CLAUDIO LORETO - GLI OCCHI SULLA SCIA

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CLAUDIO LORETO

GLI OCCHI SULLA SCIA

RACCONTI



CLAUDIO LORETO

GLI OCCHI SULLA SCIA Racconti di remi, piccozze e amori



La vita è un po’ come il canottaggio. Il canottiere solca veloce l’acqua, ma con lo sguardo rivolto indietro: ha sempre dinanzi agli occhi (e calcola) la scia della sua imbarcazione; similmente, ognuno di noi nel corso della propria esistenza spesse volte si gira e tira le somme di quanto fino ad allora ha fatto. Poiché ciascuno è il risultato del proprio passato.



Dedicato a chi il destino, con me davvero benevolo, mi ha fatto incontrare: mia moglie Nicoletta e nostra figlia Erika.



PREFAZIONE Ai tempi del liceo fantasticavo di diventare un corrispondente di guerra; poi, invece, ho finito con il rimediare un meno spericolato impiego in banca: occupazione certamente poco avventurosa, ma che perlomeno mi ha garantito un minimo di tranquillità economica grazie alla quale ho anche potuto girovagare un po’ e realizzare come “freelance”, per svariati anni, reportages ed articoli per quotidiani e riviste, soddisfacendo così almeno in parte la mia aspirazione giovanile. Occasionalmente mi sono pure azzardato a buttar giù qualche “storiella”; a detta di qualcuno, tuttavia, le mie qualità di narratore non sono all’altezza di quelle - probabilmente già non eccelse - di cronista. Pazienza, nessuno è perfetto. Ho voluto ugualmente raccoglierle in questo volume vuoi per non smarrirle, vuoi perché ci sono comunque affezionato: alcune di esse, infatti, risalgono al periodo della scuola superiore. L’ultimo racconto (“Passaggio in India” ) in verità appartiene al genere giornalistico: l’ho inserito (un po’ impropriamente) in quanto è legato ad un momento fondamentale della mia vita. L’Autore



INDICE

Il Nido della Tigre

Pagina

La lettera

1 6

Anurag, il fuggiasco

11

Sul Ghiacciaio del Gigante

39

Il sogno di Aleksej

44

La folle gara

56

Storia di una Storia

65

La tempesta segreta del nuotatore

201

Il messaggio del vento

209

Passaggio in India

218

Prospetto attivitĂ pubblicistica

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Il Nido della Tigre

Nel 1986, poco dopo il congedo dalla Marina, mi ritrovai in Himalaya. Allora il Paese del Dragone Tonante (così viene chiamato il Bhutan dai suoi abitanti) era un regno praticamente “proibito” ed io vi fui ammesso grazie all’ostinazione di un ortopedico giramondo capitato infine laggiù e desideroso, dopo alcuni anni, di rivedere qualche familiare: preso letteralmente per stanchezza, il burocrate competente aveva alla fine concesso - oltre ai permessi a favore di due parenti (la mia ragazza e suo padre) - un terzo, incredibile visto d’ingresso per me. Quell’anno il monsone s’era attardato, minacciando così pioggia anche la mattina della nostra salita al Nido della Tigre. “Eccolo lassù!” - esclamò ad un tratto Giancarlo, il medico, mentre ci preparavamo alla marcia: uno strappo nella nebbia per un attimo lasciò intravedere, in lontananza, il bianco monastero dalle cupole - si diceva rivestite d’oro zecchino, appuntato a un impressionante strapiombo a 3.120 metri di altezza; là un giovane che aspirava a diventare lama stava affrontando la prevista prova preliminare di tre anni di solitudine. 1


Imboccammo un ponticello sul fiume Paro e quindi un melmoso sentiero che s’inerpicava su per la montagna, dentro una foresta di pini adorni di licheni. Lo zaino, rigonfio com’era di riso, zucchero e biscotti da offrire al seminarista, mi faceva affondare gli scarponi nel fango. Da giovane canottiere esuberante (ma ancora inesperto di montagna) qual ero, decisi allora di fare di quell’ostica ascesa un superbo allenamento; così, regolando bene la respirazione, forzai il passo e presi ad andare su velocemente. Troppo. Dopo circa mezz’ora, infatti, il cuore d’improvviso cominciò a martellarmi nel petto con il ritmo di una mitragliatrice, letteralmente impazzito! Mi tolsi subito dalle spalle la pesantissima sacca e mi sdraiai supino su un ripiano roccioso contornato da bandiere con incise le preghiere dei pellegrini, ma ci volle un po’ perché anche la mia richiesta venisse accolta dagli dèi lassù e il battito si regolarizzasse. Attesi quindi l’arrivo degli altri (Nicoletta non mi risparmiò i suoi rimbrotti) e ripresi il cammino con più umiltà. Per tutto il tempo fummo accompagnati dal gracchiare rauco dei corvi che, a nugoli, girovagavano oziosi nel cielo; una lunga processione di batuffoli di vapore procedeva, anch’essa pigramente, tra le montagne selvose che circondavano la sottostante Valle di Paro. La nostra meta, invece, sembrò averne abbastanza delle nubi, iniziando a offrirsi ai nostri occhi in tutto il suo incanto. Il mio futuro suocero, intanto, s’interrogava circa l’origine del nome del monastero: era legato a una leggenda locale (secondo la quale Padmasambhava, il secondo 2


Buddha, era andato a meditare in una grotta lassù in groppa alla moglie trasformatasi in una tigre volante) oppure alle meno metafisiche tigri di montagna che, seppure in via di estinzione, ancora popolavano la zona, come sosteneva qualcuno? Io ero invece curioso di conoscere l’interpretazione che l’aspirante monaco avrebbe potuto dare del sogno che avevo fatto la notte precedente: dopo un feroce combattimento, con la spada avevo trapassato la corazza di un malvagio Cavaliere Nero, di cui mi era ignoto il volto; strappatogli l’elmo, con sgomento dentro quell’armatura avevo però visto me stesso, fissarmi con occhi vitrei… Lasciato il bosco, discendemmo un viottolo scavato lungo la parete che si drizzava verticale di fronte al costone sul quale poggiava, in bilico, il convento; a metà della pista, per rispondere a un richiamo, mi voltai di botto cozzando con lo zaino contro la roccia: sospinto in avanti dal contraccolpo, per alcuni interminabili secondi pencolai, con il sangue gelato nelle vene, sull’orlo del baratro. Giungemmo infine ad una cascatella d’acqua che salterellava giù chiassosa lungo la linea di congiunzione della parete con la montagna santa di Padmasambhava; lì la traccia riprendeva a salire ripida lungo quest’ultima: l’ultimo strappo, in realtà, e dopo tre ore di affanno eccoci finalmente davanti al Taktshang ! L’apprendista monaco non era esattamente un isolato: insieme a lui trovammo infatti un ragazzino suo parente e un altro escursionista, uno spagnolo che - in barba alla spiritualità del luogo e ad ogni ideale della montagna - si 3


premurò subito e gratuitamente di renderci nota la sua scarsa considerazione degli italiani (dal canto nostro troncammo sul nascere il rapporto). Il padrone di casa accolse invece i nuovi arrivati con molta cortesia: per rinfrancare le forze ci offrì del tè con dentro sciolto burro di yak, dopodiché ci condusse in visita al santuario che si rivelò in avanzato stato di deterioramento strutturale, ma ricco di suggestivi arredi sacri; la Sala dei Mille Buddha (così chiamata per via delle mille rappresentazioni dell’Illuminato che ricoprivano le sue pareti) induceva seriamente al misticismo. Poi, in un locale ricavato da una grotta, eccola, lei, la tigre: una grande statua della belva, raffigurata con le fauci spalancate e gli artigli affondati nelle carni di due malcapitati. L’ospite in seguito, più che al confronto filosofico, si mostrò molto interessato alle mie moderne calzature da trekking e provò a venderci delle lattine di… Coca-Cola (!). Al momento del commiato l’occhio mi cadde poi su un cestello di riso frammisto a polpa di yak in salsa piccante, pronto al consumo: per i buddisti non era però riprovevole ammazzare e mangiare gli animali? “Loro dicono che sarebbe peccato lasciare a putrefare le bestie già macellate dalle etnie di religione diversa” - mi spiegò Giancarlo. “Oppure quelle precipitate dai dirupi… sui quali però” - aggiunse - “all’occorrenza vengono furbescamente sospinte a pascolare dai loro proprietari!”. “Ho capito: la coscienza è a posto e lo stomaco pieno” - commentai io. L’ipocrisia non conosce confini.

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Alcuni giorni dopo un piccolo bimotore, volando a sobbalzi e scricchiolando paurosamente dentro le strette gole del Basso Himalaya rivoltate dal monsone, ci riconsegnò a un’alluvionata Calcutta; da qui raggiungemmo Dacca, Dubai, Roma e infine Genova. Inaspettatamente, l’attraversamento in taxi della mia città mi turbò: il brutale contrasto tra quel ritrovato ambiente di cemento, asfalto e lamiera e le incontaminate, splendide catene montagnose che conservavo ancora negli occhi (e nelle quali la presenza umana era soltanto un accessorio) rendeva lampante che il mondo moderno si muoveva sulla strada sbagliata. Allo stesso tempo, il Shangri-La non esisteva: la natura umana è infatti la stessa ad ogni latitudine; riprova di ciò sarebbero state, qualche anno più tardi, l’insensata politica razziale avviata dal governo bhutanese e le dolorose vicende che ne conseguirono. Quanto al mio strano sogno, lo risolsi a modo mio: in ciascuno di noi albergano insieme il bene e il male; e se dare libero corso a quest’ultimo è facilissimo, realizzare il primo richiede impegno e consapevolezza… Perdiana, l’esperienza nel Bhutan mi aveva forse avvicinato al buddismo? Beh, di certo so solo che essa contribuì al germogliare della mia futura, grande passione per le montagne.

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La lettera

Non appena fui fuori di casa i brividi mi scombussolarono: quell’alba faceva più freddo del solito. Esitai per qualche attimo (dietro l’uscio il letto era ancora caldo), poi innestai risoluto il passo: la strada dall’abitato di La Villa al Col di Lana era piuttosto lunga. Mi piaceva del resto girovagare per valli quando tutti ancora dormivano e dunque nessun suono umano disturbava lo stato di grazia in cui scivolavo attraversando radure e boschi, dove cancellavo i pensieri e diventavo ingordo di sensazioni; così quella mattina, di nuovo, lo scroscio del torrente Giaric mi trasmise un senso di purezza, i prati vellutati dell’Armentarola mi saziarono di quiete e le fantastiche guglie delle Conturines mi accesero di meraviglia. Mi domandai con quali occhi avevano però osservato quei medesimi luoghi i giovani sepolti nel piccolo cimitero militare tedesco che toccai poco prima di raggiungere il Passo Valparola: un secolo prima, infatti, le montagne sopra avevano avuto il volto della morte. 6


Sul valico si attardavano bave di nebbia che intirizzivano; mi concessi una tazza del tè bollente del Rifugio, alle spalle del quale poi imboccai il sentiero che conduceva sotto le pareti verticali delle Pale di Gerda e del Gruppo del Setsas, di cui costeggiai i lunghi basamenti forzando ulteriormente il passo nonostante che marciassi più che spedito già da alcune ore. L’immenso silenzio nel quale avanzavo di tanto in tanto veniva rotto dai fischi acuti delle marmotte, come a rammentarmi che il mondo non appartiene soltanto all’uomo. Superai il Passo Siéf e risalìi la scoscesa e interminabile trincea che gli austro-ungarici avevano scavato lungo tutto il crinale del monte omonimo; quando trovai la via interrotta da un grande cratere restai interdetto: per sloggiare il nemico entrambi gli opposti eserciti avevano fatto esplodere più volte il Siéf (e altre montagne vicine), scavando nella sua pancia gallerie che terminavano con enormi stanze poi stipate di dinamite. Che “innovative” e del tutto inutili stragi: il fronte dolomitico non si era comunque smosso di una virgola! Al di là del fosso si stagliava la mia meta, il Col di Lana, ribattezzato dai fanti “Col di Sangue” (infatti la contesa della sua vetta costò la vita di ottomila di loro). Mi calai nella spaccatura, saltellai tra i detriti dell’esplosione e poi, seguendo una malferma fune metallica dispiegata lungo la cresta, mi inerpicai su su fino alle croci poste sulla cima del Lana, resa tozza anch’essa nel 1916 da oltre cinque tonnellate di esplosivo. Per un po’, tutto solo, gironzolai su quel cocuzzolo, fotografando la cappelletta, un bivacco 7


allestito dagli Alpini, l’obelisco eretto affinché si serbasse memoria dell’insensatezza della guerra e tutti i magnifici panorami che potei godere da lassù. Avevo appena intrapreso la via del ritorno quando giù, lungo il fianco ripido della montagna, un riverbero del sole incerto di quel mattino richiamò la mia attenzione. Dal terreno affiorava infatti un oggetto, verosimilmente di metallo: un residuato bellico, riportato alla luce dal tardivo disgelo dell’inverno più nevoso degli ultimi trent’anni, oppure una moderna lattina gettata da un escursionista incivile? Incuriosito, mollai il cavo e discesi con cautela il pendio; tra le mani mi ritrovai così un astuccio ossidato, che faticai a schiudere: al suo interno una vecchissima stilografica, alcuni pennini e un foglio accuratamente ripiegato ma molto ingiallito, che apersi con estrema delicatezza temendo che potesse andare in mille pezzi. Guardai la prima riga (Sabato, 12 maggio 1917 ) ed ebbi un sussulto. Poi - a fatica, poiché sbiadito dal tempo - lessi il resto.

Mia adorata, più non ti angustierò con pensieri foschi come feci - senza sul momento avvedermene - nell’ultima mia, che fu dettata dai patimenti per il gelo e specialmente dal turbamento per la morte del caro capitano Silvestri. Oggi - finalmente! - il sole illumina le trincee: si sono scaldati anche i cuori, perché le armi tacciono. Posso dunque abbandonarmi alla contemplazione della Marmolada, del Sella e - volgendo gli occhi dall’altra parte - del Civetta: nonostante la guerra, mi è davvero impossibile 8


avere in odio tanta superba bellezza! All’opposto, un tale Paradiso - nel quale gli scoppi appaiono ancor più sacrilegio - insegna ad amare il mondo come mai: così è con una nuova, immensa tenerezza nel cuore che si guarda un fiore fare capolino tra i sassi o si accarezza “Lampo” (così lo abbiamo battezzato!), il cane vagabondo e spaurito che trovò rifugio da noi un paio di mesi or sono (e che qualcuno, per lenire per una giornata i morsi della fame, invece aspira a mangiare!). Pure in tempo di pace, tenere di più a mente che un giorno non ci saremo più gioverebbe a sgombrare la nostra esistenza dalle futilità, le inutili rabbie e le meschine invidie di cui essa è zeppa e a vivere invece con pienezza le cose davvero importanti, che sono poi poche ed ovvie. Conquisteremmo la serenità, che è somma ricchezza! Non credi anche tu, cara? Dopo la guerra, allorquando la memoria di essa mi sarà forse divenuta un po’ meno dolorosa, chissà, potrei immaginare di affittare camera, in estate, nel piccolo paese di Corvara e condurre te e la nostra piccola Elisa a vedere questi luoghi pur tuttavia deliziosissimi: te ne innamoreresti subito, ne sono certo (e io diventerei un po’ geloso di loro). Nel frattempo, insegna fin d’ora alla bambina ad inseguire con tutte le proprie forze i suoi sogni: se li realizzerà sarà assolutamente felice; nel caso invece non riuscisse, dopo i suoi giorni non sarebbero comunque avvelenati dal rimpianto di non averne avuto l’audacia.

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Ora ti devo ahimè lasciare, perché ho da svolgere un giro d’ispezione. Attendo con ansia Vostre notizie. Un bacio. Sempre tuo, Alberto

Quella lettera non era mai partita, dunque il soldato che l’aveva scritta probabilmente era rimasto ucciso: in quale punto del monte - mi chiesi guardando intorno - e come? E cosa ne era stato della sua famiglia? La figlia aveva poi avuto una vita felice? Scavai lì stesso una buca con il pugnale che trasportavo nello zaino e vi seppellii dentro il ritrovamento: era giusto che quella manifestazione d’amore restasse per sempre dove si era manifestata. Una girandola di pensieri mi accompagnò lungo tutto il tragitto di ritorno, fatto sotto una pioggia battente. Non appena fui a casa, cercai mia moglie e l’abbracciai forte.

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Anurag, il fuggiasco

Delle mille straordinarie vicende nelle quali mi sono imbattuto nel corso del mio lungo vagabondare per il mondo, quella che più soventemente riaffiora alla mia mente - e che ora vi narrerò - ebbe inizio nel lontanissimo “Shan-Yul”. Correva l’Anno del Cervo. A quell’epoca ero giovane, nel pieno del vigore, e tuttavia dopo tre mesi ininterrotti di viaggio attraverso le mastodontiche Montagne delle Grandi Scimmie non potevo non accusare la stanchezza. Così un mattino, abbandonatomi sulla soffice erba d’un prato, lasciavo che i raggi del sole mi ritemprassero; la cavalcatura, un po’ più in là, si dissetava ad un ruscello il cui scrosciare arrivava alle mie orecchie dolce come una melodia. Il nitrito d’allarme dell’animale d’un tratto mi scosse dal torpore in cui mi ero lasciato scivolare (abbassando così la guardia), ma ormai era troppo tardi: qualsiasi mia reazione avrebbe cozzato contro le lance che mi venivano puntate sul petto. Mentre attendevo che da un’istante all’altro le 11


lame dei miei implacabili inseguitori affondassero nelle mie carni, una voce interrogò: “Cosa ci fai tu qui? Non sai che agli stranieri è proibito avventurarsi nel Shan-Yul?”. La Terra del Leopardo Bianco! Non immaginavo di essermi spinto tanto oltre nella mia fuga… Dunque non si trattava di coloro che avevo temuto; ciononostante quegli sconosciuti, che il sole mi impediva di vedere in viso, non sembravano meno ostili. “Avanti, rispondi!” - intimò la medesima ombra mentre le punte delle lance davano sostegno alla richiesta premendo forte sulle mie costole. “Perdonatemi, ma tale divieto non mi era noto” - dissi “Comunque, quale Cavaliere della Sacra Confederazione, sono affrancato dal rispetto di qualsiasi frontiera; vi prego dunque di ritrarre le vostre armi e di lasciarmi libero di andare: ho ancora molta strada da fare”. Me le aste non si scostarono. “A giudicare dalle vostre vesti, forestiero”- riprese dopo un attento esame la voce di quello che doveva essere il capo della pattuglia - “si direbbe che quanto affermate d’essere corrisponda a verità; ma di questi tempi abbiamo motivo di dubitare di chiunque. Vi scorteremo pertanto alla fortezza. Là avremo modo di sincerarci della vostra buona fede, nel qual caso potrete riprendere immediatamente il vostro viaggio; diversamente, esso avrà termine per sempre: per i comuni trasgressori la pena infatti è la morte. Intanto vi prego di consegnarmi la vostra spada”. Mi fu permesso di recuperare le mie poche altre cose e, attorniato dai soldati, dovetti cavalcare per quattro ore e più alla volta dell’Hatha Dzong - la “Fortezza del Sole e 12


della Luna” - attraverso risaie inaridite e villaggi abbandonati, senza incontrare anima viva. I volti inquieti dei miei guardiani tradivano una gran fretta di giungere a destinazione; a ciò non prestai comunque molta attenzione, preso com’ero dal pensiero che quel contrattempo poteva tornare a vantaggio dei miei ex confratelli i quali sapevo sguinzagliati come lupi famelici sulle mie tracce. Solo il trambusto all’interno dello Dzong, allorché ne varcammo i sorvegliatissimi portali, mi distolse dalle mie preoccupazioni: era un andirivieni di uomini in armi, un traffico ingovernato di buoi che spostavano carri rigurgitanti cadaveri e un affannarsi di donne intorno ai moribondi che gemevano ammassati agli angoli del vasto cortile; questo era annebbiato e reso ancor più tetro dai vapori che turbinavano dai pentoloni approntati qua e là per sfamare i vivi, i quali - scheletrici com’erano - somigliavano però più a fantasmi. Il lezzo di una tale moltitudine si aggiungeva al puzzo delle immondizie e degli escrementi disseminati ovunque, in una mistura terribile che rendeva inutile l’incenso bruciato in gran quantità dai Lama e che provocava conati di vomito in coloro che, come me freschi del luogo, non avevano ancora il naso e la vista abituati a tanto disgusto. Eppure quel gigantesco letamaio doveva apparire un luogo di salvezza per la fiumana di disgraziati che, dietro noi, seguitava a riversarsi dentro lo Dzong... “Non sapevo che il Shan-Yul fosse in guerra. Chi è il vostro nemico?” - domandai al capitano della scorta. “Il Demonio!” - fu la sua risposta.

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*** “Ora che abbiamo visto l’emblema dell’Ordine dei Cavalieri della Sacra Confederazione” - deglutì l’obeso monaco mal celando lo schifo per la figura del falco impressa a fuoco sulla mia spalla destra - “e siamo pertanto certi del vostro rango, vogliate accettare le nostre più profonde scuse e il nostro sincero benvenuto, nobile signore!”. “Sì, cavaliere” - sorrise affabilmente l’altro (e più gracile) lama, mentre con un cenno del capo congedava il capitano e i suoi uomini - “Ci dispiace di avervi arrecato fastidio con la nostra ispezione, ma certamente capirete: siamo in guerra, e contro il più temibile degli avversari, in quanto invisibile…”. Entrambi i miei interlocutori erano avvolti da una grande stoffa color amaranto, avevano i capelli rasi e i piedi scalzi. “Un nemico contro il quale ci servono uomini di grande esperienza” - riprese a parlare quello grasso - “Come lo sono i Cavalieri della Confederazione. Siamo dunque stati incaricati dal santo Je-Khempo, voce dell’Illuminato, di pregarvi di volere aiutare i nostri migliori guerrieri in una spedizione di capitale importanza per le sorti del Shan-Yul”. Una richiesta, nel mio caso, da respingere immediatamente. “Sono commosso dalla vostra considerazione” - risposi, mentre seminudo al centro della gelida sala riprendevo possesso degli indumenti sfilatimi 14


per la verifica della mia identità - “Purtroppo non potrò godere dell’onore offertomi: la mia via conduce altrove e mi attende impaziente. Sono sicuro che il Supremo Lama troverà un’altro e più valido appoggio all’importante missione”. I due dovevano evidentemente essere convinti di ricevere una risposta ben diversa, poiché il mio no li sorprese. “Ma non potete rifiutarvi!” - proruppe infatti risentito quello mingherlino - “Quando riceveste il marchio del falco giuraste che avreste servito il Bene al di sopra d’ogni cosa!”. “Il Bene? Beh, ho fatto ampia esperienza che esso è una cosa piuttosto soggettiva e mutevole: per lo più combacia con il tornaconto!”. “Voi non sapete quel che dite!” - alzò la voce il monaco corpulento. “Voi bestemmiate!” - gli fece eco l’altro, indignato. “In ogni caso il cosiddetto Bene mi chiama altrove!” - tagliai corto io, finendo di rivestirmi. “Cavaliere, qui il Male ha gettato in campo tutte le sue forze. All’interno dei nostri confini è in atto lo scontro finale tra la Luce e le Tenebre, tra la Vita e la Morte: se la Terra del Leopardo Bianco - dove l’Illuminato si è manifestato - soccomberà, il mondo intero avrà poi presto fine. La vostra presenza è necessaria qua più che altrove!”. “Vi ripeto che la vostra stima di me è fuori misura”. “… Eppure un tempo non esistevano parole per descrivere la generosità di un guerriero della Confederazione” - commentò alle mie spalle, ferma e profonda, una 15


nuova voce. I due monaci si piegarono immediatamente in un profondo inchino a mani giunte; mi voltai e vidi una figura allampanata dentro una lunga tonaca gialla: gli sgradevoli lineamenti di quel volto, sul quale si disegnava un sorriso falsamente benevolo, tradivano un’anima astuta e doppia. Abbassai comunque lievemente il capo in segno di omaggio. “Sapevo che per convincervi a prendere parte alla nostra causa sarebbe stato alla fine necessario il mio intervento” - proseguì, facendo segno agli incapaci sottoposti di lasciare immediatamente la stanza (i due, profondendosi in lunghe riverenze, si ritirarono umiliati). Compresi che si trattava del Je-Khempo, il sommo sacerdote. “Siete davvero così certo” - gli domandai quando fummo soli - “di riuscire dove i vostri monaci hanno fallito?”. “Oh, sì” - rispose il calvo prelato - “Non potete restare insensibile all’appello che vi viene dallo stesso rappresentante dell’Illuminato!”. “Visto che origliavate alla porta, allora saprete che mi attende cosa molto urgente”, replicai brusco (ulteriori lungaggini avrebbero infatti potuto rivelarsi per me pericolose). “Perdonatemi dunque se mi congedo dalla Vostra Superba Persona”. E dopo aver recuperato la spada e ossequiato con un salamelecco, mi diressi verso una delle uscite della sala. “Credo che vi convenga rimandare l’impegno che dite attendervi fuori di qui, dato che si tratta… della forca!”. Mi bloccai sull’uscio, col sangue raggelato. “Vi starete certo domandando, nobile Anurag, come 16


abbia fatto a smascherarvi” - ricominciò quello con una nota di perverso divertimento nella voce - “Dovete allora sapere che gli uomini lanciati al vostro inseguimento per farvi pagare il tradimento da voi perpetrato - come vedete, sono ben informato - hanno perso le vostre tracce; così, per acciuffarvi, settimane addietro essi hanno inviato in volo colombi a tutti i Paesi aderenti alla Santa Congregazione, con legato alla zampa il comando di trattenere i pellegrini corrispondenti alla descrizione fornita fintanto che quelli non fossero arrivati per identificarli. Io ho ignorato la richiesta, avendo ben altra sciagura di cui occuparmi; quando dalla torre vi ho però visto fare ingresso nello Dzong scortato dagli armigeri non ho avuto dubbi: il ritratto del traditore vi calzava a pennello. Tuttavia alla riconoscenza del re di Kodagar e del Gran Maestro dei Cavalieri della Confederazione ho subito preferito l’opportunità di sfruttare il vostro famoso talento: in breve, se voi ci aiuterete io eviterò di segnalare la vostra presenza qui a coloro che tanto vi desiderano morto; anzi, se riuscirete nel compito proporrò che il vostro caso venga rivisto. Allora, qual’è la vostra ultima parola?” - concluse iniziando a girarmi intorno con le braccia intrecciate dietro la schiena. “Potrei uccidervi e fuggire ancora”. “La sala è circondata da numerosi soldati con ordini ben precisi”. “Dunque non mi lasciate scelta…”. “Eccellente!” - sorrise il Je-Khempo, già certo dell’esito di quella discussione - “La spedizione a cui vi unirete muoverà tra due giorni. Ora vi accompagneranno alla vostra stanza, 17


affinché vi possiate rinfrescare e riposare; tutto è già stato predisposto per il vostro piacere: questa notte riceverete la visita di una bella… signora. Ah, dimenticavo: i vostri movimenti saranno naturalmente oggetto delle nostre “attenzioni”. “Non ne dubitavo. Una cosa tengo però a dirvi: io non sono il traditore che si racconta”. “Lo so bene, mio caro Anurag, ma mi è utile unirmi al coro di chi invece lo crede”. Quindi si allontanò e nella sala comparve l’inserviente al quale ero stato affidato.

*** La gelosia può rendere un uomo abietto: era così accaduto che, essendo i bellissimi occhi verdi della principessa Alisha e gli apprezzamenti di suo padre (il sovrano di Kodagar, al cui servizio ero stato inviato dal Gran Maestro) rivolti a me anziché al generale Sukumar, quest’ultimo aveva macchinato un inganno per sgombrare il campo alle proprie ambizioni: in qualche modo aveva sottratto delle gemme rare dall’alloggio della principessa, facendole poi rinvenire dalle guardie dentro il mio guanciale durante la perquisizione di ogni angolo del castello ordinata immediatamente dopo la scoperta del furto. Avevo compreso il suo disegno dalla risata beffarda alla quale si era lasciato andare mentre comandava il mio arresto agli sgherri che lo accompagnavano; ero ancora un giovane irruento e così il mio sbaglio fu di estrarre il 18


pugnale dalla cintura e di avventarmi furibondo su di lui, colpendolo a morte: se quello pagò la sua malevolenza, io però - uccidendolo - agli occhi di tutti avevo come firmato una confessione. Ladro, assassino e traditore degli ideali della Confederazione sui quali avevo giurato: da allora non mi era rimasta che la fuga. Nel giudizio del Je-Khempo il mio arrivo, da ultimo, nel Shan-Yul era stato voluto dalla Provvidenza: la mia comprovata abilità nel nascondermi sarebbe infatti potuta tornare utile per scovare, viceversa, l’eremita che si diceva avrebbe potuto salvare il Paese. Namgyal, il comandante della spedizione (dieci soldati più io), dopo la nostra partenza mi spiegò che il flagello che aveva colpito la Terra del Leopardo Bianco aveva avuto inizio alla grande fiera che una volta all’anno si teneva fuori le poderose mura dello Dzong, richiamando da ogni angolo del Paese molti mercanti e una gran folla di compratori. A smerciare succulenta polpa di yak aromatizzata con spezie piccanti era giunto da non si sa quale remota contrada anche un nuovo venditore, assai abile nel richiamare clienti; costui era in realtà un emissario di Ratnakar, il Signore delle Tenebre al servizio di Kàla (il Dio del Tempo e della Morte, acerrimo nemico dell’Illuminato): quelle carni erano state sapientemente infettate, facendo esplodere di lì a pochi giorni un male oscuro e contagioso in ciascuno dei villaggi in cui esse erano state infine consumate. L’epidemia era dilagata; i lama, depositari della sapienza medica, si erano rivelati incapaci di contrastarla. Il mi19


sterioso morbo disfaceva il cervello: taluni sfuggivano allo strazio uccidendosi; gli altri, meno lesti, prima di morire sprofondavano invece nella follia, spesso sguazzando nelle più torbide depravazioni. Ratnakar intanto attendeva pazientemente che la devastazione così scatenata giungesse a pieno compimento, per potere poi fare invadere con facilità dai suoi scherani quell’immenso dominio ormai privo finanche di esercito. Alcuni monaci avevano però informato il Je-Khempo che anni prima un loro confratello di nome Songtesen, mentre attraversava una terra di miscredenti, era caduto vittima di un male analogo, ritrovando però poi il senno grazie - si vociferava - ad un intruglio di erbe; dopodiché il miracolato aveva dismesso la tonaca e, rifiutato il mondo, si era ritirato in un luogo sconosciuto. Trovare costui e farsi rivelare il rimedio: questo, appunto, il compito affidato alla spedizione. Le speranze riposte in me dal Je-Khempo non rimasero deluse: combinando gli indizi raccolti nei villaggi o di pastore in pastore, e discernendo in base all’esperienza acquisita da fuggiasco le notizie verosimili dalle pure fantasie, non mi fu in effetti troppo difficile individuare il nascondiglio del quale eravamo alla ricerca: un convento abbandonato sulla Montagna della Sorte. Alta e cupa, quest’ultima era annegata nella nebbia quando - tormentati dalla pioggia - giungemmo ai suoi piedi. “Eccolo, lassù!”, grido d’un tratto uno dei soldati: uno strappo nella foschia lasciò intravedere un palazzo in rovina 20


appuntato, come per magia, ad una spaventosa parete verticale; un attimo dopo un’ondata di vapore lo nascose di nuovo alla vista. “Finalmente!” - sospirò Namgyal - “L’eremita ci salverà tutti!”. Smontati dai cavalli, ci addentrammo a piedi nella fitta foresta e imboccammo il sentiero che portava su in alto; risalirlo costò ore di tremenda fatica: il peso delle armi ci affondava le gambe nel fango, e i cuori battevano dentro i petti come impazziti; da sopra frotte di corvi ci sorvegliavano torturando le nostre orecchie con il loro gracchio rauco e cadenzato. Poi con passo cauto superammo indenni il sottilissimo, interminabile camminamento scavato da mani misteriose lungo la liscia parete senza fondo e infine, dopo una breve arrampicata tra grossi sbalzi di roccia, fummo all’ingresso della fatiscente costruzione. Dentro dovemmo improvvisare delle torce. Fu un susseguirsi di sale polverose e drappeggiate di ragnatele, e oramai prossime al crollo; il tanfo mozzava il respiro. Poi, nell’ultima stanza (l’unica rischiarata da dei bracieri), seduto per terra trovammo un vecchio intento a scrivere qualcosa; egli non si curò minimamente dell’intrusione degli uomini armati - che eppure per lui avrebbe dovuto rappresentare un evento straordinario - e seguitò imperterrito a consumare inchiostro su inchiostro; i nostri ripetuti ossequi caddero nel vuoto e, soprattutto, le nostre ansiose domande dovettero attendere parecchio prima di ottenere la considerazione dell’anziano.

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“Nobili cavalieri” - parlò con malcelato fastidio l’eremita - “la malattia della quale mi riferite e che, sì, io ho conosciuto, è davvero terribile, perché il suo principio muta continuamente: così l’infuso che ha purgato il mio sangue - e che voi ora pretendete di conoscere - può all’opposto avvelenare ancora di più quello d’altri…”. “Voi comunque rivelateci la cura” - insistette Namgyal. “In realtà io ignoro la formula della medicina che mi fu somministrata dai maghi di Rangarpur”. Rangarpur! La città che antiche leggende narravano sperduta, e cionondimeno sfarzosissima, tra le sabbie infuocate del Tejasthal, lo sconfinato deserto a nord delle ultime contrade calpestate dai pastori nomadi! Nessuno dei temerari che si erano avventurati là aveva mai fatto ritorno: si credeva che esso fosse popolato da demoni e per questo era proibito; e ogni uomo assennato dubitava fortemente dell’esistenza, laggiù, di una prospera acropoli. Ma ora quell’eremita giurava di averla visitata innumerevoli volte, per filosofeggiare con i suoi sacerdoti. “Stento a crederti, vecchio “ - replicò Namgyal - “Ad ogni modo, indicaci la via per raggiungerla”. “Oltrepassate i Monti Narayani, quindi inoltratevi nel deserto - con lo sguardo fisso a nord - per due giorni; dalla terza alba in poi cavalcate invece sempre sulla scia del sole: come per mano, esso vi condurrà a destinazione”. “Ma dopo aver girato le briglie ad ovest, precisamente quanto tempo ancora occorrerà per vedere i bastioni di Rangarpur?”. 22


“Tre, quattro giorni… forse un anno… forse può non bastare una vita intera”. “Ti prendi gioco di me, vecchio? Piuttosto dimmi: la città è protetta soltanto da mura, o anche da fossati?”. “Chi può dirlo? Essa si mostra a ciascuno in una forma diversa; molti, poi, neppure riescono a vederla”. “Che storia è mai questa? Tu sei pazzo!” - gridò il capitano. “Ho esaudito ogni tua domanda, guerriero; ora non mi resta che pregare l’Illuminato affinché vi sorregga nel vostro compito” - troncò il colloquio l’eremita, accomiatandosi dagli indesiderati visitatori con un inchino meramente formale; quindi, voltateci le spalle, riprese a ricamare d’inchiostro le sue pergamene. Namgyal si sentì oltraggiato da tale comportamento ed intimò a gran voce all’eremita di offrire le proprie scuse; non ricevendo però da questi alcuna considerazione, in uno scoppio incontrollato di collera sfoderò la spada e con essa lo trafisse da parte a parte; con grande sbigottimento di tutti, quel vecchio irriverente non patì però alcun danno: si girò e scoppiò in un riso fragoroso che, propagandosi di sala in sala, riecheggiò a lungo nel monastero. “Questa è stregoneria!” - balbettò Namgyal. Mentre indietreggiava spaventato la sua lama urtò uno degli alti bracieri, il quale si abbatté su una pila di manoscritti che prese immediatamente fuoco; da lì scintille incandescenti schizzarono leste sulle cataste affianco, e in men che non si dica il locale si tramutò in un rogo e lo sghignazzio dell’eremita in un urlo di cupa disperazione: infatti, mano a 23


mano che le carte che aveva compilato durante il lungo distacco dal mondo si incenerivano, il suo corpo si disfaceva, evaporando, finché di lui non restò nell’aria che un ultimo, breve lamento strozzato. Confusi da quei sortilegi e ormai toccati dalle fiamme, fuggimmo precipitosamente dal convento; quando, raggiunti finalmente i cavalli, volgemmo lo sguardo verso l’alto, di esso non rimaneva che un cumulo di sassi fumanti. Quella sera nessuno di noi parlò.

*** Dopo avere risalito per tre giorni il boscoso versante meridionale della catena dei Narayani giungemmo sul Kesendirian-La, il “Passo della Solitudine”. Dabbasso si estendeva ora un rosso, arido oceano di sassi e sabbia di cui non si riusciva a scorgere la fine: a quella vista inquietante anche i più allegri fra noi ammutolirono. Prima di iniziare la lunga discesa verso quell’orrenda landa arroventata Namgyal ordinò di legare ai rami di un albero le sete zeppe di preghiere scritte affidategli dai lama dello Dzong: i venti delle montagne avrebbero rapidamente stinto quelle suppliche, portandole su fino agli dei affinché questi le accogliessero e proteggessero così la spedizione; dopodiché i soldati si sedettero intorno alla pianta e trascorsero qualche tempo a recitare sommessi mantra. Io me ne stetti da parte, pensando ad altro…

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*** Era da una settimana ormai che ci addentravamo nel Tejasthal, il quale s’era fatto via via sempre più sabbioso ed estenuante; quel settimo dì il sole aveva raggiunto il suo punto più alto e intorpidiva le nostre facoltà mentre procedevamo lentamente in colonna, quando all’improvviso Namgyal si mise a gridare. “Rangarpur, Rangarpur!” ripeteva, contagiando d’eccitazione la propria cavalcatura che rizzata sulle zampe posteriori nitriva smodata, e indicando con insistenza ai compagni un punto lontano all’orizzonte, un po’ più a nord rispetto alla nostra direttrice di marcia. Per quanto, riparandoli con la mano dalla luce accecante, stringessimo gli occhi per allungare la vista, sia io che gli altri tuttavia non scorgemmo nient’altro che dune tremule dentro l’etere rovente. “Com’è possibile che non riusciate a vedere una fortezza tanto possente, e torri così alte?” - si meravigliò Namgyal “Non sentite lo squillo delle trombe? Probabilmente le vedette hanno avvistato la polvere sollevata dai nostri cavalli!”, “Temo che tu sia vittima di un miraggio” - cercai di persuaderlo. “Io invece credo che i bagliori del deserto abbiano guastato la vista di tutti voi!” - insistette quello “Comunque potremo facilmente scoprire se io sono oppure no un visionario portandoci più a ridosso di quella che tu, presuntuoso straniero, sostieni essere una fantasticheria” - aggiunse con tono provocatorio. “Dunque avanti!”, 25


comandò poi, lanciando il cavallo in una ardua e folle corsa tra i dossi sabbiosi. Obbedendo al proprio capitano, gli altri spronarono anch’essi le bestie; ed io mossi appresso a loro, non potendo certo concedermi il lusso di rimanere laggiù da solo. Masticando polvere cavalcavamo un centinaio di metri più indietro dell’ufficiale - che intanto sbraitava di vedere già le cancellate della città - allorché d’un tratto lo vedemmo sprofondare insieme al suo destriero nella sabbia: un enorme gorgo si era improvvisamente animato sotto di loro e in pochi attimi essi vennero inghiottiti dal deserto. I nostri cavalli si inchiodarono, presi come noi dal terrore: nitrivano e scalciavano furiosamente, alla fine ci disarcionarono e fuggirono in ogni direzione, verso il Nulla, abbandonandoci alla nostra sorte. Dopo la disperazione iniziale, pian piano riacquistammo il controllo di noi stessi; fu fatto il punto della situazione e tutti convenimmo che senza più acqua né cibo - finiti chissà dove, legati alle selle - sarebbe stato insensato tentare a piedi la via del ritorno: la distanza che ci separava dai Monti Narayani era ormai troppo grande, sole e sabbia ci avrebbero uccisi ben prima di poterli intravedere. Non ci restava che la fragile speranza di un’oasi, più avanti. Ci liberammo d’ogni bardatura conservando unicamente la spada, aggirammo il punto - tornato quieto - in cui il povero Namgyal era stato risucchiato e riprendemmo il cammino verso occidente, con l’assillo (o forse l’augurio) di incappare anche noi nelle sabbie mobili.

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Con sofferenze che mi è impossibile descrivere ci spingemmo tra le dune per alcuni dì ancora, lottando strenuamente per sopravvivere all’arsura del giorno e al gelo della notte; poi poco a poco il suolo si fece più compatto e infine ci trovammo ad avanzare - per un tempo che non so calcolare per via dello stato di semi incoscienza in cui ero scivolato - in una pianura pietrosa e senza visibile termine. Anche questa nuova desolazione non conosceva una sola pozzanghera, radice o preda animale: i più prostrati (quattro) caddero, per non rialzarsi più; i superstiti non poterono che lasciarli al loro destino, trascinandosi poi in avanti per una, forse due albe ancora. Finché qualcuno non strillò di nuovo: “Rangarpur, Rangarpur!”. Scrutai l’orizzonte, ma non vidi nulla. Eppure gli altri cinque mi giuravano - tutti - di vederla davvero, questa volta: una poderosa cittadella, laggiù, sulla sommità di un isolato picco roccioso! Sforzai ancora gli occhi bruciati e doloranti, ma invano. Intanto i miei compagni con le ultime forze loro rimaste già arrancavano verso il castello strepitando con voci roche e agitando le braccia per aria nel tentativo di richiamare l’attenzione ed il soccorso di quanti dovevano essere lì di guardia; ed io, ancora immobile e dubbioso, dovetti assistere - inorridito - al ripetersi del maleficio: il cielo fu percosso da un boato spaventoso e subito dopo la terra iniziò a tremare furiosamente spalancando una gigantesca voragine dentro la quale, uno dietro l’altro, tutti quegli sventurati precipitarono senza emettere un solo lamento, come muti. Venni scaraventato a terra e, picchiando il capo contro un sasso, persi i sensi; 27


della fortezza, se mai era veramente esistita, di certo non restava più nulla.

*** Durante quella specie di sonno un frammento di me rimasto comunque ancora vigile ebbe come la sensazione di volare giù lungo un pozzo senza fondo. Quando finalmente mi riebbi ci volle un po’ prima che mi rendessi conto di trovarmi in un luogo diverso, ma non meno desolato: me ne stavo seduto in una immensa distesa di melma grigia che ribolliva qua e là e dalla quale esalavano odori nauseabondi che si condensavano poi in una sottile coltre di nebbia; tutt’intorno si intravedevano, affogate nel fango, spoglie d’alberi inceneriti dalle saette e carcasse putrefatte di bestie sconosciute: non fu facile abituare i polmoni a tanto fetore. Tiratomi su, iniziai a vagare affannosamente per quella palude, talvolta sprofondando fino alla cintola, alla vana ricerca di una sponda, mentre dentro cercavo di frenare l’angoscia che andava assalendomi. D’improvviso, alle mie spalle, risuonò una lunga e sorda risata. Mi voltai e vidi, offuscata a tratti dai vapori, la figura di un imponente cavaliere dall’armatura nera, il cui volto si celava dietro la visiera di un elmo anch’esso del colore della notte e sormontato dall’effige del dio Kàla. Mi avvicinai con circospezione al misterioso guerriero, ora silenzioso e immobile nel fango; tra le mani egli teneva, puntata contro di me, una spada che riluceva sinistramente. 28


“Chi siete, cavaliere?” - gli domandai, sguainando comunque anch’io la mia arma. “Mi chiamano Ratnakar”. Era dunque lui, il Signore delle Tenebre! “Cosa volete da me?” - chiesi trasecolato. “La tua vita!”. “Ditemi il perché! Vi ho forse arrecato in qualche modo offesa?”. “Tu hai osato intralciare il supremo disegno di Kàla”. “Non posso essergli stato d’ostacolo: non ho trovato Rangarpur”. “Oh, Rangarpur…” - prese a ridacchiare quello. “Non esiste, vero? Come pure il siero miracoloso… Già... In verità l’avevo sospettato…”. “Per questo ora ti trovi qui. L’eremita e i tuoi ultimi compagni, al pari di quasi tutti gli umani, sono invece finiti vittime delle menzogne in cui hanno creduto, o voluto credere: per vivere l’uomo ha bisogno di illusioni. Noi due, però, non abbiamo miti: siamo simili, io e te”. “Io non sono come voi!”. “Dunque non comprendi? Sei in questo luogo proprio perché anche tu stai per raggiungere la Consapevolezza: è essa la formula che vai ricercando! Ma non l’avrai: il mondo degli umani è oramai vicino alla sua fine, se tu giungessi alla Verità e tornassi indietro a divulgarla potresti ancora salvarlo, e io avrei fallito! Perciò devi morire. Ora!”. E così dicendo si scagliò contro di me.

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*** Fu uno scontro tra pari abilità, che si protrasse a lungo; il fango si rimestava sotto le nostre mosse spandendo miasmi ancora più velenosi che bruciavano gli occhi e la gola, mentre una folla di avvoltoi assisteva al duello accomodata sui rami rinsecchiti sparsi dattorno, schiamazzando ad ogni incrociarsi delle lame. Nell’aria risonavano boati lontani, mentre misteriosi scintillii, crepitando, illuminavano a tratti la plumbea palude. Allorché venni ferito sia pure superficialmente ad un braccio capii che non combattevamo però ad armi pari: il ferro dell’avversario doveva infatti essere stato intinto in qualche droga, perché nel volgere di pochi istanti le forze mi abbandonarono; mi afflosciai sulle ginocchia, mentre nelle vene sentivo dilagare un senso di delusione. Ritto innanzi a me, il cavaliere nero mi derideva mentre - ormai inerte - attendevo il colpo mortale. Si era adesso impadronito di me uno stato d’animo dapprima di noia e poi di disgusto per la vita che stavo per lasciare: pregai Ratnakar di finirmi immediatamente. Lui smise di ghignare e nello stordimento lo vidi sollevare la lama alta nell’aria, pronta ad abbattersi brutalmente sulla mia nuca. Non so come accadde: un anelito di vita evidentemente trascurato dal veleno mi guizzò fuori dal cuore e corse fino alle mani che ancora impugnavano la spada, la quale d’improvviso scattò verso l’alto trapassando così la corazza nemica. Non un gemito fuoriuscì da essa: solo sangue, che

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scivolando copioso e veloce lungo l’arma conficcata mi inondò i polsi. Le braccia del cavaliere nero, ancora drizzate in alto, si irrigidirono, lasciando cadere poi giù la spada; io mollai la presa sulla mia, infilzata dentro quel corpo divenuto di pietra che alla fine si abbatté all’indietro affondando con un tonfo sordo nel fango. Volli allora vedere il volto di colui che aveva bramato di essere il mio carnefice. Ma quale fu il mio sgomento allorché, strappatogli via l’elmo, dentro quell’armatura io vidi me stesso, fissarmi con occhi vitrei! Sconvolto, scappai via iniziando a vagabondare senza scopo per la laguna maledetta, finché questa volta non toccai una riva sulla quale, stremato, mi accasciai. Venni trovato, più morto che vivo, da dei pastori sbucati là chissà come, i quali mi legarono prono sul dorso di uno yak e mi portarono al loro accampamento, dove mi guarirono miracolosamente dal letale veleno. Quando, dopo alcune settimane, fui finalmente in grado di rimettermi in piedi e uscii dalla tenda che mi ospitava, restai letteralmente senza fiato: davanti a me, bianco e immenso contro il cielo azzurro, si ergeva il Chomoananda, la più alta delle montagne conosciute! Il suo spirito chiamò il mio cuore: così, non appena fui di nuovo pienamente in possesso delle mie forze, partii per raggiungerne la cima. E lassù trovai ciò che Ratnakar voleva proibirmi. Avevo da pochi giorni fatto ritorno al campo quando nel mio ricovero irruppero sei uomini che indossavano le uniformi, impolverate e lacerate da un lunghissimo viaggio,

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dell’armata di Kodagar. “Finalmente vi abbiamo trovato” - dissero - “Abbiamo l’ordine di condurvi da re Virendra”. “Per divertire, immagino, la plebaglia annoiata con una bella impiccagione!” - commentai io sarcastico - “E così sia: sono stanco di fuggire…”. “Non vi sarà alcuna esecuzione, prode Anurag” - chiarì uno di quelli, chinando rispettosamente il capo - “Il vostro caso è stato rivisto”.

*** La sala reale mi apparve cambiata dall’ultima volta che l’avevo veduta, alcuni anni prima; in effetti sembrava riadattata per ospitare un’importante cerimonia. Quando fui al cospetto di Sua Maestà feci per inginocchiarmi riverentemente, ma egli con un cenno della mano me lo proibì; poi, con una smorfia di fatica che tradiva il tempo accumulatosi sulle sue spalle, si alzò dal trono e mi venne incontro dispiegando un sorriso paterno, per stringermi infine forte a sé. “Anurag, hai salvato il mondo dall’Oscurità! Gli uomini te ne saranno eternamente grati!”. Dentro la tenda, in preda alla febbre alta, avevo delirato per giorni, farfugliando tra mille cose pure parole sul mio conto e su ciò che era accaduto nella palude; i pastori avevano fatto arrivare quelle importanti notizie a Kodagar (perciò i soldati questa volta erano riuscito a localizzarmi e a raggiungermi!) e da lì esse erano poi rimbalzate dappertutto. L’esercito delle Tenebre, perduto il suo 32


Signore, si era disciolto come neve al sole e nel Shan-Yul l’epidemia, non più rinfocolata da nuovi untori, pian piano si era esaurita; ed io, da ladro e assassino, di punto in bianco mi ero trasformato per tutti in uno straordinario eroe. “Ti domando perdono per avere dubitato della tua rettitudine e per aver spinto il Gran Maestro a decretare la tua caccia, ma a prima vista tutto davvero era contro di te”, si giustificò il sovrano con tono di sincero rimorso. “E’ stata mia figlia - oh, lei si è sempre rifiutata di pensarti colpevole! - a esibirmi trionfante la prova dell’inganno ordito da Sukumar”. Appresi così che circa un anno dopo la mia fuga da Kodagar il fratello di colui che avevo ucciso aveva chiesto udienza alla principessa per mostrarle una lettera con la quale lo scellerato generale, in uno sfogo, gli aveva confidato l’insana gelosia che lo stava consumando nonché il suo meschino piano di rivalsa; non volendo disonorare la memoria del congiunto costui aveva taciuto a lungo, poi però la sua coscienza non aveva più permesso che si perseguitasse un innocente. Dopo di ciò i miei inseguitori avevano inteso semplicemente riportarmi con ogni onore tra i miei pari, ma io non potevo saperlo e così avevo seguitato a ingegnarmi per restare uccel di bosco (la storia dei colombi viaggiatori, dunque, era stato un inganno del Je-Khempo per potermi usare!). “Lei vorrebbe salutarti, prima di abbandonare il palazzo” - disse poi Virendra. Lo guardai con aria interrogativa.

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“Come, non sai nulla? Fra quattro giorni andrà in sposa - proprio qui, in questa sala - al re di Sawangal ! Su, brinda anche tu a questa unione che frutterà pace e prosperità a due popoli a lungo nemici” - continuò il re con voce festosa, comandando poi ai servitori di portare due calici di vino. Il mio fu amarissimo: a quella notizia, che mi aveva gelato il cuore, avrei preferito mille volte la morte con gli altri nel deserto. Alisha… Per tutti quegli anni solitari aveva riempito i miei sogni la notte e occupato i miei pensieri di giorno! Quando ero arrivato a Kodagar in entrambi era subito scoppiata la passione, celata tuttavia l’un l’altro e al mondo (poiché ambedue la sapevamo inaccettabile per i disegni di corte) ma ugualmente resa manifesta a tutti dai nostri occhi che si cercavano continuamente per poi fingere di guardare oltre quando si incrociavano, dal tremore delle nostre parole nelle conversazioni che si dissimulava nate per caso, e alla fine confessata da quel “Ti amo!” sussurratoci reciprocamente all’orecchio al termine del nostro ultimo ballo, la sera prima della mia inimmaginabile fuga: era stato il ricordo improvviso di quel magico momento, in realtà, ad avermi acceso lo sprazzo di vigore che mi aveva salvato dal Signore delle Tenebre. Avevo l’animo in subbuglio mentre, accompagnato da una damigella chiacchierona che tuttavia non ascoltavo, salivo le scale che conducevano al suo appartamento e che parevano non volere terminare mai. La trovai seduta presso il finestrone, col viso illuminato dai raggi del sole che filtravano attraverso i grandi vetri smerigliati e i lunghi 34


capelli vellutati raccolti in trecce da un’altra ancella devota; l’aria, nella stanza, profumava di lei. Nel rivedermi ebbe un sobbalzo di gioia, ma subito si ricompose; congedata la giovinetta - che uscì dalla stanza omaggiandomi con un inchino - ella prima d’ogni altra cosa volle sincerarsi del mio buon stato di salute, quindi mi invitò a sedere su uno scranno di fronte al suo. La guardavo completamente disarmato: era diventata, se mai ciò fosse stato possibile, ancora più bella! Conservando in principio un certo distacco che mi disorientò (il suo sentimento si era dunque spento?) mi chiese dei luoghi lontani e delle genti diverse che, mio malgrado, avevo conosciuto; volle poi sapere di più sulla mia salita in cima al Chomoananda: sciogliendosi finalmente un po’, ascoltò con partecipazione il racconto di quella ascesa di giorni e giorni dentro la neve, la quale passo dopo passo mi aveva prosciugato il respiro e le forze, mentre la mente per il gelo e la sete era andata via via popolandosi di fantasmi. “Da lassù ho però poi visto il mondo intero: abbandonatomi allo stupore, ho riempito la mia anima di bellezza e provato una pace immensa; e il timore della Morte e del Nulla è svanito, per sempre. Sono tornato indietro spogliato d’ogni smania di averi e privilegi, ma gonfio di desiderio di guardare con uno sguardo nuovo la vita”. Lei vacillò: non osando con le mani, prese a carezzarmi il volto con gli occhi, pieni di trasporto e, insieme, di smarrimento. Poi però si scosse e tornò ad imporsi compostezza. Mi domandò quindi altre cose ancora, ma nulla su ciò 35


che veramente mi premeva: nulla, cioè, su noi due. Così, esaurito alla fine ogni spunto di conversazione, nella stanza scese un imbarazzante silenzio; io d’altronde continuavo a lanciare occhiate astiose alla veste da sposa in preparazione in un angolo dell’appartamento. “ Dunque sarete presto regina…” - ruppi infine gli indugi. Lei si alzò in piedi accostandosi alla finestra, guardando oltre, lontano. “Siete innamorata di lui?”. “E’ un uomo gentile. Con il tempo imparerò ad amarlo pienamente”. “Non credete affatto a ciò che dite!”. “Siete uno sfrontato!” - rispose lei stizzita, senza nemmeno voltarsi. “No, sono soltanto uno sventurato che vive per voi”. La sua figura delicata si irrigidì: strinse forte i pugni e serrò gli occhi, da cui iniziarono a scivolare giù calde lacrime. “Mio padre desidera, e il mio futuro consorte è d’accordo, che Voi veniate a Sawangal per assumere il comando della guarnigione di quel palazzo e servirmi come guardia personale. Ora io vi prego… vi imploro…” - continuò tra i primi singhiozzi - “di non accettare questo privilegio; anzi, vi comando di non oltrepassare mai le frontiere del mio nuovo regno e, infine, di… dimenticarmi!”. “Al ballo diceste di amarmi!”. “E dunque?”- ribatté lei con voce sconfortata e risentita insieme - “Dopo la vostra fuga ho sofferto enormemente; 36


senza più notizie, vi ho infine creduto morto. Le cose hanno così seguito il loro corso, senza tenere conto dei miei desideri. E ora voi rispuntate dal nulla e… pretendete forse che io rifiuti le nozze? Per il nobiluomo a cui sono promessa sarebbe un affronto tale da portare probabilmente ad una nuova guerra! Per me ormai non è più possibile tornare indietro, lo capite? Il destino, evidentemente, ci vuole divisi…”. E per soffocare l’angoscia che era ormai sul punto di travolgerla, sempre volgendomi le spalle pose bruscamente fine all’incontro: “E’ giunto il momento di salutarci, cavaliere!”. Io non capivo più nulla, se non che desideravo pazzamente di prenderla tra le braccia, e baciarla. Ma ciò avrebbe reso ancora più insostenibile il male che ci stavamo infliggendo a vicenda, e così alla fine non mi mossi. “Sapermi l’artefice della nostra infelicità rimarrà per me il peggiore dei castighi…” - fui solo capace di bisbigliare. Lei si girò. “Forse ci incontreremo di nuovo in un’altra vita” - sorrise triste - “Ora però vai… vai, ti supplico… mio unico, immenso amore!”.

*** Non tornai dal Gran Maestro e dai cavalieri della Sacra Confederazione. La mia stella mi condusse altrove, lontano: attraversai molti altri deserti e nuovi ghiacciai, valicai scoscese montagne ancora ignote all’uomo, finché non giunsi qui, a Dalimkot, dove finalmente mi fermai e volli dimenticare il mio rango e il mio stesso nome per diventare 37


- per tutti coloro che da allora in poi ebbero a conoscermi semplicemente il mite Nihar, allevatore di api. Lo struggimento per Alisha pian piano si è trasformato in nostalgia e infine, nel crepuscolo della vita, in un dolcissimo ricordo: adesso che sono vecchio mi da pace sapere che, a dispetto del tempo e della lontananza, lei in realtà è appartenuta, e sempre apparterà, soltanto a me, ed io a lei. Nell’illusoria ma nondimeno consolante attesa di incontrarla davvero di nuovo in un’altra vita. Ho spesso ripensato anche alla furia di Ratnakar contro la stirpe degli uomini. Egli era caduto in errore: non avrei mai potuto salvare gli umani, perché ben pochi fra essi possono accogliere le verità che appresi sulla cima della grande montagna; ironia della sorte, fu proprio lui a preservare il mondo, allorché intese fermarmi trovando invece la morte: così le fantasie degli uomini poterono rigermogliare, donando loro nuovamente la speranza. Riflettendo su me stesso, accetto tutto quanto nel bene e nel male ho voluto o dovuto vivere, poiché mi hanno reso quel che sono: un uomo, che ora attende con serenità il suo ultimo giorno. E a voi dico: vivete con intensità e con amore ogni vostro istante, seppur sapete che d’essi non resterà nulla. Sarete allora creature degne.

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Sul Ghiacciaio del Gigante

Fuori, nel buio, il vento ululava rabbioso e gelido. Rinserrai immediatamente la finestrella della camerata, provando un avvilente senso di piccolezza, e mi costruìi addosso un’armatura di indumenti termici; scesi coi compagni in sala a tracannare due tazzoni di tè bollente e poi - moderno Don Chisciotte - spalancai l’uscio del rifugio e mi lanciai per primo nella tormenta, che però nel frattempo era - di colpo - clamorosamente cessata. Quella domenica di giugno l’intera penisola sarebbe stata difatti preda di una eccezionale canicola: sul Ghiacciaio del Gigante, alle 5,30 del mattino, i miei ramponi calpestavano neve già mezza frolla e durante la marcia di aggiramento delle “Aiguilles Marbrées” (che intendevamo salire dal versante est) dovetti via via aprire ogni possibile cerniera per evitare di ritrovarmi infine a sguazzare dentro uno scafandro di sudore (per inciso, ero già alquanto irritato dal non essere riuscito a chiudere occhio per tutta la notte, probabilmente per via dello sbalzo di quota). 39


Lo scenario circostante, in compenso, mozzava il respiro e lungo la salita approfittai di una breve sosta della mia cordata per voltarmi e divorarlo con gli occhi: sulla destra, contro il chiarore pallido del sole sorgente, si stagliava scura la forma di un incredibile pilastro obliquo (il famoso “Dente del Gigante”); di fronte si estendeva un immenso anfiteatro bianco tra i cui palchi di picchi aguzzi sedevano con regalità il Tacul e l'Aiguille du Midi, mentre il sottostante, ondulato oceano di neve si colorava d’arancio laddove arrivavano - filtrando attraverso i varchi delle montagne - i primi raggi del mattino; a sinistra, suscitandomi brividi, si ergeva poi - grandioso e fiero - lui, il Monte Bianco! Ero come ipnotizzato, e schiacciai forte le palme delle mani contro le orecchie: non volevo che il vocio dei compagni spezzasse quell’incantesimo. Avevo voglia di sciogliermi dalla cordata, liberarmi del peso dello zaino e correre laggiù, segnando quella distesa immacolata con le mie orme, e lì saltare, fare capriole e lasciarmi rotolare lungo i pendii come un bambino. All’improvviso, però, il pensiero andò a Dario, mio compagno di tante vittorie giovanili sui campi di canottaggio ma soprattutto, fuori dalla barca, l’amico fraterno, prima che l’inimmaginabile (l’infatuazione verso una stessa ragazza che aveva illuso entrambi) ci allontanasse, ciascuno convinto - a torto - di essere stato tradito dall’altro. L’avevo rivisto la domenica precedente dopo lunghi anni di reciproco e insensato silenzio, ridotto al lumicino da un male inesorabile su un letto d’ospedale a Firenze (aveva chiesto alla moglie di rintracciarmi e di potermi rivedere); la larva che mi ero 40


trovato davanti non aveva nulla a che fare con il ragazzo aitante e gioioso che avevo conosciuto: Dio, quanto avrei voluto strappare il groviglio di tubicini che lo avvolgeva e porre immediatamente fine a quella disumana trasformazione del “mio” Dario, dandogli la pace! Come quella che stavo provando io adesso, di fronte a tanta assoluta bellezza… Egoisticamente, scacciai via l’antico amico dai miei pensieri. La salita alla cima più alta delle Marbrées - quella nord non è tecnicamente ostica. Tuttavia un tratto interamente innevato ci rallentò parecchio; il ghiaccio, infatti, s’era fatto poltiglia: quando, al di sopra della testa, vi conficcavo la becca della piccozza e poi tiravo per issarmi, quest’ultima scivolava subito giù sfarinando il terreno; alla stessa stregua, i gradini che ero costretto a crearmi con le punte anteriori dei ramponi e dopo a consolidare battendovi ripetutamente sopra il piede, quasi sempre poi cedevano sotto il mio peso, facendomi slittare in basso e perdere più terreno di quanto non ne avessi appena guadagnato. Sempre badando, ovviamente, a non perdere comunque mai l’appoggio sulla montagna, altrimenti l’intera cordata avrebbe potuto correre il rischio di ruzzolare giù per il lunghissimo canalone. “Ma non avevo proprio nient’altro da fare oggi?” - mi chiedevo, grondando sudore e col pensiero che correva al caffellatte con focaccia calda che a quell’ora mi avrebbe servito a letto mia moglie se me ne fossi invece rimasto cheto a Genova. Ad ogni modo, facendo stridere orripilantemente i ramponi sulle rocce della torretta sommitale, alla fine 41


giungemmo in vetta (un’autentica “punta”, v’è spazio a sedere per una persona soltanto). La giornata era splendida e avrei voluto fermarmi lassù per un po’, ma Fulvio (il capo-cordata) batté ripetutamente il dito sul suo orologio da polso per rammentarci che eravamo alquanto in ritardo sulla tabella di marcia. Lungo la cresta innevata che digrada verso sud tutte le cordate procedettero con estrema cautela: la stretta “traccia” era ormai quasi melmosa e talvolta i ramponi non facevano granché presa, così il rischio di scivolare e poi andar giù a velocità supersonica lungo l'uno o l’altro dei ripidissimi fianchi della montagna diventava… beh, plausibile. “Occhio, Claudio, concentrati sui passi, ricordati che tieni famiglia!”, continuavo a ripetermi. Primo di cordata nella lenta e delicata discesa, ad un tratto mi avvidi di un provvidenziale spuntone di roccia intorno al quale fissai prontamente un cordino di sicurezza, attrezzandolo poi di moschettone; dopodiché proseguii però oltre, dimenticandomi bellamente di inserire dentro quest’ultimo la corda che mi legava alla compagna dietro! Fulvio dall’alto mi segnalò a voce l’omissione ed io, rettificando il mio ritornello (“Occhio, imbecille, ricordati che… ecc. ecc.), tornai indietro per rimediare. Poi più dabbasso, data l'eccessiva lentezza con la quale stavamo procedendo, venne infine deciso di portarci direttamente sul ghiacciaio, calandoci uno alla volta con manovre di corda attraverso un ripido canale di neve. Quando fui sulla terrazza del Nuovo Rifugio Torino accesi il cellulare per avvisare a casa che la giornata si era 42


conclusa - così pensavo - felicemente; subito un “bip” mi segnalò la presenza di un messaggio nella segreteria telefonica. Era della moglie di Dario: mi informava, con un filo di voce, che lui se ne era andato alle 6,15 di quel mattino, cioè all’ora in cui, durante la risalita del ghiacciaio, mi era improvvisamente comparso nella mente... Un mese più tardi, coronando un sogno, giunsi lungo la “via normale” sulla vetta della Cima Grande di Lavaredo. Avevo letto che anche lassù, fissate ad una corda tesa, sventolavano delle piccole “lung-ta” himalayane e così dallo zaino estrassi un oggetto di cui, per nulla al mondo, mi sarei prima mai spossessato: la medaglia di bronzo conquistata in un'importante regata internazionale insieme a Dario. Con il suo stesso nastrino azzurro la assicurai bene alla funicella, immediatamente dopo l’ultimo drappo sacro: congiunsi le mani sul petto e le rivolsi un lungo inchino, poi i miei occhi si persero, malinconici, nelle meraviglie che mi circondavano. Non credo in alcun aldilà. Tuttavia, ancora oggi mi piace pensare che il vento e il gelo, polverizzando poco a poco quel pezzo di metallo, abbiano “liberato” la storia di fraterna amicizia che essa custodiva, conducendola fino alle stelle e rendendola lassù eterna.

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Il sogno di Aleksej

Fuori, allo scrosciare monotono della pioggia, si aggiunse ad un tratto il lontano rumore di un cavallo al galoppo. Il ritmico calpestio degli zoccoli si fece sempre più vicino e quando fu giunto davanti all'ingresso della casa si bloccò bruscamente; un istante dopo si udì un frenetico bussare alla porta. “Chi mai può essere?” - si domandò Sergeevic che, avvertendo l'avvicinarsi dell'animale, aveva intanto smesso di mangiare. Si sentì nuovamente battere all'uscio. “Vi prego, aprite!” - implorò dall'altra parte una debole voce, subito soffocata dal rombo assordante di un tuono. “Vai ad aprire immediatamente, o chiunque egli sia si buscherà un bel malanno!” - disse l'anziano Vladimir a Sergeevic, suo figlio; il robusto contadino si alzò dalla tavola e corse a togliere la trave che sprangava dall'interno la porta di casa. Un giovane avvolto in un lungo mantello grondante d'acqua si precipitò immediatamente dentro, e 44


prima che l'altro richiudesse a fatica l'uscio sospinto dal vento un lampo illuminò nella notte il cavallo che fuggiva via terrorizzato tra fittissime linee di pioggia. “Vi ringrazio” - disse il giovane cavaliere con voce spossata, mentre ai suoi piedi si era già formata una larga pozza d'acqua. Tutti gli occhi della famiglia erano appuntati su di lui: era alto e snello, e sul pallido viso rigato dalle gocce di pioggia che gli colavano giù dai capelli biondi si potevano ancora scorgere i segni di una passata fierezza, cancellata da un qualcosa di doloroso; dal basso della cappa consunta fuoriuscivano due stivali da soldato il cui colore era celato da uno spesso strato di fango. “Toglietevi il mantello e accomodatevi alla nostra tavola”, disse l'anziano padrone di casa al nuovo arrivato. “Avevamo appena iniziato la cena. E non preoccupatevi per le vostre calzature”- aggiunse, accorgendosi del suo imbarazzo e continuando a esaminarne i lineamenti con interesse. Intorno al tavolo apparecchiato, oltre al vecchio, erano seduti una tipa corpulenta più o meno della medesima età, una seconda donna molto più giovane e due bambini. Ma nessun altro. “Grazie” - disse l'ospite con voce delusa - “Ma non vorrei arrecarvi fastidio...”. "Su, via, niente complimenti in casa mia!” - ridacchiò pacatamente Vladimir - “Siete il benvenuto fra noi!”. Il cavaliere ringraziò mentre Sergeevic lo aiutava a disfarsi del pesante pastrano impregnato d'acqua. Sotto indossava una logora casacca verde da ùssaro zarista, la quale 45


doveva essere stata un tempo molto elegante e che era tenuta ferma alla vita da una cintura di pelle nera da cui pendeva una spada dall'impugnatura lavorata in oro; i calzoni scuri con una striscia laterale rossa per gamba erano alquanto sudici e strappati in più punti. “Non dovrebbe aggirarsi per le campagne con questo tempaccio!” - lo rimproverò la vecchia che si era alzata per porgerli un panno con cui asciugarsi il viso. “Grazie, siete tutti molto gentili” - disse il cavaliere. La donna lo prese per un braccio e lo condusse a sedersi su una sedia di fronte a Vladimir che seguitava intanto a studiare il suo volto, mentre Sergeevic, dopo avere sistemato il mantello ad asciugare vicino al caminetto che scaldava tiepidamente l'ambiente, riprese il proprio posto a fianco della ragazza; la donna anziana pose poi davanti all'ospite un piatto di montone arrostito e un boccale pieno di vòdka. “Vi presento la mia famiglia” - riprese a parlare il vecchio - “Io mi chiamo Vladimir, e insieme a mio figlio Sergeevic coltivo il fazzoletto di terra che circonda questa casa. Loro, i miei nipoti” - disse indicando affettuosamente i bambini seduti alla sua destra - “si prendono invece cura delle capre e delle vacche che teniamo nella stalla qui dietro l'abitazione: sono anche piuttosto competenti, i due birbanti!”. I piccoli assunsero un’aria orgogliosa sentendosi lodati per il loro compito di alta responsabilità, e il cavaliere li guardò con tenerezza. “Lei è Lunjevica, la sposa di Sergeevic” - continuò Vladimir additando la ragazza - “Invece questa donnaccia 46


brontolona e petulante è mia moglie Draga!”. Scoppiarono allegre risate e la vecchia stessa sembrò divertita per la facezia; però allorché i due bambini presero a canzonarla anche loro con alcune battute attinenti alla sua pinguedine, la donna mutò bruscamente umore e cominciò a gesticolare adirata contro i nipoti: non permetteva che qualcuno all'infuori del marito si burlasse di lei! “Su, Draga, stanno solo scherzando! Sai che in realtà ti vogliono un gran bene!" - la calmò divertito Vladimir, mentre Sergeevic e sua moglie si guardavano l’un con l’altra sforzandosi, per rispetto, di non ridacchiare oltre pure loro. Anche il giovane cavaliere accennò un sorriso: la scena era stata capace di rallegrarlo, e per lui era difficile divertirsi, ormai da tempo. “Ora però basta con le chiacchiere!” - sentenziò Vladimir, rivolgendosi poi di nuovo all'ùssaro. “Immagino che voi, signore, abbiate fame, e non è educato” - soggiunse ammonendo gli altri - “parlare mentre si mangia”. Si fecero tutti il segno della croce sul petto e ripresero la cena interrotta poco prima. All'esterno continuava a diluviare. Di tanto in tanto qualche lampo illuminava a giorno la stanza, rischiarata altrimenti dal fuoco del caminetto; subito dopo seguiva il boato sordo del tuono. Da dietro la porticina che comunicava direttamente con la stalla proveniva un belare inquieto e talvolta anche le mucche facevano udire il loro muggito preoccupato. “Le bestie sono impaurite” - commentò uno dei bambini. “No, hanno solo fame” - rispose noncurante il padre, seguitando a mangiare con gusto. 47


Il soldato invece masticava con scarsa convinzione; non sembrava neppure rendersi conto di avere qualcosa in bocca, immerso com'era in chissà quali pensieri. “Forse l'arrosto non è di vostro gradimento?” - domandò premurosa Draga, che se ne era accorta. “Oh, no, tutt'altro!” - si scosse confuso l’ospite - “E' molto gustoso, davvero! Il fatto è che, pur non toccando cibo da diversi giorni, ora stranamente non ho molto appetito” - si spiegò, temendo di averla potuta offendere. “Oh, povero ragazzo, per questo siete così sciupato! Forse qualche preoccupazione vi assilla?”. “No, affatto, tutto procede per il meglio” - si affrettò a rispondere il giovane - “Vi ringrazio in ogni caso per le vostre premure”. Dopodiché il silenzio non venne più interrotto. Quando infine tutti ebbero terminato di cenare (solo il soldato non aveva mangiato praticamente nulla), l'anziano capofamiglia si alzò per primo dalla tavola e mentre con una mano estraeva la pipa dalla tasca dei pantaloni, con un calmo gesto dell'altra invitò il militare ad andare a sedere insieme a lui su alcuni sgabelli posti davanti al focolare. Il contadino più giovane invece si infilò a fatica oltre il ristretto uscio che dava sulla stalla, seguito dai due figli che strascinavano ciascuno una cesta di cibo per gli animali (i quali avevano intanto cominciato a protestare più energicamente); le due donne, dopo avere diligentemente sparecchiato la mensa, scomparvero dentro una minuscola e fumosa cucina. “Non mi avete ancora detto il vostro nome e il luogo in cui siete diretto” - domandò Vladimir quando furono soli. 48


“Mi chiamo Lev… Lev Malenkov. Sono un messaggero e vado… ad est. Devo consegnare alcuni importanti dispacci al comando della guarnigione della capitale”. Il vecchio sembrò non avere ascoltato la risposta, affaccendato com'era nel tentativo di accendere la pipa che teneva stretta nella bocca nascosta alla vista da una folta barba bianca. Quando il tabacco fu finalmente affocato, si curvò appoggiando i gomiti sulle ginocchia e chiuse gli occhi: ristette così, come sonnecchiante, per parecchi minuti; mentre la pioggia fuori si abbatteva con veemenza contro i battenti delle piccole finestre, dalla pipa fuoriuscivano a intervalli regolari cerchi di fumo che spandevano nella stanza un gradevole aroma di erba nicotiana. Quando si raddrizzò, Vladimir vide che il giovane fissava malinconico le fiamme che nel caminetto giocherellavano a confondersi continuamente l'una con l'altra. “Da quanti giorni non dormite, soldato?” - domandò quasi con indifferenza, dopo essersi tolto la pipa di bocca. “Non saprei, ho perso ormai il conto” - rispose meccanicamente l'altro, senza distogliere lo sguardo dal fuoco. “La missione affidatavi è dunque della massima importanza, se per portarla al più presto a termine vi private anche di cibo e riposo” - osservò il vecchio contraendo il viso in una finta espressione di ammirazione. “Già”. “Siete davvero un bravo soldato”". 49


“Vi ringrazio”. disse laconicamente l'ùssaro continuando a fissare i tizzoni incandescenti. Il vecchio gettò dentro il caminetto alcuni pezzi di legna accatastati ai suoi piedi. “Non siete certo di molte parole” - continuò, ricacciandosi la pipa tra la barba; dalla cucina frattanto giungeva il vociare delle due donne indaffarate nella pulizia delle stoviglie, mentre nella stalla le bestie avevano cessato di lagnarsi. Fuori il sibilo del vento si faceva sempre più acuto e la pioggia non accennava ad attenuarsi. “Credo che dobbiate dormire qui, questa notte” - commentò Vladimir. “No, non posso. Devo andare”. “Vi pigliereste una polmonite! Inoltre in questo momento non mi sembrate proprio essere nelle condizioni migliori per affrontare un lungo viaggio: avete assolutamente bisogno di riposare, se volete giungere a San Pietroburgo. Sempre ammesso” - continuò ridacchiando ironicamente - “che Voi dobbiate veramente portare dei dispacci alla capitale...”. Il soldato si voltò verso il vecchio, guardandolo per qualche istante disorientato; poi rigirò lo sguardo sul fuoco e la sua espressione tornò assente. “Per raggiungere San Pietroburgo bisogna cavalcare verso ovest, e non verso est come Voi avete detto. Un portaordini” - osservò Vladimir con tono di paterno rimprovero - “sa esattamente in che direzione dirigersi e ha in cima ai suoi pensieri la propria cavalcatura: non mi è parso che vi siate dannato per la perdita del vostro cavallo!”. Si interruppe un momento, il tempo di dare un 50


paio di rapide boccate alla pipa. “Ed inoltre” - riprese poi “un semplice messo di solito non porta una spada dall'elsa d'oro”. Il giovane soldato permaneva silenzioso e indifferente. “Non è comunque per queste ragioni che so che Voi non dovete affatto andare alla capitale; perché, anzi, non vi farete più ritorno fino a quando non avrete trovato ciò che state disperatamente cercando, principe Aleksej”. “Come fate a sapere che sono il principe Aleksej?” - si rigirò di botto l’altro, interdetto. “Due anni fa mi sono recato a San Pietroburgo per comperare delle bestie: là vi ho visto passare lungo la strada principale, mentre la folla si apriva davanti a Voi che montavate uno stupendo cavallo bianco, scortato dalle guardie dello Zar vostro padre. Il vostro volto fiero mi è rimasto impresso nella memoria: vi siete molto consumato da allora, ma non ho avuto eccessiva difficoltà a riconoscervi ugualmente quando siete entrato qui”. L'espressione del buon vecchio si fece ad un tratto più seria. “So anche cosa state cercando; l'intero popolo di Russia sa cosa sta inseguendo inutilmente da più di un anno il suo amato Zarèvic!”. Il giovane tornò ad ignorare le parole del contadino. “Vostra madre la Zarina è molto in ansia per Voi: vogliate perdonare la mia insolenza, ma credo che non sia stato giusto da parte di Sua Altezza non fare avere più notizie di sé da quando è partita!”'.

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Il principe chiuse gli occhi appesantiti dalla stanchezza, sospirando: quindici mesi erano trascorsi dalla notte in cui Lei gli era apparsa - bellissima! - in sogno... Era rimasta a lungo rifugiata tra le sue braccia; poi, scostadolo dolcemente con la mano e scioltisi sulle spalle i lunghi capelli, ella aveva liberato il proprio delicato essere da ciò che lo nascondeva: e lui aveva allora dimenticato il mondo intorno! Sì, quindici mesi erano passati da quando era infine giunta l'alba e al risveglio l'aveva cercata invano nel suo letto… Da quel giorno ogni altra cosa era divenuta vuota e vana, e così sarebbe ormai stato fino a quando Lei non lo avrebbe reso nuovamente felice con una sua carezza. Aveva spiegato tutto ai genitori, era balzato in sella al suo destriero ed era partito a spron battuto alla ricerca di quella donna; i sovrani lo avevano lasciato andare, credendo a un capriccio giovanile che lo avrebbe stancato nel volgere di qualche giorno. Oltre un anno era invece scivolato via: aveva cavalcato senza requie attraverso le steppe, sfidando la neve e il gelo dell’inverno siberiano, il caldo e la sete del deserto del Volga, frugando il volto di ogni ragazza che incontrava nella speranza sempre delusa di riconoscervi il sorriso cercato. Più di un anno, e il vecchio Zar, dopo tanta paziente attesa, si era infine incollerito: non concepiva che il principe ereditario continuasse a girovagare per l'impero anziché tornare a palazzo e iniziare ad interessarsi delle faccende di governo, di cui molto presto avrebbe dovuto assumere la pesante responsabilità. Mille cosacchi a cavallo erano stati così sguinzagliati alla sua ricerca e un 52


ingente premio in rubli era stato promesso a quello che avrebbe ricondotto alla reggia e alla ragione il principe scapestrato; ma questi sembrava essere svanito nel nulla, nonostante vi fosse sempre qualcuno pronto a giurare di avere visto lo Zarèvic galoppare in questo o in quell’altro punto del regno. Così Aleksej ora era costretto anche a sfuggire coloro che un tempo erano stati suoi fedeli soldati e che ora, allettati dal denaro, davano la caccia al loro signore come se fosse il più pericoloso degli assassini. Lui però non poteva far ritorno a corte senza quella fanciulla. No, doveva continuare a rovistare bene le pianure, la tundra, ogni montagna... “Se continuerete così vi ammalerete gravemente” - interruppe i suoi pensieri Vladimir - “Tornate a casa, Zarèvic!”. Il principe fissò il contadino scuotendo il capo. Poi si alzò e ripiglio il mantello: era ancora molto bagnato, ma se lo gettò ugualmente sulle spalle. “Spero abbiate una cavalcatura. Ve la pagherò bene, ho con me ancora molto denaro”. “No, ve la donerò. Ma Voi, dove volete andare? Tornatevene a Pietroburgo” - incalzò l’anziano - “Il popolo vi attende, avrà presto bisogno della vostra guida”. “Non posso, credetemi”. “Dove vi condurrete, allora?”. “Non lo so: uscirò dai confini di mio padre, mi dirigerò verso il Catai; attraverserò anche l'oceano, se necessario”. “I cosacchi vi troveranno, prima o poi”. “Per fermarmi dovranno uccidermi”. Il vecchio lo guardò con commiserazione. 53


“Non avete ragione di preoccuparvi per me, buon Vladimir. Sono solo alla ricerca della mia felicità: un giorno la troverò”. “No, mio Zarèvic. Voi non la raggiungerete mai. Voi morirete molto presto”. Un breve silenzio. “Forse è davvero scritto così” - mormorò infine Aleksej con un velo di rassegnazione nella voce. Il vecchio Vladimir non insistette: aveva capito che niente avrebbe potuto persuadere il principe a desistere da quella ricerca folle. Con calma si sollevò dalla panca sulla quale era seduto, spense la pipa, rovesciò le ceneri nel caminetto e si diresse in cucina; disse qualcosa alle donne che vi si trovavano dentro e poi si affacciò sull'uscio che dava alla stalla: “Sergeevic, prendi uno dei cavalli, sellalo e portalo davanti alla porta!”. Sergeevic fece capolino dal maleodorante ricovero. “Ma fuori sta ancora diluviando!” - esclamò stupito - “Il signore può pernottare da noi”. “Il signore ha molta fretta” - spiegò Vladimir - “Egli deve raggiungere la capitale al più presto e qui ha già perso del tempo prezioso”. Anche le donne sporsero dalla cucina le loro facce interrogative. “Signore, rimani qui!” - strillò uno dei bambini sbucando dalla stalla e saltellando poi allegramente fino a lui - “Devi ancora raccontarci delle battaglie che hai fatto!”. Aleksej gli accarezzò una guancia, sorridendo. “Devo proprio andare, mi dispiace; te le racconterò un'altra volta”.

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Sergeevic si gettò allora nella tormenta, mentre gli altri si radunarono intorno al cavaliere. Draga gli diede una bisaccia di viveri. “Grazie, siete stati molto cari con me”, disse loro Aleksej. “Buona fortuna, portaordini!”- gli augurò il vecchio Vladimir stringendogli forte le spalle. L’ùssaro aprì la porta e una folata gelida sferzò la stanza. Guardò quella gente un'ultima volta e poi si lanciò verso il cavallo tenuto alla briglia dal già zuppo Sergeevic; montò in groppa e si lanciò ventre a terra perdendosi subito nella tempesta, mentre il contadino si precipitava al riparo dentro casa. “Perché lo hai lasciato andare, padre?”. “Perché, figlio mio, egli deve ancora trovare la più importante delle cose: il significato di sé stesso!”, gli rispose il vecchio.

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La folle gara

Genova, una notte di fine maggio dell’anno 2014. Dal divano sul quale è accovacciato, Nelson - il cane di famiglia mi guarda con un’espressione interrogativa mentre pian piano, per non svegliare moglie e figlia che dormono nelle camere accanto, in sala raccolgo le mie cose e poi scivolo oltre l’uscio di casa. Sono le 4.20 e fuori è ancora buio pesto; sulla mia “Vespa” malconcia, lungo strade deserte alla volta del porto, non sento però freddo, segno che l’afa estiva è ormai alle porte e che mi sarà dunque impossibile d’ora in avanti svolgere prolungati allenamenti a secco in orari differenti da questo. Attacco a remare nella vasca da canottaggio all’aperto del “Rowing Club Genovese 1890”, la mia società, alle 5.10 e mi sembra di essere tornato ai tempi del liceo, quando da agonista mi allenavo quotidianamente prima di recarmi in classe. Soltanto che adesso sono alla vigilia dei 54 anni e mentre dodici gabbiani - dodici, li ho contati! - volteggiano 56


con insistenza una trentina di metri sopra la mia testa simili a pazienti avvoltoi, mi domando: “Ma che diavolo sto facendo?”. Due anni fa, al termine dell’impegnativo mandato di Presidente del Comitato Ligure della Federazione Italiana Canottaggio, avevo deciso di non farmi più coinvolgere in faccende remiere; da allora avevo frequentato il mio club per il tempo strettamente necessario ad allenarmi un po’ per le mie escursioni in montagna. Ma domenica scorsa è stata proprio la stizza per non avere potuto partecipare ad una salita alpinistica a causa di una influenza fuori stagione ad avermi fatto sconsideratamente dire di sì alla contemporanea offerta di Stefano di prendere parte alla gara di canottaggio più lunga del mondo: 160 chilometri! Nel 2008, per celebrare il 120° anniversario della fondazione della nostra Federazione, avevo messo su un viaggio costiero a remi da Genova a Roma (con la risalita del Tevere, circa 550 chilometri di percorso). Con due imbarcazioni da 4 vogatori più timoniere per raggiungere la capitale impiegammo otto giorni, il più “lungo” dei quali misurò circa 80 chilometri, suddivisi in due tappe; in quella pomeridiana la mia maglia da bianca divenne rossastra per via del sangue che mi sgocciolava giù dalle palme delle mani devastate dall’attrito con le impugnature dei remi: bene, sul vasto lago di Ginevra avrei dovuto rivivere “doppio” (per di più in un’unica soluzione e con “spirito” da gara) quell’incubo… Un’autentica pazzia! A completare l’equipaggio si sono dichiarati disponibili Pippo e Gaetano (anch’essi fattisi le ossa con me e Stefano 57


nella Genova-Roma) e Luca; l’imbarcazione prevista dal regolamento di gara - una “GIG” a 4 con timoniere - grazie alle buone relazioni di Luca ci verrà gentilmente prestata, nuova di zecca, dal Cantiere Nautico Salani. Saremo l’unico armo italiano in gara. “Ecco esplosa la crisi dei 50!”, ha sentenziato mia moglie allorché l’ho informata della decisione. A me, invece, era piaciuto prendere in prestito la risposta data da George Mallory al giornalista che gli aveva chiesto perché mai volesse scalare l’Everest, all’epoca ancora inviolato (“Perché esiste” ). Perlomeno fino a questa mattina: dopo soltanto due ore e quaranta minuti di voga un crampo mi paralizza la coscia sinistra; non c’è verso di lenirlo e riprendere a remare, così mi tiro su e claudicante e avvilito mi dirigo verso le docce: per acquisire una condizione fisica adeguata alla mostruosità in cui mi sono cacciato ho solo quattro mesi di tempo... “Sì, è’ una vera follia”, continuo a ripetere a me stesso più tardi mentre varco la soglia dell’ufficio.

Lago di Lemano (Ginevra), sabato 27 settembre 2014. Dopo quei crucci primaverili per mettermi in forma avevo dato vita ad una bizzarra alchimia di allenamenti: alpinismo, marce montane forzate, spinning, nuoto e, naturalmente, canottaggio (in vasca, ad esempio, sono poi arrivato a vogare per cinque ore consecutive). Ma dopo poche ore dal “via” del giro completo dell’immenso Lemano - dato con puntualità svizzera alle 8,00 - sotto il sole caldo ecco che i crampi sono ridiventati per tutti i regatanti l’insidia maggiore. Quando acchiappano me penso con sconforto 58


“…ecco, è finita qui! ”. Lo sforzarsi a gestirli per quasi un’ora e infine riuscire a superarli si dimostra quasi un’arte. Il resto - ma questo già lo sapevo - è un crescendo wagneriano di bruciore alle mani piagate dal remo, di dolore (vero) nel fondo-schiena e ai glutei, i quali ultimi poco dopo Montreux - ove finalmente abbiamo svoltato la prua verso Ginevra, lontana ormai “soltanto” un’ottantina di chilometri - iniziano a smaniare sul carrello, ora spostandosi di qualche millimetro a sinistra, poi di nuovo verso destra (o indietro) un minuto dopo, e così via all’infinito, alla spasmodica ricerca di un po’ di sollievo. Stilla dopo stilla l’acido lattico mi rende inoltre le gambe sempre più pesanti; nei pressi di Evian mi salta in mente di ricalcolare - in base al nostro ritmo di palate - quante volte esse si saranno compresse a molla al termine di questa incredibile giornata: circa 20.000. Tutto ciò è tuttavia comune a ogni scriteriato convenuto quest’oggi sul grande lago, incluso quel Tim Grohmann, oro agli ultimi Giochi Olimpici nel 4 di coppia, che con il suo giovane equipaggio tedesco è al comando della regata. Viceversa, oltre che sull’acqua, ciascuno di noi sta navigando in un oceano di pensieri invece tutti personali, che si accavallano nelle mente veloci come onde. E’ sorprendente l’avvicendarsi di momenti nei quali giungo a sentirmi realmente uno stupido (“Metterti ancora a “giocare” sulla barchetta alla tua età! - mi biasima di tanto in tanto una voce dentro - Ma va’, piantala lì e tornatene subito dalla tua famiglia!” ) con altri - precisamente quando si assottiglia il distacco con l’equipaggio dietro o con quello 59


avanti - nei quali l’antico impeto agonistico si riaccende e prende prepotentemente il sopravvento su ogni altra considerazione. Così come è strano l’alternarsi di fasi di grande spossatezza a inaspettate - e anche prolungate - fiammate di energia, durante le quali allora potenzio il tiro per il mero piacere di sentire il musicale sciabordio della prua mentre taglia agile e veloce l’acqua del placido Lemano e nel contempo penso che quest’avventura, indipendentemente da come essa finirà, si aggiungerà comunque al mosaico della mia esistenza, rappresentando un nuovo tassello di me. “Finché mi sarà concesso voglio sentirmi vivo”, mi dico. E allora, contraddittoriamente, sono assolutamente felice di trovarmi qui. Guardando le colline che corrono parallele alle rive ho anche ripensato alla mia recente salita della Cima Grande di Lavaredo, iniziando poi a pianificare nella mente quella del Sassolungo1 anche al fine di annullare per un po’ il senso del tempo e potermi così infine ridestare con la piacevole “sorpresa” di una bella manciata di chilometri in meno da percorrere (“Beh, non è poi così tanto lunga!” ). In realtà l’unico vero “trucco” - se mai può esisterne uno - è non pensare mai al traguardo (che altrimenti diventa un miraggio angosciante e insostenibile psicologicamente), bensì concentrarsi a far bene ogni singola palata, come se fosse allo stesso tempo la prima e l’ultima della giornata. La stanchezza, si sa, rende irritabili: così durante il lungo viaggio non manca qualche battibecco tra noi; ma le 1

Scalata poi realizzata nel luglio 2015.

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incrociate, antiche amicizie e la consapevolezza di trovarci - alla lettera - sulla stessa barca ci mantengono uniti: stringiamo i denti e sopperiamo vicendevolmente alle inevitabili, provvisorie carenze di qualche compagno. Discorso simile in occasione dei cambi al timone (ogni ora circa), nei quali ci riveliamo di gran lunga i più lenti elargendo vantaggi significativi agli avversari: la cosa ogni volta mi manda in bestia, ma subito mi rientra chiara in testa l’idea che l’importante è arrivare in fondo. Giunti a Sciez, dalla riva ci arrivano urla di incitamento: sono Cristiano (il “meteopatologo” - come lo chiama Stefano - che ci fornisce consulenza meteorologica sin dal Genova-Roma) e il suo “apprendista” Simone; lo scambio di battute gridate porta in barca una certa allegria. Lo sconcertante bunker atomico dove a terra abbiamo alloggio insieme agli altri equipaggi continua tuttavia ad assumere sempre più nelle nostre teste le sembianze di un hotel in stile Las Vegas, dotato di mille comfort. Sopraggiunge infine la notte e con essa il freddo. Stefano - passato nuovamente al timone essendo egli il più capace a manovrare al buio - combatte contro l’ipotermia rinserrato dentro il sottile telo isotermico da montagna caricato a bordo già ieri sera insieme a molto altro materiale, tra cui barrette energetiche e bustine di sali minerali da sciogliere nell’acqua raccolta via via direttamente dal lago e da trangugiare - letteralmente - durante i cambi al timone. Sento che quest’ultima fase della regata mi rimarrà impressa per sempre nella memoria: nel silenzio, sotto le stelle, la barca prende a correre più veloce verso la meta, 61


che la mente sa ormai prossima ma che al corpo esausto appare invece ancora tremendamente lontana. In mezzo all’acqua, guardando la luna, rivivo le emozioni provate tanto tempo fa da giovane sottufficiale di leva sulla torretta del sommergibile “Enrico Toti” durante il rientro notturno alla base dopo un’esercitazione… Quando finalmente posso drizzarmi in piedi sul pontile della Société Nautique de Gèneve scopro di avere perso il senso dell’equilibrio: inarcato sui remi per 14 ore e 17 minuti (tanto è durata per noi la gara), ho infatti finito con il dotarmi di un altro baricentro e ci vorrà più di un’ora per tornare a pieno diritto nel mondo dei bipedi. Mi informano che siamo il decimo equipaggio ad avere tagliato il traguardo (altri tredici armi lo supereranno dopo di noi). Posizione di classifica tutto sommato soddisfacente, della quale tuttavia in questo momento non mi importa davvero nulla: sono arrivato e tanto, semplicemente, mi basta. Corro (si fa per dire) sotto la doccia calda e poi mi godo una delle scomode panche di legno dello spogliatoio, da dove con il cellulare avviso a casa che non si sono liberati di me; Luca dalla bilancia esclama sbalordito di avere perso dieci chili, da recuperare con urgenza seduti intorno a una delle tavole imbandite per questo “circo di matti” nel ristorante del club organizzatore. Gaetano, quello perennemente affamato, molla però subito il cibo: avverte senso di nausea e un forte giramento di testa, “costringendomi” così a divorare anche la sua parte. Pippo ci raggiunge poco dopo, rinfrancato da uno dei massaggiatori messi a disposizione 62


degli atleti sbarcati. Mentre prendo coscienza di avere la mano sinistra semiinerte (una tendinite?), Stefano inizia a snocciolare la sua analisi della nostra corsa alla ricerca delle cose da “correggere”. Capisco subito cosa ha in mente; lo guardo dritto negli occhi e gli ringhio: “No, caro mio, non mi freghi una seconda volta!”. Nel cuore, però, gli sono riconoscente.

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STORIA DI UNA STORIA

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Anno 1988

PREMESSA

Quella che segue è la storia di Luke Dohrow, così come sopravvive nei ricordi di quanti gli furono amici e, in particolare, di mia cugina Silvia, la quale l’ha a me narrata due anni or sono quando mi sono recato negli Stati Uniti per (finalmente) conoscerla. Ne sono rimasto colpito e in seguito mi è sembrato giusto testimoniarla, ricostruendola pian piano - seppur in modo frammentario - anche grazie allo scambio di lettere avuto con alcuni altri protagonisti della vicenda. Spero, ora che essa è finalmente ultimata, di riuscire a coinvolgere l’eventuale lettore, precisando che nomi di luoghi e persone sono naturalmente diversi da quelli reali. L'Autore

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PARTE PRIMA

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I

Alle cinque esatte il gracchiare sordo della sveglia strappò bruscamente il ragazzo dal sonno: era ora di alzarsi, l'allenamento quotidiano lo attendeva. A Luke costò più fatica del solito, quel mattino, tirarsi giù dal letto. Con la mente ancora intorpidita, si trascinò fino alla camera da bagno per una rapida doccia ravvivante; riacquistata così coscienza di sé raggiunse la cucina per la colazione, sforzandosi di fare il minor rumore possibile per non svegliare l'intera casa. Mentre a piccoli sorsi mandava giù il tè bollente ascoltava attentamente il vento che fuori sibilava forte: sotto i suoi colpi le tapparelle emettevano un crepitio simile a quello della legna al fuoco. “Uhm, mare agitato, oggi” - pensò il canottiere. Le lancette segnavano già un quarto alle sei allorché chiuse la porta di casa dietro di sé. Fuori era ancora notte fonda: su in alto le stelle brillavano di un turchino insolito, mentre il vento soffiava davvero vigoroso. Il ragazzo tirò fuori dalla rimessa la motocicletta e si avviò lungo strade 71


deserte e gelide (nonostante il pesante giaccone sulla moto faceva un freddo cane!) alla volta dell'abitazione del suo allenatore. Allo squillo del campanello seguì una breve attesa, poi ecco una finestra aprirsi al piano superiore della graziosa villetta e un minuscolo faccino barbuto presentarsi assonnato alla luce della luna. Dopo aver salutato con un floscio “hi”, il signor Lopez trascinò lo sguardo sugli alberi del giardino circostante: le piante ondeggiavano forte, il che gli strappò una smorfia di disappunto. Fece comunque al ragazzo cenno di attendere e richiuse le imposte dietro di sé. Nel frattempo un pallido chiarore era andato diffondendosi, restituendo un primo incerto contorno alle cose. Luke nell’attesa si sedette sul basso muretto di una aiuola, con lo sguardo rivolto al cielo stellato; intorno l'aria era frizzante: la respirò profondamente e - quasi questa possedesse una qualche virtù misteriosa - una curiosa, eccitata allegria lo pervase. Giunto che fu il signor Lopez, salirono sulla piccola utilitaria di quest'ultimo. A dispetto del parabrezza completamente appannato per l'umidità, il piccolo allenatore guidò a velocità sostenuta giù per il lungomare, una mano sul volante, l'altra agli occhi che si stropicciava senza posa, per fermarsi infine davanti al cancello del “Green Springs Rowing Club”. Qui, puntuali come sempre, si trovavano già gli altri componenti dell'equipaggio, anch'essi tutti avvolti in pesanti casacche e con i berretti di lana cacciati in testa; accucciato in un canto, tutto intirizzito dall’umidità pene72


trante del primissimo mattino, stava poi - piccino piccino il timoniere. Il sole aveva da poco fatto capolino sulla linea dell'orizzonte allorché i ragazzi, dopo essersi velocemente cambiati, si staccarono con la loro imbarcazione dal pontile; Lopez, ex timoniere dai discreti trascorsi, seguiva i canottieri a bordo di un gommone. Al riparo dal vento, il mare si rivelò meno ostile sotto i muraglioni dell'isola di Santa Clara, sulla quale la Green Springs vecchia ancora dormiva beata. L'oceano era qui colorato di un blu profondo e la fioca luce dell'alba donava qua e là alla superficie leggermente increspata riflessi argentati; dietro la città, lontana, la vetta innevata del Monte Tolimas faceva da sfondo alla gioia di vivere di quei ragazzi. … La fatica, come iniettata da siringhe, entrava nelle loro membra a fiotti, più densi e brucianti ad ogni nuova palata; soprattutto le gambe, spingendo forte sul carrello, si erano oramai quasi calcificate. Lopez controllò il cronometro e un sorrisetto di soddisfazione si disegnò sulle sue labbra: l'armo stava viaggiando nel pieno rispetto della tabella di marcia e al termine della prova mancavano ormai solo duecentocinquanta metri, quelli in cui un equipaggio, raccogliendo ogni energia residua, si produce nello scatto finale. Semplice, in teoria; ma per un canottiere, ogni volta, è come cercare di cavare ancora acqua da una spugna già totalmente prosciugata. “Forza, ragazzi! E' questo il momento, “serrate” adesso!” - urlò tuttavia l'uomo del gommone. 73


Luke, il capovoga, si sforzò di eseguire l'ordine impietoso, ma era troppo sfiancato per potere aumentare ulteriormente il numero - già considerevole - dei colpi in acqua. Ogni parte del suo corpo, al contrario, gli chiedeva di fermarsi, supplicava riposo; dentro aveva i polmoni come incendiati. Inevitabilmente ricadde subito sul “passo” precedente. “Luke, aumenta! Miseria porca, aumenta!” - cominciò allora a tuonare infuriato l'allenatore - “Animo, un ultimo sforzo, dai!”. Stordito dalla fatica, il timoniere anch'esso che gli sbraitava in faccia per spronarlo, Luke ritentò l'impresa. E fu certo solo il bisogno assoluto di tregua a procurargli le forze necessarie: ricominciò a tirare forte, sempre più forte, perché voleva fare più in fretta, voleva infatti soltanto che tutto finisse prima! I compagni dietro ansimavano e gemevano, ma lo seguivano. Con gli occhi semivelati dal sudore il capovoga vide la poppa dell'imbarcazione “staccare” e scivolare via veloce, sciolta sulla superficie del mare; Luke premeva sulle gambe con rabbia, le vene alle tempie pareva dovessero scoppiargli, la gola era tutta riarsa. Il timoniere seguitava ad incitarlo: sì, così, andava bene così! La fine però non arrivava mai: sembrava lontana, irraggiungibile, e lui si sentiva ormai mancare, gli pareva di soffocare… “Stop!” - si udì ad un tratto dal battello pneumatico. Immediatamente nell’altra barca le mani mollarono la presa sui remi e i corpi si buttarono all'indietro, stravolti, mentre i polmoni cercavano spasmodicamente ossigeno: finalmente 74


era finita! Luke chiuse gli occhi, per godere con ingordigia di quella requie tanto agognata. Il gommone si avvicinò velocemente al 4 con facendo ribollire dietro l'acqua. Lopez aveva un’espressione compiaciuta: a dispetto delle condizioni non proprio ideali del mare, i suoi atleti avevano fatto registrare davvero un buon tempo. “Bravi, ragazzi! Bene, Luke. Al lago Casitas potrete senz’altro dire la vostra. E ora” - concluse l'allenatore “rientrate velocemente o farete tardi a scuola”.

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II

Quella domenica mattina, conclusa la riunione tecnica voluta da Lopez al termine dell’allenamento, Luke si ritrovò a spendere un po' di tempo sul lungomare di Green Springs. Sedeva su una delle tante panchine della passeggiata, sotto la piacevole ombra di una palma. Dalla baia spirava una brezza lieve e fresca e i ventagli di foglie sopra la sua testa stormivano dolcemente; il mare era pressoché immobile e centinaia di gabbiani vi aleggiavano sopra sfiorandone a tratti la superficie, alla ricerca di cibo. Era una giornata meravigliosa, il sole splendeva caldo: non pareva davvero una domenica di gennaio. Parecchie erano le persone che avevano pensato di approfittare di quell'inatteso anticipo di primavera per prendere una boccata d'aria buona. Gente d'ogni età e tipo affollava il viale: distinti signori con il giornale del mattino accuratamente ripiegato nella tasca del cappotto, i più scortati dalle rispettive consorti; bimbi che si rincorrevano

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strillando o che, con la manina spersa in quella del papà o della mamma, trotterellavano ansimanti per tenere il passo del genitore. Tanti poi i ragazzi che su pattini o biciclette intessevano azzardate, invisibili ragnatele tra la folla; e gli anziani, che intervallavano i propri pacati passi con qualche brontolio sulle recenti restrizioni dei servizi sociali decretate dal Presidente... Il ragazzo osservò a lungo tanto pacifico provincialismo, e alla fine ne provò disgusto. Che assurdità! Sprecare il proprio tempo a passeggiare così, dilapidare in quel modo banale momenti di vita che non sarebbero tornati mai più, anziché… anziché cosa? Non stava forse anche lui gettando via minuti irripetibili ammosciato su quella panchina arrugginita dalla salsedine? E che avrebbero dovuto fare, del resto, lui e tutti quegli altri là? Si mise a guardare una vela lontana che avanzava nella sua direzione. La barca si avvicinò pian piano e infine si presentò a soli pochi metri dal molo. Non era molto grande e sotto le vele lo scafo era di un luminoso color giallo, ma a bordo sembrava non esservi nessuno; la prua però d'un tratto virò bruscamente, rivelando a poppa la presenza di un omino barbuto tutto rannicchiato sulla barra del timone. L'imbarcazione si allontanò stancamente in direzione della penisola di Magdalena. Luke la seguì per un po', poi la lasciò perdere e tornò a guardare la gente. Lo spettacolo si confermò monotono: donne in ghingheri seguitavano a passeggiare lemmi lemmi a braccetto dei propri uomini lungo la banchina invasa dal prematuro calore; piccoli assembramenti di curiosi indugiavano intor77


no ai secchielli pieni di pesci di quelli che avevano deciso di godersi la giornata con una lenza fra le mani. Più in là, presso il furgoncino degli hot-dogs, dei marinai francesi - la loro nave da guerra era ormeggiata al vicino molo Sant'Antonio - masticavano invece frittelle; e poi tante ragazze, scorrergli davanti a gruppetti, vestite a modino. Fra tanta paesana ricercatezza spiccò però d'un tratto un maglioncino da giorno feriale, modesto al pari degli scoloriti jeans che ancheggiavano sotto. Luke non si stupì di riconoscervi dentro la sua compagna di classe Manuela, una giunonica ragazza imbevuta di idee socialrivoluzionarie. Era sola e Luke fu lì lì per chiamarla, ma poi lasciò perdere: quella mattina non era propenso a perdersi in inutili chiacchiere politiche. Passò un peschereccio. Le onde che si lasciò dietro andarono ad importunare dei gabbiani che oziavano poggiati qua e là sulla superficie e che emettendo acuti stridii di protesta furono costretti ad alzarsi momentaneamente in volo, in attesa che le seccatrici passassero oltre. Il ragazzo sbuffò, decidendo infine di andarsene, e senza granché voglia si incamminò per raggiungere i compagni di voga al solito locale in George Washington Park. Decisamente a Luke stava accadendo qualcosa di singolare. Non era più lo stesso, una strana inquietudine lo stava logorando dentro. La cosa aveva avuto inizio all'incirca sei mesi prima, allorché si era accorto che quanto lo circondava stava inspiegabilmente perdendo interesse per lui; che l’entusiasmo verso tutte quelle cose, grandi e piccole, che da 78


sempre avevano costituito il suo mondo andava via via scemando. Perplesso, aveva ad ogni modo seguitato a viverle - la scuola, il canottaggio, gli amici - ma ormai come per abitudine, meccanicamente, senza più davvero convinzione; peggio, su quella disaffezione si era poi sviluppato come un senso di stanchezza: qualunque cosa adesso decisamente lo annoiava, quasi lo nauseava. A questo punto non aveva potuto non domandarsi cosa gli stesse succedendo: certo, poteva essersi stufato del solito tran tran (questo era comprensibile, al limite); non era però possibile che non vi fosse davvero più niente, magari di nuovo, capace di ravvivare un po' d'entusiasmo in lui. Insomma, che cosa mai voleva dalla vita? Ed era stato proprio interrogandosi a fondo su questo che con sorpresa aveva scoperto che ciò che in realtà gli mancava non era un qualcosa di determinato, bensì il senso di tutte le cose! Sì, aveva compreso di avere bisogno di conoscere il significato di tutto quanto vissuto. Nello stesso tempo si era reso conto che quella era la prima volta in cui egli si poneva tale questione, e se ne era stupito; perché, davvero, come aveva fatto a vivere per diciott’anni senza essersi soffermato una sola volta a domandarsi la ragione della sua esistenza, che certo non poteva risiedere in Dio nel quale lui non credeva assolutamente? Era veramente sorprendente, questo! Ma più bizzarro ancora fu il fatto che, per quanto ci si fosse provato, alla fine non era riuscito a trovare quella “spiegazione”; e dal momento che in genere non ci si affaccenda su cose che appaiono prive di senso, egli allo stesso 79


modo aveva sul serio cominciato a pensare, pazzamente, che non vi fosse motivo di occuparsi della vita, scivolando così pian piano in una tremenda apatia. Abitare a Green Springs del resto non lo agevolava a trovare nuovi stimoli. Era una piccola cittadina di provincia del sud della California, affacciata su un mare limpido e incontaminato e circondata da una natura selvaggia, ancora ignota ai flussi turistici, dove tra il susseguirsi di gradevoli inverni e calde estati la vita scorreva placida. Ma sempre uguale. Tanta quiete andava veramente stretta alla gioventù locale, che avrebbe desiderato maggiore vivacità e somigliare così almeno un po’ all'immagine dinamica e pazza che si ha dell'America, della quale eppure essa faceva parte. In effetti la vita dei ragazzi di Green Springs aveva poco di “americano”; in mancanza di reali opportunità di svago, essi finivano col ritrovarsi ogni sera al George Washington Park: qui spendevano tutto il proprio tempo libero, nella monotonia di passeggiate e chiacchiere lungo viottoli ben noti; qui inevitabilmente finivano col nascere e morire gli amori giovanili, si coltivavano le speranze dell'adolescenza e si ingannava intanto il tempo con qualche stoltezza; qui si concentrava insomma la loro giovinezza. Luke e gli altri vogatori della città avevano anch'essi il proprio punto di ritrovo nel parco, esattamente nello spiazzo antistante il “Whipped's Inn”. Seduti o appoggiati pigramente alle proprie motociclette parcheggiate davanti all'ingresso del locale, trascorrevano le ore a rimasticare le regate passate in vista di quelle future, interrompendosi 80


solo di tanto in tanto per lasciar correre fischi e battute dietro alle ragazze particolarmente carine che transitavano di lì. Gli atleti dei due clubs remieri cittadini, in acqua rivali giurati ma al Whipped’s buoni amici, qui si scambiavano poi notizie sui rispettivi allenamenti, facendo comunque sempre bene attenzione a non scoprire troppo le proprie carte; poiché se l’essere superati in gara già era in generale una mortificazione, questa diventava bruciante se inflitta da un equipaggio “cugino”: lo scherno si sarebbe allora protratto fino alla regata successiva, senza tuttavia mai guastare i buoni rapporti di fondo. Talvolta anzi, allorché si trattava di partecipare a competizioni di alto livello, gli interessi di fazione venivano messi da parte e per meglio difendere il buon nome di Green Springs si univano le forze presentando ai barchini di partenza equipaggi misti. Certo, per entrambi le parti un buon esito era poi da attribuire unicamente alle proprie capacità e la brutta figura, viceversa, sempre e soltanto all'inettitudine - confermatasi - dei momentanei compagni; in tutti e due i casi, quindi, seguivano accese discussioni. Al di là di tutto ciò, ognuno di quei ragazzi riconosceva però in quel mondo i propri amici migliori. Per Luke il compagno di barca Richard O'Toole, più che un amico, era un vero fratello; cresciuti praticamente insieme, nel tempo si era creato tra loro un legame assai profondo: avrebbero fatto l'impossibile l'uno per l'altro. Questa amicizia era sempre stata molto importante per Luke. Rimasto in tenera età orfano di entrambi i genitori 81


morti in un incidente stradale, egli era stato cresciuto dai nonni materni, i quali dedicarono tutti sé stessi alla creatura della loro sfortunata figliola. Il loro smisurato affetto tuttavia non poté non fare ugualmente sentire al piccolo Luke la mancanza di un padre e di una madre e sovente la malinconia per i genitori, dei quali peraltro conservava solo una nebulosa memoria, assaliva il bambino, che trovava allora conforto in quel compagno di giochi dai capelli lunghi e biondi come il grano, che sapeva già allora ascoltare in silenzio e capire. Ancora insieme, nelle medesime classi, avevano poi frequentato i vari gradi della scuola, entrambi sempre con ottimo profitto, anche se di recente Luke stava accusando un certo calo di rendimento a causa di quello strano malumore giovanile che i suoi nonni, ormai anziani, non riuscivano a comprendere, per quanto si sforzassero e se ne preoccupassero. La grande, comune passione dei due ragazzi era però il mare. Da sempre l'oceano esercitava su di loro un fascino particolare e qualunque cosa avesse attinenza con esso li entusiasmava; così per Luke e Richard era stato naturale avvicinarsi al canottaggio, sport dalle radicate tradizioni lì a Green Springs, divenendo presto due dei suoi atleti più rappresentativi. Era dunque inevitabile che il canottaggio costituisse uno dei loro principali argomenti di discussione; spesso anzi non sapevano parlare d'altro, suscitando così le proteste di Isabel, la ragazza di Richard (molto bella e guardata da tutti era Isabel: i suoi occhi verdi incantavano chi la incon82


trava!), la quale ovviamente non era altrettanto interessata alle vicende remiere. Luke nutriva per Isabel un affetto enorme. Ma la sua migliore amica era Silvia, una ragazza del Wyoming conosciuta durante una vacanza a Palm Beach; i due si erano poi mantenuti in contatto attraverso una fitta corrispondenza e non appena i reciproci impegni scolastici lo consentivano si ritrovavano per qualche giorno a casa di lei. Luke con Silvia si trovava magnificamente. Non sapeva il motivo, ma quella ragazza lo ispirava in modo particolare: anche lei era estremamente carina, ma non era per questo; forse perchĂŠ, chissĂ , inconsapevolmente vedeva in lei una figura materna (Silvia era infatti con lui premurosa, attenta e cara). Comunque fosse, egli le apriva senza remore il proprio animo; come per incanto con lei, e soltanto con lei, egli svelava tutto sĂŠ stesso. Dal canto suo, la ragazza aveva molto a cuore quel bel ragazzone tutto preso dal suo mare e dalla sua barca.

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III

“Molte grazie!” - disse Luke, riprendendo a spingere la motocicletta che aveva la ruota posteriore a terra. Seguendo le indicazioni fornitegli raggiunse l'incrocio e imboccò a destra la via in cui avrebbe dovuto trovare il gommista di cui necessitava; ma si bloccò all'istante, sbottando. La strada che gli si presentava davanti stava compressa, lunga e angusta, tra due file di basse palazzine scrostate, in ciò simile del resto a ogni altra via di quel misero quartiere periferico; proprio quella strada aveva però in più rispetto alle consorelle una sgradevole caratteristica: era tutta in ripidissima salita. Il ragazzo la guardava avvilito: l'officina, stando all'informazione, si trovava più o meno a duecento metri dall'incrocio; il tizio non gli aveva però detto che sarebbero stati in realtà duecento metri di scalata e Luke non se la sentiva di 84


improvvisarsi rocciatore per arrivare fin lassù: la motocicletta pesava, e pure parecchio. Pensò così di vedere se esistesse nei paraggi qualche altra officina meno montana. Bloccò un giovane che passava di lì. “In zona c'è n'è un'altra, ma è un bel po’ distante da qui”, lo ragguagliò quello mentre masticava svogliato un chewing gum. Luke, contrariato, rivolse di nuovo lo sguardo alla via: esitò ancora per qualche istante, dopodiché emise un sospiro di rassegnazione, strinse forte il manubrio e cominciò a salire. Passandosi il braccio sulla fronte per asciugarla dal sudore che gli colava giù fino alla punta del naso, si affacciò infine all'entrata dell'officina: era un locale minuscolo, semi immerso nel buio e squallido quanto la strada di cui faceva parte; sul fondo si poteva intravedere un disordinato cumulo di vecchie camere d'aria e di copertoni consumati che arrivava a toccare il basso soffitto, occupando così buona parte del vano; il poco spazio rimasto a disposizione era ingombrato da uno sconnesso tavolino di legno su cui erano gettati alla rinfusa numerosi arnesi, da una piccola tinozza metallica riempita per tre quarti di acqua lurida e da alcuni malandati e arrugginiti cric. Sulle pareti la muffa era nascosta a tratti da manifesti di automobili da corsa o di ragazze dal sorriso ammiccante che reclamizzavano qualche marca di pneumatici. Di colui di cui aveva bisogno però nemmeno l'ombra. “Ehi, cerchi forse il gommista?” - lo distrasse una voce alle sue spalle.

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Luke si voltò e sull'altro lato della stradina vide uno sgangherato furgoncino dal cui finestrino sporgeva un grosso testone calvo che lo fissava in attesa di risposta. ”Sì, mi dovrebbe riparare la ruota” - spiegò il ragazzo indicando la motocicletta invalida. “Il proprietario si è dovuto allontanare, ma ha lasciato detto che sarà di ritorno in pochi minuti” - lo informò l'altro. “Va bene, grazie, attenderò”. L'uomo fece un vago saluto con la mano e ricacciò il capo pelato all'interno dell’abitacolo, riprendendo la lettura della rivista che teneva aperta sul volante. Luke tornò invece a ciò che aveva attirato la sua attenzione un istante prima di essere chiamato: una sbiadita fotografia rappresa al muro, incastonata nel sudiciume. L'espressione solenne di quell’uomo ripreso nella sua elegante uniforme contrastava con lo squallore dell'ambiente; su un bordo si intravedevano delle tracce d'inchiostro, che anche avvicinandosi Luke faticò a decifrare, stinte com'erano per l'umidità: “A

mio fratello Tom, con affetto. Bob. Da Nang, 16 marzo 1966”... Da Nang, Viet-Nam meridionale: uno dei combattenti statunitensi nel sud-est asiatico, dunque. “Hai bisogno di me, ragazzo?” - gracchiò una voce dietro di lui. Luke, voltandosi, ne esaminò un attimo la fonte prima di rispondere: l'uomo era basso, tarchiato, i capelli piuttosto ricci; la faccia e le grosse mani carnose che fuoriuscivano da un maglione logoro erano talmente annerite dall'untume che lo si sarebbe potuto facilmente scambiare per una 86


persona di colore. Senza dubbio si trattava del proprietario di quella topaia. “La mia motocicletta ha una gomma forata”. “Portala dentro, ti sbrigo in un attimo” - disse l'altro con un suono nasale. Si mise infatti subito al lavoro: piegato sulle ginocchia, iniziò a sviscerare con forza dal copertone la camera d'aria guasta. Respirava a fatica, l'aria gli entrava e usciva dal naso tozzo con uno strano sibilo (probabilmente aveva qualche disturbo di respirazione); di tanto in tanto si fermava, sbadigliava emettendo un suono pure esso curiosissimo e poi si rimetteva alacremente all’opera. Luke nell'attesa prese a studiare i lineamenti di quel viso annerito: sebbene risultassero più grezzi e non vi fosse comunque su essi alcuna traccia della fierezza dell'altro, gli parve di scorgere una qualche rassomiglianza con il soldato della fotografia. “Quella è dedicata a lei?” - chiese. L'altro si interruppe, stringendo gli occhi per meglio individuare nel buiore il punto indicatogli dal ragazzo. Riconosciuta la foto, si rigettò sul lavoro senza degnare di risposta il giovane cliente. “Era mio fratello, è morto in Viet Nam” - bofonchiò solo dopo un buon minuto, senza alzare la testa e sempre intento sulla ruota. “Mi dispiace sinceramente” - mormorò Luke con tono di scusa. Era quella la prima volta che udiva di un caduto della sua città: Green Springs infatti quasi non era stata toccata dalla guerra, pochissimi i giovani fino ad allora precettati.

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L'altro sembrò non averlo nemmeno udito. Finì di estrarre la camera d'aria, che cominciò poi a rigirare attentamente fra le dita adipose alla ricerca del foro; quando lo ebbe individuato passò a una serie di spicce operazioni con collanti e ritagli di gomma. Bloccò infine il rattoppo nella pressa vulcanizzante, premette un pulsante e la macchina, emettendo un ronzio, iniziò il suo lavoro. “Posso domandarle com’è avvenuto?” - disse Luke. L'uomo si voltò un po’ sorpreso; qualche attimo di titubanza, poi abbozzò un malinconico sorriso che rivelò un insieme di denti scomposti e ingialliti che imbruttivano ancora di più quella fisionomia già poco gradevole. “E’ successo appena fuori da un villaggio, nella zona di Quang Tri” - raccontò - “Stava spiegando come usare la macchina fotografica ad un giovane vietnamita che da un po', a breve distanza, lo stava osservando incuriosito armeggiare con quell'aggeggio. Il ragazzo dapprima si era mostrato seriamente interessato alla spiegazione; poi però ha improvvisamente infilato una mano in tasca, ne ha estratto una pistola e ha fatto fuoco a bruciapelo: era un viet-cong, è scappato via senza nemmeno portarsi dietro l'apparecchio. Bob è morto proprio così, in questo stupido modo, a soli venti anni” - concluse con occhi velati dalla tristezza. Luke tacque. L'altro si rigirò, spense la macchina, afferrò la camera d'aria ormai riparata e cominciò a infilarla dentro il copertone.

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Il ragazzo seguì con un grumo alla gola l'affanno di quella grottesca creatura, che ferita da quel dolore familiare proseguiva comunque lungo la via della sua misera esistenza… cioè la via verso il Niente, in verità. Ma che senso aveva? Non poté fare allora a meno di pensare che il soldato era stato in realtà più fortunato del fratello, e di lui stesso. Il gommista aveva intanto rimontato e poi gonfiato la ruota. “E’ pronta”. “Quanto devo?”. “Due dollari”. Il ragazzo estrasse dalla tasca del giubbotto due biglietti da un dollaro e li consegnò al gommista. “Grazie mille” - disse questi. Grazie? E di cosa? Luke, inspiegabilmente, venne assalito da una gran voglia di ridere: se solo li avesse posseduti, gli avrebbe buttato in faccia non due ma cento, mille di quegli stupidi foglietti di carta! Stupidi come la vita che quella marionetta si affannava a portare avanti... “Buona sera”, si limitò invece a dirgli, e afferrando la motocicletta uscì dall'officina, saltò in sella, spinse con forza la leva dell'accensione e si allontanò alla massima velocità da quel luogo.

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IV

Lettera a Silvia - 18 gennaio 1967

Un pomeriggio ideale quello di oggi, mia cara Silvia, per un’uscita in barca: il mare nella baia perfettamente immobile, non un solo filo di vento; il cielo di un azzurro limpidissimo, e l'aria tiepida e piacevole. Avevamo già svolto il nostro allenamento giornaliero, come da programma, nel primissimo mattino: un'ora di corsa tra i canneti del Rio Valdès; ma nel vedere, usciti da scuola, una giornata così bella, abbiamo pensato bene di godercela e di trascorrere allora in tuta anche il dopopranzo facendo una tranquilla vogata in mare, dove abbiamo incrociato Pedro a bordo di uno skiff 2. Ti ho mai parlato di lui? E’ un tipo unico, matto da legare! Le sue “imprese” sono note in tutta Green Springs. Pedro è stato mio compagno di classe, ma non per molto: il Consiglio d’Istituto lo ha infatti ben presto espulso dalla scuola.

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Nel canottaggio, imbarcazione a un solo vogatore con due remi.

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Accadde tre anni fa. Era una giornata afosa, il che rese massimo il suo naturale disinteresse per ogni genere di lezione. Stanco di stare seduto a sudare sul banco, decise di prendersi una boccata d'aria fuori dall'aula: sciolse allora con calma uno spago dalla tasca, lo legò allo schienale della sua sedia, si alzò e si diresse alla porta trascinandosi dietro, al guinzaglio, quell’arredo scolastico… L'insegnante restò esterrefatto (ricordo che non fu capace di pronunciare una sola parola) e il pazzo uscì tranquillamente dalla classe, cominciando a percorrere in lungo e in largo i corridoi della scuola con l'insolito segugio al laccio, facendo un baccano d'inferno quando saliva o scendeva per le scale. Il preside, avvertito dell'ennesima bravata di quello studente strampalato, si precipitò fuori dal suo ufficio per domandargli che cosa stesse combinando. “Niente, signor Murphy. Io e la mia sedia ci annoiavamo e allora abbiamo pensato di fare una passeggiatina” - gli rispose Pedro. Il preside stavolta non riuscì a trattenersi: esplose, e seduta stante lo sospese dalle lezioni per una settimana. Pedro si risentì, dato che in cuor suo riteneva di non avere poi fatto niente di male. Non rientrò quindi a casa; passò invece dal Rowing Club e, preso qui un megafono, fece ritorno a scuola, si piazzò davanti al cancello e - attrezzo alla bocca - espresse la sua protesta. "Cari compagni, oggi il signor preside ha sospeso dalle lezioni il qui presente vostro affezionatissimo amico Pedro. Ma volete sapere perché? Perché ci siamo concessi, io e la mia sedia, un break durante l'ora di filosofia. Ora, la 91


filosofia è o non è forse pallosa? E poi fa pure un sacco caldo! Dico bene? Quindi che male c'è se uno si vuol prendere una boccata d'aria? Allora perché il signor Murphy permette, mentre lui è in istituto, che sua moglie si trastulli al Bryant Motel con il professor Shulman quando questi ha la giornata libera? Anch'io il mercoledì, quando c'è l'ora di chimica e non mi va di venire a scuola, vado al Bryant con la Mary, e li vedo sempre insieme ...”. Sulla scuola ferma divertita in ascolto di colpo calò il gelo. La signora Murphy era una donna bella ma - pare anche un po’ “spensierata”: sul suo conto da sempre circolavano delle voci; e il Bryant Motel era risaputo essere luogo d'incontro di coppiette clandestine. Inutile aggiungere che Pedro venne cacciato dal liceo e costretto a questo punto a cercarsi un lavoro, che ottenne infine alle raffinerie “Jodh", a una ventina di miglia di distanza da Green Springs. Cosa combini ora là dentro non so, ma non mi è difficile immaginarlo. Senti infatti quest'altra. La settimana scorsa sulla Gazzetta di Green Springs mi è capitato di leggere proprio un trafiletto sulle Jodh, nel quale si parlava della misteriosa scomparsa di un certo numero di quei motorini che lì vengono lasciati liberamente a disposizione del personale per gli spostamenti all'interno della vasta aerea dell'impianto; sostenendo la tesi del furto, la Direzione dell’azienda annunciava che avrebbe predisposto controlli severi. La sera stessa al parco, nell'incrociare Pedro per un viale, mi è tornato in mente quell'articolo e così, per pura curio92


sità, gli ho chiesto qualcosa al riguardo. “I motorini? Ah, ma mica li rubano!”. “E allora che fine fanno?”. “Li buttano giù dai pontili d'attracco delle petroliere, in mare...”. “In mare? E chi è che ce li butta?”. “Ma io, no?”. “Tu? Dico, sei impazzito? E per quale diavolo di motivo?”. “Oh, niente, così, perché mi piace vedere le bollicine che fanno mentre affondano…” - ha risposto lui candido candido. A dire il vero, Silvia, però non era certo per raccontarti di uno squilibrato simile che stasera avevo preso a scriverti. In realtà l’ho fatto perché avevo bisogno di scaricarmi dell'insoddisfazione che ho dentro parlando un po' con qualcuno, magari anche di niente, o giusto di ciò che combina quel pazzo là. Ed allora ecco che è inevitabile che la persona alla quale chieda un po' di ascolto sia tu. Sai, le mie giornate stanno scivolando via sempre più scialbe: non ho più entusiasmo per niente, tutto mi appare insignificante e inutile. E ciò mi angoscia. Le persone che mi circondano non sembrano invece perdere mai la loro voglia di vivere. Richard, ad esempio: è sempre così soddisfatto, anzi felice da quando sta con Isabel! A proposito di lei, l’altro ieri siamo tutti stati al suo compleanno (compiva diciassette anni). E’ stata la consueta 93


piacevole festa: burle, risate e alla fine il classico soffio sulle candele della torta, seguito dalle solite battute di mani e cori di auguri; lei rideva divertita e felice, io la guardavo e mi accorgevo di quanto fosse davvero bella! Allora ho provato un sentimento come di invidia, di gelosia verso Richard, anche lui tutto allegro lì accanto a lei. Non so perché, ma d'un tratto non potevo più stare in quella casa, avevo bisogno di restare solo e senza salutare nessuno me ne sono andato via, raggiungendo il lungomare. La serata era fredda, un vento teso spazzava la superficie dell’acqua e le imbarcazioni ormeggiate ai pontili sobbalzavano sotto i colpi delle onde; nel cielo non si intravedeva una sola stella, tutte nascoste com’erano dalle nubi. Passeggiando lungo la banchina, racchiuso nella giacca a vento, ho pensato a tante cose; ma soprattutto ho capito di essere tremendamente solo... Scusami, mi sono lasciato andare. E’ meglio che la smetta qui! Ciao, Luke

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V

Lettera di Silvia - 24 gennaio 1967

Caro Luke, ti scrivo subito dopo aver letto la tua ultima lettera. Mi metti in pensiero, sai? Ancora non ho ben capito cosa ti stia succedendo, sei sempre così vago quando ne parli! Perché non provi a spiegarmi meglio? Voglio comunque qui dirti questo: e cioè che di qualunque cosa si tratti devi lottare per superarla; avere forza, Luke, fiducia in te stesso, e sapere che non è vero che sei solo: nonostante la grande e talvolta ingiusta distanza che ci separa, io ad esempio ti sarò sempre vicina. Sempre. E vedrai che la vita presto - più presto di quanto tu stesso non possa immaginare - tornerà a sorriderti; e quello sarà allora un momento di grande, immensa gioia, e ad esso tanti altri ne seguiranno, e tanti ne vivremo insieme. Questo è quanto volevo dirti, Luke. E quando la prossima volta aprirò una tua lettera, lo farò con nel cuore la speranza che tu mi abbia scritto che sei tornato ad essere di nuovo sereno. E sono sicura che sarà così. Un abbraccio. Silvia

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VI

Lettera a Silvia - 28 gennaio 1967

Chissà, se anch'io m'innamorassi di una ragazza forse avrei finalmente qualcosa per cui ricominciare a sorridere; e allora le darei tutto di me stesso... La verità, però, è che io non ho niente da dare. Niente di me può essere dato: non vale nulla! Luke

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VII

Lettera di Silvia - 5 febbraio 1967

“Possiamo dare agli altri soltanto quello che abbiamo. E se non abbiamo nulla che valga la pena di dare? Nessuno è così povero. E' come se i ruscelli montani dicessero che non hanno nulla che valga la pena di dare al mare, perché non sono fiumi. Dai quello che hai. Per qualcuno può essere meglio di quanto osi sperare”. Silvia

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VIII

Il giorno della prima regata stagionale andava avvicinandosi velocemente. Un’agitazione crescente si impossessò dei ragazzi. Gli allenamenti divennero via via più accurati; si ricercarono, per correggerle, le più banali imperfezioni tecniche e si cominciò ad esigere da sé stessi e dai compagni la massima disponibilità e concentrazione. Inevitabilmente gli animi divennero anche un po’ nervosi e all'interno degli equipaggi le divergenze d'opinione circa le varie cose da farsi talvolta si tramutavano anche in lite. Si cercava, ad ogni modo, di stringere i tempi. Tale clima di eccitazione generale sembrava invece non toccare l'allenatore Lopez, il quale, al contrario, parve tutto d'un tratto come disinteressarsi dei propri equipaggi. La sua presenza al club si fece sempre più saltuaria: rispuntava ogni tanto all'improvviso per vomitare fuoco e fiamme sui capivoga perché il ritmo del “passo” gli sembrava troppo basso o la partenza poco grintosa o, ancora, il “serrate” finale addirittura inesistente; dopodiché si eclissava nuova98


mente e i ragazzi non lo vedevano più per altre intere giornate. Essi in un altro frangente non vi avrebbero fatto granché caso, abituati com'erano alle stranezze di quell'uomo piccolo e buffo (non di rado, infatti, si allenavano da soli). Ma nell'immediato periodo pre-gara il consiglio dell'allenatore è psicologicamente preziosissimo anche per il più rodato degli equipaggi. Mancava ormai davvero poco al fatidico appuntamento sul lago Casitas allorché un mattino presto, giungendo al circolo, Luke notò parcheggiata fuori dal cancello l'automobile del “coach”. “Lopez è qui?” - chiese a Richard, arrivato già da un po'. “No, il custode mi ha detto che è uscito con il suo motoscafo che era ancora praticamente notte, per andare a pescare”. “Che bastardo!” - si adirò Luke - “Ieri sera gli ho telefonato per chiedergli di seguirci un po' questa mattina, ma mi ha risposto che non avrebbe potuto perché aveva la febbre!”. “Figlio di...” - si lasciò scappare Richard - “Ah no, Luke, questa balla bisogna fargliela pagare!” “Stanne certo, sto già pensando come...”. Il 4 con di Luke andava famoso per le sue “rappresaglie”. Ad esempio, nell'ultima assemblea circoscrizionale l'allenatore del Santa Monica li aveva pubblicamente apostrofati come “maiali” per avere durante una manifestazione allungato le mani sul posteriore di una sua graziosissima atleta; il che non era affatto vero, ma la cosa aveva comunque avuto 99


una certa risonanza nell’ambiente, con grave danno per l'immagine del Green Springs Rowing Club. I ragazzi a una sdegnata nota di replica avevano preferito i propri metodi, iniziando di notte a tempestare di squilli telefonici l'ingiusto inquisitore; e quando questi, esasperato, infine staccava il filo dell’apparecchio, a buttarlo giù dal letto gli erano allora state inviate a turno, con un anonimo pretesto, l'ambulanza del centro medico, l’autobotte dei pompieri e così via. La cosa era andata avanti per diversi giorni, finché non si era preferito smettere per non provocare l'inevitabile interessamento della polizia; i sonni del signor Hammond per quel breve periodo erano stati comunque molto tormentati e anche i suoi equipaggi avevano dovuto diverse volte fare a meno del suo apporto. E adesso toccava a Lopez. Il resto dell’equipaggio - Paul, John e il piccolo timoniere Mike - sopraggiunsero mentre il loro capovoga stava negoziando con l'anziano guardiano del circolo il prestito del gommone utilizzato per seguire gli equipaggi durante gli allenamenti. Si ritrovarono tutti concordi circa la punizione da infliggere al bugiardo. “Oggi salteremo l'allenamento” - osservò Luke - “Ma un giorno di riposo probabilmente ci gioverà anche”. I canottieri, dopo aver alleggerito il motoscafo del più antipatico socio del club della quantità di carburante necessaria all'azione, saltarono sul gommone mentre il sole stava spuntando all'orizzonte e volsero la prua verso l'uscita del porticciolo, seguiti dal saluto divertito del vecchio marinaio che, messo dai giovani al corrente del loro proposito di 100


vendetta, aveva chiuso un occhio sul prelievo di gasolio. Anche il timoniere, lasciato a terra, se la ridacchiava. Una volta fuori, i ragazzi si diressero dritti verso la zona d'acqua dove sapevano che era solita gettare la lenza la loro vittima: l'attaccamento allo stesso tratto di mare quel giorno sarebbe costato caro al buon Lopez. Quest’ultimo, nell'udire nel silenzio dell'alba il rumore di un motore che si avvicinava, si sorprese un po’: in genere a quell’ora, da quelle parti, era il solo a essere per mare. Ad ogni modo tornò a badare ai fatti propri; faceva piuttosto freddo e si strinse ancora di più dentro la serie di maglioni che si era cacciato addosso. Grande fu però la sua meraviglia quando a bordo della barca ormai prossima vide il capovoga del suo 4 con; non poteva invece scorgere gli altri, tutti ben appiattiti sul fondo: se li avesse visti arrivare lì tutti insieme, Lopez - edotto da precedenti “esperienze” avrebbe infatti potuto subodorare qualcosa e filarsela all'istante, favorito dal suo motore più potente. La presenza di Luke da quelle parti non poté comunque non apparirgli alquanto strana. “E a te chi ti ci porta qui?” - gridò in direzione del ragazzo che, ridotta al minimo la velocità, era ormai a pochi metri da lui. “Coach, al circolo ha telefonato sua moglie: il custode non ha capito bene, ma sembra che si tratti di una faccenda piuttosto urgente!”. Allarmato, l'ingenuo pescatore si affannò allora a recuperare velocemente gli ami, senza più badare al gommone che si era intanto affiancato al suo scafo; e solo quando si sentì afferrato alle spalle da più mani intuì che si trattava di 101


un inganno, che c'era cascato ancora una volta: cercò inutilmente di divincolarsi, gridando ogni sorta di minaccia, ma un istante dopo l'acqua gelida gli mozzò il respiro. Gli indumenti si imbevettero rapidamente, rendendogli difficoltoso lo stesso galleggiare. “Sie… siete… impazziti?” protestò con un filo di voce - “Tiratemi su… vestito non ce la faccio!”. “Non se ne parla nemmeno, bellezza a mollo!” - lo canzonò Luke - “Una nuotata di primo mattino è l'ideale per schiarirsi le idee”. “Questa me la pagate!” - riprese il poveretto mentre cercava freneticamente di liberarsi degli indumenti che cominciavano a tirarlo giù davvero. Dal gommone intanto si levavano incontenibili risa. “Vi farò sospendere dal Presidente! Anzi, espellere!”. “Ah, sì?” - replicò Luke - “E con quale motivazione? Per averle “rammentato” che un allenatore serio, soprattutto a poche settimane dalla gara, fa per appunto l'allenatore e non il pescatore? Vedremo chi verrà espulso!”. Lopez non gli rispose. Con ormai indosso le sole mutande imprecava tra sé e sé, battendo i denti per il freddo, mentre intorno gli altri suoi vestiti andavano stancamente affondando. “Su, su, animo!” - gli disse Luke - “La costa è vicina, saranno sì e no trecento metri!”. “Ragazzi, volete scherzare, spero!”. “Spera male” - intervenne Richard - “Olio di gomito e arrivederci al circolo domani mattina alle sei esatte!” - concluse, avviando il motore del motoscafo sul quale 102


aveva preso posto; anche il gommone, con a bordo gli altri tre, si rimise in movimento. “Ehi, non farete sul serio! L'acqua è gelida... e poi… poi come rientro in città? Non posso mica mettermi a fare autostop così… in mutande… in pieno inverno!”. “Problema suo” - concluse serafico Luke - “Ci spiace, ma adesso dobbiamo lasciarla o faremo tardi a scuola. Bye bye!”. “Un momento, aspettate… aspettate, maledetti!”. Ma ai fuoribordo fu dato tutto gas e la sequela di anatemi proferiti dal condannato si spensero rapidamente nell’aria; i ragazzi si godettero il gesticolìo del loro allenatore in mezzo al mare, finché presto egli non fu che un puntino. Giunti al club, riconsegnarono il gommone al custode affinché questi lo andasse subito a recuperare. In cuor loro sapevano di avere avuto la mano un po' pesante, ma almeno così erano sicuri che il mattino dopo Lopez avrebbe fatto senz'altro ritorno al proprio lavoro. Ma l'allenatore non si fece vivo né il giorno seguente, né per tutta la successiva settimana: un gran febbrone lo tenne a lungo bloccato a letto, a meditare su cosa avesse mai fatto di male al buon Dio per meritarsi di avere a che fare con simili delinquenti. Il presidente del club, dal canto suo, strigliò ben bene i ragazzi preannunciando loro severe punizioni.

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IX

Quel pomeriggio il sole stava già tramontando quando sull'isola di Santa Clara, lasciato lo studio del professor Norwood (un suo ingegnante), Luke si incamminò giù per Altamira Street diretto alla volta di Washington Park. Era, quello del crepuscolo, un momento che donava a Green Springs un fascino tutto particolare e al ragazzo un'allegria insolita. Quel giorno egli andava di fretta, ma giunto sul ponte che lo avrebbe ricondotto sulla terraferma non poté davvero fare a meno di fermarsi un istante. Sul cavalcavia il traffico era già intenso: gli uffici, situati quasi tutti lì sull'isola, avevano appena chiuso i battenti; ma lui, con le braccia incrociate sul parapetto, prestava altrove l'attenzione. E la prestava al mare, al “suo” mare, colorato di arancio dagli ultimi pallidi raggi. Al Whipped’s doveva per conto del Rowing Club incontrare Neil Smith, dirigente della “Neptune”; si dovevano mettere a punto gli ultimi dettagli circa il trasporto delle rispettive imbarcazioni su di un carrello comune: le regate del Lago Casitas erano ormai imminenti. Luke discuteva per l'appunto con Smith allorché soprag-

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giunse Isabel. Chiedeva lì del suo canottiere; ma né i due, né nessun’altro degli atleti presenti in quel momento lo aveva ancora visto. La ragazza si avvicinò allora all'amico. “Devo allontanarmi per qualche minuto, ho alcune telefonate da fare” - gli disse - “Se nel frattempo dovesse arrivare Richard raccomandagli per favore di non muoversi, di aspettarmi qua”. In effetti ritornò di lì a poco. “Qui non lo si è ancora visto” - la informò Luke. Nella ragazza c’era una strana agitazione: egli l'aveva già notato prima, senza però farvi granché caso; ma ora, nel ritrovarsela davanti addirittura tremante, beh, non poté non domandarle per quale motivo fosse così inquieta. Lei lo tirò allora per un braccio, allontanando entrambi dal gruppo, e in un chiaro bisogno di sfogo iniziò: “Ha telefonato mia zia Laura da San Francisco. Ad Ann 3 hanno fatto... hanno dovuto fare... l'encefalogramma”. L'altro rimase di stucco. “E come mai?”. “Ann da qualche giorno sta parecchio male” - spiegò la ragazza - “Ieri è anche svenuta diverse volte. E a seguito degli esami i medici hanno… sì, insomma…” - si sforzò, con la voce ormai rotta dal singhiozzo - “… hanno comunicato di non essere per niente tranquilli”. Luke la guardava sgomento. “Mio padre” - proseguì lei “prenderà l'aereo questa sera stessa o domattina al massimo. Mia madre è invece già via”. Ann, sorella maggiore di Isabel, studiava in un college a San Francisco. 3

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“Sarebbe bene che partissi pure tu”. “Lo so, ma non vogliono! Dicono che non sarei altro che d'impaccio!”. “Adesso però cerca di stare calma. Vedrai, si tratterà sicuramente di un disturbo passeggero”. Le mani della ragazza afferrarono il maglione dell'amico e gli batterono poi forte il petto due o tre volte come per rispondergli: come posso rimanere tranquilla? Povera Isabel! I suoi bellissimi occhioni verdi, sempre così briosi, Luke li vedeva ora per la prima volta pieni di apprensione; vagavano intorno smarriti, cercando Richard. “Adesso devo proprio andare” - riprese poi, rivolgendoli nuovamente a Luke - “Non posso attendere ancora; devo raggiungere casa di mia zia Judith, dove starò finché mia madre sarà via. Dì a Richard che farò comunque in modo di telefonargli al più presto”. “Certo, stai tranquilla”. Luke la guardò mentre si allontanava. E quando, nella confusione, alla fine scomparve dalla sua vista, d'improvviso dentro gli scoppiò fortissimo il desiderio di correrle dietro, fermarla, e stringerla forte a sé. Consolarla... Una voce lo distolse da quei pensieri. “Senti, mi accompagneresti allo Splendor?”. Era Frank. Splendor Pub, dalla parte opposta del parco. E lì, seduto con altri ad un tavolo, proprio lui, Richard. Luke si scusò in tutta fretta con Frank e si precipitò a tirare in disparte l’amico.

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“Possibile che tu sia sempre via proprio nei momenti in cui c’è più bisogno di te?”. E tutto d'un fiato gli riferì ogni cosa. “Accidenti!” - sbottò Richard non appena l'altro ebbe finito - “Non potevo trovarmi lì, oggi?”. Quasi si faceva una colpa del fatto di non essere stato al solito posto, quel pomeriggio. “Devo andare a cercarla”. “Ma dove? Non è più al parco! E se non sai nemmeno dove abita sua zia, cosa ....”. “Devo provare ugualmente, tentare di incrociarla in una qualche strada qui attorno!”. E detto ciò scappò via. Si rividero una ventina di minuti dopo, al Whipped’s. “Niente da fare…”. Prese Luke sottobraccio ed insieme iniziarono a camminare lungo un vialetto. “Encefalogramma… dunque al cervello!” - disse Richard, scuro in volto e con gli occhi fissi a terra. “Beh, sì, al cervello”. “Al cervello, al cervello... Cosa mai potrebbe essere? Non è che si tratta di…”. Non ebbe il coraggio di proseguire oltre, di pronunciare la terribile parola. “Non iniziamo a dipingere di nero cose delle quali ancora non sappiamo assolutamente nulla” - osservò Luke “Al momento l'unica cosa certa è l'agitazione di Isabel e la sola cosa che possiamo fare è cercare in tutti i modi di tranquillizzarla”. Proprio in quell'istante ecco però ricomparire la ragazza: evidentemente non c'è l'aveva fatta, doveva aver avuto assolutamente bisogno di vedere Richard prima di raggiungere la zia. 107


Luke si allontanò, bisognava lasciarli soli; prima però non gli fu possibile evitare di vedere l’amico chiudere Isabel in un tenero, lungo abbraccio: uno strano disagio gli gremì il cuore. Boh!, chissà perché…

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X

Il giorno dopo, non appena arrivato a scuola, Richard mise al corrente Luke degli ultimi sviluppi su Ann. Di primo mattino era stato svegliato al telefono da Isabel, ansiosa di riferirgli che la sera precedente, mentre tutti e tre erano ancora al Washington Park, da San Francisco aveva chiamato sua madre, assicurando che Ann era tornata a stare benone e che non c’era dunque più ragione di preoccuparsi . Così almeno le avevano riferito gli zii. “Ma lei” - spiegò Richard - “crede di avere intuito che in realtà le si voglia tenere nascosto qualcosa; e il fatto che suo padre, cambiando idea, abbia posticipato la partenza a domani per poterla così portare con sé l'ha rafforzata in tale sospetto”. “Uhm… Hai detto che partirà domani?”. “Sì, ed è meglio!” - riprese Richard - “Perché non ce la fa già più, il cuore le sussulta ad ogni squillo di telefono... E poi credo sia giusto che conosca la verità”. “Potrebbe trattarsi di un verdetto non piacevole”. 109


“Sì, ma lei ne è consapevole: mi ha detto di essere preparata ad ogni eventualità”. Il compito in classe di algebra non presentava eccessive difficoltà e tuttavia per portarlo a termine Luke impiegò per intero le tre ore disponibili; non riusciva a concentrarsi, il suo pensiero correva sempre ad Ann: gli riaffiorarono alla mente, uno dopo l'altro, tutti i momenti trascorsi (e solo apparentemente dimenticati) in sua compagnia. E durante la successiva lezione di fisica, anziché i calcoli del professore sulla lavagna, si mise a guardare la vita fuori dalla finestra: nel cielo brillava un sole caldo, si avvicinava la primavera, si avvicinavano le vacanze... sarebbe stato immensamente crudele se anche Ann non avesse potuto assaporarle! Il ragazzo gettò lo sguardo qualche banco più avanti, lungo la fila alla sua destra: Richard appariva crucciato. E Isabel? Anche lei in quel momento si trovava a scuola, giù a Santa Clara: cosa stava pensando? La sua immagine gli riapparve davanti con negli occhi la medesima tristezza della sera prima; e lui, nuovamente, desiderò di stringerla forte… Maledizione, avrebbe creduto che fosse stato per compassione se dentro non avesse avvertito una vampata dolcissima che capì subito essere diversa da ogni sentimento di pietà! Si sentì pietrificare: guardò nuovamente dalla parte dell’amico, e provò paura. “Non può essere!”, si ripeteva più tardi al parco, mentre Isabel e Richard stavano a pochi metri da lui, abbracciati. Accanto Paul continuava a parlargli dell’ultimo allenamento, a suo parere insoddisfacente, ma il capovoga non lo stava a sentire; in quel momento egli ascoltava solo il suo 110


cuore che gli faceva male: sì, gli faceva maledettamente male vedere la ragazza così, stretta ad un altro! Prima di andarsene diede a Isabel un regalo da portare ad Ann. Poi, a casa, telefonò a Silvia e le confidò tutto quanto (proprio tutto, diamine!) era capitato in quelle ultime due serate.

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XI

Lettera a Silvia - 3 marzo 1967

Cara Silvia, la data tanto attesa finalmente è giunta: si parte per il Lago Casitas. Si torna dunque sul campo di regata. Impossibile descriverti l'eccitazione che animava i miei compagni giù al club questo pomeriggio; io invece, che eppure dovrei condividere il loro entusiasmo, a poche ore dalla partenza mi ritrovo assorto in avvilenti considerazioni, qui da solo in camera mia. Tu sai con quanta impazienza avevo atteso questo momento. La regata, già: quante sono state le ore strappate al sonno o rubate allo studio e sacrificate a essa, quante le rinunce che per lunghi mesi sono stato disposto a sopportare pur di prendervi parte! E adesso che il gran giorno è arrivato, ecco, scopro che della gara non m'importa praticamente più nulla: i miei pensieri ora sono presi da altro. La mia amica, cosa mi sta facendo? Giorni fa, terminato l'allenamento, ero sotto la doccia e ad un tratto mi è venuta una gran voglia di ridere; in quel momento, giuro, mi è 112


sembrato tutto così assurdo: io amare Isabel? Ma và, Luke - mi sono detto - piantala di scherzare! Sì, ne ho riso, e per un po' la mia mente non l'ha rimuginata più; però più tardi a scuola mi è di nuovo tornata in testa e allora non mi ha più dato tregua. Poi ieri notte l'ho sognata nuovamente. Io me ne sono innamorato! Perché non devo ammetterlo? E poi perché stupirsene: è così bella, e infinitamente dolce; piuttosto, mi chiedo come io abbia potuto resisterle prima. L’altro ieri da San Francisco ha fatto sapere che Ann viene sottoposta ad esami sempre più approfonditi e che i medici non si pronunceranno fino a che non avranno dati certi... L'ambiente di gara forse riuscirà a distrarmi un po'. Almeno spero. Devo lasciarti, adesso: è bene che vada a preparare la sacca. Un abbraccio forte forte, anche ai tuoi. E a presto. Luke

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XII

“Equipaggi, siete pronti?… Via!” - gracchiò il megafono dello starter. Sul cheto lago Casitas scoppiò il subbuglio: i timonieri presero a sbraitare come indemoniati, mentre le agili imbarcazioni acquistavano via via velocità sospinte dalle palate poderose degli loro equipaggi. I capivoga in quel caos di strilla e di acqua rimestata dai remi erano come intontiti; svanita la tensione che li aveva attanagliati fino all’istante prima della partenza, l'unica cosa che loro e i compagni dietro in quei primi secondi di foga riuscivano a provare era una sorta di stupore di trovarsi lì in mezzo a tanto bailamme e - presagendo già dai primi colpi la grande fatica che li attendeva - nessuno di essi poté evitare di pensare: “Chi me lo fa fare? Io mi fermo!”. Ma la logica della gara affogò subito quella tentazione collettiva, risucchiando gli animi nella lotta. Dopo un avvio non proprio brillante, Luke gettò un rapidissima occhiata intorno per appurare la propria posi114


zione: dei sei equipaggi in gara ben quattro avevano preso il volo e non li si vedeva già più; sulla sinistra solo i cugini della Neptune, “imballatisi” ancora di più nella fase iniziale, stavano dietro: la partenza non era decisamente il pezzo forte degli armi di Green Springs. Al passaggio della boa dei primi cinquecento metri la situazione non era mutata; anzi, i primi quattro avevano rosicchiato un ulteriore piccolo margine di vantaggio sui due armi di coda. La competizione, insomma, si stava preannunciando proibitiva per Luke e compagni: nonostante l'impegno apparentemente profuso, anche nei cento metri successivi la loro imbarcazione perse acqua nei confronti dei battistrada. Ora, gli avversari forse erano veramente molto più forti, e dunque non c'era modo di contrastare quel crescente distacco; ma più che della superiorità di quelli, Luke cominciò a sospettare di una scarsa motivazione nei suoi. L'essere riusciti, qualche ora prima, a “centrare” la finale era stato di per sé un gran bel risultato. Ciò adesso non si stava però rivelando limitante? Già appagato e ancora sfiancato dalla regata eliminatoria, l'equipaggio forse non se la sentiva di sostenere un secondo smisurato sforzo, rassegnandosi inconsciamente di buon grado a quella quinta posizione: la fatica del canottiere è infatti tremenda e pur di contenerla ogni pretesto o compromesso tenta maledettamente; vedere poi dietro la Neptune perdere a propria volta terreno nei loro confronti favoriva senz’altro quella latente voglia di rinuncia (stupidamente, battere i concittadini restava la cosa più importante di tutte!). 115


Mentre il timoniere lo sollecitava ad imporre all'equipaggio una palata più lunga nella debole speranza (quando ormai si era a metà gara) di riagguantare il gruppo di testa, Luke capì che era proprio quella la ragione della loro mediocre prestazione e in un impeto di orgoglio s'impose di reagire. “Via, via!” - urlò rabbioso all'equipaggio, rubando ai polmoni ossigeno prezioso - “Anche ultimi, ma solo dopo aver dato tutto!”. “Date tutto, date tutto!” - incitò a sua volta il timoniere. Sferzato dal comando imperioso del capovoga, l'equipaggio finalmente si scosse da quella sorta di torpore nel quale si era adagiato: Luke sentì mano a mano la palata farsi più elastica e la barca meno contratta; l'acqua ora scivolava via sibilando lungo le fiancate dello scafo. La voce del timoniere squillava di nuovo con entusiasmo, colpo dopo colpo la “luce” che separava la loro prua dalle poppe dei rivali cominciò a ridursi. Ma la vera gara per un canottiere si svolge non tanto contro gli avversari, quanto con sé stessi, contro cioè quella parte di io che esige che si molli, che si abbandoni una fatica così inaudita. Luke, poi, aveva mille motivi in più per cedere, e mille volte più dura fu per lui quella lotta interiore; ma lì, in un certo senso, gli sembrava di combattere contro il suo stesso destino malevolo e la sua volontà di rivalsa divenne allora travolgente. Al passaggio dei millecinquecento metri due equipaggi vennero così finalmente affiancati e in men che non si dica superati. Il 4 con del Rowing Club Green Springs adesso procedeva spedito come un treno e anche i forti e favoriti 116


armi di San Francisco e Los Angeles - che poco più avanti, in un entusiasmante gioco di prue, si scambiavano di continuo il comando della regata - furono di lì a poco disturbati dall'approssimarsi aggressivo di quell'equipaggio di provincia sul quale nessuno avrebbe scommesso un cent. Il rinnovato fervore, il prendere via via coscienza che esso quel giorno forse poteva compiere qualcosa di clamoroso, aveva come dato forze fresche all'equipaggio di Luke; e mentre in dirittura d’arrivo la tribuna andava in visibilio per un recupero tanto straordinario e Lopez, con le lacrime agli occhi, da terra urlava incitamenti che i suoi non potevano udire, Luke compì ciò che non avrebbe mai creduto di poter fare. Senza più un’oncia di fiato, con lo stomaco sul punto di rivoltarglisi per lo sforzo, egli diede avvio al suo “serrate” finale. Nella sua testa non c'era più un solo pensiero logico, ma soltanto la solita voce che gli intimava di fermarsi; adesso quasi non udiva e non vedeva più il timoniere accovacciato di fronte a lui che si sgolava preso dall'eccitazione per quella fantastica battaglia a tre: probabilmente di lì a poco sarebbe svenuto, se d'un tratto un frenetico scampanio non avesse decretato la fine delle ostilità. Dalla contentezza incontenibile del bambino e dagli schizzi d’acqua che dietro i compagni ridendo si gettavano addosso l’un l’altro, lo stordito capovoga capì che negli ultimi metri essi erano riusciti a porre la loro prua davanti a quella dei più blasonati avversari, che un po’ stizziti applaudivano adesso i vincitori per mera formalità. Primi, dunque! Stentava a crederci: alzò le braccia al cielo e la sua gioia esplose in un urlo liberatorio; poi, esau117


sto, si lasciò cadere all'indietro, concedendosi lungamente all'anelato riposo. Anziché correre alle docce, Luke si fiondò al telefono pubblico per informare subito Silvia dell’incredibile vittoria. La ragazza gli formulò le proprie congratulazioni, ma con un tono distaccato - se non addirittura freddo - che spiazzò il canottiere; il quale, dopo che lei ebbe riattaccato, rimuginò dispiaciutissimo a lungo sul possibile motivo di quell’inusuale atteggiamento. Luke - scioccamente - non considerò la ragione più ovvia: Isabel.

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XIII

Tre giorni dopo il ritorno dal lago Casitas, non appena giunto in aula, Luke si tuffò nel ripasso dell'argomento di filosofia del giorno: temeva una interrogazione e giacché la sua situazione scolastica non era delle più brillanti non poteva certo permettersi ulteriori passi falsi. Nel frattempo un paio di banchi più avanti si formò il solito capannello di ragazze intorno a Philiph (un istrionico e vanaglorioso suo compagno di classe), il quale diede subito avvio al suo show quotidiano. “Purtroppo, bellezze” esclamò quello ad un certo punto - “devo darvi anche una brutta notizia. Venendo qui ho incrociato Richard che correva all'aeroporto: questa notte è morta la sorella della sua ragazza!”. In un primo momento la mente di Luke, concentrata nella lettura della Logica di Kant, non fece caso a quelle parole, del tutto noiose al pari delle altre arrivate fino al suo orecchio prima. Ne afferrò improvvisamente il senso solo qualche secondo più tardi, quando esse si erano già spente 119


nell'aria. Il respiro gli si mozzò allora in gola: non era possibile, doveva sicuramente avere capito male! Piombò sulla combriccola e afferrò Philiph, interrogandolo duramente; gli ulteriori dettagli che questi fornì trafissero come pugnalate Luke, il quale guardandosi attorno constatava che Richard, sì, non era in classe: era vero, dunque! Era vero.... Ritornato al suo posto, ricadde di peso sulla sedia. Fissava la parete di fronte a sé, ma vedeva invece il volto di Ann; era un'immagine confusa, sfocata, ma la vedeva: sorrideva dolcemente, come sempre. .

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XIV

Trascorse qualche mese. Isabel pian piano si riprese dal durissimo colpo, uscendo dal mutismo nel quale si era inizialmente rinchiusa (la ragazza era infatti molto attaccata alla sorella); lentamente ricominciò a sorridere al mondo. Le fu d’aiuto rigettarsi tra la gente: Luke si prodigò anche lui per distrarla e offrirle stimoli, ma ciò gli costò non poco. Stare accanto a Isabel procurava infatti al ragazzo uno stato d'animo che egli stesso non sapeva definire se di estremo disagio o di sfibrante tensione. La cercava continuamente con gli occhi, e al tempo stesso doveva fare in modo che i loro sguardi non si incrociassero troppo spesso, o lei avrebbe capito; e guai se ciò fosse avvenuto: fra loro tutto si sarebbe guastato. Luke questo non lo avrebbe sopportato: lei e Richard gli stavano troppo a cuore. Preferibile rodersi in silenzio. Certo, così non era però nemmeno possibile andare avanti a lungo; cercò quindi infinite volte di convincersi che stava confondendo per amore quello che invece poteva essere un semplice capriccio, 121


solo un desiderio meramente fisico di lei (era così attraente!). Ma ogni volta doveva arrendersi all'evidenza: in realtà lui l'amava veramente. Come se non bastasse una seconda, seppur vaga preoccupazione iniziava a prendere posto nell'animo del ragazzo. Con l'intensificarsi dell'impegno bellico in Viet-Nam andavano moltiplicandosi in tutto il Paese le chiamate alle armi; così anche in una cittadina di provincia quale era Green Springs, dove i fatti del sud-est asiatico erano sempre stati vissuti come qualcosa di molto lontano e dunque di estraneo, la guerra si fece di colpo più vicina, andando a bussare alla porta di un numero sempre maggiore di case. Adesso la sera, quando i notiziari sciorinavano le terribili immagini di quel dramma, turbamento e timori attraversavano le famiglie riunite per la cena; si cominciò a parlare più di Viet Nam e meno di baseball o football. Uno dei precettati fu Thomas, terza voga dell’ 8 con della Neptune. La sera prima della sua partenza per il centro di addestramento i vogatori della città organizzarono in suo onore una festa al Whipped’s, affittato e addobbato per l'occasione; musica assordante e fiumi di birra allietarono i tantissimi amici convenuti lì per salutare il canottiere in procinto di andare incontro alla Gloria. In effetti fra quei giovani non pochi erano quelli che ancora pensavano al Viet-Nam come ad un luogo dove si combatteva, più che una guerra vera e propria, solo una scaramuccia, nella quale per l'invincibile “marine” americano era piuttosto improbabile rimetterci la pelle ed estremamente facile invece pren-

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dere a calci nel sedere il primitivo nemico viet-cong 4; un posto, insomma, in cui non doveva essere poi difficile riuscire a coprirsi di medaglie e di onore. Quell'illusione sembrava essere radicata nello stesso Thomas, almeno a giudicare dall'allegria che sprizzava mentre si crogiolava nelle attenzioni prestategli dalle ragazze attorno, che già vedevano in lui un eroe. Richard e Luke, appartati in un angolo del chiassoso locale, non riuscivano invece a provare nei suoi riguardi alcun sentimento di invidia. “Io davvero non capisco cosa può fregare a noi americani di quel pezzo di terra laggiù!” - sbuffò Richard. “Dicono che bisogna assolutamente fermare per tempo, lì come altrove, l'espandersi del comunismo, o presto i “rossi” finiranno con lo spuntare sulle nostre stesse spiagge. E', vista in prospettiva, una guerra difensiva; così almeno la definisce qualcuno”. “E tu credi a questa storia?”. “Solo in minima parte”. “Vuoi sapere cosa invece “difende” veramente questa guerra sconsiderata? I colossali interessi dei gruppi affaristici di questo Paese, ecco cosa! Se molliamo questo conflitto quelli smettono di ingrassare; prendi i fabbricanti di armi: a loro interessa che essa non cessi mai! E’ questa gente che ci va ripetendo che si tratta nientedimeno che di una “missione” a difesa dei sacri valori della democrazia. Balle! Il “Viet Cong” era il movimento armato dei comunisti vietnamiti che si opponeva al governo filoamericano del Viet-Nam del Sud. 4

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Ora, se sono tanto idealisti, vadano loro a crepare laggiù! Finora invece non ho sentito un solo nome “illustre” fra i morti in Viet-Nam; ma si sa, i ricchi non combattono: ci sono gli altri a doverlo fare per loro!”. “Forse non è così semplicistico, Richard; la questione probabilmente è più complessa di quanto noi due immaginiamo. Una sola cosa è certa: questo pasticcio non finirà tanto presto; altrimenti non arruolerebbero sempre più gente. L’interrogativo è pure un altro: fino a che punto si spingerà il governo?”. “Anche qui a Green Springs si è formato un comitato contro la guerra. Sta facendo una raccolta di firme: sicuramente non servirà a niente, ma io intendo aderire ugualmente”. “Ok, canottiere, domani andremo a firmare insieme”. “Ehi, lupi solitari!” - li apostrofò Pedro avvicinandosi al loro tavolo con in mano un enorme boccale di birra “Sapete, tutto questo baccano comincia a infastidirmi: che ne direste di sequestrare Thomas e andare a scorazzare un po’ lungo la costa?”. E senza nemmeno attendere la risposta rovesciò la birra dentro la tasca di una giaccone appeso lì vicino e facendosi largo nella confusione andò a prelevare il futuro soldato. Le quattro motociclette schizzarono via veloci lungo la strada per Seatown, distante poco più di una decina di miglia; il locale davanti al quale alla fine si fermarono era pressoché deserto e decisamente più tranquillo. “Sapete, ragazzi” - disse Thomas mentre il proprietario li serviva al tavolo - “Avevo proprio bisogno di andare via dal 124


Whipped’s! Non ce la facevo più: dovevo per forza mostrarmi contento! Mi avete preparato una gran bella festa e non potevo certo guastarvela, ma vi confesso che stasera aveva tutt'altra voglia che ridere o ballare”. “Beh, è comprensibile, Tom. Ma era proprio per distrarti un po' che avevamo pensato alla festa”. “Ed io vi ringrazio. Ma vedete, per tutta la serata dentro me in realtà non ho fatto altro che pensare ai miei vecchi e a Lucy; ed è penoso costringersi a divertirsi mentre tutto il tuo essere vorrebbe invece piangere. Un anno è terribilmente lungo. Ma questo è il meno; il punto è: se non dovessi tornare più?” - sussurrò stringendo forte tra le mani la bottiglietta di Coca-Cola, per aiutarsi a trattenere le lacrime. “Ma che diavolo ti salta in mente?” - si adirò Pedro “Ehi, dico, non penserai davvero di lasciare le tue ossa laggiù? Cos'è, una scusa per evitare le bastonate che attendono negli anni a venire il tuo scassatissimo «otto» ?”. “Davvero, Tom!” - intervennero solerti Luke e Richard – “Vuoi che un canottiere si lasci fregare da quattro musi gialli alti come timonieri? Piuttosto, quando tornerai vedi di portartene qualcuno dietro: scarseggiano gli sciacquabarche, di questi tempi!”. E giù risate e pacche sulle spalle di Thomas, che infine riuscì a regalare un sorriso di allegria sincera. E un'ultima, grossa risata il canottiere della Neptune ebbe modo di farsela durante il ritorno a Green Springs. Nonostante fossero già le due passate di notte e lungo la litoranea tirasse un freddo venticello, Pedro sentì ad un 125


certo punto il bisogno di fermarsi e di liberarsi della camicia; per un puro caso ciò avvenne davanti ad una delle rivendite all'aperto di cocomeri di cui sono disseminate le strade costiere della California e che smerciano quei frutti dissetanti ventiquattr'ore su ventiquattro per la gioia degli automobilisti. Il proprietario di quella s’era sorpreso all'idea del ragazzo e lo guardava divertito. Ora, se c'era una cosa che stuzzicava la “fantasia” di Pedro, questa era il sentirsi osservato da qualcuno. Lo svitato decise allora di proseguire nello spogliarello e quando - con stupore degli stessi amici - fu nudo del tutto, risalì in sella alla moto e a tutto gas si lanciò contro la catasta di angurie, delle quali fece letteralmente strage ripassandovi sopra fulmineo una paio di volte prima di dileguarsi in direzione di Green Springs. I tre amici lo seguirono di gran carriera, inseguiti dalle indemoniate urla in spagnolo del cocomeraio messicano, ma mantenendosi comunque a distanza di sicurezza dallo squilibrato che, ridendo senza posa, adesso ad ogni autovettura che incrociava si rizzava dritto in piedi sulla moto, mostrandosi così ai fari dei conducenti increduli in tutta la sua virilità. “Pedro, tu sei pazzo! Pazzo!”- gli urlò contro Luke quando alla periferia della città quello finalmente decise di fermarsi - “Se avessimo incontrato una pattuglia della polizia saremmo già tutti dentro per colpa tua!”. “Magari!”- ribatté l’altro - “Ho sentito dire che per il Viet-Nam i matti non li prendono …”. 126


Un lungo, commosso abbraccio a Thomas e poi ciascuno fece ritorno alla propria abitazione.

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XV

Lettera a Silvia - 15 giugno 1967

Sono stanco, Silvia. Vorrei poter chiudere gli occhi, abbandonarmi a un sonno pacificatore, e non risvegliarmi più. Il Nulla non deve poi essere così terrificante come siamo soliti rappresentarlo. Ragioniamo un po’: il Niente Assoluto non è in fondo uno stato ideale, l'assoluta perfezione? Esso è infatti eterno, imperturbabile... Non mi ha più scritto. Mi manchi. Luke

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XVI

Lettera di Silvia - 27 maggio 1967

Mio caro Luke, finalmente trovo un momento di tranquillità per scriverti due righe. Mia madre è rientrata solo oggi da Boston: per questi dieci giorni ho dovuto fare io da mamma a Karen e ti assicuro che il ruolo di genitore è davvero difficile e faticoso. Ad esempio, per ben tre notti sono stata sveglia, seduta sul divano accanto alla bimba che aveva un tal febbrone! A proposito di mamme, l'altro ieri un mio compagno di classe mi ha detto che ho molto l'espressione materna. Tu trovi? Non è però stata tanto la mancanza di tempo ad impedirmi di scriverti prima. Il fatto è che talvolta non si riesce a parlare, a comunicare con un'altra persona quando e come si vorrebbe; e dopo aver letto l'ultima tua lettera mi sono sentita mancare, non avrei mai pensato tu giungessi a tanto! E mi sono sentita così impotente! .... Perché, Luke, perché? 129


Vivere è bello, Luke. E' molto, molto bello, anche se spesso si soffre, se talvolta si è costretti a piangere. Vivere è meraviglioso, perché già l'idea di meraviglioso sta racchiusa nella parola “vita”. Manuela, una bambina di undici anni, ha un tumore osseo, una gamba già amputata, e prima che siano trascorsi tre anni non si potrà sapere se continuerà a vivere; e con questo è implicito che potrebbe morire prima. Tu non la conosci, è bellissima, e sempre sorridente, nonostante tutto. Mi chiedo perché noi che viviamo, che abbiamo la possibilità di vivere, desideriamo tanto spesso di morire. Anch'io a volte nei momenti bui l'ho desiderato; ma è stato solo un momento, dopo era già tutto lontano, perché sono felice di vivere, qualunque cosa possa accadermi. Felice di vivere, per esempio, giorni stupendi come quelli vissuti insieme a te l'ultima volta. Non dire di essere inutile, non puoi valutarti così poco. Piuttosto guardati intorno: il mondo è pieno di persone da amare, di persone che hanno bisogno di te e del tuo amore. Sta a te scoprirle. Non hai diritto di parlare di morte. Hai invece la possibilità di essere felice, e basta; ma devi volerlo, Luke. Ripongo fiducia in te, e soprattutto in una “persona” che sta là in alto e guarda anche te, stanne pure certo. Fra dieci giorni sarà il tuo compleanno e se potessi ti farei un regalo. Ti regalerei un sacco di felicità unita ad un pizzico di serenità e ad un'immensa, esplosiva gioia di vivere.

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Sarei felice se tu venissi qui per le vacanze, ed anche la mamma desidererebbe averti con noi (è stata così contenta per la cartolina che le hai inviato dal Lago Casitas!). Insomma, se non lo avessi ancora capito, ti stiamo aspettando. Tua Silvia

“Mi sono nascosta nel mio fiore così che quando appassirà dal vaso tu provi di me senza sapere quasi una solitudine" (Emily Dickinson)

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XVII

A distrarre un po' l’inquieto capovoga, di tanto in tanto, c'era Pedro con le sue stravaganze. Un pomeriggio Luke, Paul e John andarono a trovare Richard colpito da una forma febbrile che lo stava costringendo a saltare gli allenamenti. Poco dopo il loro arrivo ecco presentarsi alla porta anche lui, Pedro, quel giorno libero dagli impegni di lavoro e giusto alla ricerca di compagnia per ingannare quelle ore di pioggia fuori stagione. Ora, la sua più recente fissazione riguardava la “Zut”, una favolosa motocicletta in vendita da “Heward's”: lo svitato trascorreva serate intere con il muso appiccicato alla vetrina a contemplare quel gioiello di tecnica, rimuginando ogni volta la somma che ancora mancava ai suoi risparmi per raggiungere il prezzo riportato nel cartello di vendita e fantasticando continuamente sul magico momento in cui l'avrebbe finalmente fatta sua. “Prima o poi dovrà pur uscire da lì, quell'arnese. E lo farà sotto queste chiappe, parola mia!” - ripeteva in continuazione a tutti. Anche da Richard non poté fare a meno di torturare per l'ennesima volta gli amici con la glorificazione della “sua” 132


Zut. “Ragazzi” - se ne uscì fuori ad un certo punto - “voglio fare di nuovo un salto da Heward's. Mi accompagnate?”. “Scherzi? Fuori piove da matti!” - gli rispose John. “Ohé, e adesso avete forse paura di due gocce d'acqua? Ma state proprio diventando dei semolini, sapete? Forza, andiamo...”. “Va' al diavolo, Pedro! Ora ci stai proprio scocciando con questa maledetta Zut” - sbottò Paul. “Ah, voi di moto non capite un accidente! Avanti, ragazzi, andiamo che vi “illumino”. Facciamo un salto laggiù, per favore! Non potete lasciarmi andare da solo!”. “... Su su, dai dai…”, proseguì con insistenza; e dato che purtroppo l'unico modo per zittire Pedro era quello di accontentarlo, facendo bene attenzione a non scivolare lunghi distesi con le moto sull'asfalto bagnato Luke, Paul e John furono costretti a seguirlo fin da Heward's. Era raggiante: sceso di sella si piazzò davanti alla vetrina, rimanendo là in estasi per diversi minuti; poi entrò dentro il negozio. “Buongiorno” - disse. Dopodiché fece un saltello di fronte allo sbalordito impiegato e, risalutato educatamente, uscì dalla rivendita. “Ma che diavolo fai?” - gli domandò Luke. “Non vi avevo forse detto che volevo fare un salto da Heward's? Beh, l'ho fatto, no?”. E con noncuranza avviò il suo catorcio e scomparve, lasciando lì i tre a guardarsi l'un con l'altro increduli e grondanti di pioggia.

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XVIII

E' difficile riuscire a mantenere celata l'esistenza di un sentimento come quello dell'amore, che per propria natura tende invece prepotentemente a palesarsi alla persona che lo ha generato. Così più volte Luke aveva sentito l'argine che si era imposto dentro sul punto di crollare e solo la paura delle conseguenze della rivelazione lo avevano ogni volta salvato. Un giorno aveva confessato tutto in una lettera, ma aveva poi trovato la forza di non consegnare lo scritto all'amica e di farlo scivolare in fondo a un cassetto della propria scrivania. I segni di un tale sentimento sono però incontrollabili perché infiniti e Richard era troppo perspicace per non cogliere il vero significato di talune gentilezze o sguardi che l'amico rivolgeva alla sua Isabel. Accadde così che una domenica Luke venne invitato da Richard a trascorrere il pomeriggio nella villa che i genitori della ragazza possedevano poco fuori città. Dall'alta scogliera su cui essa poggiava si dominava per intero la baia. Quella dimora era uno dei luoghi prediletti 134


da Luke: sulla sua veranda, nelle fresche serate estive, aveva trascorso molti momenti di pace, perso nell'incanto del mare rischiarato dal bagliore della luna. Ora però Luke diffidava di quella casa. La temeva. E ringraziando declinò l'invito. L'amico gli chiese allora, maliziosamente, se esistesse una precisa ragione a causa della quale non voleva unirsi alla compagnia. Il tono della domanda allarmò Luke, che per allontanare da Richard eventuali sospetti acconsentì alla fine di recarsi da Isabel; presentiva che lì questa volta sarebbe accaduto l'irreparabile: lo sapeva, ma dovette andare. I suoi timori infatti si concretizzarono. Non vedeva la ragazza da giorni, avendo attentamente “manovrato” affinché non venissero a crearsi fra loro occasioni di incontro. E quando se la ritrovò davanti forzatamente cadde subito preda di emozioni contrastanti che gli mandarono il cuore e la mente nel caos. Fu solo capace, d'impulso, di essere piuttosto brusco con lei; di provocare la lite e, stizzito, di fare con la motocicletta immediatamente ritorno in città. “Non capisco, non so cosa abbia potuto fargli di male!” - si chiese Isabel non capacitandosi del battibecco. “Uhm, io ho invece sempre più l'impressione che tu gli abbia fatto tutt'altro che male...” - commentò Richard, pensieroso. Per tutta la sera Luke attese con inquietudine l’inevitabile chiamata dell'amico. Quando squillò, afferrò il telefono con un nodo alla gola.

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“Luke, siamo sempre stati sinceri l'un con l'altro” - esordì secco Richard dall'altra parte - “Devo quindi dirti che questo pomeriggio non ho potuto fare a meno di pensare una cosa. Sì, l'ho pensata e te la devo dire. Mi sono detto: vuoi vedere che il mio caro amico s’è preso una bella cotta per Isabel?”. Le temute parole gelarono Luke all'altro capo del filo. Dopo qualche lungo istante di silenzio la risposta che Richard ebbe da una voce alquanto impacciata fu una contro-domanda. “E se anche fosse, Richard, cosa cambierebbe?”. “Beh, niente, credo...” - rispose l'altro, sviando poi subito la conversazione sulle seccature burocratiche legate all’iscrizione all’Università .5 Il mattino seguente Luke si scosse da un sonno tormentato con il cuore oppresso da un duplice senso di colpa. Egli era innamorato della ragazza del suo amico fraterno, e già questo gli pareva una vigliaccata, anzi un tradimento. Ciò che più ancora gli pesava era però quell'essere venuto meno al loro tacito patto di reciproca sincerità; il non essere stato leale con lui, non avergli raccontato tutto sin dal principio, obbligandolo a scoprire la verità da solo. Allorché si rividero, quella stessa mattina, quasi non riusciva a guardare negli occhi Richard, il quale Seppure con qualche difficoltà, Luke era riuscito a superare gli esami finali e insieme a Richard aveva presentato domanda di iscrizione alla facoltà di Scienze Oceaniche dell'Università di Berkeley. 5

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viceversa si mostrò amichevole e affettuoso come sempre, non facendo alcuna menzione della conversazione della sera precedente. Luke aveva però dentro come un bisogno di assoluzione da parte dell'amico e più tardi, nel primo pomeriggio, mentre vagabondavano insieme per la città sulla motocicletta di quest’ultimo, riuscì a raccogliere un po' di coraggio e a ripredere il discorso interrotto. “Richard, se non ne riparliamo… di Isabel, intendo dire… beh, io sto male!”. E dentro il capannone del Rowing Club verso cui istintivamente si erano diretti, seduti a terra fra le imbarcazioni sulle quali avevano condiviso fatiche e sogni di gloria, i due amici si spiegarono l'un con l'altro. “Vedi, Richard, solo l'amicizia con te e Isabel e quella con Silvia vivo ancora come qualcosa di importante. Avevo paura di perdere la vostra, per questo non te ne ho fatto parola”. “E tu davvero hai temuto che ciò avrebbe potuto cambiare le cose fra noi?” - si meravigliò l'altro - “Luke, io non ti posso proibire di volere bene a una ragazza: di innamorarci ci capita indipendentemente dalla nostra volontà! E' successo per Isabel come poteva accadere per una qualsiasi altra ragazza; e non c’è nessuna colpa da parte tua in questo…”. Durante la lunga conversazione nel cuore di Luke andò via via sgonfiandosi un peso, sostituito da una segreta, commossa gratitudine per l'amico. Ma Isabel, lei come avrebbe invece reagito? 137


“Non devi dirle niente, mi raccomando: non deve assolutamente saperlo!”. “Non mi trovi d’accordo, Luke. Dopotutto la cosa riguarda anche lei, è giusto che ne venga a conoscenza; non posso non dirglielo. Penso anzi che sia bene che poi ne parliate un po' insieme, tu e lei, da soli”. Richard chiese quindi di potere leggere la lettera che l’amico teneva nascosta in un cassetto: tra le altre cose Luke gli aveva infatti confidato anche di questa. Quel foglio, inevitabilmente, finì nelle mani della ragazza. Alla notizia, due sere dopo al solito posto in Washington Park, Luke non reagì bene. “La lettera - almeno quella! - potevi evitare, non credi?”, rinfacciò a Richard. “Ha voluto per forza che gliela dessi!” - spiegò l’altro, scusandosi. “Come l'ha presa?”. “Beh, ha detto che ti risponderà anche lei per iscritto; che le sembri un po' confuso, che ti dobbiamo aiutare...”. “Senti, io non ho bisogno di nessun aiuto, ok?” - sbottò risentito Luke. L'altro non replicò, con un dito indicò invece qualcosa dietro le spalle dell’amico. Luke si voltò e la vide sopraggiungere, bellissima. “Ehi, capovoga!”- interloquì gioviale lei quando gli fu a pochi passi - “Ti sto scrivendo anch'io una lettera, sai?”. Gli prese poi le mani fra le sue. “Non sei irritata con me?”- le chiese Luke. “Perché mai? Al contrario, ti sono grata per le bellissime cose scritte per me nella tua lettera! Adesso” - sorrise “siamo ancora più uniti, non credi?”. 138


Un momento di silenzio. “No, d'ora in avanti tutto sarà al contrario profondamente diverso fra noi!” - rispose infine duro il ragazzo. “Ma… perché?” - interrogò lei, non riuscendo a comprendere. “Niente potrà più essere uguale: è impossibile, Isabel!” - ribadì Luke liberandosi dalla stretta e scomparendo con la morte nel cuore tra la gente. Aveva infatti d'un tratto capito una cosa: forse davvero - forse - non sarebbe mutata la disposizione d'animo dell'amica nei suoi riguardi, come sempre aveva temuto; ma ora che la ragazza sapeva, scoprì di colpo che sarebbe invece stato proprio lui, paradossalmente, a non potere essere più lo stesso verso di lei. Il che, comunque, non faceva alcuna differenza. Quell'amicizia era ormai avvelenata. D'ora in avanti tutti e tre avrebbero dovuto fare attenzione alle parole, ai gesti: tutto poteva essere frainteso. Non vi sarebbe più stata spontaneità, fra loro; la freddezza avrebbe anzi preso il sopravvento. E molto presto - era inevitabile - avrebbero smesso di vedersi; eppure egli non riusciva ad immaginarsi senza i due amici, senza lei... Luke ancora non sapeva che di lì a poco avrebbe in realtà dovuto fare a meno non solo di Richard e Isabel, ma di tutto ciò che costituiva il suo mondo: la sua baia, il suo 4 con, l'Università alla quale si era appena iscritto, i nonni. Questi ultimi li trovò affranti quando fu rientrato dal parco. Luke chiese più volte cosa fosse accaduto, ma non riusciva a cavarli dal loro silenzio; la spiegazione la trovò 139


nella lettera che il nonno alla fine si decise di porgergli. E il sangue si raggelò nelle vene del ragazzo: nel foglio gli veniva prescritto di presentarsi entro otto giorni al campo militare di San Diego. Destinazione successiva: Viet-Nam.

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XIX

Una pioggia sottile tamburellava ritmicamente sul paltò di Luke; il vento andava rinforzandosi e lo colpiva violentemente sul viso, procurandogli sensazioni inconsuete. Le onde, dabbasso, si innalzavano alte e possenti, e con una corsa travolgente si scagliavano rabbiose contro la scogliera a picco, esplodendo con un boato cupo in mille schegge che guizzavano alte nel cielo. Il ragazzo scrutava le gigantesche masse d'acqua dirigersi, una dopo l’altra, verso la parete. La loro maestosità gli suscitava un senso di ammirazione e rispetto; ma, soprattutto, egli era colpito dalla spavalderia con la quale quei cavalloni andavano incontro al proprio destino di morte. Sembrava che a loro importasse solo di percuotere la rupe che, sotto la furia di quell’ostinato, incessante sacrificio, era destinata infine essa stessa a cadere, a sgretolarsi al termine di un’agonia infinita. E il ragazzo sperò che se era scritto che anche lui doveva morire, laggiù in Viet-Nam, 141


che ciò almeno avvenisse così, da spaccone, e che il suo sacrificio - in modo simile - contribuisse a disfare le fisime del nemico. Un dubbio, però: e se invece fosse lui, il cosiddetto “nemico”, ad essere nel giusto?... Teneva le gambe raccolte tra le braccia, mentre sotto la roccia rimbombava nei suoi anfratti, macerata senza posa dal mare. Alcuni spruzzi ricaddero a qualche passo da lui; osservò quell'acqua: ecco, quelle poche gocce costituivano i miseri resti di un’onda orgogliosa che ora non c’era più. Come mai esistita. E per la prima volta la morte gli parve ingiusta e inaccettabile. Lo pervase un senso di angoscia. Sollevatosi da terra, si portò sul bordo della scogliera; giù le rocce aguzze, nascoste a tratti dalla schiuma sbrilluccicante delle onde, sembravano chiamarlo a sé. Chiuse gli occhi. E volò, volò verso quegli scogli adesso sempre più vicini; non capiva bene se era egli ad abbattersi su di loro o se erano invece essi che si precipitavano sopra di lui. Non ebbe il tempo di saperlo, d'improvviso lo schianto: sentì le ossa scricchiolare, frantumarsi, e un dolore straziante assalirgli le carni; dentro la testa non più un pensiero, solo un ronzio fortissimo. Le braccia e le gambe per un istante sussultarono (provarono a risollevarlo!), ma il cervello ormai devastato non intuì nulla di quello sforzo inutile. Giunse un'ondata che lo staccò dallo scoglio e lo ingoiò trascinandolo con sé contro la parete; ma lui non percepiva più niente: vide solo lassù la luce del mondo che filtrava attraverso l'acqua diventare sempre più fioca, e poi più nulla. 142


Le onde successive si impadronirono dei suoi frantumi che ora galleggiavano sparsi qua e là e li scaraventarono a loro volta sulla roccia… Riaprì gli occhi: sopra le nubi vorticavano fosche, mentre gli sparuti cespugli intorno venivano martoriati senza posa dal vento. Faceva freddo e gli venne la pelle d'oca… Sì, sarebbe invece stato meglio morire così: almeno non avrebbe arrecato dolore a nessuno, ucciso nessuno, prima... Rimase lì ancora a lungo, con la mente sgombra di pensieri, respirando profondamente l'aria del mondo dei vivi: aveva un sapore fresco, meraviglioso! Se ne riempì i polmoni. Un lontano latrare di cani spezzò infine quella sua tregua interiore.

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PARTE SECONDA

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XX

Era una fredda alba d'autunno. Le nubi si rincorrevano caoticamente, basse sul mare che spazzato dal vento ribolliva tutto, verdastro. Gli elicotteri procedevano veloci dentro uno stretto corridoio, con le pale dei rotori che solleticavano il ventre alle nuvole e i pattini che sfioravano la cresta schiumosa delle onde, in un gioco reso estremamente pericoloso dai continui vuoti d'aria; a causa dei sobbalzi i piĂš deboli di stomaco vomitavano sporti ai portelloni. Sotto l’elmetto gli occhi del caporale Luke Dohrow scrutavano tra i brevi rovesci di pioggia il lontano e ancora incerto profilo della costa. Era nervoso: la solita tensione che ogni volta lo attanagliava mano a mano che si approssimava il momento dell'azione; le rocce lontane, infatti, si facevano pian piano piĂš vicine, inesorabilmente. Gettò un'occhiata ai propri compagni: appiccicati l'uno all'altro per difendersi meglio dal vento che attraverso i portelloni spalancati imperversava gelido all'interno della 147


carlinga, fissavano anche loro silenziosi la linea scura all'orizzonte; sapevano che qualcuno fra essi non avrebbe più fatto ritorno da quella scogliera laggiù. Eppure prima di partire era stato assicurato loro che si sarebbe trattato di una missione facile facile: la stazione radar che tanto fastidio cominciava a dare ai movimenti della U.S. Navy e che essi avrebbero dunque dovuto distruggere era piuttosto sguarnita, almeno stando alle notizie passate da un informatore locale (evidentemente i nordvietnamiti non si attendevano un’incursione tanto a settentrione del proprio territorio); non avrebbero quindi dovuto avere eccessive difficoltà a liquidarne la resistenza. Bisognava poi tenerla occupata solo il tempo necessario a dar modo allo specialista che stava volando con loro di ispezionare quel nuovo impianto di fabbricazione sovietica; raccolto ogni elemento utile, avevano l'ordine di fare saltare tutto in aria e rientrare a bordo della portaelicotteri che li attendeva al largo prima dell'accorrere di reparti nemici. Le condizioni atmosferiche avverse disturbavano la loro individuazione sugli schermi radar e favorivano la sorpresa; in ogni caso, rendevano proibitivo il volo ai più esigenti aviogetti: non esisteva così il pericolo di incappare nella reazione dei caccia comunisti. Si andava sul sicuro, insomma. E poi, al di là di tutto questo, erano o non erano forse dei “marines”? Però qualcuno muoveva ugualmente le labbra in una muta preghiera. Erano tutti giovanissimi, con i lineamenti ancora da adolescenti nonostante il durissimo addestramento preliminare al quale erano stati sottoposti; e a di148


spetto della celebrata durezza i loro occhi spersi sull'orizzonte tradivano pensieri angosciati. Luke sapeva cosa stavano rimuginando, perché si trattava delle stesse considerazioni che ad ogni nuova operazione, puntualmente, attraversavano anche la sua mente. Sapeva che si stavano chiedendo perché dovevano ancora una volta combattere - e, chissà, questa volta forse anche morire - per una guerra che, giusta o sbagliata che fosse, non aveva ormai chiaramente più alcun senso. Sì, era una zuffa strana quella; perché nessuno - né loro né il nemico - l'avrebbe mai potuta vincere. Lì morire era praticamente diventato fine a sé stesso; non serviva più a niente. Perché non farla dunque finita?… Le onde sotto si inseguivano veloci: Luke fu preso dalla nostalgia del suo mare, della sua baia. Come avrebbe voluto essere là! Erano quasi arrivati, ormai. Qualcuno fumava, nel tentativo di dominare la tensione; uno, il capo reclino su una spalla, sembrava invece dormire: il caporale sapeva che in realtà era ben sveglio e che teneva gli occhi chiusi solo per cercare di non pensare a nulla. E arrivò infine il momento che ogni volta essi speravano inutilmente non giungesse mai, che pregavano invano venisse all'ultimo rimandato ad altra volta. Il pilota dalla cabina urlò ai marines di prepararsi allo sbarco. A quella voce i soldati si destarono dai loro pensieri e fecero gli ultimi controlli all'equipaggiamento e alle armi, dapprima senza granché cura, svogliatamente, poi invece con crescente accuratezza mano a mano che la coda dell'occhio distingueva sempre di più l'obiettivo; gli otturatori degli 149


M16 6 vennero fatti scattare più volte, bisognava che non tradissero. Erano pronti. L'apprensione soffocava ogni parola. Vennero scambiati rapidi sguardi d'intesa, la promessa di mutuo soccorso al compagno vicino; poi ciascuno riprese a guardare davanti a sé. La stazione radar era ormai a sole poche centinaia di metri; nella boscaglia retrostante si intravedevano dei bassi baraccamenti, fra i quali ferveva l'attività di allarmati puntini neri. Luke, teso all'estremo, si mordeva nervosamente il labbro inferiore, mentre il dito si agitava, già pronto, sul grilletto; il cuore gli batteva freneticamente. “Ragazzi, prendete quanto più fiato possibile!” - urlò il sergente - “Dovrete correre come fulmini per un centinaio di metri prima di raggiungere la boscaglia!”. I marines annuirono, sforzandosi di respirare a pieni polmoni; quel supplemento d'ossigeno aumentò in loro l’adrenalina: ora apparivano più decisi. Se il sergente era soddisfatto di ciò come soldato, non poteva però esserlo come uomo; poiché era proprio così che quei giovani cominciavano a trasformarsi: non appena messo piede sulla terraferma e riconosciuto il nemico, inghiottiti dal furore del combattimento nel quale ogni sentimento umano si dilegua e dove domina solo l'animalesca volontà di sopravvivere, essi avrebbero cominciato a vomitare fuoco e morte con i loro mitragliatori, ucciso decine di volte senza alcuna 6

Fucile-mitragliatore d’assalto in dotazione all’esercito statunitense.

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pietà, forse anche con gusto; e non si sarebbero neppure accorti che poteva trattarsi di ragazzi come loro. Non sarebbe ad essi comunque importato. Mille pensieri attraversarono la mente di Luke in quegli ultimi istanti di umanità. Cosa stavano facendo in quel momento i suoi amici a Green Springs? Sì, a quell'ora erano anche loro in mare, ma in pace! Quando, quando tutto questo avrebbe avuto fine? Due “Huey-Cobra”, elicotteri-cannoniera, si staccarono dalla formazione e si gettarono in avanti sull'obiettivo, indirizzando grappoli di razzi sulle difese nordvietnamite allo scopo di coprire lo sbarco dei marines; gli ordigni toccando terra ravvivarono di intensi colori l’aria grigia, ma non v'era alcunché di romantico in quello spettacolo. Dietro gli altri velivoli intanto si abbassavano sulla piatta scogliera, sollevando con le pale nuvole di polvere. “In bocca al lupo, ragazzi!”- urlò il sergente. L'istante successivo con un forte contraccolpo l'elicottero che trasportava Luke si bloccò: il giovane caporale e i suoi compagni si catapultarono fuori, lanciandosi in avanti. Dai margini della boscaglia nemica subito cominciarono a crepitare le mitragliatrici.

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XXI

Quella mattina a Hoi-Yan, dove la moto vagabonda noleggiata a Da Nang 7 aveva condotto Luke, il tempo non prometteva nulla di buono. Il sole era tenuto nascosto da nubi gonfie di pioggia che riempivano per intero il cielo, cappa opprimente su di un mare in tempesta al quale imponeva il suo stesso color piombo: da un istante all'altro minacciava di scatenarsi un temporale. Dall’alto della collinetta in cui se ne stava seduto, il caporale osservava l'immensa distesa d'acqua sottostante; la scrutava, con la mente vuota di pensieri, nel punto in cui essa, laggiù lontano, si confondeva con il cielo annuvolato. Finché “qualcosa”, d'un tratto, non s’impose ai suoi occhi con prepotenza. Come se gli fosse stata iniettata, una misteriosa euforia dilagò nelle sue vene. Il ragazzo si ritrovò così a correre giù Località del Viet-Nam del Sud che ospitava la più importante base militare USA del sud-est asiatico. Qui gettava l'ancora la “Wisconsin”, la portaelicotteri sulla quale era imbarcato il reparto per operazioni speciali di supposto alla Marina del quale Luke Dohrow faceva parte. 7

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per il pendio verso la spiaggia deserta e da qui, con le gambe che gli affondavano nella sabbia soffice fino ai polpacci, verso il mare; sulla riva gli ci volle un attimo per liberarsi dell'impiccio degli indumenti e penetrare nudo nell'acqua gelida, con lo sguardo rapito dai cavalloni che gli si innalzavano davanti imponenti, per poi avvolgersi in sé stessi e trasformarsi in una scrosciante valanga di schiuma che saltellando sulla superficie correva velocissima fino a lui. Voleva andare là, là dove essi precipitavano, per lasciarsi travolgere e mischiarsi così con loro, per fondere la sua energia con quella loro. Dato che questo Luke aveva “visto” dall’alto della collina: la “Forza” che muove l'intero Universo! Non era in grado di determinarne la natura, se materiale oppure no; solo l'aveva percepita, forte. E la “forza” che era in lui, riconoscendosi in quella del mare, aveva gridato di gioia ed era corsa incontro a sé stessa. In Luke era così riesplosa la voglia di vivere. ... Il soldato riposava disteso sulla sabbia, inspirando profondamente l’aria umida. Sentiva freddo, ma anche di ciò era felice. Una goccia d’acqua ad un tratto gli solleticò il naso; l'istante successivo un'altra lo bagnò sull'inguine. Cominciò a piovere. Tiratosi su, con pacche energiche Luke si sbarazzò il corpo dalla sabbia e, rivestitosi, risalì in fretta la collina. Prima di rimontare in sella alla motocicletta si voltò: sulla spiaggia appiattita dal vento c’era solo la linea dei suoi passi. Per un attimo ebbe allora l'illusione di essere stato lui il 153


primo a percorrerla, quasi che essa si fosse conservata cosĂŹ nel tempo - immacolata - in attesa soltanto di lui. PerchĂŠ doveva donargli quella magica mattina.

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XXII

Lettera a Richard - 29 novembre 1967

Gran orribile cosa questa guerra, amico mio! Ma per chi la vive combattendo il momento che più disorienta è forse quello in cui ci si accorge di aver cominciato ad assuefarsi ad essa, di avere iniziato a pensare che essa sia l'unica realtà e che la vita serena e incruenta di un tempo sia stata solo un sogno, mai vissuto realmente; e di avere anche già preso a comportarsi di conseguenza: da belva. Si è allora a un bivio, oltrepassato il quale si è veramente perduti, squassati per sempre nella mente: ho visto addirittura dei congedati tornare quaggiù volontariamente perché incapaci, a casa, di riabituarsi alla vita civile, di concepire un’esistenza senza più sangue; e vederli combattere ora è spaventoso: sono ormai solo dei macellai, degli psicopatici assassini. Ma non è affatto facile riuscire a rimanere sé stessi ed appunto non deviare, non farsi risucchiare in un baratro di follia e odio senza ritorno; e chi ci riesce comunque paga, dopo, il caro prezzo del tormento interiore per il resto dei propri giorni. 155


Ci hanno ingannati, Richard, fin dal principio (come avevi ragione!). Già a San Diego, durante l'addestramento, gli istruttori ci ripetevano che saremmo venuti in questo Paese per proteggere la sua gente dalla minaccia comunista che incombeva da nord; che la popolazione qui ci attendeva piena di speranza. Ma la prima volta che siamo atterrati con i nostri elicotteri in uno di questi miseri villaggi, negli occhi degli abitanti radunatisi silenziosi tutt'intorno non sono riuscito a scorgere alcun segno di gratitudine verso di noi, che pure eravamo lì per loro. In essi leggevo invece paura. Ci temevano. Ho capito allora che non era vero, che questa gente in realtà ci detesta. Perché per questi poveri contadini noi siamo solo la “Guerra”: una guerra a loro estranea, decisa altrove, lontano. Non comprendono i “comizi” contro o pro il comunismo che ogni volta sono costretti a sorbirsi all'arrivo nostro oppure dei viet-cong; in realtà non sanno nemmeno perché ci combattiamo. Ad essi importa solo che il loro villaggio e i loro campi - tutto il loro mondo - ne restino fuori (ma questo non è possibile), barcamenandosi come possono tra lo straniero e i guerriglieri che si alternano continuamente con le loro minacce, i loro ricatti, non di rado i loro stupidi assassinii. No, questa gente non può che disprezzarci. E noi, biasimati pure in Patria, ci sentiamo traditi, soli e obbligati comunque a stare quaggiù dodici mesi a combattere contro altri esseri umani che non avremmo alcun vero motivo di odiare. Qui molti non hanno dunque più granché voglia di lottare; si bada solo a riportare intatta la pelle a casa, fregandosene se stiamo perdendo la guerra 156


(perché di sicuro non la stiamo vincendo!) e talvolta magari pure del compagno che vicino sta morendo e ti chiede aiuto. Alcool e droga sono ormai buoni amici di parecchi di noi: stordiscono, aiutano a non pensare e a tirare avanti per un altro giorno ancora. Senza rendermene conto anch'io ho preso a bere un po’: se lo sapesse Lopez... E pensare che sono tra i fortunati (ben peggio stanno infatti quelli che sono destinati alla giungla!). Il mio reparto arriva dal cielo, liquida il più velocemente possibile il “problema” e poi fa subito rientro a bordo della nave. Qui siamo al sicuro, e non ci manca nulla. Ma già quelle poche ore ogni volta sono terribili: lo scoppiettio ritmato e incessante delle mitragliatrici, il frastuono delle esplosioni, le urla dei colpiti e le barelle grondanti di sangue che corrono tra il fumo delle granate, la mente nella confusione più totale e il cuore che mentre spari a casaccio verso il nemico ti batte impazzito di paura... Quanto mi manca Green Springs! Quei lunghi pomeriggi consumati davanti al Whipped’s in compagnia sempre delle medesime persone, così monotoni, uguali l'uno all'altro, e che io detestavo tanto: com'erano invece pieni di tranquillità! E’ proprio vero che ci accorgiamo di avere incontrato la felicità sempre in ritardo, quando è ormai impossibile tornare indietro per riacciuffarla e riviverla pienamente. La vita poi è davvero strana! Può anche accadere di ricercare inutilmente una cosa magari per anni, per poi scoprirla per caso quando e dove meno ce lo aspettiamo. 157


Porto ancora in mezzo ai miei documenti un fogliettino di carta su cui ricopiai quanto mi aveva scritto il professor Anderson a commento di un tema in classe dal quale lasciavo trasparire i miei dubbi circa la vita. "Non pensare, Dohrow, di essere l'unico al mondo a dover far fronte ad una simile, difficile questione. Nei momenti in cui percepiamo l'inadeguatezza della nostra condizione, sì, è vero, siamo tentati di rifiutare tutto, perché la ragione si smarrisce o tace dinnanzi a certe domande. Ma il buono ed il bello, che pure esistono e sono attorno a noi, non possono essere una crudele trappola per lasciarci beffati. La vita ha un senso; anche il dolore e la morte hanno un senso. Ciascuno lo potrà scoprire con la ricerca umile e paziente, ciascuno lo dovrà trovare da sé. Ma ricorda, Luke, non è un traguardo della ragione: è un traguardo del cuore!".

Del cuore! Come avevo riso allora, povero vecchio! E com'erano invece sensate quelle sue parole, e stupida e boriosa la mia presunzione! Perché è proprio dal cuore e non dalla ragione che stanno via via emergendo alla mia coscienza impressioni e pensieri prima a me sconosciuti. Già, com'è strano: quando ero a casa, dove tutto era certo se non addirittura scontato, dove c’era spazio per i sogni e questa esistenza bisognava solo volerla vivere, io non avevo sicurezze e non riuscivo ad assaporare la vita; e qui - in questo Paese dove ogni uomo, ogni donna avrebbe mille motivi reali per odiarla e nel quale però tutto appare profondamente diverso ed è vissuto e giudicato con un altro cuore - sì, proprio qui, paradossalmente, sto cominciando a 158


trovare dei punti fermi e a desiderare nuovamente di vivere. Senza più il bisogno, oltretutto, di alcuna… “ragione”. L'altro giorno mi osservavo nello specchietto metallico che abbiamo in dotazione per raderci la barba. Non so perché, ma m'è venuto di afferrare un proiettile e di appoggiarmelo alla testa; sparato, da tempia a tempia avrebbe scavato un bel corridoio nel cervello: la Fine, istantanea e indolore... Una prospettiva che però non aveva più alcunché di attraente; anzi, ho avuto la certezza che no, non l'avrei mai fatto. Reinserito il proiettile nel caricatore, sono tornato a fissarmi nel metallo e il mio volto mi è apparso come dice sempre Silvia: bello. Voglio con tutte le mie forze tornare a Green Springs! Non crediate quindi di avermi scaricato dall'equipaggio! Quando mi è possibile mi do da fare per non perdere del tutto la forma: ad esempio corro in tondo sulla pista d’atterraggio della nave, facendomi prendere per matto dagli altri; così - ed ogni volta più veloce - sono anche arrivato a fare due ore. Oppure svolgo un po’ di esercizi liberi giù nell'hangar, tra gli elicotteri, magari con sulle spalle un M60 8 come bilanciere a fare su e giù sulle gambe per non disabituarle alla fatica del carrello. E con dentro la volontà di tornare presto in acqua e vincere ogni gara. Un proposito che ti sembrerà incredibile, dato che al momento dovrei avere ben altro cose alle quali pensare. E' vero, Richard, ma quaggiù ognuno ha assolutamente biso-

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Mitragliatrice in dotazione all’esercito statunitense. 159


gno di avere qualcosa a cui tornare; e per me, sai, questo qualcosa non è più rappresentato da Isabel. Vorrei, visto che ho toccato l’argomento, parlarti un attimo anche di lei. Sarà dovuto anche al fatto, certo, di non vederla più da diversi mesi; però, un giorno dietro l’altro, io sento che mi sto rapidamente allontanando da lei. Voglio sempre un bene immenso a Isabel; e ti confesso - perdonami - di averla all’inizio anche qui desiderata mia, specie nei momenti di maggior sconforto. Eppure, se mai tornerò a casa, so già che non è più da lei che correrei; perché, ora che vedo un po’ più chiaramente dentro di me, capisco che Isabel in realtà è stata, come dire, una sorta di vicino e comodo “rifugio”, la facile scappatoia per sfuggire a ciò che non avevo il coraggio di affrontare in quanto ritenuto troppo difficile e pesante: la vita. Viceversa, sempre più forte si sta facendo la nostalgia per Silvia: non faccio che pensarla, e scriverle non appena posso. Sai, io credo di averla in realtà - senza saperlo - sempre amata. Voglio comunque che tu dia per me a Isabel un bacio e un abbraccio grandi grandi. Adesso ti lascio: devo assolutamente cercare di dormire un po'. Scrivimi. Scrivetemi, tu e gli altri: mi aiuterete a tenere presente che esistono cose per le quali vale la pena di resistere, di non lasciarsi affogare.

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Con affetto, il tuo amico Luke

P.S. Questa lettera la affido a un commilitone che si congederà dopodomani (lui ce l’ha fatta, che culo!). Siamo d’accordo che te la spedirà lui una volta arrivato a casa: non mi fido infatti di farla passare attraverso il servizio postale della Marina, è facile che quelli leggano la corrispondenza. Ciao.

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XXIII

D'improvviso la sirena prese ad ululare: tutto l'equipaggio sulla Wisconsin si bloccò con l'orecchio in ascolto. Riconosciuto dall’intonazione il proprio segnale di chiamata, gli uomini dell’unità di “pronto impiego” abbandonarono immediatamente le loro occupazioni, precipitandosi da ogni punto della nave giù per boccaporti e scalette verso il ricovero elicotteri, mentre il resto dell'equipaggio traeva un segreto sospiro di sollievo e tornava lemme lemme alle proprie attività. Nell'hangar le operazioni si svolsero freneticamente. Mentre tra ordini concitati gli elicotteri venivano velocemente trasferiti con l'elevatore sul ponte di volo, i marines misero a soqquadro stipetti e rastrelliere e, in men che non si dica, con una celerità frutto della pratica, furono anch’essi sulla pista in completo assetto di battaglia, pronti a prendere posto sugli “Huey” 9. I segnalatori, facendo forza sulle gambe per resistere al vento teso che spazzava il Bell UH-1 Iroquois (comunemente detto “Huey”), elicottero statunitense multiruolo largamente impiegato durante la guerra del Viet-Nam. 9

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ponte, iniziarono ad agitare in aria le loro palette colorate in una mimica che soltanto i piloti erano in grado di interpretare; i rotori ringhiarono sempre più forte e infine con un brusco strappo i velivoli si alzarono in volo, stipati di uomini silenziosi. La formazione volava alta e ordinata nel cielo fosco, dentro un’altra giornata gelida. “Sergente, di che si tratta stavolta?” - domandò Luke gridando per farsi intendere nel baccano dei motori. “Un villaggio abbandonato, nei pressi di Sepon” - rispose il sottufficiale strillando anch'egli - “Un reparto di Rangers in perlustrazione vi è rimasto imbottigliato, circondato dai partigiani comunisti”. “Perché non interviene l'aviazione?”. “Ci hanno provato, ma quando gli aerei sono giunti sull'obiettivo Charlie 10 era già riuscito a introfularsi tra le capanne: le bombe rischiavano di uccidere anche i nostri”. “Ma noi del supporto-Marina cosa c'entriamo?”. “Siamo al momento i più vicini, e i più veloci, con gli elicotteri. Dobbiamo occuparcene noi, anche se ciò esula un po' dai nostri compiti”. Luke troncò lì la conversazione, imprecando fra sé e sé contro il caso che aveva fatto incrociare la sua nave in quelle acque proprio quel giorno. Al massimo dei giri, gli elicotteri superarono infine la costa e si addentrarono nell’entroterra. Venti minuti dopo Nomignolo affibbiato dai soldati americani ai guerriglieri Viet Cong. 10

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furono in vista di un villaggio sperso tra risaie ormai incolte, dal quale si levava del fumo. “Siamo su di voi!” comunicò il pilota attraverso la radio al suo sconosciuto interlocutore laggiù - “Tenete duro. Scenderemo a scaldare il sedere a Charlie tra un paio di minuti”. Un rapido giro di ricognizione per assicurarsi che non vi fossero forze nemiche di appoggio fuori dal villaggio, poi gli Huey sciolsero la formazione e calarono tutt'intorno ad esso, toccando terra a circa trecento metri di distanza per tenersi fuori dalla portata degli eventuali razzi leggeri dei viet-cong. Appena sbarcati, i marines mossero fra i campi abbandonati in direzione delle palafitte, manovrando concentricamente per stringere il nemico in una morsa via via più stretta. Adesso erano i viet-cong ad avere dei problemi: reagivano con qualche rara salva di mortaio (evidentemente avevano dato fondo alle loro granate durante l'assedio ai Rangers) che cadevano qua e là sollevando spruzzi d'acqua e fango tra la schiera nemica; uno degli americani venne lievemente ferito e si fermò, ma tutti gli altri proseguirono decisi l’azione. Quando furono ben a tiro delle armi leggere vennero però bloccati da un violento e inatteso fuoco di sbarramento: il nemico era numericamente più consistente di quanto essi pensassero! Luke si gettò a pancia in giù nel lurido acquitrino. Per quanto si comprimesse nel fango, rimaneva un invitante bersaglio per il nugolo di proiettili che si intersecavano appena sopra il suo elmetto, facendo zampillare l'acqua 164


tutt'attorno; a restare troppo a lungo là qualcuno avrebbe finito col centrarlo, magari in piena fronte mentre sollevava un attimo la testa per recuperare un po’ di fiato. A rendere più rivoltante la situazione ci si mise poi il tempo: ricominciò infatti a piovere. Bisognava togliersi da lì, e subito. I fumogeni, ci volevano i fumogeni! Cosa diavolo aspettava il sergente a dare l'ordine? Trascorsero ancora alcuni interminabili minuti di angoscioso indugio nella melma, poi fu finalmente urlato agli uomini che avevano in dotazione i lanciagranate di dare inizio al tiro degli offuscanti; Luke allora si irrigidì, pronto per l'ordine successivo: non appena le capanne cominciarono a mal distinguersi nell'annebbiamento che si andava formando, i marines balzarono fuori dal fango e urlando si lanciarono in avanti sotto la pioggia. I mitragliatori nemici erano ora accecati, ma continuavano ugualmente a sparare oltre la cortina di fumo, a casaccio; gli assaltatori facevano altrettanto in direzione delle capanne mentre a grossi e faticosi balzi avanzavano nella risaia. Due davanti a Luke stramazzarono nell’acqua, centrati dalle pallottole vaganti: lì si moriva così, a caso; col cuore in gola, il caporale si fece più veloce nel pantano e riuscì infine a portarsi a ridosso del nemico, trovando riparo dietro un terrapieno. Con il favore del fumo, anche gli altri marines si attestarono a pochi metri dalle prime capanne; e quando i vapori iniziarono a diradarsi e si intravidero alcuni volti viet-cong fare cautamente capolino dalle finestre per rendersi conto della situazione, i lanciafiamme senza 165


esitazione vi vomitarono dentro l'inferno: in pochi istanti le primitive baracche furono completamente avviluppate dalle fiamme e tramutate in enormi falò. Urla raccapriccianti si levarono dai quei roghi, ma per i marines esse rappresentarono solo il segnale per l'assalto conclusivo: i soldati schizzarono fuori dai ripari e irruppero nel villaggio, superarono le capanne in fiamme e, sparando all'impazzata, si avventarono su quelle successive, scagliandovi dentro dalle finestre e dalle porte sfondate a calci nugoli di granate; dietro un gruppo li copriva e si occupava di controllare che nei capanni già “visitati” nessuno fosse sopravvissuto. Tutto in un caos di spari, esplosioni e grida. Gli occhi di Luke correvano rapidissimi da un punto all'altro accompagnati da raffiche rabbiose, mentre la mente gli pulsava sovreccitata. All'improvviso qualcosa gli sfiorò il volto, poi alle sue spalle si udirono uno schianto ed echi di dolore; il caporale si ritrovò scaraventato a terra dallo spostamento d'aria, con le ossa ammaccate per l'impatto. Ricercò immediatamente la fonte della deflagrazione: ecco, il razzo era piovuto da quella buca laggiù, trenta metri più avanti. In rapida successione vi furono una seconda e poi una terza esplosione, Luke balzò in piedi e schizzò via alla ricerca di un riparo; si ritrovò accanto al sergente che esibiva una smorfia di disappunto. “Bisogna subito dare addosso a quei bastardi. Vieni, Dohrow, occupiamocene noi!”, comandò il sottufficiale. Luke gli rispose con uno sguardo privo di simpatia. “Sissignore”, mormorò poi.

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Era stato proprio il sergente a proporlo - a sua insaputa per il gallone di caporale. “Per la determinazione da subito dimostrata in combattimento”, gli aveva spiegato dopo. Ma Luke non gliene era affatto grato. Sì, era vero, lottava con tenacia; ma non perché assetato di sangue nemico; e nemmeno per idealismo o particolare amor di patria: semplicemente perché voleva sopravvivere! Già, Luke non desiderava più morire: una volta tornato a casa voleva anzi ricominciare daccapo a vivere, recuperare il tempo assurdamente perduto. Una volta a casa... Ora però non doveva pensarci. Adesso doveva concentrarsi solo sul nemico. I marines si scambiarono dei gesti d'intesa, dopodiché il sergente comandò qualcosa e subito furiose raffiche si concentrarono sul nido viet-cong per coprire i sei uomini che saltarono fuori allo scoperto gettandosi in avanti. Un altro razzo volò lesto per fermare gli assalitori. Le sue schegge non ebbero però molta fortuna, solo uno cadde colpito; gli altri piombarono sugli uomini nascosti nella fossa: Luke, pugnale alla mano, s'avventò su uno di essi: i due ruzzolarono a lungo nel fango avvinghiati l'un l'altro finché il marine non riuscì a vibrare il colpo mortale. Gli occhi del viet-cong si sgranarono terrorizzati, mentre l'americano sopra di lui gli rigirava dentro la lama con forza, devastandogli lo stomaco; e anche quando essi fissavano ormai solo il cielo, vitrei, Luke non smise di agitare il coltello in quelle carni: soltanto quando fu davvero sicuro che il vietnamita non avrebbe più potuto nuocergli mollò la presa e, sfinito, gli rotolò al fianco, con i polmoni che ingo167


iavano l’aria spasmodicamente. Si succhiò con avidità le labbra bagnate, voleva godere della pioggia che gli scivolava lungo il viso: meraviglioso era il suo sapore, meraviglioso era sentirsi solleticare la pelle da quelle gocce, provare ancora un brivido per i rigagnoli d’acqua che dal collo gli correvano giù dentro la casacca. Sì, anche questa volta ce l'aveva fatta! Era vivo, era ancora vivo! Una mano lo scosse. “Dohrow, forza, sbrighiamoci!” - sollecitò il sergente. Luke si risollevò; intorno a lui altri due vietnamiti giacevano riversi con il volto affondato nella melma, anch’essi massacrati dalla baionetta: la pozzanghera andava velocemente colorandosi del sangue che fuoriusciva dai loro squarci. Con uno sforzo il caporale si scrollò dagli occhi quei cadaveri, saltò fuori dalla buca e si riunì agli altri. Poiché si doveva ricominciare. Sopraffatti dall'impeto dei marines, i viet-cong ripiegarono verso il centro del villaggio. Quando la palafitta nella quale si trovavano asserragliati i Rangers superstiti venne liberata, arrivò l'ordine di cessare l'attacco e di abbandonare il posto; si diede allora la necessaria copertura alla veloce operazione di sgombero dei feriti e dei morti - non pochi, purtroppo - tenendo a bada i guerriglieri con un tiro nutrito, dopodiché anche gli ultimi marines evacuarono l’agglomerato. I viet-cong si sorpresero: erano ormai alla mercé del nemico, come mai questi rinunciava ad una vittoria tanto facile? Uscirono lentamente allo scoperto, aggirandosi guardinghi tra le casupole distrutte: mah, forse gli yankees si erano accontentati di liberare i compagni e, rinunciando 168


a vendicare i propri morti, ora stavano davvero facendo ritorno alla loro base. Anche Luke dapprima non capì: a quel punto era militarmente illogico ripiegare; quando però tra le risaie venne comandato agli uomini di fermarsi e di tenere circondato ciò che restava del villaggio, allora comprese. Anche i viet-cong intuirono, abbandonandosi a strilla concitate. Infatti si udivano già dei rombi avvicinarsi, farsi sempre più prossimi; poi infine eccoli, erano tornati: i tre cacciabombardieri sfrecciarono bassissimi sopra le capanne, vi lasciarono cadere sopra qualcosa e di nuovo scomparvero alla vista al di là della foresta. Un istante dopo una gigantesca vampata risucchiò in sé l'intero villaggio, mentre una disgustosa puzza di benzina - l'odore del napalm – ammorbava l'aria tutt'intorno. I soldati assistettero all'immane rogo in un profondo silenzio. Il nemico era stato annientato, ma questa volta nessuno pareva gioirne: nei loro cuori un senso di sgomento, e forse anche un sentimento di pietà. A Luke, prima di risalire sull'elicottero, venne da rimettere.

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XXIV

Lettera a Silvia - 3 gennaio 1968

Richard l'ha persa. E' successo circa un mese fa, ma la notizia mi è arrivata soltanto ieri; è stato lo stesso Richard a scrivermi. Stento ancora a crederlo: ricordo infatti così grande il trasporto che Isabel dimostrava per lui che non avrei mai pensato che un giorno lei lo potesse lasciare! Cosa naturalmente priva di senso, dato che in realtà tutto - anche un amore - può finire. Forse però non nel modo in cui sembra che sia successo: troppo all'improvviso, e con il rifiuto di anche una sola parola di spiegazione da parte di lei. Cosa sarà accaduto a Isabel? Richard non lo sa; si rende soltanto conto che lei gli manca enormemente. Ma la risposta è magari quella più banale: un altro. Non puoi immaginare, Silvia, quanto ciò mi abbia rattristato. Forse una volta questa notizia avrebbe per un verso anche potuto non dispiacermi: io Isabel l’amavo tanto (o almeno così credevo), un tempo. 170


Ma che stupidaggine dico, si parla solo di pochi mesi fa... Eppure, sul serio, quanto mi sembrano lontani i giorni vissuti prima di arrivare qua! Se non nel calendario, nel cuore e nell'animo infatti è come se fossero già trascorsi dei secoli. E tutto è cambiato. Sai, ho capito anche una cosa… Ma passiamo a qualcosa di allegro, va’! E allora ti anticipo che a metà di questo mese, aprendo la porta di casa innervosita da un bussare veramente troppo insistente, potresti ritrovarti davanti una sgargiante divisa con infilato dentro un tipo dai capelli corti corti a te ben noto. Più precisamente: seppure senza più “riccioli”, sarò proprio io! Soddisfatta? Così non potrai più lamentarti che non ti accontento mai! Sembra infatti che finalmente mi concedano i dieci giorni di licenza legati all'avanzamento al grado di caporale fino ad ora puntualmente rimandati per sempre nuove esigenze operative. Trovandoci al momento in una fase di stanca e sempreché non sopraggiunga un imprevisto all’ultimo minuto, a giorni sarò davvero da te. Naturalmente passerò prima da Green Springs: chissà come saranno felici i miei due vecchietti di poter nuovamente viziare un po' il loro nipotino! Devo anzi avvertirli subito, o la nonna non mi perdonerà mai di non averle dato il tempo di preparare tutto il suo carosello di torte. Nel frattempo, ti raccomando, non ti fare più bella di quanto tu già non sia: qui i commilitoni, da quando un giorno nel quadrato marinai ho mostrato tra le altre anche 171


una tua fotografia, non fanno che tormentarmi: “Quando torneremo a casa me la farai conoscere, vero?”; “Sul serio non è ancora impegnata con nessuno? Ah, sono proprio dei debosciati quegli imboscati laggiù!”; “Ti ha scritto? Come sta? Parlale un po' di me!” ... Cavolo, non ne posso più! Ti stringo forte forte. E quindi a presto, anzi prestissimo! Luke

P.S.: Buon Anno!

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XXV

Il mare sonnecchiava placido sotto un manto di stelle talmente lucente da far illudere che fosse già estate. Luke se ne stava seduto sugli scogli, gli stessi di sempre. Era di nuovo là dopo tutto quel tempo: l'ultima volta era stato alla vigilia della partenza per il campo di addestramento e poi da lì per quella terra ora nuovamente lontanissima ed estranea. Sulla “sua” scogliera egli sapeva di poter ritrovare il mondo che altrove gli uomini sembravano avere perduto. Era però diverso da come aveva sperato; era infatti più bello. Intorno non un rumore: solo silenzio, pace. Pareva quasi che sulla terra, ad ammirare la luna, esistesse solo lui. In quella notte luminosa osservò a lungo il cielo, e il mare, e la lunga linea scura della costa; e, lontano, il bagliore intermittente del faro di Capo Chatham e poi, in fondo all'orizzonte, il buio. E sentì dentro di sé un'ansia travolgente d'infinito. 173


Il mattino seguente si recò a casa di Isabel. La ragazza non credeva ai propri occhi: impalata sulla soglia lo fissava a bocca aperta. "Beh, che hai da guardare così?” - rise divertito Luke. Lei finalmente si riebbe dalla sorpresa e cacciando un urlo di gioia gli gettò le braccia al collo. Dentro, in sala, mentre eccitata e bellissima come sempre se lo mangiava con gli occhi, fu una valanga di domande: voleva sapere, voleva conoscere tutto degli ultimi mesi dell'amico; Luke non faceva a tempo a finire di rispondere a un quesito che subito lei lo pressava con un altro. Lo rimproverò ripetutamente per non averla avvisata del suo ritorno e intanto continuava affettuosamente a rimpinzarlo di dolci. Si conversò poi anche di lei e ciò significò, inevitabilmente, toccare l'argomento Richard. Ogni nota d'allegria si spense allora nella voce della ragazza; dapprima riluttante, ella accettò alla fine di rispondere alle domande dell'amico. “Vedi, Luke” - provò a spiegargli - “talvolta non siamo capaci di comprendere nemmeno cosa vive dentro noi stessi e giochiamo allora solo con delle illusioni; ci si crede in un modo e poi, tutto d'un tratto, ecco che invece si scopre d'essere completamente diversi. Così io un giorno ho scoperto di non essere innamorata di Richard; anzi, di non esserlo mai stata. Se a suo tempo avevo accettato di stare insieme a lui doveva essere stato solo perché avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a superare il difficile momento della separazione di mamma e papà. E chissà, forse anche per dimostrare qualcosa a me stessa: di essere cioè importante per qualcuno, di essere capace anch'io di dare qualcosa a 174


qualcuno. Sì, certo, mi sono subito affezionata moltissimo a lui, e ho creduto di volergli bene veramente; quando poi è mancata Ann mi ci sono attaccata ancora di più. Ma solo perché - l’ho capito adesso - ormai mi restava soltanto lui. Pensavo fosse amore; in realtà io l'amavo solo per quello che riusciva a darmi, e non per quello che egli era. Poi, un giorno… beh, sì, con te posso parlarne. E' successo durante un viaggio di studi ad Aberdeen. Là per un caso mi sono praticamente subito imbattuta in un ragazzo, Bill: lui si è offerto di farmi girare la città, tenermi compagnia e io ho accettato di buon grado, non conoscevo nessuno laggiù; e poi era simpatico. Così ci siamo frequentati per qualche giorno: il primo scambio di confidenze, le prime premure, poi qualche malizioso e divertente dispetto reciproco… e così tra noi si è velocemente accesa una passione imprevista, e piena di emozioni mai provate prima. Ed è stato così semplice, così naturale finire… sì, insomma, andare a letto con lui. Vedi, Luke, soltanto al momento della ripartenza mi sono resa conto di non avere mai pensato a Richard una sola volta in tutti quei giorni; tuffata in quella storia meravigliosa, avevo persino dimenticato che esistesse. Durante il viaggio di ritorno, riflettendo a fondo, ho compreso allora quanto fosse inconsistente il nostro rapporto. Anzi, sul treno è addirittura affiorato in me come un senso di disprezzo verso di lui: Richard fondamentalmente è un debole, ha sempre accettato tutto passivamente, qualunque cosa io facessi mi perdonava sempre. Bill, invece, ha davvero personalità … Sai, verrà di nuovo qui tra 175


due giorni. Oh, mi piacerebbe proprio che tu lo conoscessi, Luke!”. Quando lasciò la casa il soldato aveva la testa affollata da pensieri amareggiati. La cosa che più lo irritava era quel rimprovero di arrendevolezza rivolto all'amico; gli tornarono in mente tutte le volte in cui Richard si era sfogato con lui circa il difficile carattere della ragazza: i suoi improvvisi e ingiustificati scatti di nervi, le insensate scenate che era solita piantare per un nonnulla, poiché voleva sempre avere ragione, sempre averla vinta, e guai a contraddirla! Come pure la volta in cui gli aveva confidato della voglia che di tanto in tanto lo prendeva di mollarle un ceffone e di mandarla una volta per tutte al diavolo. “Un altro si sarebbe già stancato di lei, credimi!”, gli aveva detto Richard; il quale però poi si era sempre trattenuto, perché comprendeva che l'insofferenza di Isabel scaturiva da vicende familiari che l'avevano fatta soffrire parecchio e anche (e soprattutto) perché le voleva un bene pazzo. Lei invece aveva scambiato per debolezza la sua pazienza… Ma l’essere troppo comprensivi forse è realmente una colpa; ad ogni modo, ciò ormai non aveva più alcuna importanza. Luke non ammetteva inoltre quel rifiuto ostinato da parte della ragazza di incontrare Richard: spiegargli tutto, dirgli di quella vacanza; glielo doveva, se non altro per aiutarlo a farsene una ragione. Ma il senso di colpa per averlo - seppure forse inconsapevolmente - ingannato tanto a lungo e infine tradito (questo sì coscientemente) che lei aveva ammesso di provare nei suoi riguardi era tale da impedirle di rivederlo e da costringerla ora a pregare lui, 176


Luke, a fare quello che pure ben sapeva toccava a ella stessa: spiegare cioè a Richard di non essere in fondo mai stato niente per lei! Questa era vigliaccheria bella e buona! E se Luke dopo un primo sdegnato no aveva infine accettato, era stato esclusivamente per rispetto nei confronti dell’amico, perché aveva ritenuto necessario e giusto che, in un modo o nell'altro, questi sapesse. Aveva lasciato Isabel senza rimpianti, anzi alquanto disgustato; adesso doveva pensare come dire il tutto a Richard... Pazzesco, aveva fatto 8.000 miglia di volo per recitare alla fine il ruolo del pietoso consolatore, lui, che arrivava dritto dritto da un dramma autentico! Chiamò Richard al telefono nel primo pomeriggio; l'amico si precipitò immediatamente a casa sua, incredulo e raggiante: anche lui non era stato preavvertito di quella breve licenza. L'incontro, però, era destinato a guastarsi. Luke esitò a lungo ad entrare in argomento, gli sembrava infatti brutale dovere interrompere la gioia dell'amico; ma alla fine si decise. Richard alle parole di Luke non capì più nulla: prese a maledire la ragazza, a urlare che la odiava e che non voleva più sentirne parlare, perché per lui adesso era come morta; che se anzi gli fosse crepata lì davanti non gliene sarebbe importato nulla, non avrebbe mosso un dito! Poi però esplose in lacrime: stretto nell’abbraccio di Luke ripeteva continuamente il nome di Isabel, chiedendole perché... Durante i pochissimi giorni in cui si trattene a Green Springs il marine fece di tutto per stare vicino all’amico. 177


Riparlarono varie volte di quanto avvenuto, con più calma e distacco; ma ciò che più aiutò a sedare un po' il dolore di Richard furono le lunghe e silenziose uscite in mare che i due vollero fare insieme su un 2 senza 11. Così la sera in cui il militare ripartiva alla volta, adesso, di Melfortville, l’altro nell'abbracciarlo forte gli disse: “Luke, di tutti quanti io conosco quello a cui tengo di più sei sempre tu. Grazie della tua meravigliosa amicizia!”. E mentre Luke gli sorrideva affettuosamente, Richard aggiunse: “Ora corri da questa tua Silvia. Lei ti sta aspettando. E, da quanto mi hai sempre raccontato, io credo da tempo”.

Imbarcazione di canottaggio a due vogatori (impugnanti ciascuno un solo remo), priva di timoniere. 11

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XXVI

Il treno procedeva spedito, mescolando a bordo mille storie diverse. Nello scompartimento numero 89 due signori di mezza età sedevano di fronte a un giovane in divisa. Uno, piuttosto voluminoso, fumava un sigaro e teneva sulla punta del naso un paio di mezzi occhiali attraverso i quali andava immergendosi sempre più nella lettura di un libro; l'altro, più distinto, esaminava un corposo incartamento e ogni tanto lanciava un'occhiata indagatrice verso quel militare dall'espressione così avvilita. Ignorandoli entrambi, Luke osservava il mondo al di là del finestrino scivolargli veloce alle spalle, mentre intanto scendeva la notte: Melfortville, ormai lontana, doveva essere in quel momento già tutta illuminata. Sentiva il convoglio accelerare, correre via più rapido, quasi avesse una gran fretta di riportarlo a San Diego, dove ad attenderlo c’era un volo per Da Nang. Capì di odiarlo: quel treno lo stava infatti strappando sempre più da Silvia. 179


Povera ragazza, alla stazione di Daytona era scoppiata in lacrime, mentre lui la guardava impotente dall'alto del finestrino con un nodo alla gola; adesso, imprigionato in quella carrozza, non trovava pace e ritornava continuamente da lei con il pensiero. Silvia: nei suoi confronti aveva sempre provato un trasporto tutto speciale, che un po’ troppo spicciamente però aveva catalogato come puro affetto: le stilettate di gelosia accusate ad esempio quando lei gli parlava di un qualche suo caro amico avrebbero dovuto indurlo a sospettare che si trattava in realtà di altra cosa; come, del resto, era per la ragazza: Silvia era infatti silenziosamente innamorata di lui sin dai giorni in cui si erano conosciuti a Palm Beach (la bloccavano la sua timidezza e la grande distanza che li separava). Ma, si sa, gli adolescenti maschi generalmente non brillano per introspezione, né per perspicacia. Lui era poi pure scivolato in un avvilente disagio esistenziale e vicinissima c’era invece la bella Isabel: una via di fuga a portata di mano! Il Viet-Nam, se non altro, gli aveva schiarito un po’ le idee... Mentre il treno svolgeva inesorabile il proprio mestiere, Luke rivisse - attimo per attimo - il troppo poco tempo trascorso con lei. Il primo giorno… Il bus non attraversava la zona delle fattorie sparpagliate ad est di Melfortville e lui era così dovuto scendere ad una fermata piuttosto lontana; caricatosi lo zaino sulle spalle, seguendo le indicazioni si era incamminato quindi a piedi alla volta della tenuta della 180


famiglia Evans. Era però iniziato a piovigginare quasi subito; inutile sporgere il pollice, sperando in un passaggio: le poche auto che circolavano su quelle strade periferiche tiravano tutte dritto. Evidentemente da quelle parti non vedevano di buon occhio gli autostoppisti, tanto più se in divisa: i militari, a causa del Viet-Nam, non erano infatti granché di moda di quei tempi. Né commuoveva la pioggia. Tuttavia, con una rumorosa frenata, alla fine un furgone si era fermato. Alla guida dello sgangherato veicolo c’era un giovane capellone, magro da far spavento, che aveva esaminato il soldato attentamente prima di fargli segno di salire a bordo; non gli aveva poi rivolto parola per tutto il tragitto, ma se non altro lo aveva lasciato davanti alla casa degli Evans. Sebbene fosse trascorso del tempo dall’ultima volta in cui si erano visti, i due giovani erano rientrati immediatamente in sintonia. La seconda sera erano soli in casa, e parlavano, parlavano instancabilmente come sempre. “…Vuoi sapere se non provo orrore per avere ucciso degli uomini. Vedi, Silvia, la guerra ti vieta il lusso di rabbrividire troppo, di permettere alla coscienza di parlarti, altrimenti finisci con l’impazzire! Così il più delle volte spari con la stessa facilità con la quale berresti un bicchiere d'acqua, già presentendo però quanto tremendo sarà “dopo”, al ritorno da laggiù; quando cioè, guardando indietro con l’anima di nuovo lucida, non si potrà non provare spavento e vergogna per ciò che si è stati capaci di fare! 181


Pensa infatti alla tua vita, Silvia: a tutti i tuoi pensieri e desideri; all'immensità delle tue emozioni e dei tuoi sentimenti; pensa insomma all’infinito e meraviglioso mondo che c’è in te! E poi immagina di averne cancellati tanti simili, d'un colpo e quasi con indifferenza: non ti sentiresti un mostro? E’ proprio questo - un mostro - che io ho paura di dovermi sentire “poi”, e per sempre!”. Lei lo ascoltava in silenzio, cercando di capire. E Luke non le levava gli occhi di dosso mentre seguitava a spiegare: i lunghi capelli biondi le scivolavano morbidi sulle spalle, e il suo viso era reso ancora più luminoso dal chiarore della luna che filtrava attraverso la finestra. Era davvero bella! “Hai perduto molti compagni, vero?”' - gli aveva chiesto lei. Ma lui stavolta non aveva risposto: la fissava incantato. “Luke , cosa c'è?”. “Silvia...”. “Sì, Luke?”. Le si era allora avvicinato pian piano. La ragazza lo guardava come paralizzata ora lì ad un solo passo da lei. Ed era arrossita quando lui l'aveva circondata delicatamente con le braccia: il cuore aveva cominciato a batterle forte nel petto, Luke poteva sentirlo su di sé. Un timido sorriso d'imbarazzo era corso sulla bocca di Silvia; ma lui le aveva sussurrato qualcosa all'orecchio, e parlato poi a lungo con gli occhi. E lei aveva allora ceduto all'abbraccio, il soldato sentiva il suo corpo delicato abbandonarsi spontaneamente. L'aveva baciata a lungo con passione, aveva colto voglioso il dolce nettare delle sue 182


labbra tenere. Poi con delicatezza l'aveva presa in braccio e adagiata sul letto; e avevano fatto l'amore, entrambi felici come mai lo erano stati. Intorno a loro quella sera niente aveva avuto più importanza... Il quarto giorno, quello della partenza, si era già fatto tremendamente tardi ma di Luke non v’era più traccia. Mark (il fratello di Silvia) attendeva spazientito al volante, con il motore già acceso, mentre la ragazza lo cercava affannosamente per tutta la fattoria. Poi il marine era finalmente ricomparso. “Dove diavolo ti eri cacciato?” - gli aveva gridato Mark “Rischiamo di perdere l’autobus!”. Lui aveva annuito con aria d'indifferenza. Senza fretta era tornato nella camera che lo aveva ospitato per raccogliere lo zaino già pronto; salutati i signori Evans e abbracciata forte la piccola Karen, alla fine era salito sull'auto. Un ultimo cenno con la mano alla madre e alla sorellina di Silvia affacciate alla finestra, poi via, lasciandosi alle spalle quel posto che gli appariva immensamente meraviglioso. E si era pentito allora di essere tornato per tempo dalla piccola chiesa in cui aveva chiesto a non si sa chi lassù un po’ di conforto e qualche consiglio: magari di perdere il bus e insieme il treno e l'aereo, di non fare così più ritorno alla nave e fermarsi invece per sempre a Melfortville. Sì, per un istante lo aveva sfiorato anche l'idea di disertare… Mark aveva lasciato lui e la sorella alla fermata della corriera ed era tornato indietro. Durante tutto il viaggio in 183


bus i due ragazzi si erano tenuti per mano ma non avevano più scambiato una sola parola; Silvia era molto mogia e a lui aveva fatto un gran male vederla in quello stato: si sentiva in colpa, perché era a causa sua che lei stava soffrendo. Alla stazione di Daytona, allorché arrivarono, l'orologio segnava le sedici; il treno sarebbe dovuto sopraggiungere di lì a pochi minuti. Entrambi avevano sperato segretamente in un ritardo; e invece un momento dopo la voce metallica e impietosa dell'altoparlante aveva annunciato che il rapido diretto a San Diego era già in arrivo al terzo binario. Ogni cosa ha fine, si sa, ma sono sempre le cose più belle a finire per prime. Con un fischio acuto il convoglio aveva poi lentamente ripreso a muoversi; ferma immobile sulla banchina, lei lo aveva guardato con gli occhi pieni di pianto andare piano piano via. “Tornerò presto! Te lo prometto, amore mio!” - le aveva gridato con voce strozzata Luke dal finestrino, mentre il treno acquistava rapidamente velocità e la figura della ragazza si rimpiccioliva sempre più in lontananza, con un braccio mestamente alzato in un segno di ultimo saluto. Poi una curva, e anche quel puntino di colpo era sparito. Il soldato si era lasciato allora cadere sul sedile e aveva iniziato a piangere senza freno, giurando a sé stesso che non appena sarebbe tornato da quella terra maledetta avrebbe trovato un lavoro - al diavolo l’università! - e l'avrebbe subito sposata. Perché aveva assolutamente bisogno di lei.

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XXVII

Il giorno dopo il suo rientro alla base di Da Nang, Luke si presentò nella baracca che fungeva da segreteria di terra della Wisconsin per imbarcarsi sul primo elicottero diretto alla nave. “Dolente, caporale” - gli rispose un erculeo sergente di colore dopo avere controllato un elenco - “La sua unità l'altro ieri è stata trasferita d'urgenza a Khe Sanh per dare man forte al 26° Reggimento della Quinta Divisione Marines, assediato lì dai nordvietnamiti”. “Khe… cosa?”. “Khe Sanh, caporale: nella provincia di Quang Tri, alla frontiera con il Laos. Da lì la nostra artiglieria batteva la pista di Ho Chi Minh 12 che passa poco oltre il confine, procurando seri grattacapi ai rifornimenti del nemico; evidenSistema viario che si snodava dal Viet-Nam del Nord al Viet-Nam del Sud attraverso i confinanti Laos e Cambogia, utilizzato dai nordvietnamiti per fornire supporto logistico ai Viet-Cong. Gli americani lo battezzarono con il nome dell’allora presidente della Repubblica Democratica del Viet-Nam del Nord, Ho Chi Minh. 12

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temente quest'ultimo ha deciso di scrollarsi di dosso il fastidio: da dieci giorni quattro divisioni nordvietnamite assediano seimila dei nostri”. “Immagino che su quel foglio ci sia scritto che devo raggiungere là il mio reparto”. “Esatto. Tra venti minuti un'altra squadriglia di “Chinook” 13 tenterà di arrivare a Khe Sanh. Le preparo il foglio di imbarco”. "Mi scusi, sergente: ha detto… “tenterà”? ”. Il poderoso sottufficiale squadrò il giovane, poi scosse leggermente il capo. “Senti, figliolo, voglio essere franco con te: le cose si stanno mettendo male, laggiù. La vecchia strada numero 9, la sola che conduca fin lì, è bloccata in forze dal nemico; materiali e uomini possono così giungere a Khe Sanh solo per via aerea, ma non sono molti i velivoli che riescono a superare indenni la contraerea nordvietnamita piazzatasi attorno alla nostra base”. “In poche parole, signore, mi sta dicendo che se avrò “fortuna” riuscirò a mettere piede a Khe Sanh, ma anche che una volta laggiù uscirne poi fuori sarà alquanto problematico. Non è così?”. “Pressappoco… Mi spiace, davvero”. Presa l'autorizzazione che il sottufficiale gli preparò, Luke si ricaricò il pesante zaino in spalla e si avviò verso il piazzale degli elicotteri con il cuore in tumulto. Ripensava infatti a Silvia: al posto telefonico della base, dopo due ore di estenuante coda, era finalmente riuscito a collegarsi con 13

Boeing CH-47 Chinook, elicottero pesante da trasporto.

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l'altra riva dell'oceano e a scambiare con lei due rapidissime parole, rese confuse dalla distanza enorme che adesso li separava e dalla vociante ressa dei commilitoni che premevano alle sue spalle; ancora all'oscuro della nuova destinazione, le aveva preannunciato il suo rientro di lì a poco sulla Wisconsin. E adesso non c'era più il tempo per richiamarla; eppure, in qualche modo, doveva avvisarla di quell'inatteso cambiamento: ritornò di corsa alla baracca, si fece dare un foglio di carta su cui buttò due righe di parole e poi supplicò il sergente affinché le inviasse con telegramma all'indirizzo indicatogli; rassicurato dal sottufficiale, ritornò quindi verso le piste cercando l'elicottero assegnatogli. “Quota 881 Nord?” - lesse il pilota sul documento d'imbarco - “Bene, caporale, noi atterriamo proprio lì. Dobbiamo scaricare del materiale e portarci via alcuni feriti”. 881N: una delle varie colline che cingevano la valle di Khe Sanh, al centro della quale sorgeva l'omonimo villaggio e, vicino ad esso, la grande pista d'atterraggio costruita dai marines. Le colline costituivano la chiave di volta della battaglia in corso: sperando di ripetere quanto fatto contro i francesi a Dien Bien Phu diciotto anni prima, i comunisti tentavano di espugnarle allo scopo di sistemarvi le proprie artiglierie e così dall’alto spazzare via la molesta base americana. Cedere i colli avrebbe significato la fine per i marines di Khe Sanh: nessun aereo od elicottero avrebbe più potuto atterrare per recuperarli. Già adesso non era facile riuscirvi, come aveva detto a Luke il sergente di Da Nang: le batterie 187


contraeree sistemate intorno all'area contesa colpivano infatti non pochi dei C-130 14 inviati a paracadutare materiali agli assediati. Nutrite raffiche di mitragliatrici pesanti diedero infatti il benvenuto alla nuova squadriglia di Chinook che arrivava dalla costa dopo alcune ore di volo sopra vaste e inestricabili foreste. Due dei quattro velivoli vennero centrati dai colpi dei comunisti, fortunatamente però non in parti vitali, e l'intera formazione poté così volare fino al punto prestabilito; qui essa si disciolse e ciascun elicottero puntò verso il proprio obiettivo. Il mezzo contro il cui pavimento Luke e altri tre rincalzi si erano appiattiti (diversi proiettili avevano poco prima attraversato la carlinga da parte a parte) volò ancora per circa mezzo miglio in direzione nord, per poi abbassarsi bruscamente su uno slargo di un piccolo colle sfigurato dalle esplosioni e della cui lussureggiante vegetazione di quindici giorni prima rimaneva solo qualche mozzicone di tronco bruciacchiato. L'altura, emaciata pure da uno zig-zag di trincee, sembrava deserta, e anche nella giungla sottostante pareva non esservi traccia di presenza umana. Non appena però l'elicottero toccò il suolo, come sputate dalla terra varie figure saltarono fuori dai camminamenti accorrendo veloci verso il velivolo; a quell'accenno di movimento di colpo si risvegliò un inferno sopito: preannunciata da sibili sinistri, una pioggia di bombe di mortaio Lockheed C-130 Hercules, aereo militare quadrimotore utilizzato per il trasporto o l'aviolancio di truppe e materiali. 14

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si abbatté intorno allo spiazzo, sollevando colonne di terra e sassi. “Fuori, presto!” - urlò il pilota agli occupanti mantenendo al massimo il regime del motore, pronto a squagliarsela non appena ultimate le operazioni previste. Intanto anche i cecchini nordvietnamiti, nascosti sugli alberi, entrarono in azione: i barellieri che procedevano a fatica con i loro pesanti fardelli di feriti o di cadaveri chiusi in sacchi di plastica grigia costituivano per essi un bersaglio allettante. Il secondo pilota scaraventò freneticamente giù dal portellone le casse dei rifornimenti (i loro destinatari avrebbero cercato di recuperarle - se non fossero state nel frattempo colpite - più tardi con il favore della notte), mentre Luke e gli altri tre passeggeri schizzarono via veloci alla ricerca, col cuore in gola, di un buco dentro cui buttarsi in attesa che quel finimondo finisse. La collina tremava, battuta dalle granate che cercavano nel fumo l'elicottero stipato adesso di uomini feriti o già morti; il velivolo riuscì però miracolosamente ad abbandonare l'altura e a dileguarsi con il suo carico di sofferenza in direzione della costa. Quando infine i barellieri (seguiti a ruota dai nuovi arrivati) riuscirono a riportarsi nelle trincee, le armi nordvietnamite si zittirono e la quiete tornò a stagnare nella zona. Negli stretti alloggiamenti interrati Luke ritrovò i propri compagni; fin dal primo scambio di battute capì, se mai ci fosse stato bisogno di conferme, che la situazione intorno a Khe Sanh era estremamente critica. Fatto al suo superiore il rapporto di rito, cercò quindi di riposare un po'; raggomi189


tolato su una brandina sconnessa all’interno del cunicolo nel quale dovevano stare in quattro, simili ad acciughe in scatola, Luke per la prima volta rimpianse la sua minuscola cuccetta sulla Wisconsin. Nello scavo praticamente non filtrava aria ed egli faticava a recuperare ossigeno; la fioca luce giallognola emanata da una piccola torcia elettrica appesa con lo spago ad un trave dava alla tana una sembianza ancora più scoraggiante. L'odore dei corpi che non conoscevano più l'acqua da chissà quanti giorni poi era ripugnante. La cosa più insopportabile, lì dentro come fuori, si rivelo però l'umidità. Luke impazziva dalla sete, ma a causa delle difficoltà di rifornimento l'acqua scarseggiava e le razioni erano state ridotte a un solo quarto di litro a testa al giorno: ridicolo, con quel clima terrificante! Eppure doveva bastare e seguendo il consiglio degli altri, nonostante la fortissima tentazione, riuscì a prendere sonno senza toccare la borraccia. Dopo vari giorni di relativa calma (solo al sopraggiungere di un elicottero sulla collina riscoppiava brevemente il putiferio), una notte Luke venne svegliato di soprassalto da un boato terribile; mentre tutta la montagnola vibrava per il susseguirsi delle esplosioni, si trascinò fuori dal suo antro tirandosi dietro l’M16 e sporse cautamente la testa fuori dal camminamento per cercare di capire cosa stesse accadendo. Attorno schianti assordanti (Luke sentiva il cervello traballargli violentemente), fumo e caos; il cielo buio avvampava per i bengala. Una delle salve di mortaio cadde dentro una trincea dove s’erano pigiati cinque marines: non 190


ebbero scampo. Poi di colpo, così come s'era accesa, la tempesta di fuoco cessò; ma per i poveretti asserragliati nelle cicatrici del colle 881 la requie durò un paio di minuti appena. Infatti giù ai piedi della collina i comunisti saltarono fuori dalla giungla a centinaia, lanciandosi urlanti verso i reticolati. I vapori esalati dal terreno fradicio e il fumo residuo degli scoppi si univano a una sottile pioggerellina ad ostacolare la vista degli assediati; così, mentre pesti e doloranti i sopravvissuti al bombardamento saltavano fuori dai ripari per prendere posizione, una serie di razzi illuminanti venne lanciata alta nel cielo nel tentativo di rendere più visibile la minaccia. Luke si catapultò in una buca nella quale un M60 giaceva abbandonato insieme a una cassa di munizioni; sistemò l'arma sul treppiede e la puntò verso il basso, mentre a gran voce faceva accorrere nella fossa una recluta per aiutarlo nello scorrimento del nastro. I bengala ricadevano a terra zigzagando lentamente e spandendo sulla vallata un chiarore spettrale. Dabbasso i reticolati erano stati seriamente danneggiati dal martellamento appena conclusosi; tuttavia potevano ancora rallentare un po' gli aggressori, che lì avrebbero perso secondi preziosi diventando estremamente vulnerabili. Anche la salita ripida dava una mano ai marines trincerati su in cima. Le armi degli americani cominciarono a scaricare giù una grandine di piombo. Luke spazzava accuratamente il terreno sotto di sé, centimetro per centimetro; i bossoli zampillavano veloci fuori dall'otturatore, spargendosi tutt'in191


torno alla buca, la quale intanto andava pian piano allagandosi per via della pioggia. I morti si accatastavano sul filo spinato, ma ad ogni caduto ecco subito altri due farsi avanti: i nordvietnamiti sembravano uno sciame di cavallette, i vuoti nelle loro file venivano immediatamente colmati. Bisognava assolutamente inchiodarli lungo quella linea, poiché se avessero superato i reticolati e raggiunto le trincee ogni marine si sarebbe trovato addosso dieci di loro; per arrestare quell’orda sarebbe stato preziosissimo l'intervento dell'aviazione, ma la foschia e le posizioni troppo ravvicinate rischiavano di fare cadere il napalm anche sulle linee americane: preferibile mille volte allora crepare per mano del nemico. La battaglia si protrasse per l'intera notte, con le truppe vietnamite intestarditesi ad espugnare a qualunque costo e una volta per tutte quel colle maledetto. A più riprese, infilandosi nelle ampie brecce ormai aperte nella cerchia dei reticolati e scalando poi il pendio nel fango, i comunisti riuscirono a portarsi a pochi metri dalle buche americane; ma ogni volta, con la forza della disperazione, i marines li ricacciarono indietro, costringendoli a ritentare un nuovo sanguinosissimo e vano assalto. Dalla sua posizione Luke manovrava senza posa la mitragliatrice scagliando lunghe strisce incandescenti nell'oscurità, là dove sapeva che stava salendo il nemico. Era stremato, non sapeva quanto avrebbe ancora retto; dentro di sé lo sgomento di dovere alla fine farsi ammazzare per una brulla, insignificante e schifosissima gobba di terra: gli sembrava infatti chiaro che da un momento all'altro i nord192


vietnamiti lì avrebbero sloggiati da quel poggio melmoso. Molti avrebbero dovuto allora morire per riconquistarlo e tanti altri poi per riperderlo nuovamente, in una incessante partita senza senso. Sulla collina era un susseguirsi incessante di fiammate, detonazioni assordanti, crepitii e urla straziate; la pioggia era aumentata di intensità, nei ripari praticamente ormai si nuotava e gli scarponi non facevano più presa sul fondo. Con il dito cementato sul grilletto Luke continuava a sparare con furia sulle ombre che si stagliavano nella nebbia, contro la Morte che si approssimava, stramazzava nel fango sotto i suoi colpi ma poi ricompariva due passi indietro, di nuovo dritta in piedi, riprendendo ad avanzare inesorabilmente verso di lui. Il pezzo sul quale era chino divorava avidamente uno dopo l'altro i nastri dei proiettili; ma esorbitanti erano quelle figure dai contorni confusi, tra i vapori simili a fantasmi: alla fine non poté impedire ad alcune d'esse di avvicinarsi troppo e riuscire a lanciare un grappolo di granate a mano un istante prima di venire falciate dal piombo americano. Ai margini della fossa la terra si sollevò in aria più volte, in rapida successione. Luke avvertì un bruciore improvviso: abbassò lo sguardo e all'altezza dell'addome vide la camicia strappata e il sangue sgorgare veloce da una larga ferita. Non sentiva dolore, ma le gambe sotto gli mancarono: senza un lamento scivolò lentamente verso il fondo della buca, con gli occhi fissi e increduli sullo squarcio; rimase così, stupito, anche quando questo era ormai sparito alla vista, 193


affogato nella pozzanghera. Non provava paura; solo, appunto, un grande senso di meraviglia. Tutta lì, la morte? Era quello il momento tanto terribile che gli uomini temono per l’intera vita? In realtà sentiva di non essere mai stato così calmo e sereno come in quel momento. Nel cuore solo una tenerissima nostalgia per Silvia. Dio, quanto sarebbe però stata meravigliosa la vita insieme a lei! Sì, come sarebbe stato bello stringerla a sé nelle notti di pioggia, accarezzarla delicatamente, vegliare sui suoi sogni sussurrandole tante dolci parole che lei non avrebbe udito; e al suo risveglio perdersi dentro i suoi splendidi occhi azzurri, nel mondo pulito che rispecchiavano... Mentre la vista gli si annebbiava e un tiepido torpore andava paralizzandolo, risentì infine lo sciabordio armonico dei remi mossi nelle acque blu di Green Springs insieme ai suoi compagni: Richard, Paul, John… L'alba si levò grigia e fredda sui cadaveri sparsi a centinaia per tutta la collina. L'assalto nordvietnamita non aveva avuto esito: il colle, per il momento, restava ancora in mano ai marines. Mentre il nemico si leccava le ferite nella giungla, gli elicotteri americani ripresero ad arrivare per recuperare i feriti. Luke, assai grave, fu tra i primi ad essere trasferito.

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XXVIII

Lettera di Silvia - 27 gennaio1968

Caro Luke, ti sto scrivendo con l'unica penna che ha accettato di mettersi in moto, poiché qui fa un freddo cane e sta praticamente gelando tutto. Ora che sei partito riprenderò a studiare un po'. Penso di farlo insieme ad Herlene: è una ragazza simpatica, con una loquela piuttosto abbondante; l'unico modo per parlarle è di farlo contemporaneamente a lei, perché se si aspetta che abbia finito non si apre più bocca per il resto della giornata (un particolare di nessuna importanza: ha visto una tua fotografia ed ha espresso pareri favorevoli; ma tu non montarti la testa, la poverina ha lenti spesse così!). Qui è inverno vero e proprio. L'aria è pungente e bianca e mi aspetto addirittura di vedere nevischiare da un momento all'altro. Fuori tutto è buio, ed io mi sento tanto una piccola scrivana che siede malinconica alla fioca luce della sua lampada. Mi sembra sia già passato un secolo da quando sei andato via. Quei giorni, anzi, mi pare quasi di 195


essermeli sognati. Ma sono felice, semplicemente perché tu invece ci sei; lontano, ma ci sei. Anzi, tra pochi mesi sarai di nuovo qui. Sono state, queste senza te, giornate noiose, vivacizzate solo di tanto in tanto dalla incipiente sordità di mia nonna che oggi si è scandalizzata quando mia madre ha proposto quale rimedio per il mio po' di febbre di mettermi dei panni freschi sulla fronte: lei aveva capito delle zolle 15 fresche.”Vabbé”! Ieri finalmente ti ho sentito al telefono. 16 Come altre volte in passato c'era la gioia di sentirti e la sottile ansia di trovarti cambiato. Ma questa volta era diverso, c'era anche qualcosa di più. Sai, mi piace parlarti e ascoltarti. E non sai quello che ho provato quando prima di buttare giù mi hai chiamata tesoro e mi hai fatto capire che mi consideri un po' tua. Avrei allora voluto tanto averti vicino e strapazzarti di coccole, farti il solletico, giocare con te; e mi viene il magone se guardo questo squallido foglio di carta che è tutto ciò che di me può raggiungerti. E mi accorgo solo adesso che non sono riuscita a dirti come ero felice quando stavi vicino a me e mi sorridevi, e ti chinavi all'improvviso per darmi un bacio; oppure mi prendevi per mano, o mi allungavi una (sconveniente!) sculacciata entrando in qualche negozio giù a Melfortville.

Panni: cloths; zolle: clods. Luke aveva telefonato a Silvia dopo il lungo viaggio di rientro a Da Nang (cfr. capitolo precedente). 15

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Anche a tanta distanza mi sento avvolta dalla tua presenza, e sicura, perché so che ci sei tu, forte, accanto a me; e nonostante questo a volte mi ispiri una tenerezza mai sentita per nessuno. Quando alla stazione di Daytona hai detto a quell'altro soldato anche lui in partenza, quasi sottovoce, parlando di me, la "mia ragazza", quel piccolo possessivo mi ha fatto fare le capriole. Avrei voluto allora infilarmi nel tuo taschino e strofinarti il naso sul cuore, e stare lì, ferma, per sempre con te. Ti voglio bene. Non so esattamente quando è incominciato, né quanto durerà. Comunque non m'importa e non voglio pensarci. So solo che ogni sera mi addormento con te e che al risveglio, al mattino, mi attraversi come un lampo la mente ancora addormentata e riprendi veloce il tuo posto. Se ti avessi qui ora mi farei vicina vicina a te e starei in silenzio a guardarti, senza dir niente, accarezzandoti piano. E invece .... Di quei quattro giorni volati via troppo velocemente, sai, mi è rimasta come una sensazione di stupore, di meraviglia, di te e di me; un languore diffuso, un senso di irrequietezza, di vuoto e di incompletezza. Devo rivederti, e presto... Cosa mi attira in te? Tante cose, piccole e grandi. Mi piaci perché ti stimo, perché sei sincero e razionale ma tieni nel giusto conto i sentimenti; perché ti piace la Storia, perché non vuoi avere ragione a tutti i costi, perché sei una testa dura e una faccia tosta, ma soprattutto perché sei una persona completa a cui voglio bene in molti modi. Dì, lo sai che mi sono accorta di ripetere dei gesti tuoi? 197


Oh, Luke, sento che mi sta già scappando la pazienza, perciò sbrigati a venire. Fai presto. Più presto che puoi. E abbi cura di te, ti prego. Un bacio sul tuo cuore, perché tu non ti dimentichi di me, e perché è lì che voglio stare, chiusa in te, in segreto, nei momenti tuoi più difficili. Ti penso. Ti amo. Silvia

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XXIX

La lettera di Silvia non raggiunse mai Luke; essa tornò indietro dalla Wisconsin con stampigliato sulla busta il timbro “Militare caduto nell'assolvimento del Patrio Dovere”: il caporale Luke Dohrow era infatti spirato all'ospedale militare americano di Da Nang dopo due giorni di agonia. Quell'estate, stringendola forte sul cuore, lì sulla spiaggia in cui lei e Luke si erano conosciuti,17 la ragazza ancora non riusciva a darsi pace e ripercorreva continuamente uno ad uno tutti i momenti felici trascorsi insieme. E oggi, a venti anni di distanza, ormai donna e madre, ella custodisce ancora gelosamente, come cosa tra le più preziose, quel foglio ingiallito dal tempo, tutto ciò che resta del meraviglioso sogno di due ragazzi infrantosi contro la crudezza della vita.

La famiglia Evans era solita trascorrere le vacanze estive a Palm Beach, dove anche Luke si era recato una volta facendo nell’occasione conoscenza con la ragazza (cfr. capitolo II). 17

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La tempesta segreta del nuotatore

Sorprendono coloro che non pensano null’altro che accumulare denaro e proprietà o che comunque nei loro discorsi tradiscono la mancanza di ardenti inclinazioni, le sole cose capaci di illuminare gli occhi e la vita di un uomo.

Il nuoto era la grande passione del ventisettenne Scott Burnell, famoso e “sponsorizzatissimo” campione australiano. Un anno prima dei Giochi Olimpici, per mettere insieme vacanze e utili allenamenti di corsa in quota, egli volò alla volta della lontana Cortina d’Ampezzo, dove la notizia del suo arrivo si diffuse in un battibaleno: appena due ore dopo, in hotel, un inviato del quotidiano provinciale lo supplicò di un’intervista (Scott fra l’altro parlava un discreto italiano grazie ai nonni materni, originari delle Marche). L’indomani il nuotatore sbuffò dunque un po’ 201


quando trovò la pagina dello sport dedicata invece per intero a una rassegna fotografica su Manuel De Bon, un giovane alpinista professionista morto sul K2 esattamente due anni prima; lesse ad ogni modo quel servizio, rimanendo alla fine colpito dal calore con cui la figura dello scalatore veniva rievocata dalla consorte. Con l’auto messagli a disposizione dall’albergo, quella sera così si recò ad Alleghe all’inaugurazione della mostra. Apprezzò molto le foto e alla fine decise di presentarsi alla madrina dell’evento, Sonia, la moglie dell’alpinista (una donna di ventisei anni davvero bella), allo scopo di sapere qualcosa di più sulle imprese di De Bon; lei, da parte sua, si mostrò interessata ai successi sportivi accennati dallo straniero, ma presto altri ospiti reclamarono attenzione e allora concordarono di proseguire la conversazione il pomeriggio dopo davanti a un tè nell’albergo di famiglia in cui ella lavorava. La compagnia risultò reciprocamente piacevole e così i due si rividero anche i pomeriggi successivi, trascorsi a chiacchierare lungo le sponde del lago su cui si adagia Alleghe; prima, al mattino, lui si sfiancava nei boschi correndo o pedalando su una mountain-bike, lei sveltiva i tempi delle sue incombenze amministrative in hotel (i genitori furono lieti di vederla tornare finalmente a socializzare un po’ dopo la tragica scomparsa di Manuel). Scott la trovava sempre più incantevole, avvertendo però un crescente disagio nel rapportarsi con lei. Sonia deludeva invece le aspettative da romanzetto rosa delle amiche quando le domandavano di quel suo nuovo conoscente famoso e 202


fisicamente piuttosto provocante; ella comunque accolse volentieri la richiesta del forestiero di fargli conoscere qualche bel panorama dolomitico. Un paio di giorni dopo si incontrarono dunque lungo la strada che dal Passo Falzarego scende verso Cortina. Nei pressi della baita “Bai De Dones” imboccarono un sentiero che li condusse su al vasto complesso di postazioni approntato dai soldati italiani nella Prima Guerra Mondiale, a ridosso di un suggestivo gruppo di pilastri rocciosi (le “Cinque Torri”, precisò Sonia) lungo i quali si stavano esercitando numerosi giovanissimi scalatori; da lì ripresero il cammino, salendo infine un lungo costone al termine del quale arrivarono al più antico rifugio delle Dolomiti, il Nuvolau, appollaiato su un’alta parete verticale che in basso sfuma nel Passo Giau. Era una giornata magnifica e lo scenario, intorno, mozzafiato: Scott ne restò estasiato. “Quella è stata la prima parete scalata da Manuel” - disse Sonia indicando la Tofana di Rozes - “All’epoca era poco più di un ragazzino!”. Finirono col parlare della loro unione. “…In tanti dicono che arrampicare è da irresponsabili, specialmente se si hanno moglie e figli” - argomentava la donna - “Ma se il metro di giudizio è il pericolo, allora forse non dovrebbero mettere su famiglia nemmeno i poliziotti, i pompieri, o gli operai di una raffineria che sanno di respirare veleno ogni giorno… Io so solo che prima o poi dobbiamo lasciare questo mondo, e allora credo che fino a quel giorno ognuno abbia il diritto di vivere pienamente, secondo il proprio cuore”. “Ma non provavi apprensione per lui?” - domandò Scott. 203


“Prima di sposarmi ho arrampicato anch’io per un po’ e quindi conosco i rischi che si corrono lassù. In parete mi obbligavano semplicemente a concentrarmi; tra le mura di casa, nei panni nuovi della moglie in attesa, cominciarono invece a crearmi ansia: sì, avevo tanta paura per lui!”. “Gli hai mai manifestato la tua preoccupazione? Magari avrebbe smesso!”. Sonia guardò lontano. Di Manuel l’avevano conquistata l’entusiasmo che metteva nei suoi progetti, la voglia di respirare la bellezza del mondo e la tenerezza che mal mascherava sotto una baldanza un po’ bambinesca. Tutto quanto l’aveva fatta innamorare di lui trovava tuttavia linfa proprio in montagna. “Se gli avessi fatto pesare la mia inquietudine, sì, credo che avrebbe rinunciato a scalare, tornando all’impiego - che detestava - nella ditta di legnami del padre; nel giro di qualche mese, però, si sarebbe spento, e non sarebbe più stato lui” - spiegò Sonia. L’armonia tra loro si sarebbe allora infranta e avrebbero perduto comunque la loro immensa felicità. “No, non dobbiamo permettere alla paura di impedirci di vivere!” - aggiunse. Tenersi alla larga dalla sofferenza, ma così non prendere mai tra le mani nemmeno la gioia; non conoscere dunque il loro sapore… già, è un esistere senza però vivere. “Mi immagino Manuel come un uomo davvero felice” - disse Scott - “Del resto, avendo te accanto, non poteva essere diversamente”. Sonia gli sfiorò una mano con una delicata carezza. “Sei molto gentile”, sorrise. Lui, invece, scivolò dentro i suoi bellissimi occhi verdi. E si perse. 204


Quella notte Scott non riuscì a prendere sonno e il mattino dopo non ebbe le energie (e tantomeno la testa) per svolgere l’allenamento in programma; tutti i suoi pensieri correvano in una unica direzione: lei. Cosa diamine gli stava accadendo? “E’ soltanto un po’ di scombussolamento d’umore provocato dagli sforzi in quota”, ripeteva a sé stesso per tranquillizzarsi. Inutilmente, perché la giornata si rivelò agitata, tutta vissuta nell’attesa della sera quando l’avrebbe portata fuori a cena, come d’accordo. La nuova notte fu ancora peggiore. Il campione giurò allora che nei due giorni a venire, durante i quali non si sarebbero visti per gli impegni di lei, avrebbe rimesso in ordine le cose dentro di sé, facendo appello alla ragionevolezza e soprattutto confidando nella determinazione che aveva fatto di lui un atleta eccezionale. Così al Lago di Fedaia, dove lei gli aveva dato appuntamento la domenica per raggiungere con la bidonvia il Pian dei Fiacconi e poi da qui risalire a piedi la cresta ovest della Marmolada (Sonia aveva insistito perché il re delle piscine vivesse un’esperienza semialpinistica), Scott si presentò ostentando un’aria distaccata. Ma già durante l’ascesa del ghiacciaio del Vernel, mentre l’amica rideva divertita dalla sua impacciata andatura sulla neve, quella risolutezza si sbriciolò miseramente e, per porre fine alla sua lacerante tempesta segreta, fu più volte sul punto di fermarla e parlarle; lo bloccò, ogni volta, la convinzione che così avrebbe rovinato tutto. La via ferrata che li avrebbe poi guidati su fino a Punta Penia, la vetta più alta delle intere Dolomiti, si rivelò lunga 205


e impegnativa: era nevicato copiosamente ancora in primavera e così il cavo di assicurazione a tratti scompariva sotto spessi strati di neve indurita; affinché non scivolasse giù dabbasso, Sonia indicava a Scott gli appoggi meno ghiacciati. Sulla cima entrambi si abbandonarono ad una lunga e silenziosa contemplazione delle meraviglie che li circondavano; l’australiano non aveva mai visto tanta bellezza, sia all’orizzonte sia… seduta accanto a sé. Il tormento lo ripigliò poco più tardi mentre la guardava discendere davanti a lui, leggera e seducente, un altro tratto ferrato e poi tutto il ghiacciaio della Marmolada. “Bravo, te la sei cavata bene con i ramponi!” - gli disse lei quando furono giunti in fondo. Sul traballante cestello che li riportava giù al lago Sonia iniziò a nominare tutte le cime visibili, specificando compiaciuta quelle scalate da lei (questa volta non menzionò quelle di Manuel). Presto però esse terminarono e ciascuno si immerse nei propri pensieri; in quell’angusto spazio i loro occhi non tardarono però ad incrociarsi e a guardarsi a lungo, in silenzio. E poi… poi accadde che lei lo baciò, con trasporto sincero. E lui visse un sogno: la strinse forte tra le braccia, le avvicinò le labbra all’orecchio e sussurrando le aprì il suo cuore. Mille inattese e dolcissime parole riempirono così l’anima di Sonia. Scott s’interruppe soltanto quando si rese conto che lei singhiozzava, per poi abbandonarsi al pianto sul suo petto; le asciugò le lacrime con baci delicati, finché uno scossone annunciò che erano giunti a fine corsa.

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Sonia lo guardò con aria smarrita; poi però si scosse, prese il suo zaino e iniziò a indietreggiare lentamente senza staccare lo sguardo da quello di Scott. Quando fu sicura che non potevano più toccarsi l’un l’altra gli regalò un lungo, triste sorriso; quindi, di nuovo in lacrime, fuggì verso la propria auto senza voltarsi indietro. Il campione capì che non l’avrebbe rivista mai più; il giorno dopo lasciò angosciato Cortina, anticipando il rientro a Melbourne. Sonia si era realmente invaghita di quel bel nuotatore dal temperamento sensibile. Una storia con lui era però senza speranza (di lì a qualche giorno continenti e oceani li avrebbero infatti separati) e perciò si era risolta a celare i sussulti del suo cuore. Sulla cabinovia quel lungo leggersi negli occhi aveva però smascherato entrambi. “La paura non deve impedirci di vivere”, si era ricordata di aver detto; e così aveva anch’ella abbandonato la sua lotta nascosta, benché sapesse che a quegli attimi di estrema gioia sarebbe seguito un nuovo grande vuoto. Ma nel rivelarle i propri sentimenti Scott aveva espresso (con le stesse parole!) alcune cose che aveva detto anche Manuel allorché le si era dichiarato sulla vetta del Civetta; ciò aveva risvegliato di colpo in Sonia, fortissima, la mancanza del marito, facendole capire di non potersi ancora donare totalmente a un nuovo amore. L’estate successiva, con la forza che dà la rabbia, Scott conquistò l’oro olimpico. Nella miriade di e-mail di congratulazioni ricevute un particolare mittente gli provocò un tuffo al cuore; solo un paio di righe di circostanza sulla sua vittoria, poi in chiusura: “Mio Scott, custodisco con gelosia 207


il ricordo di te in un angolo del mio cuore. Sii felice. Addio, Sonia”. “Grazie… Per tutto!”, rispose l’atleta. Grazie per gli istanti di paradiso, ma pure per le pene di prima e dopo, che lei gli aveva fatto conoscere; grazie per la meraviglia per il mondo che gli aveva fatto provare sulle cime. Si, grazie per tutto quanto lo aveva acceso dentro e lo aveva fatto sentire davvero vivo. Sonia capì, e sorrise. Non avrebbero poi avuto mai più notizie l’un dell’altra. Entrambi sapevano, però, che un filo invisibile avrebbe tenuto legate le loro anime per sempre.

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Il messaggio del vento

“Ma che senso ha?” - domandano in tanti - “Oltretutto è pericolosissimo!”. In effetti, scrutando una cima, cos’è che in alcuni accende il desiderio di mettersi in marcia e salire, fino a raggiungerla? Forse un senso di ribellione all’irrilevanza dell’uomo, che la grandiosità senza tempo della montagna ci sbatte brutalmente in faccia, e dunque il bisogno di riaffermare sé stessi conquistandone la vetta? Chissà! A me, comunque, interessa poco analizzare le pulsioni recondite che muovono gli scalatori; per certo so solamente che, quando da un picco contemplo quanto più mi è concesso del mondo, io provo uno stupore che mi leva il respiro e che desidero soltanto riempirmi, attraverso gli occhi, di quella incomparabile Bellezza. E, come motivazione, tanto mi basta. “In alto, i brutti pensieri scompaiono dalla mente e le futilità umane, per un po’, diventano lontanissime” - provo a spiegare a chi mi domanda - “Lassù esistono solo silenzio 209


e senso di pace!”. Mah, forse sono anche una certa sfiducia negli uomini e il bisogno di qualcosa di “pulito” a creare l’alpinista… “Sensazioni sicuramente uniche, ma resta il fatto” - mi ribattono puntualmente - “che comportano fatica e rischi sproporzionati!”. Beh, senza sete d’avventura l’uomo sarebbe ancora confinato in una caverna; e comunque attorno a noi la morte si annida ovunque: dobbiamo forse allora schivare qualsiasi cosa, evitare insomma di… vivere? Anche in montagna l’importante è avere consapevolezza dei propri limiti, entro i quali ciascuno può poi trovare il “proprio” Everest che, indipendentemente dalla sua quota, avrà pari dignità e fascino della più grandiosa vetta himalayana, se conquistato con il cuore. Quello di Valerio - il mio nuovo, giovane amico con cui ho preso ad andare di tanto in tanto su per creste - è stato fantastico. O almeno così gli era parso, al principio.

*** La “via normale” alla vetta del Monviso, lungo la parete sud, è tecnicamente poco difficoltosa; ciononostante è piuttosto pericolosa: ci si inerpica su sfasciumi di roccia, il terreno spesso si frantuma sotto gli scarponi e la minaccia di una pioggia di sassi dall’alto è continua… in parecchi sono volati giù! Pur avendo toccato cime più complicate, nella testa di Valerio il Monviso era tuttavia diventato “La Montagna”: non tanto per la sua perfetta e solitaria forma triangolare, 210


quanto perché intoppi d’ogni genere lo avevano obbligato a rinviarne la salita numerose volte. Così quel gigante di quasi quattromila metri era divenuto per lui una specie di miraggio; ed ora che - approfittando di un fine novembre insolitamente caldo (non molta ancora la neve caduta) - era finalmente arrivato lassù, si sentiva appagato come non mai. Seduti sotto la grande croce di vetta, lui e il suo compagno di cordata Alberto contemplarono a lungo - in silenzio - i maestosi ed innevati massicci dei Monti Bianco e Rosa ed il Cervino, lontani ma nitidissimi in quella magnifica giornata di sole, e - dabbasso - la pianura padana, che si spandeva a perdita d’occhio: uno spettacolo simile è davvero capace di impedire al cuore di provare ancora sentimenti d’invidia. “La religione è l’oppio dei popoli”, sosteneva un illustre filosofo tedesco. Certamente, se inculcata - distorta - in menti rozze, essa può fermare (o riportare) l’Uomo all’età della pietra. E tramutare Kobanê - una tranquilla città siriana al confine con la Turchia - in un ammasso di macerie; ma pur oramai così ridotta, i suoi abitanti curdi non intendevano affatto cederla agli invasati miliziani del cosiddetto “Califfato” che l’avevano - appunto - presa d’assalto: si combatteva dunque ferocemente attorno ad ogni spettro di casa. Come molte altre ragazze anche Esirîn, messi da parte i libri e i suoi sogni da ventenne, aveva imbracciato un kalašnikov per difendere la città (entrando così in un incu211


bo di scoppi, urla straziate e insonnia perenne). Gli aggressori avevano parecchia paura di quelle giovani: primitivi com’erano, credevano infatti che la morte per mano di una donna li avrebbe condannati a bruciare all’inferno per l’eternità. Ma in quell’incerto mattino era invece il destino di Esirîn a farsi fosco. Nella loro lenta avanzata gli uomini in nero avevano infatti isolato il suo trinceramento ricavato tra le travi di una palazzina venuta giù; Kamar, il suo compagno di postazione, le giaceva accanto con gli occhi sbarrati, centrato da un colpo in piena fronte, e quelli adesso - con circospezione, ma inesorabilmente - si avvicinavano a lei. La ragazza aveva una discreta mira e mentre i nemici strisciavano tra le rovine riuscì a consegnarne un paio al loro diavolo. Con tanti auguri! Ma sapeva bene che di lì a poco gli altri le sarebbero stati addosso e che nessun romanzesco soccorso sarebbe mai potuto giungere in tempo. Dentro di lei la disperazione crebbe; il cuore prese a batterle in maniera forsennata, mentre le lacrime le scorrevano lungo il viso: non voleva morire, soprattutto adesso che - proprio nel mezzo di quelle cruente battaglie - aveva conosciuto, improvviso e inatteso, il sentimento più bello. Quando l’aveva incontrato per la prima volta, dentro un umido scantinato elevato al rango di sala-comando, quel giovane spuntato lì dal nulla l’aveva subito… “disorientata”; alcuni giorni di grande e sconosciuto trambusto interiore, poi eccola stretta forte a lui, raggiante: perché - incredibile a dirsi - la medesima cosa era accaduta all’uomo! Era stato 212


amore totale; poi lui aveva dovuto lasciare Kobanê, giurandole però di tornare quanto prima… No, non voleva morire; ma oramai “doveva”, in ogni caso: se fosse stata presa viva i jihadisti, com’era loro abitudine, ne avrebbero fatto una schiava sessuale (e senz’altro pure molto contesa, data la sua avvenenza). Estrasse quindi dal kalašnikov il caricatore - l’ultimo rimastole - per contare i proiettili residui; quattro. “D’accordo, Esirîn, d’accordo…”, disse a sé stessa mentre si asciugava il volto dal pianto. E dunque “pam”, “pam” (beccato un altro bastardo, bene!) e… “pam”. Poi, inspirando forte più e più volte, radunò tutto il proprio coraggio, chiuse i suoi luminosi occhi neri e pregò Allah di assolverla dai peccati commessi, i genitori e le due sorelle maggiori di perdonarle il suo carattere ribelle e infine il suo ora lontano amore per non avergli potuto dare tutto quanto ella desiderava offrirgli. “Da lassù veglierò sempre su di te: che tu possa vivere una vita felice!”, sussurrò nel vento che si era intanto alzato e che un istante dopo voltò bruscamente senso, correndo verso nord. Dopodiché, respingendo con rabbia i successivi pensieri che già cercavano di dissuaderla, si puntò la canna del fucile mitragliatore sotto il mento e fece subito fuoco. L’ultimo “pam”. Valerio guardò l’orologio: era ora di scendere, anche perché il giorno seguente sarebbe dovuto partire di primissimo mattino da Crissolo per rientrare a Milano e avere il 213


tempo di preparare, prima del volo serale per Istanbul, il bagaglio e le attrezzature necessarie per la nuova serie di servizi sulla guerra in Siria che l’agenzia di stampa per cui lavorava gli aveva alla fine accordato; il giornalista, bussandogli continuamente alla porta, aveva infatti preso per stanchezza il direttore, che dal canto suo sotto sotto non sputava su un possibile bis del successo internazionalmente riscosso dai reportages realizzati da quel suo giovane collaboratore durante le cinque settimane in cui era già stato laggiù. Stavolta però Valerio - segretamente - smaniava di scappare dalla noia della redazione non per la sua passione di raccontare dal vivo il mondo al mondo, quanto per potere riabbracciare la fiera ragazza per la quale aveva perso il sonno quando era avventurosamente arrivato nella Stalingrado del XXI secolo: Kobanê. Le loro esistenze si erano incrociate durante un rapido briefing sotterraneo con i comandanti curdi mentre sopra, in strada, piovevano granate di mortaio; bisognava concordare le modalità con cui il giornalista avrebbe affiancato i combattenti peshmerga per documentarne la tenace resistenza e Esirîn gli era stata presentata come sua guida: seppure segnato dalla stanchezza e incipriato di fumo, quel bellissimo viso gli aveva tolto il fiato; il taglio maschile della divisa mimetica non riusciva poi a nascondere la figura armoniosa (e decisamente provocante) della ragazza, lungo la cui schiena dondolava una lunga treccia castana. Tre giorni prima della conquista del “Re di Pietra” (come anche viene chiamato il Monte Viso) il reporter era riuscito 214


a parlarle di nuovo grazie sempre al telefono satellitare di Olaf, un collega norvegese attivo in quel periodo a Kobanê, tirando così l’ennesimo sospiro di sollievo: lei stava bene! Non le aveva però detto che era in procinto di mantenere la propria promessa: voleva infatti farle una sorpresa, per poi riprovare a persuaderla (impresa che però già sapeva impossibile fintantoché i giannizzeri neri non si fossero ritirati) a lasciarsi alle spalle quegli orrori e a seguirlo in Italia, e iniziare qui una nuova esistenza; anche perché era chiaro che sarebbe stato tutt’altro che facile per lui tornare in Siria una terza volta, e che la lontananza - inevitabilmente - avrebbe alla fine slegato le loro vite. In effetti cominciare quella storia era stato assurdo! Ma secondo Valerio come le emozioni regalate da una vetta meritano qualche rischio, così per un momento d’amore vero può valer la pena di dovere poi soffrire molto. ”La vita

è come il mare, chi ha paura di navigare rimane sulla riva a guardare l'orizzonte... e tutto rimane un sogno”, aveva letto da qualche parte. Desiderava infatti vivere. Ogni singolo attimo. Pienamente, semplicemente. Sì, era ormai ora di lasciare la cima. Valerio ripose la borraccia e i resti della veloce colazione dentro lo zaino, che richiuse con cura e si caricò poi sulle spalle. Nel frattempo da sud-est era arrivato un vento teso e freddo. “Speriamo non rinforzi”, si augurò l’alpinista che non desiderava certo complicazioni ad una discesa già di per sé stessa delicata; poi come ultima cosa, tolti un attimo i guanti, si mise a regolare la cinghietta del casco (durante la salita 215


l’aveva sentita un po’ lasca), quando qualcosa lo distolse però da quell’operazione: ad un tratto, nella fastidiosa corrente d’aria che andava già gelandogli le mani, al giovane era infatti sembrato di sentire delle vibrazioni, delle parole quasi, non intelligibili e che però gli misero dentro una certa inquietudine. “Boh!”, pensò dopo un po’ mentre si decideva - sempre turbato - a rimettere casco e guanti. In quello stesso momento fu investito da una raffica più violenta; respirandola Valerio avvertì uno strano sapore salato, che ricordava quello delle gocce di pianto. E di colpo il suo cuore intuì, e venne devastato! Da parte sua, così come s’era palesato, il vento improvvisamente cessò. Un paio di metri più in là Alberto aveva intanto appena finito di “rifilare” la corda; girandosi quindi verso Valerio per passargliene un capo da legare all’imbragatura, vide che questi aveva smesso di prepararsi alla discesa: se ne stava infatti dritto immobile sui ramponi, con gli occhi spersi sull’orizzonte, bianco in volto. “Ehi, amico, qualcosa non va?”. Ma il compagno sembrava non udirlo. “Valerio, tutto bene?” - gli ripeté gridando Alberto. “Il vento…” - farfugliò infine quello - “Il vento mi ha detto che lei… non c’è più!”. “Il vento cosa? Ma che cavolo ti sei fumato? E poi… lei chi?”- sbottò l’altro, che nulla sapeva di Esirîn. Un breve silenzio. Poi, voltandosi, Valerio gli rispose tra le lacrime: “Un angelo!”.

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Alberto fiutò che quella discesa sarebbe stata straordinariamente difficile… Avuta da Olaf quella stessa sera la tremenda conferma, Valerio non si recò più all’aeroporto. Due giorni dopo, tra la sorpresa generale, comparve - stralunato - in redazione; al suo capo disse soltanto “mi licenzio” e sparì. Cambiò mestiere, e con esso città e conoscenze. Pian piano riprese a fare progetti; ma qualsiasi passo intraprendesse - o nuova montagna affrontasse - Valerio aveva sempre la sensazione, forte, che qualcuno, seppure da molto lontano, lo assistesse. Come un angelo custode. Lui sapeva bene chi. Ed ogni volta un sorriso grato e insieme malinconico si dipingeva sul suo volto.

*** E’ pressappoco questa la storia del mio nuovo amico. Per la cronaca, il 26 gennaio 2015 le ultime soldataglie del famigerato “Stato Islamico” si ritirarono - sconfitte - da Kobanê.

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Passaggio in India Parte Prima 18 Sul treno dei Maharaja

«Welcome, Madam; welcome, Sir» - è l'ossequioso saluto con tanto di inchino di Anil: livrea rossa e turbante color arancio, baffetti ottocenteschi che di colpo ripiegano all'insù verso due occhi scuri e vispi come solo quelli degli indiani sanno essere, il giovane inserviente dalle cortesi maniere degne del più stereotipato maggiordomo inglese ci aiuta a salire sulla carrozza n. 17 dell'Orient Express indiano, il “Palace on Wheels”, detto anche “Treno dei Maharaja”. Composto dalle vetture un tempo appartenute ai ricchi maharaja, il treno - oggi di proprietà statale - lascerà tra poco la buia e periferica stazione di Delhi-Cantonment alla volta del Rajasthan, mitica regione nord-occidentale di quest’India così piena di contrasti, tentando di far rivivere ai suoi ospiti l’atmosfera di un'epoca, quella dei “Grandi-Re” appunto (“Maha”: grande; “Raja”: re), ormai 18

Pubblicata martedì 2 gennaio 1990 sul “Corriere Mercantile”, storico quotidiano genovese. 218


tramontata per sempre. E nella nostra carrozza, costruita nel 1913 (il vagone più antico risale invece al 1898, il più recente al 1937) ed appartenuta agli ultimi Principi di Jaipur, respiriamo quell'atmosfera. Le quattro piccole cabine, con due cuccette sovrapposte ciascuna (taluni vagoni ospitano poi anche scompartimenti da quattro cuccette, per complessivi centodue posti-letto) e la saletta-ritrovo in cui al mattino verrà servita la colazione sono in puro legno di tek; melodie indiane cantilenate da piccoli altoparlanti e luci soffuse conducono il cuore a delicate emozioni. Due piccoli, semplici bagni e uno stanzino di servizio riservato ad Anil e al suo sott’ordine, Azif, completano il vagone. Ovunque, appesi al soffitto, i ventilatori ingaggiano poi la loro ardua lotta contro l'afoso caldo indiano. Il criterio con cui vennero varate all’epoca tali carrozze salta presto all'occhio: preceduti da un altro convoglio zeppo di bauli, servitù, consorti e cortigiani, i Raja usavano viaggiare senza troppi impicci; perciò i vagoni, sebbene parzialmente ristrutturati, sono davvero avari di spazio per i bagagli dei loro passeggeri. Inoltre non sono intercomunicanti e quindi per cambiare carrozza o usufruire dei servizi offerti dalle vetture-ristorante o da quella con bar, libreria e sala panoramica bisogna attendere che il treno compia una sosta per approvvigionarsi di acqua e carbone. Le due locomotive, anch'esse ornate di fregi e decorazioni, sono invece del secondo dopoguerra; ma il fatto che non possano in pratica mai venire spente (per tornare in pressione occorrerebbero infatti due giorni) le ha 219


“consumate” a tal punto che, in quanto a vetustà, non sfigurano affatto al fianco dei folcloristici vagoni, oggi tutti ridipinti color avorio. Dopo aver dato tempo ai suoi ospiti di apprezzare la cucina di bordo sulle due suggestive carrozze-ristorante, il treno con un lungo fischio spezza il profondo silenzio della sera indiana annunciando la propria partenza per Jaipur, capitale del Rajasthan, terra aspra e romantica in cui si incarnano il mistero ed il fascino dell’India. Dopo averla attraversata tre anni or sono ci siamo convinti che, se esiste un inferno, quello è senz’altro Calcutta; è doloroso, però, dover poi constatare quanto il resto dell’India le somigli: anche Jaipur non sfugge alla triste regola. Essa è una delle poche città del Paese che concentri in sé più di un milione di anime (il settantacinque per cento degli oltre ottocento milioni di indiani, infatti, vive ancora nelle campagne) e, come altrove in India, la vita dei suoi abitanti si svolge nelle strade, tramutate così in bolge dantesche. Sul marciapiede lo sterminato esercito dei senza-tetto dorme, si lava, si nutre mendicando, tra le immondizie, il fango, gli escrementi propri e delle bestie con cui condivide serenamente un fazzoletto di selciato, del tutto incurante della giungla di gambe che sopra vortica frenetica ed indifferente; lambito ovunque da una stagnante fogna a cielo aperto, il marciapiede è anche il luogo in cui schiere di calzolai, lustrascarpe, barbieri, riparatori di biciclette e friggitori di ogni sorta di cosa possa venire cotta improvvisano 220


la propria bottega e tentano disperatamente di sbarcare il lunario quotidiano. Anche i “veri” negozi si spalancano completamente sulla strada, ingoiati e rovistati dalla fiumana umana riversata per le vie e nella quale è praticamente impossibile farsi strada, assaliti da torme di questuanti, lebbrosi, storpi che neanche la fantasia più torbida sarebbe capace di partorire, e sempre inseguiti da quel caratteristico, orientale odore di fritto e di spezie che avvolge ed impregna ogni cosa di sé. Su questo fervere di attività minute, su un tale sconfinato e tragico mare di povertà operosa fanno ad un tratto capolino le grandiose meraviglie del passato, verso le quali il raccapriccio circostante consuma sé stesso del tutto indifferente. Imponendosi però di lasciare da parte la prima, terribile ma non del tutto corretta impressione che dell’India si riceve per tentare di afferrare la vera essenza di questo Paese ripercorrendone a ritroso nel tempo la Storia, non ci si può allora non abbandonare alla estasiata contemplazione di ciò che di meraviglioso questo popolo è stato capace di realizzare. La cittadella della “Citta Rosa” (così Jaipur viene chiamata per via dell’arenaria rosa con la quale fu edificata e della tinta del medesimo colore con cui venne rinnovata nel 1883 in occasione della visita del principe Alberto, consorte della regina Vittoria) è un autentico gioiello di architettura: un delicato intreccio di colonne, archi, balconi traforati, piccole torri, cupole, tutto magistralmente riassunto nel palazzo-simbolo di questa città, l’Hawa-Mahal (Palazzo dei Venti): un alveare di strane finestre alto cinque 221


piani, dal quale regine e dame di corte potevano spiare la vita delle strade senza pericolo di essere viste, e attraverso le cui fenditure il vento sibila stranamente. Ammirato stupore si prova poi nell’aggirarsi all’interno del Jantar-Mantar, un insieme di curiose costruzioni dalle più disparate forme geometriche e di strette scale che si allungano misteriosamente verso il cielo, apparentemente distribuite senza alcuna logica: si tratta in realtà di un avanzatissimo osservatorio astronomico edificato dal re-astronomo Sawai Jai Singh II, fondatore nel 1728 della stessa Jaipur e politicamente tanto abile da rendersi indipendente dall’imperatore moghùl di Delhi (i leggendari Moghùl, mongoli convertitisi all’islamismo, si impadronirono dell’India nel XVI secolo e per oltre trecento anni - fino cioè alla sottomissione inglese - la guidarono nello sviluppo di una straordinaria civiltà). Su una torre, lontano, è innalzata ancora la variopinta bandiera di un potente regno ormai seppellito dalla Storia; sventola con orgoglio sull’ala della cittadella (“City Palace”) che la locale ex famiglia reale è riuscita a preservare dai democratici marosi della nuova Unione Indiana (sorta nel 1947 dall’indipendenza dal colonizzatore britannico), la quale ha progressivamente spogliato dei loro poteri politici e privilegi finanziari gli antichi Signori “rajput” che successivamente all’invasione degli Ariani (di cui costituivano la classe guerriera) avevano frantumato la regione in una miriade di principati sprezzanti del potere centrale e spesso in lotta fra loro. Così molte dinastie, non avendo più la possibilità di “mantenere” le proprie enormi proprietà e chia222


mate infine a pagare anche forti tasse di successione in seguito all’abolizione del diritto di primogenitura, si sono viste costrette a cedere ogni cosa allo Stato e a dissolversi di colpo nel nulla dopo secoli di orgoglio e gloria; solo i Raja più potenti e intraprendenti, tramutando le loro sontuose regge in hotel di lusso o riciclandosi come politici in qualche partito della nuova India democratica, sono riusciti in qualche modo a non farsi gettare, per così dire, sulla strada. La leggendaria età d’oro dei maharaja è dunque tramontata per sempre ed appartiene ormai solo alla Storia. Celebri più per le loro ricchezze e stravaganze che per gli atti di ottimo governo di cui pure tanti fra essi si resero protagonisti, i maharaja discendevano, come si è detto, dall’antica casta guerriera indù dei “rajput” (“Figli di Re”). Similmente ai nostri cavalieri medioevali, i rajput obbedivano ad un ferreo codice d’onore: sentimento di giustizia, coraggio, fedeltà e generosità erano gli attributi di ogni nobiluomo; viltà e tradimento della parola data comportavano invece eterno disonore. Amavano i lussi e le galanterie. Si trastullavano nei tornei. Ma all’umiliazione della sconfitta preferivano la morte sul campo di battaglia. Echi di tali tempi lontani riecheggiano tra le rovine della leggendaria città di Chittorgarh, posta lungo la strada che da Jaipur conduce ad Udaipur. Simbolo della resistenza degli indù contro l’invasore islamico, la sua storia è stata scritta col sangue e narra tra l’altro della regina Padmini, bellissima, il cui volto riflesso nello stagno dagli specchi di una torre (sacrilegio era scorgerla direttamente!) radunava 223


barche di spasimanti. Di lei si invaghì anche l’imperatore di Delhi, il mussulmano Alau’d-Din Khalji, che, respinto, la pretese con la forza delle armi. Quando la città fu sul punto di cadere le donne, tra cui Padmini, si immolarono sul rogo: gli uomini, re in testa, indossarono allora sopra le armature la veste nuziale color zafferano e si scagliarono sul nemico senza accettare la resa. Correva l’anno 1303. Due secoli più tardi, sotto l’urto di un nuovo irresistibile assalto islamico, furono ben tredicimila - secondo la tradizione - le donne che si fecero “sati” gettandosi nel fuoco; e trentaduemila i soldati che preferirono essere sterminati... Proseguendo verso Udaipur la terra si fa più secca; la polvere sollevata dallo sferragliare assordante del treno ci precipita addosso e invade l’interno dei vagoni attraverso i finestrini aperti dai quali, imbiancati e tossicchianti, cerchiamo di godere dello spettacolo che ci scivola veloce sotto gli occhi. Qua e là, sull’uniforme verde sbiadito che si allunga senza orizzonte, improvvise fiammate di colore; scopriamo così che non è mera leggenda ciò per cui il Rajasthan va famoso: abbagliano realmente i colori, misteriosamente fosforescenti, dei “sari” che avvolgono le contadine chine sulle zolle o ciondolanti appresso alle mandrie al pascolo, tutte ingioiellate da capo a piedi come principesse a dispetto della umile fatica. Il fischio ossessivo delle locomotive le distoglie per un momento dal loro compito mentre gli uomini, col capo protetto dal sole cocente da bianchi turbanti, ci salutano con un cenno ed i bimbi schizzano in piedi correndo festanti verso il treno. Le 224


bambine, poi, si muovono delicatamente fra i campi nelle loro vesti variopinte, già piene di grazia femminile, anche loro ornate d’argento ai polsi e alle caviglie e con il puntino rosso della "saggezza" dipinto tra le nere sopracciglia. A tratti quella avara campagna viene ricoperta da una erbetta soffice che trasforma allora la secca distesa in un elegantissimo prato all’inglese in cui, sparse, strane piante spinose fuoriescono come da aiuole, tracciando i confini dei campi. Udaipur, fondata nel 1599 da Udai Singh, è a ragione celebrata come la città più romantica di tutta l’India: meno povera, si distende dolcemente sulle sponde di alcuni laghi di un colore blu splendente incorniciati tra verdi colline, resa fresca da rigogliosi ed esotici giardini densi di pace, attraversando i quali si intuisce il sentimento che ha legato all’India tanti britannici dell’epoca coloniale. E, come in un sogno, dalle acque del lago Pichola ecco emergere e galleggiare leggero un marmoreo, bianco palazzo da favola: il Jag Niwas Palace (fino all’anno 1963 residenza estiva dei reali di Udaipur e oggi sfarzoso hotel-giardino) è di una bellezza che le parole non possono minimamente raffigurare. Infatua letteralmente quando lo si ammira dall’alto del City Palace, la reggia posta sulla terraferma a picco sul Pichola, oggi in parte museo e in parte albergo con suite da “mille e una notte” (qui fu fra l’altro girato il film di 007 “Octopussy”): mezzo milione di lire - cifra astronomica non soltanto per l’India - è il costo di una notte da “Maharana” (tale titolo, superiore a quello di maharaja, fu conferito dai principi tutti del Rajasthan ai 225


regnanti di Udaipur in virtù del particolare valore dimostrato nella lunga e comune lotta di resistenza all’Islam). Ma forse eccita ancora di più la fantasia il sortilegio che pare aver colpito Jaisalmer, incredibile città smarrita nel deserto del Thar. Per conquistarla bisogna dapprima valicare la catena degli Aravalli (benefico argine di contenimento all’avanzata verso sud-est del deserto, che occupa buona metà del territorio del Rajasthan), dopodiché spingersi dentro quelle sabbie per oltre dieci ore in direzione del turbolento confine con il Pakistan.

Parte Seconda 19 La città fatata sperduta nel deserto Pare impossibile che i dolci rilievi dei monti Aravalli, coi loro minuscoli stagni presso le cui sponde la vegetazione si arricchisce rievocando in noi le immagini suscitate dalle letture di Kipling, siano la porta della torrida desolazione senza fine che segue. Qui infatti pulsa la vita, i colori e gli ornamenti si fanno ancora più vivaci e le genti più belle, con il sorriso sempre dipinto su visi bruno scuro. Nei campi, ordinatissimi, la vita degli uomini e degli armenti sembra essersi arrestata a secoli or sono, come ignorata dalle vicende moderne; e qui, lontano dalle città ormai 19

Pubblicata mercoledì 3 gennaio 1990, sempre sul quotidiano “Corriere Mercantile”. 226


snaturate, la gente sembra ancora genuina, spontanea: tutto ciò che i bambini chiedono al viaggiatore straniero è una penna, un “bon-bon”, o più semplicemente il suo nome, udendo il quale scoppiano a ridere: «Che buffo, che buffo!». I piccoli sono davvero tanti: salta subito all’occhio la differenza con i nostri Paesi “vecchi”, dove i bimbi ed il chiasso infantile sono spettacoli sempre più radi… Ci portiamo al di là di questa incantevole barriera naturale (la più antica del mondo dal punto di vista geologico) nel corso di un’altra notte trascorsa nell’insonnia: gli ammortizzatori, infatti, erano sconosciuti all’epoca dei maharaja, la linea ferrata è inoltre alquanto sconnessa e così in cuccetta sembra di essere su un setaccio: tutto salta per aria e la piccola cabina, al termine di ogni notte, appare un campo di battaglia. Quando, rassegnati e con occhi gonfi, liberiamo dai loro fermi le persianine in legno del nostro scompartimento, assistiamo ad uno spettacolo fantastico: una gigantesca ellisse infuocata si alza pigramente sul lontano orizzonte, dando a poco a poco contorni più definiti ad una sconfinata e uniforme distesa sabbiosa; con stupore riconosciamo ora sagome di buoi e capre raccolte intorno ai radi ciuffi d’erba ed ai secchi arbusti trasudati dalla sabbia, casolari di pastori, animali selvatici che sgambettano veloci tra le rare e basse dune, e cammelli che stancamente trascinano piccole cisterne d’acqua lungo piste invisibili. Un fervore di vita inimmaginabile per una simile ora del giorno (ma forse perché è la più fresca!), ma soprattutto per un luogo non a caso chiamato Marusthal, “Luogo della Morte”. 227


Allorché il “Palace on Wheels” fa sosta a Pokaran per dare la precedenza ad un altro treno (fin da Delhi il binario è unico), balzo giù dal mio vagone - l’ultimo, ovviamente! e mi lancio di corsa verso la testa del lungo convoglio, il quale però, quando mi trovo ancora a poco più di metà, riprende lentamente a muoversi; accelero incitato a gran voce dai tre divertiti addetti alla prima locomotiva che hanno intuito le mie intenzioni e scompaio infine tra i potenti vapori della motrice, mentre robuste braccia mi sollevano di peso a bordo. Qui mi ritrovo al centro di un autentico terremoto: tutto traballa, stride, sembra doversi sfaldare od esplodere in mille pezzi da un istante all’altro; per non andare a gambe all’aria devo tenermi avvinghiato ad una tubatura, mentre il continuo fischio di avviso agli abitatori del deserto di tenersi alla larga dalla strada ferrata perfora il cervello: un’ora più tardi scenderò alla stazioncina di Jatha-Chandan del tutto rintronato e annerito dal fumo e dal carbone, io che - ingenuamente - ero salito su tutto vestito di bianco! Dalla locomotiva sono comunque spettatore privilegiato di un paesaggio unico. Via via che il treno, arrancando, si spinge al suo interno, il deserto si fa sempre più sabbioso e disabitato. Ormai sembrano tenerci compagnia solo i pali in legno della corrente elettrica e una stretta rotabile asfaltata che corrono paralleli al binario; la strada, però, ad intervalli scompare sotto la sabbia, per riaffiorare poi qualche centinaio di metri più avanti. Solo qualche dromedario al pascolo, di tanto in tanto, denuncia una debole presenza umana occultatasi accuratamente dal sole. 228


Talvolta, in effetti, le sabbie sono disseminate di strane palle gialle: l’anziano capo-locomotiva, sempre proteso a scrutare il pericolo all’orizzonte e a prevenirlo suonando all’impazzata mentre i suoi due compagni sono impegnati l’uno a frantumare il carbone, l’altro a darlo senza posa in pasto ad una vorace caldaia che emana folate di calore infernale, mi spiega che si tratta in realtà di frutti sparsi dai pastori per le loro bestie, altrimenti qui prive di ogni sostentamento. Sono ormai le dieci infuocate quando su di un anomalo costone roccioso, a inutile sentinella della sconfinata distesa di dune in cui si trova sperduta, ecco di colpo ergersi possente una fortezza color sabbia. A prima vista si crederebbe ad un miraggio, o ad un incantesimo; ma la realtà supera ogni fantasia: allorché, lasciato il treno, superiamo la porta dell’incredibile cittadella, per un istante crediamo davvero di aver volato a ritroso nel tempo e di ritrovarci sbalzati di colpo in pieno Medioevo. A differenza degli altri centri, dove la raffinata architettura è appannaggio dei soli palazzi reali, qui ogni abitazione è un autentico merletto lavorato nell’arenaria gialla; l’intera città è cesellata in ogni suo angolo più recondito ed aggirarsi per il dedalo degli angusti vicoletti in cui si scompone è come vagare in una dimensione irreale. Ad ogni cantone degli Haveli (così venivano chiamati i bellissimi palazzi dei mercanti) cantastorie, musici (che usano tra l’altro lo “scacciapensieri”) e danzatrici (talvolta bimbe di soli pochi anni!) inscenano per il turista una folcloristica atmosfera da Età di Mezzo, in cui anche i lebbrosi ed i topi 229


di cui questo luogo è infestato a prima vista sembrano (ma purtroppo non sono) appropriate comparse. In effetti è stato proprio il “boom” turistico dei recenti anni ad aver strappato Jaisalmer alla sorte di città-fantasma cui pareva condannata. Fondata nel XII secolo da Rawal Jaisal (un capo rajput che amava proclamarsi discendente della Luna), essa divenne rapidamente un centro fiorentissimo: punto di passaggio obbligato per le carovane che univano l’India alla Persia, all’Arabia e al Mediterraneo, la città vide affluire in sé merci, conoscenze e idee tra le più differenti, il che rese possibile (qui come del resto altrove nel Rajasthan, regione di transito) lo sviluppo di un’elevata civiltà nonostante una natura tanto ostile. Tramontata l’epoca delle carovane, Jaisalmer si è di colpo ritrovata dimenticata da tutti, sola nel deserto con la sua terribile sete (il monsone si degna di spingersi fin quaggiù ogni quattro-cinque anni!). La città è stata così progressivamente abbandonata; i continui scontri a fuoco lungo la nuova, ravvicinata frontiera con il Pakistan hanno infine accelerato l’esodo. Poi la caccia all’ “esotico” disposta dal turismo occidentale e la scoperta negli anni ’70 di alcune pozze d’acqua nei pressi hanno persuaso i “superstiti” a restare: Jaisalmer ha così intrapreso la difficile strada del recupero sotto la nuova forma di città-museo. La ricordiamo con rimpianto quando, dopo altre dieci ore di sobbalzi notturni, sbarchiamo nella torrida ed un tempo bianca Jodhpur, oggi ridipinta di indaco per via della credenza popolare che tale colore tenga lontano gli insetti; ma non certo la fame, che scava i volti dei disperati in 230


violenta zuffa tra loro per accaparrarsi poche rupie d’elemosina all’uscita della stazione. Qui la stessa residenza del maharaja di Marwar (“Porta della Morte”, altro nome con cui Jodhpur veniva chiamata dai carovanieri per il fatto di essere l’ultima stazione di sosta prima del deserto) disturba: malriuscita emulazione dello stile vittoriano del padre-padrone britannico, per conto del quale gli ultimi raja governarono, l’Ummaid Bhawan Palace somiglia piuttosto ad un gigantesco ministero nazista, trasformato oggi in un tetro hotel. Riconcilia invece coi freschi ricordi il possente forte Mehrangarh, saldamente poggiato sopra un colle roccioso dal cui splendido isolamento si domina la convulsa città sottostante. Residenza reale più antica della precedente, affascina con i suoi principeschi arredi e gli aneddoti legati ai Signori che la abitarono; ed il vicino “crematorio reale” la dice lunga sull’influenza che - a dispetto della Storia - i maharaja ancora oggi esercitano su tanta parte della popolazione, la quale si ostina a reputarli di origine divina, delusa fors’anche com’è dal nuovo, lontano ed impersonale governo centrale. Lo splendido edificio che sorge sul luogo in cui i membri della famiglia reale bruciano le proprie spoglie mortali è curato da un custode che ogni giorno si premura di offrire i pasti alle fotografie dei re defunti ivi esposte; con il sopraggiungere della notte, poi, vengono chiusi tutti gli usci, affinché i sovrani possano “riposare”. E prima di intraprendere un viaggio, contrarre un affare o un matrimonio, gli abitanti della città salgono fin quassù per chiedere il loro 231


favore, legando fiocchi colorati alla lunga catena che li separa dagli “immortali”… All’alba successiva ad un’altra notte movimentata il treno ci consegna a uno sgangherato bus in attesa a Bharatpur. Dopo una fugace occhiata all’oasi ornitologica di Keoladeo (ex riserva di caccia del locale raja e ora asilo sicuro per oltre trecento specie di volatili) e un doveroso omaggio alla deserta Fatehpur Sikri (effimera città imperiale spopolata dalla sete) abbandoniamo il Rajasthan e ci avventuriamo tra le campagne lungo una sconnessa statale che ripropone lo sballottolamento del treno, alla volta della mitica Agra, capitale dello Stato dell’Uttar Pradesh. La vita nei campi che attraversiamo denuncia un’antica durezza, nonostante le campagne appaiano ben coltivate e floride: una capanna di frasche per dimora, mattonelle di sterco di vacca essiccate al sole come combustibile per cuocere e lo stagno come “wc” comune all’intero vicinato, nelle cui putride acque si lavano però anche i panni e insieme alle mandrie si cerca refrigerio nei giorni di maggior calura… Di tanto in tanto lungo la strada, là ove sono sorti piccoli punti di ristoro per viaggiatori, si creano ingorghi degni delle nostre più caotiche metropoli: i camionisti abbandonano infatti con noncuranza i loro mezzi al centro della carreggiata per aggirarsi senza fretta alcuna tra le piccole palafitte da cui fuoriesce un eterno, antico fumo di fritto. Agra, forse la più maleodorante delle città fin qui visitate, rafforza col suo caos e con i suoi raccapricci la nostra 232


sensazione di ingovernabilità di questo enorme, bellissimo ed infelice Paese: tale è infatti l’entità dei problemi che lo affliggono che anche il governo più attivo ed onesto non potrebbe alla fine non rassegnarsi e lasciare questi orrori liberi di seguire il loro corso naturale. Eppure, proprio qui ad Agra, famosa per i lavori in marmo dei suoi abilissimi artigiani, riposa sulla riva destra del fiume Yamuna un’autentica meraviglia: il Taj Mahal. Circondato da dolci giardini, delicato e leggero nonostante la sua imponente mole di marmo incastonato di pietre preziose, il bianco mausoleo in cui l’affranto imperatore moghùl Shah Jahan volle custodire la sua amatissima Mumtaz Mahal, morta all’atto di donargli un figlio, suscita una commozione di origine ignota, quasi che quell’addolorato amore palpitasse ancora, carezzasse ancora malinconico il sepolcro, colpendo il cuore di chi qui sosta affascinato. Per erigerlo occorsero ventimila uomini e ventidue anni di lavoro. Altrettanti a Shah Jahan ne sarebbero serviti per mettere in atto il suo progetto di una propria tomba in tutto simile a quella di Mumtaz, ma di colore nero, da innalzare dalla parte opposta dello Yamuna. Il tradimento del figlio usurpatore lo consumò invece in una cella del grande forte della città, da cui contemplò infelice, sino alla morte, il sepolcro della sua adorata; il quale, ammirato proprio dai bastioni dell’Agra-Fort, sembra galleggiare, per magia come sospeso, nella nebbiolina che salendo dal fiume lo avvolge. Shah Jahan fu infine seppellito là, accanto alla sua Mumtaz… 233


Fuori dalle mura del sogno ci attende di nuovo l’inferno. Allorché l’oscurità della notte avviluppa e confonde in sé ogni cosa, nascondendo alla vista quanto non si vorrebbe mai vedere e si spera di aver fin qui solo sognato in un incubo, ci avviamo infine verso il nostro treno, il quale ha intanto raggiunto Agra, da dove ricondurrà i suoi ospiti a Delhi dopo una settimana di viaggio. L’ultima notte sulla carrozza color avorio è piuttosto mesta. Ed il mattino successivo, all’atto del commiato, sinceramente dispiaciuti appaiono anche Anil e Azif, che con noi hanno legato forse più che con altri passeggeri; le due locomotive, infine, si staccano dal convoglio e salutano i loro ospiti con quel fischio divenuto ormai familiare: faranno ritorno in stazione, sbuffando allegramente, quella sera stessa, per guidare nuovi curiosi attraverso la magica “Terra dei Re”. Da parte nostra ci allontaniamo con il solito tassista imbroglione addentro le viscere di Delhi, alla volta di una nuova avventura in questo Paese così tanto diverso dal nostro e che si può forse anche discutere, ma non si può certo non amare.

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CLAUDIO LORETO - ATTIVITA' PUBBLICISTICA (Documenti disponibili sul sito web http://issuu.com/claudio_loreto/docs ) TITOLO dell'articolo (assegnato dalla Redazione della Testata) e Argomento

TESTATA

DATA DI PUBBLICAZIONE

Quotidiano CORRIERE MERCANTILE

20/08/1987

Mensile REFLEX

Agosto 1987

Mensile HISTORIA

Aprile 1988

Quotidiano CORRIERE MERCANTILE

02/04/1988

-

1989

REPORTAGES BHUTAN: UN VIAGGIO A RITROSO NEL TEMPO NEL PAESE DEL DRAGONE TONANTE (Bhutan) IL PAESE DEL DRAGONE TONANTE (Bhutan, con particolare riferimento alla sua Storia) ASSUAN: LA DIGA, I MISTERI, LE CANNE, LE MAGICHE PIETRE DEL SACRO NILO (Egitto) "GOOD MORNING, DELHI!" (New Delhi) ATTRAVERSO L'INDIA SUL VECCHIO TRENO DEI GRANDI MAHARAJA

02/01/1990 Quotidiano CORRIERE MERCANTILE

03/01/1990

Mensile QUI TOURING

Gennaio 1991

Mensile HISTORIA

Aprile 1991

Quotidiano IL SECOLO XIX

03/01/1992

Mensile CRAZY TIME

Gennaio 1993

IL PAESE DEL DRAGONE (Bhutan)

Mensile NEW AGE

Ottobre 1993

LA CITTA’ DEI DUE MONDI (Istanbul, l’Orient Express, il Pera Palace e i misteri di Agatha Christie)

Mensile NEW AGE

Maggio 1996

IN ORIENTE SI GRIDA ANCORA "MAMMA LI TURCHI!" (Turchia, 1996: la crisi politica e le questioni curda e cipriota)

Mensile HISTORIA

Luglio 1996

C’ERA RAMBO QUAGGIU’ (Viet Nam)

Quotidiano CORRIERE MERCANTILE

04/04/1989

ACCORDI DI GUERRA - I retroscena della Conferenza di Parigi (Cause della II Guerra Mondiale)

Quotidiano CORRIERE MERCANTILE

21/07/1989

UNA CITTA' INCANTATA NEL DESERTO DEL THAR (Rajasthan) LA TERRA DEL DRAGO (Bhutan) VIAGGIO NELLA TERRA DEI RE (Rajasthan, con particolare riferimento alla sua Storia) SUL TRENO DEI MAHARAJA (Rajasthan) PASSAGGIO IN INDIA (Rajasthan)

STORIA

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Mensile HISTORIA

Marzo 1990

Quotidiano IL SECOLO XIX

09/01/1993

Mensile HISTORIA

Febbraio 1993

COSI’ FIDEL ENTRO’ NELLA STORIA (L’assalto di Fidel Castro alla caserma “Moncada”)

Quotidiano IL SECOLO XIX

22/07/1993

IL SOGNO INDIANO DI NEHRU (Il progetto politico del Primo Ministro indiano Jawaharlal Nehru)

Quotidiano IL SECOLO XIX

27/05/1994

Mensile HISTORIA

Luglio 1994

"IL MIO SOGNO, UN'INDIA PIU' GIUSTA E MENO POVERA!" (La figura di Indira Gandhi dieci anni dopo il suo assassinio)

-

Ottobre 1994

ERO UNA BIMBA NELL’INFERNO DEI KHMER ROSSI (Cambogia: il Principe Norodom Sihanouk e i Khmer Rossi)

Mensile HISTORIA

Luglio 1995

Volume "Asia sconosciuta" (Edizioni Sonda, Torino, 1992)

24/11/1991

BRUCIA IL REGNO DEL DRAGO (La politica razziale in Bhutan)

Quotidiano IL MANIFESTO

15/12/1991

IL RE CATTIVO DEL POPOLO DEL DRAGO (La politica razziale in Bhutan)

Settimanale AVVENIMENTI

15/04/1992

"NOI DANNATI DELL'ASIA", RACCONTI DI GENTE IN FUGA (La politica razziale in Bhutan)

Settimanale AVVENIMENTI

12/08/1992

"PERSEGUITATI D'ASIA, IGNORATI DALL'EUROPA" (La politica razziale in Bhutan)

Settimanale AVVENIMENTI

17/03/1993

"INDIANI GO HOME", GUERRIGLIA IN KASHMIR (La guerriglia separatista islamica nell'Unione Indiana)

Settimanale AVVENIMENTI

06/10/1993

NOI, IN FUGA DALLA NOSTRA TERRA DEL DRAGO (La politica razziale in Bhutan)

Settimanale AVVENIMENTI

17/11/1993

SRI LANKA / E LE TIGRI RIPRESERO IL FUCILE (La guerra separatista dell'etnia Tamil)

Settimanale AVVENIMENTI

07/09/1994

CHANDRIKA E LE TIGRI, PACE E GUERRA NELLO SRI LANKA (La situazione nell'isola dopo l’elezione alla Presidenza di C.Kumaratunaga) INDIA / TRANQUILLE MINACCE DI GENOCIDIO TOTALE (Il potenziamento missilistico di India e Pakistan a metà degli anni ‘90)

Settimanale AVVENIMENTI

07/12/1994

Settimanale AVVENIMENTI

17/05/1995

SOLO LA FAME PIEGO' IL GENIO (La conquista romana di Siracusa) CENTO DI QUESTI ANNI PER LA BANCA D'ITALIA (La nascita della Banca d'Italia) AL SERVIZIO DELLO STATO (La nascita della Banca d'Italia)

UNA GUERRA PAGATA DAI CITTADINI (Il finanziamento della partecipazione italiana alla I Guerra Mondiale)

POLITICA ESTERA INTERVENTO AL CONVEGNO INTERNAZIONALE “L’ALBA DI PACE CHE NASCE A ORIENTE. UN CONVEGNO PER CONOSCERE E CAPIRE L'ASIA" (Firenze, Palazzo dei Congressi, 23-25/11/1991) (La politica razziale in Bhutan)


IL PACIFICO "MARE NOSTRUM"? (La contesa delle isole del Mare Cinese Meridionale)

Settimanale AVVENIMENTI

24/05/1995

L'ARDUA SCOMMESSA DI VO VAN KIET (La situazione socio-economica e politica del Viet Nam negli anni ‘90)

Settimanale AVVENIMENTI

07/06/1995

SRI LANKA / QUANDO LA GUERRA CONVIENE A TROPPI (La ripresa della guerra Tamil dopo l’elezione presidenziale di C.Kumaratunga)

Settimanale AVVENIMENTI

21/06/1995

LA SINISTRA GOVERNA, LA DESTRA APPLAUDE (Sri Lanka, la politica di Chandrika Kumaratunga)

Settimanale AVVENIMENTI

25/10/1995

BHUTAN / STORIE DI RAZZISTI E DEL "RE DEL DRAGO" (La politica razziale in Bhutan)

Settimanale AVVENIMENTI

24/01/1996

NELLA TENAGLIA TRA MILITARI E FONDAMENTALISTI (Situazione in Turchia dopo l’esito delle elezioni del dicembre 1995)

Settimanale AVVENIMENTI

20/03/1996

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FORME GIALLE IN “BARELLA” ALLA FIERA DEL FORMAGGIO (Il mercato del formaggio di Alkmaar)

Quotidiano CORRIERE MERCANTILE

19/11/1987

TRA MITO E LEGGENDA IL PAPIRO DI SIRACUSA

Quotidiano CORRIERE MERCANTILE

16/01/1988

SOTT'ACQUA A CACCIA DI SOMMERGIBILI RUSSI (Lo stato della flotta sommergibilistica italiana a metà degli anni ‘80)

Quotidiano CORRIERE MERCANTILE

20/02/1988

Mensile REFLEX

Febbraio 1988

Notiziario periodico della BANCA D'ITALIA

01/03/1992

Sito w eb ALTITUDINI.IT

29/12/2013

Quotidiano IL DIARIO DI SIRACUSA

1978

Quotidiano LA SICILIA

21/09/1979

ABBAGNALE: REMANDO VERSO LA LEGGENDA

Quotidiano CORRIERE MERCANTILE

31/10/1987

ENZO MAIORCA TENTERA’ IN ESTATE L’IMMERSIONE SOTTO QUOTA CENTO

Quotidiano CORRIERE MERCANTILE

08/01/1988

LA SITUAZIONE POLITICA NEL SUBCONTINENTE INDIANO DOPO L'ASSASSINIO DI RAJIV GANDHI

VARIE

ALKMAAR (Il mercato del formaggio di Alkmaar) IL 1992 A GENOVA (Genova e il 500° anniversario della scoperta dell’America) SULLA SOGLIA DEGLI INFERI (Racconto di un'ascesa ai crateri sommitali del vulcano Etna)

SPORT PER IL CANOTTAGGIO SIRACUSANO LA STAGIONE S’E’ CHIUSA CON UN BILANCIO LUSINGHIERO

DOMANI AL CIRCOLO JUVENILIA LA PREMIAZONE DEI CANOTTIERI


L’ODISSEA DI MAIORCA - “CHIAMERO’ ANCHE I VOGATORI DI GENOVA”

Quotidiano IL SECOLO XIX

31/08/1991

Volume presso la BIBLIOTECA CIVICA "BERIO" di Genova

Ottobre 2005

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Marzo 2006

(Progetto di ripetizione del viaggio di Ulisse) LE DUE "SOCIETA' CANOTTIERI GENOVESI" E LE GRANDI REGATE DELL'OTTOCENTO A GENOVA CARTE SULL'ANTICA ATTIVITA' REMIERA DEL CIRCOLO CANOTTIERI "ORTIGIA"

STORIA DEL CANOTTAGGIO Documenti disponibili nella sezione "Storie di remi ed eroi" del sito web del "Raid Remiero Genova-Roma 2008": http://raid.informare.it/


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