CLAUDIO LORETO - L'ULTIMA CRODA

Page 1

CLAUDIO LORETO

L’ULTIMA CRODA ROMANZO



CLAUDIO LORETO

L’ULTIMA CRODA

Romanzo



A Nicoletta



“Raccontare, parlare, è molto difficile. È sempre duro arrivare così vicino all'essenza della vita e poi, dopo, ritornare indietro e sentirsi imprigionati nelle strettoie del linguaggio, completamente inadeguato a tradurre in simboli i concetti e la totalità dell'esperienza vissuta. Un'esperienza lunga e sofferta… mi ha permesso di capire una verità fondamentale: alla base di tutto, di ogni azione che l'uomo compie, deve esserci sempre l'Amore”. Renato Casarotto (Alpinista, Arcugnano,15 maggio1948 - K2,16 luglio1986)



INDICE PARTE PRIMA: DAMIANO

La decisione La lite L’opinione

Pagina

3 6 10

PARTE SECONDA: MARCO

L’imprevisto L’amore L’incertezza L’epilogo L’apparizione

15 29 34 36 60

PARTE TERZA: DAMIANO, ancora.

La raffazzonatura La perfezione L’immensità Il rimpiazzo Il déjà-vu Le fotografie La sorpresa

73 75 77 79 86 100 108

PARTE QUARTA: GINEVRA

Il nuovo imprevisto Il nuovo corso

113 136



PARTE PRIMA

DAMIANO

1


2


I

La decisione

Già da qualche tempo il piccolo computer del simulatore di voga installato nella palestra del Rowing Club Genovese gli certificava, senza il minimo tatto, che il suo fisico stava progressivamente perdendo giri; nella cerchia delle proprie conoscenze, poi, la gente aveva preso - suo malgrado - lo spiacevole “andazzo” di congedarsi dal mondo con crescente insistenza. Insomma, alla vigilia dei cinquant’anni Damiano Furlan allargò le braccia prendendo atto che forze e tempo già principiavano ad assottigliarsi nella parte superiore della sua immaginaria clessidra. Non voleva avere rimpianti e dunque doveva spicciarsi: nel proprio curriculum alpinistico mancavano ancora un paio di pezzi importanti, anzi due veri sogni: il Dente del Gigante, nel Massiccio del Monte Bianco, e la Croda dei Toni (detta pure Cima Dodici) nelle Dolomiti di Sesto di Pusteria. 3


Ad essere onesti, le ragioni che lo spingevano ad accelerare i tempi della conquista di quelle vette (e dopodiché piantarla lì una volta per tutte con le arrampicate) erano anche altre. Cecilia, la moglie, viveva con apprensione le sue scappatelle montane: così al termine di ogni discesa, prima di andare con i compagni di cordata a caccia di un bar in cui brindare a birra al successo della giornata, Damiano si premurava di tranquillizzarla al cellulare, informandola che anche quella volta tutto era andato a meraviglia; per quanto solitamente più indifferente, dal canto proprio la figlia Sofia di tanto in tanto s’inalberava con la madre: “Non devi consentire a papà queste pazzie!”. In breve, lo scalatore non voleva più causare ansie ai suoi. Anche perché nel tempo effettivamente erano andate moltiplicandosi le volte (taciute ai familiari) in cui la fortuna gli aveva dato una mano: quindi era davvero il caso di non tirare troppo la… corda! E poi stava iniziando - perché non ammetterlo? - ad annoiarsi un po’. L’alpinismo è certo molto eccitante, ma obbliga a concentrarsi su dove poggiare piedi e mani; ed anche in vetta, generalmente, il tempo per godersi il mondo attorno è piuttosto limitato: ad incalzare, infatti, v’è sempre una lunga e spesso complicata discesa. 4


Così l’armeggiare coi moschettoni non riusciva a suscitare appieno in lui le emozioni regalategli invece dai trekking solitari lungo sentieri selvaggi, dentro l’immenso Silenzio: là i suoi pensieri prendevano a scorrere più lenti e nitidi, li poteva come leggere, e dialogava finalmente con la propria anima; un solo suono umano, e l’incantesimo si spezzava. Durante quelle esplorazioni egli non finiva mai di stupirsi (e talvolta commuoversi) di fronte alle Grandiosità che via via attraversava; soprattutto, amava soffermarsi un po’ sulle rive dei ruscelli ad ascoltare il gioioso gorgoglio dell’acqua oppure, disteso su un prato, osservare le fronde ed i fiori danzare con leggerezza sulle note del vento: percepiva allora la sconfinata forza della Natura, la bellezza piena della Vita, e se ne inebriava, provando lampi di indescrivibile felicità. Sì, sulle montagne era più bello… “viaggiare”. Così, nell’autunno dell’anno Duemila, un tale intreccio di ragioni indusse Damiano a ripromettersi di mettercela tutta per portare a conclusione i suoi due propositi entro l’estate dell’anno successivo; dopodiché avrebbe regalato a qualche amico la propria attrezzatura alpinistica (giusto per ostacolare eventuali, successivi ripensamenti…). In seguito, dunque, per lui solo escursioni e, tutt’al più, “vie ferrate”. 5


II

La lite

“Smettila, per favore! Non voglio più sentirtelo dire: porta male!” - sbottò sollevando gli occhi al cielo Cecilia quando a tavola il marito ritirò fuori il discorso che, una volta toccate le sommità dei suoi due “capricci”, avrebbe smesso di fare la lucertola lungo le rupi e di conseguenza di correre pericoli. Non era assolutamente superstiziosa, tuttavia gli sottolineò che a forza di ripetere quella tiritera avrebbe appunto finito con l’attirarsi la disgrazia addosso. “Ah, che sciocchezza!” - commentò Damiano “Dovresti anzi essere contenta delle mie intenzioni: la domenica finalmente sarai serena, mentre me ne starò stravaccato sul divano in pantofole e con il telecomando in mano… Guarda che lo faccio soprattutto per te: a me - già lo sento - non seminare più di “rinvii” le rocce mancherà un sacco!”. 6


“Infatti, conoscendoti, so che dopo poco ricomincerai!” - controbatté la moglie - “E poi non è certo davanti al televisore che ti voglio: io desidero che riprendiamo a fare delle cose insieme. Viaggiare un po’, ad esempio… Non potresti continuare a giocare solo coi remi, eh?”- concluse infine. In effetti quella della montagna era una passione un po’ insolita per un tipo cresciuto in riva al mare nonché fanatico (e ottimo) canottiere; anche se, a dire il vero, da bambino la vacanza di gran lunga più felice Damiano l’aveva vissuta sulla Sila e la serie televisiva che più lo aveva affascinato vedeva protagoniste le Giubbe Rosse e le sconfinate foreste canadesi: già allora, insomma, c’era da sospettare che si trattasse di un marinaio… anomalo. Era stata però proprio la moglie ad avere dato fuoco alle polveri: desiderosa di rivedere i dolci pascoli dolomitici che avevano deliziato le villeggiature della sua infanzia, Cecilia aveva a lungo insistito affinché la sua giovane famigliola trascorresse una settimana di ferie in Alto Adige (“… oltretutto il cambiamento d’aria farà bene alla bambina”, sosteneva). Damiano, in principio non granché interessato, alla fine un’estate aveva voluto accontentarla; e quando d’emblée si era ritrovato tra i Monti Pallidi ne era rimasto letteralmente folgorato! 7


Da allora la Val Badia in particolare era divenuta per loro lo “Shangri-La” nel quale rifugiarsi ogniqualvolta fosse possibile per rigenerare anima e cuore, per ritrovare se stessi; e, dagli e ridagli, era stato inevitabile per un tipo come Damiano approdare infine all’alpinismo e non potere poi più fare a meno della sensazione di assoluto sbalordimento - da conquistare metro dopo metro - che lassù gli suscitavano le distese a perdita d’occhio di picchi aguzzi. Ma la moglie, pur intuendo la bellezza di quelle emozioni, gli rimarcava che il prezzo che poteva essere facilmente chiamato a pagare per esse era troppo alto. “Accidenti al giorno in cui mi è saltato in mente di trascinarti in montagna…”. “Su, tesoro, ancora solo il Gigante e la Dodici, e poi ci faremo un bel viaggetto: ti piacerebbe tornare in Normandia?”. “Ma… continui?” - si irritò Cecilia. “Stai serena, non mi accadrà nulla! Comunque, nel “caso che…”, voglio che tu ingaggi una delle guide alpine di Corvara per fargli disperdere al vento le mie ceneri dalla vetta della Cima Grande di Lavaredo” - la punzecchiò lui per divertirsi un po’ ma, al tempo stesso, parlando terribilmente sul serio. “Piantala!” - si adirò lei, alzandosi da tavola e andando a chiudersi in un’altra stanza dopo avere 8


sbattuto violentemente la porta dietro di sé - “E non ti fissare con quelle due montagne” - gli strepitò da lì dentro - “Credi che non sia già andata a cercarle su Internet? E’ roba da folli! Tu non ci vai. Punto!”. “Altroché se ci salirò!” - replicò il marito dalla cucina. “Sei un uomo infantile ed egoista!” - gli gridò la donna, facendo poi scendere il silenzio in casa. Damiano finì di cenare da solo (quella sera la loro figlia era fuori - meno male! - a lezione di danza). “Cavolo se s’è arrabbiata, stavolta” - pensò. E immaginava già che la moglie, quando sarebbe giunto per lui il momento di tirare fuori ed allineare sul tavolo tutta l’attrezzatura per i necessari controlli, gli avrebbe messo su un bel muso; ma sapeva anche che lo avrebbe infine lasciato andare, infilandogli in una tasca dello zaino la sua silenziosa, amorosa benedizione. “E’ un vero angelo, non me la merito!”, ammise fra sé e sé l’uomo.

9


III

L’opinione

Genova, 8 novembre 2000. “Allora cosa ne pensi?”, do-

mandò Damiano a Ermanno, un rodato scalatore, davanti agli invitanti spaghetti ai frutti di mare per i quali andava famosa la trattoria “Da Zia Adriana”, dove i due si erano dati appuntamento quella sera. “Per gli alpinisti con la A maiuscola le “vie normali” alle tue due vette non sono salite spinose” - commentò quello mentre mulinava la forchetta nella pasta - “Però per chi come te è approdato piuttosto tardi all’alpinismo, beh, esse costituiscono senza dubbio una gran bella sfida! E comunque richiedono, a chiunque, un notevole impegno fisico: dovrai dunque prepararti molto bene atleticamente, ed esercitarti in falesia lungo linee con grado di difficoltà dal quarto in su” - concluse, gustandosi poi appieno il suo boccone. “Oh, sti spaghi sono davvero una squisitezza…”. 10


Ermanno era un personaggio alquanto insolito: nel modo di acconciarsi e ragionare ricordava un altro bravo alpinista della Valle del Vajont che ultimamente si stava affermando anche come scultore e scrittore, tanto da cominciare ad essere conteso dai talk-show. Ad ogni modo, risultava una persona estremamente generosa e Damiano era già andato qualche volta in montagna con lui. “Ti andrebbe di portarmi tu sul Dente?” - domandò il canottiere, sapendo che il suo commensale conosceva bene quel campanile obliquo avendolo già salito tre volte. L’altro ghermì il proprio bicchiere con una delle sue mani forti come tenaglie e con calma sorseggiò il delizioso vermentino di Gallura che avevano ordinato. “Condizioni meteorologiche permettendo sì, volentieri!” - rispose infine, mentre provvedeva a riempire nuovamente di vino il calice ormai vuoto - “Tu però devi arrivarci ben determinato, sia chiaro. L’ultima volta il mio “secondo” si è fatto acchiappare dalla fifa e i tempi allora si sono dilatati a dismisura; così durante la fase di rientro la nebbia, prima lontanissima, ci ha raggiunti: non vedevamo oltre la punta degli scarponi, bastava un niente a smarrire la traccia e poi andare a finire in fondo ad un crepaccio o a volar giù da uno strapiombo improvviso. Alla fine, vuoi un po’ l’istinto 11


vuoi un po’ la fortuna, siamo riusciti a rientrare al Rifugio Torino…”. “Facciamo per giugno?”. “Uhm, è possibile, se il verglas si sarà squagliato abbastanza”. Per la Croda dei Toni, invece, come pensi di organizzarti?”. “Ho già ragionato telefonicamente della cosa con Bruno, la mia guida di fiducia in Val Badia: l’idea è di salirla in luglio”. “Sicuramente ti porterà su solo se le previsioni meteo saranno ottimali: il toponimo “Toni” sta per “Tuoni”, lo sai?”. “Sì, certo” - rispose Damiano. Cima Dodici è infatti una croda solitaria, nota per attirare su di sé come una calamita ogni possibile temporale a zonzo nei suoi paraggi: il rischio di ritrovarsi in men che non si dica nel mezzo di una tempesta lungo la sua interminabile e faticosissima via normale (la seconda più difficile di tutte le Dolomiti, a detta degli esperti) teneva così alla larga da essa molti rocciatori anche consumati. Il resto della serata venne trascorsa dai due a discutere, tra un gamberone fritto e l’altro, delle epiche quanto controverse vicende della conquista italiana del K2 nell’oramai lontano 1954. 12


PARTE SECONDA

MARCO

13


14


IV

L’imprevisto

Ciascuno di noi ha impresse indelebilmente nella memoria delle date particolari, legate ad avvenimenti fondamentali della nostra esistenza. Così il 16 novembre del 2000, strappato al sonno dall’odioso cicalio della sveglia, un uomo si sollevò dal letto con già dentro un senso di mestizia che si trascinò poi dietro per l’intera giornata, trascorsa in ufficio in silenzio oppure rispondendo con scarso garbo ai colleghi che osavano rivolgergli la parola. Gli accadeva, puntualmente, ormai da ventiquattro anni.

Bologna, 15 novembre 1976. Sgomitando, il giovane si

fece largo tra gli studenti stipati nel cortile della Facoltà di Lettere dove si stava tenendo un’infiammata assemblea indetta da “Autonomia Operaia”, attivissimo movi15


mento della sinistra extraparlamentare; semiasfissiato dalla cappa di fumo nauseabondo generata da centinaia di scadentissime sigarette, alla fine riuscì a raggiungere il palco (in realtà una vecchia e scassata scrivania) sul quale degli scalmanati si avvicendavano a sbraitare dentro un megafono sfiatato e dove avrebbe dovuto trovare (così almeno gli aveva detto un tipo scorbutico infilato dentro un logoro eskimo) la persona che faceva al caso suo. “Ehi, scusate!” - gridò per farsi udire nel baccano generale dal gruppetto di ragazzi affaccendati in varie attività intorno alla misera tribuna - “Cerco il coordinatore della redazione di Radio Alice!”. Una tizia che, dandogli le spalle, era inginocchiata sopra alcuni scatoloni da cui estraeva ciclostilati da distribuire ai presenti si voltò e si tirò su. “Sono io” - disse - “In cosa posso aiutarti?”. Il giovane ammutolì, non tanto in quanto si aspettava di dovere parlare con un uomo (chissà poi per quale ragione), bensì perché quella ragazza era semplicemente… bellissima! “Ah, sì” - farfugliò dopo qualche buon istante, sforzandosi di recuperare contegno - “Io, ecco, volevo sapere se può tornarvi utile una mano… alla radio, intendo dire. Ho un po’ di esperienza nel campo”. “Ma tu chi sei?”. 16


“Hai ragione, non mi sono nemmeno presentato” - si scusò lui - “Mi chiamo Marco, Marco Drovandi. Sono iscritto alla facoltà di giurisprudenza”. “A vederti direi che sei un fuori corso”. “No, in realtà sono una matricola. Il fatto è che subito dopo avere finito l’Istituto Nautico mi sono imbarcato sui mercantili, navigando così per sei anni; ma quella vita non faceva per me, quindi ho deciso di riprendere in mano i libri, sovvertendo i miei interessi: ora vorrei diventare un avvocato”. “Istituto Nautico… Quindi non sei di Bologna”, osservò lei. “No, vengo da Fano”. “E come mai non ti sei iscritto all’Università di Urbino?”. “Avevo voglia di aria nuova, di cambiare “giri”; di nuovi stimoli, insomma”. “E qui come ti mantieni?” - domandò l’altra mantenendo pure lei sempre alto il tono della voce, altrimenti sovrastata da quella metallica dell’urlatore del momento. “Beh, sai, come ufficiale di coperta non si guadagna male, tanto più che a bordo poi non si spende nulla: insomma, ho messo da parte un po’ di soldi” - spiegò Marco - “Inoltre qui ho già trovato un piccolo lavoro in una tipografia; mi impegna solo tre, quattro ore al 17


giorno: mi frutta dei pasti decenti e mi lascia sufficiente tempo per studiare. Semmai poi proprio non dovessi stare dentro le spese” - aggiunse - “un nuovo imbarco temporaneo lo rimedio immediatamente”. Un improvviso boato di approvazione interruppe per qualche istante la conversazione: l’arringatore di turno aveva appena proposto di occupare la facoltà. “E quali esperienze di radio avresti?” - riprese poi la ragazza. “Terminato di navigare, l’estate scorsa ho condotto un programma fisso in un’emittente della mia città”. “Che genere di programma?” - incalzò lei. “Beh…” - esitò lui, arrossendo un po’ - “Ok, te lo dirò, però promettimi di non sfottermi: presentavo e poi commentavo brani di musica leggera”. “E cosa piazzavi? Canzoni dei Pooh?” - lo burlò invece quella, divertita. “Ecco, hai riso lo stesso … Comunque” - si affrettò a sottolineare Marco - “così ho imparato a comunicare con la gente attraverso un microfono. Senti, ci terrei sul serio a fare qualcosa con voi!”. “Guarda, adesso ho davvero parecchio da fare” - tagliò corto lei - “Ne riparliamo in un altro momento; rifatti vivo più in là. Anche perché ci sarebbe prima da capire qual’é il tuo esatto pensiero politico”. Poi però, di fronte alla lampante delusione dipintasi sul viso del gio18


vane, si intenerì. “Vabbè, dai, restiamo d’accordo così: fai un salto alla radio già questo pomeriggio - intorno alle sei, direi - e ti formi intanto un’idea di come funziona lì da noi; dopodiché, se sarai ancora interessato, fisseremo un incontro con Lorenzo, il responsabile dell’emittente per questo semestre. Un’ultima cosa: alla porta i compagni potrebbero dimostrarsi diffidenti, temiamo infatti “visite” da parte dei fascisti; dì loro che ti sta aspettando Milena”. “Non mancherò. A stasera, allora!” - sorrise soddisfatto Marco mentre si stringevano la mano. Il giovane rinuotò quindi a ritroso nella turbolenta calca studentesca, un po’ perplesso però; l’ “abboccamento” era infatti sì riuscito, ma con una nota “fuori posto”: questa Milena. La ragazza, dal canto suo, tornò ai propri cartoni con un sorriso compiaciuto sulle labbra: fisicamente davvero niente male, quel marittimo marchigiano! In realtà Marco era di Trieste, aveva frequentato il liceo classico e dopo la maturità aveva fatto tutto tranne che navigare. Questi “dettagli” però per lui a Bologna erano tutti da… dimenticare, cancellare. Bisognava infatti che nella bella e goduriosa città emiliana la sua vita assumesse un corso totalmente inedito: egli doveva diventare un 19


attore dello storico tentativo di traghettamento allora in atto ad una società supposta come più giusta; un rivoluzionario, insomma. Seppure soltanto agli occhi altrui. A tal fine l’ “Autonomia Operaia” costituiva il movimento ideale: il più vivace, quello che più consentiva di esprimersi e di allacciare rapporti; Radio Alice ne era la “voce” bolognese. Ma sul finire di quel lunedì pomeriggio a spingere Marco (alquanto teso e con l’occhio continuamente sull’orologio per assicurarsi di non essere in ritardo) in direzione del numero civico 41 di Via del Pratello (dove aveva sede l’emittente) non erano più tanto le chances di introdursi nel “giro”, quanto gli stupendi occhi verdi che aveva incrociato al mattino e che dentro la testa non lo avevano poi più mollato per tutto il resto della giornata. Anche se non intendeva ammetterlo. Oltre l’uscio della soffitta era un caos di voci e Marco dovette bussare energicamente più volte prima che qualcuno là dentro realizzasse la presenza di un seccatore alla porta. “Milena, c’è qui uno che ti cerca!” - gridò la mezza tacca occhialuta che si era alla fine degnato di schiudere la porta mantenendo attaccata la catenella di sicurezza e che ora lo stava studiando da capo a piedi, bloccato lì sul pianerottolo. 20


“Fidati, non sono un fascista!” - lo punzecchiò Marco, mentre dentro se la rideva della grossa (“Se solo tu immaginassi chi hai di fronte, fesso…”). Alle spalle del piccolo guardiano infine spuntò una figura femminile. “Valter, è tutto a posto” - rassicurò Milena rivolta a quello che continuava a guardare lo sconosciuto con istintiva antipatia. “Dai, su, entra” - disse poi sorridente al nuovo arrivato, prendendolo sottobraccio; quest’ultimo rimase un po’ sorpreso da quel comportamento così confidenziale, ma si lasciò guidare più che volentieri in tal modo nelle stanze del sottotetto per essere presentato via via allo sproporzionato numero di persone che lo affollavano: quelle, impegnatissime com’erano (chi batteva testi su vecchie macchine dattilografiche, chi ciclostilava oppure approntava striscioni e bandiere, e tutto dentro la solita soffocante nebbia da cicche), gli rivolgevano un simpatico ma fugace ciao per poi rituffarsi immediatamente nella propria occupazione. Kefiah attorno al collo e jeans sdruciti lì sembravano essere l’abbigliamento d’ordinanza; Marco non poté fare a meno di notare che quel genere di calzoni però a Milena stava maledettamente bene! Le pareti erano ricoperte da manifesti di Ho-ChiMin, Che Guevara e altri miti della lotta contro l’imperialismo statunitense. In un angolo ecco poi la radio, che pareva antidiluviana: seduto dietro ad essa un tipo 21


corpulento e barbuto si accalorava madido di sudore sul microfono,vomitandovi dentro slogan anticapitalistici e anatemi contro il “nazista” Francesco Cossiga (l’allora Ministro degli Interni), le forze dell’ordine “serve” del regime e i “revisionisti traditori” del Partito Comunista Italiano. “E’ il trasmettitore di un carro armato americano della Seconda Guerra Mondiale” - spiegò Milena “Certo, è vecchio, ma funziona ancora benissimo”. “Perché il nome Alice?” - chiese Marco. “Beh, perché l’Alice protagonista della fiaba di Lewis Carroll raggiunge un mondo pieno di meraviglie: sogniamo tutti una simile fortuna, no?”. “Com’è fatto il vostro palinsesto?”. “Non ne abbiamo uno fisso. Mandiamo in onda un po’ di tutto: analisi politiche, commenti ai fatti del giorno, ma anche brani di libri, poesie, favole, addirittura ricette; e naturalmente parecchia musica, anche classica. Niente pubblicità: rimaniamo così una radio libera, nella quale c’è spazio per tutti i compagni che abbiano qualcosa di socialmente utile da comunicare. E tu, invece, come pensi di poterci dare una mano?” - chiese la ragazza al termine di quel rapidissimo tour, poggiando le spalle contro un muro sul quale era inchiodata una bandiera cubana un po’ ingiallita. 22


“Di preciso ora non saprei… A scuola dirigevo il giornalino d’istituto; avevo pure iniziato a buttare giù un libro, rimasto poi ovviamente incompiuto come del resto molte altre cose. Non scrivo male, sai. Potrei quindi preparare dei testi: seguire ad esempio le assemblee e redigerne un resoconto, da leggere dopo alla radio; oppure fare la cronaca dei cortei “in diretta”, collegandomi a più riprese alla vostra regia dalle cabine telefoniche disponibili lungo il percorso: è così che fate, no?”. “Proprio così”. Marco tirò poi fuori delle altre idee, qualcuna pure parecchio strampalata dato che non stava più seguendo granché il filo dei propri ragionamenti; dentro la sua testa infatti il pensiero dominante ormai era: “Dio, quanto è bella!”. Milena era di media statura, perfetta nelle proporzioni. I biondi capelli a caschetto contornavano un viso di una bellezza, come dire,… sì, angelica; le sue labbra morbide e sensuali effondevano una voce dolcissima che comunicava molta femminilità, così come le sue movenze aggraziate (da ballerina qual era, del resto). Con quegli occhioni color verde mare, poi, imbambolava.

23


D’altra parte anche la ragazza non è che stesse soppesando tutto quello che l’altro le sciorinava; la sua attenzione infatti andava concentrandosi sempre più sull’interessante volto di Marco: lo esplorava, e si sentiva via via fortemente attratta da lui. Qualcosa era effettivamente “scattato” in lei quella mattina all’Istituto di Lettere, al momento dell’arrivederci: forse era stato per colpa, viceversa, dell’intensa luminosità degli occhi del giovane. “D’accordo” - disse però ad un tratto, scuotendosi da quello stato di sospensione e scacciando via da sé come stravaganti le sensazioni che le si erano accese dentro - “Mercoledì sfileremo a fianco degli operai della Menarinibus posti in cassa integrazione. Butterai giù tu il racconto della manifestazione, poi lo rivedremo insieme e l’aggiusteremo prima di mandarlo in onda. Se - come dici - hai i numeri, dalla volta successiva agirai in piena autonomia”. “Scusa, ma quanti anni hai?” - domandò Marco. “Ventidue. Perché?”. “Beh, non ti nascondo che dovere essere valutato da una più piccola di me un po’ mi infastidisce…”. “Un po’ di umiltà no, eh?” - lo canzonò Milena. “E l’esame “politico”, quello non me lo fai più?”. “Capirò da cosa scriverai”. “Ed il colloquio con il capo?”. 24


“Lorenzo stasera non è venuto, ma prenderà per valido quanto gli riferirò io: ha un’assoluta fiducia in me”. Poi sottovoce, per non farsi sentire intorno e con tono un po’ civettuolo, la ragazza aggiunse: “Sai, s’è preso una cotta per me…”. “Ricambiata?” - scappò di chiedere a Marco, inaspettatamente punto da quella confidenza. “Ma no, che dici?” - rise lei. “Cos’è sta fregola, adesso? - si domandava il giovane lungo la strada che lo riportava a casa (un bilocale striminzito ma dignitoso un po’ distante dal centro), con le mani cacciate dentro le tasche dei pantaloni ed il colletto della giubba tirato su per ripararsi dal freddo pungente - “Ok, Marco, ti piace. E molto. Ma l’hai appena conosciuta, non sai nulla di lei. Probabilmente è come tutte le “compagne”: una stronza, fattelo dire!”. Parlava a se stesso con distacco, come se si trattasse di un’altra persona, per meglio costringersi a ragionare. “Con quello che ti attende ci manca solo una bella sbandata! Oltretutto sicuramente non ricambiata… Pensa ad altro, amico!”. Nonostante quel personalissimo e saccente grillo parlante, le sue gambe però fecero dietro-front e così si ritrovò di nuovo davanti al portone del vecchio palazzo che aveva lasciato un’ora prima. A far cosa? Nemmeno 25


lui lo sapeva; si mise semplicemente ad aspettare giù in strada, battendo di continuo i piedi in terra affinché non gelassero. Ma per quanto tempo avrebbe fatto il… ridicolo? Magari quelli lassù facevano notte fonda! Invece dopo appena mezz’ora l’uscio si aprì e dall’edificio uscì proprio lei. Sola, oltretutto (che fortuna!). “E tu che ci fai qui?” - chiese sorpresa Milena a quello fermo lì con l’aria da citrullo. “Senti, pensavo di… beh, mi chiedevo se… oh, insomma, ho fame, e suppongo che anche tu ne abbia: ti andrebbe una pizza?” - le propose infine tutto d’un fiato Marco. “Che cosa?” - rispose quella sconcertata, piegando la testa da un lato e con sulla bocca una smorfia che significava la pretesa di una spiegazione - “Ci siamo scambiati quattro parole e tu già provi a rimorchiarmi?”. “Hai ragione, perdonami, è un invito fuori luogo” tentò di rimediare lui, rendendosi tra l’altro improvvisamente conto (come aveva potuto non considerarlo prima?) che stava mettendo a repentaglio la connessione che era appena riuscito a stabilire con Radio Alice - “Spero soltanto di non averti offesa, me ne dispiacerei moltissimo. Allora ciao, ci si vede. E scusami ancora…”. Quindi, mortificato, fece per andarsene. “Accetto!”. 26


“Accetti… cosa?” - si bloccò Marco. “Il tuo invito. Sì, ho voglia di una pizza. Paghi tu, naturalmente!” - replicò Milena, ridendo: con quella cera da cucciolone bastonato il ragazzo, oltreché divertirla, le aveva involontariamente appena rivelato che dentro covava qualcosa nei suoi confronti. Lei lo portò in un locale “proletario”, dunque molto alla buona e tuttavia pulito ed intimo. Parlarono, parlarono, e risero tantissimo, e avrebbero continuato a farlo se verso l’una di notte, ormai da un bel po’ i soli clienti, il proprietario non li avesse praticamente messi alla porta (per loro il tempo era invece come volato!). E quando giunti sotto casa della ragazza (un piccolo appartamento che essa divideva con due amiche) i due stavano ormai per salutarsi, Marco soffocò il suo grillo: prese la donna tra le braccia e la baciò, a lungo. Poi fu un fiume in piena di dolcissime parole. Alla fine Milena, con il cuore che le batteva forte nel petto e i lucciconi agli occhi, gli sussurrò: “Non ti prendere gioco di me, Marco. Non mi ferire. Ti prego”. Al sorgere di quel 16 novembre era dunque nato, improvviso e dirompente, un grande amore, destinato a segnare per sempre la vita dei due giovani. Mentre faceva ritorno al proprio alloggio Marco scoppiava di felicità; avrebbe voluto mettersi a saltare, 27


cantare, svegliare tutti gli abitanti delle vie che stava attraversando e gridare loro a squarciagola: “Sì, lei mi vuole!”. Nel contempo, però, un inquietante interrogativo prese ad allungarsi come un’ombra sul paradiso nel quale egli si stava librando. “Bel casino che ho combinato! Adesso come faccio con il mio capo?”. E nella sua mente riecheggiarono le ultima parole di lei: “Non mi ferire”. Le stesse che ora, a ventiquattro anni di distanza, erano tornate ad angustiarlo.

28


V

L’amore

Gennaio 1977. Dietro la facciata della spavalda e batta-

gliera contestatrice del “sistema” si celava in realtà una ragazza tenera e sensibile, refrattaria tra le altre cose all’esortazione del Movimento all’ “amore libero” perché invece in attesa (un po’ puerilmente) del cosiddetto “’uomo della propria vita”: anche se si rifiutava di riconoscerlo, il perbenismo borghese della famiglia da cui proveniva (padre direttore di banca, madre insegnante di lettere) l’aveva infatti forgiata. Con i propri genitori (che non approvavano le sue convinzioni politiche) Milena era da alcuni anni in acceso conflitto su ogni questione, ma in realtà voleva loro un bene immenso ed ogni volta che poteva correva da essi, a Imola, per farsi coccolare un po’; i suoi dal canto loro vivevano in forte apprensione per via dell’ambiente esagitato che la loro unica figlia adesso fre29


quentava, temendo che finisse col cacciarsi in qualche guaio. Nell’Autonomia Organizzata coesistevano due differenti anime: da un lato c’erano i cosiddetti “indiani metropolitani”, coloro cioè che si reputavano emarginati come i pellirosse d’America e che pertanto protestavano (certo con rabbia spesso cieca) per strappare semplicemente dei diritti legittimi, e poco più; dall’altro chi riteneva invece di dover raccogliere il testimone della rivoluzione proletaria oramai abbandonato dal Partito Comunista Italiano e di passare dunque alla lotta armata. A Bologna, dove si era iscritta alla Facoltà di Medicina spinta dalla smania da crocerossina di essere d’aiuto ai più bisognosi e di contribuire così a mutare il mondo, Milena era soltanto una… “squaw”. Marco la “smascherò” subito, amandola - se mai era possibile - ogni giorno di più. Di lei apprezzava mille cose, come ad esempio la grandissima passione per la danza: una sera si recò al Teatro Comunale per assistere ad una esibizione della scuola della ragazza e restò estasiato dalla grazia con cui essa si muoveva sul palcoscenico (chissà dove diavolo trovava le energie per dedicarsi a così tante cose!). Alla fine dello spettacolo egli si era unito alla compagnia che, come di consueto, aveva deciso di concludere la serata in una piccola trattoria: nell’allegria generale qualcuno scattò una 30


fotografia ai due innamorati, abbracciati felici l’una all’altro. Viceversa a Milena di quel giovane piaceva moltissimo pure il modo in cui sosteneva le sue opinioni politiche. Essendosi effettivamente dimostrato spigliato ed efficace, alla radio gli era stata affidata una rubrica fissa sugli emarginati di strada: quando al microfono raccontava delle loro vite perdute e dei loro guai egli proponeva sempre soluzioni semplici ed intelligenti, basate esclusivamente sul buon senso, senza tirare mai in ballo i massimi sistemi; appoggiata allo stipite della porta del locale radio, Milena lo ascoltava compiaciuta e con una tenerezza mai provata prima: al liceo, e anche dopo, certo, ella aveva avuto qualche flirt; ma era questa la prima volta che si sentiva veramente innamorata. E Marco… Marco sapeva amare davvero, profondamente. Forse anche troppo. Lui era consapevole che ciò lo rendeva, tra le altre cose, molto vulnerabile; ma non voleva assolutamente essere diverso da così: cos’è la vita senza intense passioni, senza un pizzico di follia? Nulla, niente… un intermezzo totalmente inutile. Così egli era capace di esprimere come pochi i propri sentimenti. I due ragazzi trascorrevano insieme, da soli, ogni istante lasciato loro libero dai reciproci impegni (tanto che Milena cominciò ad essere oggetto di commenti 31


critici da parte dei “compagni”, specialmente di quelli maschi che sotto sotto sbavavano tutti per lei). Sì, soli, per sussurrarsi parole lontane milioni di anni luce dai motti urlati in piazza; e per fare l’amore, e poi giocare, ridere, e poi fare di nuovo l’amore. Marco non si stancava di contemplare la ragazza: la sua pelle aveva riflessi d’avorio e profumava; i suoi seni erano perfetti e lui adorava baciarli e assaggiarli delicatamente, a lungo. Milena si sentiva pienamente appagata dentro. Iniziò però ad impensierirla il fatto che collaborando alla radio Marco aveva conosciuto ed iniziato a frequentare dei tipi che a lei piacevano assai poco: erano elementi dell’area insurrezionale del Movimento che si vociferava fossero entrati a far parte di un neo gruppo terroristico chiamato “Prima Linea” (“Ah, stupidaggini!”, le rispondeva lui). Inoltre la ragazza provava sempre più spesso la sensazione che egli le celasse qualcosa; iniziò ad esempio a trovare curioso il fatto che non lo trovasse mai in tipografia quando passava di lì per un veloce saluto. “E’ fuori per una consegna”, era la sistematica risposta del titolare. Un giorno gli manifestò apertamente quel dubbio; Marco asserì (mentendo) che i suoi momenti di misterioso mutismo o il suo svicolare da determinati discorsi erano dovuti ai propri genitori con i quali aveva di 32


recente rotto ogni rapporto, senza volerle però poi fornire ulteriori particolari. “Non mi va di parlarne, scusami” - le disse. Lei invece un fine settimana lo portò con sé dai suoi (alla mamma nella visita precedente aveva già confidato tutto), ai quali quel giovane - punto di vista politico a parte - non fece affatto una cattiva impressione. Anzi il padre, poco prima che i due ragazzi ripartissero per Bologna, lo prese un istante da parte. “Non mi piace affatto quanto succede lì nella vostra Università” - gli disse - “Quelle manifestazioni turbolente per strada, poi… Non ci dormo la notte: ho addosso una gran paura che alla mia bambina possa capitare qualcosa! Per favore, Marco, veglia su di lei”.

33


VI

L’incertezza

Febbraio 1977. Distesa al suo fianco, a Milena piaceva

molto accarezzare il corpo forte di Marco, sfiorare delicatamente con le dita i lineamenti marcati del suo viso e guardarlo poi lungamente negli occhi, in silenzio, con trasporto; oppure, sorridendogli, giocherellare con i suoi riccioli neri. Con le braccia incrociate dietro la nuca, il ragazzo si abbandonava totalmente a quelle dolcissime effusioni, scivolando in uno stato di sconfinata pace; ogni pensiero buio in lui scompariva: dentro solo sogni, ricolmi di lei. Talvolta però ad infastidirlo - anzi, ad inquietarlo - il proprio segreto gli ritornava di colpo in mente. La coscienza gli ingiungeva di confessarlo alla donna, ma il cuore ormai innamorato - sapendo bene che la rivelazione avrebbe significato l’istantanea fine della 34


loro fiaba - gli proibiva di aprire bocca; allora fantasticava che il suo lato oscuro esistesse soltanto in uno strambo, ricorrente incubo. Così ristringeva forte tra le proprie braccia l’armoniosa e morbida figura della ragazza, baciandola poi piano piano, teneramente, su tutto il viso. Potevano restare così anche per ore, senza scambiarsi neppure una parola: non c’è ne era bisogno. Erano felici. Prima o poi, però, “quel” nodo sarebbe inevitabilmente giunto al pettine…

35


VII

L’epilogo

Università di Bologna - Venerdì, 11 marzo 1977. Presso

l’Istituto di Anatomia Umana alle dieci del mattino ebbe inizio un’affollatissima assemblea organizzata dal movimento d’ispirazione cattolica “Comunione e Liberazione”; dopo poco più di mezz’ora delle urla improvvise fecero voltare lo sguardo dei circa quattrocento presenti verso l’ingresso della grande sala: una quindicina di altri studenti della Facoltà di Medicina, ma aderenti alla sinistra extraparlamentare, stava infatti tentando di entrare al grido ritmato di “Fascisti, fascisti!”. Il servizio d’ordine li respinse indietro a forza. Di lì a poco quelli però ritornarono, questa volta alla testa di una minacciosa orda di alcune centinaia di adepti di “Autonomia Operaia”; lo strillo collettivo di battaglia - un boato che atterriva - adesso era “Barabba

36


libero!”. Costoro cercavano chiaramente lo scontro fisico. I “ciellini”, meno avvezzi alle botte, si barricarono all’interno del locale mentre il rettore, subito informato della critica situazione venutasi a creare, richiedeva l’intervento immediato delle forze dell’ordine; queste giunsero sul posto in forze e con l’utilizzo massiccio dei gas lacrimogeni e qualche energica carica riuscirono a far retrocedere gli assedianti, creando così un corridoio lungo il quale gli spaventati convenuti alla riunione poterono allontanarsi di gran carriera dall’edificio. Dal canto loro gli “autonomi” sembrarono volersi astenere dal proseguire oltre nella contestazione: la faccenda insomma pareva essere finita lì, tanto che buona parte degli agenti riprese posto sugli automezzi, i quali mossero quindi per rientrare nelle rispettive caserme. Tuttavia alcuni drappelli di studenti più arrabbiati si sganciarono - non visti - dal corpo della protesta e corsero nelle vie adiacenti per prendere posizione presso alcuni incroci obbligati: al loro passaggio i veicoli militari si trovarono così sotto il bombardamento di pesanti cubetti di porfido precedentemente asportati dal selciato. Era circa l’una quando però volarono anche delle bottiglie Molotov, una delle quali centrò una jeep telonata che principiò a bruciare; l’autista - un carabiniere 37


di leva - si gettò fuori dall’abitacolo ed estrasse la pistola d’ordinanza: aveva già in precedenza dato prova di avere il grilletto un po’ facile e pure stavolta non esitò ad esplodere sei colpi in direzione dei dimostranti. Un militante di “Lotta Continua” - lo studente venticinquenne Pier Francesco Lorusso, prossimo ormai alla laurea in medicina e figlio di un militare di grado elevato - si accasciò al suolo; venne soccorso e trascinato via da alcuni compagni, ma poco dopo spirò. C’era scappato il morto, infine. Nel capoluogo emiliano la notizia si diffuse in un batter d’occhio: nel pomeriggio migliaia di indignati si radunarono per dar vita ad un rabbioso corteo che, non essendo stato autorizzato, la polizia si precipitò a disperdere a colpi di manganello, con l’effetto però di sparpagliare per la città bande di scalmanati decisi a vendicare il loro fresco martire; celati dietro le sciarpe o sotto i passamontagna ed agitando per aria chiavi inglesi, spranghe di ferro e le ormai famose tre dita unite a imitazione simbolica della pistola, essi occuparono i binari della stazione centrale, bloccando un nodo nevralgico del traffico ferroviario nazionale; posero di traverso per le strade casse delle immondizie, automobili e carrozze di filobus, bruciandole e paralizzando così la viabilità cittadina; infransero le vetrine di innumerevoli negozi ed appiccarono il fuoco anche ad una libreria vicina a 38


“Comunione e Liberazione”. Per tutta la serata Bologna fu teatro di guerriglia urbana; l’incessante ululato delle sirene delle camionette della polizia, delle autocisterne dei pompieri e delle ambulanze che correvano per le strade a folle velocità oppresse il cuore dei suoi abitanti, rintanatisi dentro le proprie case.

Dì seguente, 12 marzo. Le primi luci dell’alba svela-

rono il centro storico di Bologna completamente in mano ai rivoltosi, molti giunti nottetempo da fuori. Bivaccavano sotto i portici tracannando vini e liquori saccheggiati nei bar, per poi riempire quelle stesse bottiglie di benzina rubata alle auto in sosta ed allestire così un micidiale arsenale di bombe molotov: si preannunciava insomma una giornata di scontri peggiore della precedente. Difatti più tardi, mentre uno studente suonava in mezzo alla strada un pianoforte trascinato lì da chissà quale locale devastato, le forze dell’ordine circondarono la zona vecchia; gli “autonomi” risposero con un diluvio di pietre e di biglie metalliche scagliate con le fionde, ma i “celerini” pian piano guadagnarono posizioni lungo le vie offuscate dai lacrimogeni. I dimostranti incendiarono un ristorante e in breve le fiamme minacciarono i piani superiori; i pompieri riuscirono a portarsi sul posto, ma dovettero operare ba39


dando nel contempo a schivare i cubetti di porfido che diversi insorti lanciavano loro contro in omaggio. Marco seguiva da vicino i drammatici avvenimenti, infilandosi poi nelle cabine telefoniche (allorquando non le trovava distrutte dai manifestanti) per chiamare Radio Alice; all’altro capo del filo avvicinavano il microfono alla cornetta e così l’intera città poteva apprendere dalla viva voce di quel reporter con le tasche zeppe di gettoni l’evolversi della situazione. “Circola la notizia che per ragioni di ordine pubblico il Prefetto abbia proibito lo svolgimento in centro, lunedì prossimo, dei funerali di Pier Francesco” - aggiornò Marco verso l’imbrunire - “Il divieto, unito alle dichiarazioni con le quali i sindacati confederali e i partiti della sinistra parlamentare hanno bollato i dimostranti come delinquenti, ha esacerbato ulteriormente gli animi qui in piazza…”. “Di nuovo grazie al nostro inviato. Al prossimo collegamento, dunque!” - replicò dalla redazione una voce nuova che aveva appena iniziato il proprio turno al microfono in quella “diretta” non-stop. Si trattava di Milena, la quale aggiunse: “Ci è pervenuta nel frattempo conferma che a Roma e a Milano continuano i duri scontri seguiti ai cortei di protesta di questa mattina. Sono state attaccate banche, sezioni della Democrazia Cristiana e una stazione di polizia; d’ambo 40


le parti sarebbero anche stati esplosi colpi d’arma da fuoco”. Poco più tardi giunse la notizia più grave: “A Torino un brigadiere in forza all’ufficio politico della Questura è stato ucciso sotto gli occhi della moglie che lo stava salutando dal balcone di casa. Si sospetta una vendetta di Prima Linea. L’uomo aveva soltanto ventinove anni...” - concluse la giovane speaker con voce decisamente scossa. Le cose andavano però degenerando anche a Bologna, dove un’armeria era stata saccheggiata. Marco ritelefonò alla redazione. “Dall’altro lato della via in cui ora mi trovo in diversi hanno urlato: Attento, poliziotto, è arrivata la compagna P38!, e poi hanno sparato contro gli agenti!”. “Cerca di raccogliere maggiori dettagli sull’episodio!”, lo esortò in diretta la conduttrice, mentre dentro in realtà veniva letteralmente assalita dall’angoscia. Milena iniziò infatti a tremare e a morsicarsi le labbra. “Marco, amore, vai via da lì! - prese a supplicarlo in segreto - “Torna subito qui, torna da me, ti prego…”. Il ragazzo sembrò udire quell’implorazione, poiché decise di correre in Via del Pratello. Prima però infilò di nuovo un po’ di gettoni nell’apparecchio e compose un numero non riportato in alcun elenco telefonico. “Ti sto seguendo alla radio: ottimo lavoro!” - si complimentò il suo interlocutore. 41


*** Poco prima delle ventitré nella sede di Radio Alice il telefonò squillò nuovamente. “Sono Ciro Lomastro, il comandante della Squadra Mobile” - disse la voce dall’altro capo del filo - “Vi informo che stiamo per venire da voi: apriteci e mantenete la calma, si tratta di una semplice perquisizione”. Il funzionario non aveva in odio quei giovani ed anzi afferrava i motivi del loro disagio generazionale; aveva perciò voluto preannunciare l’intervento per scongiurare nuovi guai. Invece la ragazza che aveva preso la chiamata si spaventò e mentre buttava giù la cornetta seppe strillare soltanto: “La polizia! Arriva la polizia!”. All’interno del locale scoppiò un putiferio e la discussione sul da farsi si fece subito incandescente. “Svignamocela!” - suggerirono alcuni. “E perché mai? Che ispezionino pure, non abbiamo nulla da nascondere!” - sostenevano altri. I più propugnarono però la linea della resistenza. “No, non li facciamo entrare e trasmettiamo il tutto in diretta!”. Durante quella gazzarra Marco tirò da parte Milena per persuaderla ad andarsene via il più velocemente possibile. “Dei due, a vedere come finirà qui, basto io” - le disse. “No, io resto”- mise in chiaro lei. 42


L’uscio venne sprangato e la radio attivata. Dopo non molto giù la via si riempì di uomini in divisa; poi si udì un rimbombo sordo di scarponi lungo le scale ed infine un pugno picchiare energicamente alla porta ripetute volte. “Aprite, polizia!”. “Tutti i compagni del Collettivo giuridico di difesa per favore si precipitino qui in Via Pratello!” - iniziò allora a strepitare dentro il microfono uno di quelli barricati dentro - “C’è la polizia che sta tentando di forzare la porta! Non so se sentite i colpi per radio…”. In città erano in tanti a seguire l’emittente. “Non apriremo finché non arriverà un nostro avvocato e non ci faranno vedere il mandato!” - intervenne una seconda voce. “La polizia continua ad urlare di aprire…” - riprese il primo. “Stanno arrivando gli avvocati, aspettate solo cinque minuti!” - si sentì poi gridare agli agenti da parte di altri presenti. Quelli però non volevano udire ragioni. “Polizia, porco dio, aprite!”. Tuttavia la porta si ostinava a restare chiusa e dunque alla fine i celerini la sfondarono, facendo irruzione nella soffitta. “Mani in alto, e non fate storie!”. La trasmissione cessò lì. 43


“Ora tutti sdraiati a terra, a pancia sotto e con le mani dietro la schiena!” - tuonò infuriato un ufficiale. In un bailamme di grida, insulti reciproci e colpi di manganello iniziarono a scattare così le manette; quando tirò su e vide in faccia Marco, l’agente che lo stava traendo in arresto strabuzzò gli occhi: “Tenente, ma lei che ci fa qui?”. “Sta’ zitto, idiota!” - gli ringhiò sottovoce quello. “Signorsì, la sciolgo subito” - rispose mortificato il poliziotto, fraintendendo completamente il senso della rimbeccata. “Mi perdoni, ma non mi avevano avvertito che sarebbero intervenuti anche i carabinieri…” - soggiunse poi, continuando a non comprendere la situazione. Soltanto quando Marco, con occhi di fuoco, gli fece ripetutamente cenno con la testa di no, di non liberarlo, l’agente intuì qualcosa; ma ormai era troppo tardi: nonostante il gran caos, gli ammanettati più prossimi avevano captato tutto. “Uno sbirro! Tu sei uno sbirro!” - gli gridò uno a cui colava il sangue dal naso per via di un pugno. “Maledetta spia!” - inveì a sua volta con accresciuto odio Lorenzo, l’innamorato deluso, anche lui un po’ ammaccato - “L’ho sempre detto a Milena che di te non c’era da fidarsi... Bastardo!”.

44


Subito gli occhi di Marco corsero alla ragazza, ancora stesa a terra a pochi metri da lui. Lei lo guardava sgomenta. “E adesso tutti in Questura!” - comandò l’ufficiale di prima. Gli arrestati, spintonati dagli agenti, passarono così in fila indiana davanti al giovane maestro di inganni; quando fu alla sua altezza, uno si girò e gli sputò in faccia. Milena avanzava invece con aria assente, sembrava intontita. “Milena…” - la chiamò Marco. La ragazza si scosse per un istante: si voltò e lo guardò con gli occhi pieni di lacrime, poi abbassò il capo e seguì gli altri. “Fate a pezzi l’impianto radio”- ordinava intanto ai suoi uomini il tizio al comando dell’operazione; poi rivolgendosi a Marco (era già stato messo al corrente di chi questi fosse) disse: “Tenente, devi seguirci anche lei. Bisogna che ci spieghi un po’ di cose”. Il carabiniere annuì, con il pensiero però altrove. Slegato dalle manette, discese le scale e prese posto su una jeep rigonfia di uomini blu; a bordo c’era anche la guardia che lo aveva fregato: la primavera precedente si erano trovati ad operare fianco a fianco durante un corteo di metalmeccanici a Milano. “Sono stato trasferito qui la settimana scorsa” - spiegò a Marco. 45


“Porco Giuda, Esposito!” - sbottò stizzito il tenente “Ma con tutti i poliziotti che ci sono a Bologna, proprio tu dovevi capitarmi tra i piedi?”. *** Nel 1974, portato brillantemente a termine il proprio corso presso l’Accademia Militare di Modena, quel neo ufficiale dell’Arma era stato assegnato alla Sezione Speciale Antiterrorismo della Legione Carabinieri del Lazio. Due anni dopo, agli inizi di autunno, esso era stato inviato a Bologna sotto le false vesti di matricola universitaria con il compito di infiltrarsi nelle frange più estreme della sinistra extraparlamentare, che i militari sapevano essere in procinto di traghettare alla lotta armata. La frequentazione dell’emittente “Radio Alice”, dove c’era un via vai di oltranzisti rossi di ogni risma, era stata valutata dal Comando di Roma il miglior punto di partenza di tale disegno. Essa effettivamente aveva presto procurato a Marco dei seri contatti con la costituenda formazione clandestina combattente “Prima Linea”; e se l’agente Esposito non si fosse messo in mezzo, l’imprevista irruzione della polizia nella sede della radio si sarebbe rivelata addirittura provvidenziale per la riuscita del piano: l’arresto (che, una volta palesata dal 46


fermato in via riservatissima la propria vera identità, si sarebbe risolto in breve) e la successiva messa in scena di un rabbioso desiderio di vendetta per i maltrattamenti (inventati di sana pianta) subiti in Questura, avrebbero infatti sicuramente dissolto ogni residua prudenza nei suoi confronti da parte dei reclutatori del gruppo terroristico, il quale a quel punto lo avrebbe accolto a braccia aperte; dal suo interno, Marco avrebbe così potuto tracciare una preziosissima mappa del mondo dell’eversione armata. Ma sia in un siffatto svolgimento utopistico degli avvenimenti, sia nella cruda realtà del fiasco totale della sua missione, saltava fuori comunque un problema non da poco: il rilascio di Milena. L’ufficio “fermi” della Questura, in cui quel carabiniere vestito come un comunista era stato fatto accomodare per la verifica della sua posizione, somigliava in verità più ad un magazzino, zeppo com’era di pile di dossier sui nemici dello Stato. Gli unici oggetti che, seppur con un po’ di arroganza, potevano pretendere di essere chiamati mobili erano la seggiola di legno tarlato su cui sedeva Marco, la floscia poltrona girevole nella quale era alloggiato l’indisponente responsabile degli stati di fermo e l’ingombrante scrivania metallica color grigio topo che separava i due; su quest’ultima un grosso tele47


fono nero che trillava senza posa e un portafotografie contenente un momento (probabilmente raro) di relax in famiglia del poliziotto lottavano disperatamente per tenersi a galla sopra un mare di carte. L’uomo in divisa aveva un’aria sfatta, che faceva a pugni con la compostezza del Presidente della Repubblica appeso sbilenco in foto nella parete alle sue spalle; era evidente che non chiudeva occhio da un paio di giorni e che i suoi unici desideri erano un bagno caldo e il proprio letto: un autentico miraggio, per il momento. Anche perché egli doveva attendere il preannunciato arrivo di un importante ufficiale dei locali Carabinieri a cui riconsegnare, dopo un ultimo chiarimento, quell’altro bell’impiccio di tenentucolo che gli era capitato tra i piedi. Si trattava del maggiore Battisti, il superiore di riferimento di Marco a Bologna, al quale l’infiltrato doveva fare quotidianamente rapporto e da cui riceveva istruzioni e supporto per la propria missione. Un numero telefonico riservato lo metteva in diretto contatto con lui. Al tenente non restava dunque molto tempo per passare a discutere finalmente di Milena con quell’inquisitore dalla barba trascurata, il quale seguitava a sbadigliargli di fronte senza ritegno; avrebbe dovuto tirar fuori dal cilindro argomentazioni capaci di toccare quel 48


po’ di cuore di padre che eppure doveva esistere anche in un individuo ruvido come quello e strappargli così la firma necessaria per la messa in libertà della giovane. “Tra gli arrestati c’è una persona - una ragazza - la cui posizione le sarei grato se volesse approfondire un attimo, giacché, posso assicurarglielo, non sussistono elementi tali da giustificare il suo mantenimento nello stato di fermo - esordì il carabiniere. “Come fa ad esserne così certo?” - gli rispose l’altro inarcando le sopracciglia, diffidente e curioso al tempo stesso. Marco allora spiegò che frequentando Radio Alice aveva avuto modo di conoscere abbastanza bene questa Milena, “… una brava ragazza, le garantisco, e di buona famiglia”. Sì, d’accordo, sbandierava idee di una certa sinistra, ma in quegli anni “… era un po’ di moda tra i giovani, non ne conviene anche lei?”. Il soggetto in questione - come tutti, del resto - semplicemente sognava un mondo migliore; lo reclamava urlando in strada, vero, ma niente più di questo: non aveva assolutamente a che fare con elementi sovversivi! E “da grande” desiderava soltanto di fare la giornalista: bazzicava Radio Alice anche a tale scopo, per fare un po’ di esperienza. “… Insomma, non ha senso trattenerla!”. “I fermati sono tutti accusati, compresa la sua conoscente, di avere favorito i tumulti mandano apposita49


mente in onda informazioni utili alle mosse dei sediziosi” - gli comunicò però secco il poliziotto dopo averlo ascoltato con aria tediata, grattandosi per tutto il tempo i capelli arruffati - “In mattinata verranno tradotti nelle carceri di San Giovanni in Monte”. “Cosa? Ma è assurdo, io so come si è svolta quella “diretta”, vi ho preso parte!” - balzò in piedi Marco, battendo i pugni sulla scrivania del funzionario. “E’ con soprusi del genere, col rancore che essi generano, che si rischia di trasformare degli ingenui ragazzi in terroristi! E voi ne sareste responsabili!” - strillò al poliziotto puntandogli l’indice accusatorio contro la faccia. “Non si permetta!” - saltò su a propria volta l’altro dalla sua sedia, afferrandogli il polso; e dopo qualche secondo, stemperatasi un po’ la tensione da ambo le parti, aggiunse: “Senta, tenente, questa operazione è una faccenda nostra. La prego, da collega: non interferisca”. Il maggiore Battisti arrivò in Questura a confermare tutto quanto raccontato da Marco alle tre di notte; portava inoltre al pur incolpevole sottoposto l’irritazione del Comando di Roma e sua personale per i mesi di preziosismo lavoro andati in fumo. C’era però dell’altro: molto presto nell’ambiente studentesco si sarebbe saputo della “sorpresa” saltata fuori durante l’arresto di quelli di Radio Alice; Marco ormai non soltan50


to era “bruciato”, ma forse anche in pericolo: qualche esagitato avrebbe potuto volergliela fare pagare. Pertanto di lì a qualche giorno gli sarebbe stato formalizzato l’ordine di lasciare il capoluogo emiliano, destinato ad altro incarico altrove. Marco naturalmente se lo aspettava: un provvedimento ineccepibile e tuttavia per lui crudele, perché lo avrebbe portato via lontano da Milena; anche se temeva fortemente di averla in realtà già persa e che rimanere a Bologna non sarebbe servito più a niente, anzi avrebbe dilatato il suo sconforto: saperla lì, ma non potere più parlarle, non poterla più accarezzare… Adesso però doveva soltanto pensare a tirarla fuori dalla camera di sicurezza; subito, prima che partissero i furgoni cellulari. Lo doveva anche ad un pover’uomo di Imola: gli aveva promesso di proteggere sua figlia. Così chiese aiuto al maggiore, al quale dovette però necessariamente rivelare la “tresca”. “Diamine, tenente, ma che in razza di pasticcio s’è cacciato?” - si inalberò quello - “Si rende conto che ha mischiato la sua vita privata, dentro cui c’è addirittura un’estremista che ha in odio la nostra divisa, con il lavoro, con una missione che era della massima importanza per le sorti future dello Stato? Come, come ha potuto intessere una relazione proprio con una di “loro”? Dov’era il suo senso del dovere? E’ una cosa 51


inaccettabile, lei disonora l’Arma! Ed ora si permette anche di chiedermi…”. “… di farla uscire di qui, signore!”. “Che faccia tosta!”. “Lei è mai stato innamorato, signore? Profondamente, intendo dire…”. Battisti lo guardò duro dritto negli occhi; pareva volerlo incenerire. Poi il suo sguardo gradualmente si distese, arrivando addirittura ad abbozzare un sorriso: “Sì, ragazzo, di una donna che ho poi avuto l’immensa fortuna di sposare e di avere ancora oggi al mio fianco. E’ tedesca e mio padre, un ex partigiano, si oppose con forza al nostro rapporto” - gli confidò. “Allora mi può comprendere”. “Ma sì, certo... In qualità di tuo superiore una bella ripassata tuttavia dovevo fartela ugualmente!”. “Aiuterà Milena, allora?”. Il maggiore nutriva stima per quel giovane ufficiale: era sveglio e coraggioso, nessuno prima era stato capace di arrivare così tanto vicino ad un gruppo eversivo; e se sosteneva che quella ragazza non meritava la cella, beh, lui gli credeva. “Va bene, vedrò cosa posso fare per questa Milena. Sono buon amico di Ciro Lomastro, proverò a parlargli; è qui in Questura, l’ho intravisto prima: anche da queste parti nessuno dall’altro ieri va più a casa a dormire…”. 52


Domenica, 13 marzo (l’altra data fonte di malumore per Marco). All’alba il pesante portone in legno della Que-

stura si richiuse, cigolando, alle spalle di Milena. Come in quell’ormai lontana sera di novembre fuori, ad attenderla al freddo, vide Marco; questa volta lo ignorò completamente e si avviò decisa verso casa sua. “Milena, fermati!” - le andò dietro lui - “Su, per favore... Devo parlarti!”. Lei al contrario accelerò il passo. “Lascia che ti spieghi…” - insisteva alle sue spalle il giovane, inutilmente. Infine esso si spazientì e, raggiuntala con un balzo, la agguantò per un braccio. “Lasciami, brutto schifoso, non mi toccare!” - gli strillò Milena con disprezzo. “D’accordo” - rispose Marco mollandola e sollevando le mani in aria, per quietarla - “D’accordo… ma devi ascoltarmi”. Intanto quella parola (schifoso) l’aveva gelato. “E cosa mai avresti da dirmi, se non che mi hai ingannata, che mi hai usata e che, mentre c’eri, te la sei pure spassata a scoparmi? Eh, cos’altro?”. Nella voce della ragazza una grande rabbia, ma soprattutto tanto dolore. “No, Milena, le cose non stanno come pensi tu” prese a parlarle con tono accorato lui - “E’ vero, mi era stato assegnato un compito viscido: intrufolarmi nella 53


vostra radio e grazie ad essa poi infiltrarmi tra i terroristi; ma allora non potevo certo immaginare che a spianarmi la via saresti stata tu! Tu che io ho amato sinceramente fin dal primo giorno in cui ti ho veduta…” - mormorò, inseguendo gli occhioni verdi di lei che girovagavano altrove, infastiditi, mentre lui le spiegava - “E ciò tu lo sai bene: su questo, Milena, non ho mai finto, non ti ho mentito mai! L’uniforme che porto ha imposto che le due cose andassero avanti insieme, ma assolutamente separate. Tu non immagini quanto il non poterti dire tutto di me mi abbia macerato dentro: ecco la ragione di quei miei improvvisi, lunghi silenzi”. “Invece avresti dovuto dirmelo” - ribatté lei, riprendendo a guardarlo dritta in faccia - “e non lasciare zone d’ombra tra noi: magari avrei capito, chissà!”. “Avevo il dovere del silenzio assoluto, Milena: sono un carabiniere. Nemmeno i miei familiari - con i quali, sai, in realtà vado d’accordissimo - sanno nulla dell’incarico. Ma, soprattutto, avevo una fottutissima paura che confessandoti chi fossi - cosa che più volte sono stato sul punto di fare - ti avrei con ogni probabilità perduta”. “Beh, invece mentendo mi hai persa sicuramente. Ieri sera”. 54


“Non dire questo, amore, ti scongiuro! Capisco che ora tu sia disorientata, delusa, ma…”. “Delusa e basta?” - l’interruppe lei furente - “Ma hai idea di come io mi senta realmente? Scoprire all’improvviso di essermi innamorata di una persona che semplicemente non esiste, di avere fatto a lungo l’amore con uno sconosciuto: è sconvolgente!”. “Non è così: tu hai amato colui che io sono veramente”. “Ah, sì? E dimmi, ti chiami davvero Marco?”. “Il mio vero nome è Damiano Furlan”. “Ecco, per l’appunto!” - ridacchiò sarcastica la ragazza, scuotendo la testa - “Magnifico, davvero!”. “Ti prego, cerca di capirmi. Sforzati un attimo di metterti al mio posto, prima di buttarmi fuori dalla tua vita”. “La mia vita…” - sospirò Milena con amarezza “Credo che sarò costretta ad andare via da Bologna. Perché sai cosa sono io adesso per i miei compagni? La puttana di un carabiniere! Nella camera di sicurezza me lo hanno urlato in faccia… E per gli amici tuoi, i poliziotti? Stessa cosa! Essi mi hanno detto delle tue pressioni per la revoca del mio fermo; non sono mica scemi, hanno capito cosa c’era sotto: bene, poco fa, nel mettermi alla porta, il piantone mi ha bisbigliato nell’orecchio che essere lo scaldaletto di uno sbirro può 55


sempre tornare comodo! Senza contare poi che tirandomi fuori da lì, mentre gli altri invece sono rimasti dentro, tu mi farai passare agli occhi di tutti anche per un’informatrice!”. “Milena, quelli dell’Ufficio Politico hanno notoriamente la mano pesante; alle donne talvolta può capitare addirittura il peggio. Tanto più adesso che a Torino è appena stato ammazzato un loro collega. Non potevo lasciarti là”. “E gli altri, quelli che tu stesso hai conosciuto, con i quali hai a lungo dibattuto e pure scherzato, riso insieme per mesi? Non hanno contato proprio nulla per te?” - gli domandò lei con sguardo triste - “Lo sai che tra poco verranno trasferiti in carcere?”. “Sì, e mi dispiace moltissimo, devi credermi. Ma è già stato un miracolo essere riuscito a far uscire te”. “Immagino che dovrei essertene grata. Bene, allora: grazie di avere mandato in pezzi la mia esistenza!”. “Milena, dammi una seconda possibilità. Ti prego”. “No, Marco, Damiano o come diavolo ancora ti fai chiamare” - rispose lei - “Non posso: diffiderei sempre di te, oramai… E’ finita!”. Fu dolorosissimo per la ragazza pronunciare quelle due ultime parole. Prese a piangere; perché avrebbe invece voluto tanto gettargli le braccia al collo, stringersi di nuovo forte forte a lui... “Hai avuto in mano la 56


chiave del mio cuore, ma l’hai spezzata. Non puoi più entrarvi. E forse, dopo questo immenso dispiacere che mi hai regalato, nessun’altro potrà più” - riprese con voce mesta - “Non ferirmi, ti pregai dopo il nostro primo bacio, ricordi? Invece tu lo hai fatto, oltre ogni limite: mi hai letteralmente uccisa dentro…”. Poi si ricompose e, recuperando un tono durissimo, concluse la faccenda. “Vattene, ora. Sparisci! Non voglio vederti mai più! Ti è chiaro?”. E, ciò detto, andò risoluta per la sua strada. Dentro Marco - anzi, Damiano - non più un pensiero; soltanto un enorme strazio. Intanto che anche il tenentino se ne tornava lemme lemme a casa propria, per poi crollare piangendo sul letto le cui lenzuola non avrebbero più profumato di lei, dal Ministero degli Interni giunse l’ordine ai reparti mobili della città di lasciare negli stipetti la stanchezza accumulata negli ultimi giorni e di tirare invece fuori da essi, insieme a tutto l’armamentario antisommossa, determinazione e - se necessario - brutalità. Mentre i bolognesi ancora sonnecchiavano, le loro strade vennero attraversate da un convoglio di quaranta automezzi sui quali erano stipati ben ottocento tra agenti di polizia e carabinieri in assetto da combattimento, scortati da quattro mezzi corazzati M113 e da 57


due autoblindo munite di mitragliatrice. Giunti nella cittadella universitaria, i militari la occuparono senza tuttavia incontrare resistenza: i contestatori, anche in questo caso preavvertiti dell’intervento da qualche assennato funzionario della Questura, si erano infatti come volatilizzati; riapparvero in zona, a piccoli gruppi, intorno a mezzogiorno e poi ancora in serata, accendendo qua e là qualche residuo focolaio di rivolta prontamente sedato. I dolorosi tumulti di Bologna erano dunque giunti al termine. Nei giorni successivi si registrò un’ondata di arresti. *** Prima di essere condotti in carcere coloro che erano stati arrestati negli studi di Radio Alice subirono in Questura dure percosse. In seguito essi sarebbero stati scagionati dall’accusa affibbiata loro: venne infatti dimostrato che non avevano affatto diretto via etere la battaglia urbana, ma che semplicemente avevano fornito in diretta agli ascoltatori notizie sul suo corso. L’emittente riprese a trasmettere dopo circa un mese e restò attiva per un paio d'anni ancora, senza però più l'apporto dei suoi fondatori; la sua frequenza sarebbe più tardi stata rilevata da Radio Radicale.

58


L’area di pensiero politico nota come Autonomia Operaia pian piano svaporò: quanti non traslocarono nella lotta armata (la stragrande maggioranza) si dispersero in altri movimenti extraparlamentari oppure aderirono a “Democrazia Proletaria”, un recente partitino che si poneva a sinistra di quello comunista. “Prima Linea” divenne in breve la più efferata formazione terroristica dopo le “Brigate Rosse” e l’Italia repubblicana entrò nel periodo più cupo e violento della propria storia, culminato nel marzo 1978 con il rapimento e, due mesi dopo, l’assassinio ad opera dei “brigatisti” dell’uomo di stato democristiano Aldo Moro. Posto dapprima in arresto, il carabiniere che aveva sparato allo studente Lorusso venne scarcerato dopo meno di due mesi e successivamente prosciolto dai giudici che, date le circostanze in cui il milite si era trovato ad agire, reputarono la sua condotta legittima. Il martedì successivo alla fine della sommossa Damiano ricevette l’ordine di rientrare a Roma. Di Milena, andata via da Bologna tre giorni più tardi, non si seppe più nulla.

59


VIII

L’apparizione

Tripoli, 27 aprile 1980. All’Accademia Militare il

colonnello Mu’ammar Gheddafi si lanciò in un durissimo discorso contro i dissidenti rifugiatisi all’estero: “Cani randagi, tornate in Libia o vi uccideremo tutti, ovunque voi siate!”. E fissò per il successivo 11 giugno (giorno in cui si sarebbe festeggiato il decimo anniversario del ritiro dei soldati statunitensi dalla base libica di Wheelus Field) la data ultima per il rientro volontario degli esuli.

Milano, 11 giugno 1980. Damiano aveva appena ab-

bandonato la propria scrivania per correre a pranzo alla mensa del Comando - aveva una fame da lupo, quel giorno - quando il telefono frignò alle sue spalle. Stizzito, girò i tacchi e sollevò la cornetta: “Capitano 60


Furlan, venga per favore subito da me” - gli comandò dall’altro capo della linea il colonnello Lanfranconi. “Mezz’ora fa ho ricevuto da Zurigo la chiamata di un caro amico” - gli riferì il superiore quando fu nel suo ufficio - “Si chiama Azzedin Lahderi: è un fuoriuscito libico e all’apparecchio mi ha detto di temere per la propria vita”. Il colonnello mise al corrente Damiano delle vicissitudini del suo conoscente. Dopo il golpe militare del 1969 l’uomo, titolare di una delle più importanti ditte di import-export della Libia, era fuggito in Italia - a Bolzano, per l’esattezza - insieme alla moglie e al loro bambino; la figlia era invece rimasta in patria, dove tutti i beni della famiglia vennero presto confiscati. Il nuovo regime aveva tormentato a lungo Lahderi con pesanti intimidazioni, ma in seguito aveva valutato più utile sfruttare la sua grande esperienza nel commercio internazionale e così, mostrando un falso rincrescimento, lo aveva persuaso a favorire la stipula di cospicui contratti tra la “Giamahiria” libica e imprese europee e giapponesi. Dopo qualche tempo, però, egli era stato invitato ad abbandonare l’attività di imprenditore privato per dedicarsi alla creazione di una rete di uffici commerciali nel continente europeo, impiegando tra l’altro personale indicatogli da Said Mohamed Rashed (il capo 61


del Tribunale rivoluzionario libico): una chiara copertura per operazioni di spionaggio che invece Lahderi non aveva affatto inteso favorire, suscitando di conseguenza l’ira del Rashed; quest’ultimo - così l’esule aveva raccontato per telefono al suo amico carabiniere aveva pertanto preteso un incontro chiarificatore presso l’Hotel Schweizerhof di Zurigo. Qui Lahderi non solo aveva rifiutato la sollecitazione a rientrare in patria e a mettersi stabilmente al servizio del governo rivoluzionario, ma aveva anzi reclamato un permesso di espatrio per la figlia ed il pagamento della sua preziosa mediazione nell’affare concluso fra lo Stato libico e la ditta italiana Italstat. “In tutta risposta ha ricevuto gravi minacce” continuò Lanfranconi - “Lahderi confida che si sia trattato semplicemente di una scenata, dato che egli torna troppo utile agli interessi del regime di Gheddafi. Tuttavia era ugualmente molto spaventato: dallo scorso marzo soltanto in Italia sono già stati assassinati quattro dissidenti libici”. In effetti sia il rifugiato che il colonnello non immaginavano che Rashed fosse anche il regista degli squadroni della morte incaricati di liquidare gli oppositori all’estero. “Lahderi arriverà alla Stazione Centrale alle 17,50 con il Trans Europ Express” - concluse Lanfranconi 62


“Non avendo qui foto utili alla sua individuazione, siamo rimasti d’accordo che sarà lui a presentarsi al carabiniere in divisa fermo in attesa all’inizio della banchina. Che voglio sia lei: dovrà fornirgli protezione a bordo del successivo treno diretto al Brennero. Alla stazione di Bolzano il libico verrà preso in consegna dai colleghi del locale Comando Provinciale, che ho già provveduto a mettere al corrente dell’intera faccenda; essi poi terranno sotto stretta sorveglianza la sua abitazione fintantoché la situazione non risulterà più chiara”. “Bolzano? E che c….!” - pensò Damiano. Proprio quel giorno sua moglie compiva ventotto anni e lui per festeggiare aveva acquistato due biglietti della rappresentazione de “La Bohème” al Teatro alla Scala. Erano fra l’altro rientrati da poco dal loro romanticissimo viaggio di nozze in Francia e quella sarebbe stata per i due sposini la loro prima serata mondana... Invece gli toccava addirittura trascorrere la notte fuori casa! Telefonò a Cecilia per metterla al corrente dell’improvviso incarico (lei certo non se la prese, pregandolo tuttavia di fare molta attenzione). Poi si recò alla mensa, la quale aveva però già chiuso i battenti: poco male, dato che l’appetito gli era ormai passato.

63


*** Damiano e Cecilia si erano conosciuti quattordici mesi prima ad una festa dell’Arma, ove lei accompagnava un ospite (un alto magistrato, suo padre). Si erano subito reciprocamente piaciuti, rivedendosi già due sere dopo in un ristorantino sui Navigli; dopodiché le cose erano germogliate con inattesa, meravigliosa rapidità e così avevano deciso di non frapporre altro tempo tra loro, sposandosi. Cecilia era fisicamente molto attraente e, a dispetto dell’aria misurata (che se da un lato esprimeva senso del riguardo, dall’altro nascondeva una grande timidezza), era dolce e premurosa. Agiva sempre in coerenza con i suoi principi morali ed era di animo sensibilissimo. Amava la natura. Amava la vita. Una donna - e una moglie - perfetta. Damiano si considerava un uomo fortunatissimo: non avrebbe voluto risposare che lei. Certo, l’aspro strappo con Milena ciclicamente tornava a sconcertarlo, ma egli ormai guardava decisamente avanti. *** Dato che con il teatro era andata buca il capitano stava arzigogolando su un nuovo regalo di compleanno da portare al suo tesoro al rientro dall’Alto Adige il dì 64


seguente, quando il puntualissimo T.E.E. proveniente dalla Svizzera si arrestò al binario numero ventuno, congedando uno sciame di passeggeri carichi di bagagli e premura. Il carabiniere gettò lo sguardo qua e là in quella frotta di gente: due uomini dai tratti verosimilmente nordafricani che procedevano fianco a fianco, ciascuno con in mano dei borsoni e buste di regali, dettero a loro volta una sbirciata al militare, oltrepassandolo però spediti. Anche diverse donne gli misero gli occhi addosso (del resto, il fascino suo proprio sommato a quello della divisa erano, al femminile, davvero un bel richiamo!); un paio d’esse gli accennarono anche un sorriso. Alla fine però il marciapiede rimase vuoto, e del Lahderi nemmeno l’ombra. Damiano guardò in giro, ma nessuno sembrava interessato ad avvicinarlo. Ipotizzò allora un fraintendimento del colonnello sul punto dell’incontro: forse in realtà l’imprenditore libico lo stava cercando nei pressi dell’Espresso per il Brennero. Consultò dunque il tabellone delle partenze, apprendendo che quel convoglio sarebbe partito dal binario numero quattro e cioè dalla parte opposta della stazione; così si avviò lesto verso là, zigzagando nella confusione, ma quando fu all’altezza della sala che ospitava i telefoni pubblici il sangue gli si gelò nelle vene: quella donna in tailleur rosso che una ventina di metri più avanti stava attraversando il piaz65


zale della stazione diretta ad uno dei treni era… lei, Milena! Il cuore del capitano prese a battere impazzito; d’impulso la chiamò, una, due volte, muovendo poi i primi passi verso di lei. La ragazza si arrestò e si guardò attorno: il frastuono della folla e degli annunci gracchiati dagli altoparlanti non le avevano dato modo di capire da che parte provenisse il richiamo. Il chiasso non riuscì invece a coprire sei scoppi secchi in rapida successione - spari! - e le urla di terrore di una donna provenienti dal posto telefonico. Damiano si girò istintivamente in quella direzione, mentre nel piazzale in un attimo si scatenava il panico; poi riportò gli occhi su Milena, ma in tutto quel fuggi fuggi generale non la scorse più. Si voltò di nuovo verso l’ufficio telefonico e vide uno dei due presunti nordafricani con cui poco prima aveva incrociato lo sguardo correre fuori da lì liberandosi - gettandola a terra - di una pistola; intuì cosa era accaduto e si lanciò al suo inseguimento, estraendo nel mentre dalla fondina la propria rivoltella d’ordinanza. “Fermo o sparo!” - gli intimò da dietro, avendo tuttavia già scelto di prenderlo vivo. Essendo ancora un buon atleta (seguitava infatti a vogare all’Idroscalo non appena aveva un momento di tempo libero), il carabiniere stava rimontando rapida66


mente il distacco allorché due individui con indosso dei giubbotti da motociclista si staccarono dalla vetrina di intimo femminile sulla quale sembravano assorti e gli si pararono davanti di botto, in pratica placcandolo. “Cosa fate? Levatevi dai piedi, sto rincorrendo un probabile assassino!” - sbraitò furibondo Damiano mentre oltre le spalle di quelli scorgeva il fuggitivo squagliarsela indisturbato. “Non si agiti, capitano” - gli disse uno dei due mostrandogli un tesserino del S.I.S.Mi. (il ramo militare dei servizi segreti italiani), mentre l’altro - pure lui con gli occhi nascosti dietro le lenti scure dei Ray-Ban Aviator - allontanava i curiosi spacciandosi per un agente di polizia. “Cosa significa?” - domandò il carabiniere, sorpreso. “Che il tizio che stava braccando non va toccato”. “E perché?”. “Lasciamo che le autorità libiche sbrighino come meglio ritengono la questione dei loro dissidenti. Hanno minacciato gravi ritorsioni, se proviamo a metterci becco: attentati, insomma”. “Ah! E ditemi, noi allora caliamo le brache? Chiunque ora può perciò fare quel che gli pare e piace in casa nostra?” - contestò indignato quello in divisa. “Ordini dall’alto”. “Dal Governo?” - ventilò il capitano. 67


“No comment”. Presidente del Consiglio dei Ministri era diventato Francesco Cossiga. “Ma certo… c’è sempre lui, di mezzo! - pensò il carabiniere ritornando amaramente con il pensiero ai fatti di Bologna. All’improvviso Damiano sentì puntarsi un’arma contro lo stomaco. “Favorisca la pistola, capitano” - cambiò registro il suo interlocutore; il fasullo poliziotto a propria volta rimarcò l’esortazione del collega assestandogli sulla spalla una manata poco amichevole. Una volta requisito il caricatore, la Beretta M34 venne restituita all’ufficiale. “Così a lei non verrà in mente di provare a trattenerci e a noi di fare di conseguenza quello che non vorremmo” - concluse lo scagnozzo del S.I.S.Mi. Ciò detto, lui e il suo compare accennarono il saluto militare e si allontanarono senza fretta. Damiano invece rimase lì immobile per qualche buon minuto ancora, annichilito e con sette pallottole in meno tutte da spiegare al colonnello. Tornò infine sui propri passi. Frattanto gli agenti della Polfer avevano interdetto il salone telefonico, in attesa dell’arrivo dei colleghi del reparto investigativo; al capitano dei carabinieri fu comunque accordato di dare un’occhiata dalla soglia: sul pavimento del piccolo soppalco dov’erano sistemati gli elenchi alfabetici l’altro nordafricano intravisto al binario ventuno giace68


va steso dentro un lago di sangue. ”Lahderi, sicuramente” - pensò Damiano, che ai poliziotti però non riferì nulla sull’impedita cattura del killer: avrebbe deciso Lanfranconi quali elementi fornire agli inquirenti. Egli poi corse a frugare i treni fermi in attesa del semaforo verde, nella remotissima - e difatti vana speranza di ritrovare Milena. Mentre faceva ritorno in caserma Damiano era oppresso da un profondissimo senso di vergogna per il proprio Paese; e poi c’era pure l’amarezza di non avere potuto riguardare negli occhi e riparlare (eppure era stata lì, ad un passo!) con… lei. Dio, che tremendo colpo al cuore era stato rivederla! Certo, le loro strade erano ormai separate per sempre: lui adesso amava unicamente (e totalmente) Cecilia. Tuttavia sentiva fortissimo il bisogno di sapere se Milena infine lo aveva in qualche modo compreso e perdonato: la loro storia avrebbe allora perso ogni macchia e, seppur finita, sarebbe tornata a risplendere pienamente, racchiusa dentro un bellissimo ricordo da serbare gelosamente in un angolo dei loro cuori. Perché nella vita niente deve essere mai vissuto invano. Cecilia, alla quale più tardi a casa egli raccontò piangendo ogni cosa del suo assurdo pomeriggio, quella notte gli donò tutto il proprio amore. E lui il suo. Nove mesi più tardi nacque la loro bimba, Sofia. 69


*** Non si sarebbe mai scoperto con quale pretesto Mohamed Kalifa Bu Asha - questo il nome del sicario, identificato grazie al contenuto del bagaglio da lui abbandonato nell’ufficio telefonico - fosse riuscito ad unirsi a Lahderi alla stazione di Zurigo e perché avesse poi freddato quest’ultimo in un luogo pubblico, e per di più in maniera tanto incauta; è probabile che lì la vittima avesse cercato di sottrarsi al suo controllo e che l’altro abbia dunque dovuto improvvisare. Per l’omicidio dell’esule nel 1986 sia l’agente Kalifa che il suo capo Rashed vennero condannati in contumacia alla pena dell’ergastolo dalla Corte d’Assise di Milano. Ciononostante anni dopo, a Tripoli, alla presenza del Sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi, la società Ansaldo STS avrebbe firmato con Rashed (divenuto nel frattempo Presidente delle Ferrovie della “Giamahiria”) un contratto per la realizzazione dei sistemi di segnalamento di 1.450 chilometri di linee ferrate libiche: una commessa da 541 milioni di euro!

70


PARTE TERZA

DAMIANO, ancora.

71


72


IX

La raffazzonatura

Genova, 12 giugno 2001. Diversamente da quanto

pianificato, Damiano versava in una condizione fisica precaria: assorbito oltremisura dal nuovo incarico assegnatogli al Comando Regionale dell’Arma a seguito della promozione al grado di colonnello (con accumuli di irritabilità che poi purtroppo scaricava la sera a casa) ed afflitto dai prolungati postumi di ben due influenze, negli ultimi cinque mesi aveva potuto infatti allenarsi poco sia ai remi che su roccia. Nel contempo la sua alimentazione era divenuta più sregolata che mai: pranzi spesso saltati che generavano viceversa cene ingorde (e prive sempre di verdura o frutta, nonostante gli appelli della moglie), con nel mezzo fiumi di quel caffè che una volta detestava; cosicché la notte non riusciva più a chiudere occhio, se

73


non ricorrendo all’aiuto di pillole di benzodiazepine (e in ogni caso per qualche ora solamente). Tutto ciò quando le due scalate erano ormai alle porte. L’ufficiale cominciò a temere davvero che il suo disegno potesse finire a carte quarantotto. Così, insonnia per insonnia, decise di riesumare un’abitudine di gioventù: allenarsi quotidianamente prima di recarsi a scuola (pardon, in caserma adesso); cioè praticamente di notte. Certo, per il resto della giornata sarebbe rimasto un po’ sbalestrato, ma in tal modo i muscoli avrebbero rapidamente ripreso a guardare l’acido lattico dall’alto in basso (riguardo invece alle salite preparatorie in falesia raccomandategli da Ermanno… mah, avrebbe ripetuto delle vie corte nei residui fine settimana). E così fu. Cecilia, non ritrovando più al risveglio il marito accanto a sé, iniziò davvero a non reggere oltre una simile fissazione per quelle due maledette cime e a domandarsi seriamente come si potesse amare un uomo del genere. Ma forse, chissà, volergli bene era possibile e semplice proprio perché era un individuo, come dire, poco… comune.

74


X

La perfezione

Genova, 19 giugno 2001. “E’ un’arte grandiosa, il canottaggio. E’ l’arte più eccelsa che esista” - ha scritto George Yeoman Pocock - “E’ una sinfonia di movi-

mento. Quando voghi bene, rasenta la perfezione. E quando rasenti la perfezione è come sfiorare il Divino. Sfiora la parte più vera di te. Che è la tua anima”.

Rasentare la Perfezione… Quella sensazione, sì, da ragazzo Damiano l’aveva provata, più volte, sul suo agilissimo e vincente 4 con. Durava solo una manciata di secondi e ciò nondimeno gli era sempre sembrata un’eternità; e si era ritrovato davvero come in un’altra dimensione, in cui aveva sentito d’esser parte di qualcosa di assolutamente… “compiuto”. Mentre ai remi di un “singolo” srotolava su un mare placido e rilucente il lungo rosario di colpi in acqua che da Genova lo stava portando fino a Camogli, il canot75


tiere rifletteva su quelle considerazioni di Pocock: enfatiche, certo, eppure molto vicine al vero. Intanto che la stupenda scogliera di Pieve Ligure scivolava via pian piano alla sua destra, egli si concentrò allora sulla palata: doveva tornare perfetta (sciolta ed insieme potente) come quella di un tempo, e far diventare l’esile scafo una farfalla leggera e spedita sull’acqua; e lui parte di essa: le sue ali. Sperava di riprovare insomma lo stato di breve ma autentico incanto in cui in gioventù scivolava remando. Quell’ebbrezza, seppure fugacemente, fece davvero ritorno. E lui si stupì di nuovo.

76


XI

L’immensità

Damiano, prima di andare a soddisfare in cucina la sete acuta che l’aveva svegliato a metà nottata, aprì piano piano la porta della camera di Sofia per accertarsi che essa fosse già rientrata dalla serata di festa con le proprie amiche (in realtà era certo che la moglie - come sempre - aveva atteso desta l’arrivo della figlia, prima di raggiungerlo a letto). Grazie alla luce che filtrava dal corridoio poté intravedere la ragazza che dormiva serenamente, tutta raggomitolata sotto il suo piumino ornato di disegni della moda del momento (Sofia era un tipo piuttosto freddoloso). Entrò e si sedette sul bordo del letto di bambù; lì, quando era piccina, lui le raccontava le favole prima del bacio della buonanotte. Adesso aveva vent’anni (Dio, com’era volato il tempo!), ormai era una donna: parecchio carina, fine e 77


dolce, e nel contempo assai spiritosa. Damiano si divertiva un sacco a farsi prendere volutamente in giro dalla sua arguta “bimba”, creando ad arte occasioni in cui lei senz’altro avrebbe tirato fuori la freddura più appropriata e spassosa, sempre accompagnata dal suo sorriso aperto e luminoso. Chissà dentro quale sogno stava vivendo ora, a quale piacevole corrente si era abbandonata... Il padre la contemplò a lungo: era la cosa più preziosa che la vita gli avesse donato. Non riusciva più ad immaginare un’esistenza senza il suono gentile della sua voce nelle orecchie, o il suo aggraziato portamento da ballerina negli occhi (la danza, sin da bambina, era la sua passione). In una parola, lei era… tutto. Iniziò a baciarla sulla fronte e poi sulle guance, molto delicatamente, per non risvegliarla; tuttavia la ragazza uscì fuori ugualmente dalla sua romantica fantasia notturna, ma continuò a tenere gli occhi chiusi e a fingersi ancora immersa in un’altra dimensione: voleva godersi appieno l’immensa tenerezza dei baci del suo papà. Come quand’era piccina.

78


XII

Il rimpiazzo

Genova, 27 giugno 2001. Mai fare i conti senza l’oste!

Giunto infatti il momento più propizio, Ermanno non riuscì a liberarsi dai propri impegni e dunque comunicò telefonicamente all’amico di non poterlo purtroppo accompagnare sul Gigante. I doveri della divisa, dal canto loro, negavano a Damiano una seconda chance entro la fatidica “deadline” (la fine dell’estate) stragiurata alla moglie; così egli contattò immediatamente l’ufficio della migliore società di guide alpine valdostane, ma le condizioni dell’ingaggio gli parvero talmente irragionevoli da farlo davvero inviperire ed addirittura indisporlo verso il famoso (e fino ad allora tanto bramato) dente canino di Gargantua, dentro cui - secondo la leggenda - sono imprigionati i geni maligni che un tempo atterrivano gli abitanti della Valle d’Aosta. Rientrato a casa, buttò 79


via tutti gli schizzi e i documenti tecnici raccolti sulla scalata del monolite. A stemperare un po’ la sua indicibile delusione per fortuna quella sera stessa arrivò una telefonata di Valerio: un individuo irrequieto, sempre più insofferente alla vita in città alla quale disgraziatamente era costretto dal proprio mestiere (che oltretutto non amava), e così perennemente pronto a scappare su un monte non appena riusciva a ritagliarsi un momento di libertà. “Cerco qualcuno per salire sul Polluce sabato: un’ottima giornata, stando al meteo” - comunicò a Damiano - “Dì, ce la fai a venire?”. “Certo che sì!” - gli rispose prontamente l’ufficiale: al Comando erano già al corrente che nel corso di quella settimana egli si sarebbe assentato per un paio di giorni; anche se non più, purtroppo, per via del Gigante (il Polluce - un Quattromila nel Massiccio del Monte Rosa era tuttavia una vetta pure essa illustre e stuzzicante, su cui Damiano non aveva mai messo piede). “E’ possibile che si aggreghi anche Giorgio” - soggiunse Valerio - “Una cordata a tre sarebbe l’optimum!”. Due giorni dopo una vecchia e scassata jeep salpata da Saint-Jacques scaricò i tre alpinisti al Piano Superiore di Verra, facendo risparmiare loro settecento metri di dislivello; per raggiungere il Rifugio delle Guide della 80


Val d’Ayas restava comunque ancora da coprire più di un chilometro di quota: il pesante equipaggiamento da ghiacciaio che portavano sulle spalle li schiacciava contro il terreno (un sentiero che rimontava il dorso di un’interminabile morena), rendendo davvero sfiancante quella parte di ascesa svolta sotto un cielo plumbeo che non prometteva nulla di buono. Infatti, non appena cominciato l’attraversamento della vasta conca di ghiaccio che separava l’intermedio Ricovero Mezzalama dallo Sperone Lambronecca (sul cui cucuzzolo stava appollaiata la casa delle Guide d’Ayas), Damiano udì un forte tuono. “Ci manca giusto la pioggia…” - mugugnò. Voltandosi in direzione della Gobba di Rollin (dalla quale era giunta quell’avvisaglia di temporale) egli vide però un grande fungo di polvere bianca sollevarsi per aria ed allora capì che il boato era stato prodotto in realtà dal distacco dall’alto di un enorme seracco. Oltrepassato il catino ghiacciato, i tre risalirono una scoscesa scarpata di neve; poi, sotto lo sguardo di compassione di una coppia di stambecchi, si inerpicarono sbuffando per la fatica tra i massi accumulatisi lungo una nervatura del Lambronecca, su su fino a raggiungere finalmente - a 3.420 metri di altitudine - la costruzione foderata di lamiera che avevano cominciato a temere essere l’invenzione di qualche spiritosone. 81


Alle spalle di questa si apriva uno spettacolare anfiteatro glaciale, oltre il quale si intravedeva la cima del Polluce. Dopo la consueta notte trascorsa insonne a causa dello sbalzo di quota, alle cinque del mattino (cioè ancora nel buio pesto) Damiano, Valerio e Giorgio lasciarono il rifugio: a quell’ora il gelo generalmente mantiene i “ponti di neve” sopra i crepacci - visibili e non - ancora abbastanza compatti da reggere il peso di coloro che li attraversano; più avanti nella giornata, con l’aumentare della temperatura, i medesimi passaggi richiedono una cautela massima. E’ comunque sempre cosa ottima procedere legati insieme: ciò infatti dovrebbe teoricamente consentire ai componenti di una cordata di bloccare l’eventuale caduta di uno di essi dentro quegli spaventosi baratri. Accesi i faretti montati sui caschi, i tre iniziarono la risalita del Grande Ghiacciaio di Verra. Con passo calmo (in alta quota, data la rarefazione dell’ossigeno, bisogna amministrare le energie) e tenendosi per quanto possibile distanti da un paio di giganteschi muraglioni di ghiaccio crepato sempre pronti a venir giù, essi raggiunsero infine il colle omonimo, che divide il Polluce dal monte gemello Castore. 82


Intanto il sole aveva fatto capolino sull’orizzonte, rischiarando un cielo totalmente sgombro di nuvole. Damiano e i suoi compagni indossarono allora le mascherine per proteggere gli occhi dai riverberi della luce sulla neve, che guastano seriamente la vista; crema solare e burro di cacao, a loro volta, misero al riparo dalle scottature viso e labbra. Svoltarono a sinistra e dopo poco, conficcando bene nella neve dura le punte anteriori dei ramponi e le becche delle piccozze, si issarono su per un ripido canale. Proseguirono poi su roccia non difficoltosa, finché non si trovarono davanti alla prima delle tre placche verticali che precedono l’anticima di sud-ovest, dalla quale una statua della Madonna con in braccio il Bambin Gesù vegliava sulla lunga fila di strani pellegrini che dabbasso avanzava lentamente nel ghiacciaio; puntellandosi sulla roccia liscia ancora con gli artigli frontali dei ramponi ed aiutandosi con le corde fisse lì già impiantate, i tre scalarono quelle lastre. Onorata la Vergine, imboccarono da ultimo la cresta che saliva su facendosi via via più sottile, fino a raggiungere l’agognata quota 4.091: erano in vetta! Damiano conficcò la piccozza nel ghiaccio e vi ci si accoccolò sopra. Estraniandosi totalmente dagli amici che elettrizzati si complimentavano l’un l’altro, si abbandonò alla contemplazione della sconfinata distesa di 83


cupole innevate spalancata sotto di lui: se Dio esisteva davvero, quello era lo spettacolo più grandioso che aveva concepito! Scrutò a lungo la vicina Roccia Nera e, oltre, il Breithorn; poi, dalla parte opposta, ad est, i terrificanti Lyskamm ed il Castore. E a sud, lontani, indovinò il Gran Paradiso e il Monviso. Spostò poi gli occhi sull’azzurro cielo sovrastante; immacolato e luminoso, infondeva dentro un senso di pace. Eppure Damiano fu preso dalla nostalgia: gli mancava Cecilia. L’avrebbe voluta lassù stretta a lui, ad ammirare insieme tutta quella Meraviglia… Un auspicio nuovo (ed anche un tantino egoistico) si fece improvvisamente strada nel suo animo: quello di morire prima di lei! Poiché senza più nell’aria le spensierate canzoni della compagna la sua esistenza si sarebbe di colpo come svuotata: egli avrebbe allora trascorso i propri giorni a cercarla con gli occhi dentro quel cielo puro, dove lei sarebbe sicuramente stata. Ebbe così fretta di lasciare la cima e di fare ritorno a casa. La domenica Damiano apprese dal giornale quanto poi successo alle pendici del Polluce nella tarda mattinata del giorno precedente: due giovani tedeschi (probabilmente una delle cordate incrociate lungo la discesa, 84


compiuta sotto un forte vento che lo aveva semicongelato) durante il loro rientro al rifugio erano stati ghermiti da un crepaccio, mimetizzato sotto un magro strato di neve rammollita dal sole: quando erano arrivati i soccorritori per essi non c’era piÚ nulla da fare.

85


XIII

Il déjà-vu

Sabato, 21 luglio 2001 - Tarda sera. Da due giorni le reti

televisive di tutto il mondo aprivano i propri notiziari con ampi servizi sul summit dei capi di governo delle otto nazioni più industrializzate in corso in Italia, nella città che aveva dato i natali a Cristoforo Colombo. Delle chiacchiere di quelli però dicevano ben poco: sugli schermi rimbalzavano invece scene di bande di teppisti mascherati e vestiti di nero che con foga bestiale facevano a pezzi vetrine di negozi e sportelli bancomat, danneggiavano stazioni di servizio e saccheggiavano supermercati; seguivano le inquadrature delle loro fitte sassaiole e dei loro lanci di molotov contro i cordoni delle forze dell’ordine e, appresso, le riprese delle furiose cariche di quest’ultime lungo vie e dentro piazze soffocate dai gas lacrimogeni; e quindi del fuggi fuggi generale, in una bolgia di sirene, di 86


scoppi e di grida, tra cassonetti delle immondizie e autoveicoli capovolti e dati alle fiamme per ostacolare il movimento dei blindati. Il peggio era arrivato nel pomeriggio antecedente: in Piazza Alimonda una Land-Rover dei carabinieri era andata momentaneamente in panne nel pieno degli scontri e in un lampo un gruppo di manifestanti aveva preso a fracassarla. “Bastardi, vi ammazziamo!”, gridavano ai tre raggomitolati dentro; un assalitore col volto nascosto dal passamontagna stava poi per scagliare un estintore all’interno dell’abitacolo quando stramazzò giù, raggiunto alla testa da un colpo di pistola esploso dal più giovane dei terrorizzati occupanti del mezzo (in servizio di leva, come quello di Bologna nel 1977). In quel mentre l’autista era riuscito a rimettere in moto e nel portare in salvo sé e i suoi commilitoni aveva arrotato senza avvedersene quello steso a terra, che sarebbe spirato di lì a qualche minuto. I “Black Bloc” (una setta internazionale di anarchici fanatici e nichilisti) erano insomma riusciti nel loro intento di fare degenerare la grande (e nelle intenzioni dei suoi promotori pacifica) manifestazione di protesta contro le politiche di globalizzazione in discussione all’interno della superprotetta “zona rossa”. Il colonnello Damiano Furlan dalla centrale operativa del Forte San Giuliano (alla quale era stato “prestato” 87


per il “G8” dal suo Comando), viveva dunque un… déjà-vu. E nutriva qualche perplessità. Come mai - si chiedeva infatti - ai black-bloc era stato consentito di acquartierarsi in città, in luoghi oltretutto a conoscenza delle forze dell’ordine? E perché sul campo gli agenti non li avevano contrastati da subito, lasciandoli anzi a lungo padroni di mettere a ferro e fuoco vari quartieri del centro, per prendersela invece poi con i cortei autorizzati, zeppi di persone che battendo tamburi e soffiando trombette semplicemente reclamavano (pure questi, già…) un mondo più giusto? Questa strana condotta, in effetti, era saltata all’occhio durante molti collegamenti televisivi. “Ma con i pochi uomini di cui disponiamo, come diavolo facevamo ad ispezionare ogni edificio segnalatoci? In piazza poi quei vigliacchi sono lesti ad eclissarsi dentro i cortei e nel caos, lei lo sa, non è tanto facile distinguere i cattivi dai… meno cattivi” - gli aveva replicato, un po’ piccato, il Comandante Provinciale. Mah, a dire il vero nel capoluogo ligure - rifletteva Damiano - erano stati fatti affluire sbirri da tutta Italia; inoltre, che, non ti accorgi se sotto il tuo sfollagente ci sta uno incappucciato oppure un tipo da parrocchia, un boy-scout o perfino una mamma, seppure “no global”? (A proposito: quella, … Milena, era mica rimasta una contestataria? Magari - chissà! - era lì a Genova, consi88


derò per un attimo il carabiniere per poi rimmergersi nelle proprie elucubrazioni). E se quegli sbagli tattici - ipotizzò - fossero invece… voluti?. Intorno alle 21,30 gli arrivò al Forte la telefonata di un amico giornalista. “Senti, Damiano, vorrei parlarti un po’ degli scontri avvenuti ieri in Via Tolemaide tra i vostri e il corteo autorizzato diretto in Piazza Verdi”. “Ho saputo: lì hanno preso a bombardarci di sassi e così abbiamo dovuto effettuare una carica di alleggerimento”. “Balle! Le pietre saranno state due o tre al massimo e le hanno lanciate dei black-bloc estranei alla dimostrazione; ma i “caramba”, anziché pigliarsela con quelli, hanno iniziato a buttare lacrimogeni sulla testa del corteo che sopraggiungeva e subito dopo a caricarlo. Hai presente la zona? Là ci sono poche vie di fuga: beh, chi non è riuscito a scappare è stato letteralmente massacrato di botte; e non parlo solo di manganelli, ma anche di calci e pugni”. “Uhm… Quelli però non erano certo dei santi! Infatti i nostri hanno poi comunque ripiegato per lasciarli passare e fare così concludere la manifestazione alla Stazione Brignole; però all’altezza del sottopasso ferroviario un bel gruppetto di loro ha infilato a sinistra Corso Torino e lì ne ha combinate di cotte e di crude: ci abbiamo pure rimesso un furgone cellulare, dato a fuoco”. 89


“Sì, lo so. Però il punto è che alla guida di quei farabutti c’erano gli stessi che avevano lanciato i sassi all’inizio”. “E quindi?”. “Colonnello, prima che il corteo arrivasse i tizi in tuta nera stavano in mezzo ai carabinieri. Parlavano e scherzavano insieme... degli amiconi!”. “Ne sei certo, Antonio? Guarda che ciò che stai dicendo è grave!”. “Te lo giuro, Damiano. L’ho visto con i miei occhi. E più tardi in Piazza Alimonda è purtroppo successo quel che è successo…”. “Ah, no, alt! Il nostro ragazzo si è soltanto difeso: quell’estintore poteva ucciderlo!”. “Non lo discuto, ci mancherebbe! Però è anche vero che tanta gratuita brutalità da parte di uomini in divisa aizza facilmente le menti meno mature” - osservò il reporter. Al carabiniere sovvenne allora di avere una volta detto qualcosa di più o meno simile in uno squallido ufficio della Questura di Bologna. Terminata la telefonata, l’ufficiale si mise a masticare due strisce di chewing-gum che teneva in una tasca della giacca (cosa poco marziale, che però lo aiutava a ragionare con distacco). Dunque, carabinieri e poliziotti che si fingevano black-bloc… beh, possibile: un tempo, del resto, non era stato lui stesso un infiltrato? 90


Però da come l’aveva messa giù l’amico questi puzzavano più di agenti provocatori. Ma a che pro? Ci meditò su e la risposta arrivò di lì a poco; semplice, a prima vista assurda eppure plausibile: il G8 costituiva una formidabile occasione per fomentare ad arte disordini gravissimi che avrebbero indignato l’opinione pubblica nazionale, spingendola a plaudire al pugno duro deciso dal governo (era infatti ora di finirla, pensavano già molti, con tutta quella sediziosa marmaglia “arcobaleno”!). Una bella ipoteca sul futuro risultato elettorale, insomma... Bah… Comunque, formulata alfine un’ipotesi tutta però da dimostrare, il colonnello sputò dentro un cestino di rifiuti le cicche ancora fresche e tornò a coordinare le comunicazioni radio. Era circa mezzanotte e un quarto quando il centralino gli passò una seconda chiamata personale. Questa volta era Cecilia. “Una televisione locale ha appena annunciato che circa quattrocento poliziotti hanno fatto irruzione nelle scuole Diaz e Pascoli!” - gli riferì lei, agitatissima. “Sì, lo so. Centocinquanta dei nostri intanto le tengono circondate per impedire fughe da finestre o uscite secondarie: pare che i due edifici siano pieni di blackbloc…” - le rispose Damiano, non comprendendo la ragione dell’inquietudine della moglie. 91


“Ma quali black-bloc!” - controbatté lei - “Alla Pascoli ci dormono, autorizzati dal Comune, soltanto dei giornalisti e dei semplici studenti stranieri!”. “Ma tu che ne sai?”. “Lucille e Amélie, ti sembrano forse delle rivoluzionarie?”. Erano due care amiche francesi della figlia; le avevano avute ospiti in casa diverse volte e appena nel marzo precedente Sofia aveva fatto con loro una settimana bianca a Châtel. Damiano non era al corrente che si trovassero a Genova per il G8. “E tua figlia, ti sembra una lanciatrice di molotov?” insistette Cecilia. “Che c’entra ora Sofia?”. “E’ là anche lei! Ci è andata per portare alle amiche qualcosa da mangiare per cena e per dormire poi stanotte lì con loro. E ha dimenticato a casa il cellulare!”. “Non ne sapevo niente” - impallidì lui. “Ma se ne ha parlato oggi a pranzo! Ah beh, già, tu non senti e non vedi mai nulla, vivi su un altro pianeta… Adesso però fai qualcosa, amore, ti scongiuro! Ordina subito di fermare tutto!” - lo implorò la donna, senza rendersi conto nel frangente che questo non era nei poteri del marito - “Se capita qualcosa alla mia bambina io… Dio, io…”. “Adesso calmati. Corro subito lì!”. 92


Lasciò le consegne ad un capitano, chiamò il suo autista e a sirene spiegate volarono in direzione di Via Cesare Battisti. Durante il (per fortuna) breve tragitto l’ufficiale affondò in un marasma di pensieri; via radio aveva udito che i fermati delle due scuole sarebbero stati immediatamente trasferiti per l’identificazione in una caserma di Bolzaneto e da qui poi smistati in varie carceri: era la seconda volta che doveva strappare una donna dalle mani della polizia, e quella notte si trattava addirittura della figlia. Abbandonata l’auto di servizio là dove s’erano sistemati i blindati dei carabinieri, con il cuore in gola si fece largo nella confusione regnante in quel momento nella strada intitolata all’irredentista trentino, seguito dal trafelato sottoposto ancora ignaro del motivo di tutta quella urgenza. In prossimità della Diaz e della sua dirimpettaia Pascoli i cellulari della polizia erano già tutti chiusi e in procinto di partire. Damiano comprese che doveva subito imbastire qualche fandonia talmente colossale da potere essere presa per buona. Si fece indicare da un agente il responsabile dell’operazione. Raggiunto questo tal Gerardo Aliberti, lo prese da parte e, consapevole di giocarsi la carriera, gli raccontò della possibilità - cosa che doveva restare riservatissima! - che tra i fermati ci fosse nientepopo93


dimeno che una nipote un po’ “ribelle” del Presidente della Repubblica; lui, in quanto amico di famiglia di quest’ultimo, era nella condizione di riconoscerla e, ciò fatto, doveva prelevarla e riportarla personalmente a Roma. Così il colonnello, accompagnato da quel funzionario di polizia divenuto in un attimo deferentissimo, iniziò a farsi aprire uno ad uno i vani posteriori dei furgoni e a frugare tra i volti dei loro occupanti: in larga parte ragazzi e ragazze, i più ridotti a scioccanti maschere di sangue; in molti gemevano e piangevano. “Che bisogno c’era di conciarli così?” - ringhiò furente Damiano ad Aliberti, tra l’altro spaventato all’idea di potere ritrovare la sua Sofia in quelle medesime condizioni. “Hanno opposto una robusta resistenza…” - bisbigliò quello. “Chi, questi pivelli? Non mi faccia ridere!” - replicò il carabiniere al poliziotto, dal canto suo visibilmente preoccupato: cosa lo aspettava se fra i pestati c’era davvero la parente di Carlo Azeglio Ciampi? Teneva famiglia, oh! Ma anche sull’ultimo furgone nessuna traccia della ragazza.

94


Damiano tirò un sospiro di sollievo: la figlia non era tra coloro in partenza per Bolzaneto. Ma dov’era, allora? “No, dentro i due istituti sono rimasti solo alcuni agenti che stanno scattando fotografie e radunando ulteriori elementi di prova della pericolosità dei fermati” - gli assicurò Aliberti, ringraziando a propria volta in segreto il cielo. “Posso ugualmente dare un’occhiata alla Pascoli?”. “Certamente” - disse il poliziotto, ordinando via radio ai suoi là dentro di lasciare entrare l’ufficiale dell’Arma. “Un’ultima cosa” - domandò quest’ultimo - “Posso prendere visione delle prove che avete già raccolto lì?”. “No, colonnello, mi spiace: questa operazione è una faccenda nostra… La pregherei anzi di non interferire oltre”. Damiano rimase un attimo pensoso, poi ribatté: “Sa, Aliberti, anni or sono, in circostanze vagamente simili e sempre di notte, un suo collega ebbe a dirmi la stessa cosa. Ma la spuntai io. E così sarà adesso, perché diversamente” - proseguì nel suo bluff il carabiniere, agitando il proprio telefono cellulare davanti alla faccia di quello - “il Presidente saprà che lei non intende favorire il mio compito”.

95


Il funzionario di polizia, stupito, sembrò voler replicare qualcosa, ma poi rinunciò; sempre via radio si fece così portare una sacca. Il colonnello sbirciò dentro: “Dunque, dei “pericolosissimi” coltellini multiuso…. buoni per stappare le bottiglie di birra; e due martelli, che avete sicuramente preso in “prestito” dalla cassetta degli attrezzi dei bidelli… non è così?”. L’altro tacque. Damiano gli restituì schifato il contenitore. “Poveri ragazzi… Ma non illudetevi: questa porcata verrà fuori!” - disse al poliziotto, congedandolo infine con un perfetto, sarcastico saluto militare. Quindi chiamò l’autista, fino ad allora rimasto a chiacchierare con degli agenti, dicendogli di seguirlo all’interno della scuola. “Mi scusi, signor colonnello, ma cosa cerchiamo?” “Un angelo” - rispose il superiore. La perlustrazione sia dei quattro piani (devastati dall’assalto) che del seminterrato dell’edificio non sortì però effetto e così Damiano cominciò a vivere l’angoscia della scomparsa. Voleva informare la moglie, ma non ne aveva il coraggio; tuttavia il telefonino che teneva ora in tasca decise di sfacchinare di suo e prese a trillare. “Ciao, papà” - si udì dall’altra parte. 96


“Sofia, amore mio! Dove sei? Come stai?” - farfugliò Damiano, sentendosi quasi mancare le gambe per l’improvviso svaporare della tensione nervosa. “Sto bene, sono a casa; ci sono anche Amélie e Lucille. Eravamo appena uscite dalla scuola per andare a prendere un gelato, quando abbiamo visto arrivare da Piazza Merani tutta quella polizia! Siamo scappate in direzione opposta e abbiamo appena fatto a tempo a nasconderci dietro il cancello socchiuso di un giardino condominiale, vicino all’angolo con Via Trieste; da laggiù abbiamo assistito all’irruzione. Dopo un po’ però non ce l’abbiamo fatta più a star lì e allora siamo uscite, cercando di avere l’aria di tre inquiline del palazzo: i carabinieri vicini effettivamente non ci hanno considerate e così abbiamo raggiunto il lungomare, e poi siamo venute qui”. “Qualche volta Dio esiste… “ - commentò il padre tra sé e sé, per poi domandare: “Come va la mamma?”. “Ah, non la smette di abbracciarci…”. Immaginando il quadretto Damiano sorrise. “Papà, ascolta” - riprese Sofia - “ Nella scuola c’era anche… Matthieu”. “E chi è?”. “Un amico di Lucille, era a sciare con noi a Châtel. Lui a Genova è venuto soprattutto per rivedere me…”. 97


Il carabiniere rimase spiazzato. Capì allora il perché di tutto quel recente traffico di lettere della figlia e dell’impennarsi della bolletta telefonica (… ma che bel fiuto da sbirro che aveva! Cecilia aveva proprio ragione: lui viveva sulla luna). “E come mai allora non era con voi… o meglio, con te?” - chiese a Sofia. “Arrivati al portone della scuola si è accorto di avere lasciato il portafoglio, con tutti i documenti dentro, nel sacco a pelo; è tornato su, al quarto piano, a prenderlo, ma la polizia è comparsa prima che potesse raggiungermi di nuovo. E’ rimasto bloccato dentro”. Per una frazione di secondo, da padre geloso qual era, Damiano si augurò che almeno una randellata - una soltanto, per carità! - se la fosse beccata anche “costui”. Poi, intenerito, rassicurò la figlia: “Va bene, vedrò cosa posso fare per questo Matthieu”. Le medesime parole dette a lui dal maggiore Battisti ventiquattro anni prima. *** In seguito le inchieste aperte dalla Magistratura sui tristi eventi del G8 genovese avrebbero dato fondamento alle congetture di Damiano. Nelle aule giudiziarie fu comprovato, fra l’altro, che in specie all’Istituto Armando Diaz la polizia si era 98


deliberatamente dilettata in un pestaggio efferato e che aveva cercato di legittimare questo “svago” con prove addirittura prefabbricate; così come fu appurato che a Bolzaneto, entro le mura della caserma “Nino Bixio” (sede del Reparto Mobile genovese della Polizia di Stato), si erano verificati non pochi casi di reale tortura e, nei confronti delle donne là trattenute, di degradanti vessazioni di natura sessuale. La quasi totalità degli artefici di tanta vile “macelleria messicana” (così la definì un vicequestore) rimase tuttavia impunita, anche in virtù della sopravvenuta prescrizione dei reati contestati; diversi dei funzionari coinvolti, anzi, avrebbero poi incorniciato brillantissime carriere. Dal canto suo, il movimento dei Black-bloc negò la paternità degli scontri di Genova; prove di una sua partecipazione organizzata a quelle vicende non vennero in effetti mai prodotte.

99


XIV

Le fotografie

Genova, 11 agosto 2001. Costretto in casa dal classico

temporale estivo, quel sabato pomeriggio Damiano si decise finalmente a sistemare negli album anche le fotografie rimaste a lungo abbandonate alla rinfusa dentro uno scatolone giù in cantina. Seduto allo scrittoio, si ritrovò così tra le mani le immagini scattate diciotto anni prima in Libano, dove aveva fatto parte della “Forza Multinazionale” inviata laggiù con il generoso compito di riportare pace e stabilità in un paese martoriato da lunghi anni di guerra civile. La raccomandazione - anzi, l’ordine - di non usare le armi (se non in caso di legittima difesa) aveva invece tramutato quei “benefattori” in meri testimoni - impotenti ed avviliti - della prosecuzione della mattanza; non solo: a loro spese i cecchini (tanti!) delle diverse fazioni in lotta avevano ben presto cominciato 100


ad apprezzare il passatempo del tiro al piccione. La missione, insomma, era sin dal principio destinata ad un totale e tragico fallimento. Una ridda di ricordi investì così il carabiniere…

Beirut, 23 ottobre 1983. Alle cinque del mattino

Damiano ne ebbe abbastanza e decise di alzarsi: si era rivoltato sul sottile materassino per l’intera nottata, senza riuscire a prendere un solo attimo di sonno; gli capitava sempre, quando cambiava branda. La sera prima l’incontro con il comandante della caserma che ospitava la 24.ma Unità Anfibia dei Marines (Damiano svolgeva l’incarico di ufficiale di collegamento del contingente italiano) era slittato di parecchio: in una strada della capitale un convoglio di medicinali s’era trovato improvvisamente circondato da una folla intenzionata a saccheggiarlo e cavarlo fuori da quel guaio era risultato ovviamente prioritario. Così, essendosi infine fatto tardi, era stato lo stesso alto ufficiale statunitense a consigliare al capitano italiano di pernottare nella base (in realtà un palazzo di quattro piani situato nelle vicinanze dell’aeroporto internazionale e riadattato ad uso militare). “Vede Furlan, da quando siamo arrivati qui, lo scorso maggio, vari “amici” ci allietano le notti con delle scariche di mortaio; e anche se a dire il vero negli ultimi giorni la 101


situazione s’è fatta meno tesa, avventurarsi da soli al buio fino in città significa cacciarsi dritti dritti nelle fauci del lupo”. Damiano aveva così avvisato telefonicamente il proprio comando e di malavoglia si era sistemato nello scomodo lettino assegnatogli da un caporale in uno dei dormitori… Rimessi gli scarponi ai piedi, il carabiniere raccolse dunque le proprie cose cercando di fare il minor rumore possibile per non svegliare i bestioni che attorno invece dormivano della grossa e si spostò poi nei bagni per darsi una rinfrescata e finire di vestirsi. Mentre scendeva le scale gettò lo sguardo oltre una porta spalancata da cui veniva un forte odore di fritto; dalle cucine uno dei numerosi cuochi affaccendati a preparare la colazione per i circa mille soldati acquartierati nell’edificio notò sull’uscio quella divisa straniera e con un gesto amichevole della mano la invitò ad entrare: “Come on, come on!”. Da tipico italiano, Damiano rabbrividì nel vedere a quell’ora d’orologio uova fritte con pancetta e salsicce arrostite e ringraziando accettò soltanto un caffè all’americana: un’autentica brodaglia, ma quantomeno leggera. Uno dei militari in grembiule, accortosi che l’ospite aveva con sé una macchina fotografica (il carabiniere se la portava spesso dietro per ritrarre quella città chiamata in un passato felice la “Svizzera del Medio 102


Oriente”), chiese a quest’ultimo di fare uno scatto di gruppo ai cucinieri: “Non abbiamo nemmeno una foto tutti insieme!” - gli spiegò il giovane, di chiara origine messicana. Damiano acconsentì volentieri; poi quegli allegroni vollero il soldato dall’insolita uniforme da combattimento scura in mezzo a loro, e così un altro paio di “clic” furono fatti da due diversi di essi. L’ufficiale promise che avrebbe fatto avere quanto prima un congruo numero di stampe di quegli scatti e salutò quindi tutti affettuosamente; al pianterreno, infine, si presentò presso il corpo di guardia per la registrazione della sua uscita. Fuori si preannunciava una splendida giornata di sole. Guardò l’orologio; erano le 6,20. Pensò a casa sua: in quel momento Cecilia e la piccola stavano ancora dormendo insieme nel lettone. Lo colse una forte nostalgia: più tardi le avrebbe chiamate dal Comando dell’Italcon a casa dei suoceri dove, com’era consuetudine la domenica, esse avrebbero pranzato insieme alla sorella minore di Cecilia, Elena, e al marito di quest’ultima. Il capitano mosse quindi verso il varco del recinto di protezione della caserma, in prossimità del quale gli era stata fatta parcheggiare la sua “Fiat Campagnola”; stava informando il sergente Steve Russel - responsabile del servizio notturno di guardia alla sbarra - che di lì a un 103


minuto avrebbe lasciato la base quando sulla strada di fronte apparve il camion Mercedes Benz color giallo che riforniva quotidianamente d’acqua i militari americani. “Arriva Fareed” - comunicò Russel ai suoi. Il sottufficiale non poteva certo immaginare che poco prima, lungo il tragitto, il simpatico autista divenuto ormai un amico ed il suo automezzo erano stati fermati dagli uomini della Jihad Islamica filo-khomeinista (al servizio sia dell’Iran sia della Siria, paesi entrambi interessati - in ispecie il secondo - alla destabilizzazione del Libano) e che quello che si stava appropinquando era un altro veicolo, del tutto identico ma imbottito di diecimila chili di tritolo (“… la più potente bomba non nucleare mai realizzata”, l’avrebbe definita più tardi l’F.B.I.). Infatti l’autocarro, contrariamente alle regole, improvvisamente accelerò a tutto gas. Il sergente intuì allora la minaccia, afferrò la propria arma ed iniziò a sparare contro il mezzo, ma inutilmente: dopo aver abbattuto filo spinato e barriere metalliche, il kamikaze sistemato al volante lo oltrepassò sorridendogli beffardamente. L’italiano capì cosa stava per accadere e si lanciò a terra. Alcuni istanti dopo (erano le 6,23) una terrificante esplosione squarciò il silenzio di quell’alba ingan104


nevolmente promettente. La caserma si accartocciò, letteralmente: duecentoquarantuno soldati rimasero uccisi, e innumerevoli furono quelli feriti gravemente. Quando, ancora sbalestrato dal violentissimo spostamento d’aria, riuscì a rimettersi in piedi dentro una divisa totalmente ritinta di grigio polvere, Damiano vide sgomento la bandiera statunitense penzolare - in brandelli - sopra una montagna di macerie fumanti; ai suoi piedi, scaraventato lì dalla potenza della deflagrazione, il cartello (incredibilmente intatto) che i marines avevano affisso all’ingresso dell’edificio: “Benvenuti all’Hilton”. Durante il ritorno al Comando Italcon su uno dei mezzi di soccorso inviati prontamente sul luogo della strage dagli alleati italiani, il capitano (la cui campagnola aveva preso fuoco nell’attentato) apprese con costernazione che un secondo camion-bomba della Jihad alle 6,26 aveva devastato a pochi chilometri di distanza il Drakkar, l’edificio di nove piani che ospitava i paracadutisti francesi, uccidendone cinquantotto. Quando più tardi Damiano al telefono mise al corrente di tutto la moglie, questa scoppiò in lacrime; poi, concluso il collegamento, essa corse da Sofia e la strinse a lungo forte tra le braccia; la bimba non capiva, pensava ad un gioco della mamma e rideva divertita. 105


Preso atto della totale inutilità della missione, nel successivo mese di febbraio Stati Uniti, Francia, Italia e Regno Unito ritirarono le proprie truppe, lasciando il “Paese dei Cedri” nel caos e alla totale mercé del famigerato dittatore siriano Hafiz al-Assad. *** Damiano mise da parte sulla scrivania la più nitida delle due foto fatte insieme ai cuochi americani. Aveva saputo poi che quelli erano tutti morti nello scoppio, ma aveva ugualmente fatto avere al comandante della 24.ma le copie promesse delle immagini (le ultime che li ritraevano ancora in vita, sorridenti), affinché venissero recapitate ai rispettivi familiari. In quella fotografia là, già sbiadita, c’era il momento più difficile e al tempo stesso più autentico di tutta la sua carriera militare... Ad essa ne aggiunse poi una che lo vedeva bambino insieme ai propri genitori e ai due fratelli più piccoli il giorno della sua prima comunione, vestito da fraticello. Dopo un’altra ancora, bellissima, di Cecilia con in braccio Sofia bimbetta. Ed infine, rovistando nel contenitore (sapeva che si trovava lì dentro) recuperò quella - l’unica - che lo ritraeva insieme a Milena, scattata dopo lo spettacolo di ballo di lei: chissà se anche la donna 106


l’aveva conservata, oppure (com’era molto più probabile) fatta in mille pezzi cacciati poi nella pattumiera. Al pari, cioè, di immondizia. Le chiuse tutte insieme dentro una piccola busta plastificata che, lasciato lo studio, andò a riporre in una tasca dello zaino già stracolmo di attrezzatura alpinistica e pronto a partire, il mattino seguente, per l’Alto Adige: sulla Croda dei Toni voleva portare con sé tutta la propria vita.

107


XV

La sorpresa

Gli strascichi delle tragiche vicende del “G8” avevano comportato lo slittamento ad agosto del congedo estivo di Damiano e dunque dell’appuntamento di quest’ultimo con Bruno, la guida alpina di Corvara. Nella vicina La Villa l’ufficiale prese in affitto il solito bell’appartamentino al piano terra di una infioratissima abitazione in stile tirolese. Il giorno prima della partenza per il Rifugio Zsigmondy-Comici, dal quale avrebbe dovuto avere inizio (il condizionale era ormai più che d’obbligo…) la sua ultima avventura, egli si alzò da letto di buon mattino, bisbigliando all’orecchio della moglie ancora sonnecchiante di prepararsi per un’escursione. “Sarò di ritorno tra un paio d’ore” - disse; quindi si lavò, fece una rapida colazione e, presa l’auto, volò in direzione di Pedraces.

108


Intorno alle otto e mezza, mentre in cucina sorseggiava il suo tè già presa dal cruccio per l’imminente scalata del marito, Cecilia udì avvicinarsi fuori uno scalpiccio cadenzato. Incuriosita, aprì la porta che dava sull’ampio prato e rivide Damiano con sulle spalle, a mo’ di mantello, un lenzuolo preso in prestito dal vicino stenditoio. “Mia incantevole dama, vuole fuggire via lontano con me?” - domandò pomposamente l’uomo, scoppiando poi in una matta risata. Lei si intenerì. Lasciò tutto e salì dietro di lui in groppa a quello splendido cavallo. Costeggiando il torrente Giaric (senza fretta, in silenzio, Cecilia con il capo poggiato sulla spalla del suo cavaliere) arrivarono all’albergo alpino Gran Ancei; i gitanti incrociati lungo il sentiero li avevano salutati spiritosamente come un re ed una regina. “Iih, iih!” - spronò lì lui, lanciando al galoppo il magnifico animale nei vasti e verdi (nonché proibiti, ma “…stamattina chi se ne frega!” ) prati dell’Armentarola. Da tempo la donna non si sentiva così felice… Quando, riconsegnata la bestia al maneggio, furono nuovamente davanti a casa Damiano le soffiò ancora in un orecchio: “Grazie! Di esistere, e di essere con me!”. Lei si rabbuiò, per poi mollargli un sonoro ceffone. “Quanto sei subdolo! Speravi di lavarti la coscienza og109


gi, eh?” - ribatté; dopodiché gli mise le braccia attorno al collo e lo baciò con la stessa passione della prima volta, ventidue anni prima, sotto gli archi della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano. “Lassù stai attento, stupido mio…”.

110


PARTE QUARTA

GINEVRA

111


112


XVI

Il nuovo imprevisto

I meteorologi dell’Aeronautica Militare stavolta si erano meritati appieno lo stipendio: le lunghe, basse colonne di nubi scure che avevano sovrastato (e preoccupato) Damiano e Bruno durante tutta l’ascesa dal paesino di Moso al Rifugio Zsigmondy-Comici (in cui i due avrebbero pernottato) il mattino seguente erano davvero scomparse: il cielo si presentava infatti assolutamente terso, il sole abbagliava e di fronte al ricovero la Croda dei Toni si stagliava in tutta la sua imponenza e straordinaria bellezza. Il carabiniere seguitava, naso all’insÚ, a scrutarne affascinato la cima mentre insieme alla guida faticosamente risaliva il vasto e ripido ghiaione posto alla base della parete nord della montagna, sino a raggiungere finalmente la forcella occidentale; qui essi si concessero una rapida sosta per un sorso di borraccia e 113


Damiano scorse così in lontananza due figure che lungo il sentiero proveniente dal piccolo Rifugio Pian di Cengia muovevano verso quella stessa sella. Una volta dissetatisi, Bruno (un tipo non alto, asciutto e agile, dai modi sbrigativi) imboccò, seguito dal cliente, un’impercettibile traccia che correva nella pietraia ai piedi del fianco ovest della croda e che alla fine li depositò su una corta cengia protetta da uno spiovente tetto roccioso. Qua si tolsero di dosso gli zaini, dai quali cavarono tutti gli attrezzi necessari all’arrampicata per poi agganciarli ai vari anelli delle loro imbragature, che diventarono così delle cintole pesantissime; da ultimo si vincolarono l’uno all’altro con la corda ed iniziarono la progressione di conserva verso il punto di attacco della Via Drasch (“… tecnicamente un po’ più difficile della Via Normale da te proposta” - gli aveva spiegato Bruno - “ma in compenso più diretta e meno ingombra di detriti”), che raggiunsero dopo avere attraversato la base del Canale Innerkofler: una incavatura piena di ghiaccio che riga l’intera parete di sudovest, separando la cima più elevata (la loro meta, alta 3.094 metri) da quella secondaria (chiamata Croda Berti, di sessantacinque metri più umile). Lungo quest’ultimo versante ebbe così inizio la salita alpinistica vera e propria alla Cima Dodici. 114


C’era da scalare circa mezzo chilometro di parete, suddividendolo in tratte ciascuna di una cinquantina di metri al massimo (la corda utilizzata era infatti lunga sessanta). Partiva dapprima la guida, la quale a mano a mano attrezzava la roccia di “rinvii” entro cui inserire e far scorrere la corda che dabbasso Damiano badava a rilasciargli progressivamente, tenendola nel contempo nella giusta tensione per arrestare un’eventuale caduta del partner; concluso il “tiro”, Bruno allestiva la “sosta” (cioè l’ancoraggio) con cui legava se stesso alla parete e favoriva la successiva salita del cliente; una volta arrivato su quest’ultimo, la guida sganciava la sicura e cominciava il tiro successivo. Damiano saliva tranquillo, confidando che l’altro sopra si mantenesse sempre vigile e lesto; lungo uno dei verticali “camini” via via incontrati la sua marcia spedita ad un tratto però si arrestò: per quanta forza mettesse nelle gambe e nelle braccia per spingersi in su, non avanzava di un millimetro. “Lo zaino…” - arguì “E’ troppo largo per questo budello!”. Maledizione, a Genova s’era ripromesso diverse volte di acquistarne uno più affusolato e poi invece, per mancanza di tempo, non lo aveva fatto… Lavorando di spalle lo sfregò ripetutamente con energia contro la roccia allo scopo di disincagliarlo, ma inutilmente. 115


“Che succede?” - gli gridò dall’alto Bruno sentendo la corda tesa da un pezzo. “Mi sono incastrato con lo zaino nel camino!” - strillò a sua volta Damiano per farsi sentire - “Libera della corda, scendo di un po’ e provo a rinfilarmici dentro diversamente!”. Fu così che si rese conto che in realtà una penzolante cinghia della sacca era andata ad incastrarsi fra la roccia e il chiodo piantato sbieco all’altezza della sua coscia; rimosso il blocco, guardò in basso per ricercare per il piede l’appoggio migliore per ripartire e così sotto intravide un’altra cordata a due impegnata lungo la loro stessa via di salita; udì anche una voce, che gli parve di ragazza. “Saranno i tali che venivano dal Pian di Cengia” - immaginò, riprendendo ad inerpicarsi dentro la fessura. Tastare continuamente la roccia durante la scalata di una montagna procurava sempre a Damiano una strana sensazione: gli sembrava d’essere un bimbetto indaffarato a gattonare sul corpo di una madre ciclopica. Una genitrice però fredda, distaccata, totalmente indifferente a quell’esserino, qualunque cosa potesse accadergli, e tuttavia non per questo crudele: ella, molto semplicemente, rendeva chiaro quanto l’uomo fosse effimero, anzi… niente! Quel mattino tale percezione fu per lui più che mai forte: la cattedrale di pietra alla quale era aggrappato e 116


tutte le altre attorno - insieme ai boschi, ai rivi e ai pascoli che scorgeva giù in lontananza - gli apparivano come l’unica, vera “Essenza”; e noi, con i nostri risibili affanni, soltanto appunto delle fugaci e superflue comparse… Finalmente raggiunsero la cengia sassosa che avvolgeva alla base il torrione sommitale; adesso bisognava portarsi dall’altra parte di quest’ultimo e lì effettuare i due rimanenti tiri di corda. Percorsero così verso destra un lungo tratto di ghiaino instabile, sul quale gli scarponi slittavano e dove era dunque necessario procedere con estrema cautela: il militare di tanto in tanto gettava l’occhio a dritta, dove si spalancava un baratro di svariate centinaia di metri, provando - perché negarlo? un po’ di strizza. Allorché, svolti i tiri conclusivi e percorsa poi una breve cresta, poté accarezzare la croce di vetta, Damiano stentò a crederci: era riuscito davvero a realizzare il suo sogno, era realmente arrivato lassù! Non avrebbe voluto trovarsi in nessun’altro luogo all’infuori di quello: di colpo ebbe la certezza che senza conoscere quel momento magico la sua esistenza sarebbe stata… imperfetta. Con lo sguardo abbracciò - come mai prima - tutte le Dolomiti e una miriade di innevate vette austriache; oltre quel mare di picchi aguzzi, poi, gli sembrò di poter scorgere il mondo intero: esso, da 117


lassù, pareva il Paradiso! Attorno un silenzio assoluto, che infondeva grande quiete... “Grazie” - disse commosso rivolto a Bruno, il quale sorridendo gli strinse la mano per congratularsi con lui per il successo della salita. Il carabiniere quindi si sedette a gambe incrociate sulla spaziosa vetta e prese a contemplare le Tre Cime di Lavaredo, le quali gli mostravano il loro lato meridionale (proprio quello che aveva scalato tre anni prima, sempre insieme a Bruno, per giungere sulla sommità della più alta di esse). Da dov’era adesso sembravano piccine, quasi un giocattolo, e ciononostante nel loro fatato isolamento irradiavano un senso di maestosità che mozzava il fiato. Damiano non riusciva a staccare gli occhi da quella meraviglia: voleva imprimersela indelebilmente nella mente. E così non si accorgeva neppure di essere alquanto stanco: sotto il profilo tecnico la scalata della Croda si era rivelata nel complesso meno ostica di quanto si attendesse, ma - come preannunziato da Ermanno - lo aveva sfibrato fisicamente. La guida si dedicò invece al panino allo speck e formaggio di malga che aveva estratto dal proprio zaino; mentre lo sbocconcellava lanciò un’occhiata di sotto verso il rifugio da cui erano partiti ore e ore prima: era diventato lillipuziano. “Un altro bel mazzo fare ritorno laggiù!” - disse tra sé e sé. 118


In quel mentre sopraggiunse in vetta la cordata che seguiva: un giovanotto e - qualche metro più indietro, legata di conserva - una ragazza la quale, fatto un ultimo passo, si fermò emettendo un secco sbuffo che esprimeva stanchezza ma anche soddisfazione; essa rivolse poi un sorriso al compagno, che raggiunse prestando attenzione a dove metteva i piedi. “Bravissima!” - le disse lui, baciandola sulla bocca. Entrambi salutarono quindi educatamente i tizi che li avevano preceduti e, scioltisi dalla corda, andarono a sistemarsi oltre la croce, liberandosi là dei pesanti zaini che avevano loro segato le spalle nella lunga salita. Quando la ragazza si tolse anche il caschetto protettivo e gli occhiali da sole, mostrando così per intero la bellezza del proprio volto che portava a piena perfezione la sua figura, a Bruno scappò sottovoce un commento di bassa lega: “Cavolo, che gran gnocca!”. Damiano, a sua volta, le piantò letteralmente gli occhi addosso. La giovane dovette avvertire quegli sguardi su di sé perché ad un certo punto si voltò infastidita, per chiedere comunque con garbo ai due: “Tutto bene, signori?”, “Assolutamente, signorina” - rispose Damiano per entrambi - “Il grandioso scenario che ci circonda, uni119


to a lei non meno incantevole, rende oggi il cuore felice di battere!”. “La ringrazio per il complimento!” - rise la ragazza, ora divertita da quella sparata lirica che anche il suo autore burlava ridacchiandovi sopra a propria volta. Sulla cima il sole picchiava forte, così la donna si tolse la sua sgargiante giacchetta rossa rimanendo con la sola t-shirt tecnica che - in quanto piuttosto aderente metteva in risalto il bellissimo seno sotto, sul quale ora ricadeva una lunga treccia castana. L’accompagnatore alpino naturalmente riapprezzò molto, mentre Damiano pareva addirittura stregato. “Permettete che mi presenti” - disse quest’ultimo tirandosi su di botto ed avvicinandosi ai due giovani per stringere loro la mano - “Mi chiamo Damiano Furlan. E lui è Bruno, la mia guida”. Quello dalla piastra di roccia su cui era seduto rese omaggio con un cenno della mano. “Io sono Davide, piacere” - ricambiò il ragazzo, un tipo alto e biondo. “E io Ginevra” - chiuse il giro la ragazza. “Un nome poco comune, ma… ammaliante: ti sta a pennello!” - commentò l’uomo, dopo avere però avvertito una fitta improvvisa e acuta - “Viste le rispettive età vi posso dare del tu, vero?”. “Certamente". 120


“Quanti anni avete, ragazzi?” “Io ventiquattro, e Davide ventisei”. “Ah, come ve li invidio! Avete ancora davanti così tante speranze e strade aperte... Quand’è il tuo prossimo compleanno, Ginevra? “Il 20 novembre. Ma perché me lo chiede?". “Perché mi piacerebbe scattarvi una bella foto insieme da elaborare poi su tela; un specie di dipinto, insomma: è uno dei miei hobby. Te lo spedirò come regalo per quella data a ricordo dell'odierna conquista di Cima Dodici, se vorrai darmi il tuo l’indirizzo. Ma, ditemi, di dove siete?” - domandò ancora Damiano, dopo avere nuovamente stretto i denti per superare due nuove dolorose trafitte nel petto. “Siamo romagnoli; da un anno però viviamo e lavoriamo a Cremona” - rispose Davide, in verità un tantino perplesso per l’approccio arrembante di quello sconosciuto - “E lei, invece?”. “Oh, il mio mestiere, ufficiale dei carabinieri, ha fatto di me un autentico vagabondo: attualmente sono in forza a Genova”. “Un carabiniere?” - si sorprese il ragazzo - “Non l’avrei mai detto! Li ho sempre immaginati tutti d’un pezzo e di poche parole, l’esatto contrario di lei!”. “Usi obbedir tacendo e tacendo morir! , recita infatti uno dei nostri motti. Ma all'occasione sappiamo essere 121


invece amichevoli, e addirittura galanti!" - ridacchiò il militare facendo l’occhiolino a Ginevra ed apparentemente pieno di brio; in realtà stava ormai accusando un malore, principiando anche a sudare. "Ma voi due, gente di pianura" - proseguì comunque - "com’è che siete rocciatori?”. “Mio nonno era di Cortina d’Ampezzo: mi ha trasmesso la sua passione per l'alpinismo quando ero piccolo e con mia madre trascorrevo le vacanze estive lì da lui; io a mia volta, dopo esserci messi insieme, ho contagiato Ginevra” - spiegò il ragazzo mentre inginocchiato estraeva dallo zaino un tubetto di crema solare che passò poi alla fidanzata, accoccolatasi intanto sopra un sasso vicino. "E’ ancora piuttosto grezza” - la prese in giro - “ma sta imparando in fretta”. “Beh, di coraggio sicuramente non difetta, se si è spinta fin quassù... I tuoi non brontolano, Ginevra?” chiese poi rivolgendosi di nuovo a quella. “Mia mamma è mancata l’anno scorso”. Damiano si zittì; la ragazza suppose che si sentisse in imbarazzo per l’involontaria gaffe ma l'uomo, in realtà, in quel momento era giunto all'apice del proprio malessere. Lo capì la guida, che in disparte aveva seguito l'intera conversazione e notato già una qualche difficoltà nel suo cliente. “Colonnello, è tutto a posto?” intervenne allarmato: un eccessivo affaticamento e lo 122


sbalzo di quota potevano insieme avergli tirato un brutto scherzo! Il militare annuì con il capo per rassicurarlo e, pur stentando un po’, riprese con Ginevra il dialogo interrotto poco prima. “Mi dispiace, davvero. Cosa le è accaduto?”. “Un brutto male, purtroppo” - intervenne Davide per evitare alla ragazza una dolorosa rievocazione ed iniziando peraltro a spazientirsi un po'. “E tuo papà?”. “Lui l’ho visto solo in foto: è morto in un incidente in mare prima che io nascessi…” - rispose con amarezza la giovane. A questo punto, però, il suo compagno si rialzò in piedi e sbottò. “Ascolti, signor Furlan, io e Ginevra siamo saliti qui in vetta per festeggiare in un modo speciale il nostro secondo anno di fidanzamento. Speravamo di essere soli, ma così non è stato. Pazienza. Ma non posso accettare che con domande inopportune uno sconosciuto addirittura guasti tutto! Non vede che la sta rattristando? La smetta, per cortesia!” - concluse lanciando poi per la stizza giù nel vuoto, appallottolato, il foulard che si era appena levato dal collo per il gran caldo. Nel suo angolo il silenzioso Bruno scrollò la testa: davvero, perché tanta smania di confidenze? Che diavolo era preso quel giorno al suo cliente, che sapeva 123


essere una persona assolutamente discreta e irreprensibile? “Hai ragione, ragazzo, mi sono dimostrato un vero ficcanaso!” - disse Damiano - “Vi chiedo scusa. Io volevo soltanto...". "Su, Davide, non è successo niente di che!" intervenne Ginevra dal suo sgabellino di pietra per troncare lì la questione; poi, rivolgendosi agli altri due, propose: "Per festeggiare sia il nostro anniversario che la conquista della Croda - perché ero sicura che ce l’avremmo fatta! - ho portato nello zaino una piccola bottiglia di spumante. Possiamo brindare in quattro: oggi infatti è un giorno indimenticabile per tutti!". "Grazie, signorina, ma noi ora dobbiamo proprio andare" - le rispose la guida, cominciando subito a rifilare la corda in vista della discesa: il colonnello non stava bene, ne era certo; bisognava riportarlo giù al più presto. "Non credo che l'alcol oggi faccia per me..." - declinò a sua volta l'invito l’ufficiale (“Già!”, commentò Bruno fra sé e sé). "Sarà per un'altra volta" - aggiunse con un certo rammarico nella voce; e poi, rivolgendosi a Davide, concluse: "Vi lasciamo finalmente soli: godetevi in pace il fantastico panorama e la vostra bellissima ricorrenza". 124


"Però non attardatevi troppo" - raccomandò loro, più concretamente, la guida alpina - "Quelle nuvole laggiù mi piacciono poco, se mai il vento le portasse qua potrebbero essere guai seri: non dimenticate il perché del nome di questa montagna". Un rapido scambio di saluti, dopodiché la guida ed il suo cliente si avviarono di conserva lungo la cresta. "Dì, colonnello" - chiese Bruno a quello che lo precedeva quando fu certo di non poter essere più udito dai due rimasti sopra - "Ma ti eri mica messo in testa di provarci con la ragazza, e per di più sotto il naso del suo fidanzato?". "Ma non dire stupidaggini!" - negò, inalberandosi, il militare. "D'accordo, argomento chiuso... Però è sicuro che tu non stai bene: hai il respiro corto. Nei mesi scorsi ti sei preparato fisicamente?". "Non molto". "Fantastico!... Beh, ora pretendo da te la massima concentrazione durante tutta la discesa: giù dobbiamo arrivarci vivi!”. Il ritorno dalla vetta della Croda dei Toni lungo la Via Drasch comporta un gran numero di calate in “corda doppia”: è dunque un continuo recuperare dall’ancoraggio soprastante la fune che dopo viene rilanciata giù 125


lungo la parete per eseguire la discesa successiva, insieme ad un macchinoso sgancia-riaggancia ad essa di discensori e moschettoni: operazioni che richiedono attenzione e celerità di esecuzione. Damiano all’opposto manovrava con lentezza e si calava giù in modo scomposto; sembrava come assente. Per forza: aveva fissa nella testa la donna della vetta. Il rientro andava dunque per le lunghe, la guida ne era seccata ma non sollecitò il suo cliente, intuendo che non sarebbe servito a nulla. Anzi. Erano alla quart’ultima calata quando udirono ripetutamente provenire dalla vicina Via Normale dei paurosi rimbombi: per ben tre volte - con un breve intervallo fra l’una e l’altra - la montagna scaricò infatti lì una valanga di pietre; se Bruno avesse assecondato Damiano nella scelta della “via”, di loro sarebbe stata recuperata solo della misera poltiglia… Finalmente si ritrovarono sulla cengia dove al mattino si erano preparati per l’ascensione e in cui adesso viceversa si liberarono di tutta l’attrezzatura rigonfiando oltremisura gli zaini; dopodiché essi si incamminarono lemmi lemmi in direzione della sella da cui con una ripida discesa avrebbero dovuto riguadagnare il Rifugio Zsigmondy-Comici; qui Damiano aveva in precedenza già riservato per sé un secondo pernottamento, avendo originariamente in mente di salire la 126


mattina dopo al famoso “Passo delle Sentinelle” (conquistato durante la Prima Guerra Mondiale dagli Alpini con un’operazione di montagna entrata nella leggenda), per fare poi ritorno da Cecilia a La Villa in serata. Giunti alla Forcella De Toni, l’ufficiale mise però mano al portafoglio. “Ecco il tuo compenso” - disse a Bruno. “Beh, che premura hai? Me lo darai al rifugio, quando ci saluteremo…”. Il militare gli infilò i soldi in una tasca della giacchetta, poi spiegò: “Non vengo con te”. “E come mai?”. “Devo rivedere quella ragazza… Ginevra”. “Cosa? Ma ti sei bevuto il cervello?” - trasecolò la guida. “La vita non smette mai di riservare sorprese. Arrivederci!” - gli rispose secco Damiano, e ciò detto si avviò lungo il sentiero che conduceva al Rifugio Pian di Cengia. Sulla cima aveva infatti sentito che i due ragazzi sarebbero ripassati da lì. Quando, sfiniti, raggiunsero finalmente il loro ricovero, Ginevra e Davide trovarono - seduto solo soletto ad uno dei tavoli esterni e con una tazza di tè caldo tra le mani l’ufficiale incocciato ore prima sul cucuzzolo della Dodici. 127


“Felice di rivedervi, ragazzi” - li salutò questi. “Salve…” - sospirò Davide, rendendo all’opposto palese il suo scarso piacere di rincontrarlo - “Ma lei non dovrebbe trovarsi al Comici?”. “Cambio di programma”. “E la guida?” “Sta rientrando a Corvara: domani dovrà portare un gruppo sulla “ferrata” Tomaselli”. “Come va, signor Damiano?” - si premurò di chiedergli invece Ginevra - “Su non avevo capito che stesse poco bene: è stato Bruno ad accennarmelo velocemente mentre ci si salutava...”. “Puff… esattamente come prima, mia cara: sbigottito, confuso; addolorato e felice allo stesso tempo. La condizione fisica non c’entra affatto!” - rispose lui. “Ma tu - e tu soltanto - puoi mettere fine al mio scompiglio. E’ per questo che mi trovo qui: ti stavo aspettando”. “Non capisco” - gli disse la ragazza, spaventata un po’ da quelle strane parole. “Oddio, questo è proprio matto!” - esclamò a propria volta il suo compagno, battendosi le mani sui fianchi. “Siediti, Ginevra; e anche tu, Davide. Vi prego”. E dopo avere ordinato all’inserviente di passaggio delle birre fresche per i due disidratati ragazzi, Damiano tirò fuori da una tasca dello zaino un oggetto che mise, capovolto, nelle mani della giovane. 128


Ginevra lo tenne a quel modo per un po’: stava cominciando anche lei a scocciarsi e fu lì lì per restituirglielo, alzarsi e andarsene; poi invece, sbuffando, decise di rigirarlo e vedere di cosa diavolo si trattasse. E sbiancò in volto, cessando di respirare. Fissò quell’immagine per un tempo interminabile; poi, lentamente, sollevò gli occhi sgomenti verso l’uomo che le sedeva di fronte. “Dimmi, Ginevra, è quella la fotografia in cui ci sarebbe tuo padre? E la donna stretta a lui, con sul viso ancora tracce di trucco da ballo, era tua madre? Era… Milena?”. Senza proferire parola, e tremando visibilmente, la ragazza guardò di nuovo la foto e poi ancora l’uomo: ventiquattro anni intaccano i lineamenti, ma non li stravolgono. Ecco perché sulla vetta aveva avuto pazienza con quell’impiccione: aveva un’aria… familiare! Si sentì girare la testa; l’intero suo passato, ogni fatto certo della sua vita d’improvviso stavano venendo giù come un castello di carte. Iniziò ad ansimare, poi a singhiozzare, finché non si abbandonò sul tavolo ad un pianto dirotto, con la testa nascosta tra le braccia; tra le tante cose, si sentiva anche ingannata, defraudata… Quella notte al rifugio Cengia tre posti letto già pagati rimasero vuoti; per non disturbare il riposo degli altri 129


ospiti, i loro assegnatari infatti la trascorsero fuori, sotto le stelle: avevano troppo da raccontare ed ascoltare, da domandare e spiegare, per potersi permettere di dormire. Non patirono neppure il freddo. Damiano s’era sentito mancare quando quella ragazza era comparsa sulla vetta: non aveva gli occhi verdi (quelli di Ginevra erano neri e luminosi, avendoli presi dal padre), ma per tutto il resto era assolutamente lei: Milena. Una rassomiglianza talmente straordinaria avrebbe indotto chiunque avesse conosciuta quest’ultima a scommettere all’istante che la giovane alpinista fosse sua figlia; comprensibilmente, il militare era stato preso dall’impellente bisogno di una conferma di ciò da parte della diretta interessata. Quando però aveva udito come si chiamava la giovane era stato assalito dal sospetto che ci potesse essere addirittura dell’altro, e s’era frenato: Ginevra era infatti il nome che lui e Milena, nelle loro continue fantasticherie di una vita felice trascorsa insieme, avevano scelto di dare alla loro prima figlia femmina (perché erano tanti i bimbi che sognavano…). E così egli - da buon carabiniere - aveva dato avvio a quella sequela di raggiranti quiz, buscandosi risposte che una dietro l’altra lo avevano lapidato dentro come pietre; perché, fuse insieme, esse sentenziavano in modo incontrovertibile che Milena era rimasta incinta di Ginevra poco 130


prima dei maledetti fatti di marzo, senza tuttavia all’epoca saperlo ancora. Ciliegina sulla torta, infine, era stata la collimazione della sparizione del papà prima della nascita, e per di più in mare: era quindi il marinaio, seppur fasullo, e non il carabiniere che Milena desiderava ricordare in cuor suo… Ormai mancava solo la “prova del nove” davanti alla fotografia che anche lei aveva dunque serbato (intanto l’ufficiale non si capacitava: il forzato rinvio della scalata a quel giorno di agosto, il sabato di pioggia che gli aveva fatto infilare l’immagine nello zaino… “cosa”, “chi” aveva preordinato quell’incontro sulla vetta?). Per Ginevra però conoscere la verità sarebbe stato uno shock: Damiano non poteva dopo farle affrontare frastornata la difficile discesa dalla Croda! Per questo aveva rinviato il momento decisivo giù al rifugio. “Qui, mentre ti attendevo, ho ripensato tanto a tua madre” - disse alla ragazza - “Quando lassù hai detto che non c’è più mi sono sentito devastare; e, rammentando il dolore che le ho causato, prima che tu arrivassi… ho pianto”. Alla figlia che l’ascoltava attonita raccontò del suo immenso amore per Milena, dei mesi - pochi, eppure lunghi come anni - in cui insieme avevano vissuto in paradiso; e di come poi tutto, all’improvviso, era finito. 131


“Adesso capisco a cosa veramente alludesse la mamma quando ogni tanto mi diceva che le ero stata donata da mio padre due volte: il pestaggio in caserma avrebbe infatti potuto causarle un aborto!” - sospirò Ginevra malinconicamente “Ma tu, papà, perché… perché non l’hai più cercata, dopo?”. “Ero convinto che mi odiasse”. “Invece io so che non hai mai smesso di volerti bene. Si conversava raramente di te; sentivo che soffriva quando ciò capitava, ma io credevo per via del modo terribile in cui mi aveva detto che eri morto: annegato, cadendo una notte in mare aperto dalla tua nave, e mai più recuperato. Così non ho mai insistito per sapere di più di te: anche a me veniva da piangere, sai. E ha sempre parlato di te come di una persona speciale. L’ho sorpresa più volte mentre, davanti a questa stessa fotografia incorniciata sopra il nostro comò, ti accarezzava il volto con un dito; un giorno, sottovoce, ti ha anche parlato... Negli anni è uscita per un po’ con un paio di persone, ma mai nulla di serio: per loro - ho poi capito - non c’era realmente posto nel suo cuore”. “Forse aveva paura di potere soffrire nuovamente. Glielo cacciato dentro io, quel timore: me lo ho rinfacciato per strada, il minuto prima di lasciarmi! Le ho rovinato anche il futuro…”. 132


“Ma tu esistevi, e lei non aveva smesso di amarti. Perché anche mamma non ha voluto rintracciarti, soprattutto dopo avere saputo di portare in grembo un figlio tuo? Perché?”. “Secondo lei, lo disse tra le lacrime, le cose tra noi non sarebbero mai più potute essere le stesse, e questo probabilmente non lo poteva accettare”. “E allora lei, proprio lei andata in mille pezzi per una bugia, ne ha poi messo su in piedi una ben peggiore! Pure lei ha mentito: a me, sua figlia, privandomi di un padre, menomando la mia infanzia…” - ricominciò a piangere la ragazza, incredula ed avvilita (eppure senza riuscire a provare un qualche risentimento: voleva troppo bene, alla sua mamma!). Il fidanzato - che aveva fino ad allora seguito silenzioso e stupefatto quell’incredibile colpo di scena - per confortarla la chiuse forte tra le proprie braccia, baciandola poi a lungo sui capelli; e per l’uomo sedutogli di fronte ora egli provava rispetto. “Anche i nonni mi hanno tenuta nascosta la verità” si lamentò ancora lei - “E oramai nemmeno loro mi possono più spiegare perché…”. “Ginevra, se non ti è stata detta ci saranno senz’altro state delle ragioni più che valide: te lo dico per… esperienza”. “Ma quali?”. 133


“Non lo so, bambina mia. Per proteggerti, immagino. Ma ti spiegherà la mamma stessa, quando un giorno la rincontrerai in paradiso”. Entrambi non potevano sapere che in realtà Milena, vinte alla fine mille remore e seppure dopo ben tre anni, aveva cercato Damiano a Milano. Ma, saputolo fresco sposo dalla chiacchierona guardia all’ingresso del Comando, era subito tornata alla stazione centrale, dove anche lei aveva poi udito sei spari… Sopraggiunse l’alba, e con essa una certa fame; i tre si infilarono dentro il rifugio per godersi un’abbondante e calda colazione. “Papa, tu sei sposato?”. “Sì. Con una donna adorabile”. “E…”. “Sì, Ginevra. Hai una sorella: si chiama Sofia ed ha vent’anni. Adora la danza, come tua madre”. “Una sorella! Ma è… meraviglioso!” - si agitò la ragazza, ritrovando un momento di gioia vera - “Allora non sono più sola!”. Poi però si impensierì, ed infine domandò: “Ma tu… dirai loro di me?”. “Come potrei non farlo?”. “Però come pensa che la prenderanno in famiglia?” intervenne Davide. 134


“Bella domanda!... Anche per loro sarà un trauma... Cecilia, mia moglie, sa della mia antica passione e sotto sotto, anche se non ne ha motivo, ne è gelosa: è una donna, dopotutto!” - disse Damiano, tentando di buttarla un po’ sul ridere. “Una donna però straordinaria. Intelligente, e riflessiva: forse posso davvero sperare che non mi maledica; che capisca, come sa fare sempre, e continui a offrirmi il suo incondizionato amore: perché senza io non posso, non ce faccio; e anche che accolga te come una figlia, Ginevra” - proseguì rivolto alla ragazza - “Certo avrà bisogno di un po’ di tempo… Sofia? Suppongo che lei, dopo il primo sbigottimento, salterà di gioia: una sorella, maggiore per giunta, a farle da spalla nelle sue bizzarrie!... In casa già stentavo con due femmine, figurarsi dovere in futuro far fronte a una colazione a tre!” - ironizzò il carabiniere, dentro di sé attraversato da ovvi timori ma al tempo stesso riscaldato da un raggio di commossa felicità. Nella vita tutto lascia un segno. Sempre. E infatti un banale pugno di parole scambiate sotto un megafono rauco gli aveva infine portato lei, creatura meravigliosa e sua. Prese le mani della ragazza e se le poggiò sul cuore.

135


XVII

Il nuovo corso

Cecilia, dopo un’iniziale fase di smarrimento e di comprensibile rigetto dell’accidente piombatole all’improvviso in famiglia, accettò Ginevra, prendendo anzi via via a volerle sinceramente bene; in ciò aiutata dalla gioia che leggeva negli occhi di Sofia. Damiano ebbe una ragione in più per tenere fede alla propria promessa di abbandonare l’alpinismo; Bruno certo perse un affezionato cliente, ma fu contento di sapere (e finalmente capire) da una lunga lettera del colonnello dell’insolita, incredibile “tormenta” che s’era scatenata quel giorno di agosto sulla Croda delle bufere. Ginevra deluse parecchio Davide come scalatrice (adesso la giovane, non appena le era possibile, correva a Genova per stare un po’ con la sorella), ma sicuramente fece di lui l’uomo più felice sulla faccia della 136


terra accettando di sposarlo non molto tempo dopo. E, quando venne al mondo, alla loro creatura volle donare il nome di sua madre: Milena.

La montagna piĂš alta rimane sempre dentro di noi. (Walter Bonatti)

137



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.