di padre in figlio: come scongiurare il rischio di disgregazione dell'azienda nella fase di ricambio

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DI PADRE IN FIGLIO: COME SCONGIURARE IL RISCHIO DI DISGREGAZIONE DELL’AZIENDA NELLA FASE DI RICAMBIO GENERAZIONALE



Pubblicazionefifinanziata nell’ambito 2014-2020 sottomisura Pubblicazione nanziata nell’ambito del del PSR PSR Marche 2014-2020 sottomisura1.2. 1.2.A progetto id.39305 che prevede la partecipazione comunitaria



INDICE

1. Introduzione

p. 1

2. Le possibili soluzioni utili a garantire il passaggio generazionale dell’impresa

p. 4

3. Il ricambio generazionale a seguito di successione mortis causa

p. 9

4. Il passaggio generazionale attuato mediante atti inter vivos: la donazione

p.11

5. Sempre a proposito di atti inter vivos: il patto di famiglia 6. Considerazioni conclusive

p.14 p.20


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1. Introduzione Il rischio di disgregazione dell’impresa familiare nella fase di ricambio generazionale è tutt’altro che contenuto. Si stima che, in media, solo il 30% delle imprese coinvolte riesca a superare indenne un processo di questo tipo. Le cause di un tasso di mortalità imprenditoriale così marcato sono evidentemente molteplici e assai eterogenee. Nella piena consapevolezza che la propensione

all’imprenditorialità

non è suscettibile di trasmissione agli

eredi

e

che

ogni

crisi

imprenditoriale è diversa dall’altra, si può tuttavia ritenere che una tra le cause principali delle difficoltà sottese al processo di transizione

generazionale

dell’impresa

sia

senza

dubbio

rappresentata dall’assenza di una seria e adeguata pianificazione. Detta carenza accomuna la stragrande maggioranza dei casi di insuccesso nella fase del passaggio imprenditoriale, assumendone i connotati di un vero e proprio minimo comune denominatore. Nell’ambito di una realtà d’impresa a struttura familiare, infatti, le più svariate tensioni e conflittualità generate nel contesto 1


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squisitamente

domestico

spesso

finiscono

per

condizionare

negativamente anche la realtà aziendale (e viceversa), in quanto è la convivenza

stessa

tra

la

dimensione

“familiare”

e

quella

“imprenditoriale” a costituire una potenziale fonte di contrasti che possono nascere in qualunque momento, aumentare nel corso degli anni e deflagrare più o meno improvvisamente (non solo per questioni economiche, ma anche per turbamenti emotivi e per questioni

personali)

quando

viene

meno

l’imprenditore

“capofamiglia”. Momento in cui solitamente ogni coadiuvante dell’impresa familiare e ogni membro della famiglia (la distinzione è necessaria, perché spesso le due fattispecie possono non coincidere) finisce per recriminare – a torto o a ragione - ciò che ritiene dovuto: chi per l’impegno profuso nel corso degli anni al fianco del titolare dell’impresa, chi semplicemente (ma tutt’altro che illegittimamente) sulla base dei diritti nascenti dall’apertura della successione. Inoltre, ma non certo secondariamente, è opportuno considerare che il tema assume una valenza tutt’altro che secondaria per il nostro Paese anche (e soprattutto) in considerazione del fatto che in Italia si registra un’ampia e notevole diffusione di piccole e medie imprese a gestione familiare.

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A tale proposito giova rilevare che i due terzi delle imprese nostrane sono qualificate come “microimprese” (con meno di dieci addetti in organico) e che il nostro sistema produttivo si caratterizza per la presenza capillare di realtà controllate unicamente da una persona fisica o da una famiglia. In tale ottica l’agricoltura (pur rappresentando una realtà complessa e variegata, nella quale coesistono realtà aziendali e modelli produttivi non omogenei) non costituisce un’eccezione nel panorama nazionale. La struttura delle oltre quattrocentomila imprese agricole attualmente attive in Italia, in termini dimensionali, si presenta difatti caratterizzata da un unamassiccia massiccia presenza di piccole realtà, organizzate

perlopiù su base individuale (85% circa delle imprese agricole italiane). Alla luce dei predetti dati, non è dunque revocabile in dubbio che il passaggio generazionale rappresenti uno dei problemi più delicati, attuali e diffusi per molte delle imprese (agricole e non solo) attualmente attive sul territorio nazionale.

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2. Le possibili soluzioni utili a garantire il passaggio generazionale dell’impresa Nel nostro ordinamento giuridico vari strumenti si prestano e risultano funzionali a garantire il compimento di un passaggio generazionale nell’ambito di un’attività d’impresa. Fermo restando che non esistono soluzioni aprioristicamente migliori di altre, è possibile introdurre una prima essenziale classificazione, differenziando gli strumenti volti a realizzare un trasferimento dell’azienda o della partecipazione societaria inter vivos (cioè a dire quando l’imprenditore di prima generazione è ancora in vita), da altri che, per contro, presuppongono la produzione di tali effetti dopo il decesso del disponente (mortis causa). In entrambi i casi è senz’altro opportuno non soltanto valutare i costi e le possibili agevolazioni fiscali dell’operazione, ma anche l’esigenza di assicurare la certezza del trasferimento aziendale, scongiurando contestazioni future da parte di altri familiari e conseguenti contenziosi giudiziali ultradecennali. In relazione a tale aspetto, è necessario tenere presente che il nostro legislatore riserva obbligatoriamente ad alcuni prossimi congiunti del defunto (parliamo del coniuge, dei figli e - in mancanza di questi degli ascendenti) una quota minima (la c.d. legittima) del patrimonio ereditario, che non può essere in alcun caso intaccata. 4


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Si aggiunga poi che ai fini del computo delle quote di patrimonio ereditario destinate ex lege ai predetti soggetti (i c.d. legittimari) non vengono presi in considerazione unicamente i beni dei quali il soggetto è titolare nel momento della morte (fase in cui tecnicamente “si apre” la successione), ma anche le entità patrimoniali donate dal de cuius quando era ancora in vita. L’art. 556 c.c. chiarisce difatti che, per determinare la consistenza delle quote di legittima, è necessario sommare ai beni patrimoniali del defunto (al netto degli eventuali debiti) al tempo dell’apertura della successione, anche quelli oggetto di donazione, secondo il loro valore attuale; successivamente, “sull’asse così formato si calcola la quota di cui il defunto poteva disporre”. La quota di legittima è dunque un elemento relazionale o, per meglio dire, complementare rispetto alla quota disponibile dell’asse ereditario da parte del de cuius, determinato nel suo complesso mediante una riunione fittizia di tutti i beni appartenuti a quest’ultimo. Stabilire la consistenza delle singole quote di legittima (e, quindi, implicitamente, anche della quota disponibile del patrimonio ereditario) non è sempre un esercizio agevole. Le quote di legittima, infatti, non sono entità statiche ma vengono determinate sulla base di alcune “variabili” da valutare sempre in 5


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concreto (ad esempio, la presenza e l’eventuale concorso di più legittimari). Ad esempio: se il genitore lascia un unico figlio, quest’ultimo avrà diritto ad ereditare almeno la metà dell’asse ereditario in presenza di due o più figli, gli stessi avranno diritto ad una quota (da dividere tra loro in parti uguali) non inferiore ai due terzi del patrimonio ereditario. Le quote variano, inoltre, se il defunto lascia, oltre ai figli (o ad un figlio), anche il coniuge, ovvero (in assenza di figli) gli ascendenti legittimi. Detti esempi non esauriscono tutto il campo delle possibilità che in concreto si possono materializzare; il principio, ad ogni modo, è relativamente semplice e lineare: la quota di legittima non può essere lesa né da disposizioni testamentarie, né da atti a titolo gratuito posti in essere dal de cuius quando era ancora in vita. In tale ottica, si aggiunga che nell’alveo degli atti inter vivos potenzialmente lesivi della quota di legittima non sono riconducibili soltanto le donazioni in senso stretto (contratti che producono in via diretta un “arricchimento” unilaterale del donatario, cui corrisponde un proporzionale “impoverimento” del donante, secondo lo schema 6


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tipico della donazione ex art. 769 c.c.), ma anche le liberalità c.d. “indirette”. Trattasi di atti particolari, in quanto volti a realizzare per altre vie gli effetti di una donazione (arricchimento unilaterale sorretto da animus donandi). In queste ipotesi, in sostanza, la causa tipica della donazione trova concreta attuazione non attraverso l’utilizzo della predetta forma negoziale, ma mediante il ricorso ad altri schemi contrattuali. Il caso tipico è quello del genitore che mette a disposizione del proprio figlio una somma di denaro di una certa consistenza per acquistare un immobile. Il bene compravenduto è di fatto pagato dal genitore, ma risulta intestato al figlio. L’appartamento rappresenta dunque un “regalo” del genitore, anche se nel caso di specie non è stato utilizzato direttamente lo strumento della donazione. Anche queste forme di liberalità “indirette”, al pari di quelle dirette, sono assoggettate alle norme dettate dal legislatore a tutela dei legittimari (nonché dei loro eventuali eredi e aventi causa). Questi ultimi, laddove dovessero ricevere al momento dell’apertura della successione del de cuius una quota di patrimonio inferiore alla “legittima”, hanno diritto di invocare la reintegrazione della propria 7


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quota, vanificando così (in tutto o in parte, dipende ovviamente dai casi) l’effetto delle disposizioni testamentarie o delle donazioni (anche indirette) risultate lesive. Queste disposizioni si applicano tanto nel caso in cui si apra una successione testamentaria, quanto una successione ab intestato (cioè a dire, senza testamento, con conseguente applicazione dei principi e delle norme che regolano la successione legittima). Ecco quindi perché, come si avrà modo anche di chiarire nel prosieguo, molte delle problematiche afferenti il passaggio generazionale inter vivos mediante atti di liberalità (diretti o indiretti che siano) ricorrono anche in ipotesi di utilizzo delle disposizioni testamentarie. Problemi che, al contrario, non sussistono se, al fine di attuare il trasferimento

dell’impresa

agricola

al

discendente,

vengono

impiegati istituti specifici e di più recente introduzione (come, ad esempio, il patto di famiglia) che, ad ogni modo, non escludono la sussistenza di altri diversi elementi di criticità. Muovendo quindi dalla già enunciata premessa che, al fine di attuare il passaggio generazione di una realtà imprenditoriale, non esiste uno strumento di per sé migliore rispetto agli altri, appare evidente che solo un’adeguata pianificazione, con un opportuno supporto professionale, costituisce l’elemento essenziale e ineludibile per 8


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gestire al meglio una fase tanto delicata e cruciale, preordinata non soltanto a prevenire conflitti tra discendenti, ma anche a garantire la sopravvivenza stessa dell’azienda. Non si tratta, infatti, solo di un “momento” della vita di un’impresa o di una particolare dinamica familiare, ma di un processo (che può durare anche molto tempo) che va studiato e preparato per tempo, in cui entrano in gioco numerosi fattori (civilistici, fiscali e non solo) da programmare e gestire, scongiurando il rischio di improvvisate soluzioni estemporanee. 3. Il ricambio generazionale a seguito di successione mortis causa Quando l’imprenditore non pone in essere strategie volte a preordinare il passaggio di mano della propria realtà aziendale, la devoluzione di quest’ultima (e di tutto il resto del suo patrimonio) al momento della sua morte è regolata dalle disposizioni civilistiche che disciplinano la successione legittima. Si ha successione legittima, infatti, in assenza totale o parziale di

testamento. In questo caso, il meccanismo successorio è regolato unicamente dalla legge, che individua gli eredi e le quote spettanti a ciascuno di essi. La successione legittima non pone, ovviamente, alcun problema di lesione di quote dei legittimari e può certamente rappresentare 9


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un’opzione utile a garantire il trasferimento dell’azienda ove sussista un solo erede. Se, per contro, il de cuius ha redatto un testamento (ovviamente non affetto da vizi), la dinamica è regolata dalle norme che disciplinano le successioni testamentarie; la volontà del testatore, in tali casi, assume un rilievo preponderante. Quest’ultimo mediante il testamento (che è un atto unilaterale sempre revocabile fino a quando il testatore è in vita) può disporre liberamente dei suoi beni per il tempo in cui avrà cessato di vivere, individuando un erede anche al di fuori del proprio nucleo familiare. Non vi è ovviamente alcun obbligo di redigere un testamento e nessuno è tenuto a farlo perché, come già accennato, in assenza di disposizioni

testamentarie

la

legge

riconosce

comunque

“automaticamente” quali eredi i familiari del defunto (il coniuge, i discendenti, gli ascendenti, i collaterali e gli altri parenti entro il

sesto grado), secondo le regole e l’ordine stabilito dagli articoli 565 ss. c.c.; in mancanza di parenti stretti, per contro, l’eredità è devoluta per legge allo Stato. L’imprenditore intenzionato ad utilizzare lo strumento testamentario al fine di attuare il passaggio generazionale della propria realtà d’impresa (oltre che, se del caso, di altri eventuali beni, sia mobili che immobili) ha sostanzialmente due opzioni a disposizione: 10


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►compilare un testamento di proprio pugno, datarlo e sottoscriverlo (c.d. testamento “olografo”); ►rivolgersi ad al notaio, per un testamento pubblico o segreto. Al netto delle peculiarità che caratterizzano le varie forme testamentarie ordinarie, è bene chiarire che ogni testamento (tanto quello olografo, quanto quello per atto di notaio, sia pubblico che segreto) soggiace alle norme dettate a tutela dei legittimari e trova un limite invalicabile nel rispetto delle quote di questi ultimi (anche se non hanno mai messo piede in azienda). Da qui la necessità di un adeguato supporto, non soltanto per scongiurare l’eventualità di lunghe e sfiancanti cause civili tra eredi, con il rischio concreto di assorbire linfa vitale all’impresa, ma anche per pianificare ogni scelta alla luce del carico fiscale in ipotesi di successione ereditaria, tenuto conto del beneficiario e della natura dei beni ereditari. 4. Il passaggio generazionale attuato mediante atti inter vivos: la donazione La donazione è un contratto che, pur richiedendo alcuni formalismi particolari, non evoca scenari particolarmente complessi e, di regola,

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consente di godere di agevolazioni fiscali di non secondaria importanza nell’ottica del passaggio generazionale di impresa. Il problema principale è tuttavia rappresentato, come già anticipato (e come può accadere anche in ipotesi di utilizzo dello strumento testamentario), dalla natura potenzialmente precaria dell’atto dispositivo e dagli effetti “collaterali” che la liberalità può generare. Mutuando una terminologia dal lessico medico si può affermare che, utilizzando la donazione per risolvere le problematiche relative al passaggio generazionale dell’impresa (soprattutto in difetto di un’adeguata pianificazione), è quanto mai concreto il rischio di deiscenze e altre complicanze “post-operatorie”. Fuori di metafora, la verità è che si possono materializzare - tutt’altro che infrequentemente - problematiche serie dopo l’apertura della successione connesse alla possibile violazione delle norme dettate a tutela dei legittimari che, come evidenziato in precedenza, costituiscono un limite tutt’altro che irrilevante per gli atti inter vivos a titolo gratuito. Al momento dell’apertura della successione del donante, a distanza anche di anni dal passaggio generazionale, quando magari l’azienda può avere subìto anche un notevole incremento in termini di valore, potrebbero infatti concretizzarsi i presupposti per la reintegrazione della quota riservata ai legittimari, con evidente pregiudizio tanto per 12


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il beneficiario della liberalità, quanto per la stabilità della realtà imprenditoriale e per la postuma frustrazione della volontà del disponente. Anche in questo caso è di tutta evidenza la necessità di un adeguato supporto professionale per l’imprenditore, al fine di affrontare con serenità e lungimiranza la pianificazione del passaggio della propria realtà d’impresa, non solo per garantire un atto dispositivo non aleatorio e favorire la continuità aziendale, ma anche per limitare i rischi di sgradite “soprese” da parte dei beneficiari dopo la cessione inter vivos mediante, ad esempio, riserve di usufrutto o altri strumenti volti ad assicurare al disponente una presenza in azienda anche successivamente al compimento dell’atto traslativo. Garanzie che, tra l’altro, consentirebbero finanche all’imprenditore disponente di assumere determinazioni anticipate circa il destino della propria realtà d’impresa senza troppe apprensioni e turbamenti emotivi, evitando di rimandare all’infinito il problema (come spesso in molti tendono a fare) per il timore, più o meno latente, di compromettere la propria leadership aziendale.

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5. Sempre a proposito di atti inter vivos: il patto di famiglia Al fine di agevolare quanto più possibile il passaggio generazionale di aziende e società, consentendo di elaborare e attuare questo processo durante la vita dell’imprenditore, con assoluta certezza in ordine alla definitiva cristallizzazione dello stesso e dei relativi effetti anche dopo l’apertura della successione, nel nostro ordinamento è stata introdotta con la legge n. 55/2006 la nuova fattispecie del “patto di famiglia”. Le cifre innovative dell’istituto sono risultate sin dal principio direttamente proporzionali ai profili di incertezza lasciati dal legislatore nel disciplinarne più di un aspetto. Circostanze che, unitamente alle fisiologiche difficoltà applicative dello strumento, ne hanno determinato uno scarso utilizzo pratico, quantomeno rispetto alle sue effettive potenzialità di impiego e alle condivisibili finalità dell’intervento normativo. In tale ottica, il patto di famiglia (pur essendo uno strumento assurto a grande notorietà subito dopo la sua introduzione) rappresenta forse una grande occasione mancata più che una riforma vera e propria della materia. Ad ogni modo, tralasciando di soffermarsi su tecnicismi che mal si concilierebbero con la natura della presente trattazione, è opportuno 14


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evidenziare che questo istituto, sotto tanti e vari profili, ha una portata assolutamente innovativa. Il patto di famiglia è un contratto, disciplinato dagli articoli 768 bis e ss. del nostro Codice Civile (introdotti, come sopra evidenziato, dalla Legge 14 febbraio 2006, n. 55), funzionale a consentire agli imprenditori e ai titolari di partecipazioni sociali il trasferimento, in tutto o in parte, della propria azienda o delle proprie quote sociali a uno o più discendenti (non solo i figli, dunque, ma eventualmente anche i nipoti). Al patto di famiglia, che deve essere concluso a pena di nullità per atto pubblico, devono partecipare (oltre, ovviamente, al disponente e ai discendenti designati a succedergli nella gestione aziendale, ovvero nella titolarità delle partecipazioni sociali) anche il coniuge dell’imprenditore e “tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel

momento

si

aprisse

la

successione

nel

patrimonio

dell'imprenditore” (art. 768 quater c.c.). Le ragioni di una così ampia partecipazione sono logicamente riconducibili agli effetti che il contratto in questione produce. Le attribuzioni patrimoniali oggetto del patto di famiglia, infatti, non possono essere messe in discussione quando si aprirà la successione dell’imprenditore poiché, a norma dell’art. 768 quater c.c., “quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione”. 15


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Inoltre, dato il carattere personale dei rapporti tra i contraenti e la gratuità del trasferimento, si ritiene che non possa trovare applicazione neppure la prelazione agraria prevista a favore dell’affittuario e del confinante coltivatore diretto, nel caso di trasferimento di fondi agricoli. Valga tuttavia considerare che gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie sono personalmente tenuti a liquidare gli altri partecipanti al contratto (ove, chiaramente, questi non vi rinunzino in tutto o in parte) con il pagamento di una somma in denaro corrispondente al valore minimo delle quote ereditarie riservate a questi ultimi dalla legge (non necessariamente in un’unica soluzione), ovvero mediante una liquidazione - in tutto o anche solo in parte - “in natura”, attraverso la cessione di altro bene (ad esempio, una quota o la piena proprietà di un immobile) con funzione solutoria. Anche sotto tali aspetti i profili di innovazione dell’istituto in questione appaiono di solare evidenza, in quanto le predette disposizioni scardinano il dogma del divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c. (secondo il quale, è nullo ogni accordo con cui taluno dispone della propria successione, ovvero dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta o rinunzia ai medesimi) e producono interferenze tra la dimensione negoziale e gli 16


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aspetti successori, tematiche tradizionalmente considerate come distinte, oltre che distanti. Ovviamente il patto di famiglia, sotto il profilo applicativo, ha un ambito oggettivo molto ristretto, limitato unicamente al trasferimento di un’azienda o di una partecipazione sociale, stante l’evidente scopo di rendere definitiva e intangibile l’operazione da parte degli altri legittimari, favorendo i discendenti più inclini a garantire la sopravvivenza della realtà d’impresa ed evitando tensioni al momento dell’apertura della successione che possono sfociare in lunghi contenziosi (che certamente non facilitano né i rapporti familiari, né la gestione aziendale). Al netto di queste non secondarie particolarità, la figura contrattuale in questione, come già rilevato, non ha avuto una grande diffusione. Le ragioni di un utilizzo dell’istituto non proporzionale alle innovazioni apportate sono più d’una. Tra queste sicuramente meritano una menzione le strutturali e congenite problematiche sottese all’applicazione pratica dello stesso. Si consideri, su tutte, la necessità che l’accordo, ai fini della produzione dei suoi effetti caratterizzanti, presuppone l’intervento (oltre che del disponente e dei beneficiari) anche di tutti i potenziali legittimari.

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Circostanza che implica la necessità che nessuno di questi soggetti si opponga alla sottoscrizione del patto o si rifiuti di partecipare, per qualunque ragione. Quindi è evidente che un patto di famiglia, per produrre tutti gli effetti tipici, necessita di condivisione, unanimità di vedute e convergenze di interessi tra gli interessati che, in concreto, non sempre sussistono. Inoltre, alla luce della formulazione dell’art. 768 quater, comma 2 (“Gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto…”), non appare revocabile in dubbio che alla liquidazione delle quote dei legittimari non assegnatari (salva la rinuncia da parte di questi ultimi) debba provvedere direttamente il beneficiario dell’azienda o delle partecipazioni societarie. Con la conseguenza che il patto di famiglia, al netto di ogni altra criticità o dubbio interpretativo, rappresenta un istituto inaccessibile per tutti i beneficiari, che – anche in presenza di un astratto consenso di tutti gli altri potenziali legittimari alla stipula dell’accordo – non sono nelle condizioni di sostenere economicamente i costi connessi alle liquidazioni delle quote degli altri soggetti interessati. Considerando che si tratta di uno strumento finalizzato a garantire il passaggio

generazionale

dell’impresa

che,

quindi,

dovrebbe 18


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principalmente favorire giovani imprenditori, è chiaro che la problematica non è irrilevante. Questi sono solo alcuni dei problemi (non sempre agevolmente risolvibili) che l’applicazione del patto di famiglia in agricoltura può implicare, fermo restando che si tratta di un istituto indubbiamente utile e funzionale ad attuare, ove sussistono i presupposti, una successione generazionale dell’impresa agricola, scongiurando il rischio di ogni futura contesa tra familiari.

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6. Considerazioni conclusive Gli istituti analizzati non esauriscono, ovviamente, il novero dei possibili strumenti utilizzabili dall’imprenditore agricolo (e non solo) al fine di attuare il passaggio generazionale dell’impresa. Non si è fatto cenno, ad esempio, ad altri istituti che, pur essendo certamente funzionali allo scopo, non rappresentano – per varie motivazioni - fattispecie impiegabili su larga scala. La presente trattazione, chiaramente senza alcuna pretesa di esaustività e completezza, è stata dunque concepita per offrire uno sguardo sistematico d’insieme sul tema del passaggio generazionale dell’impresa, esaminando alcune delle maggiori criticità sottese all’avvicendamento nella conduzione dell’attività imprenditoriale di famiglia mediante alcuni dei principali istituti a ciò preposti, sottolineando sempre l’importanza di una tempestiva e ben congegnata pianificazione del processo. Da tali premesse l’obiettivo di una riflessione mirata a fornire un contributo conoscitivo e privilegiare l’aspetto metodologico, piuttosto che svolgere disamine o mere rassegne di casi pratici che, per quanto dettagliate, non sarebbero comunque risultate complete ed esaurienti, anche in ragione delle varie e innumerevoli sfaccettature della tematica.

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