Il Capitalismo è la Crisi! testo

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indice Prefazione....................................................................pag. 3 Situazione generale..................................................pag. 5 Breve storia..................................................................pag. 6 Bretton Woods e rivoluzione neo-liberista........pag. 9 Guerra dello Yom Kippur e crisi del petrolio..........................................................pag. 11 Reaganomics e passaggi finali della politica di globalizzazione fino a tempi recenti....................................................pag. 13 Breve cronologia degli interventi alimentari e di altra natura per il terzo mondo....................pag. 16 Ma in questo sistema perverso che ruolo hanno le banche?......................................pag. 19 E l'Europa?........................................................................pag. 21 Qualche parola sulla Grecia.......................................pag. 22 Lo scenario italiano........................................................pag. 23 Tagli all'istruzione pubblica. Trasformazione delle universita' in aziende S.p.A.............................................. ................pag. 26 Le spese militari in aumento........................................pag. 28 Il ruolo degli universitari...............................................pag. 30


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prefazione Al rientro dalla pausa estiva abbiamo avvertito, come Collettivo e come singoli militanti, la necessità di indagare le ragioni della crisi economicofinanziaria che stiamo vivendo. Da una parte per impostare in maniera chiara il percorso e gli obiettivi da seguire durante questo anno accademico, dall'altra per stimolare il dibattito e colmare le lacune presenti in buona parte delle analisi realizzate dalle altre realtà universitarie pisane. Col tempo, e con l'impegno di tutti i militanti del Collettivo, quello che doveva rimanere una sorta di breve analisi "interna" si è sviluppata fino a diventare un opuscolo, speriamo il più esaustivo possibile. Considerata la rapidità e la vastità dei mutamenti nazionali e internazionali, abbiamo deciso di porci un limite temporale. La nostra analisi si ferma, infatti, ai giorni immediatamente precedenti la caduta del governo Berlusconi, quando iniziava a farsi strada l'idea di un governo tecnico, cosa che si è effettivamente concretizzata con il governo Monti. A scanso di equivoci la nostra scelta è stata dettata solo ed esclusivamente dai tempi di stesura, correzione, impaginazione e stampa, in modo da avere l'opuscolo pronto per la presentazione del 7 dicembre. A Monti non concediamo alcun margine di fiducia, essendo ben consapevoli del fatto che il suo ruolo è quello di applicare nel modo più rapido possibile i diktat della BCE, perpetrando l'attacco del capitale e della classe dominante sulle classi subalterne. Pisa, 7 dicembre 2011 Collettivo Aula R

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Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall'altra l'operaio salariato.

(Marx. Il Capitale; Capitolo XXI)

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Situazione generale Il 2011 sarà un anno che difficilmente dimenticheremo. Un anno di pesanti batoste per la classe lavoratrice e un anno in cui la defunta convinzione di un futuro roseo di consumismo e certezze ha definitivamente abbandonato la piccola borghesia e grosse fette della classe media. La crisi “sistemica” iniziata nel 2008 nel cuore del capitalismo mondiale,(gli U.S.A.) e che oramai imperversa da più di tre anni si è difatti acuita in maniera quasi esasperante in particolare nei paesi economicamente più ricchi. Le grandi potenze, in primis gli USA e subito dopo l'Europa “unita”, si stanno rivelando per quello che sono realmente: dei sistemi economici e sociali fallimentari legati l'uno all'altro attraverso le trame di una nuova borghesia capitalista definitivamente internazionalizzata. Le cause vanno ricercate nelle politiche neo-liberiste portate avanti da trenta anni con il solo scopo di fronteggiare una crisi dei profitti nel mondo della produzione. I provvedimenti presi dal capitale per opporsi a quella che Marx descrisse come la “legge della caduta del saggio medio di profitto” vanno dalla liberalizzazione dei mercati fino alla finanziarizzazione delle economie, dalla precarizzazione del rapporto lavorativo fino alla delocalizzazione della produzione. La crescente libertà dei flussi di capitali in tutto il mondo ha creato le condizioni per lo spostamento di quasi tutto il comparto industriale dei paesi capitalisticamente più sviluppati verso i paesi in via di sviluppo che risultano decisamente più “ospitali”: manodopera a prezzi bassissimi e regolamentazioni ambientali, sociali e lavorative pressoché inesistenti. Ecco solo una delle facce della modernità di Marchionne. L'altra è accanto a noi ogni giorno e si chiama “flessibilità”. Con ragionamenti provinciali, la sinistra italiana ha completamente perso la concezione globale dei cambiamenti, perdendo così di vista il fatto evidente che il XXI secolo è senza dubbio il periodo storico con la massima diffusione nel globo della figura del lavoratore salariato.

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Breve storia Circa cinquant'anni fa, all'epoca delle lotte di liberazione nazionale, era quasi impossibile trovare nei paesi allora definiti del “terzo mondo” dei rappresentanti della classe operaia. Oggi, in gran parte dell'Africa, dell'Asia e dell'America del Sud, milioni di lavoratori vengono sfruttati in maniera barbara dalle multinazionali di tutto il mondo. Tutto questo senza ricevere dallo Stato forme di salario indiretto e percependo salari corrispondenti fino a 50 cents al giorno. Ad esempio, in Cina gli operai e le operaie si ribellano contro turni di 12 ore al giorno per 100 euro al mese, portando le multinazionali europee e americane avide di plusvalore a spostare la produzione dalla Cina alla Corea del Nord in perenne ricerca di salari sempre più bassi. Le contraddizioni di un sistema economico ipoteticamente basato sulla logica dell'autoregolamentazione del mercato ha fatto emergere le reali contraddizioni del processo di accumulazione del capitale. Un tale modo di produzione non ha fatto altro che far riemergere vecchi spettri non dissimili a quelli che portarono alla crisi economica del 1929, anche se con alcune differenze. D'altronde, come spiegarsi il ricorso alla sfera finanziaria per la creazione di profitti, se non con la necessità di sopperire alla mancata remunerazione di grandi capitali tramite lo sfruttamento nel solo mondo della produzione? La storiella che ci è stata messaggiata come un mantra da giornali, economisti, pensatori e intellettuali è che la crisi dei subprime è il frutto della sregolatezza dei banchieri, dell'imperizia degli investimenti finanziari, dell'avidità di pochi sanguinari. Ci è stato anche detto che l'economia reale era sana e le due sfere, produzione e finanza, non si toccavano. Ma se davvero si divenisse convinti della bontà di questa tesi saremmo costretti in quanto rivoluzionari a sostituire il nostro reale avversario di classe individuandolo unicamente nelle banche e nei banchieri internazionali.

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Ciò che, come precedentemente accennato, si trova alla base del ricorso alle speculazioni, e dunque ai derivati subprime e ad altri cento fantasiosi strumenti speculativi, non è stata solo l'avidità dei banchieri, ma soprattutto l'avidità di plusvalore da parte di grandi gruppi monopolistici, fondi d'investimento, multinazionali. Il grande capitale monopolistico e finanziario, tramite i mercati deregolamentati, ha continuamente racimolato plusvalore creato in ogni parte del mondo. Anche il sistema produttivo italiano, che ci viene descritto come “sano” e non toccato da questi mezzi demoniaci della finanza, in realtà è inevitabilmente compreso nei cambiamenti apportati al processo di accumulazione capitalistica su scala mondiale. Ad esempio il recente studio di Mediobanca sulle piccole e medie imprese (pmi) italiane, reso noto nel mese di giugno 2011, ci dice che i profitti delle stesse per il 2010 provenivano per il 50% da attività delocalizzate e per un altro 26 % da attività finanziarie … La crisi è trattata come un evento storico senza una propria storia, senza una sua nascita, una sua origine e un suo sviluppo. Volutamente, si emargina dalla discussione generale la ciclicità delle crisi capitalistiche e le connessioni tra di esse, poiché, storicamente le “soluzioni” per risolverle hanno creato le condizioni per lo scatenarsi di quelle successive, arrivando fino ad oggi. E' assolutamente necessario, quindi, ricercare l'origine e le cause per avere una chiara comprensione dei meccanismi della crisi che sta imperversando, osservando nel dettaglio i processi economici globali chiave, frutto di un determinato pensiero politico e di un sistema specifico: quello neo-liberista (il nuovo volto del capitalismo). Il periodo di riferimento è quello che parte dai primi anni '70. Esamineremo in particolare la condizione dei paesi ex-coloniali o del terzo mondo, i quali subirono per primi gli stessi meccanismi che si stanno replicando oggi.

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Nel periodo che parte dalla fine degli anni '60, caratterizzato dalla guerra fredda, gli Stati Uniti giocarono un'importante partita strategica in funzione antisovietica; per allineare a sé i paesi di recente indipendenza emettendo prestiti a basso tasso d'interesse. Di conseguenza il debito è cresciuto in maniera contenuta, passando dai 16 miliardi di dollari del 1960 ai 66 miliardi del 1970. Dall'inizio degli anni '70, con il cosiddetto “Tokyo Round” (1973), si liberalizzarono i flussi di capitale internazionale, conseguenti alla creazione di una serie di precedenti “round” (circoli/accordi) negoziali che partirono dal 1947. Si necessitava di una liberalizzazione dei mercati per poter ottenere una maggiore circolazione dei grandi capitali internazionali, anche a causa della crisi petrolifera scaturita dalla guerra dello Yom Kippur.

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Bretton Woods e rivoluzione neo-liberista Già nei primi anni '70, qualche anno prima della crisi petrolifera, gli USA avevano un forte deficit della spesa pubblica, la bilancia commerciale costantemente in passivo e l'inflazione in progressivo aumento a causa dei costi della guerra in Vietnam. Questo fu il primo deficit americano del XX secolo. Il periodo fu caratterizzato da una fase d'oro del capitalismo con alti tassi di crescita del PIL, di reddito reale e di consumo. Il 1970 segna un punto di svolta cruciale. Il cambio del dollaro americano, legato all'oro per gli accordi di Bretton Woods del 1944, declinò dal 55% al 22%. Questa caduta fu interpretata dalla tesi economica neo-classica dell'epoca, come l'impossibilità del governo statunitense di tagliare la spesa e riassestare l'economia commerciale. Nel 1971, con quello che diventò famoso come il “Nixon Shock”, gli Stati Uniti decisero di mettere fine al sistema di cambio che ha governato il mercato mondiale dalla fine della seconda guerra mondiale e scelsero di abbandonare definitivamente la parità tra dollaro e oro sancita dagli accordi di Bretton Woods. Tali accordi comprendevano un sistema di regole e procedure per regolare la politica monetaria internazionale. Le caratteristiche principali di Bretton Woods si possono riassumere in due punti: il primo quello dell'obbligo per ogni paese di adottare una propria politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute. Il secondo punto, il compito di ridurre gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, assegnato al Fondo Monetario Internazionale (FMI). Oltre a questo gli accordi sancirono la nascita del FMI e della Banca mondiale. L'abbandono di Bretton Woods fu un trauma per l'economia internazionale, che fino ad allora era regolata rigidamente in base ad un “liberismo controllato” (anche chiamata economia neo-classica) fatto di norme concordate tra i paesi, passando poi ad una fase dominata solo dal mercato e dalle sue esigenze.

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Da quel momento l'economia mondiale è cambiata radicalmente: la decisione di Nixon fu una rivoluzione che ha rafforzato il ruolo egemone degli Stati Uniti nell'economia globale, ponendo le condizioni e le premesse per la loro supremazia economica a livello internazionale. Fino a quando il dollaro rimase ancorato all'oro e alle altre valute, gli Usa erano vincolati al rispetto di quella parità e non potevano stampare arbitrariamente la propria moneta, generando quindi inflazione. Dal 1971 in poi, invece, liberi da ogni vincolo monetario, gli Stati Uniti sono stati in grado di finanziare operazioni all'estero, semplicemente stampando autonomamente moneta, ampliando cosÏ la loro influenza economica e politica sugli altri continenti. Gli stati europei di fronte all'abbandono di Bretton Woods si trovarono spiazzati e per rispondere a quello che percepirono come un sopruso, cercarono di organizzarsi, fin da allora, per costruire una comune valuta, sopratutto per creare un forte blocco monetario. Il primo passo avvenne nel 1979 con l'introduzione del Sistema Monetario Europeo (e poi nel 1999 con l'introduzione dell'euro); gli Usa, da parte loro, cercarono di impedire i tentativi europei di raggiungere una sufficiente stabilità . Le istituzioni create dagli accordi di Bretton Woods, ovvero FMI e la Banca Mondiale, sono sopravvissute fino ai giorni nostri modificando le proprie funzioni.

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Guerra dello Yom Kippur e crisi del petrolio Nel 1973 il Medio Oriente viene interessato da un riaccendersi del conflitto arabo-israeliano. Durante la guerra, che passerà alla storia col nome di guerra dello Yom Kippur, l'Egitto e la Siria attaccarono Israele di sorpresa, invadendo rispettivamente il Sinai e le alture del Golan. Ambedue i territori erano stati occupati dagli israeliani sei anni prima, a seguito della guerra “dei sei giorni”. Durante la guerra i paesi arabi associati all'OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries) decisero di appoggiare lo sforzo bellico siriano ed egiziano, utilizzando il petrolio come arma: infatti presero il controllo della produzione del greggio e, cosa più importante, della gestione dei prezzi delle esportazioni. In precedenza il greggio veniva estratto e immesso sul mercato da società occidentali che, riducendone gradualmente il prezzo, avevano lentamente tolto ogni valore alle azioni che i governi arabi avevano acquistato in passato. La guerra diede un'ulteriore spinta all’offensiva commerciale anti-occidentale, in quanto la maggior parte degli Arabi e dei paesi musulmani appartenenti all’OPEC erano fermamente intenzionati a ridimensionare la politica occidentale in Medio Oriente. Ovviamente la crisi del petrolio non fu unicamente legata alla guerra dello Yom Kippur. Essa infatti venne favorita anche dalla decisione statunitense di rompere gli accordi di Bretton Woods, rendendo l'economia globale particolarmente suscettibile a crisi di questo tipo. I paesi arabi adottarono due linee d’azione: una nei confronti dei paesi che avevano apertamente sostenuto Israele e l’altra nei confronti dei paesi che si erano limitati ad assumere posizioni anti-arabe. La prima, che consisteva in un embargo del greggio, fu applicata nei confronti degli Stati Uniti, dell’Olanda, del Portogallo, del Sud Africa e della Rhodesia. La seconda, invece, consisteva in una ponderata distribuzione della produzione globale del greggio ai vari Stati importatori. Pur non registrando gravi perdite umane, la guerra ebbe pesantissime ripercussioni a livello economico che continuarono a farsi sentire per tutti gli anni '70, soprattutto per quanto riguarda l'approvvigionamento delle fonti energetiche.

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I paesi europei, che per primi furono colpiti dall'aumento del prezzo del greggio, ad esempio non ebbero vantaggi significativi dalla fine dell'embargo petrolifero nel 1974. La crisi petrolifera contribuì alla paralisi della Comunità Europea. Infatti, durante gli anni successivi alla guerra, non riuscì a predisporre un piano economico comune volto alla ripresa economica degli Stati membri. I singoli Stati comunitari, al contrario, reagirono isolatamente, ricorrendo all’aumento degli investimenti e praticando una politica antideflazionista o incidendo sulla spesa pubblica, aumentando così il deficit nazionale. L'aumento del prezzo del petrolio colpì pesantemente anche tutti i paesi ex coloniali che in massima parte non erano produttori di greggio. Questi si videro costretti a contrarre forti debiti con banche che, come oggi, sono enti privati. Quei paesi che invece facevano parte dell'OPEC, come l'Iraq o la Libia, investirono i profitti derivati dalla crisi petrolifera rispettivamente per dotarsi di una fiorente industria pesante o per mettere a coltura intensiva ampie zone in precedenza desertiche. La crisi del petrolio troverà la sua fine nel 1980 a seguito della rivoluzione islamica in Iran che indusse l'Iraq a dichiarare guerra, con l'appoggio americano, all'Iran per alcuni territori petroliferi contesi tra i due paesi. A causa dello scoppio delle ostilità l'OPEC vide una forte diminuzione della produzione, in quanto non era più disponibile quella dei due belligeranti, e di conseguenza decise di aumentare l'estrazione del greggio, ponendo così simbolicamente fine alla crisi.

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Reaganomics e passaggi finali della globalizzazione fino a tempi recenti

politica

di

A seguito degli eventi appena descritti, alla fine degli anni '70 si assiste negli Stati Uniti ad una crescita molto debole del PIL(il sistema capitalista necessita di una sua costante crescita, in modo da aumentare esponenzialmente i propri guadagni e "investendo" le briciole per tenere buone le popolazioni attraverso il welfare state) e quindi ad un aumento quasi nullo dei salari rispetto all'inflazione, ad una crescente disoccupazione, ma anche ad una forte opposizione dei lavoratori. La crescente apertura dei mercati nazionali a quelli internazionali, possibile grazie all'enorme espansione del sistema bancario e alla finanziarizzazione dell'economia, apre al capitale la strada alla forza lavoro di tutto il mondo, come ad esempio quella cinese dell'epoca. Come conseguenza si ebbero salari bassi e consumi alti per la grande capacità di crescita dell'economia finanziarizzata con le sue nuove possibilità. Agli inizi degli anni '80, si ha una decisa svolta nella politica economica globale con le politiche del presidente Ronald Reagan, divenute famose complessivamente come “Reaganomics”. Tali politiche prevedevano una bassa pressione fiscale, su suggerimento dei maggiori economisti di scuola neoliberista, in quanto una scelta di questo tipo avrebbe avuto effetti benefici per l'economia nazionale. Inoltre prevedevano forti liberalizzazioni, condotte antisindacali e tagli drastici alla spesa pubblica, mentre al contempo le spese militari salivano alle stelle. Infine venne attuato un piano per attrarre massicci investimenti di capitali per rifinanziare il debito americano, attraverso un drastico aumento dei tassi di interesse dei prestiti: se nel '75 questi erano al 7,5%, agli inizi degli anni '80 erano schizzati ad oltre il 20%. Tutto ciò portò all'esigenza di abbattere le limitazioni alla libera circolazione internazionale dei capitali ancora sussistenti.

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Di fronte all'aumento del prezzo del petrolio (passato da 12 a 40 dollari al barile durante un secondo "shock petrolifero" nel '78), alla presenza di un dollaro debole (dopo la fine della convertibilità aurea) e soprattutto di un pesante debito estero, appare evidente la necessità per gli USA di avere capitali internazionali liberamente circolabili e in grado di essere spostati dove possono essere più remunerativi: questa è l'origine di tutte quelle speculazioni che hanno bruciato più di una economia nazionale. Nasce anche “l'economia del credito”, ovvero il concetto dei prestiti e mutui accessibili ai privati cittadini, per sopperire a quello che le manovre economiche di Reagan non colmavano. Si dette la possibilità di accedere a quantità di denaro in prestito ai privati, per aumentare il livello dei consumi e mantenerli stabili per rispondere all'emergente divario tra reddito reale e il necessitato potere di consumo per abitante. Risultò una soluzione insostenibile a lungo termine, nonostante abbia avuto il suo periodo di maggiore successo negli anni ‘80 e ‘90, diventando così il seme della crisi odierna dei mutui subprime. Nel 1986 con “L'Uruguay Round” si amplia la liberalizzazione internazionale, comprendendo, oltre ai già liberalizzati flussi di capitale e beni industriali, le risorse naturali, i prodotti agricoli e i servizi finanziari, d'istruzione e sanitari. Altra conseguenza di questi processi macroeconomici globali di matrice capitalista, fu che i paesi del terzo mondo, ricevettero un intervento inadeguato a causa di queste condizioni. Questi interventi vennero strumentalizzati, per necessità dell'economia globale, necessitando di un'eterna fonte di risorse e forza lavoro a basso costo se non gratuita. Questi paesi videro esplodere i propri debiti esponenzialmente a causa degli insostenibili tassi dei prestiti, di cui avevano necessità vitale data un'economia nazionale completamente sostituita da multinazionali. Nel periodo '94 - '95 nasce il WTO (World Trade Organisation,) un sistema multilaterale guidato dall'America e dall'Europa che perfeziona e completa la globalizzazione. Si rivelò un'organizzazione fallimentare a partire già dagli anni successivi alla sua creazione per continui conflitti tra il vecchio e il nuovo continente. Alla base di questi problemi si pongono adozioni di principi di mercato e standard ambientali differenti.

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Il WTO incontra enormi difficoltà come dimostrano i dati relativi agli investimenti internazionali che non hanno mai raggiunto i livelli necessari. Dati che dall'inizio della crisi nel 2008 sono in forte deficit e in rapido calo in termini di quantità di capitali investiti. In precedenza venne meno la crescita delle esportazioni provenienti dai “paesi poveri”, infatti, in vent’anni sono cresciute solo dell'1% a causa della politica internazionale portata avanti dal dopoguerra fino ad oggi. L'amministrazione Bush avrà un ruolo decisivo e di svolta abbandonando le prospettive del WTO e del multilateralismo (globale) per puntare sull'unilateralismo americano con l'adozione di nuovi strumenti, tramite accordi regionali firmati dagli Stati Uniti con le diverse aree del mondo; un protezionismo interno e una massiccia erogazione di dollari da parte della Federal Reserve che servì per coprire il debito americano estero. Oggi (2011), quel debito è di nuovo a livelli critici di default come si è potuto osservare con la crisi di quest'estate, raggiungendo la soglia di 16mila miliardi di dollari. Per reagire a questa situazione gli Stati Uniti votarono una legge per innalzare il tetto del debito e di conseguenza fare nuovi e ulteriori tagli allo stato sociale.

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Breve cronologia degli interventi alimentari e di altra natura per il terzo mondo Nel 1960 la Banca Mondiale istituisce l'IDA (International development association) sorta come complemento all'IBRD (International Bank for Reconstruction and Development), che aveva il fine di concedere aiuti per la ricostruzione ai paesi europei usciti dalla seconda guerra mondiale, mentre l'IDA avrebbe dovuto erogare prestiti a lungo termine senza interessi ai paesi più poveri. .L' IDA nasce con pesanti limiti di fondo, in quanto vi era un'incompatibilità tra il suo lavoro e quello dell'IBRD. I due, pure essendo enti separati, avevano lo stesso staff e organizzazione, ma i processi industriali dei paesi europei e i paesi del terzo mondo si erano sviluppati in modo completamente differente. Negli anni '70, diventa direttore della Banca Mondiale McNamara, il quale adotta una impostazione fortemente "agricola" promuovendo programmi di “messa a coltura” indiscriminata su nuove terre nel terzo mondo senza preoccuparsi per i danni ambientali che ne sarebbero scaturiti, ovvero, deforestazione e conseguente distruzione della biodiversità. Egli inoltre è promotore della monocoltura da esportazione, che vedeva come unica soluzione per lo sviluppo. Da questo momento viene dichiarato aperto il “decennio dello sviluppo”; obiettivo che non si realizzò a causa di un PIL molto basso e rimasto successivamente pressoché invariato. L'idea di spingere i paesi del terzo mondo a produrre alimenti in maniera intensiva per lo sviluppo dell'economia e per l'auto mantenimento, si rivelò fallimentare e pose le basi della crisi alimentare dei giorni nostri. Nel 1962 le Nazioni Unite istituiscono l'UNCTAD (Commissione delle Nazioni Unite per il Commercio e per lo Sviluppo) il quale si occupa prevalentemente di crediti commerciali. Nel 1965 viene istituito l'UNDP (Programma delle Nazioni Unite Per lo Sviluppo) con il compito iniziale di incrementare l'assistenza tecnica per gli investimenti forniti dall'UNCTAD.

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Nel 1969 iniziano a nascere i primi tentativi di un'unità commerciale tra i paesi africani con la convenzione di Yaundè a cui aderirono appena 18 paesi, in seguito alla convenzione di Lomè nel 1975 il progetto viene allargato ai paesi ACP (Africa-Caraibi-Pacifico). Queste convenzioni avevano lo scopo di trattare programmi di assistenza derivanti dalle organizzazioni delle Nazioni Unite. In cambio di questi programmi le organizzazioni africane cedevano i propri prodotti agricoli-minerali a prezzi fissi per loro svantaggiosi, rendendo questi paesi ancora più dipendenti dagli aiuti esteri e sempre meno in grado di costruire un'economia d'esportazione al pari dei Paesi occidentali. In quel periodo nasce anche l'OUA (Organizzazione dell'Unita Africana) ispirato all'ideale pan-africano. Essa ebbe scarsi margini di manovra per la cooperazione economica e politica tra i paesi africani e si dimostrò presto prigioniera delle rivalità interne e delle potenze mondiali. I risultati furono disastrosi: negli anni '90 il deficit cerealicolo fu di oltre oltre 90 milioni di tonnellate, ossia il 15% della produzione locale. La produzione alimentare per abitante negli Stati africani era pari a quella di sessanta anni prima: un completo fallimento di tutte le politiche alimentari promosse da McNamara. Nel 2003 viene introdotta la PAC (Politica Agricola Comunitaria), attraverso la quale si erogano incentivi per le colture europee per renderle più competitive sul mercato. A questo punto gli Stati africani si trovano in notevole difficoltà non riuscendo a scalfire e a competere con il regime di privilegio dei prodotti europei. La maggiore disponibilità e tutela sul mercato di cereali prodotti dai Paesi sviluppati fu, per i paesi del terzo mondo, un ulteriore motivo di depressione e di scoraggiamento della produzione alimentare, in quanto non avevano prezzi competitivi. Inoltre, gli alimenti gratuiti che arrivano nei Paesi del terzo mondo sotto forma di aiuti internazionali, non sono soggetti ad alcuna concorrenza devastando, così, qualsiasi possibilità di crescita dell'economia agricola deprimendo qualsiasi forma di iniziativa imprenditoriale.

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Già nel passato alcuni presidenti africani, tra i quali Thomas Sankara in Burkina Faso, denunciarono il problema agricolo e dell'indipendenza economica. Sankara negli anni '80 sostenne l'autonomia alimentare e il rifiuto degli aiuti internazionali come unico modo per risollevare lo sviluppo del paese. Varò grandi riforme sociali tra cui la totale parità di diritti tra uomo e donna e combattÊ i privilegi della classe politica. Questi sforzi si concretizzarono portando per la prima volta un paese africano all'auto sufficienza alimentare e ad un embrionale sviluppo di mercato nazionale. Questo processo venne presto arrestato con un colpo di stato dall'intervento imperialista.

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Ma in questo sistema che ruolo hanno le banche? Le banche rappresentano una sorta di cinghia di trasmissione tra gli Stati e il finanziamento alla produzione dei privati. La loro funzione è quella di drenare verso il sistema produttivo enormi quantità di denaro ricevuto a bassi tassi dalle banche centrali dei vari Stati. Peccato però che questo non sia avvenuto ... I Governi europei, come quello americano, dall'inizio della crisi, hanno deciso di finanziare con miliardi di dollari le banche indebitate in modo da, secondo loro, far ripartire l'economia. Infatti, secondo le previsioni degli economisti della Bce e della Federal Reserve, “prestare soldi alle banche a tassi bassi” si sarebbe tradotto in maggiore liquidità per le aziende. Purtroppo (per le loro previsioni) questo fenomeno, che avrebbe dovuto anche ridurre il rapporto deficit/reddito nazionale, non si è verificato, anzi il risultato è stata la crescita esponenziale del debito. Ma perché? Le banche, invece di finanziare i capitali direttamente implicati nella produzione perché scarsamente remunerativi, hanno deciso, in maniera neanche troppo diversificata, di ri-prestare i soldi agli stessi Stati che le avevano “salvate” in precedenza. La differenza, però, è che questa “partita di giro” si è chiusa con lauti guadagni per le banche, le quali hanno riprestato soldi agli Stati in difficoltà con tassi molto più elevati. In sostanza si è trattato dell'ennesima speculazione inevitabile, dato che alla base c'è sempre l'impossibilità di accrescere i capitali nella sfera produttiva. A usufruire di una tale speculazione sono stati i grandi capitali in grado di poter influenzare per via delle loro capacità d'investimento persino i titoli del tesoro del debito di uno Stato europeo. Figuriamoci quanto siano lontane dalla realtà le rappresentazioni mediatiche che vedono come protagonisti delle speculazioni anche i piccoli azionisti italiani ...

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La classe lavoratrice, così come tutti i poveri e gli emarginati di questa società fondata sul profitto, si trovano doppiamente bastonati da questi fenomeni speculativi. La classe dei salariati, già di per sé sfruttata e derubata del proprio lavoro, subisce tagli enormi sulla spesa pubblica e nel frattempo intravede la possibilità della perdita totale dei propri risparmi.

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E L'EUROPA? L'Europa “unita” da parte sua non ha fatto assolutamente nulla per cercare di contrastare o placare questa situazione, ma anzi, si è mossa percorrendo le tracce del modello americano (vedi deregolamentazioni, privatizzazioni, politiche di austerità e politica monetaria). In questo scenario drammatico è sempre più chiaro che i Governi nazionali sono al servizio della Bce guidata dalle borghesie franco-tedesche economicamente più forti: attraverso le varie manovre finanziarie emanate, i vari governi non fanno altro che allinearsi alle direttive “centrali”. Il problema è che non tutte le economie hanno la stessa forza e le speculazioni si abbattono soprattutto su quegli stati più deboli: l'esempio massimo è la Grecia, ormai totalmente commissariata dalle “direttive centrali”. Ma l'azzardo speculativo non tarda a risparmiare neanche le economie più forti, dato che si fonda proprio su l'assenza di obbiettivi stabili. Di certo rimane che nessuno è in grado di azzardare previsioni serie sull'andamento dei mercati. Ciò che rimane sicuro però è che il capitalismo necessita di profitti e per ottenerli continuerà ad attaccare i diritti, i salari e dunque le condizioni di vita di tutti i proletari e le proletarie su scala mondiale.

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Qualche parola sulla Grecia... Essa è stata la prima a capitolare (anche se i mass media dicono di no), difatti non è più da considerare come nazione sovrana, avendo perso lo strumento della politica monetaria ed essendo costretta ad accettare i diktat della Bce. La bancarotta viene evitata solamente grazie ai continui prestiti, a tassi elevatissimi, erogati da paesi quali la Germania. In cambio il Governo Papandreou (di centrosinistra, che è stato costretto alle dimissioni) ha operato in Grecia tagli alla spesa sociale, ha favorito il licenziamento di migliaia di lavoratori e lavoratrici ed ha abbattuto il potere d'acquisto della classe dei salariati dal 15% al 20%. A ben vedere va sempre più installandosi, non solo in Europa, un sistema di controllo e di governo situato non più su un unico livello nazionale ma almeno su due livelli distinti: un livello superiore rappresentato in questo caso dal governo della Bce e dalle decisioni di tipo macro-economico e un livello più basso costituito dai confini nazionali e operante sull'attuazione di misure drastiche contro i vari proletariati nazionali e gestente le operazioni repressive. Gli effetti di queste politica a due piani sono drammatici: taglio delle pensioni, blocco degli stipendi, licenziamenti di massa con la conseguente scomparsa dello stato sociale. Misure analoghe vengono attuate anche da altri governi definibili come “riformisti” (ne sanno qualcosa gli spagnoli e i portoghesi), che, a conferma dell'inattuabilità di riforme dell'economia capitalista, si sono dimostrati più che disponibili e capaci a realizzare le peggiori politiche antisociali. A seguito di tagli del 40% alla spesa sanitaria (in Grecia), si è visto aumentare di oltre il 20% nei primi mesi del 2011 il numero di pazienti che si sono rivolti agli ospedali pubblici per disturbi di varia natura. Parallelamente le ammissioni alle strutture private sono calate di circa il 30%, stessa percentuale di coloro che si sono rivolti ai centri medici delle ONG: prima della crisi le richieste non superavano il 3-4%. Si registrano anche forti aumenti del numero di suicidi, aumentati del 40% nel primo semestre del 2011, e dell'uso di droghe, in particolare l'eroina (+20% rispetto al 2009).

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Lo scenario italiano La propaganda, al servizio dei governi, nella sua opera di mistificazione dei fatti ha trovato il capro espiatorio della “crisi italiana”, addossando la responsabilità del Debito Pubblico alle politiche sociali troppo dispendiose. L'Italia storicamente si contraddistingue dagli altri Paesi per l'enorme evasione fiscale nonché per le grandi quantità di risorse pubbliche utilizzate per ingrassare i profitti di pochi speculatori e grandi mafie insediate sul territorio. Un sistema clientelare sempre più diffuso rende la borghesia italiana sempre più debole sul piano europeo, proprio nel momento in cui il sistema produttivo vive la sua grande crisi del processo di accumulazione del capitale. Senza troppo parafrasare, l'enormità del Debito Pubblico è dovuta in massima parte a questa situazione che va avanti da decenni. Non dimentichiamo che nel 1992, l'Italia è stata sull'orlo della bancarotta, ma grazie alla possibilità di poter svalutare la moneta e ad una gestione particolarmente “aggressiva” del rifinanziamento delle risorse pubbliche è stato possibile evitare il peggio. Oltre a questo, l'entrata nell'area euro ha rappresentato in parte un deciso afflusso di capitali verso l'Italia. L'entrata in vigore dell'euro, ha portato benefici solo ai grandi industriali e commercianti, mentre le fasce sociali medie e basse hanno visto solo un aumento ulteriore del costo della vita senza adeguamenti degli stipendi. Un ulteriore aspetto negativo dell'euro è l'impossibilità per gli stati nazionali di attuare politiche monetarie, con conseguente perdita di sovranità e asservimento alla BCE e quindi alla Francia e alla Germania, in quanto economie in grado ancora di produrre ed esportare merci quali i mezzi di produzione (macchine e tecnologia). Ora che siamo sull'orlo del baratro, i governi optano per il taglio alla spesa pubblica. Anziché ridurre le spese militari e i fondi destinati alle “grandi opere” (per lo più inutili e vantaggiose solo per i soliti noti), lo Stato ha dato il via al più grande attacco alle politiche sociali e ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.

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Liberalizzazioni e privatizzazioni selvagge, esuberi di massa (Fincantieri, Finmeccanica), tagli all'istruzione e alla sanità sono gli esempi più eclatanti. A questo vanno aggiunte le nuove norme sul “licenziamento per causa crisi” e la fine della contrattazione collettiva. Tutto questo viene propagandato come un male necessario da dover sopportare per il “supremo bene e interesse nazionale”. La “lotta di classe” portata avanti da una borghesia vittimistica come quella italiana non è però un caso isolato e indipendente dal resto d'Europa. La recente approvazione bipartisan della manovra “lacrime e sangue” mostra chiaramente come sul campo degli interessi di classe non vi possano essere divisioni tra la destra e la sinistra sedute in Parlamento. Nel momento in cui la stabilità di uno Stato (Stato come strumento edificato per la difesa e la conservazione delle differenze di classe) viene messa in discussione, i richiami all'unità nazionale cominciano a sprecarsi, come ci viene ricordato ripetutamente dal Presidente della Repubblica in quanto tramite e garante delle direttive europee. Nel campo opposto, quello dei lavoratori e delle lavoratrici, dei disoccupati, dei giovani universitari in cerca di un salario e dei migliaia di precari, non vi è alcun posto per inutili speranze di unità nazionale e solidarietà fra le classi. Toccherà anche a noi rendere non più auspicabile, dunque, una soluzione riformista. Tra l'altro oggi è impossibile persino ricevere le briciole dalle borghesie. L'attacco ai diritti dei lavoratori fa parte con l'istituto della flessibilità di un più largo piano di intensificazione dello sfruttamento. Da qui, con la complicità dei sindacati confederali e dei vari partiti cosiddetti “d'opposizione”, l'attacco si è intensificato sempre di più, portando negli anni allo stravolgimento nella contrattazione collettiva, all'innalzamento dell'età pensionabile e all'introduzione della recentissima norma sul “licenziamento causa crisi economica”. Le politiche del Governo sono sempre più assimilabili al cosiddetto “piano Marchionne” e tutto ciò va giustificato in nome della PRODUTTIVITA'.

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Ancora una volta, abbiamo la conferma che il riformismo diviene impossibile e sostenerlo vuol dire essere dalla parte dei padroni o profondamente antistorici. Secondo molti la situazione disastrosa in cui versa l'Italia è diretta responsabilità del governo Berlusconi e vedono in una possibile alternativa di “buon governo” il miglioramento o la soluzione a tutti i problemi. In realtà tutte le formazioni della cosiddetta “sinistra riformista” si stanno dimostrando i più fedeli alfieri delle ricette neoliberiste e dei diktat della BCE: ad esempio, la Puglia di Vendola è stata la prima regione a privatizzare l'acqua pubblica nonostante l'esito referendario di giugno. Vendola è stato anche poco chiaro riguardo alla questione TAV, oltre ad essere un grande estimatore della “democrazia” sionista israeliana. Anche il PD, che si propone come principale alternativa di governo, dietro una maschera di unità e compattezza, cela al suo interno forti divergenze e spaccature frutto della sete di “poltrone” che ogni sconfitta elettorale acuisce sempre più. Per questo, non essendo in grado di proporre reali programmi condivisi e alternativi, è stato complice delle politiche governative antisociali di austerità. Infatti, ha avvallato il piano Marchionne per la distruzione dei diritti dei lavoratori e da sempre è stato sostenitore della flessibilità del mondo del lavoro; è stato favorevole alle politiche anti immigrazione proponendo e realizzando i CPT (governo Amato); ha sempre appoggiato le guerre imperialiste mascherandole come operazioni umanitarie (Serbia '99, rifinanziamento della missione in Afghanistan nel 2006, Libano 2006 e sostegno all'intervento in Libia). Inoltre ha sempre appoggiato il progetto del TAV, tanto da richiedere più volte l'intervento dell'esercito. Anche il PD è un forte sostenitore dello stato israeliano. Ai giochi di potere di queste formazioni politiche non sono estranee anche alcune frange del movimento che, in cambio della vaga promessa di qualche poltrona nella prossima legislatura, stanno spingendo verso soluzioni smaccatamente riformiste. Tutto questo è emerso sia in occasione dell'assemblea del 1 ottobre che ha portato alla nascita di un nuovo soggetto politico, sia durante la manifestazione del 15 ottobre, quando si è voluto portare un intero corteo in una piazza periferica ad assistere all'ennesimo comizio dal vago sapore propagandistico, anziché provare a incanalare la rabbia e una reale opposizione sociale verso i palazzi del potere, come è successo in tutto il resto del mondo.

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Tagli all'istruzione pubblica. universita' in aziende S.p.A

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Trasformazione

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Come già detto i tagli non risparmiano proprio niente e nessuno e anche l'istruzione è stata colpita pesantemente. In quanto universitari, ci occuperemo prevalentemente del processo di trasformazione dell'università cercando di analizzare come e perché da pubblica è diventata un'azienda asservita alle logiche del mercato. Lo Stato, in quanto garante degli interessi economici dei capitalisti, ha avviato ormai da anni un processo di trasformazione dell'università finalizzato alla creazione di una forza lavoro sempre più in sintonia con le richieste del mondo del lavoro, quindi: maggiore specializzazione, flessibilità, distruzione di una coscienza libera e critica. Come già detto i tagli non risparmiano proprio niente e nessuno e anche l'istruzione è stata colpita pesantemente. Per questo, l'università di oggi è la diretta emanazione di un processo di dismissione portato avanti da una quindicina di anni, sia dai governi di centrosinistra ( Riforma Berlinguer) che dai governi di centro-destra (riforma Gelmini). Il tutto conforme alle direttive del Processo di Bologna: accordo firmato nel 1999 da 31 ministri europei, successivamente ratificato nel 2009 raggiungendo i 46 firmatari. L'adozione di questo standard europeo per la gestione della didattica, serve unicamente alla classe dirigente per costruire una formazione estremamente classista, che rientri nelle logiche di un mercato del lavoro sempre più flessibile.

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Rinsaldare e conservare le differenze di classe è lo scopo di queste Riforme dell'Università succedutesi nel tempo. Anche l'ingresso dei privati, i cosiddetti membri esterni, nei vari CDA (consiglio d'amministrazione) contribuisce a tutto questo; favorendo il finanziamento solo verso quelle facoltà in grado di capitalizzare le conoscenze e il lavoro di studio degli studenti, dunque maggiormente “utili” ai loro interessi. I crediti CFU collegati ad ogni esame, la distribuzione dei fondi pubblici in base a criteri meritocratici e il famoso 3+2 non sono prerogative italiane, bensì il frutto di quest'accordo. L'Italia è stata una forte promotrice di quest'accordo ed è stata la prima ad applicarla in toto.

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Le spese militari in aumento

Mentre i tagli a falce delle varie manovre finanziarie colpiscono indiscriminatamente i lavoratori, gli studenti e i pensionati, l'unico settore che non viene toccato e che, anzi, aumenta le proprie spese è quello militare. Uno stato che formalmente ripudia la guerra come l'Italia spende la bellezza di 23 miliardi di euro per il mantenimento del proprio apparato bellico, con un aumento dell' 8,4% rispetto al 2010. Da un lato ciò può essere spiegato con la militarizzazione dei siti cosiddetti “strategici” o “di interesse nazionale”, come il cantiere della TAV a Chiomonte o le discariche di Chiaiano e Terzigno, e con la presenza sempre più massiccia di militari a pattugliare le strade delle grandi città. Entrambe situazioni in cui le tensioni sociali e la rabbia popolare sono esplose o comunque covano pronte a deflagrare.

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Dall'altro basta leggere le voci di spesa del Ministero della Difesa per accorgersi di come le “guerre umanitarie” a cui l'Italia partecipa – Afghanistan e Libia – incidano pesantemente sul bilancio dello Stato. Aggressioni imperialiste grazie alle quali i vincitori potranno spartirsi fette consistenti di risorse naturali – vedi il petrolio libico – e appalti miliardari per la ricostruzione delle infrastrutture devastate dai bombardamenti: il tutto per far ripartire un ciclo di accumulazione del capitale nel tentativo disperato di uscire dalla crisi economica. D'altra parte, come diceva Lenin, l'imperialismo è la fase suprema del capitalismo. La guerra in Libia è stata anche una vetrina per le potenze europee e per i propri mezzi di morte, tanto che la Francia, il paese che più di tutti ha spinto per un intervento militare, è riuscita ad aggiudicarsi una commessa miliardaria dall'India per il proprio cacciabombardiere Rafale. La guerra diventa quindi un strumento permanente (e non più transitorio) per valorizzare gli enormi capitali investiti in armamenti e nella ricerca militare, tanto più che alcuni giganti del settore, come Finmeccanica, hanno non a caso fortissime partecipazioni statali. E' in questo contesto che può essere spiegato il programma di riarmo varato dal governo italiano – col silenzio-assenso delle opposizioni – che prevede, tra l'altro, l'acquisto di oltre cento F-35, velivoli costosissimi (oltre 100 milioni di euro cadauno!) dotati di capacità nucleare (sic!), oltre al varo, avvenuto l'anno scorso, della nuova portaerei Cavour e all'ampliamento delle basi militari già esistenti, come nel caso dell'HUB pisano.

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Il ruolo degli universitari Quale il ruolo degli universitari in questo attacco frontale del capitalismo contro i lavoratori e le lavoratrici e contro la classe dei salariati? E' fondamentale non ripetere gli errori delle ultime due mobilitazioni studentesche, quella dell'Onda e quella culminata con il 14 dicembre a Roma, caratterizzate da un forte settarismo, tanto che ad ottobre 2008, nel corso di una partecipata assemblea di Ateneo al Polo Carmignani (Pisa) si arrivò a dire che “noi siamo studenti e i problemi dei lavoratori non sono i nostri”. Un atteggiamento miope che ha portato al prevedibile fallimento delle lotte. Quello che abbiamo di fronte a noi non è un semplice attacco al mondo della conoscenza, bensì un attacco generale contro una grande varietà di soggetti. I tagli all'istruzione procedono di pari passo alle manovre “lacrime e sangue” e ad accordi tra padroni, istituzioni e la troika dei sindacati confederali che vanno ad annullare sempre di più i diritti dei lavoratori, cancellando così il risultato di anni e anni di lotta. Sempre più aumenta il senso diffuso dell'inattualità della forma “democrazia” visto che il livello decisionale comincia a essere percepito come lontano e non più individuabile. Per questo è necessario uscire dal nostro recinto e fare fronte comune con i lavoratori, con i disoccupati, con i migranti e con tutti coloro che sono colpiti dai provvedimenti governativi. Riteniamo che il modo migliore per farlo sia attraverso l'autorganizzazione, rigettando in toto le presunte alternative da buon governo e le logiche di egemonia e dei sedicenti rappresentanti del movimento, che con due piedi in una scarpa, cercano di tenere “vivi” due percorsi: il piano della lotta e quello della rappresentanza che sono due linee d'azione altamente in contrasto tra loro!

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Tutto ciò a dimostrazione che non esistono governi buoni e che non è possibile creare un'alternativa valida e concreta a questo sistema rimanendo all'interno dell'economia CAPITALISTA. PER ABBATTERE IL CAPITALISMO C'È BISOGNO DI LOTTA NON DI CAPI E CAPETTI.

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