mantenuto De Carlo come unico direttore, e questo ha contribuito a conferirle una forte identità e coerenza, e in un certo senso ad identificarla con la figura intellettuale del suo direttore. In particolare quindi, si è reso necessario un confronto con le riviste “Domus”1 e “Casabella”2, in quanto risultano le più diffuse in quel periodo, in Italia. Si può dire che la direzione delle riviste di architettura italiane coincida in larga misura con la trattazione del ruolo della cultura architettonica moderna nella società italiana. Una cultura che ha visto “Casabella”, soprattutto dalla direzione

di Pagano3 e poi di Rogers4, come un utile strumento di riflessione sull’architettura moderna e sui suoi rapporti con i problemi della società a loro contemporanea.

37


1 La rivista “Domus” fu fondata da Gio Ponti e da Giovanni Semeria nel 1928. Dal 1929 nasce “Editoriale Domus”, che ancor oggi la pubblica. Nel 1941 Ponti lascia la direzione che viene affidata a Massimo Bontempelli, Giuseppe Pagano e Melchiorre Bega. Nel ’42 Guglielmo Ulrich prende il posto di Giuseppe Pagano. Melchiorre Bega sarà direttore dal 1943. Nel 1946 «Domus» riprende, dopo un anno di sospensione, le pubblicazioni sotto la direzione di Ernesto Nathan Rogers. Cambia la grafica, ed è dichiarata la volontà di continuità culturale con il periodo della direzione Ponti. In quegli anni collaborano alla rivista alcuni intellettuali come Elio Vittorini e Alberto Moravia. L’Editoriale Domus nello stesso anno acquista la rivista “Casabella”, diretta dal 1946 al 1953 da Franco Albini e Giancarlo Palanti, successivamente affidata a Ernesto Nathan Rogers, fino al 1964. La direzione di “Domus” ritorna a Gio Ponti nel 1948. Dal 1976 Cesare Casati si affianca a quest’ultimo come direttore responsabile, la rivista inizia ad inserire traduzioni in inglese e francese, fino ad assumere la struttura bilingue attuale. Nascono delle rubriche come “Memoires di panna montata”, diario di viaggio di Ettore Sottsass, e le “Lettere” al mondo dell’arte di Pierre Restany. La direzione viene affidata ad Alessandro Mendini, nel 1979, stesso anno in cui muore Gio Ponti. In quegli anni la veste grafica è curata da Ettore Sottsass. Dal 1986 è direttore Mario Bellini, che affida a Italo Lupi il progetto grafico. Dal 1988 al 1990 escono 6 numeri con versione in lingua russa e nel 1989 esce un’edizione in lingua cinese. Dal 1992 è direttore Vittorio Magnago Lampugnani, che affida il progetto grafico ad Alan Fletcher. Dal 1996 al luglio 2000 essa è diretta da François Burkhardt. Nel 2000 è direttore Deyan Sudjic che affida il progetto grafico a Simon Esterson. Stefano Boeri sarà direttore dal gennaio 2004 all’aprile 2007. Nel 2005, anno della morte di Giancarlo De Carlo, «Domus» gli dedica un quaderno speciale che contiene alcuni articoli che questi vi aveva già pubblicato, l’elenco degli scritti a lui dedicati e due interviste. Dal 2007 il direttore della rivista è Flavio Albanese. Alessandro Mendini riprende la direzione della rivista nel 2010, inserendo il sottotitolo “La nuova utopia”. Inoltre è affidata a Joseph Grima la creazione di «Domus Web» e successivamente gli è affidata anche la rivista cartacea, la cui grafica è dello studio veneziano Salottobuono. Il primo numero della direzione Grima è il 946, dell’aprile 2011. Dal settembre 2013 diventa direttore Nicola Di Battista, già vicedirettore della rivista negli anni ‘90, affiancato da un Collegio di Maestri (David Chipperfield, Kenneth Frampton, Hans Kollhoff, Werner Oechslin e Eduardo Souto de Moura) e da un Centro studi di giovani professionisti.

La rivista “La Casa bella” nasce nel gennaio 1928. Edita dallo Studio Editoriale Milanese, ha cadenza mensile ed è diretta da Guido Marangoni. All’inizio del 1933, Giuseppe Pagano, che già collabora alla rivista con Edoardo Persico, ne assume la direzione, modificando il titolo in “Casabella”. 
Il cambio di direzione coincide con l’acquisto della testata da parte dell’Editoriale Domus. Nel 1935, a Pagano si affianca come condirettore Persico. Nel 1938, al titolo “Casabella” viene aggiunta la parola «Costruzioni». Nel 1940, i termini vengono invertiti e il titolo diventa “Costruzioni-Casabella”. Nel dicembre del 1943 la rivista è sospesa dal Ministero della Cultura Popolare. Dopo due anni, l’editore Gianni Mazzocchi la riorganizza affidandone la direzione a Franco Albini e a Giancarlo Palanti. Nel 1946 appaiono così tre numeri di «Costruzioni», tra i quali il numero monografico dedicato a Giuseppe Pagano. 
Segue un nuovo periodo di sospensione dal 1947 al 1953. Nel gennaio 1954 esce “Casabella-Continuità”, diretta da Ernesto Nathan Rogers fino al gennaio 1965. A partire dall’agosto 1965, e fino al maggio 1970, la direzione viene affidata a Gian Antonio Bernasconi e la rivista torna a chiamarsi soltanto «Casabella». 
Dopo Bernasconi è la volta di Alessandro Mendini fino a marzo 1976, sostituito, da aprile a dicembre dello stesso anno, da Bruno Alfieri. Dal gennaio 1977 la rivista viene pubblicata dal Gruppo Editoriale Electa, con la direzione di Tomás Maldonado fino al dicembre 1981. La direzione passa a Vittorio Gregotti nel marzo 1982. Dal marzo 1996 Gregotti viene sostituito dall’attuale direttore, Francesco Dal Co. Nel frattempo, la casa editrice Mondadori ha assorbito il Gruppo Editoriale Electa e, a partire dall’aprile 2002, la rivista è pubblicata dalla Arnoldo Mondadori Editore. 2

38


Maldonado, Tomás. Fu pittore, designer e saggista argentino (n. Buenos Aires 1922). Membro fondatore del gruppo d’avanguardia argentino Arte concreto, ha svolto un ruolo importante nello sviluppo dell’arte moderna nei paesi latino-americani. Interessato al disegno industriale, ne ha ricercata, in polemica con la teorizzazione del Bauhaus, una qualificazione come indagine tecnico-scientifica, il più possibile svincolata dalle esigenze del consumo. In seguito ha posto l’accento sulla necessità di un’intenzione politica di ogni intervento nel nostro ambiente. È stato direttore di Casabella (1979-83). 5

Gregòtti, Vittorio. È un architetto italiano (n. Novara 1927). Fin dalle prime opere, che si inseriscono nel clima di recupero di valenze formali e tecniche di tradizioni precedenti il movimento moderno, il concettualismo compositivo di G. tende a ricercare un possibile dialogo tra geografia e segno architettonico, interrelato con un combattuto rapporto con la storia. 6

Alessandro Mendini (Milano, 16 agosto 1931) è un architetto, designer e artista italiano. primaria importanza di architettura tra le quali Domus, Casabella. 7

Un’eredità consapevole che, prima con Tòmas Maldonado5 e poi con Vittorio Gregotti6 (dal 1982 al 1996), è diventata anche un laboratorio di scrittura critica. Se da una parte “Casabella” si è strutturata come una rivista che poneva riflessioni sul moderno e interrogativi sul ruolo dell’architetto, dall’altra «Domus» si è configurata come una rivista rivolta al continuo aggiornamento culturale dei professionisti; ha sempre tenuto in grande considerazione tutta la tematica dell’architettura degliinterni, con attenzione particolare al loro arredo e alle novità prima della “produzione artistica per l’industria”, poi del design. Sintomatico di quest’ultimo interesse è che fin oltre la metà degli anni ‘60 le collezioni della rivista sono presenti nelle biblioteche di molti Istituti scolastici superiori, professionali e d’arte. Se volessimo sintetizzare schematicamente le differenze ricorrenti e più significative presenti tra le due riviste, “Casabella” e “Domus”, potremmo dire che alla prima premeva più il “perché” mentre alla seconda interessava più il “come”. Questi sono i caratteri che le due riviste hanno mantenuto per molti anni. Tuttavia, osservando più attentamente, possiamo anche dire che con la direzione di Alessandro Mendini7 la rivista “Domus” ha mantenuto per due stagioni una posizione radicale, dopo la quale la rivista ha manifestato un’accelerazione culturale, evidente con il continuo cambio di direttori. Le diverse traiettorie di «Domus» negli ultimi decenni potrebbero essere interpretate come un vero e proprio ba-

rometro delle mode e delle tendenze più internazionali che dalla fine degli anni Ottanta, e con ritmo triennale, si sono rispecchiate con il succedersi di nuovi direttori. Gli intenti di “Spazio e Società” invece, sono ben differenti da quelli appena presentati, così come lo stesso De Carlo affermerà in seguito alla chiusura della rivista: 39


“La rivista si è interessata di un ampio orizzonte, non soltanto di opere. Mentre l’architettura si andava globalizzando, noi eravamo alla ricerca di cose che avessero genuinità, freschezza e aderenza alle situazioni. L’architettura deve avere questa radice di attività umana, in fondo fare architettura vuol dire proiettare il proprio corpo nello spazio. Abbiamo cercato in tanti campi e le cose che ci entusiasmavano di più erano per un certo periodo le architetture di altri luoghi che non fossero l’Europa occidentale o gli Stati Uniti d’America; ci siamo occupati delle architetture Africane, Indiane o di architetti che in fondo erano africani o indiani pur essendo italiani, come i napoletani, perché avevano questa immaginazione e generosità che li portava a guardare al mondo nel suo complesso e a considerare l’architettura uno strumento importante per migliorare le condizioni umane o contribuire a ciò; quindi ci interessavano anche quelli che avevano più bisogno di avere il contributo dell’architettura per migliorare le proprie condizioni. […] Naturalmente per me è un dispiacere che “Spazio e Società” non esca più. Adesso ci sono soltanto riviste patinate, che in fondo non dicono quasi niente, illustrano la situazione attuale ma non indicano orientamenti alternativi o mostrano la complessità dell’architettura. Sembra che tutto sia molto semplice: si costruisce, deve essere bello, ma di tutto il problema vero dell’architettura non si parla; per ora almeno, poi le cose cambieranno”.1

1

Conversazione con Giancarlo De Carlo, (a cura di) Davide Vargas, in www.archimagazine.com

40


2.2 Dai CIAM al Team X

Team 10 a Otterlo Il CIAM (Congresso Internazionale di Architettura Moderna) venne fondato da un gruppo di ventotto architetti nel 1928 a La Sarraz, in Svizzera. Tra i principali membri che fondarono questa organizzazione ci furono Le Corbusier, Hélène de Mandrot, e Sigfried Giedion. Lo scopo principale dei CIAM era quello di promuovere la discussione sulla creazione di un’architettura e di un’urbanistica funzionali. In particolare, si intendeva migliorare le condizioni di esistenza nella città moderna. Uno dei documenti più importanti prodotti a seguito del CIAM del 1933, fu la Carta di Atene, che rappresenta il testo fondatore dell’architettura e della concezione della città moderna. I CIAM si sciolsero nel 1959 a Otterlo, a causa delle ormai divergenti opinioni dei partecipanti, che non riuscivano più a trovare un punto di incontro. 1

Per poter comprendere più a fondo il ruolo che la rivista Spazio e Società assume all’interno del contesto storico e culturale dell’epoca, è necessario fare riferimento alla posizione del suo direttore, Giancarlo De Carlo, che si dimostrò fin dagli inizi molto coinvolto all’interno del dibattito che si era aperto in seguito alla necessità di ricostruzione del Dopoguerra. Infatti, molte città uscirono completamente distrutte dagli anni della guerra e il problema della ricostruzione in questo ambito non coinvolgeva solamente l’aspetto architettonico, ma anche e soprattutto quello morale e culturale nei confronti di una società che aveva la necessità di ritrovare un’identità che era stata spazzata via dalle devastazioni del conflitto. Questa problematica era stata posta come questione principale su cui i maggiori esponenti dell’architettura e dell’urbanistica del tempo avevano discusso in sede ai CIAM1 negli anni successivi alla guerra; una sede di dibattito a cui Giancarlo De Carlo aveva partecipato, sotto invito di Ernesto Nathan Rogers, già a partire dal1955. De Carlo, pur non essendo del tutto a favore della direzione che i CIAM stavano prendendo negli ultimi anni, accetta di partecipare poiché riteneva la discussione attorno ai temi della ricostruzione un passaggio fondamentale per la svolta dell’architettura; inoltre riteneva questa un’occasione unica di confronto e scambio di idee con importanti esponenti provenienti da altre nazioni e quindi rappresentava per lui un’opportunità di arricchimento culturale molto significativa. La riunione che si tenne nel 1955 ebbe la funzione di preparare il successivo CIAM che si sarebbe tenuto a Dubrovnik. 41


Il direttore della riunione in questa occasione fu Sigfried Giedion1 che, visti i rapporti tesi tra i vari partecipanti, li incoraggiò a invitare al dibattito anche figure più giovani, nella speranza che si potessero discutere nuove idee con un approccio più aperto, meno legato a posizioni già consolidate. Rogers aveva già intuito il disaccordo del pensiero di De Carlo rispetto al suo e a quello dei membri del CIAM in generale, poiché fu egli stesso ad affidare un articolo per la rivista “Casabella-Continuità”2 a De Carlo. In questo articolo De Carlo criticò aspramente sia Rogers, per il fatto di non prendere una posizione ben specifica nella direzione della sua rivista, sia la Scuola di Architettura in generale, per il fatto di non preparare gli studenti ad affrontare i problemi più ordinari e sentiti dalla gente comune, e di insistere al contrario su un modello antico e ormai superato, in cui si prende ancora esempio dall’architettura classica del passato, che però risultava agli occhi dei De Carlo privo di attinenza con gli approcci progettuali che si richiedevano in quegli anni di profonde trasformazioni anche sul piano sociale. Riallacciandosi all’opinione espressa nell’articolo per ”Casabella-Continuità”, durante il CIAM tenutosi a Otterlo nel 1959, De Carlo dichiara che ormai il dibattito non si presentava più come determinante di una situazione di emergenza che si stava verificando immediatamente in seguito alla fine della guerra, in quanto ancora si parlava di una conformazione di città che era stata completamente spazzata via, e che quindi non poteva essere più interpretata da un punto di vista che fondava le sue basi negli antichi modelli di riferimento. Per De Carlo la necessità era piuttosto quella di partire dalle vicende storiche appena accadute per cercare di ricostruire quell’identità perduta durante gli anni del conflitto.

42

Team 10 a Spoleto, Italia, 1976. Da sinistra: De Carlo, Peter Smithson, Van Eyck, Richards, Guedes, Alison Smithson, Coderch. Fotografia di Sandra Lousada.

Sigfried Giedion (Praga, 14 aprile 1888 - Zurigo, 10 aprile 1968) è stato uno storico e critico dell’architettura. Nel 1923 frequentò la Bauhaus e incontrò Walter Gropius. A partire da quell’incontro si avvicinò sempre di più alla Bauhaus e ai suoi protagonisti, diventando lui stesso un precursore del Movimento Moderno. Nel 1928 fondò, assieme a Le Corbusier e Helène de Mandrot, il CIAM, dei quali fu anche segretario generale. 1


Si tratta dell’articolo intitolato “Problemi concreti per i giovani delle colonne”, pubblicato sul numero 204, febbraio-marzo del 1955 di “Casabella-Continuità”, allora diretta da Ernesto Nathan Rogers. Qui De Carlo critica duramente una Scuola di Architettura che si ostinava ad insegnare ai suoi studenti a rievocare uno stile di architettura ormai appartenente al passato e che non poteva più essere applicato come soluzione di problemi che riguardavano la vita quotidiana dell’uomo comune: “La comodità di non assumere impegni di punta, di tenersi al riparo dalle rischiose novità del pensiero architettonico, si paga generando greggi di studenti che tirano a campare e anche – qualche volta – minoranze di studenti che non sanno contenere la loro irritazione. […] Invece i problemi dell’architettura contemporanea non hanno nulla a che fare con l’Uomo Universale. Riguardano l’uomo comune e sempre diverso che ha bisogno di case, scuole, edifici pubblici, strade, piazze, quartieri ecc., sempre diversi per ogni ambiente, per ogni situazione, per ogni circostanza. Questi problemi non si risolvono per un miracolo, risuscitando vecchi linguaggi mummificati. Si affrontano sottoponendo ad una critica rigorosa e profonda tutti i fatti architettonici che ci hanno preceduto; trovando i mezzi per capire meglio ed essere partecipi dei bisogni della gente per la quale vogliamo lavorare, precisando il senso del nostro mestiere di architetti nella società̀ in cui viviamo.” 2

Questa operazione però non poteva partire semplicemente dalla ricostruzione materiale dei luoghi e delle case, doveva piuttosto partire da una vicinanza tra gli intellettuali e la gente che consentisse di comprenderne a fondo i bisogni e le esigenze, in un approccio partecipativo che coinvolgesse chi quei luoghi e quelle case le abitava, e le conosceva dunque meglio di ogni altro. L’architettura, secondo De Carlo, non poteva più prescindere dal colloquio con la società, ma anzi doveva fondarsi su di essa, nella creazione di un nuovo linguaggio che interpretasse il modo di vivere e le necessità delle persone in primis, piuttosto che assecondare le vanità di architetti il cui solo scopo rischiava di essere l’autocelebrazione di sé stessi. “Lo scopo dell’architettura non è di produrre “oggetti” ma di dare organizzazione e forma allo spazio in cui si svolgono le vicende umane, sviluppando “processi”; che ad un certo punto danno luogo a configurazioni fisiche, ma cominciano prima del loro materializzarsi e continuano oltre il loro dissolvimento, prolungandosi nella memoria e proiettandosi su altri processi. […] L’essenza dell’architettura è nelle relazioni che intercorrono tra le sue configurazioni, il mondo fisico che le circonda, chiunque la esperisca nell’uso e nella contemplazione e perfino per casuale incontro. […] L’architettura è il sistema di comunicazione più completo e significante di cui gli esseri umani dispongano per esprimersi e per rappresentarsi. […] Nei nostri giorni invece è raro vedere nascere uno “spazio” che diventi “luogo”, cioè una configurazione fisica intensamente usata e esperita dalla gente; ed è altrettanto raro di trovare esseri umani ancora in grado di esprimersi e di rappresentarsi attraverso il linguaggio architettonico. È come se la specie umana fosse stata proditoriamente espropriata del diritto di rivelare le ragioni e le vicende della sua esistenza attraverso l’organizzazione e la forma del suo ambiente…”. (Giancarlo De Carlo, Editoriale, in <<Spazio e Società>>, n.7, settembre 1979, pp. 3-4)

43


Immagine tratta da http:// www.palazzoducale.genova.it/giancarlo-de-carlo-schizzi-inediti/

44


1

Appunti per una biografia con frammenti autobiografici, in L. Rossi, Giancarlo De Carlo, Mondadori, Milano, 1988, p. 237

2.3 La figura di Giancarlo De Carlo e il ruolo che ha avuto all’interno del dibattito sull’Architettura del Dopoguerra

Lelio Basso fu un uomo politico italiano (Varazze 1903 - Roma 1978). Deputato e senatore in più legislature e per più raggruppamenti (PSI, PSIUP, sinistra indipendente), per tutta la vita si dedicò al progetto di una società socialista e alla battaglia per i diritti umani, dando vita a fondazioni politico-culturali di grande peso e facendosi promotore di importanti iniziative internazionali.

Giancarlo De Carlo nasce a Genova il 12 dicembre 1919. Il padre era un ingegnere navale di origini siciliane, mentre la madre piemontese, visse nella sua città natale, a Livorno fino al 1922, data di separazione dei genitori, a seguito della quale si trasferì con i nonni paterni in Tunisia. Qui risiede dal 1930 al 1937, frequentando le scuole medie e il liceo. Tornato in Italia nel 1938, su suggerimento del padre frequenta il corso di ammissione all’Accademia navale di Livorno, ma decide di lasciare quegli studi, per poter iscriversi nel 1939 alla Facoltà di ingegneria del Politecnico di Milano, laureandosi nel 1943. Durante l’esperienza universitaria, stringe forti legami con l’ambiente antifascista. Durante lo svolgimento della seconda guerra mondiale, viene arruolato come ufficiale di Marina. Questa esperienza di vita sulla nave, segnerà moltissimo la sua futura attività di progettista: “mi concentravo sulla nave come artefatto e come luogo sociale. Dell’artefatto osservavo la tecnologia intelligente e domestica, del luogo sociale la capacità di organizzare attività umane per affrontare con competenza, tempestività e humor, situazioni particolarmente difficili”.1 L’8 settembre 1943, in seguito all’armistizio, entra in clande-

2

Franco Albini (Robbiate, 17 ottobre 1905 – Milano, 1º novembre 1977) è stato un architetto e designer italiano; è stato uno dei più importanti e rigorosi architetti italiani del XX secolo, aderente al Razionalismo italiano, riconosciuto internazionalmente attraverso un’ampia pubblicistica delle sue opere. 3

Irenio Diotallevi (Voltri, 10 gennaio 1909 – Milano, 22 aprile 1954) è stato un ingegnere e architetto italiano. 4

Le Brigate Matteotti furono, durante la Resistenza, delle formazioni partigiane legate al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP). Furono uno dei cinque principali gruppi politici partigiani che parteciparono alla lotta di liberazione nazionale. 5

stinità e partecipa alla Resistenza, come membro del Movimento di Unità Proletaria (MUP), gruppo fondato nel 1943 da Lelio Basso2, di cui facevano parte anche Franco Albini3 e Irenio Diotallevi4. In seguito, a Milano, si organizza insieme a Giuseppe Pagano, in un gruppo partigiano di tendenza anarchico-libertaria (le Brigate Matteotti5). 45


De Carlo, a proposito di quel periodo afferma: “era un’epoca di sentimenti profondi […] Pensavamo che la società sarebbe stata diversa da quella che c’era stata e pretendevamo di prepararla. Nelle pause tra le azioni, in città dopo il coprifuoco, studiavamo e discutevamo non solo di politica ma anche di arte e architettura”.1 Questo stretto rapporto di amicizia e continuo scambio con Pagano, fa scaturire in De Carlo uno spiccato interesse per la necessità di un costante impegno etico e civile dell’architettura e del ruolo dell’architetto, in modo da dare una voce e una risposta alle esigenze della gente. Alla fine della guerra pubblica a Milano nel 1945, il volume Le Corbusier. Antologia critica degli scritti, mentre vive per un certo periodo insieme allo stesso Pagano e a Giuliana Baracco, sua futura moglie e madre dei due figli Andrea (nato nel 1952) e Anna. In questo periodo, comincia anche la collaborazione con la rivista anarchica “Volontà”, in cui De Carlo esprime le sue idee sociali riguardo ai temi della ricostruzione e del bisogno di alloggi popolari. Pur partecipando a diversi convegni del Movimento anarchico, la sua attività politica stava via a via diminuendo, a favore di una sempre maggiore dedizione ai temi dell’architettura e dell’urbanistica e alle loro ricadute di ordine sociale. Nel 1947, partecipa alla VIII Triennale di Milano, con tre progetti mai realizzati per il quartiere sperimentale QT8. Due anni dopo, nel 1948, riprende gli studi all’Istituto Universitario d’Architettura di Venezia (IUAV), dove consegue la laurea nel 1949. In questo periodo, lavora presso lo studio di Franco Albini con il quale, assieme a Luisa Castiglioni, partecipa nel 1948 alla redazione del piano regolatore di Reggio Emilia, suo primo lavoro di progettazione urbana.

46

Immagini tratte da www. archivio.archphoto.it

Irenio Diotallevi (Voltri, 10 gennaio 1909 – Milano, 22 aprile 1954) è stato un ingegnere e architetto italiano.


Dizionario biografico, in A. Belluzzi, C. Conforti, Architettura Italiana 1944-1984, Laterza, Roma-Bari, 1985 1

Giancarlo De Carlo, L’architettura della partecipazione, a cura di Sara Marini, Quodlibet, Macerata, 2013 2

Il Movimento Moderno nella storia dell’architettura fu un periodo collocato tra le due guerre mondiali, teso al rinnovamento dei caratteri, della progettazione e dei principi dell’architettura, dell’urbanistica e del design. Ne furono protagonisti quegli architetti che improntarono i loro progetti a criteri di funzionalità ed a nuovi concetti estetici. È stato uno dei più importanti movimenti della storia dell›architettura, influenzando più o meno direttamente tutta l›architettura e l›urbanistica del XX secolo. Vengono ricordati come Maestri del Movimento Moderno Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius, Frank Lloyd Wright, Alvar Aalto e Giovanni Michelucci. Il movimento si identificò nel momento della sua massima espressione, negli anni venti e trenta del XX secolo. Un impulso determinante al movimento fu dato dai CIAM, promossi da Le Corbusier, che erano dei congressi internazionali dove vennero elaborate molte delle teorie e principi che furono poi applicati nelle varie discipline. A questo movimento appartengono il De Stijl, il Bauhaus, il Costruttivismo, il Razionalismo italiano; nel 1936 fu coniato negli USA il termine International Style, con il quale spesso viene denominato tutto il movimento. 3

Decide di aprire il suo studio di architettura nel 1950, a Milano. Dal 1946 al 1948 pubblica sulla rivista “Domus” i suoi primi scritti ed è allora che conosce Ernesto Nathan Rogers, allora direttore della rivista. Rogers lo inserisce, nello stesso periodo, nel comitato di redazione di “Casabella-Continuità”, ruolo che però abbandonerà nel 1956, a causa del rapporto conflittuale “complicato e contrastato però affettuoso e molto leale” 1, con lo stesso Rogers. Nonostante ciò, Rogers gli offrirà le prime occasioni di partecipazione al dibattito architettonico nazionale e internazionale. Occasioni che diventeranno concrete con la partecipazione come membro italiano ai CIAM del 1956. Durante questo congresso, De Carlo presenta un suo progetto di un complesso di case popolari a Matera, in cui tutti i principi di Le Corbusier e dell’Architettura Moderna vengono messi da parte per dare spazio ad una maggiore attenzione nei riguardi del contesto geografico, sociale e climatico della regione. <<Dico subito che secondo me l’architettura del futuro sarà caratterizzata da una partecipazione sempre maggiore dell’utente e alla sua definizione organizzativa e formale. Oppure – facendo uno sforzo per non confondere troppo quello che accadrà con quello che vorrei accadesse – dirò che secondo me gli architetti contemporanei dovrebbero fare di tutto perché nei prossimi anni fosse sempre meno la rappresentazione di chi la progetta e sempre più la rappresentazione di chi la usa>>.2 Questo approccio segna una definitiva rottura nei confronti di quella “vecchia” generazione di architetti e del mito del modello di architettura internazionale unico.3 47


Queste rotture e divergenze all’interno dei CIAM, ne segnarono la rottura definitiva e il conseguente scioglimento che avvenne nel 1959 ad Otterlo. Parallelamente, in occasione del pre-convegno tenutosi a La Sarraz del 1955, si viene a creare il cosiddetto Team X, ovvero il comitato formato dal gruppo dei “giovani”, che era stato incaricato dell’organizzazione del decimo CIAM a Dubrovnik, e di cui De Carlo fece parte. “Di ogni gruppo nazionale erano stati invitati a La Sarraz due rappresentanti, uno anziano e uno giovane (Rogers mi aveva designato come giovane del gruppo italiano), delegati a discutere l’organizzazione del Convegno di Dubrovnik. La mattina del primo giorno gli anziani – Giedion, Max Bill, la Tyrwhitt, Wogensky, Rogers […] – si erano chiusi in una stanza e a metà pomeriggio non erano ancora usciti a comunicarci come avevano deciso che si discutesse. Allora noi seccati, abbiamo cominciato a discutere per conto nostro e, […] a mostrare agli altri i nostri lavori. Così si è formato il Team X”. Il periodo tra il 1955 e il 1959 vede De Carlo impegnato in diversi progetti, sia di architettura che di urbanistica, tra cui: il concorso per la sistemazione urbanistica della pineta di Donoratico a Grosseto (1956) che vince, il progetto per la casa studio del pittore Zigaina a Cervignano del Friuli (1958), il progetto di un complesso di edilizia residenziale pubblica, il quartiere Feltre a Milano, nel quale è capogruppo di uno dei dieci team di progettisti coordinati da Gino Pollini (1959). Nel 1956 Giuseppe Samonà chiama De Carlo ad insegnare allo IUAV, dove occuperà la cattedra del corso Elementi di architettura, fino al 1964. In questo contesto si confronta con figure del calibro di Franco Albini, Carlo Scarpa, Lodovico Belgiojoso, Mario De Luigi, Giovanni Astengo e Bruno Zevi, anche loro facenti parte del corpo accademico.

48

Giuliana Baracco, foto tratta da «Una sezione longitudinale della rivista», appendice di «Spazio e Società – Spaces & Society», 2001, p. 8

Casa Zigaina, Giancarlo De Carlo www.atlasofinteriors.polimi-cooperation.org


Il Sessantotto (o movimento del Sessantotto) è il fenomeno socio-culturale avvenuto nel 1968 nel quale grandi movimenti di massa socialmente eterogenei (operai, studenti e gruppi etnici minoritari), formatisi spesso per aggregazione spontanea, attraversarono quasi tutti i Paesi del mondo con la loro forte carica di contestazione sui pregiudizi socio-politici. La portata della partecipazione popolare e la sua notorietà, oltre allo svolgersi degli eventi in un tempo relativamente ristretto e intenso, contribuirono a identificare il movimento col nome dell’anno in cui esso si manifestò (o fu più attivo). Il Sessantotto è stato un movimento sociale e politico che ha diviso l’opinione pubblica: molti commentatori sostengono che sia stato uno straordinario momento di crescita civile, mentre per altri è stato il trionfo di un atteggiamento lassista che avrebbe rovinato la società italiana, e del conformismo di massa in cui i figli della borghesia avrebbero voluto abbattere il sistema borghese. L’Università necessitava di una ventata rinnovatrice: nel 1956-1957 gli iscritti ai corsi di laurea erano circa 212.000, mentre dieci anni dopo erano saliti a quota 425.000, per cui quella che era l’Università d’elite diventò Università di massa. L’insegnamento era in mano ai «baroni», i docenti dei corsi importanti si rivolgevano a una calca di allievi che a stento ne percepivano la voce, era sottovalutata o ignorata l’esigenza di laboratori e seminari che preparassero gli studenti all’attività professionale, e molti professori comparivano solo per le lezioni e con i ragazzi non avevano nessun rapporto umano. 5

Nel 1958 l’incarico per la redazione del piano regolatore della città di Urbino e dei piani particolareggiati del centro storico, segnano l’inizio della stretta collaborazione tra l’architetto e questa città, che darà luce a una serie di progetti che comprendono, fra gli altri, il campus e le strutture della nuova Università di Urbino, del 1965. La rivolta studentesca avvenuta nel 19681 coinvolse molto De Carlo, che aprì un dialogo diretto con i suoi studenti e pubblicò diversi scritti, in cui teorizzava una gestione dell’architettura più democratica e aperta, mettendo in discussione il metodo di insegnamento tradizionale. Nel 1970 partecipa al dibattito sulla costituzione del nuovo corso di laurea in Urbanistica a Venezia, insieme a Giovanni Astengo e ne diventa, nello stesso anno, professore ordinario di Urbanistica II. La metà del 1970 segna una svolta definitiva, tramite l’avvio di due esperienze autonome del tutto innovative: nel 1976 fonda il Laboratorio Internazionale di Architettura e Urbanistica (ILAUD) e, nel 1978, la rivista <<Spazio e Società>>. Tramite l’ILAUD, l’obiettivo era quello di <<esplorare nuove metodologie e tecniche di progettazione […] promuovere contatti tra docenti e studenti di vari paesi al fine di innescare un dibattito sui problemi architettonici che appaiono di fondamentale importanza>>2. Nel 1983 lascia l’insegnamento di Urbanistica a Venezia, a favore della Facoltà di architettura di Genova, dove prenderà l’insegnamento di Composizione architettonica. Con questa decisione, mette un punto definitivo alle esperienze precedenti, distaccandosi da quel filone di riflessione dell’urbanistica “ufficiale”, dominante negli anni ’70, di cui non condivideva molti dei presupposti e degli sviluppi disciplinari. L’anno 1989, sancirà il definitivo abbandono dell’insegnamento. 49


Più volte Giancarlo De Carlo, viene invitato nelle università di tutto il mondo per tenere conferenze ed incontri, ricevendo moltissimi premi e riconoscimenti. Nel 2004 il Centre Pompidou a Parigi, gli dedica una monografia e a Roma, tre giorni prima della sua morte, avvenuta il 4 giugno 2005, è inaugurata una grande mostra retrospettiva in cui lo stesso De Carlo ha curato l’allestimento e la scelta non cronologica dell’esposizione.

Nella pagina accanto, immagine tratta da http:// www.mparchitects.com/ site/thoughts/giancarlo-de-carlo

Report, Two lectures on Urbino, Terni: a housing for the workers of asteel-mill. A case study on participation, The multi-polar university of Pavia, in 1st Residential Course Urbino 1976, ILAUD, Urbino, p. 5 2

50


51


3 TEMI

52


3.1 La “voce” di Giancarlo De Carlo

Il CIAM (Congresso Internazionale di Architettura Moderna) venne fondato da un gruppo di ventotto architetti nel 1928 a La Sarraz, in Svizzera. Tra i principali membri che fondarono questa organizzazione ci furono Le Corbusier, Hélène de Mandrot, e Sigfried Giedion. Lo scopo principale dei CIAM era quello di promuovere la discussione sulla creazione di un’architettura e di un’urbanistica funzionali. In particolare, si intendeva migliorare le condizioni di esistenza nella città moderna. Uno dei documenti più importanti prodotti a seguito del CIAM del 1933, fu la Carta di Atene, che rappresenta il testo fondatore dell’architettura e della concezione della città moderna. I CIAM si sciolsero nel 1959 a Otterlo, a causa delle ormai divergenti opinioni dei partecipanti, che non riuscivano più a trovare un punto di incontro. 1

3.1.1 Gli Editoriali La presenza del direttore della rivista “Spazio e Società”, Giancarlo De Carlo, ha sicuramente influenzato molto i temi e i contenuti che venivano più volte trattati all’interno del periodico e che, senza dubbio, dominavano nel pensiero di De Carlo stesso. La “voce” di De Carlo si esprime nella rivista attraverso gli Editoriali, contenuti all’inizio di ogni numero, a volte sotto forma di testi, a volte di immagini. Attraverso una loro rilettura in sequenza è possibile costruire una prima periodizzazione, per grandi categorie, della vicenda complessiva che ha riguardato la rivista, anche se l’editoriale del direttore, nel caso di “Spazio e Società”, è sempre stato qualcosa di parzialmente autonomo, non sempre legato agli specifici contributi ospitati di volta in volta nei numeri della rivista. Infatti essi rappresentano, più che altro, riflessioni personali di De Carlo, rese pubbliche e messe a disposizione di tutti i lettori; una occasione per il direttore di attivare una riflessione e un dialogo con il mondo culturale – degli architetti ma non solo – più che la presentazione di progetti o “esempi” da seguire. Gli inizi e la preparazione del programma di lavoro

I primi editoriali si configurano come la spiegazione, da parte del direttore, dell’assetto, degli intenti e delle modalità con cui intende proseguire con la rivista. Infatti, come già anticipato in precedenza, la rivista, nei primi anni, subisce diversi cambi di direzione e di editore, e De Carlo sente il bisogno di ricominciare da capo nel proposito di garantire 53


una situazione più stabile all’interno del programma di lavoro che intende portare avanti. Quindi questi primi editoriali si configurano come un’enunciazione di principi e di assunti che guideranno il lavoro futuro. Non si ha alcun elenco dei contenuti o dei temi che verranno trattati, ma è più una fase caratterizzata dall’apertura al dibattito, al confronto e alla volontà di rimettere in discussione ogni proposizione che sembra essere il manifesto della rivista ai suoi esordi. Viene incoraggiato da De Carlo quel desiderio di approfondire e in un certo senso aggravare i dissensi, “provarli sul terreno concreto dei problemi reali, creando scissioni che permettono di ridimensionare i propositi e verificare i mezzi”1; uno spirito che aveva già portato De Carlo a prendere le distanze da Ernesto Nathan Rogers, allora direttore di “Casabella-Continuità”2. La volontà del direttore viene esplicitamente dichiarata: la rivista è pensata per porre questioni, più che per dare risposte; si tratta di sollecitare riflessioni su temi importanti e trasversali alle discipline del progetto, non di indicare in modo univoco linee operative Ed è proprio con questo intento che viene dato l’avvio alla rubrica intitolata Questioni, che caratterizzerà tutta la prima fase della pubblicazione della rivista e che la distinguerà dalle altre, dove “non si fa che sfornare risposte perentorie, come se l’architettura avesse raggiunto tutti i suoi scopi. […] Secondo noi […] gli scopi non sono stati raggiunti ma neppure sono stati definiti in modo congruo alla reale sostanza dell’architettura e della società contemporanea; anzi si sono così ri-confusi da imporre di cominciare da capo a lavorare su concetti, metodi, strumenti e sui loro reciproci rapporti”.3

54

Giancarlo De Carlo, Una precisazione, in “Casabella-Continuità”, n. 214, 1957 1

Approfondimento nel Capitolo dedicato all’inquadramento storico 2

Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società”, n.17, 1982, pp.4-5 3


Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società”, n.1, 1978, p.4 1

Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società”, n.2, 1978, p.3-4 2

Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società”, n.1, 1978, p.4 3

4

Ibidem

5

Ibidem

Queste premesse alludono a un vero e proprio percorso, ad una ricerca a cui sono chiamati a partecipare anche i lettori perché gli obiettivi della rivista devono essere intesi anche come variabili e mutevoli: temi, questioni, interrogativi “si precisano di volta in volta attraverso il confronto con le aspettative del lettore”.1 Un altro punto su cui De Carlo riporterà molte volte l’attenzione, è il fatto che “Spazio e Società” non si identificherà mai come una rivista per soli esperti del settore, ma anzi come una sede aperta al dialogo con un pubblico eterogeneo, fatto anche da studenti e professionisti che esulano dall’ambito disciplinare dell’architettura, che siano però interessati a capire quanto sia importante la qualità dell’ambiente fisico e la sua ricaduta sulla qualità della vita individuale e sociale.2 Leggendo i primi editoriali di De Carlo, che mettono a poco a poco in luce i propositi della rivista, non è difficile ritrovare i principi fondamentali del suo pensiero. In primo luogo vi è l’inscindibilità del concetto di architettura da quello di urbanistica, che devono essere considerati come “aspetti di una unica categoria fenomenologica”.3 Ogni distinzione fra le due discipline non può che essere fonte di confusione, poiché “distorce la comprensione e sottrae responsabilità al progetto”4. In secondo luogo vi è la concezione dell’intervento progettuale come un “processo” che si svolge nel tempo e che è condizionato da una molteplicità di fattori e soggetti. Infine, in coerenza con questi due primi propositi, la rivista si muove dal punto di vista delle competenze del progettista, in un’ottica che è quella “che si concreta sui significati della struttura significativa e della forma degli spazi e dei luoghi.”5 De Carlo sta anticipando uno dei temi che fortemente caratterizzeranno l’esperienza della rivista, ovvero il significato e il senso stesso dell’architettura. 55


Nell’editoriale che apre il numero 7 della rivista, De Carlo ritrova nello stesso pensiero del Filarete, immagini e simboli da cui si evincono i principi dell’architettura, che non ha soltanto lo scopo di produrre oggetti, di realizzare spazi dotati di materialità, ma di generare processi che diano “organizzazione e forma allo spazio in cui si svolgono le vicende umane”1, introducendo la dimensione dell’abitabilità e dell’esperienza dei luoghi. Inoltre, sempre appoggiandosi al pensiero del Filarete, De Carlo sostiene che l’essenza dell’architettura stessa risiede nelle relazioni che intercorrono tra “le sue configurazioni, il mondo fisico che le circonda, chiunque la esperisca nell’uso e nella contemplazione e persino per casuale incontro”2: lo Spazio e la Società, appunto. Scrive De Carlo:

“Non esiste priorità dello spazio sull’uomo, né dell’uomo sullo spazio. […] Ogni motivazione dell’organizzare e formare lo spazio fisico nasce dentro rapporti individuali e sociali; ogni conseguenza dell’organizzare e formare lo spazio fisico si riversa nei rapporti individuali e sociali. Non si può fare a meno di riferirsi alla società se si pensa, si fa, si esperisce, si giudica l’architettura e l’urbanistica”.3

Questi primi editoriali, ricchi di proposizioni, di spunti creativi, ma anche di immagini pregnanti, sembrano trovare una

perfetta rispondenza nelle pagine della rivista. In questi primi numeri, infatti, “Spazio e Società” è orientata alla ricerca di una propria configurazione, intenta soprattutto a definire il “campo di indagine, lanciare in varie direzioni le […] linee della problematica da affrontare”. Queste linee passano attraverso i progetti e le rubriche, 56

Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società”, n.1, 1978, p.5 1

2

3

Ibidem Ibidem


mentre da alcuni punti di queste si articolano attraverso le Questioni, sollevate dallo stesso De Carlo, in un clima di “ingenuità e spensieratezza”, che è anche contraddistinto da un certo “sperimentalismo” nelle forme e di una struttura, non ancora pienamente definita.1 Le rubriche sono spesso soggette ad una forte contaminazione tematica, dai contenuti intercambiabili, ma le linee guida che sembrano configurarsi nei confronti dei temi maggiormente trattati sembrano chiarirsi progressivamente, ritrovando così come predominanti la partecipazione, la qualità dell’ambiente e l’intervento progettuale nei paesi del Terzo Mondo. I primi bilanci e un nuovo inizio Con il numero 14, possiamo intendere conclusa una prima fase della rivista, caratterizzata dai contenuti propositivi e di assestamento. A tre anni dalla pubblicazione del primo numero, De Carlo tenta un primo bilancio dell’andamento della rivista, riportando gli appunti di una riunione avvenuta con un ampio numero di collaboratori.2 De Carlo sente la necessità che la questione della trattazione dei temi legati alla trasformazione dell’ambiente fisico del Terzo Mondo, debba essere affrontato con più insistenza. Inoltre emerge l’inefficacia della ripartizione tra saggi e progetti, che richiede una scelta di progetti più “acuta e spregiudicata”3. Questo editoriale prelude a nuovi cambiamenti Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società”, n.3, 1978, p.3-4 1

Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società”, n.14, 1981, pp. 3-4 2

3

Ibidem

che sono annunciati anche nel successivo numero doppio, 15-16, segnando un momento particolare nella vita della rivista. Con il numero 17, del 1982, si apre una nuova stagione per “Spazio e Società”, evidenziata inoltre da un cambio di formato e caratterizzata dall’avvio di un’interessante esperienza di co-editing, con il MIT, all’interno del quale si forma 57


un’autonoma redazione della rivista, consentendo quindi di approfondire “temi più specificatamente americani”, sempre sullo sfondo di quelli proposti nella rivista. De Carlo scrive: “Non abbiamo seguito una linea precostituita; invece, lanciando sonde in varie direzioni dalle basi dei nostri assunti, abbiamo cercato di definire il ‘campo’ corrispondente alla questione architettonica contemporanea […] dare spazio all’incontro tra gruppi che in modo diverso procedono nella stessa direzione di ricerca, con impegno e intelligenza, senza svincolare in formule architettoniche superficiali e semplicistiche”.1 Gli editoriali di questo periodo consegnano ai lettori della rivista l’idea che aveva De Carlo dell’architettura, del ruolo dell’architetto, della tradizione disciplinare, insomma dei temi che vengono sviluppati dagli autori della rivista. La riflessione sulla condizione professionale dell’architetto muove anche dalla necessità per la disciplina di fare i conti con il patrimonio culturale che ha ereditato dal Movimento Moderno, del suo tramonto e dei suoi fallimenti, e successivamente da tutti i Post-Modernisti che lo hanno seguito. In particolare è su questi temi che, nell’editoriale del numero 25, il direttore torna per segnalare il rifiuto della rivista di riconoscersi in movimenti accomunati solamente dalla smania di distinguersi. Con l’editoriale del numero 24, intitolato La crisi della città e il caso di Barcellona, De Carlo porta alla luce un tema che sarà poi centrale nella rivista: la considerazione della città e le forme tipiche e i molteplici problemi della città contemporanea. Il sovraffollamento delle città altera e confonde il

58

Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società”, n.1, 1978, p.5 1


rapporto tra lo spazio e la società, la violenza si diffonde nei comportamenti sociali ed individuali. Le città “non hanno più la struttura che nel passato riconduceva ad un unico sistema di coerenze le trasformazioni attraverso le quali passavano”.1 Questa crisi ha una concausa nella non corrispondenza tra i comportamenti dei gruppi sociali e quelli delle istituzioni, che non vogliono comprendere la natura dei fenomeni che, alla fine degli anni ’60, hanno portato ad un rapido e incontrollato sviluppo delle periferie e che, con l’immigrazione, portano all’unione di molte culture. L’editoriale è l’occasione per un confronto tra il caso di Milano, dove queste problematiche si concretizzano, e il caso di Barcellona, dove l’esito positivo degli interventi attuati è attribuibile ad un atteggiamento di integrazione fra la nuova società venutasi a creare e l’antico impianto della città. Inizia così una riflessione che porterà De Carlo ad affermare, senza indugio, che “la periferia è la città contemporanea”2, concetto che verrà ampliato e approfondito nei seguenti numeri di “Spazio e Società”, e che segna la specificità del suo approccio nel panorama del dibattito di quegli anni.

Giancarlo De Carlo, Lettura e progetto del territorio, in “Spazio e Società”, n. 71, 1995, p.12 1

Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società”, n. 58, 1992, p. 4 2

Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società”, n. 31-32, 1985, p. 6 3

Nuove proposte Nei cinque anni dal 1985 al 1990, ovvero dal numero doppio 31-32 al successivo 47-48, si riconosce una fase di transizione nella vita della rivista, confermata all’interno degli editoriali scritti da De Carlo.

Con il numero 31-32 si avvia una nuova iniziativa che manifesta la vitalità e la voglia di continuo rinnovamento della rivista: vengono introdotti i Dossier, “dove la ricerca sull’organizzazione e la formazione dello spazio fisico ha preso un corso particolarmente interessante”3, costituendo un arricchimento dei contenuti. 59


La linea principale della riflessione degli editoriali di De Carlo si concretizza nelle questioni che riguardano la dimensione urbana, che viene affrontata in particolar modo in due editoriali: Una città nella città, del numero 34 del 1986, sul tema del riuso e recupero dei manufatti nella città storica, e Hanno ancora senso le piazze e per chi? del numero 42, anno 1988, rivolto invece al tema degli “spazi di relazione”. Significativo è, inoltre, il fatto che De Carlo affida agli editoriali brevi comunicazioni sullo stato di fatto della rivista, mentre cerca un rapporto nuovo con il lettore attraverso qualche scritto o intervento di altra natura. In questa chiave, può essere letta la pubblicazione nel numero 41 di un’intervista a De Carlo stesso che sembra avere urgenza di “fare il punto”, di rimettere a fuoco le questioni affrontate dalla rivista.1 Affrontando vari aspetti (i rapporti tra architettura e urbanistica, l’ambiente, il linguaggio architettonico) opera un tentativo di puntualizzare i problemi, di verificare le questioni ancora aperte e che richiedono di essere affrontate. È tempo di girare il cannocchiale Dal numero 49, pubblicato all’inizio del 1990, si afferma una nuova stabilità per quanto riguarda la ricerca tematica affrontata dalla rivista, che si tradurrà infine in un cambiamento. De Carlo ribadisce l’intenzione di continuare a “esplorare la questione architettonica con molte sonde da molte direzioni diverse”2, e al tempo stesso, sostiene la necessità di dover guardare precisamente ai cambiamenti più generali che si verificano nel mondo. Altri editoriali concentrano l’attenzione su aspetti parziali ma ritenuti di grande significato: dalla considerazione dell’elemento della strada, alla considerazione dell’ambiente e della dimensione naturale.

60

Giancarlo De Carlo, Sei carte insicure, in “Spazio e Società”, n.41, 1988, pp. 4-6 1

Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società”, n. 49, 1990, p. 4 2


Ma è l’editoriale del numero 54 del 1991, È tempo di girare il cannocchiale, che segna la svolta della nuova fase della rivista e, con essa, un’evoluzione del suo approccio ai problemi dell’architettura. Due gli obiettivi prioritari, che devono essere perseguiti. Il primo, fondamentale, è quello di “ricostruire la consapevolezza dell’unità del territorio”, di riconoscere che esso è “intessuto di innumerevoli stratificazioni”; ogni territorio ha un “disegno” che non può mai considerarsi immutabile e finito. Il secondo è la necessità di “elaborare nuovi concetti che portino ad immaginare, definire e attuare delle trasformazioni spaziali in accordo […] con la struttura e la figura dell’ambiente nel quale accadono”. In un’immagine, è giunto il tempo di “girare il cannocchiale” con cui fino ad oggi si è osservato il fenomeno ambientale arrivando a stabilire che “l’ambiente è tutto”, ovvero che tutto è interpretabile secondo una prospettiva ambientale, che uomo, architettura e natura sono dimensioni inscindibili. Ne deriva la necessità di mettere a punto elementi di metodo che consentano di stabilire i nessi tra le varie componenti territoriali e di definire nuovi strumenti di progettazione adeguati alle reali esigenze di trasformazione. Con l’editoriale del numero successivo De Carlo, riprende il concetto secondo cui c’è bisogno di una rivoluzione: “si vede, girando il cannocchiale, che l’architettura diventa generosa e significante per gli esseri umani solo se diven-

Giancarlo De Carlo, Appunti da un breve viaggio in Morea, in “Spazio e Società”, n.55,1991, p. 6 1

ta un’estensione gentile dell’ordine naturale”.1 Sulla scia di questo slancio si arriva al numero 58 in cui tramite l’editoriale si mette al centro del discorso il tema delle periferie urbane e il loro essere la specifica forma contemporanea della città. Sotto questa ottica diventa chiaro il bisogno di guardare la città da un’altra prospettiva (sempre girando il cannocchiale). 61


La città contemporanea si è composta “scomponendosi” in diverse parti e frammenti, ognuna delle quali nasce da un progetto autonomo, con una vita e ragioni autonome, conseguenza di una continua specializzazione e del prevalere di logiche settoriali. Ciò che accade ora nelle città contemporanee è l’opposto di ciò che accadeva in passato, dove parti diverse erano organicamente connesse le une alle altre; nella città contemporanea invece, “le varie parti sono molto simili, ma l’insieme risulta caotico”1. Proseguire la ricerca cambiando gli strumenti diviene un impegno anche di ordine sociale che l’architetto è tenuto a rispettare perché, come ricorda De Carlo, la città contemporanea è la città che noi abbiamo fatto, è quella che si trasmetterà in futuro e che ci rappresenterà per come, nel presente, siamo. Ed è questa la città che impegna la nostra responsabilità umana e civile. La soluzione che si prospetta è quella di ripensare la città ripartendo dal territorio, poiché i modi di consistere dello spazio fisico tornano ad essere variegati, si riaprono vedute larghe e inclusive, si ristabiliscono condizioni favorevoli per modi di progettare a vantaggio degli esseri umani e della natura. Intervenire nel territorio, spiega De Carlo nell’editoriale del numero 71, implica “identificare i segni dello spazio fisico, estrarli dalle loro stratificazioni, interpretarli, ordinarli e ricomporli in sistemi che siano significativi oggi, anche per noi”.2 I temi definiti da questa prospettiva sono ancora di grande attualità e, per questo, segnano la rivista tutt’oggi. Questa rilettura attraverso gli editoriali che in qualche modo hanno maggiormente definito un passaggio o un cambio di

62

Giancarlo De Carlo, La periferia è la città contemporanea, in “Spazio e Società”, n. 58, 1992, p.4 1

Giancarlo De Carlo, Lettura e progetto del territorio, in “Spazio e Società”, n.71, 1995, p.6 2


direzione all’interno della rivista, non sarebbe comunque completa senza la citazione di quelli che sono stati temi affrontati più volte all’interno della rivista, ma che hanno ricoperto un ruolo meno predominante rispetto a quelli citati prima. In particolare, un tema che comunque ha sempre interessato moltissimo De Carlo, è la necessità di comprendere i cambiamenti indotti nella professione, ma anche in senso più generale nella vita della società contemporanea, dall’uso sempre più insistente della tecnologia e dei computer. Questo porta sicuramente alla necessità di sviluppare un diverso approccio alla professione e all’insegnamento, in quanto non si può più rimanere fermi ai canonici standard dei metodi classici. Inoltre, conseguenza non da ignorare, è la progressiva perdita di attenzione per il dettaglio, che per molto tempo ha invece caratterizzato il lavoro dell’architetto. Inoltre, bisogna ricordare tutta una serie di editoriali che raccontano le esperienze di viaggio di De Carlo, in varie parti del mondo, che vengono inserite all’interno di riflessioni di tipo maggiormente introspettivo, e che dimostrano anche la maturità professionale che aveva acquisito verso la fase finale della rivista. Fanno parte di questo “filone”, l’editoriale del numero 63, intitolato Cinque giornate a Kiew, dove a riflessioni specifiche sulla città si accompagnano riflessioni più ampie sull’architettura, e quello contenuto nel numero 82, dal titolo Note di viaggio, dove vengono sollecitate osservazioni riguardo le città di Granada, Catania, Milano e Venezia. Nella fase di chiusura della rivista, gli editoriali tendono ad abbandonare le riflessioni di tipo puramente architettonico o progettuale, in favore di una maggiore attenzione verso i fatti che stavano accadendo nel mondo, quindi alla cronaca, alla guerra o altri episodi assimilabili. 63


In realtà, per De Carlo, questo aspetto non si può intendere come un vero e proprio allontanamento dall’architettura, quanto piuttosto un’integrazione di questo tipo di osservazioni all’interno dell’attitudine dell’architetto. Emblematico in questo senso è l’editoriale del numero 62, dove viene ricordata Mostar, una città colpita dalla guerra, in cui, con l’editoriale del numero 77, De Carlo prova ad avanzare una proposta per aiutare la rinascita di questa città. L’editoriale del numero 80 è piuttosto rilevante perché si possono ripercorrere le tracce di vent’anni di pubblicazione:

Nella pagina accanto, Inspiration Process. Immagine tratta da http:// www.artribune.com/attualita/2012/12/taccuini-italiani/attachment/ img_de-carlo/

“Ora se si rilegge l’editoriale del primo numero, gennaio 1978, si ha l’impressione […] che eravamo ingenui e anche piuttosto spensierati: senza mezzi e senza appoggi volevamo ottenere molto più di quanto è stato possibile. Ma qualcosa l’abbiamo ottenuto. Per esempio di tenere in contatto i due lembi – lo spazio e la società – della nostra testata […] di cercare germi di architettura non ancora inquinati dall’omologazione: di osservare gli eventi architettonici nei loro contesti spaziali, sociali, culturali e politici; di darne una visione sfaccettata […]”.1 Ma al momento che può apparire celebrativo, non corrisponde un calo della tensione. Del resto già con l’editoriale successivo De Carlo esprimeva vigorosamente l’intenzione di voler proseguire la ricerca, di continuare a produrre “Spazio e Società”, e soprattutto di mantenere fede al proposito originario di pro-

porre strumenti e idee che permettano all’architettura di rafforzare l’identità dei luoghi e degli esseri umani, di riconoscere le più profonde ragioni dell’ambiente e della società, di legittimare in modo sempre più largo la sua eteronomia, di guardare al passato come “campo di esperienza per il presente e cioè in modo critico e selettivo”.2 64

Giancarlo De Carlo, 8020, in “Spazio e Società”, n. 80, 1997, p.5 1

Giancarlo De Carlo, Dopo il n. 80 ecco il n. 81!, in “Spazio e Società”, n. 81, 1998, p.5 2


65


Tratta dal frontespizio della copertina del libro L’architettura della partecipazione, di Giancarlo De Carlo

66


3.1 La “voce” di Giancarlo De Carlo 3.1.2 La Partecipazione

Donlyn Lyndon, Il luogo dell’espressione collettiva la scala intermedia, in “Spazio e Società”, n.7, 1979, pp. 6-12 1

N. John Habraken, L’ambiente costruito e i limiti della pratica professionale, in “Spazio e Società”, n.1, 1978, p.80 2

Il senso Compito dell’architettura, è creare delle situazioni nelle quali ognuno possa esercitare la propria specifica competenza e possa trovare occasioni di arricchimento nell’interazione con l’ambiente fisico e sociale.1 Questo è il nucleo fondamentale del tema della partecipazione che ha segnato profondamente la vita di “Spazio e Società”. Il forte legame tra l’uomo e lo spazio non può che passare attraverso un meccanismo di identificazione dell’individuo e del suo essere partecipe di una comunità. Del resto anche le specificità di ogni ambiente, le caratteristiche legate alle condizioni climatiche, etnografiche e culturali in genere, conferiscono dinamicità e vitalità allo spazio, e fanno della città un organismo vivo, espressione diretta della personalità di chi vi vive, di un loro “modo di essere collettivo”.2 Nell’elaborazione di “Spazio e Società”, la riflessione circa i problemi delle pratiche urbanistiche e architettoniche correnti, il dato di partenza è il riconoscimento della mancanza della partecipazione dell’uomo nella costruzione dello spazio che abita, ossia l’impossibilità per l’abitante di esercitare il proprio potere creativo nel luogo in cui vive. Sin dai primi numeri di “Spazio e Società”, l’attenzione della rivista è rivolta a sottolineare la necessità della partecipazione: contro il dominio del potere unilaterale e come libertà di espressione del potere minuto. La partecipazione si configura come lo strumento capace di garantire l’equilibrio nell’esercizio dei due poteri che concorrono alla definizione 67


dell’ambiente in cui sembra potersi identificare la possibile soluzione per la ricomposizione della frattura tra spazio e società. L’architetto della partecipazione deve, allora, creare occasioni affinché la gente possa appropriarsi dei luoghi, investire negli stessi i propri sentimenti, introdurre cambiamenti, modificazioni. Ma, sin dall’inizio, viene sottolineato che la partecipazione, intesa come espressione del fare collettivo, richiede come premessa indispensabile la presa di coscienza da parte degli abitanti della loro esclusione dall’esercizio di un diritto che viene loro continuamente negato. In altre parole, un processo partecipativo implica una revisione dei ruoli e delle “parti”. Marcel Smets1, nell’articolo pubblicato in “Spazio e Società” numero 9, intitolato Lo “spazio comune” come astrazione formale, sostiene che ai progettisti spetta il compito di rivedere le proprie posizioni, rinunciare al linguaggio accademico e all’espressione individuale, per concentrarsi sulla ricerca di nuove soluzioni capaci di valorizzare, anziché soffocare, la ricchezza fondamentale della vita collettiva. Gli utenti, da parte loro, dovrebbero contribuire a questa ricerca e, soprattutto, raggiungere piena consapevolezza di essere membri di un gruppo e della conseguente necessità di agire per la collettività. Scopo della partecipazione non è, infatti, quello di soddisfare esigenze individuali quanto, piuttosto, di raggiungere degli obiettivi che si risolvono in un vantaggio per gli individui che partecipano.

68

Marcel Smets (Mechelen, 1947) è professore di urbanistica alla Katholieke Universitat di Leuven. Scrisse articoli a proposito della critica dell’architettura per riviste come “Archis”, “Lotus”, “Casabella” e “Spazio e Società”. È stato membro fondatore dell’ILAUD. 1


Giuseppe Cinà, Quale partecipazione?, in “Spazio e Società”, n. 31-32, 1985, p. 90 1

2

Ibidem

Antonio Di Mambro è architetto e progettista urbano e lavora negli Stati Uniti, Porto Rico e in Italia, dal 1971. Le sue aree di competenza sono la pianificazione, la progettazione e l’implementazione di sviluppi fisici su larga scala, riqualificazione dei quartieri e delle abitazioni, università e campus istituzionali, progetti di trasporto, infrastrutture e strutture su lungomare, parchi urbani, e la gestione di gruppi interdisciplinari. 3

Antonio Di Mambro, Prospettive americane: progetti del WFEM, in “Spazio e Società”, n. 15.16, 1981, p. 25 3

Antonio Di Mambro, Prospettive americane: progetti del WFEM, in “Spazio e Società”, n. 15.16, 1981, p. 25 4

Franco Zagari, Lucien Kroll. La ricerca della differenza, in “Spazio e Società”, n. 23, 1983, p. 34-49 5 5

Lucien Kroll (Bruxelles, 13 marzo 1927) è un architetto e saggista belga. È una delle figure più significative della scena architettonica mondiale. Autore di diversi scritti tra articoli su riviste e saggi, si annovera come «il padre dell›architettura sostenibile». 6

Esperienze a confronto Come osserva Giuseppe Cinà, i processi di partecipazione muovono generalmente da situazioni limite, da condizioni nelle quali il soddisfacimento dei bisogni abitativi impone un forte impegno organizzativo e di lotta, senza il quale non si potrebbero raggiungere gli obiettivi proposti.1 Il continuo confronto con la realtà circostante “rafforza l’impegno e l’identità di gruppo, induce al dibattito e all’autentica partecipazione collettiva, fa pervenire spesso a nuove e importanti scoperte e innovazioni”.2 Si conferma così il senso della partecipazione come processo di crescita della coscienza collettiva. Uno dei più importanti progetti dello studio americano WFEM ha all’origine una vasta azione popolare che si è opposta con fermezza all’attuazione di un progetto infrastrutturale proponendo una soluzione alternativa. Racconta Antonio Di Mambro3 che “gli abitanti del quartiere, organizzatori e commercianti si incontravano per esaminare e pubblicizzare gli effetti negativi dell’espansione delle autostrade”.4 In modo analogo, nel quartiere Peseigne a Alençon (Normandia)5, l’intervento di Lucien Kroll6 segue il movimento di opposizione degli abitanti, movimento che “portò ad una vera e propria guerra, soprattutto per la riqualificazione degli spazi esterni, e alla fine a un gesto clamoroso: la devastazione del centro sociale che provocò la caduta dell’amministrazione. I vari contributi pubblicati sulle pagine della rivista parlano chiaro. Il processo di partecipazione richiede un cambio di atteggiamento da parte dei progettisti, ma anche l’abbattimento del muro della diffidenza della gente nei confronti delle istituzioni di genere. Infatti, nella maggior parte dei casi, gli abitanti sono assuefatti dall’essere esclusi dai processi di decisione; inoltre è 69


convinzione diffusa che l’alienazione dell’interesse della collettività abbia origine proprio dal consolidamento di certi atteggiamenti professionali istituzionali. La partecipazione implica quindi riaprire un “circuito di comunicazione” fra gli abitanti e i progettisti attraverso un rapporto dialettico di scambio reciproco. Gli abitanti devono esprimere le loro esigenze, dare chiara voce ai loro bisogni e alle loro aspirazioni. Questo scambio può avere l’importante funzione di smitizzare il ruolo dell’architetto, per acquisire una consapevolezza concreta del ruolo del professionista. Ralph Erskine1 insiste su come questa riflessione debba indurre gli architetti a considerare il loro ruolo in termini diversi, in termini soprattutto di “collaborazione con gli utenti”, per far crescere insieme alla collettività un’idea valida dei loro spazi, del loro ambiente.2 L’architetto della partecipazione opera, infatti, nella consapevolezza dei limiti del sistema legislativo e finanziario, e, pur sapendo che il suo contributo è influenzato da tali limiti, cerca di sfruttarne le possibili “tolleranze”. Alla base del suo operato, non c’è solo una forte sensibilità politica e sociale, ma soprattutto la certezza di avere bisogno degli utenti. Afferma Lucien Kroll, uno dei pionieri dell’architettura della partecipazione, ripreso da Zagari, “mi servo degli abitanti per fare un’architettura che mi piace […] Ho bisogno di loro […] Io cerco di manipolarli con tutta l’ipocrisia possibile perché siano più loro stessi, più ‘caratteristici? Ancora, più in fretta”3. Gli abitanti divengono fonte da cui trarre spunti per una propria ricerca architettonica. Nell’architettura tradizionale questo momento dialettico è “filtrato, depositato in istituzioni consolidate che più sono

70

Ralph Erskine (Londra, 24 febbraio 1914 – Drottningholm, 16 marzo 2005) è stato un architetto inglese naturalizzato svedese. L’architetto è stato un teorico e progettista dell›architettura organica e sociale che ha espresso un concetto umanistico dello spazio, orientato dal fabianesimo e influenzato dal modernismo pragmatico legato al funzionalismo svedese. Era famoso per i suoi progetti originali, spesso avveniristici, come la città subartica. Celebre per la sua filosofia progettuale improntata a criteri di partecipazione. 1

Ralph Erskine, Vernon & Associates, Byker, in “Spazio e Società”, n. 2, 1978, pp. 5-40 2

Franco Zagari, Lucien Kroll. La ricerca della differenza, in “Spazio e Società”, n. 23, 1983, p. 34-49 3


Lucien Kroll, Le querce di Emerainville, in “Spazio e Società”, n. 29, 1987, p. 60-75 1

Mary Comerio, Community design oggi, in “Spazio e Società”, n.3132, 1985, pp. 94-105 2

Giuseppe Cinà, Quale partecipazione?, in “Spazio e Società”, n. 31-32, 1985, p. 90 3

accettate come trascendenti e immutabili e più portano l’architetto ad essere un interprete distante e autonomo rispetto a una realtà”. Giancarlo De Carlo sostiene che in questo modo l’architetto riconosce che il suo “immaginario personale” è “irrilevante a confronto di molteplicità e la ricchezza dell’immaginario collettivo” ma, anche, che “le immagini architettoniche della gente comune sono più significative e appropriabili di quelle degli architetti”.1 Il dibattito sulla partecipazione sembra, in tal senso, inserirsi all’interno di una ormai conclamata crisi della disciplina e all’interno della ricerca di suoi nuovi fondamenti. Sintomatico il caso americano. Qui la tradizione partecipativa è ben radicata ed ha origini lontane. L’interesse per la partecipazione nasce infatti nei primi anni ’60 da un rifiuto, da parte degli architetti, della pratica tradizionale. Crisi della “razionalità tecnica”, incapacità della categoria professionale di essere all’altezza delle sue stesse norme e senso di impotenza di fronte ai problemi della società, hanno dato origine a nuove “sperimentazioni” nella progettazione. Si è così sviluppata la consapevolezza che “il miglior modo di affrontare le questioni di pianificazione era di estendere il dialogo e la partecipazione a tutte le persone coinvolte […] per favorire una democratizzazione del governo urbano, il processo di partecipazione doveva svolgersi in modo da includere i cittadini nella partecipazione al processo”.2

Il percorso di “Spazio e Società” mette in luce il rapporto tra la categoria professionale e le istituzioni. La partecipazione investe ben poco l’area della progettazione istituzionale, imponendosi, nella maggior parte dei casi, come “procedimento alternativo”.3 È proprio nel rapporto tra categoria professionale e istituzioni che si 71


avverte con maggiore intensità la distanza tra il caso italiano e quelli stranieri. In America, in particolare, “le istituzioni non cambiano, ma neppure dormono”. Questo ha sicuramente contribuito a facilitare un’apertura, un dialogo tra le parti, evitando agli architetti facili rinunce causate generalmente da un’intricata e spesso incomprensibile trama di norme burocratiche e amministrative. Ripercorrendo i numeri della rivista, nel confronto tra le esperienze di progettazione partecipata portate avanti all’estero e quelle italiane non si può non notare come la ricerca italiana sia sicuramente lontana dai risultati di quella straniera, e questa lontananza sembra essere determinata non solo da una rigidità burocratica e da una insufficienza legislativa, ma anche da una fondamentale mancanza di coinvolgimento dei cittadini e della categoria professionale. Vi sono, nonostante le evidenti difficoltà pratiche, alcuni progettisti che si distinguono per aver coraggiosamente intrapreso la strada della partecipazione, consapevoli dal fatto che l’architettura, per assolvere al suo compito, deve riscoprire la propria relatività, uscire dal proprio specifico. Architetti che riconoscono anche la necessità di integrare la ricerca progettuale con la vita e la società, che deve essere indagata nei suoi bisogni più profondi, perché “partecipazione significa in primo luogo riaccostare la riflessione alla trama del vissuto. La partecipazione esalta e arricchisce la

sfera disciplinare, accresce e varia i compiti dell’architetto”.1 Le parole di Riccardo Dalisi2 – che trasmettono con intensità e immediatezza il senso fondamentale della partecipazione – non trovano però corrispondenza nei fatti. Le esperienze di partecipazione in Italia sono quasi sempre parziali. Caso significativo è il quartiere Pilastro a Bologna. Anche qui 72

Riccardo Dalisi, Traiano e Ponticelli (Napoli): il ricupero dell’autoespressione, in “Spazio e Società”, n.2, 1978, p. 60 1

Trasferitosi a Napoli negli anni Cinquanta per intraprendere gli studi di architettura, Riccardo Dalisi (Potenza, 1931) si distingue sin da subito per una versatilità che lo porta a far convergere continuamente arte, architettura e design al punto da non distinguere più il campo d’azione delle singole discipline. Tra i primi a formulare il concetto di sostenibilità applicato al design industriale, Dalisi utilizza per le sue sculture e oggetti di design materiali poveri quali cartapesta e poi latta, rame, ferro, ottone, che acquistano preziosità nel processo di modellazione e trasformazione artigianale. Ogni oggetto, sia esso destinato alla produzione industriale o al circuito dell’arte, si fa portavoce di una sensibilità personale che attinge alla tradizione napoletana, tanto nelle forme quanto nelle modalità di realizzazione. 2


Alessandra Carini, Roberto Farina, Burocrazia e partecipazione fallita: il quartiere del Pilastro a Bologna, in “Spazio e Società”, n.5, 1979, p. 87-94 1

Redazione/Editorial Staff, Terremoti, in “Spazio e Società”, n.13, 1981, p.31 2

In Marcel Smets, Lo “spazio comune” come astrazione formale, in “Spazio e Società”, n.9, 1980, p.81 3

c’è un movimento di protesta degli abitanti: dalla lotta “nasce la consapevolezza di fare parte di una comunità”.1 Le premesse sembrano buone: c’è la presenza di un gruppo coeso, dotato di una forte identità sociale e di una sensibilità nei confronti dello spazio fisico e sociale del quartiere, e di un organo capace di rappresentare gli interessi di questo gruppo. Purtroppo, con il tempo, questo organo rappresentativo non istituzionale diventa sempre più organismo burocratico, organizzato secondo regole ed equilibri politici tradizionali, e diminuiscono le sue possibilità di interpretare i bisogni degli abitanti. “La cosiddetta partecipazione al Pilastro è consistita in questa consultazione con un organo controllato politicamente.”Non si è mai manifestata una volontà reale di dibattito, di coinvolgimento degli abitanti nelle scelte da compiere”. Anche in Friuli, dopo il terremoto, si assiste ad un fenomeno nuovo, inconsueto, “un movimento originale […] che spinge a democratizzare il processo delle decisioni tramite la partecipazione e la corresponsabilizzazione che riduce il ruolo della burocrazia”.2 C’è il desiderio, espresso dai cittadini, di salvaguardare i rapporti di vicinato prima esistenti, prodotti dalla storia e dalla cultura locale, quindi di opporsi al piano, alla sua astrazione, alla sua illeggibilità. Suonano bene le parole di De Carlo: “Dubitano dell’architettura della partecipazione le forze politiche […] perché temono che possano agire come i sassi negli stagni, allargando l’uso della critica e stimolando l’intervento diretto, mettendo in questione il principio della delega una volta per tutte. Sono ostili gli apparati tecnici e amministrativi pubblici perché la partecipazione implica un minuzioso lavoro di analisi di ricomposizione, di promozione; rompe le ossa della routine e disturba l’immobilismo burocratico.”3 73


Nonostante ciò, è anche vero che manca un reale interesse da parte dei cittadini. Sicuramente si registrano alcuni casi di riaffermazione del diritto all’uso dello spazio fisico da parte degli individui. L’occupazione di Riva Verde (Grosseto) testimonia il recupero dell’espressione individuale, la volontà di esprimersi attraverso la costruzione della propria abitazione, ma l’osservazione mossa nei confronti di questo fenomeno nuovo è di come esso generi “immagini influenzate dalla più banale iconografia del consumo”.1 In questo contesto anche le sporadiche esperienze di partecipazione istituzionale sono destinate all’insuccesso. L’esperienza del quartiere di Rigo a Crociano (Perugia) è parte del tentativo attuato da Renzo Piano2 di stimolare la gente affinché questa possa riscoprire “la cultura del fare”, e sviluppare così quella potenzialità latente insita nella nostra società attraverso il principio della partecipazione attiva degli utenti alla configurazione e finitura dello spazio interno delle abitazioni.3 Con il tempo all’interno di “Spazio e Società”, diventano sempre meno frequenti le esperienze progettuali in tale direzione. Il numero 31-32 della rivista, assume in tal senso, un ruolo fondamentale; sembra costituire l’apice di una storia destinata ad un lento e ineluttabile “declino”, o comunque, ad una progressiva modificazione.

Dal numero 33 del 1986, si apre un “vuoto” sul tema della partecipazione interrotto solo da un intervento di Niccolò Ceccarelli4, all’interno del numero 65 del 1994, dedicato a Saul Alinsky5. Sembra esplicita la volontà di rimettere mano al discorso interrotto, scegliendo di parlare del pioniere dell’architettura della partecipazione, protagonista del passato. 74

Carlo Nepi, Augusto Mazzini, L’imprevedibile crescita di Riva Verde (Grosseto), in “Spazio e Società”, n.3, 1978, p.41-50 1

Renzo Piano (Genova, 14 settembre 1937) è un architetto e senatore a vita italiano. È tra i più noti, prolifici e attivi architetti a livello internazionale, vincitore del Premio Pritzker nel 1998. 2

Lamberto Rossi, Renzo Piano. La cultura del fare, in “Spazio e Società”, n.23, 1983, p.52 3

Nicolò Ceccarelli, Alinsky a Woodlawn. Come si organizza la partecipazione, n “Spazio e Società”, n.65, 1994, p.50-61 4

Saul Alinsky (Chicago, 30 gennaio 1909 – Carmel, 12 giugno 1972) è stato un attivista e scrittore statunitense noto per la sua attività di organizzatore di comunità e autore del noto volume Rules for Radicals. Nel corso di circa 40 anni di attivismo politico, Alinsky ricevette molte critiche, ma anche attestati di stima da molti personaggi pubblici. Le sue capacità organizzative erano dedicate al migliorare le condizioni di vita delle comunità in condizione di povertà nel nord America. Negli anni 50, cominciò a rivolgere la sua attenzione al miglioramento delle condizioni nei ghetti afroamericani, a cominciare da quelli di Chicago e più tardi raggiungendo altri ghetti in California, Michigan, New York City e una dozzina di altri “trouble spots”. 5


Nicolò Ceccarelli, Alinsky a Woodlawn. Come si organizza la partecipazione, in “Spazio e Società”, n.65, 1994, p. 60 1

Perry Dean Rogers è uno studio di architettura con sede a Boston, Massachusetts. Fondata nel 1923 come Perry, Shaw & Hepburn, l’azienda è diventata notevole per i suoi disegni per le istituzioni educative. L’azienda era responsabile per il restauro del Colonial Williamsburg. L’azienda afferma la loro esperienza nella creazione di un contesto di ambiente universitario. Perry Dean Rogers ha recentemente completato la progettazione di un intero campus universitario, masterplan e dei singoli edifici, per la Franklin W. Olin College of Engineering a Needham, Massachusetts. William G. Perry è stato anche assunto per trasformare il Endicott immobiliare in Palazzo del Governatore. 2

Antonio Di Mambro, Perry Dean Rogers & Partners. Progetti recenti, in “Spazio e Società”, n.59, 1992, p. 22 3

Isabel Aina, Antonio Lorenzo, Il giardino della memoria, Saragozza. Un’esperienza di partecipazione popolare, in “Spazio e Società”, n.65, 1994, p. 14 4

David Gonzales, Potere al popolo nel Bronx, in “Spazio e Società”, n.65, 1994, p. 122 5

La sua storia, come sottolinea l’autore, “ci serve per riflettere sul tema della partecipazione, inteso come processo di costruzione di un’identità tra la comunità urbana e il luogo in cui essa vive.”1 Da questo momento, la consapevolezza che sembra svilupparsi all’interno della rivista, nei numeri seguenti, consiste nello spostare l’attenzione dell’architetto su un nuovo tipo di architettura “conviviale”: dalla creatività individuale e dalla riappropriazione collettiva dello spazio può scaturire un miglioramento dell’ambiente fisico e sociale. Se la partecipazione non è possibile come soluzione capace di sanare la frattura tra spazio e società, l’architetto converge verso soluzioni che garantiscono la possibilità agli utenti di modificare l’ambiente nel tempo, appropriandosene, senza che vi sia necessariamente un’immediata partecipazione degli stessi, fin dal primo momento. Anche in questo caso il contesto americano si pone come riferimento. Lo studio di Perry Dean Rogers & P2., che si era distinto per l’interessante metodologia partecipativa, adotta oggi un “approccio gestionale più semplice”, un metodo progettuale innovativo. La loro architettura “incoraggia la socializzazione, si adatta alle mutevoli esigenze degli utenti ed è armonica ed evocativa”.3 La partecipazione dei cittadini alla progettazione del Giardino della memoria di Saragozza4, nasce dall’opposizione dell’Associazione cittadine alla originaria destinazione prevista per il quartiere, destinato a divenire zona residenziale e di traffico, attraverso la costruzione di nuove abitazioni e strade. Nel Bronx invece, un gruppo di abitanti è riuscito a bloccare i piani di ristrutturazione del loro quartiere e a modificare il progetto di ristrutturazione delle loro case.5 75


Discorso un po’ più ampio si apre per quanto riguarda i paesi del Terzo Mondo, in cui il fenomeno della partecipazione assume una valenza del tutto particolare e dove si manifesta quasi sempre in forme radicali, tese al miglioramento di una precaria e drammatica condizione abitativa. Il fenomeno dell’autocostruzione rappresenta un caso di “partecipazione obbligata”1: non è frutto di una scelta, ma nasce dall’impellente bisogno di un ricovero per la sopravvivenza quotidiana. Nei paesi del Terzo Mondo il tema della partecipazione si configura nei termini di un problema di “accesso alle risorse”. Per una reale partecipazione è necessario che il governo assicuri il diritto di accesso agli strumenti e alle risorse necessarie, garantendo un rapporto attivo e partecipato tra i cittadini, da intendersi come utenti di un alloggio alla cui produzione e gestione hanno contribuito.2 La lettura degli articoli dedicati a questo specifico ambito di indagine sembra indurre al riconoscimento della soluzione possibile al problema dell’habitat marginale, nella partecipazione.Obiettivo è quello di promuovere la partecipazione diretta delle comunità locali ai problemi dell’organizzazione dello spazio, favorendo la produzione e il controllo, da parte dell’utente, del proprio habitat, soprattutto in vista di un miglioramento delle condizioni abitative. Uno sviluppo equo richiede una riscoperta dell’identità, della propria storia: solo questo può conferire alla partecipazione un significato nuovo, autentico, non più filtrato da soli atteggiamenti filantropici. Da questi concetti consegue che una nuova concezione dello spazio e dei rapporti con chi vi abita presuppone un intervento a livello delle periferie delle grandi agglomerazioni contemporanee.

76

Giuseppe Cinà, Quale partecipazione?, in “Spazio e Società”, n. 31-32, 1985, p. 90 1

John C.F. Turner, Il diritto di accesso alle risorse, in “Spazio e Società”, n. 12, 1980, p. 64 2


Da un atteggiamento più consapevole derivano nuove possibilità di soluzione progettuale: il riconoscimento di un equilibrio negli alloggi informali, nonostante le loro condizioni limite, tra mezzi, bisogni e soluzioni, ha portato alla messa a punto di diversi interventi che includono la partecipazione dei cittadini.1 Nel riconfermare la validità di questa soluzione, Benninger2 pone ancora una volta il problema dell’accesso alle risorse: rendere accessibili le risorse agli stessi utenti, consentendo un utilizzo in modo che la gente possa risolvere autonomamente i propri problemi, secondo i propri bisogni e i propri mezzi, si conferma come condizione fondamentale per favorire una nuova e diffusa azione collettiva, evitando azioni “dall’alto” e impositive.3 Christopher Benninger, Imparando dagli slum, in “Spazio e Società”, n. 38, 1987, p. 78 1

Christopher Charles Benninger è un architetto e pianificatore americano-indiano. Nato a Hamilton, Ohio nel 1942 come il secondo di due figli, Benninger è cresciuto a Gainesville, in Florida, dove suo padre era un professore presso l’Università della Florida. Ha studiato urbanistica presso il Massachusetts Institute of Technology e architettura alla Graduate School di Harvard di Design, dove in seguito ha insegnato (1969-1972). 2

Christopher Benninger, Imparando dagli slum, in “Spazio e Società”, n. 38, 1987, p. 78 3

77


disegno di Giancarlo De Carlo, in “Una sezione longitudinale della rivista”, appendice di “Spazio e Società – Spaces & Society”, 2001, p. 180-181

78


Alison & Peter Smithson, La qualità dell’ambiente, in “Spazio e Società”, n.1, 1978, pp. 9-26

3.1 La “voce” di Giancarlo De Carlo

Alison Smithson (Sheffield, 1928 – Londra, 1993) e Peter Smithson (Stockton-on-Tees, 18 settembre 1923 – Londra, 3 marzo 2003) sono stati una coppia di architetti britannici che lavoravano in partnership. Gli Smithson sono probabilmente considerabili i più importanti fra gli architetti di quella scuola britannica che il critico Reyner Banham definì New Brutalism. Nell’ambito della critica al modernismo, gli Smithson furono membri del cosiddetto Team 10, un gruppo di architetti che contestò vivacemente il linguaggio modernista di Gropius e Le Corbusier al CIAM di Aix-en-Provence del 1953. Mentre la generazione di architetti precedente aveva posto l’accento sulla separazione della città in zone differenti, con alte torri distanziate fra loro, il gruppo di contestatori richiedeva un maggior interesse verso l’interazione fra individui ed edifici, il superamento del dogma funzionalista e un’architettura più in contatto con la complessa dialettica dei centri urbani.

3.1.3 L’ambiente: dimensione fisica, natura e realtà sociale

1

2

Nella ricerca condotta da “Spazio e Società”, inizialmente l’attenzione si concentra sull’ambiente come “spazio fisico costruito” e sul perseguimento di una sua ottimale “qualità”, dove riconoscere qualità all’ambiente non implica concentrarsi sulla dimensione estetica ma, piuttosto, sulla capacità dell’ambiente di darsi come luogo, ovvero darsi come espressione del sociale. In questo senso l’ambiente diventa “identità nello spazio”: l’ambiente è il luogo in cui ogni uomo trae la propria identificazione sociale e personale, acquistando così, nell’immaginario collettivo, valore di simbolo. L’ambiente diventa “simbolo sociale“ quando viene percepito come espressione di un individuo o di un gruppo sociale, ossia quando il suo significato sociale assume un ruolo importante rispetto ad altre funzioni di cui è investito.1 La qualità dell’ambiente rivela, secondo l’impostazione degli Smithson2, una duplice “faccia”: una tangibile (o forma costruita), legata all’attività materiale del costruire, e una più immateriale (o forma sociale) legata, invece, “all’attività con cui la comunità riveste il tessuto di costruito con ulteriori livelli di significato (…) la scena e i costumi del palcoscenico urbano (…) sensibilità e conoscenza per uso responsabile dello spazio”3. Si afferma cosi l’importanza della componente sociale nella definizione della qualità dell’ambiente.

Alison & Peter Smithson, La qualità dell’ambiente, in “Spazio e Società”, n. 1, 1978, p. 9 3

79


Donald Appleyard1 ci ricorda che l’ambiente è “un agglomerato mutevole di azioni e avvenimenti”2 uniti a dare forma a un contesto. Il significato di un intervento nell’ambiente allora si lega ineluttabilmente al contesto, alla capacità delle persone di riconoscersi in esso e di riconoscere nello stesso l’espressione della collettività. L’architettura/urbanistica assume, in questa accezione, il ruolo di “mezzo” attraverso cui si possono creare le condizioni affinché uno spazio si tramuti in luogo, garantendo alla popolazione la possibilità di riconoscersi in esso. Come interprete di questa posizione, l’architetto di “Spazio e Società” opera nello spazio ricordando come la ricerca di identità, di riconoscimento, sia un’esigenza umana fondamentale e come questa esigenza debba trovare espressione nell’ambiente fisico. Ma anche che il senso del luogo è alla base di ogni civiltà: laddove questo sentimento viene ignorato, si ha una società vulnerabile, si hanno “impulsi disgregativi in luogo di un senso di comunità, perdita di identità invece di naturale sicurezza”.3 Il problema ambientale si configura nella rivista come un problema di “ricomposizione della scissione tra sociale e fisico”: restituire la qualità all’ambiente significa investire di qualità l’esperienza umana che ne consegue. Significa anche riconoscere che la questione ambientale investe un più generale problema di equità sociale: la città e l’ambiente naturali sono “teatro dei conflitti sociali e simbolici e dunque pongono dei problemi di giustizia sociale”4. Questo implica in primo luogo, contro ogni uniformità dello spazio, riconoscere che ogni ambiente ha le proprie specificità e, anche, riconoscere che queste specificità nascono spesso “dal basso”, che sono, come afferma Habraken5 fin dal primo numero, “espressione di un potere di grana minuta”.6

80

Donald Appleyard (26 luglio 1928 - 23 settembre, 1982) è stato un urbanista e teorico, insegnò presso l’Università della California, Berkeley. Il suo libro del 1981 “Livable Streets” è stato descritto a suo tempo da Grady Clay, come “il lavoro più completo e dettagliato sulle strade urbane fino ad oggi”. Esso conteneva un confronto tra tre strade di morfologia simile a San Francisco, aventi diversi livelli di traffico automobilistico: una con 2.000 veicoli al giorno, le altre con 8.000 rispettivamente 16.000 veicoli al giorno. La sua ricerca empirica ha dimostrato che i residenti della strada con basso volume di traffico auto sono tre volte più amichevoli di quelli che vivono sulla strada con traffico elevato auto. 1

Donald Appleyard, L’architettura come simbolo sociale. Uno studio sull’intervento e la percezione ambientale, in “Spazio e Società”, n.11, 1980, p.38 2

Alison Smithson, L’albero e la Colonna, in “Spazio e Società”, n.25, 1984, p.78 3

Donald Appleyard, L’architettura come simbolo sociale. Uno studio sull’intervento e la percezione ambientale, in “Spazio e Società”, n.11, 1980, p.38 4


Habraken nasce in Indonesia, viaggia tanto e comincia ad indagare la residenza olandese ed il suo “innaturale” rapporto con l’uomo. Per Heineken disegna la bottiglia WOBO (nota di approfondimento sulla storia della WOBO in calce all’articolo) a sezione quadrata: pensata come alternativa al mattone portava in sé il concetto di riciclo creativo. Nel 1961 pubblica in Olanda il libro “De dragen en de mensen”, in cui espone l’innovativa visione dell’utente come attivo protagonista del processo costruttivo dell’abitazione e della conseguente organizzazione dei processi progettuali, in un contesto storico in cui nell’architettura pervadeva un senso di potere, di voler controllare, dall’alto verso il basso. 5

N. John Habraken, L’ambiente costruito e i limiti della pratica professionale, in “Spazio e Società”, n.1, 1978, p.33 6

Sir Patrick Geddes (Ballater, 2 ottobre 1854 – Montpellier, 17 aprile 1932) è stato un biologo, sociologo e urbanista scozzese. È divenuto celebre inoltre per le sue idee innovative in diversi campi, tra cui la botanica, l›educazione, la museografia, l›economia, la geografia o la progettazione e, soprattutto, l›ecologia, nonché per la sua corrispondenza con alcuni suoi contemporanei, quali Charles Darwin, Mahatma Gandhi, Rabindranath Tagore e Albert Einstein 7

Il potere di grana minuta è l’espressione della collettività della gente che vive il suo spazio nella quotidianità. La differenziazione qualitativa dello spazio nasce proprio dalla libertà di espressione di questo potere: non c’è mai uniformità, non c’è piattezza ed ovvietà laddove gli abitanti hanno possibilità di esprimersi. È proprio questo dinamismo a piccola scala, all’interno di un quadro più ampio, che fa di ogni città un “organismo vivo”. L’ambiente “leggero” è di importanza vitale perché esprime la “realtà sociale”, nel suo essere riflesso della professionalità degli abitanti e nel suo rivelare profonde differenze legate al clima, all’economia, alla cultura, alla tradizione. L’impossibilità di esercitare questo potere determina l’immutabilità della piccola scala, il suo irrigidimento e la sua mancata identificazione come luogo. Nell’ottica proposta da “Spazio e Società”, secondo una lunga tradizione segnata dal pensiero di Geddes7, Kropotin8, Unwin9 e Olmsted10, è invece di estrema importanza valutare nei termini di “ambiente” proprio lo spazio fisico costruito. L’educazione ambientale viene pensata essenzialmente come educazione all’ambiente costruito, perché, come afferma Collin Ward11, la configurazione dell’ambiente costruito è “la registrazione più significante dello svolgersi delle vicende umane“.12 L’ambiente costruito così, dall’essere estremo negativo del discorso ambientale, diventa elemento fondativo dell’educazione ambientale, e diventa di estrema importanza sotto il profilo pedagogico che rimane uno degli obiettivi sempre cari alla rivista. L’educazione deve favorire la nascita e la consapevolezza di una coscienza ambientale diffusa, affinché tutti possano essere “padroni del loro ambiente” e partecipare alla sua definizione. Educare a riconoscere i problemi significa anche educare a riconoscere specificità e differenze, in questo senso l’educazione ambientale e anche educazione politica.13 81


Pëtr Alekseevič Kropotkin, (Mosca, 9 dicembre 1842 – Dmitrov, 8 febbraio 1921), è stato un filosofo, geografo, zoologo, militante e teorico dell’anarchia russo. Libertario, fautore di un’analisi sociologica e di una proposta poggiata su basi scientifiche dell’evoluzione sociale nelle comunità umane, con una propaganda fondata sui fatti, è stato uno dei primi sostenitori dell’anarco-comunismo. 8

Unwin Raymond fu un urbanista (Whiston 1863 - Old Lyme, USA, 1940). Seguace di E. Howard, lavorò fino al 1914 in collaborazione con Richard Barry Parker (1867-1941). Dopo aver progettato (1901) l’unità residenziale New Earswich (York), fu, con Parker, incaricato nel 1903 di realizzare la prima città-giardino, Letchworth, ispirata ai principi sociourbanistici di Howard e che rimane, nonostante la travagliata realizzazione, un punto di riferimento costante nell’urbanistica moderna. 9

Frederick Law Olmsted (Hartford, 26 aprile 1822 – Belmont, 28 agosto 1903) è stato un architetto del paesaggio e urbanista statunitense. Fu uno dei primi architetti paesaggisti della storia, interessato allo studio scientifico e tecnico dei problemi ambientali. 10

Colin Ward (Londra, 14 agosto 1924 - Ipswich, 11 febbraio 2010) è stato uno dei maggiori pensatori anarchici della seconda metà del XX secolo. Ha cominciato a lavorare come architetto prima, come insegnante poi. Per oltre vent’anni è stato scrittore e giornalista free-lance. Gran parte delle sue ricerche si occupano dei modi “non ufficiali” con cui la gente usa l’ambiente urbano e rurale, rimodellandolo secondo i propri bisogni. Ha così scritto una ventina di libri su temi sociologici e urbanistici come il vandalismo e gli orti urbani, l’occupazione di case e l’autocostruzione. 11

Colin Ward, Educazione alla conoscenza per la trasformazione dell’ambiente, in “Spazio e Società”, n.4, 1978, p.74 12

13

Ibidem

82


Ma per conoscere l’ambiente, nulla è più importante della sua esperienza concreta. E’ De Carlo, nelle vesti di Heres Jedece, a ricordare come attraverso l’esperienza diretta, nel doppio senso di partecipazione e azione diretta, la collettività possa riacquistare il senso della “partecipazione ambientale” e contribuire a ricomporre il “rapporto di congruenza tra ambiente urbano e ambiente sociale”.1 Il valore formativo dell’esperienza si esplica non solo nella semplice visione delle cose, ma nell’uso concreto degli spazi e nel fare progettuale dove abitanti e progettisti sono chiamati a realizzare una città possibile, capace di parlare un linguaggio di cui tutti siano in grado appropriarsi con naturalezza. Visto attraverso “Spazio e Società” il concetto di ambiente è molto ampio e include, nella sua definizione, tanto lo spazio fisico costruito, o ambiente urbano, quanto il paesaggio inteso come habitat naturale. Se, inizialmente, ci si concentra soprattutto sull’ambiente come spazio fisico costruito, con il passare del tempo la rivista rivolge maggiore attenzione all’ambiente considerato nella sua dimensione globale di luogo naturale e spazio antropizzato. C’è un particolare interesse dell’uomo a ristabilire un contatto con la sfera naturale e ripristinare il suo rapporto con la natura, ponendosi nei suoi confronti non più come dominatore e sfruttatore, ma anche per cercare di intervenire con rispetto e discrezione nel paesaggio naturale che è componente fondamentale del suo

Heres Jedece, La non cultura della città, in “Spazio e Società”, n.6, 1979, p.72 5

ambiente, dove, finalmente, dimensione umana e naturale si compenetrano vicendevolmente. Giancarlo De Carlo, nell‘editoriale del n. 54 dal titolo È tempo di girare il cannocchiale, dà giusto riconoscimento all’evoluzione nella rivista dell’approccio allo studio dei problemi ambientali. 83


Due sono gli obbiettivi prioritari che devono essere perseguiti. Da un lato, si tratta di educare, di costruire la consapevolezza dell’unita del territorio, di riconoscere che “ogni territorio ha un disegno ed è attraversato da innumerevoli stratificazioni”1, un disegno che non è fisso e immutabile ma “aperto, dinamico e mutevole”, sempre “alla ricerca costante di configurazioni di equilibrio che, una volta raggiunte, si dissolvono e ne cercano altre”.2 Resi consapevoli di queste specificità del territorio, bisogna abbandonare l’uniformità e l’indifferenza che generalmente contraddistinguono i “modi di intervento” sullo stesso; uniformità e indifferenza che non hanno effetti solo suiluoghi ma anche sui “modi di vita dei gruppi sociali e degli individui”3 portando ad un loro generale appiattimento. Da questa rinnovata consapevolezza, nasce l’urgenza di sviluppare “nuovi concetti che portino ad immaginare definire ed attuare trasformazioni spaziali in accordo (…) con la struttura e la figura dell’ambiente nel quale accadono”.4 È giunto secondo De Carlo il momento di “girare il cannocchiale”, di riconoscere che “l’ambiente è tutto e che territorio, campagna, periferia urbana, città (…) son casi particolari dell’ambiente umano”. Si avverte la necessità di un nuovo metodo, capace di tenere costantemente in considerazione le relazioni tra le diverse componenti territoriali, di definire strumenti di progettazione adeguati alle esigenze di trasformazione, di avvicinarsi, quindi, ad un approccio interdisciplinare alla progettazione. L’obbiettivo della ricerca non è più quello di ricomporre la frattura tra sociale e fisico, com’era in un primo momento, ma di comporre tra sociale e naturale, tra l’uomo e l’ambiente, considerando soggetto prioritario delle indagini non più l’uomo, ma il territorio nel suo insieme di componenti fisiche e sociali. 84

Giancarlo De Carlo, E’ tempo di girare il cannocchiale, in “Spazio e Società”, n.54, 1991, p.4 1

2

Ibidem

3

Ibidem

4

Ibidem


Geografo e orientalista, directeur d’études all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, Agustin Berque è una delle voci più originali e rilevanti nel panorama degli studi sul paesaggio in Francia. Negli anni ’90 del secolo scorso ha contribuito a rinnovare l’approccio delle scienze umane al paesaggio. 5

Augustin Berque, L’Ecumene. Per una problematica ambientale del mondo, in “Spazio e Società”, n.64, 1993, p.37 2

Hägerstrand, Torsten. Fu un geografo svedese (Moheda, Kronoberg, 1916 - Lund 2004), professore nell’università di Lund dal 1957, vicepresidente dell’Unione geografica internazionale dal 1968 al 1976. È stato il più autorevole rappresentante della scuola geografica di Lund, che tanta importanza ha avuto nello sviluppo degli studî di analisi regionale e del filone teoretico-quantitativo della geografia. Si occupò in particolare della diffusione spazio-temporale delle innovazioni. 3

L’articolo di Augustin Berque1 pubblicato nel n. 64 del 1993, sembra fornire alcune importanti indicazioni per delineare con maggior chiarezza la questione. Il problema ambientale è insito nella relazione esistente tra la superficie terreste e l’umanità, relazione che non dipende dall’una o dall’altra, ma dalla reciproca misura, ed è “l’espressione dell’abitabilità della terra”. La crisi del paradigma moderno classico (che si basa sullo sfruttamento del mondo fisico considerato come “insieme di oggetti” e astratto dal mondo soggettivo) ha portato a considerare l’ambiente nei “termini razionali dell’ecologia”2, ma anche a riconoscere la stretta dipendenza dell’uomo dal mondo fisico e sociale, e quindi la sua incapacità di astrarsi dallo stesso. Queste considerazioni portano con urgenza alla necessita di definire un “nuovo paradigma” che “rapportando a una misura comune ambiente e paesaggio, terra e uomo, ristabilisca l’unità sul mondo ambientale”. La transdisciplinarietà proposta da De Carlo diviene il punto di partenza fondamentale per la nuova prospettiva ecologica: è necessario che tutti i soggetti coinvolti si ritrovino in una visione unitaria dell’ambiente e del paesaggio. Ma questo nuovo approccio richiede anche una rivalutazione del nostro concetto di ambiente e del nostro modo di rapportarci con lo stesso. Dobbiamo ricordare come la richiesta di qualità ambientale non è legata al solo fatto di essere individui isolati sulla terra, ma anche in relazione al nostro essere parte di una società che trae il suo significato proprio nel rapportarsi con l’ambiente in cui vive. Come sottolinea Hägerstand3, è nel paesaggio che si esprime “il senso del nostro rapporto con l’estensione terrestre”.

85


Il paesaggio non è soltanto la superficie delle cose ma una “realtà fisica globale (…) un insieme formato da una miriade di parti intrecciate e interdipendenti”: la sua esistenza è cruciale per l’esistenza stessa degli uomini perché li motiva a vivere insieme attraverso il senso delle cose. Il conferimento di questi senso è “atto creativo dell’uomo”1 che può esprimersi nei confronti di qualsiasi elemento naturale. Questa nuova visione sposta l’attenzione dall’oggetto alle relazioni, quindi al rapporto che l’uomo ha con la natura in generale. La nuova prospettiva ecologica implica un nuovo e diverso impegno del progettista. Questo diverso approccio alla questione ambientale è all’origine della ricerca di un atteggiamento progettuale alternativo, che traspare nella rivista anche attraverso i progetti che vengono illustrati e raccontati. E’ Lucien Kroll ad offrire ai lettori un‘importante riflessione con il suo articolo Eco-logiche+architetture+urbanismi pubblicato nel n. 80 del 1997. Per troppo tempo le concezioni progettuali sono rimaste impermeabili alla presa di coscienza dell’ecologia, al suo porsi come “scienza delle relazioni ed esperienza creativa del paesaggio abitato”.2 Oggi è evidente come l’ambiente abitato dipendeva strettamente dal legame che gli uomini stabiliscono tra loro e il loro contesto, e come questi legami siano identici a tutti quelli che si osservano tra tutti i fenomeni viventi e il loro ambiente. La “modernità” si è ostinata a risolvere in modo razionale il problema dell’habitat, attraverso la definizione di sistemi tecnologici considerati universalmente validi e attraverso un linguaggio architettonico assurto al rango di “stile internazionale”. La crisi di questo approccio rivela lo “stile internazionale” in tutta la sua illusorietà, nel suo essere estraneo al mondo ambientale, nel suo negare i rapporti tra gli uomini, nel suo essere utopico, ovvero generatore di “non-luoghi”. .

86

Claudio Gambardeila, Il paesaggio relativo, in “Spazio e Società”, n.73, 1996, p.103 1

Lucien Kroll, Eco-logiche + architetture +urbanismi, in “Spazio e Società”, n.80, 1997, p.94 2

4

Ibidem


Antonio Petrilli, Frei Otto. Continuità ed evoluzione, in “Spazio e Società”, n. 28, 1984, p.26 5

Frei Paul Otto (Chemnitz, 31 maggio 1925 – Leonberg, 9 marzo 2015) è stato un architetto e ingegnere tedesco. Adolescente durante la Seconda guerra mondiale, durante i suoi studi Otto fu colpito dalla mancanza di materiali da costruzione e la penuria degli alloggi nel dopoguerra. Anche per questo sperimentò sin da giovanissimo «grandi tende» per il riparo che dovevano restare la nota caratteristica della sua ricca e prolifica opera: le «tensostrutture» costituite da membrane tese con struttura reticolare leggera e innovative, che aprirono la strada allo studio delle «superfici minime». 2

Frei Otto, La nuova pluralità. Intervento al Debau Congress Essen, gennaio 1989. Due progetti, in “Spazio e Società”, n.50, 1990, p.11 3

Antonio Petrilli, Frei Otto. Continuità ed evoluzione, in “Spazio e Società”, n. 28, 1984, p.28 4

Antonio Petrilli, Frei Otto. Continuità ed evoluzione, in “Spazio e Società”, n. 28, 1984, p.14 5

Attilio Petruccioli, Sguardi sul paesaggio quotidiano americano, in “Spazio e Società”, n.88, 1999, p.74 6

Oggi l’ecologia rivela secondo l’autore un nuovo atteggiamento di ricerca, un diverso orientamento intellettuale che nasce dal pensare il “problema irrazionale”, nel suo essere legato all’emozione e al sentimento della gente, e il cui obbiettivo è quello di stabilire un rapporto con la natura e costruire un nuovo “paesaggio culturale”. Esiste una nuova generazione di architetti che si fa promotrice di questo nuovo approccio ecologico all’architettura: questi architetti operano nella consapevolezza che l’essenza dell’architettura, la sua specificità, “sta proprio nelle relazioni che intercorrono tra le sue configurazioni fisiche, l’ambiente e coloro che lo esperiscono“.1 Il loro atteggiamento nasce dalla volontà di non servire più solo i committenti o gli utenti specifici di un particolare progetto, o costruire solo per l’uomo o l’umanità come entità generali e inevitabilmente astratte, ma di perseguire, invece, quella che Frei Otto2 chiama “nuova naturalità totale”3. Edifici ed utenti sono parte di un tutto più ampio: l’uomo non è più al centro della natura. Questa interpretazione nasce dalla conoscenza dell’ambiente come “insieme di sistemi ecologici”, di “forme equilibrate di convivenza”4; anche gli insediamenti umani sono “sistemi ecologici” e il loro equilibrio, come per gli altri sistemi, può essere alterato o distrutto. Questo implica da parte di tutti il rispetto degli ecosistemi locali ma non nei termini di una “cieca conservazione della natura”, quanto piuttosto di “integrazioni dell’individuo naturale nel suo ambiente, nel mondo in cui vive”5; in fondo, un paesaggio è sempre comunque “un rapporto dialettico tra umani e natura”6. Le nuove elaborazioni teoriche confluiscono in una metodologia attenta ai luoghi, alle diversità culturali, alle specificità dell’ecosistema: solo un’attenzione alle “specificità ambientali” può contribuire ad arricchire e valorizzare i paesaggi. 87


Il rispetto del sito, del contesto, impone di conoscere oggettivamente “gli ecosistemi che differenziano lo spazio fisico“; è questa una necessità ecologica che dà un nuovo impulso all’architettura e alla progettazione in genere e alla nascita di un’espressione nuova, un mestiere diverso, una nuova chiarezza di vedute.1 “Spazio e Società” si fa così promotrice di una ricerca progettuale innovativa che ha in Frei Otto un autorevole interprete. Precorrendo i tempi, Otto già in un articolo pubblicato nel 1984, proclamava la necessità di costruire in modo “ecologicamente corretto”, perché “questo è quanto chiede il nostro tempo agli architetti moderni”2. Costruire in modo ecologicamente corretto implica sviluppare una nuova tradizione secondo cui ogni edificio deve essere “a misura d’uomo”, ecologico e quindi intrinsecamente naturale. Ma significa anche ridurre le dimensioni, la superficie, il consumo di energia delle costruzioni, eliminare la costruzioni inutili: significa prevedere che gli edifici possano subire modificazioni nel tempo, siano cioè flessibili e soggetti a cambiamenti indotti da nuove domande, che sia ridotta al minimo ogni violenza e ogni impatto sull’essenza biologica del luogo. Solo in questo modo la costruzione può diventare “naturale”. Frei Otto e le sue formulazione teoriche (che hanno trovato concreta applicazione nell’esperienza delle case ecologiche di Berlino, pubblicate nel n. 723) non rappresentano che una delle diverse “vie possibili“ per rapportarsi al problema della progettazione ecologica. .“Spazio e Società” non si limita quindi a proporre il suo unico punto di vista, e nel corso di una serie di contributi la traccia segnata da Frei Otto si dirama in molteplici direzioni: dall’ipotesi della bioarchitettura4, all’architettura antropomorfa di Erik Asmussen5, passando per i modi ecologici

88

Lucien Kroll, Eco-logiche + architetture +urbanismi, in “Spazio e Società”, n.80, 1997, p.97 1

Antonio Petrilli, Frei Otto. Continuità ed evoluzione, in “Spazio e Società”, n. 28, 1984, p.28 2

Frei Otto, Le case ecologiche di Berlino, in “Spazio e Società”, n.71, 1995, p.20 3

Betta Latis, Baubiologie. Diario di un viaggio, in “Spazio e Società”, n.66, 1994, p.102 4

Erik “Abbi” Asmussen (November 2, 1913 – August 29, 1998) fu un architetto danese Danish che lavorò a Järna, Svezia. 5


Sverre Fehn (Kongsberg, 14 agosto 1924 – Oslo, 23 febbraio 2009) è stato un architetto norvegese. Le opere di Fehn ripercorrono il senso del forte legame uomo-architettura-natura. I grandi spazi non sono semplicemente un mero contenitore in cui inserire l’opera progettata, ma costituiscono un segno tangibile e forte che l’uomo percepisce ed al quale tende ad adattarsi costruendo le sue opere e seguendo un percorso di ricerca in continuo divenire. 5

Nicolò Ceccarelli, Curitiba, una città sostenibile, in “Spazio e Società”, n.70, 1995, p.66 2

Ippolito Pizzetti (Milano, 1926 – Roma, 15 agosto 2007) è stato un paesaggista, saggista, traduttore e architetto italiano. All’attività letteraria, e alla progettazione di giardini, si affiancheranno negli anni le collaborazioni con alcuni tra i più importanti architetti del ‘900 italiano (Quaroni, De Carlo, Valle, Gregotti, Aymonino). Ha insegnato nelle Università di Palermo, Venezia e Ferrara dove ha tenuto per diversi anni un corso in “Architettura del Paesaggio”. Un docente amato dagli studenti, ma anomalo, un uomo di lettere con una cattedra davanti a futuri architetti. 3

Ippolito Pizzetti, Un parco è un parco è un parco. Il concorso di La Villette, o nostalgia della piazza, in “Spazio e Società”, 1984, p.34 4

5

Ibidem

di Sverre Fehn1, o della fattoria “agroecologica” di Ruben Pesc, fino ad arrivare al caso della città a “sviluppo sostenibile”, Curitiba, di cui Ceccarelli porta testimonianza nel n.70.2 Esperienze diverse ma accomunate dall’unico obbiettivo di definire un’architettura “ecologicamente corretta”. E’da includersi in questo nuovo orientamento della rivista l’interesse per il parco, anche se non è una questione nuova per “Spazio e Società”. Infatti nel 1984, Ippolito Pizzetti3, nel suo articolo Un parco è un parco, iniziava già il dibattito destinato ad avere lungo seguito nella rivista. Il concorso per il parco delle Villette a Parigi, era per l’autore l’occasione per interrogarsi sul significato del termine del parco, e l’ambiguità e la contraddizione del bando di concorso inducevano ad un’attenta riflessione sul parco XXI sec.. Nel caso specifico si osservava come in realtà i progetti rivelassero il desiderio recondito di sopperire ad una mancanza fondamentale della città moderna, e cioè di quel condensatore sociale che è la piazza, ”la piazza come punto d’incontro, come cuore della città e del quartiere (…) come luogo abituale di incontro e riunione“.4 Questo per evidenziare come il parco tradizionale fosse utilizzato in modo improprio, interpretato come qualcosa che in relax non è, non può essere, da qui l’insoddisfazione, l’abbandono, la manomissione. Il dibattito nasce dunque dal rievocare il significato più profondo del parco, nel ricordare come esso “instaura un rapporto tra l’uomo e la natura e, se non lo instaura, lo porta a livello di coscienza generale, lo pubblicizza5. Nel parco, “l’elemento vegetale, l’albero, il cespuglio, non e più soltanto un oggetto ornamentale o un pezzo di arredo, ma diventa il fuoco di interesse, il protagonista”; la grande novità è “nella scoperta della natura come emozione”. 89


Il fatto che l’elemento naturale, attraverso cui il parco si realizza, sia dotato di una propria vita, di una propria indipendenza e autonomia, può certo costituire una limitazione nella sua concezione progettuale. Ma la preoccupazione principale non deve essere quella dell’invenzione inedita a tutti i costi. Scopo non è la creazione di modelli innovativi ma la realizzazione del parco nella sua essenza, come luogo in cui l’uomo possa ristabilire il suo dialogo con la natura e ritrovare allo stesso tempo il piacere di vivere nella collettività. Riconoscere il crescente interesse e l’aumento della sensibilità collettiva per il verde, significa ammettere la mancanza, nel nostro paese, di una politica ambientale efficace e coerente e di una formazione professionale per gli operatori del settore. Non è mai esistita una specializzazione in materia, un diploma in paesaggistica, fatta eccezione per alcuni corsi nella facoltà, concentrati però a considerare questa come un’arte e curarne soprattutto gli aspetti estetici, di disegno. Le cose sono cambiate quando è maturato un interesse nei confronti del verde, e in particolare, dei parchi naturalistici e nazionali e del paesaggio. Il disegno, considerato sino ad allora come l’unico elemento importante, passa in secondo piano, lasciando finalmente spazio ad altre importanti questioni che richiedono una progettazione di tipo interdisciplinare. Si inserisce in questa linea di ricerca l’investigazione avviata dalla rivista sulla progettazione dei parchi (e, più in genera-

le, sulla progettazione ambientale dei territori) sia all’interno del contesto italiano, sia vagliando una serie di esperienze condotte all’estero. Una volta in più l’occasione per misurare un certo ritardo nel nostro paese. Nella emblematica vicenda del Parco di Agrigento trattata nel n.64 del 1993, ad esempio, Giuseppe Cinà ravvisa 90


Giuseppe Cinà, Agrigento: il parco archeologico, in “Spazio e Società”, n.64, 1993, p.111 2 Nicolò Ceccarelli, Curitiba, una città sostenibile, in “Spazio e Società”, n.70, 1995, p.66 5

IMassimiliano Curreri, La riconversione di un territorio. L’esperienza dell’IBA nel territorio della Ruhr, in “Spazio e Società” n.78, 1997, p.4 4 Ippolito Pizzetti, Un parco è un parco è un parco. Il concorso di La Villette, o nostalgia della piazza, in “Spazio e Società”, 1984, p.34 3

la mancanza di una cultura progettuale, la difficoltà di pensare una configurazione formale e funzionale in cui le diverse discipline interessate al parco trovino terreno d’intesa.1 Nel parco si riflette la storica frattura tra architetti e archeologi. Mentre il progetto del Paseo Marittimo di Empuries, ripreso da Ceccaroni alcuni numeri dopo, dimostrerebbe la possibilità di riunire, in unico sistema organico, risanamento del paesaggio, infrastrutture viarie, un progetto museale e un piano di recupero del centro storico, dando così vita ad una visione in cui memoria e paesaggio si fondono. Oppure, ancora, la riqualificazione del territorio della Ruhr, progetto pubblicato nella rivista nel 1997, testimonia un nuovo modo di intendere il parco, come sistema di relazioni territoriali, ambientali e paesaggistiche il cui denominatore comune è dato dalla riqualificazione del sistema ecologico; interpretazione che, in anticipo sui tempi, rivela la capacità di andare oltre una visione settoriale, specialistica e limitata del progetto paesaggistico. Nelle pagine della rivista allo sviluppo del tema del parco si accompagna una riflessione sul giardino. Anche il giardino ci aiuta a stabilire un rapporto diretto con la natura: Ippolito Pizzetti afferma che il suo scopo è quello di “renderci familiare un mondo, anzi il mondo intero della natura che ci circonda e di renderci coscienti di un contesto che la vita da noi oggi vissuta ci porta sempre più […] a non vedere.”2 Attraverso l’esperienza diretta, il giardino instaura al livello della coscienza una conoscenza completa di ciò che è nella forma, cioè l’essenza stessa della natura. Rappresenta quindi lo strumento per appendere il contesto e per appropriarsene, per appropriarsi delle sue forme; un’appropriazione resa possibile solo dall’intima conoscenza della relazione tra il nostro esistere e il contesto in cui operiamo. Il giardino pubblico è l’ambito spaziale che garantisce la socializzazione degli uomini e il rapporto con l’ambiente. 91


Ma il tema del giardino, nel suo essere accantonato da una diversa e più complessa tradizione storica, si configura come diverso da quello del parco, ricco di sfumature simboliche misteriose che Franco Zagari ci aiuta a cogliere. Il giardino nasce da un’eterna necessità culturale, fra le più ostili e sofisticate dell’architettura1: nella sua essenza rievoca gioco e simbolismo, meraviglia e tecnologia. Tra le opere di architettura, il giardino è quella che maggiormente nella storia ha espresso “le esigenze e ritmi fondamentale della vita, o meglio che ne ha saputo cogliere la proiezione immaginaria”2. Nei suoi disegni sono racchiusi significanti simbolici e nei visitatori sollecita un senso di meraviglia e di stupore, legati al suo essere gioco, gioco come valore autonomo esplicito. Non a caso, si riconosce come il giardino abbia nel suo momento ludico il più raffinato contenuto scientifico.3 Ma non solo, come macchina simulatoria, esso riflette un’idea del principio insediato degli uomini. Dominio, recinto, abitazione sono i concetti dell’analogia fra giardino e città; ogni società si è così trovata a rispecchiare nel giardino le proprie proiezioni profonde di “sogni e potere”. Proprio nell’atto simulatorio si riconosce la necessità intellettuale del giardino ma anche la sua fragilità. Il problema è forse quello di superare questo momento di difficoltà, di ricolmare il vuoto concettuale ma anche di emancipare il giardino dalla sua povertà figurativa con un grande sforzo innovativo4. Ma anche di andare oltre la sterile proposizione di impianti classici, ricercando nuovi significati e, perché no, una nuova iconologia. Può essere utile partire dal passato, dall’analisi delle forme storiche, dalla letteratura di una tradizione da cui possono emergere nuovi spunti per una progettazione innovativa.

92

Giuseppe Cinà, Agrigento: il parco archeologico, in “Spazio e Società”, n.64, 1993, p.111 1

Franco Zagari, Su parchi e giardini Il giardino: gioco e profezia, in “Spazio e Società”, n.30, 1984, p.78 2

Franco Zagari, Su parchi e giardini Il giardino: gioco e profezia, in “Spazio e Società”, n.30, 1984, p.78 3

Lamberto Rossi, Vincenzo Casali, Liliana Marra, Lucio Quaranta, Franco Zagari (a cura di) Qualità diffusa. Attrezzature collettive in Italia, in “Spazio e Società”, n.35, 1986, p.48 4


“Spazio e Società” sembra così cogliere l’avvio di una nuova ricerca che “sembra turbare l’apparente immobilità iconografica e economica del giardino”; nuove esperienze che puntano “su un’architettura dei comportamenti”. Quando si parla di giardino, si deve necessariamente rimandare ad un sistema di spazi progettati nella città costituiti da elementi urbani. La loro concezione deve soddisfare delle esigenze precise ma anche richiamare ad una consapevolezza sociale, ad una evoluzione dei comportamenti collettivi e quindi ad un diretto coinvolgimento degli interessati. In questa direzione sembrano muoversi le testimonianze riportate dalla rivista, testimonianze che provano la volontà di investire il tema del giardino di nuovi e importanti significati.

93


Disegno realizzato da Anna De Carlo, tratto da “Spazio e Società”, n.3, 1979, p.73

94


3.2 Le Città del Mondo Nella rivista “Spazio e Società” il tema dell’internazionalità è fortemente rappresentato non solo dalle corrispondenze con gli autori provenienti da ogni parte del mondo, ma anche e soprattutto dal fatto che uno sguardo partecipato e coinvolto è sempre rivolto a situazioni urbane e a città appartenenti al contesto e europeo, ma anche intercontinentale. L’attenzione verso queste diverse realtà urbane, ha infatti sempre ricoperto un ruolo dominante all’interno della rivista e, non a caso, anche nel pensiero di Giancarlo De Carlo, che vedeva nello studio di questa varietà ed eterogeneità tipologica dei progetti urbani un’occasione di apprendimento ed arricchimento che riteneva fondamentale trasmettere a tutti i lettori della rivista. Scriveva De Carlo:

Marcello Balzani, Editoriale, Architetto, fai qualcosa di sociale, in “e-zine”, n. 39, Rimini, giugno 2011, p.2 1

“Eppure io sono convinto, che “Spazio e Società” ha svolto un ruolo che altre riviste di architettura non si assumono. Per esempio nessuna rivista italiana, e pochissime straniere, si occupano dei Paesi del Terzo mondo. Noi ce ne siamo occupati, con inchieste, articoli e perfino dossier sull’India, sul Brasile, sull’Argentina, sui Paesi detti in via di sviluppo. Siamo

persuasi che in quei Paesi è ancora possibile trovare connessioni interessanti tra i problemi dello spazio e quelli della società; che lì ancora esistono focolai di invenzione, architettura candida e aderente ai luoghi.”1

95


In “Spazio e Società”, la trattazione delle varie sfaccettature della realtà dell’universo urbano viene raccontata attraverso due fondamentali atteggiamenti: da una parte, la narrazione dei vari tipi di città, l’interpretazione e la descrizione delle loro particolarità e dei loro aspetti caratterizzanti; in secondo luogo, una riflessione dei vari metodi e approcci tramite cui il progetto urbano e di architettura può intervenire in queste diverse tipologie di città. Gli autori che, nella rivista, si sono occupati di restituire caratteri, problemi e progetti di queste diverse realtà, sono sempre direttamente coinvolti in esse, ne fanno parte e le conoscono in modo sincero, riflettendole autenticamente. I “Dossier”, approfondimenti che la rivista dedica a diverse realtà urbane, sono gli strumenti tramite cui raccogliere testimonianze, interpretazioni di tracce urbane che, di volta in volta, costituiscono una raccolta di casi studio ed esempi particolari e mai uguali fra loro; che pongono questioni e temi di riflessione specifici di quei contesti ma utili per interrogarsi, più in generale, sul senso del progetto, dell’architettura e della città

96


Balkrishna Doshi, Dossier India, Introduzione, in “Spazio e Società”, n. 38, 1987, p. 45 1

Balkrishna Doshi, Dossier India, Introduzione, in “Spazio e Società”, n. 38, 1987, p. 45 2

Balkrishna Doshi, Dossier India, Introduzione, in “Spazio e Società”, n. 38, 1987, p. 45 3

Balkrishna Vithaldas Doshi (Pune, 26 agosto 1927) è un architetto indiano. Dopo aver lavorato per quattro anni con Le Corbusier nello studio di Parigi, Doshi ritornò in patria per visionare da parte di Le Corbusier i maggiori lavori che ebbe in India, ad Ahmedabad e a Chandigarh. Aprì il suo studio, Vastu-Shilpa (progettazione ambientale), nel 1955. Doshi lavorò anche con un altro grande architetto - Louis Kahn - assieme a Anant Raje - al progettato del campus del’Indian Institute of Management ad Ahmedabad. Nel 1958 fu membro alla Graham Foundation for Advanced Studies in the Fine Arts a Chicago, fondandovi nel 1962 la Scuola di Architettura. Doshi ebbe inoltre un’importante attività didattica. Fondò diverse istituzioni indiane: la Scuola di Architettura di Ahmedabad nel 1962, fondò e diresse anche la School of Planning e il Centre for Environmental Planning and Technology nel 1972. Fu inoltre membro di importanti istituzioni quali il Royal Institute of British Architects e l’Indian Institute of Architects. Fu anche commissario del Premio Pritzker, dell’Indira Gandhi National Centre for Arts, e del Premio Aga Khan per l’Architettura. 4

3.2.1 La città indiana Nella Rivista, una considerazione particolare viene rivolta allo studio della città indiana. L’immagine che deriva dai “Dossier” pubblicati a riguardo, è quella di una complessa società definita come “crogiolo di culture, arti e concezioni indigene e straniere”1 e la dimensione in cui si colloca è decisamente distante da quella occidentale; si tratta di una “dimensione diversa, non legata al tempo, o ai soldi, ma a qualcosa difficile da descrivere, all’essere contenti”2 e di un sentimento religioso che il nostro mondo ha, in qualche modo, perso di vista. “In India nessuno è mai solo […] quello che l’individuo perde in termini di privacy […] è ampiamente compensato dai valori umani e sociali. Il senso di rispetto del prossimo inteso come collettività si mescola dunque con un senso religioso e il risultato è sempre una grande sensazione di sicurezza: c’è sempre qualcuno che si prende amorevolmente cura di noi, così come noi ci prendiamo cura degli altri”.3 Nel Dossier India, pubblicato all’interno del n. 38 Di “Spazio e Società”, nel 1987, la voce narrante è Balkrishna Doshi4, che ci guida nella conoscenza dell’universo indiano e delle

sue filosofie, in cui religione, cultura, arte e natura si fondono permeando ogni aspetto della vita quotidiana. Infatti questi aspetti sono ben radicati nella società indiana rappresentando dei veri e propri valori umani che si intrecciano e definiscono il modo di vivere determinando così gli spazi che si costituiscono attorno ad essi. 97


La percezione dello spazio, non è dunque sconnessa dalla percezione della vita e della società nel caso delle città indiane, ma anzi proprio da essi traiamo l’esempio di come un luogo diventi spazio sociale. Questa sacralità che si percepisce in ogni aspetto del vivere indiano, permea l’architettura e l’intero ambito del costruito. Risulta quindi immediato come la concezione della città sia intimamente legata a questo pensiero; dall’analisi delle città antiche si percepisce come il disegno di esse presenti l’impronta della cultura da cui trae l’origine, riflettendone la complessità e l’essenza. Le città indiane antiche nella cultura odierna si confermano come concrete prove di come da questa concezione derivino di fatto degli spazi in cui sia rintracciabile un forte senso urbano, in cui l’articolazione continua infonde in coloro che sperimentano gli spazi un’esperienza sempre nuova: “la scena cambia di continuo, slarghi e strettoie si susseguono, ma la dimensione, la scala, rimane sempre intima e raccolta”.1 Nonostante ogni città abbia dei tratti accumunabili, si caratterizza tramite una propria identità, che viene conferita proprio dall’architettura. Infatti in esse “non c’è mai monotonia perché ogni elemento è diverso, l’armonia essenziale dei rapporti consente, al suo interno, variazioni infinite”.2 Ad oggi, l’interesse per le tecniche ispirate ai valori tradizionali e per i materiali locali si è riacceso fortemente, focalizzandosi nuovamente sull’organizzazione dello spazio che privilegia il “sistema delle corti” connesse tra di loro ed intorno alle quali si svolgono le attività. Nella pianificazione urbana si predilige un’edificazione densa e compatta, mentre la pluralità d’uso dello spazio sostituisce lo zoning funzionale3.

98

Ranjit Sabiki, Il disegno delle città, in Spazio e Società, n. 38, 1987, p.88 1

2

Ibidem

L’attività di zonizzazione è quella mediante la quale la pubblica amministrazione suddivide il proprio territorio comunale in zone alle quali viene riconosciuta o attribuita una determinata funzione con conseguente attribuzione di vincoli ed altri limiti da osservare per ciascuna zona. 3


Queste nuove tendenze in ambito progettuale devono però interfacciarsi con il sistema dell’economia indiana, in via di sviluppo, che crea dei problemi a livello urbanistico, che ha portato a riconoscere nella politica economica e nei conflitti d’interesse tra le classi sociali la causa principale dei problemi della città. L’implicazione che ne deriva richiede quindi un forte coinvolgimento della categoria dei professionisti del settore, architetti e urbanisti in particolar modo. Ciò che viene richiesto però è un professionista che sia in grado di interpretare lo spirito di questa cultura e delle sue città, che sia capace di svolgere quindi diversi ruoli, dall’ecologo al sociologo, dal paesaggista all’umanista, per far sì che possa al tempo stesso essere indiano e cittadino del mondo, riuscendo q a proporre soluzioni attinenti al luogo di intervento ma anche proponendo degli spunti derivanti dalla conoscenza di altri ambiti provenienti da altri paesi.

99


Rappresentazione dei primi insediamenti in cina, tratto da http://www.pangea-project.org/evoluzioni-tipologiche/

100


3.2.2 La città cinese

Il taoismo o daoismo, termine di conio occidentale, designa le dottrine a carattere filosofico e mistico, esposte principalmente nelle opere attribuite a Laozi e Zhuāngzǐ (composte tra il IV e III secolo a.C.), sia la religione taoista, istituzionalizzatasi come tale all’incirca nel I secolo d.C. Essa è basata sul Dao (in cinese “la via”), il principio indifferenziato che dà origine al cosmo. È principalmente una religione cosmica, centrata sul posto e la funzione dell’uomo, di tutte le creature e dei fenomeni in esso. 1

Il complesso delle dottrine etico-religiose tramandate da Confucio (551-479 a.C.) e professate in Estremo Oriente, soprattutto in Cina; sinteticamente possono configurarsi nell’amore per gli altri, nella pietà fraterna, nel controllo di sé stessi e nel rispetto della tradizione. 2

Jiaji Zhang, Luo Xiaowei, Dossier Cina, La concezione dello spazio, in “Spazio e Società”, n. 34, 1986, pp.92-101 3

Nel 1986, all’interno del numero 34 di giugno, “Spazio e Società” dedica un Dossier alla città cinese. Anche in questo caso la scelta operata da De Carlo è quella di lasciare la parola ad autori di origine cinese e quindi direttamente coinvolti nelle vicende di quel territorio, se nonché profondi conoscitori del legame assoluto che da sempre si instaura tra la città, la società e la filosofia della cultura cinese. Infatti, come nel caso della città indiana, anche per le realtà appartenenti a questa cultura, il punto di partenza più adeguato si dimostra la concezione dello spazio e nella filosofia cinese. Intimamente legata al concetto di universo, al mondo della natura ma anche all’uomo e al modo di vita, da questa concezione nasce un’arte che influisce sulla disposizione degli spazi nell’abitazione e negli edifici, sul loro orientamento, sulle loro relazioni con il contesto. L’ambiente culturale è sempre stato alimentato da diverse dottrine e, principalmente, dal taoismo1 e dal confucianesimo2, che nel corso dei secoli, hanno influito profondamente sulla concezione dell’arte e dell’architettura cinesi. Il valore che viene condiviso da queste e altre dottrine e che è alla base di tutta la società cinese, è proprio la concezione dello spazio, la credenza secondo cui esso “è il luogo dove coesistono armoniosamente in unità perfette bipolarità diverse, che nel tempo si muovono, mutano, interagiscono e si influenzano a vicenda””.3 Jiaji Zhang e Luo Xiaowei sono gli autori dell’articolo “La concezione dello spazio”, contenuto all’interno del Dossier Cina e sottolineano come lo spazio nella città cinese, non venga considerato come unità misurabile, 101


come dimensione, definibile come forma, modificabile come orientamento o esprimibile nel linguaggio, ma possa essere percepito solo per “intuizione interiore”1. Lo spazio è parte della sfera della comprensione logica ma intangibile dell’uomo, è un suo sentimento che diventa palpabile solo quando acquista forma concreta. In questa filosofia è racchiusa la vera essenza dell’architettura cinese. È necessario considerare le esigenze di un modo di vita tradizionale che si esprime nella consistenza stessa del tessuto urbano. Nelle città contemporanee cinesi, la rinascita dell’urbano e l’affermazione della sua identità possono derivare da un confronto con la tradizione, attraverso un ritorno alle origini. Ad oggi, vi è la consapevolezza della ricchezza della tradizione e della cultura cinese.

Jiaji Zhang, Luo Xiaowei, Dossier Cina, La concezione dello spazio, in “Spazio e Società”, n. 34, 1986, pp.92-101 1

102


3.2.3 La città islamica

Alireza Naser Eslami, architetto, insegna Storia dell’Architettura all’Università degli studi di Genova, Dsa, «Dipartimento di Scienze per l’Architettura». Ha insegnato presso le Facoltà di Architettura di Milano e di Reggio Calabria, e presentato relazioni in molti convegni internazionali. Autore di numerosi saggi e articoli a proposito della città islamica e dell’architettura orientale. 1

Naser Eslami, Massimo Morini, Alla ricerca di una identità. Forma e struttura della città dell’Oriente islamico. In “Spazio e Società”, n. 57, 1992, pp. 100-109 2

3

Ibidem

L’indagine della rivista attorno agli studi relativi a città appartenenti ad altri mondi, prosegue con l’analisi della forma e della struttura della città islamica, tramite il racconto di Naser Eslami1 e Massimo Morini.2 Le ricerche condotte hanno, in particolare, portato alla luce alcune caratteristiche fondamentali di queste città, rivelandone l’aspetto, ma lasciandone ancora inesplorata l’ossatura interna e le relazioni sociali e culturali nello spazio. La città islamica veniva descritta come irregolare, anarchica, illeggibile dal mondo occidentale, che ne prendeva nella maggior parte dei casi, le distanze. Nell’articolo, si evidenzia come in quegli anni, si comprendesse appieno che nella città islamica l’assenza di una struttura non sia da intendersi come disordine, e, soprattutto, si privilegiasse un approccio in base al quale più che enfatizzare i tratti comuni, si sottolineano le differenze. Infatti, saper riconoscere le differenze diviene “il primo passo di una ricerca che ha il compito di muoversi in una realtà complessa e multiforme”.3 La ricerca comparativa diventa lo strumento di conoscenza più evoluto nella ricerca sulla città dell’Oriente islamico, aiutando a sgombrare il campo da idee preconcette e stereotipi spesso errati. In questo tipo di ricerca comunque si riconoscono anche tratti comuni nelle diverse espressioni della città. Il primo elemento è relativo al rapporto tra città e territorio, il secondo al rapporto tra potere e forma urbana. In questo articolo, l’indagine viene effettuata a partire dalle origini della realtà urbana. Ci informa così che le condizioni fisiche e geografiche dell’area sottoposta al dominio musulmano abbiano portato ad una forma di urbanizzazione particolare. 103


L’importanza del commercio, degli scambi tra città poste a notevoli distanze le une dalle altre, ha influito direttamente sulla distribuzione degli insediamenti nel territorio. Le relazioni commerciali hanno trasformato le città in punti di sosta, luoghi di riferimento, incidendo anche sulla loro configurazione e struttura interna, dando forma anche alla vita pubblica e di relazione. Nella città islamica, un’importanza particolare viene conferita allo spazio pubblico, a cui viene data una valenza e un significato differente rispetto alla città occidentale. Esso diviene “il luogo dove si concentrano tutte le principali attività sociali: dalla religione, all’insegnamento, dal commercio all’esercizio della giustizia”1 e si configura come insieme di spazi, dove vuoto e costruito si integrano a vicenda all’interno di un disegno urbanistico più ampio. Il confine tra spazio pubblico e spazio privato è piuttosto labile, come dimostra il fatto che il carattere difensivo della città araba deriva anche dal controllo da parte degli individui che considerano l’area esterna alla propria abitazione come “un’estensione dello spazio privato, sottoponendola a una autentica giurisdizione”.2 La complessità del sistema della città islamica viene infine descritta dagli autori come “un cosmo fittamente compartimentale e scandito da porte che si chiudono su altre porte: essa è allora non un mondo impenetrabile ma un mondo che piuttosto invita ad accedervi”.3

104

Naser Eslami, Massimo Morini, Alla ricerca di una identità. Forma e struttura della città dell’Oriente islamico. In “Spazio e Società”, n. 57, 1992, pp. 100-109 1

2

Ibidem

4

Ibidem


3.2.4 La città americana

Thomas M. Colbert, Houston: la Bella e la Bestia, in “Spazio e Società”, n. 40, 1987, pp. 94-101 1

Thomas Matthew Colbert, 1954-2015, è stato uno stimato professore, architetto e artista. Dedicò la sua vita e il suo lavoro all’Università di Houston, in particolare per la conservazione delle coste e alla progettazione di infrastrutture per la protezione dagli uragani. Il suo lavoro di progettazione architettonica e urbana in risposta alla minaccia di eventi metereologici estremi, come gli uragani, gli ha conferito l’assegnazione di diversi premi ed è riconosciuto a livello nazionale e internazionale. 2

Thomas M. Colbert, Houston: la Bella e la Bestia, in “Spazio e Società”, n. 40, 1987, pp. 94-101 3

L’intento di Giancarlo De Carlo è sempre stato quello di una collaborazione costante con autori provenienti da ogni parte del mondo, che potessero quindi raccontare le proprie realtà e differenti esperienze all’interno della rivista. Da qui prende corpo un confronto costante con la cultura della città americana, soprattutto negli anni in cui “Spazio e Società” usciva con un numero all’anno a cura della redazione americana, contenenti articoli che si occupavano di esplorare un universo urbano agli antipodi rispetto a quello rappresentato dalla città occidentale o da quella islamica. La città americana viene presentata come l’emblema della città occidentale in crisi, “slabbrata e senza forma, fondata sul profitto anziché sul benessere umano, sembra manchi di qualsiasi bellezza […].1 Niente sembra essere più distante dalla realtà orientale, dalla sua concezione filosofica dello spazio in cui religione, storia e cultura si fondono permeandola di significati profondi, radicati nella coscienza e nella percezione collettiva. L’articolo di Thomas Colbert2, pubblicato nel numero 40 di “Spazio e Società”, del 1987, restituisce l’immagine di una città che nasce sul mito dell’automobile e lo alimenta, progettata e pianificata in funzione dell’auto che, ineluttabilmente, muta anche il modo di vivere e percepire la città. Nella città americana lo spazio si percepisce come “rapida sequenza di angolazioni separate”: la continuità della percezione spaziale è frantumata dall’esigenza di chi guida. In essa “lo spazio come elemento formale e cognitivo, definito dai concetti classici di misura, contenimento, asse […] praticamente non esiste”.3 Ne deriva un’esperienza cinetica e frammentaria. 105


Il caso di Dallas1, riportato da David Dillon nel numero 46, è emblematico di una città in cui l’auto sostituisce l’uomo nella misura dell’urbano, anzi il pedone è qui considerato come un impedimento, una anomalia fastidiosa. Un altro fondamentale elemento accentua la distanza dall’universo urbano orientale, elemento identificabile nel ruolo della storia, che definisce la città come concrezione di tessuti depositati nel tempo dall’opera dell’uomo. Lo spirito di evoluzione, di continuità storica non esiste: invece di migliorare la qualità di vita di un luogo “sembra più comodo economicamente, socialmente e politicamente, spostarsi più in là”.2 L’impianto della città americana in genere non nasce da situazioni urbane precedenti, dal sedimentarsi di tradizioni culturali, ma è spesso frutto di una logica economica e/o speculativa.I rapporti tra edificio ed edificio sono indecifrabili, le connessioni urbane che arricchiscono le vecchie città sono inesistenti. Dillon sottolinea come in essa il senso del “vernacolare”, della tradizione sia assente: lo spazio diventa una tabula rasa su cui ognuno è libero di scrivere ciò che gli pare.3 Lo skyline delle città americane diventano ormai un “prodotto da esportazione”, un’icona che facilmente rimane impressa nella memoria del visitatore, esprime chiaramente la logica economica e competitiva su cui si strutturano; sembra essersi completamente perduto il senso del valore del genius loci. Il centro inteso non come semplice posizione geometrica ma come “senso del tempo, del luogo, della cultura”, è

difficilmente identificabile. Mancano luoghi di aggregazione sociale, manca “l’unica ragione del vivere urbano: la manifestazione basilare tangibile della cultura umana”.4 La città americana richiede pertanto un intervento urgente che dia unità e nuova identità ai suoi spazi, integrandoli in un’immagine urbana in cui gli abitanti possano riconoscersi. 106

David Dillon, Dallas: una città di “mezzo”, in “Spazio e Società”, n. 46, 1989 1

2

Ibidem

3

Ibidem

Lane M. Duncan, Atlanta: fuga dal centro, in “Spazio e Società”, n. 46, 1989 4


Questo implica la nascita di una nuova sensibilità collettiva per il passato, per una tradizione che deve essere alimentata e conservata. Forse è proprio per questo che i maggiori contributi nella ricerca della partecipazione alla definizione e al recupero degli spazi collettivi pubblicati giungono proprio dall’America, dove maggiormente si avverte il disagio della mancanza di spazi come “luogo del sociale”.1 Restituire valore monumentale alle architetture della città, restituire agli spazi il senso dell’identità civica, fare della città un “centro catalizzatore”, interrompendo così il suo dialogo informe: sono questi gli obiettivi del piano per la città americana di domani, ma anche il monito che essa fornisce per una cultura europea in via di rapido e critico cambiamento.

il riferimento è soprattutto alle esperienze raccontate da Antonio Di Mambro come, ad esempio, l’esperienza di Boston pubblicata nel numero 33 1

107


Disegno tratto da «Indici con figure, 1976-2000», appendice di «Spazio e Società – Spaces & Society» 2001, p. 145.

108


3.2.5 La città italiana

I Dossier sono cinque: il primo riguarda la città di Genova, contenuto nel n. 37 di “Spazio e Società”, del 1987; il secondo è dedicato alla città di Palermo (n. 41, anno 1988); nel terzo Dossier, contenuto nel n. 42 del 1988, segue la città di Torino; il quarto riguarda la città di Siena, all’interno del numero doppio 47-48, pubblicato nel 1988; infine, alla città di Catania viene dedicato il numero 52, dell’anno 1990. 1

Ludovico Quaroni, Il ratto della città, in “Spazio e Società”, n. 8, 1979, pp. 5-26 2

Enrico D. Bona, Brunetto De Batté, Profili di Genova, in “Spazio e Società”, n. 37, 1987, pp.68-75 3

Giuseppe Cinà, Il mare, la piana, i monti, in “Spazio e Società”, n. 41, 1988, pp.81-84 4

Lo studio della città italiana è il tema a cui viene dedicato il maggior numero di Dossier1 , che insieme delineano un quadro interessante per capire le linee guida della riflessione portata avanti dalla rivista, riguardo allo studio specifico di diverse realtà urbane. La città italiana viene riconosciuta come la “città storica” per eccellenza. Ad approfondire questa tematica fu, per primo, Ludovico Quaroni, che nel numero 8 di “Spazio e Società”2, insiste sul fatto che la città italiana è ancora la città medioevale, nella sua essenza urbanistica ma anche sociale, conservando intatta la sua struttura di fondo e il suo spirito. Come un “libro di pietra che custodisce molteplici segni di avvenute battaglie”3, la città italiana rivela il suo essere concezione di tessuti urbani, di edifici, di gesti collettivi. La parte antica della città, racchiude l’impronta di funzioni dissonanti e la stessa forma urbana nella sua essenza, ed è caratterizzata dalla successione dei pieni e dei vuoti negli spazi, dalla compattezza del tessuto urbano, dall’insieme degli equilibri generati dalle stratificazioni avvenute nel tempo. Questi elementi, nel loro insieme e nelle reciproche relazioni, caratterizzano il centro antico come parte unica che si distingue dall’insieme urbano, trasformando la città italiana in una delle “più autentiche e potenti architetture del mondo”. Nella Palermo raccontata da Giuseppe Cinà4, la città antica si distingue per la sua capacità di rapportarsi al luogo e al territorio, anche nel suo immediato intorno: mare, colli, montagna, si compongono in una scenografia naturale complementare all’urbano e ad esso inscindibile. Tuttavia, lo sguardo rivolto alla città storica mette in evidenza, oltre alle intrinseche qualità, anche gli aspetti problematici che la contemporaneità ha posto. 109


La ricchezza della città antica, la sua compattezza e la sua organicità è continuamente minacciata dal degrado, ma soprattutto da un’azione amministrativa che procede per “quanti: quanti di proposta, di iniziativa, di intervento”.1 Un approccio sostanzialmente incapace di interpretarne regole e principi, di comprenderne l’essenza, di misurarsi con essa in termini progettuali. Nel Dossier su Siena2, Carlo Nepi3 ricorda come un corretto intervento nell’urbano richieda di partire dalla corretta comprensione dei luoghi, che può essere raggiunta attraverso “l’investigazione attenta e approfondita dei differenti caratteri, interpretabili come dati cromosomici che si annidano nelle radici […] nell’anima di quella comunità che la città ha creato e continua a far vivere”.4 I vari contributi presentati da “Spazio e Società” tentano di mostrare come il problema del recupero degli edifici e della riqualificazione formale dell’ambiente costruito non possa più essere posto solo nei termini di una generica conservazione, con studi tipologici e storici, ma debba configurarsi caso per caso come “creazione di nuovi equilibri e di nuove identità di luogo e di uso”, interpretando la dimensione spaziale e sociale insieme. In questa prospettiva diventa indispensabile una riflessione sui temi del riuso degli edifici storici che, persa la loro disposizione formale-funzionale originaria, attendono un ruolo più preciso nella città contemporanea. Inoltre diversi contributi nei Dossier denunciano l’assenza di un disegno complessivo per la città, di una ricerca che si ponga il problema della forma urbis. Si pone da questo punto di vista la necessità di ridisegnare i tessuti urbani in vista della nuova conformazione che le città italiane stanno prendendo. Il fine ultimo dell’urbanistica secondo Carlo Nepi, deve essere quello di “rivedere e progettare i margini smagliati e indefiniti delle periferie, stabilendo rapporti qualitativi e non casuali con il contesto e l’ambiente naturale”.5

110

Giorgio Olcese, Genova o della dinamica per quanti, in “Spazio e Società”, n.44, 1988, pp. 65-69 1

Dossier Siena, in “Spazio e Società”, n. 46-47, 1989, pp.90-157 2

Carlo Nepi è nato a Siena nel 1949. Si è laureato a Firenze nel 1975. Vive e lavora a Siena. Ha operato nel campo urbanistico e del disegno urbano firmando alcuni Piani Regolatori e collaborando con Giancarlo De Carlo alla progettazione del quartiere di S. Miniato a Siena e del Piazzale della Pace a Parma. E’ stato corrispondente per l’Italia di “Spazio e Società”. 3

Carlo Nepi, Trasformazione e continuità, in “Spazio e Società”, n. 4647, pp.128-139 4

Carlo Nepi, Trasformazione e continuità, in “Spazio e Società”, n. 4647, pp.128-139 5


La città storica non è parte a se stante, unicamente da sottoporre a vincolo, ma dimensione costitutiva di un organismo piÚ complesso e dinamico, che deve saper evolvere mantenendo la qualità dei luoghi.

111


CONCLUSIONI

112


Una nuova comprensione Intraprendere un percorso di ricerca attraverso lo studio di una rivista non è un compito facile, poiché ci si rende conto di come entrino in gioco infiniti meccanismi e strutture, che rappresentano l’essenza stessa di un progetto culturale molto complesso, e di come la loro comprensione e analisi sia imprescindibile per poterla raccontare in modo approfondito. Infatti, proprio come un essere vivente, la rivista nasce, cresce e muore, aggiungendo un po’ della sua storia con il passare del tempo, arricchendosi di informazioni e di esperienze, e andando a costruire un proprio mondo di immagini e racconti. Una rivista può dunque essere uno specifico oggetto di studio, può essere analizzata con l’intento di ricostruirne l’evoluzione, le trasformazioni nei contenuti e nelle finalità, il mutare dei modi di concepirla e confezionarla, oltre che degli strumenti critici e descrittivi adottati per leggere e presentare progetti e realizzazioni. Ma non solo. In un’analisi di questo tipo, che mette in primo piano l’osservazione di una rivista, occorre anche cercare di leggere lo sfondo e il contesto in cui essa assume senso. Attraverso la storia di una rivista si può leggere la storia dell’architettura e il suo intrecciarsi con quelle della professione, dell’editoria e della grafica, ma anche con la storia politica e sociale, dato che il modo di interpretare il ruolo culturale di una rivista di settore

è influenzato dalle condizioni economiche e politiche in cui viene prodotta, dal panorama editoriale in cui si inserisce, dalle modalità di circolazione delle informazioni, dalle caratteristiche del mondo professionale a cui si rivolge e che si rispecchia nelle sue pagine.

113


Proprio per questo motivo, per quanto la documentazione raccolta e lo studio dei numeri di “Spazio e Società” sia stato portato avanti nel modo più accurato possibile, ciò che più rimane alla fine di questa ricerca sono alcune prime riflessioni sulle intenzioni e l’anima della rivista, rappresentata attraverso alcuni dei suoi temi, e attraverso un suo “stile”, uno specifico modo che la rivista ha scelto per attivare il dialogo con i suoi lettori. Molti altri aspetti sarebbero da approfondire. Sono rimasta colpita dal modo in cui certe affermazioni di De Carlo e di tutti gli altri collaboratori riescano a scuotere ancora in maniera così forte le coscienze di chi si approccia allo studio della rivista oggi.Mi sento di affermare che questa voglia di provocare una discussione e una reazione immediata nel confronto di certe realtà e modalità del fare architettura, che era alla base degli intenti della rivista, bruci ancora attraverso le pagine di “Spazio e Società”. Infatti, ci si rende conto che, nonostante siano passati 16 anni dalla chiusura, la rivista abbia ancora qualcosa da dire e che, leggendone i contenuti, si possa ancora sentire l’eco delle voci di tutti gli autori che hanno lasciato un’impronta reale all’interno del dibattito culturale di allora, come di oggi. Tirando le somme del percorso intrapreso in questa tesi, posso dire di aver imparato molte cose, ad esempio a non dare mai per scontato che ciò che ci viene presentata come verità assoluta, può e deve essere sempre rivalutata e messa in discussione. Porre domande, esplorare con passione e tenacia, più che dare risposte, anche quando questa appare la via più comoda: questo può essere uno dei grandi insegnamenti che la rivista e la figura di De Carlo ci consegnano.

114


Mi sono accorta, condividendo il pensiero di De Carlo, di come si possa mantenere viva l’architettura, soltanto rimettendola in gioco continuamente, accettando il fatto che non si possa ne debba trovare una risposta definitiva e univoca ai problemi legati alla sua progettazione, poiché avere una risposta significa aver terminato il percorso di scoperta e di progresso, e questo porterebbe non al compimento dell’architettura, ma piuttosto alla sua morte. Scriveva De Carlo: “Passano i nostri messaggi e raggiungono ascoltatori attenti che non riescono a credere che l’architettura sia morta e non ci sia ormai altra strada se non quella delle esercitazioni narcisiste, della soggezione alle esigenze del consumo, del comprimere falsi problemi nei labirinti dei mass media per trasformarli in arcane sfere. […] Perciò andiamo avanti e continueremo a proporre ipotesi, e aprire questioni che ne sollecitino altre; a riconfermare l’importanza dello spazio attraverso l’investigazione dei suoi complessi rapporti con la società”1.

Giancarlo De Carlo, Editoriale, in “Spazio e Società” n. 9, 1980, p. 3. 1

115


Disegno tratto da “Indici con figure, 1976-2000 appendice di “Spazio e Società”, 2001, p.3

116


APPENDICE Indici dei 92 numeri di “Spazio e Società”, diretta da Giancarlo De Carlo

117


118


119


120


121


122


123


124


125


126


127


128


129


130


131


132


133


134


135


136


137


138


139


140


141


142


143


144


145


146


147


148


149


150


151


152


153


154


155


156


157


158


159


Disegno tratto da «Spazio e Società» n. 3, dicembre 1979, p. 72.

160


BIBLIOGRAFIA - - - - -

- - - - - - - - - - -

Aymonino Carlo (a cura di), L’abitazione razionale. Atti dei congressi CIAM 1929-1930, Marsilio, Venezia 1971 Baffa Matilde, Morandi Corinna, Protasoni Sara, Rossari Augusto, Il Movimento di Studi per l’Architettura, Università Laterza Architettura, Roma 1995 Bascherini Enrico, Codice genetico e progetto nella città storia. Nell’esperienza di Giancarlo De Carlo, tipografia Editrice Pisa, Pisa, 2005 Benevolo Leonardo, La fine della città, Laterza, Bari, 2011 Bourrey René, De Carlo Giancarlo, Desgrandchamps Guy, Peckle Philippe Benoit, Queysanne Bruno, Architecture & Modestie, Camps Social Editions, Lecques, 1999 Brunetti Fabrizio, Gesi Fabrizio, Giancarlo De Carlo, Alinea, Firenze, 1981 Bunčuga Franco, Conversazioni con Giancarlo De Carlo: architettura e libertà, Eleuthera, Milano, 2001 Chiara Baglione, Casabella 1928-2008, Electa architettura, Milano 2008 Curtis William J.R., L’architettura moderna dal 1900, Phaidon, Londra, 2006 De Benedetti Mara, Pracchi Attilio, Antologia dell’architettura moderna. Testi, manifesti, utopie, Zanichelli, Bologna, 1988 De Carlo Giancarlo, Le Corbusier, antologia critica degli scritti, Rosa e Ballo, Milano, 1945 De Carlo Giancarlo, William Morris, Il Balcone, Milano, 1947 De Carlo Giancarlo, Questioni di architettura e urbanistica, Aralia, Urbino, 1965 De Carlo Giancarlo, Le Corbusier, antologia critica degli scritti, Rosa e Ballo, Milano, 1945 De Carlo Giancarlo, William Morris, Il Balcone, Milano, 1947 De Carlo Giancarlo, Questioni di architettura e urbanistica, Aralia, Urbino, 1965 161


- - - - - - - - -

- -

- - -

De Carlo Giancarlo, La piramide rovesciata, De Donato, Bari, 1968 De Carlo Giancarlo, Viti Giuliano, Pianificazione e disegno delle Università, Edizioni universitarie italiane, Roma, 1968 De Carlo Giancarlo, L’architettura della partecipazione, Il Saggiatore, Milano, 1973 De Carlo Giancarlo, Doglio Carlo, Mariani Riccardo, Samonà Alberto, Le radici malate dell’urbanistica italiana, Moizzi, Milano,1976 De Carlo Giancarlo, Nelle città del mondo, a cura di Livio Sichirollo, Marsilio, Venezia, 1998 De Carlo Giancarlo, Conversazioni sotto una tettoia, a cura di Davide Vargas, Clean, Napoli, 2004 De Fusco Renato, Storia dell’architettura contemporanea, Laterza & Figli, Roma – Bari, 1975 Di Biagi Paola, Gabellini Patrizia (a cura di), Urbanisti italiani: Piccinato - Marconi - Samonà - Quaroni - De Carlo - Astengo - Campos Venuti, a cura di Paola Di Biagi e Patrizia Gabellini, postfazione di Bernardo Secchi, Laterza, Roma, 1992 Paola Di Biagi (a cura di), I classici dell’urbanistica moderna, Donzelli editore, Roma, 2002 Rebecchini Marcello, Architetti italiani 1930-1990: Giovanni Michelucci, Adalberto Libera, Mario Ridolfi, Ignazio Cardella, Giancarlo De Carlo, Carlo Aymonino, Aldo Rossi, Officina edizioni, Roma 2002 Rogers Ernesto Nathan, Sert Josep Lluís, Tyrwhitt Jacqueline, CIAM. Il cuore della città, Hoepli Editore, Milano, 1954 Tafuri Manfredo, Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Giulio Einaudi editori, Torino, 1986 Tafuri Manfredo, Architettura contemporanea, Electa, Milano, 1992

162


Tesi consultate: -

-

Basso Sara, “Spazio e società”: una rivista influente tra urbanistica e architettura, Relatore: Prof. Paola Di Biagi, IUAV, Facoltà di design e arti, Corso di laurea in design della moda, 2000 Isabella Daidone, “Spazio e Società. Giancarlo De Carlo e il tema della base sociale dell’architettura”, Relatore: Marcello Panzarella, Università degli Studi di Palermo – Facoltà di Architettura, Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica - XXIV ciclo, 2012

Articoli su riviste: - -

De Carlo Giancarlo, Problemi concreti per i giovani delle colonne, in «Casabella», n.204, 1954 Panzarella Marcello, Mitopoiesi e progetto nel territorio de “Le Città Del Mondo” di Elio Vittorini, in «E. Journal – Palermo Architettura», n. 15, 2012,

Sitografia - - - - - - - -

http://www.team10online.org/team10/meetings/1954-55preparing.htm http://www.treccani.it/enciclopedia/siegfried-giedion_(Enciclopedia-Italiana)/ http://www.open.edu/openlearn/history-the-arts/ history/heritage/ciam-congres-internationaux- darchitecture-moderne http://www.fondazionecaromanino.it/wp-content/ uploads/2014/07/04_Re- readingGDC_16jan14.pdf https://it.wikipedia.org/wiki/Giancarlo_De_Carlo http://www.treccani.it/enciclopedia/lelio-basso/ https://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Albini http://www.treccani.it/enciclopedia/irenio-diotallevi_(Dizionario-Biografico)/ 163


- - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

https://it.wikipedia.org/wiki/Brigate_Matteotti https://it.wikipedia.org/wiki/Movimento_Moderno https://it.wikipedia.org/wiki/Sessantotto http://www.architetti.com/architetto-fai-qualcosa-di-sociale-1.html https://it.wikipedia.org/wiki/Balkrishna_Vithaldas_ Doshi https://it.wikipedia.org/wiki/Zonizzazione http://www.filosofico.net/iltaoismo.htm http://www.treccani.it/enciclopedia/confucianesimo/ http://www.olschki.it/catalogo/autore/4115 http://www.legacy.com/obituaries/houstonchronicle/ obituary.aspx?pid=175564039 http://www.archilovers.com/carlo-nepi-872449/ https://nl.wikipedia.org/wiki/Marcel_Smets http://www.dimambro.com/profile/principal.htm https://it.wikipedia.org/wiki/Lucien_Kroll https://it.wikipedia.org/wiki/Ralph_Erskine http://www.madrenapoli.it/collezione/riccardo-dalisi/ https://it.wikipedia.org/wiki/Renzo_Piano https://it.wikipedia.org/wiki/Saul_Alinsky https://en.wikipedia.org/wiki/Perry_Dean_Rogers_ Architects https://en.wikipedia.org/wiki/Christopher_Charles_Benninger

164


Ringrazio La Professoressa Chiara Merlini, la mia famiglia e i miei amici, tutti coloro che mi hanno sostenuta e incoraggiata durante questo percorso.

23 febbraio 2017

165


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.