Relazione del Presidente
Qual è il suono di una sola mano che applaude? Nessuno, il silenzio. Questo è il suono dell’Italia senza il suo Mezzogiorno. Senza Melfi, senza le aule della Federico II dove nasce il diritto, senza i forni dell’Ilva, senza i Bronzi di Riace, senza il Sulcis. C’è il silenzio, senza il Sud. Il silenzio della rinuncia. Di chi rinuncia a 21 milioni di abitanti e al 23% del PIL. Di chi rinuncia a essere grande in Europa. Perché l’Italia senza il Sud non sarebbe più se stessa, la sua storia, la sua identità. No, qua non è il Sud ad arrendersi, ma l’Italia ed i suoi 70 anni di governi se non riusciamo a rimettere insieme la mano destra con la sinistra e a farle lavorare. Se non riusciamo a capire che il Mezzogiorno non è solo la metà del Paese ma la sua metafora. Perché le risorse che ha sono le risorse dell’Italia: sapienza, creatività, tenacia. E i problemi che vive sono i problemi dell’Italia, solamente amplificati. La bassa crescita, con un Pil procapite che è quasi la metà del Centro-Nord. La disoccupazione, la frammentazione del tessuto produttivo. Le infrastrutture, che restano sempre costruite a metà, e gli investimenti, che vengono sprecati o distorti. La mancanza dello Stato e, soprattutto, del senso dello Stato, che si trasformano in illegalità, rifiuto della partecipazione al governo del territorio, assistenzialismo, degrado, emarginazione dei più giovani.
30° Convegno di Capri | 16 - 17 ottobre 2015 | Relazione del Presidente 1
“La nostra parola è questa: il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno! Così il resto dell’Italia riconoscerà che questo è un problema nazionale e unitario, basato sulla chiara visione di una politica italiana mediterranea e di una valorizzazione delle nostre forze”. Non sono parole mie, sono parole del 1923, le pronunciava Don Luigi Sturzo. Per tutto questo - quasi cento anni dopo - non ci arrendiamo al silenzio del Sud. Come non si arrendono gli imprenditori che hanno scelto di rimanerci, gli imprenditori che siedono in questa sala. Imprenditori che ogni giorno credono nelle loro imprese e nel loro territorio, con tenacia ed audacia. Come i tanti giovani startupper che dalle regioni del Sud partono carichi di sogni e capacità alla conquista di mercati nazionali ed internazionali, resilienti e coraggiosi, protesi verso la ricerca del successo. Per loro, noi non ci arrendiamo. Risolvere i problemi del Sud significa contribuire a risolvere i problemi dell’Italia, a farla diventare finalmente Nazione. L’Italia che discute del Sud è l’Italia che discute se stessa. Che rende le sue Regioni “speciali” non solo - anzi, nonostante - uno Statuto che lo certifichi. È l’Italia che può tornare ad applaudire i suoi successi. Con due mani. Abbiamo milioni di ragioni per non riuscirci, ma non una sola scusa per non provarci.
È solo Mezzogiorno Non è tardi. E non è finita qui. Basta guardare alle risorse e alle eccellenze che abbiamo: dal Mezzogiorno viene un quinto del valore aggiunto nel settore alimentare e un terzo nell’aeronautica. Si esporta il 75% della raffinazione e quasi il 20% della cantieristica. Il Sud non ha bisogno di misure straordinarie né di regalie, ma ha infinita necessità di strumenti ordinari per fare impresa: ha bisogno di collegamenti efficienti, di scuole dove i soffitti non crollino, di banda larga, di servizi pubblici. 30° Convegno di Capri | 16 - 17 ottobre 2015 | Relazione del Presidente 2
Ha bisogno di misure strutturali per costruire uno sviluppo duraturo. Serve un piano organico di crescita. Dove è finito il “Master Plan” per il Sud annunciato ad agosto? Ma, soprattutto, possiamo parlare di Master Plan per il Sud senza avere ancora un piano industriale per l’Italia intera? È per questo che chiediamo un progetto di politica industriale da due anni, che chiediamo di coinvolgere nella progettazione chi al Sud lavora e fa impresa - e non solo le amministrazioni pubbliche – e che sia un vero shock positivo. Leggiamo invece che il “Master Plan” per il Sud sarebbe un insieme di misure che, in tutto, valgono 150 milioni quest’anno, su una finanziaria che vale quasi 30 miliardi. Che non ci sono il credito d’imposta per i nuovi investimenti e ampliamenti, quello per la ricerca, i contratti di sviluppo, come invece ci aspettavamo. Così, è troppo poco, quasi inutile! Soprattutto adesso, che ci si presenta davanti un’opportunità importante: clausola investimenti richiesta all’Europa, cofinanziamenti dei progetti con i fondi strutturali, piano Junker… pezzi di un puzzle che, se fatto bene, può diventare il perno su cui far leva per il nostro futuro. Allora 5 punti imprescindibili: digitalizzazione, industria, turismo, cultura, infrastrutture. Progettiamo un Sud piattaforma per la banda ultra larga, laboratorio industriale con Taranto e Bagnoli, emblema di rinascita culturale con Matera e i siti Unesco che tutto il mondo ci ammira. Un ambizioso progetto di alta velocità che connetta le direttrici italiane perché le merci uscite dai nostri stabilimenti arrivino ai porti e ai retroporti e da lì in tutto il mondo, senza dover passare da Rotterdam. Un Sud parte integrante dell’Europa. Perché se fallisse il “Master Plan” per il Sud non sarebbe solo un fallimento italiano, ma un fallimento europeo. Siamo chiari: per il Mezzogiorno non vogliamo incentivi a pioggia, ricette speciali e di breve periodo. Perché agire in modo selettivo e contingente sul piano fiscale o contributivo produce solo nuove cattedrali nel deserto e al Sud davvero non ne servono.
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Non serve una nuova Manfredonia - con i capannoni abbandonati da quando gli incentivi sono finiti - non servono imprese tenute artificiosamente in vita finché dura l’agevolazione. Per questo nella finanziaria serve decisione e chiarezza: le coperture “ballerine” del fondo migranti non possono essere usate per l’Ires. Non possiamo aspettare un “via libera” da Bruxelles. Il via libera ve lo da chi tiene in piedi il Paese: l’impresa e i lavoratori. Servono coperture certe per una misura che non tocchi solo le Pmi o il Mezzogiorno o che parta dal 2017 ma che riguardi tutte le imprese, da subito e che valga 5 punti. Perché è una misura per l’imprenditoria e l’impresa ha bisogno di certezza fiscale. Ci siamo riusciti nel 2007, Cameron ci riesce oggi, adesso tocca a questo Governo. Quindi bene, benissimo il superammortamento, ma abbassiamo le imposte su chi produce perché è un fattore di competitività, di attrazione di investimenti esteri, di stimolo all’export. Decidere quali imposte abbassare è solo una scelta politica. Noi siamo convinti che la priorità sia abbassarle sul lavoro e sulle aziende, da subito, dal 2016. Il Governo ha deciso, invece, di alleggerire quelle su 45mila ville e castelli. Eppure oggi la ricchezza delle famiglie italiane vale 8 mila e 700 miliardi e i risparmi liquidi cash – 2 mila miliardi, quanto il debito pubblico. Invece le imprese non trovano credito. Invece le imprese pagano 65 euro di tasse ogni 100 di guadagni. E i lavoratori quasi 50. Non possiamo continuare a tassare e a demoralizzare chi investe, chi produce, chi lavora, chi fa impresa, chi manda avanti il Paese. La vera patrimoniale è su di loro. Va tassato, invece, chi vive di rendita, chi ha patrimoni fermi, chi blocca la nascita di un mercato dei capitali di rischio. All’Italia, ora più che mai, serve una visione da statista, non da politico. Non esiste nessuna parte del mondo avanzato che abbia fatto a meno dell’industria. È l’industria che crea innovazione. È l’industria che, attraverso le esportazioni, collega ogni fabbrica al resto del mondo.
30° Convegno di Capri | 16 - 17 ottobre 2015 | Relazione del Presidente 4
È l’industria, ancora, che porta occupazione e permette a chi è nato in un territorio di poterci vivere e farci crescere i propri figli. Possono venti milioni di persone vivere solo di turismo? No. Lo possono fare forse le Baleari, ma non lo potrebbe fare nemmeno la sola Sicilia, figuriamoci metà dell’Italia. L’industria è necessaria. Quella culturale e quella del turismo - che attivano il settore dei trasporti, dell’immobiliare, dell’alimentare - sono importanti, ma da sole non bastano. È un tessuto industriale diversificato l’unico che genera crescita. È un’industria innovativa, che per esempio sa raccogliere l’eredità dell’Expo trasformandolo nel più grande campus di ricerca e sviluppo del mondo. Dove ogni Paese espositore potrà inviare i suoi ricercatori e dove le aziende possono spostare gli hub dei loro centri di ricerca, per dare continuità nel tempo e nello spazio e fare dell’Italia, di nuovo, la culla della modernità.
Nuova energia Per questo è prima di tutto il Sud - i suoi cittadini, i suoi amministratori - che deve decidere se essere la parte più avanzata del Mediterraneo o un lunapark per turisti. E allora ci domandiamo quale futuro per il Sud abbiano in mente i Governatori delle Regioni che, andando dietro i soliti Comitati del no, hanno presentato un referendum contro le norme che sbloccano le trivellazioni. Partiamo da un dato: l’Italia deve importare ogni anno grandi quantità di petrolio, sprecando la ricchezza che avrebbe e aumentando la dipendenza da altri Paesi. Nei quali spesso il petrolio viene estratto con standard di attenzione all’ambiente infinitamente minori rispetto ai nostri. Quello delle trivellazioni non è un tema che tocca solo un settore produttivo o un territorio specifico. È l’emblema del deficit di cultura industriale che l’Italia sconta ancora oggi. I timori e i pregiudizi che animano le opposizioni ostili – e che spesso la politica subisce anziché controllare – si superano spiegando che un’Italia a minore dipendenza energetica, 30° Convegno di Capri | 16 - 17 ottobre 2015 | Relazione del Presidente 5
un’Italia hub del gas per l’intera Europa, un Italia con meno bollette da pagare all’estero e più risorse da investire, sarebbe un Paese migliore e più forte. Non potremo per lungo tempo fare a meno di fonti fossili, ma possiamo contare su tecnologie raffinate per contenerne i rischi in ogni fase di produzione. Guardiamo all’esempio della Norvegia, dove petrolio, gas e infrastrutture energetiche si sono accompagnati con altissimi standard di tutela ambientale e con lo sviluppo di fonti rinnovabili. E soprattutto hanno alimentato il benessere di un Paese che ha avuto la saggezza di destinare una quota fissa delle royalties petrolifere a un fondo nazionale d’investimento, che sosterrà la spesa sociale dei norvegesi per i prossimi secoli. Facciamolo anche noi: creiamo un fondo sovrano con i proventi delle attività estrattive e rendiamo quello che abbiamo nel nostro sottosuolo un patrimonio che – anziché venire sperperato - crei ricchezza per le prossime generazioni. Altro che pagare ancora oggi le accise sulla guerra in Etiopia quando facciamo benzina! Ma non serve guardare così lontano per trovare esempi di come turismo, industria e agricoltura possono vivere insieme. Prendiamo il caso Emilia Romagna, che ha di fronte alle proprie coste decine di piattaforme per l’estrazione di gas e petrolio e uno dei poli chimico-petroliferi più importanti d’Italia e che da sola realizza con il turismo entrate superiori a quelle di qualsiasi regione del Sud. Perché invece qui, dove ci sarebbe un tremendo bisogno di investimenti, lavoro e reddito più che da ogni altra parte d’Italia, ci si vuole condannare a livelli perenni di sottosviluppo? Serve nuova energia, per costruire le basi della fiducia.
L’Europa guarda a Sud La fiducia in un’Italia che sta tornando finalmente a crescere, mentre la ripresa si rafforza in tutta l’Eurozona. Proprio adesso non possiamo permetterci altri casi VolksWagen, non devono scatenarsi sentimenti antimpresa a causa dell’azione di una singola azienda. 30° Convegno di Capri | 16 - 17 ottobre 2015 | Relazione del Presidente 6
In campo ci sono centinaia di migliaia di posti di lavoro. In campo c’è la credibilità dell’industria verso i consumatori: se si indebolisse minerebbe non solo il sistema tedesco ma anche quello italiano, che si basa proprio sul valore del brand e dell’eccellenza. Servono, invece, chiarezza ed azioni immediate, a partire da una legislazione che contenga informazioni sulla provenienza e sulla sicurezza dei prodotti. A partire dal dossier Made In. È ora di cambiare baricentro all’Europa, è ora di guardare a Sud. Per far diventare l’Italia, ancora di più, una potenza industriale. Il 2015 può essere l’anno dei record per il Made in Italy. Se il trend di vendite si dovesse confermare nei prossimi mesi, quest’anno si potrebbe chiudere con esportazioni per 419 miliardi di euro, il dato più alto di sempre. Ma sul totale dell’industria manifatturiera mondiale, l’Italia oggi pesa solo per il 3%. E su questo, inutile negarlo, influisce anche un mercato interno ancora fermo. Non basta, perché il mondo vuole più Italia, ma la domanda è: l’Italia vuole contare di più nel mondo? O vuole accontentarsi di dare il nome a un complesso di autostrade irlandesi - battezzate ironicamente Italian Highways – invece di costruire le nostre? O vuole accontentarsi di sprecare l’occasione per darci nuove regole che premino produttività e competitività? O vuole, ancora, accontentarsi di indire il Giubileo e poi di non arrivarci pronta perché rimane senza il Sindaco della capitale, che non cade per un serio dibattito sullo stato della città o sulla mancanza di legalità ma, ancora una volta, per degli scontrini?
L’ultima parola La legalità, allora, è diventata un concetto ripetuto, abusato, inflazionato, fino quasi a non comprenderne il senso. Troppa, o sbagliata, legalità da una parte. Assente, o incapace, dall’altra. La prima è la legalità che blocca i cantieri, che affossa le imprese, che ingessa le opere. È la legalità di Monfalcone, dell’Ilva, di ordinanze giudiziarie che bloccano produzioni che fanno lavorare migliaia di persone per interpretazioni cavillose. 30° Convegno di Capri | 16 - 17 ottobre 2015 | Relazione del Presidente 7
È la legalità spesso distorta da una magistratura che non conosce e non capisce l’impresa e che fa sì che molti imprenditori rispettino le regole solo per il timore delle pene e non per l’opportunità in termini di concorrenza, trasparenza e apertura dei mercati che esse rappresentano. Come se le imprese fossero ospiti sgraditi, il contrario di quello che dice la Costituzione e che ha ribadito la Consulta. Come se i dati positivi su fatturato e ordinativi, su posti di lavoro e consumi nascessero per caso, fossero il risultato di un file Excel e non invece il frutto del lavoro e del coraggio di chi in questo Paese alza la serranda ogni mattina. La seconda è la legalità mancata, quella che non riesce a combattere l’evasione, la corruzione, la criminalità organizzata ma anche quella diffusa, quasi ordinaria, quella del “così fan tutti”. Quella che spesso fa scappare gli investitori esteri e gli italiani onesti. Diceva Kennedy: “Quelli che rendono impossibili le rivoluzioni pacifiche, rendono le rivoluzioni violente inevitabili”. Un discorso che può essere applicato, oggi, alla mafia: se non rendiamo possibile il riscatto economico e legale del Mezzogiorno, rendiamo inevitabile l’economia illegale. Potremmo farvi l’elenco dei Comuni sciolti per mafia al Sud, ma la vera questione è che la mafia, oltre che una “capitale”, ha un Paese intero. Oggi, al Nord, la camorra è attiva in Lombardia, in Liguria, in Friuli Venezia Giulia e in Veneto, dal riciclaggio al Casinò di Sanremo alle agenzie per il recupero crediti, dall’acquisizione con metodi fraudolenti di imprese in crisi alla commercializzazione di prodotti con marchi contraffatti. È presente al Centro: in Emilia Romagna e in Toscana, con riciclaggio, estorsioni, usura, traffico di stupefacenti e rifiuti; in Umbria e in Abruzzo, dove è stato un miracolo riuscire a tenerla fuori dall’affare della ricostruzione de L’Aquila; nel Lazio, dove faceva affari a Roma col Cafè de Paris e nella zona Pontina, dal business delle cave a quello del settore ortofrutticolo. Pervasiva e capace di operare su più piani: criminale, imprenditoriale e politico. Ecco perché i problemi del Sud sono i problemi dell’Italia e la soluzione deve essere complessiva. Cambiamo, quindi, punto di vista! A partire dai beni confiscati alla mafia.
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Un paradosso inaccettabile: le risorse confiscate ammontano a circa 60 miliardi - praticamente 2 finanziarie - ma non sono una risorsa per il Paese, anzi sono un costo. Perché i beni non vengono reimmessi nel mercato finanziando le casse pubbliche, ma vengono gestiti a tempo indeterminato, con spese altissime e con procedure poco trasparenti. Chiariamo: non ci riferiamo ai beni simbolo che devono restare patrimonio pubblico e memoria futura - come la casa di Riina - ma ai beni commerciali, mobili ed immobili, che potrebbero produrre lavoro e ricchezza per la comunità e che invece vengono fatti marcire. Quasi 17mila immobili, fra appartamenti, alberghi e terreni agricoli, che potrebbero essere immediatamente rivenduti. Quasi 800 milioni di opere d’arte, lasciate ad ammuffire in qualche cantina. Quasi 2500 aziende, di cui ormai sono rimaste attive solo in 300 - con 700 addetti e 92 milioni di fatturato - perché passano mesi, anni, prima che dal sequestro si passi alla confisca. E quando ci si riesce, il passo successivo non è migliore: la gestione viene affidata dal giudice in modo totalmente fiduciario ad un amministratore che non deve avere nessuna competenza se non quella di essere disposto ad accettare stipendi spesso milionari. Senza bisogno di portare nessun risultato economico perché le eventuali perdite vengono ripianate dallo Stato. E potendo quindi fare concorrenza sleale, vendendo sotto costo, alle imprese normali che invece sottostanno alle regole di mercato. Un costo inaccettabile, un malaffare sul malaffare, una perdita per tutti. Eppure basterebbe poco per trasformare un meccanismo in cui non è chiaro chi fa il ladro e chi la guardia in una risorsa del Paese: un albo certificato di amministratori giudiziari con competenze manageriali (sono 4 anni che aspettiamo l’applicazione dei decreti!), tempi certi per reimmettere le aziende sul mercato tramite gare pubbliche, una collaborazione fattiva con le cooperative e, soprattutto, con chi fa impresa. Perché chi fa impresa può dare un valore aggiunto essenziale sia nella fase di valutazione che in quella di accompagnamento verso il mercato. Confindustria ha presentato un progetto concreto per velocizzare le assegnazioni e rendere redditizi i beni, i Giovani Imprenditori stanno lavorando con Libera affinché i beni diventino davvero comuni. Adesso dobbiamo scrivere l’ultima parola. 30° Convegno di Capri | 16 - 17 ottobre 2015 | Relazione del Presidente 9
La mafia non è un fatto ineludibile. Non è un “elemento costitutivo”, come è stato detto. La mafia pesca sempre fra gli ultimi: i senza lavoro, quelli che non hanno alternative, quelli che arrivano su un barcone. Dobbiamo dare noi - l’impresa - l’alternativa. Dobbiamo evitare che, come sempre, l’Italia si abitui facilmente alle sue tragedie.
Uomini liberi Come quella che si sta compiendo sulle nostre coste, giorno dopo giorno, nella quale muoiono donne, bambini e uomini incolpevoli. E insieme a loro, muoiono speranze e chissà quali occasioni di sviluppo, di crescita, di occupazione, di impresa. Diciamolo chiaramente: senza gli immigrati l’Italia non ce la farebbe. Le nostre aziende non ce la farebbero. I nostri conti pubblici non ce la farebbero. E il nostro modello culturale fallirebbe: che potenza è quella che non sa assorbire e valorizzare le diversità per farne una ricchezza non solo umana ma anche imprenditoriale? Gli Stati Uniti sono l’esempio: delle top 100 imprese americane la grande maggioranza sono state fondate da stranieri di prima o seconda generazione. Apple, Google, IBM, Oracle, Facebook, eBay e Amazon: non sono solo tutte aziende innovative, che hanno uno strepitoso successo, ma sono anche società che non esisterebbero se agli immigrati non fosse stata data una possibilità di provarci. E allora, con regole certe per evitare abusi e favorire chi porta nel nostro Paese competenze e voglia di fare, possiamo dire che se l’Italia accoglie un rifugiato ogni mille persone, un terzo della Francia, un decimo della Svezia, è troppo poco! L’Italia guadagna quasi 4 miliardi netti dal fenomeno migratorio: è il valore dei contributi fiscali e previdenziali degli stranieri meno le spese di accoglienza e contrasto all’immigrazione clandestina. Troppo poco! L’Italia che non fa figli, ha iscritto 800 mila bambini figli di immigrati a scuola questo settembre, a cui finalmente abbiamo garantito almeno il diritto allo ius soli. Troppo poco! 30° Convegno di Capri | 16 - 17 ottobre 2015 | Relazione del Presidente 10
L’Italia ha visto morire nelle sue acque 2300 persone. Troppo! Anche una è troppo, ma 2300 sono inaccettabili. Come cittadini non ci stiamo a osservare la più grande tragedia umanitaria degli ultimi 50 anni e non fare niente. Come imprenditori non ci stiamo a non fare niente. Per questo siamo a disposizione del Governo, del Ministro dell’Interno, di ogni Prefetto, ognuno per quel che può e per quel che ha, con i nostri prodotti, i nostri servizi, il nostro lavoro per dare un aiuto a chi fa prima accoglienza sul territorio. E siamo a disposizione con la nostra competenza per aiutare chi ha il diritto di rimanere nel nostro Paese a diventare un imprenditore ed un lavoratore di successo. Ma non basta il moto di un singolo, nemmeno quello di un Movimento come i Giovani Imprenditori. Serve quello di uno Stato. Che capisce il suo ruolo, le sue opportunità, i suoi doveri. L’Italia potrebbe guidare la politica estera di tutta l’Europa verso il Mediterraneo. Perché del Mediterraneo l’Unione si è disinteressata, fino a che le si è ritorto come un problema. Dobbiamo costruire il sogno collettivo, il sogno europeo, dopo quello americano. Duemila anni fa l’orgoglio più grande era poter dire “civis Romanus sum”. Negli anni ‘60, l’orgoglio più grande era dire “Ich bin ein Berliner”, perché ci si identificava con il mondo occidentale. Oggi l’orgoglio più grande deve diventare quello di dire “we are european”. E tutti gli uomini liberi, capaci, volenterosi devono poterlo dire. L’Italia, in questa come in altre partite, deve osare di più. Dobbiamo sentirci, anche noi, una potenza. Sentire la responsabilità di essere un’idea e un modello: quello che l’Italia rappresenta nel mondo. Fondare un nuovo patto sociale, nel quale guardiamo alle nostre risorse e non ai nostri limiti, dove l’impresa è il cemento che unisce cittadini e istituzioni.
30° Convegno di Capri | 16 - 17 ottobre 2015 | Relazione del Presidente 11
Patrimonio Italia Ci sono poche occasioni che si presentano come quella che viviamo oggi. Non una sola, certo, ma sicuramente poche: è stato quando centocinquanta anni fa abbiamo unito il Paese sotto un unico Stato, è stato quando dopo la seconda guerra mondiale abbiamo fatto il balzo economico, è oggi quando, dopo la prima crisi globale, dobbiamo fare l’Italia di domani. Le trattative sono finite. I milioni di emendamenti sul nostro futuro sono finiti. Non ci sono altre opzioni, perché la nostra opzione l’abbiamo già scelta. L’abbiamo scelta per trenta volte, per trenta anni, nei quali ci siamo trovati su questo palco, a credere nel nostro Paese e contribuire a migliorarlo. Un Movimento che è stato, ed è, avanguardia, responsabilità, capacità e visione. L’abbiamo scelta anche oggi. Si tratta di agire, di dire “ce la possiamo fare e ce la faremo”. Di essere entusiasti, di guardare i dati che ci si presentano come si fa verso un bicchiere mezzo pieno, che noi vogliamo colmare! Questo è il nostro tempo. Abbiamo un patrimonio immenso. Che dobbiamo usare al meglio. È il patrimonio Italia. Sono le persone, la natura, la storia, il sogno dell’Italia. Sono le capacità manifatturiere, le risorse costiere. Sono il potenziale produttivo, i nostri marchi e la nostra arte. Il nostro patrimonio non è finanziario o immobiliare, ma industriale e culturale. Questo è il nostro tempo. Facendo tesoro degli anni difficili del passato, abbiamo le condizioni per poter tornare a crescere davvero. Quasi un punto di PIL quest’anno e più di un punto il prossimo anno. E vogliamo raddoppiarli.
30° Convegno di Capri | 16 - 17 ottobre 2015 | Relazione del Presidente 12
A chi dice “non c’è più tempo”, ai rinunciatari, a chi svende gli ultimi pezzi di Italia a buon mercato, le ultime aziende a prezzi scontati, dobbiamo dire: l’unica cosa scontata è che noi ce la faremo. Non è vero che non c’è più tempo. Questo è il nostro tempo. Quello di chi ci crede ancora. Quello dell’Italia.
30° Convegno di Capri | 16 - 17 ottobre 2015 | Relazione del Presidente 13