Revisionismo Storico e Foibe - Tra verità e menzogne

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Revisionismo storico e foibe tra veritĂ e menzogna


Indice

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INTRODUZIONE Meccanismi di rimozione di Stato: l’armadio della vergogna

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I criminali di guerra italiani

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1. Foibe e confine orientale 2. L'avvento del fascismo 3. L'occupazione della Jugoslavia

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4. Deportazione e internamento delle popolazioni slave

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5. L'autunno caldo del 1943

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6. I rapporti tra partigiani italiani e jugoslavi: il CLN triestino, la primavera del '45 e l'occupazione jugoslava

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7. Le foibe della primavera del 1945

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8. Conclusione

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Appendice Intervista a Marco rossi

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INTRODUZIONE

La visione auto assolutoria e indulgente di una larga fetta della storiografia ufficiale italiana, diretta emanazione di una coscienza collettiva da sempre indirizzata in questa direzione, ha offerto terreno fertile a tentativi più o meno riusciti di mistificazione della realtà storica, soprattutto per quanto riguarda il periodo resistenziale e quello immediatamente successivo. Il caso più eclatante e di recente divenuto bandiera della retorica sciovinista è quello delle foibe che, allargandosi, arriva a comprendere l'intera vicenda del confine orientale. Prima di addentrarci nello specifico ritengo necessario parlare brevemente dei meccanismi di rimozione di Stato e delle responsabilità politiche che hanno portato a questa situazione. Una fortissima responsabilità appartiene alla sinistra italiana (nella fattispecie il PCI) che ha sempre preferito mettere in luce i meriti dell'Italia antifascista, arrivando a creare dei veri e propri “miti”, piuttosto che analizzare criticamente certi passaggi della nostra Storia recente e sottolineare le colpe del regime fascista. Esaltando la brutalità dell'occupazione nazista, per esempio, è stato possibile gettare le basi per il mito dei cosiddetti “ragazzi di Salò”, la cui unica colpa fu di combattere contro l'invasore angloamericano invece dell'occupante tedesco. Dimenticandosi, però, che la RSI non era altro che uno stato fantoccio sottoposto al controllo germanico e che i comandi nazisti assegnavano le formazioni repubblichine alla lotta antipartigiana, tanto che queste si macchiarono di crimini di guerra al pari della Wehrmacht o delle Waffen SS. Sempre al PCI possiamo ascrivere la responsabilità per l'epurazione puramente di facciata portata avanti dagli organi post-insurrezionali, tanto che in alcuni casi i giudici che presiedevano le commissioni di epurazione erano gravemente compromessi col regime fascista, come nel caso di Lorenzo Maroni. Fatto questo che può spiegare il numero piuttosto basso di condanne e la loro relativa clemenza. In ogni caso i pochi che furono condannati poterono godere nel 1946 della famigerata amnistia Togliatti che graziò anche criminali del calibro di Graziani, Roatta e Borghese.

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A quanto detto finora possiamo aggiungere la mancanza di una verità giudiziaria che, forse più di altri fattori, ha contribuito all'emergere di un'immagine distorta sul Ventennio fascista e i crimini di guerra italiani, dando vita ad un vero e proprio fenomeno di rimozione. In questo modo è stato possibile spacciare degli internati jugoslavi in un campo italiano per prigionieri di un lager tedesco1, oppure che nel 1990 l'allora Presidente della Repubblica Cossiga potesse affermare liberamente che << noi italiani non abbiamo conosciuto gli orrori dei campi di concentramento2>>. E i campi di Soluch, Arbe e Gonars3? Completamente rimossi dalla coscienza collettiva, condannati all'oblio, in nome del mito del “bono italiano”, così come i villaggi sloveni bruciati dal Regio Esercito, villaggi che hanno la stessa dignità delle nostre Marzabotto, Sant'Anna o Boves, ma che abbiamo vergognosamente dimenticato. Anzi, il campo di Gonars, l'unico rimasto in territorio italiano dei tre citati, è un esempio di rimozione anche fisica, dato che è stato completamente demolito, privato del riconoscimento sociale di luogo della memoria, a differenze della “nazista” risiera di San Sabba. Allo stesso modo sono stati demoliti i campi di Renicci, Ferramonti o il complesso di Ventotene, dove, secondo il nostro Presidente del Consiglio, venivano mandati in vacanza gli oppositori durante il ventennio fascista. Come è stato possibile che la Norimberga italiana non vedesse mai la luce e che criminali come Roatta e Priebke restassero impuniti per lunghissimo tempo o, addirittura, per sempre?

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C. S Capogreco, I campi del Duce, Einaudi, Torino 2006 p.7

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Soluch, uno dei sei campi coloniali italiani istituiti in Cirenaica dal re gime fascista per sedare la ribellione Senussa negli anni dal 1930 al 1933. Su circa 100.000 internati complessivamente nei vari campi ne tornarono a casa meno di 60.000. Di Arbe, oggi in Croazia, e di Gonars, provincia di Udine, si tratterà ampiamente nelle pagine successive.

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Ivi citato p.8

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Meccanismi di rimozione di Stato: l’armadio della vergogna L'impunità dei criminali di guerra nazisti va di pari passo con quella dei loro colleghi italiani responsabili di analoghe violazioni dei diritti umani nei territori occupati di Jugoslavia, Grecia e Albania. Sin dall'ottobre del 1943 venne costituita a Londra la United Nations War Crimes Commission (UNWCC), incaricata di stilare elenchi di criminali di guerra, in previsione dell'allestimento di un Tribunale internazionale. Per quanto riguarda l'Italia essa venne a trovarsi nella duplice condizione di stilare liste di militari germanici implicati in violazioni dei diritti umani e di veder comparire i propri soldati in liste analoghe stilate dai governi greco e jugoslavo. Per quanto riguarda i criminali nazisti, già dall'agosto 1945, il governo Parri decide di delegare ad un tribunale internazionale l'accertamento dei reati “non localizzabili” commessi da alti ufficiali germanici, esprimendo, tuttavia, preoccupazione per la possibile applicazione dei medesimi principi verso militari italiani. Ciò avrebbe significato che gli ufficiali di alto livello (comandanti di armata, di corpo e di divisione) sarebbero stati processati da un tribunale internazionale, mentre i responsabili locali dalla magistratura ordinaria italiana. I vari incartamenti sarebbero stati raccolti dalla Procura generale presso il Tribunale supremo militare che avrebbe provveduto a spartirli tra la magistratura alleata e quella italiana, ma in realtà non fece altro che aiutare il processo di insabbiamento. Nel 1950 (governo De Gasperi), anno in cui i tribunali alleati in Germania chiusero i battenti, il bilancio dei procedimenti contro i criminali di guerra nazisti è molto poco confortante. Ci furono, infatti, solo 5 condanne, per un massimo di 15 anni, contro le 1500 della Francia, le 1700 della Jugoslavia e le 50 della Danimarca4. Come mai questa disparità di giudizio? Franzinelli giustamente indica due possibilità: o una occupazione particolarmente mite, o l’abdicazione della magistratura repubblicana ai propri doveri istituzionali contro i criminali di guerra. Escludendo la prima, per ovvie ragioni, rimane solo la seconda. Motivo di questo atteggiamento è sicuramente da ricercarsi nel mutato assetto geopolitico: si era agli inizi della Guerra Fredda. La Germania (o almeno quella occidentale) non era più un nemico, 5


bensì un alleato strategico contro il “moloch” sovietico. Per questo motivo gli americani iniziarono una sistematica revisione dei processi appena conclusi: molti condannati videro le loro pene ridotte o furono amnistiati, come accadde all’industriale Krupp. Inoltre, molti ex nazisti erano stati reintegrati nei ranghi del neonato esercito federale, analogamente a quanto accadde agli ex fascisti in Italia. Nella seconda metà degli anni ‘50 le cose non accennano a cambiare, visto che il procuratore generale Mirabella, il ministro Martino (Esteri) e il ministro Taviani (Difesa) decretano una linea di condotta di assoluta inerzia in nome della ragion di Stato. Infine, il 14 gennaio 1960, si giunge all’archiviazione provvisoria di 695 fascicoli ordinata dal procuratore generale Santacroce. Tali fascicoli vennero occultati in uno sgabuzzino inaccessibile al pianterreno di Palazzo Cesi, in via dell’Acquasparta, a Roma. Il delicato materiale processuale fu stipato in un armadio di legno con le ante appoggiate contro la parete; l’ingresso della stanzina era protetto da un cancello di ferro chiuso a chiave5. Rimasero lì fino al 1994, quando vennero ritrovati casualmente. Altri 1300 fascicoli, contenenti vaghissime informazioni, furono inviati alle procure territoriali per salvare le apparenze. Santacroce si fece interprete della volontà politica del Governo e nella fattispecie del ministero della Difesa, all’epoca presieduto da Giulio Andreotti. La vicenda dei criminali di guerra italiani ricercati da Etiopia, Grecia e soprattutto Jugoslavia è per certi versi molto simile.

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I criminali di guerra italiani Il trattato di pace (art. 38 nella bozza del 1946 e art. 45 della versione definitiva firmata il 10 febbraio 1947) prevedeva che l'Italia arrestasse e consegnasse ai paesi richiedenti i sospettati di crimini di guerra. La UNWCC aveva raccolto un totale di 1283 fascicoli riguardanti presunti criminali di guerra italiani, ripartiti tra Francia, Regno Unito, Grecia, Etiopia e soprattutto Jugoslavia (che da sola ne ricercava oltre 800). Tra i personaggi di spicco figuravano il generale Roatta (comandante della II Armata in Slovenia), il generale Pirzio Biroli (governatore dell'Amara, Etiopia e successivamente del Montenegro), Rodolfo Graziani (Vicerè d'Etiopia e successivamente comandante delle Forze Armate della RSI) e il maresciallo Badoglio. Badoglio, ricercato per l'uso di armi chimiche in Etiopia e per i bombardamenti indiscriminati contro gli ospedali della Croce Rossa, era anche il primo interlocutore degli Alleati. Fu lui, infatti, il Capo del Governo dopo la caduta di Mussolini e fu lui ad annunciare l'armistizio dell'8 settembre 1943. Inoltre era estremamente gradito a Churchill e al Foreign Office britannico che vedevano in lui una garanzia contro il comunismo. Infatti, quando il suo fascicolo venne visionato dalla Commissione per le epurazioni nel settembre del '45, il governo inglese inviò un telegramma al proprio ambasciatore a Roma, invitandolo a far presente i meriti del maresciallo presso gli Alleati. Il fascicolo venne archiviato e Badoglio non fu mai processato. Allo stesso modo l'estradizione di altri criminali, che ora ricoprivano posizioni chiave presso il ministero della Guerra e nelle Forze Armate, sarebbe stata fonte di grave imbarazzo politico per il governo inglese. Restringendo il cerchio della nostra analisi alle sole richieste jugoslave, le prime partirono già dal febbraio del 1944 e furono nuovamente presentate alla UNWCC l'anno successivo6. Il governo italiano in risposta elaborò un documento noto come “Note relative all'occupazione italiana in Jugoslavia”7 e presentò una lista di 200 criminali jugoslavi, in cui compariva anche il nome di Tito. Allo stesso tempo iniziarono a girare le prime voci sulle foibe. Nel 1946 Lord Halifax dichiara che l'atteggiamento migliore da seguire è quello dello stallo, in quanto il rifiuto delle estradizioni con7


travveniva alla Dichiarazione di Mosca del 1943. In questo modo il Foreign Office britannico prese tempo usando come pretesto presunti problemi tecnici in modo da scaricare la patata bollente in mani italiane. Nell'aprile dello stesso anno, per cercare di calmare le acque, il governo De Gasperi annunciò l'istituzione di una Commissione preposta ad indagare su questi presunti crimini. I lavori, tuttavia, procedettero con estrema lentezza e nel 1951 i lavori furono archiviati grazie ad un cavillo. Nel 1948, a seguito della rottura tra Tito e Stalin, la Jugoslavia, che ora non poteva più contare sull'appoggio sovietico, cessò completamente le richieste di estradizione. Ben diverso atteggiamento ci fu nei confronti dei militari italiani colpevoli di crimini contro soldati alleati. Esemplare è il caso del generale Bellomo che, per ironia della sorte, era l'unico generale antifascista dell'intero Esercito italiano e che si guadagnò una medaglia d'oro combattendo contro i tedeschi a Bari subito dopo l'armistizio del 1943. Bellomo fu arrestato, processato e condannato a morte per l'uccisione di un prigioniero di guerra inglese operata da due guardie durante un tentativo di fuga. Nei fatti funse da capro espiatorio per tutti i crimini fascisti commessi contro i prigionieri di guerra britannici in Nord Africa. In queste pagine abbiamo tracciato sommariamente la successione di eventi e, soprattutto, le responsabilità politiche che hanno contribuito alla formazione di una coscienza collettiva tale da rivelarsi terreno fertile per “miti” come quello delle foibe.

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1. Foibe e confine orientale Le foibe rappresentano solo uno dei tanti episodi che nel loro insieme vanno a formare la cosiddetta questione del confine orientale, ossia quella serie di problematiche emerse tra 1866 e 19751, nelle zone adiacenti all'odierna frontiera tra Italia, Austria, Slovenia e Croazia. Il confine orientale è sempre stato un confine estremamente mobile e variegato dal punto di vista linguistico e culturale che, fino alla seconda guerra mondiale, si è spostato sempre più ad est, arrivando a inglobare anche territori mai appartenuti a entità statuali italiane (come poteva essere la Repubblica di Venezia) peraltro non abitati da italiani. Vale la pena di notare come col crescere delle popolazioni non italofone si estremizzasse il pregiudizio antislavo il quale, già dalla metà dell'Ottocento, si era insinuato all'interno della classe dirigente italiana: lo slavo era una sorta di barbaro e compito della superiore civiltà italica era quello di civilizzarlo. Tale atteggiamento si palesò per la prima volta nel 1866, quando, a seguito dell'annessione del Veneto, l'Italia estese il suo dominio anche sulla Benečija o Slavia Veneta, corrispondente alla Val Resia e alle valli del Torre e del Natisone, zona abitata da una minoranza slovena. I primi provvedimenti dello stato sabaudo furono, infatti, il cambio dei toponimo e l'imposizione della lingua italiana. Con il primo conflitto mondiale (1915-1918) lo Stato italiano palesò una estremizzazione di questo atteggiamento di superiorità il quale diventerà pratica quotidiana nella seconda guerra mondiale. Angelo Del Boca, infatti, riporta che «nei combattimenti del giugno 1915, per la conquista del Monte Nero, per esempio, reparti del 4° corpo, frustrati per i ripetuti insuccessi, si sfogavano sulle popolazioni slovene incendiando sei villaggi. A poca distanza, sulle pendici del Mrzli, venivano fucilate decine di civili sloveni, sospettati di aver ucciso alcuni feriti italiani»2.

1 Nel 1975 il Trattato di Osimo tra Italia e Jugoslavia sanciva definitivamente la rinuncia formale da parte dell'Italia alla sovranità sulla Zona B del Territorio Libero di Trieste. 2 A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005 p. 131

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Terminato il conflitto, le acquisizioni territoriali, sancite dai trattati di Versailles (1919) e Rapallo (1920), portarono all'annessione da parte italiana del Goriziano, di Trieste e dell'Istria, terre da sempre spacciate per italiane, cosa assolutamente falsa. Infatti, dai dati del censimento asburgico del 19103 possiamo notare che in Istria solo il 36,5% degli abitanti era italiano, contro un 55,3% di slavi (sloveni e croati), mentre il resto era composto da tedeschi, istro-rumeni e da altre etnie. Molti autori considerano questi dati poco attendibili, in quanto, a loro dire, i dati sarebbero stati falsati dall'inserimento nel Marchesato d'Istria di territori storicamente non istriani. Tuttavia basta analizzare i dati dei singoli distretti e dei singoli centri abitati per vedere riconfermata, in linea di massima, questa ripartizione etnica. Prendendo in considerazione, per esempio, il distretto amministrativo di Capodistria possiamo notare dalle tabelle4 come il gruppo italiano fosse maggioritario nel solo capoluogo – e in pochi altri comuni, come Muggia – e come nelle campagne vi fossero centri abitati quasi esclusivamente da slavi.

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I dati del censimento sono liberamente consultabili in formato pdf su http:// kozina.com/premik/1910.htm Per le tabelle sono stati presi in considerazione solo i dati relativi ai gruppi tedesco, italiano, sloveno e croato e non quelli relativi alle altre minoranze e ai cittadini stranieri residenti nella zona. Questa decisione è stata presa per semplificare il lavoro di analisi dei dati. Per chi volesse confrontare i dati riportati in questo opuscolo i risultati del censimento sono disponibili sul sito sopra riportato, oppure in: Guerrino Perselli, I censimenti della popolazione dell'Istria, con Fiume e Trieste, e alcune città della Dalmazia tra il 1850 e il 1936, Trieste – Rovigno 1993, Unione Italiana - Università Popolare di Trieste.

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Anche il distretto di Pola mostra dei dati analoghi:

Ciò che emerge da queste tabelle è la distribuzione dei gruppi etnici. I tedeschi, generalmente funzionari governativi, erano concentrati nelle sedi amministrative, mentre gli italiani si trovavano per la maggior parte nelle città piÚ grandi. I croati e gli sloveni, in quanto contadini, si trovavano in massima parte nelle campagne. Tale distribuzione dei gruppi etnici diviene palese anche analizzando i dati di Trieste e del Goriziano.

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Come si può facilmente notare il numero di italiani è inversamente proporzionale alla distanza dal centro della città: se a Trieste sono la maggioranza assoluta man mano che ci si allontana verso l'altopiano il loro numero decresce rapidamente. Il Goriziano ci offre un dato analogo e se possibile anche più incisivo, in quanto gli italiani scompaiono letteralmente appena si esce dalla città di Gorizia. Vale la pena notare che questa zona non fu mai parte della Repubblica di Venezia: fino al 1500 fu governata dalla famiglia dei Tirolo- Gorizia, quando fu lasciata a Massimiliano I d'Asburgo.

Nei territori appena annessi, abitati da oltre 400.000 slavi, il governatore militare Carlo Petitti di Roreto prese fin da subito i seguenti provvedimenti: venne impedito il ritorno dei residenti che avevano combattuto per gli austriaci; i funzionari tedeschi e slavi, così come i maestri, i ferrovieri e tutti i dipendenti statali, furono sostituiti da italiani; la stampa in lingua slava subì pesanti limitazioni. La principale conseguenza fu una prima ondata emigratoria, quantificabile in circa 100.000 unità, verso la neonata Repubblica austriaca e il regno di Jugoslavia5. Ad andarsene furono principalmente i funzionari asburgici e gli esponenti della borghesia austriaca e slava. Questo spiega come il tanto decantato censimento del 1921 riesca ad avere dei risultati completamente diversi da quello già citato del 1910.

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In quanto erede della Serbia, il regno di Jugoslavia figurava tra i vincitori del primo conflitto mondiale e in quanto tale reclamava il possesso delle terre dal mate e istriane. La questione dei confini fu risolta definitivamente solo nel 1920 con il trattato di Rapallo.

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2. L'avvento del fascismo Nella popolazione italiana il pregiudizio antislavo degenerava in un vero e proprio razzismo anche prima dell'avvento del fascismo. Irredentisti come Ruggero Timeus Fauro, le cui idee furono successivamente riprese dai fascisti, scrivevano, per esempio, che «lo slavo e il tedesco vive talvolta nella nostra stessa casa...anche quello lì è un nemico che si deve odiare e combattere senza quartiere»6 e ancora «faremo presto a sbarazzarci di tutti questi bifolchi sloveni e croati»7 e per finire «nessun triestino, per il disprezzo naturale che noi abbiamo per gli slavi, si preoccupa dei loro diritti»8. La cosa sconcertante è che a un apologeta della pulizia etnica sia dedicata addirittura una via a Trieste. Lo spirito di Timeus animò gli squadristi triestini e istriani ed è per questo che il fascismo di frontiera fu significativamente più violento di quello metropolitano. La sezione del fascio di Trieste aprì nel 1919 e in breve tempo divenne una delle più grandi e più attive d'Italia. Nello stesso anno un attentato dinamitardo distrusse il monumento della “Dedizione” agli Asburgo, mentre nel luglio del 1920 si verificò l'azione squadrista più eclatante: il Narodni Dom, la Casa della Cultura Slovena, venne dato alle fiamme con la complicità delle forze di polizia e il sostegno propagandistico della stampa italiana. I fascisti, però, non si limitarono ad attaccare i centri culturali e le case del popolo. Il fatto più increscioso avvenne nel 1921 a Strignano, vicino a Capodistria,

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R. Timeus, Trieste, Gaetano Garzoni Provenzali, Roma 1914,p.9 cit. in A. Kersevan, L'aggressione alla Jugoslavia ed il sistem dei campi di concentramento fascisti, in «Foibe, revisionismo di Stato eamne sie della Repubblica», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 45 Ivi, p. 46

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quando gli squadristi spararono da un treno in corsa su un gruppo di bambini uccidendone due e ferendone cinque. Nonostante la difficile situazione, la politica degli esponenti slavi e croati – tra cui i loro rappresentanti in parlamento – fu improntata al lealismo nei confronti dello Stato, anche dopo l'avvento del fascismo9. Tuttavia, fedele alla massima mussoliniana del «quando l'etnia non va d'accordo con la geografia, l'etnia deve muoversi»10, il nuovo governo inaugurerà un vero e proprio tentativo di bonifica etnica della regione attraverso un processo di snazionalizzazione della comunità slava, di negazione della sua identità culturale e di oppressione politica. I giornali e i partiti politici slavi vengono messi fuori legge. Decine di associazioni culturali, cooperative economiche, biblioteche e case popolari furono soppresse. L'italiano venne imposto come lingua, mentre venne proibito l'uso pubblico dello sloveno e del croato, così come il loro insegnamento nelle scuole. Si arrivò addirittura a vietare l'uso dello slavo ecclesiastico durante le funzioni liturgiche e nel 1927 si procedette alla italianizzazione coatta dei cognomi e della toponomastica. A tutto questo si affiancarono incentivi all'emigrazione, seguiti dall'avvio di grandi lavori pubblici e di progetti di colonizzazione agricola con manodopera italiana. Inoltre furono presi provvedimenti economici mirati a semplificare drasticamente la struttura della società slovena, eliminandone gli strati superiori in modo da renderla conforme allo stereotipo dello slavo barbaro. Come se ciò non bastasse la popolazione slava fu anche duramente colpita dalla crisi economica degli anni '30, tanto che Gianni Oliva riporta che «moltissime terre andarono all’incanto e passarono in proprietà di alcuni avventurieri politico-finanziari, calati come corvi da altre regioni, di commercianti, di ereditieri»11. 9 10 11

I rapporti italo-sloveni 1880-1956. Relazione della commissione storico cul turale italo-slovena, Koper – Capodistria, 25 luglio 2000. La relazione è lib eramente consultabile su internet all'indirizzo: http://www.storicamente.org/ commissione_mista.pdf Arrigo Petacco, L'Esodo, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1999 p. 18 G. Oliva, La resa dei conti, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1999 p. 139

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Questo processo di proletarizzazione, che portò i contadini slavi da uno status di piccoli proprietari a quello di braccianti o mezzadri sotto padrone italiano, unito ai provvedimenti del governo fascista, ebbe enormi conseguenze sociali. Infatti, da parte slava, si passò dal richiedere un'autonomia più o meno ampia al volere il distacco dall'Italia. Inoltre essendo lo Stato identificato con l'ideologia fascista ci fu un costante spostamento a sinistra, verso l'ideologia dell'antifascismo. Ogni attività antifascista o pan-slava era prontamente repressa dall'OVRA e dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, istituito nel 1926 con una delle “leggi fascistissime”, che colpì in maniera particolarmente dura gli oppositori slavi: infatti su 978 sentenze emesse per reati politici ben 131 riguardavano croati e sloveni12, così come 36 delle 47 condanne a morte13. Con l'entrata dell'Italia nel secondo conflitto mondiale (giugno 1940) questa situazione, di per sé già pesante, subì un ulteriore peggioramento. La polizia effettuò innumerevoli retate contro le organizzazioni clandestine slave, compiendo numerosi arresti. Inoltre venne preso un provvedimento che ricorda in maniera sconvolgente quanto fece il Governo turco nei confronti della minoranza armena durante la prima guerra mondiale: tutti i militari di origine slava vennero inquadrati in speciali battaglioni di loro e inviati (senza armi) in Sardegna, in Sicilia e in Italia meridionale.

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C. S Capogreco, I campi del Duce, Einaudi, Torino 2006 p.108 A. Kersevan, L'aggressione alla Jugoslavia ed il sistema dei campi di concentramento fascisti, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Re pubblica», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 45

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3. L'occupazione della Jugoslavia Il 6 aprile del 1941 le forze dell'Asse attaccarono, senza preventiva dichiarazione di guerra, il Regno di Jugoslavia. All'Operazione 25 – così venne chiamata dall'OKW (Oberkommando der Wehrmacht) – partecipò anche il Regio Esercito. La II Armata comandata dal generale Ambrosio attaccò dal confine istriano, a sud la IX Armata di Pirzio Biroli avanzò dall'Albania, mentre al centro la guarnigione di Zara occupò i centri principali della Dalmazia. Alla vigilia dell'attacco le autorità fasciste procedettero all'evacuazione di tutta la popolazione “ostile” dalla fascia di confine: fu la prima di una lunga serie di deportazioni. Il 17 aprile venne firmata la resa e lo Stato jugoslavo cessò di esistere. L'Italia riuscì a coronare il suo sogno di espansione nei Balcani mettendo le mani su gran parte della Slovenia, sulla costa dalmata, sul Montenegro e sul Kosovo che venne inglobato nell'Albania italiana. Il Regio Esercito manteneva un controllo militare anche su parte del neonato Regno di Croazia, uno “stato fantoccio” governato sulla carta da Re Tomislavo II (Aimone di Savoia) e nei fatti dagli ustascia di Ante Pavelic. Pavelic era stato cresciuto politicamente da Mussolini e i suoi ustascia erano stati addestrati in Italia, in particolare sull'isola di Lipari14. Fin dal primo momento essi perseguirono un progetto di pulizia etnica ai danni di serbi, ebrei, bosniaci e zingari: stime delle Nazioni Unite parlano di almeno mezzo milione di morti. Nella provincia di Lubiana, nuova denominazione della Slovenia occupata, vivevano circa 350.000 sloveni, ambiguamente definiti cittadini per occupazione. Qui, come in Istria, lo Stato italiano, nella persona dell’Alto Commissario Civile Emilio Grazioli, triestino e squadrista della prima ora, procedette fin da subito a una sistematica italianizzazione e fascistizzazione della regione, applicando i principi della bonifica etnica che, col tempo, divenne una vera e propria pulizia etnica. 14

C. S Capogreco, I campi del Duce, Einaudi, Torino 2006 p. 22

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Alla nascita delle prime formazioni partigiane15 dell'Osvobodilna Fronta (OF, Fronte di Liberazione) gli occupanti risposero con la creazione delle Milizie Volontarie Anti Comuniste (M.V.A.C)16 e l'istituzione, in autunno, di una sezione del Tribunale speciale e successivamente del Tribunale militare. Questo fu presieduto prima dal colonnello Antonino Benincasa e successivamente dal colonnello dei carabinieri Ettore Giacomelli e operò fino all'8 settembre 1943. Durante la sua attività comminò complessivamente 83 condanne a morte, 434 ergastoli, 2695 pene detentive dai 3 ai 15 anni, per un totale di 25.459 anni17. Nonostante una dura repressione la lotta dell'OF non ne risultò indebolita, tanto che nell'inverno del 1942 si ebbe un'ulteriore escalation repressiva ordinata dal comandante della II Armata, generale Mario Roatta. Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio i militari della Divisione “Granatieri di Sardegna” trasformarono la città di Lubiana - che all'epoca contava 80.000 abitanti - in un enorme campo di concentramento. L'abitato venne circondato da una recinzione di filo spinato e suddiviso al suo interno in settori delimitati da alti reticolati, con il dichiarato scopo di non permettere ad alcun maschio adulto di sfuggire ai controlli ed eventualmente all’arresto. Inoltre, il 1 marzo dello stesso anno Roatta emanò la famigerata “Circolare 3C”18 che stabiliva quale atteggiamento mantenere nei confronti delle formazioni partigiane e delle popolazioni civili sospettate di fiancheggiamento. Atteggiamento che prevedeva il «ripudio delle qualità negative compendiate nella frase “bono italiano”» e stabiliva che «il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula “dente per dente”, bensì “testa per dente!”» attraverso «l’incendio di case e di interi villaggi, la fucilazione degli ostaggi, la deportazione dei civili sospetti»19. 15 16 17

Il movimento partigiano fu particolarmente forte in Jugoslavia perchè gli invasori non si preoccuparono di disarmare le formazioni dell'esercito regolare. Formalmente furono istituite con gli accordi Roatta-Pavelic del 1942, ma fin dall'anno precedente gli italiani si servirono di milizie simili. Tra di esse pos siamo ricordare i belagardisti sloveni, i domobranci croati e successivamente anche parte dei cetnici serbi che per odio dei partigiani titini non esitarono ad allearsi con l'invasore nazifascista. Analoghe formazioni furono arruolate tra i bosniaci musulmani e i montenegrini. A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005 p. 235

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Queste disposizioni furono interiorizzate e applicate non solo in Slovenia, ma in tutto lo scacchiere balcanico: difatti è ispirandosi a esse che il governatore del Montenegro generale Pirzio Biroli ordinò nel 1943 l'uccisione di 180 civili a titolo di rappresaglia per la morte di 9 ufficiali italiani. Ed è sempre riferendosi a questi ordini che il generale Robotti, comandante dell'XI Corpo d'Armata, commentò «chiarire bene il trattamento dei sospetti, perché mi pare che su 73 sospetti non trovar modo di dare neppure un esempio è un po' troppo. Cosa dicono le norme della 3 C e quelle successive? Conclusione: SI AMMAZZA TROPPO POCO!» in calce ad un fonogramma che riportava il risultato di un rastrellamento, «briganti comunisti passati per le armi uno. Arrestati sospetti per favoreggiamento dieci. Arrestati sessantatré abitanti Rokitnica pure sospetti». Lo stesso Robotti affermò nel luglio del ‘42 che “a qualunque costo deve essere ristabilito il dominio e il prestigio italiano, anche se dovessero sparire tutti gli sloveni e distrutta la Slovenia”20 mentre si preparava a lanciare una delle più vaste operazioni antipartigiane nei territori occupati dal Regio Esercito:

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Il testo completo della circolare è disponibile, nella versione definitiva del 1.12.42, sul sito www.criminidiguerra.it. Tutti i telegrammi, fonogrammi e cablogrammi presenti interi o in parte in questo opuscolo sono, salvo di versa indicazione, stati trovati a questo indirizzo. Tutta la documentazione originale è attualmente conservata a Lubiana, mentre copie sono disponibili presso l'Archivio dell'Esercito e l'Archivio Centrale dello Stato a Roma. A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005 p. 236 A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005 p. 239

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la cosiddetta “offensiva Primavera” costerà la vita di 2500 civili21. Nello stesso mese il prefetto di Fiume, Temistocle Testa, ordinò quello che poi passò alla storia come il massacro di Podhum (un paese vicino a Fiume) in cui l'Esercito Italiano, coadiuvato da unità dei carabinieri e della milizia fascista, uccise 104 civili, il più giovane dei quali aveva 14 anni22. Leggendo le lettere scritte dai soldati al fronte, e intercettate dalle forze partigiane, si può constatare come certi atteggiamenti non erano l'eccezione, bensì la norma. Il comportamento delle truppe era talmente disastroso da spingere il commissario civile Rosin del distretto di Longatico a scrivere due “riservatissime” per l'Alto Commissario Grazioli, in cui si lamentava della condotta dei militari italiani riportando che «la frase ”gli italiani sono diventati peggio dei tedeschi” che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi», e accusa i vertici militari di incitare i soldati alla rapina e alla strage, «poiché il motto insegnato alle truppe è: “Ammazza e porta via tutto, perché dove prendi è ben preso”»23. nel 1943 scriveva al neo-insediato prefetto: «Villaggi e case incendiati, innumerevoli famiglie disperse, gente uccisa senza motivo all’impazzata, torture e bastonature violente durante gli interrogatori, arresti di massa, campi pieni di internati spesso tenuti in modo disumano (chi parla ha visto con i suoi occhi), hanno seminato odio, amarezza, sfiducia e hanno favorito la propaganda partigiana»24. Nei territori annessi dopo il 1918 furono presi provvedimenti analoghi, seppur meno diffusamente. Nel 1942 si insediò a Trieste il famigerato Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia che ben presto si distinse per i metodi di tortura applicati durante gli interrogatori. Questa struttura, dipendente direttamente dal ministero dell’Interno e comandata da Giuseppe Gueli, poteva decidere liberamente la deportazione di civili, senza passare per le prefetture e le questure.

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Ivi, p. 235 22 A. Kersevan, L'aggressione alla Jugoslavia ed il sistema dei campi di concentramento fascisti, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 52 A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005 p. 236-237 C. S Capogreco, I campi del Duce, Einaudi, Torino 2006 p. 113

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4. Deportazione e internamento delle popolazioni slave Lo strumento della deportazione di massa, sia per le popolazioni allogene, sia per quelle dei territori di nuova annessione, era parte integrante del progetto di pulizia etnica fascista. Nel luglio del 1942, durante una riunione a Gorizia alla presenza di Roatta, Ambrosio e Cavallero, Mussolini comunicò loro che «al “terrore” dei partigiani si deve rispondere col ferro e col fuoco», concludendo che era ipotizzabile un «trasferimento di massa della popolazione»25. Roatta, che nel maggio dello stesso anno aveva già proposto la realizzazione di campi di concentramento ad hoc, andò ben oltre visto che a settembre comunicò al comando supremo che l’internamento poteva essere esteso a intere regioni, consigliando di «trasferire, al completo, masse ragguardevoli di popolazione, di insediarle all’interno del Regno, e di sostituirle in loco con popolazioni italiane»26.

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A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005 p. 241

A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005 p. 241

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La deportazione della popolazione civile dalla provincia di Lubiana iniziò nel giugno del 1942. Per l’internamento della popolazione slava era stata predisposta una rete di campi di concentramento parallela a quella dell’internamento civile gestita dal Ministero dell’Interno. Questi campi “speciali” si trovavano alle dirette dipendenze del Regio Esercito. Per esempio, dalla II Armata dipendevano, tra gli altri, i campi di Arbe, Gonars e Renicci. Le condizioni in questi campi erano semplicemente disumane. I campi, soprattutto quello di Arbe (ora isola di Rab, in Croazia), apparivano come immense tendopoli le cui condizioni igienico-sanitarie erano estremamente precarie. Uno dei reclusi in questo campo, Franc Potočnik, ricorda che «le latrine erano costituite da buche a cielo aperto e solo tre rubinetti dovevano bastare per 20.000 persone; l'acqua veniva erogata solo per sei ore al giorno e spesso veniva chiusa per punizione»27. Le razioni di cibo erano da fame; fame in parte causata da una serie di ruberie sul vitto degli internati, ma soprattutto effetto di un calcolo intenzionale. Capogreco riporta che «le razioni alimentari previste dal Regio Esercito erano pressoché “da fame” già all'origine: le apposite tabelle prevedevano, infatti, per i “repressivi” 877 calorie giornaliere e per i “protettivi” 1030 calorie»28. Non deve quindi stupire quanto detto dal generale Gastone Gambara, in merito a una relazione medica sulle condizioni di salute degli internati nel campo croato: «Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo...»29. A farne le spese furono ovviamente le fasce più deboli, come vecchi e bambini. Nel solo campo di Gonars, secondo quanto riportato da Alessandra Kersevan, morirono oltre 500 prigionieri di cui ben settantuno erano bambini di meno di un anno di età30. 27 28 29 30

Ivi, pp.242-243 C. S Capogreco, I campi del Duce, Einaudi, Torino 2006 p. 142-143

http://www.criminidiguerra.it/ARBISS3.shtml#355 Nel corso della realizzazi one di questo opuscolo è stata inserita in questo sito una notevole mole di documentazione aggiuntiva che, per motivi di tempo, non è stato possibile analizzare. A. Kersevan, L'aggressione alla Jugoslavia ed il sistema dei campi di con centramento fascisti, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repub blica», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 53

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Nel campo di Arbe, il più grande lager italiano della seconda guerra mondiale, le cose andarono anche peggio. Se, in effetti, non è stato possibile appurare il numero esatto di internati deceduti, sappiamo però con certezza che non possono essere stati meno dei 1435 a cui è stato possibile attribuire un nome. Una cifra che corrisponde a circa il 19% degli internati totali e che supera il tasso di mortalità del lager nazista di Buchenwald31. Il comandante del campo, tenente colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 fu arrestato, processato e condannato a morte dalla brigata partigiana che si era costituita all'interno del lager, ma riuscì a suicidarsi prima che la sentenza venisse eseguita. Quanto è costata l'occupazione della Slovenia in termini di vite umane? Difficile quantificarlo, vista l'enorme differenza delle cifre riportate dalle diverse fonti. Per esempio, secondo la relazione presentata dal governo jugoslavo alla United Nations War Crimes Commission nel 1946 «50.000 sloveni o persero la vita o subirono gravissime offese da parte delle truppe di occupazione»32, mentre Dušan Puh nel 1999 parla di 12.807 uccisi33. In ogni caso troppi per dimenticarli come è stato fatto volutamente fatto fino a oggi.

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C. S Capogreco, I campi del Duce, Einaudi, Torino 2006 p. 270 Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005 p. 235 Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005 p. 235

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5. L'autunno caldo del 1943 Contrariamente a quanto si potrebbe credere le cose non cambiarono molto con la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943, tanto che il 24 agosto dello stesso anno il Generale Robotti ricordava ai suoi sottoposti che il «passaggio per le armi è e rimane la regola». Allo stesso modo continuarono le deportazioni della popolazione civile. Riporta Capogreco che in pieno periodo badogliano, nel campo di Renicci, «per aver intonato l'Internazionale, l'anarchico Umberto Tommasini, insieme ad alcuni suoi compagni, fu bersaglio dei colpi di rivoltella di un tenente della guarnigione»34. L'8 settembre, con l'annuncio dell'armistizio, le Forze Armate italiane, rimaste senza ordini precisi, si disgregano come neve al sole. Salvo sporadici tentativi di resistere in armi all'ex alleato germanico – come a Cefalonia – la maggior parte dei militari decise di dirigersi verso casa, oppure si unì alla resistenza jugoslava. Petacco indica in 40.000 la cifra degli italiani che si unirono alle forze titine35, tanto che Bogdanić afferma che in Istria «furono formate tre brigate e una divisione, la Garibaldi Natisone» e che «nello stesso periodo furono formate anche sei brigate italiane e la divisione “Garibaldi”, tutte operanti sul territorio jugoslavo»36. Nel complesso le forze italiane poterono abbandonare la regione indisturbate. Nel vuoto di potere venutosi così a creare non si fece attendere la reazione delle popolazioni sottoposte a una sanguinosa ventennale oppressione. Si verificarono, infatti, diversi episodi di violenza che colpirono in primo luogo la locale classe dirigente37, quindi i vari Podestà e i Segretari delle sezioni locali del Partito Fascista, gli squadristi della prima ora e gli appartenenti al PNF e alla MVSN (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale)38. Le cifre dei morti nelle cosiddette “foibe non confondere con quelle del ‘45, sono considerevolmente più bassi di quelli che vengono canonicamente indicati. istriane” del ‘43, da Uno storico come Spezzali, sicuramente non tacciabile di “negazionismo”, indica 34 35 36

C. S Capogreco, I campi del Duce, Einaudi, Torino 2006 p. 149 Arrigo Petacco, L'Esodo, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1999 p. 80 L. Bogdanić, Il movimento partigiano jugoslavo, la questione nazionale e della nazionalità, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubbli ca», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 63

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in poco più di 200 i corpi recuperati dalle cavità carsiche nell’autunno del ‘4339. Questa cifra, ricavata dal rapporto Harzarich, andrebbe raddoppiata, includendo anche le persone di cui si è denunciata la scomparsa ma di cui non è mai stato recuperato il corpo, arrivando infine a una cifra complessiva di circa 400 vittime, un numero estremamente lontano da quello ufficiale. Nell’ottobre del 1943, con l’operazione “Wolkenbruch” (nubifragio), le truppe germaniche, composte principalmente da unità delle Waffen SS, occuparono l’Istria, sloggiando le formazioni partigiane e causando oltre 12.000 morti tra la popolazione italiana. Anziché restituire la regione alle autorità della Repubblica di Salò, le autorità naziste la inserirono nella neocostituita “Operationszone Adriatische Küstenland”(Zona di Operazioni Litorale Adriatico), integrandola di fatto nel Reich tedesco. Essa comprendeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume, ed era governata dal Gauleiter della Carinzia Friedrich Rainer. Il nuovo Governatore applicò alla lettera la politica del “dividi et impera”, esaltando l’elemento slavo in funzione chiaramente anti-italiana40: suoi collaboratori di fiducia erano in grandissima parte collaborazionisti sloveni e croati. Inoltre autorizzò violentissime rappresaglie contro le popolazioni civili sospettate di fiancheggiare i partigiani, azioni cui parteciparono anche reparti italiani. Questi reparti dipendevano direttamente dal comando militare germanico, con l’eccezione della X MAS, che, in virtù di accordi personali tra Borghese e gli ufficiali nazisti, godeva di ampia autonomia. A questo punto è il caso di ricordare come i cittadini istriani fossero esentati dalla “chiamata alle armi” della RSI41 e come, di conseguenza, il loro arruolamento in corpi militari si svolgesse su base del tutto volontaria. 37 38 39 41

I rapporti italo-sloveni 1880-1956. Relazione della commissione storico cultu rale italo-slovena, Koper – Capodistria, 25 luglio 2000 Ricordiamo che tra i suoi compiti vi era anche quello di sorvegliare i campi di internamento e che spesso sue formazioni parteciparono a rappres aglie contro la popolazione civile R. Spazzali, Foibe: un dibattito ancora aperto. Tesi politica e storiografia giuliana tra scontro e confronto, Lega Nazionale, Trieste, 1990. 40 Arrigo Petacco, L’Esodo, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1999 p. 70 Ivi, p. 72

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Ne consegue quindi che chi indossava le uniformi di queste formazioni lo faceva per volontà propria e non per imposizione. L'equivalente della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) era la Milizia Difesa Territoriale (MDT) la quale operava sotto il comando delle SS42 ed era inquadrata nella Landschutz43 (difesa territoriale) insieme a reparti ustascia e di collaborazionisti sloveni. In molti si arruolarono anche nelle Waffen SS andando a costituire così la 24° SS-Gebirgsdivision “Karstjäger”. Nel Litorale operava anche la polizia di Pubblica Sicurezza, di cui faceva parte la banda Collotti (equivalente locale delle bande Koch e Carità, rimaste tristemente famose per le loro torture e gli omicidi arbitrari ai danni di partigiani e sospetti tali) mentre i Carabinieri Reali vennero sciolti con decreto di Rainer il 25 luglio 1944. Sarebbe bene ricordarsi come, sia la banda Collotti che le truppe germaniche facessero largo uso delle foibe come metodo veloce per far sparire i corpi delle vittime di interrogatori e rappresaglie, come accadde con i 70 fucilati di Opicina44.

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Il comandante delle SS nella zona era Odilo Globocnik, passato alla storia come il “boia di Lublino” Arrigo Petacco, L'Esodo, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1999 p. 72 Arrigo Petacco, L’Esodo, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1999 p. 87

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6. I rapporti tra partigiani italiani e jugoslavi: il CLN triestino, la primavera del '45 e l'occupazione jugoslava Come già riportato, le formazioni partigiane italiane e jugoslave operavano in concerto, così come gli esponenti del PCI e del PCJ (Partito Comunista Jugoslavo). Tuttavia, con l'emergere della questione della nazionalità i rapporti si deteriorarono. Nella seconda seduta del Avnoj (Comitato antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia) del 29 novembre 1943 venne espresso chiaramente il desiderio di congiungimento delle terre istriane e del litorale alla Slovenia e alla Croazia45. Il CLN triestino aveva posizioni antitetiche: era contrario a una qualsiasi modifica delle frontiere del 1918 ed era pervaso da un forte sentimento antislavo46, tanto da non accettare l’alleanza strategica tra CLNAI (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia) e OF, a causa del proprio rifiuto di collaborare con gli slavi. Pertanto il PCI decise di uscirne nel 1944 e di stipulare accordi (incontro Togliatti- Kardelj del 17 ottobre47) con le forze antifasciste slave per conto proprio. Dal canto suo il CLN triestino non esitò a prendere contatti con le formazioni collaborazioniste – in primis la Guardia Civica – e addirittura con la X Mas di Borghese per cercare di fare fronte comune contro il pericolo “slavocomunista”. Questo spiega ampiamente il comportamento ambiguo che il Comi45 46 47

L. Bogdanić, Il movimento partigiano jugoslavo, la questione nazionale e della nazionalità, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubbli ca», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 63 S. Volk, Foibe ed esodo, un binomio da sciogliere, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 73 L. Bogdanić, Il movimento partigiano jugoslavo, la questione nazionale e della nazionalità, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repub blica», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 63

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tato tenne alla fine di aprile del ‘45. Dopo essersi distinto in negativo per una attività militare del tutto inesistente organizzò addirittura un’ insurrezione (solo due giorni dopo che una iniziativa analoga venne presa dalle formazioni di “Unità Operaia”, sottoposte al comando dell’esercito jugoslavo) dalle tinte piuttosto bizzarre. Infatti, non solo vi parteciparono in grande numero appartenenti alle forze collaborazioniste, ma alle truppe germaniche fu permesso di mantenere alcune roccaforti48. Gli unici scontri a fuoco si ebbero con formazioni sbandate che provenivano da fuori città e, successivamente, con le formazioni jugoslave. Come mai questo atteggiamento? Semplice, il CLN triestino voleva arrendersi agli Alleati occidentali e non all’esercito jugoslavo. L’occupazione di Trieste da parte delle truppe jugoslave durò all’incirca un mese, dal 1 maggio al 12 giugno, quando queste dovettero ritirarsi dietro la linea Morgan. Ampie fette della storiografia italiana, a partire da quella neofascista di Papo per arrivare a quella più autorevole di Oliva e Petacco, vorrebbero far credere che, in questo breve lasso di tempo, l’esercito jugoslavo abbia portato avanti un vero e proprio genocidio ai danni degli italiani, parlando di migliaia di infoibati e altrettanti “desaparecidos”. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sulla questione. Innanzitutto l’Esercito Jugoslavo viene sempre indicato con l’errata semplificazione di “partigiani titini”. Si tende a dimenticare, infatti, che le formazioni titine costituivano a tutti gli effetti un esercito alleato, al pari di quello americano o inglese, e in quanto tale avevano pieno diritto di occupare territori, disarmare e arrestare come prigionieri di guerra gli appartenenti alle forze armate nemiche, così come i militi delle formazioni collaborazioniste: operazioni che fecero anche gli angloamericani, senza per questo essere definiti o additati come invasori. Inoltre lo Stato maggiore sloveno (come quello croato) stabiliva che «se tra i prigionieri e gli arrestati si trovassero delle persone che dovrebbero rispondere per i crimini di guerra» era necessario «consegnarli con ricevuta ai tribunali militari per il procedimento ulteriore»49.E' in questo quadro che vanno inseriti gli arresti di esponenti del CLN triestino – di cui abbiamo già 48

S. Volk, Foibe ed esodo, un binomio da sciogliere, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 73

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esposto il carattere “particolare” - e di vari collaborazionisti, alcuni dei quali furono effettivamente processati e condannati a morte. Come riporta un articolo di “Trieste Sera50” del 1948 «gli arresti o “prelevamenti” avvenivano sulla base di precedenti segnalazioni» e che «la maggior parte degli arrestati ritornavano a casa dopo alcuni giorni di indagini e molti subito». Tuttavia, di coloro che ritornarono «nessuno si occupò di tener conto», tanto che «oggi tutti, anche i ritornati, vengono sempre fatti figurare come scomparsi». Su 2500 arresti nella zona di Trieste, gli scomparsi sono circa 500, mentre furono 550 nel Goriziano e circa 400 nel Fiumano. Purtroppo per l’Istria non sono disponibili dati attendibili. Comunque cifre lontane anni luce dalle sparizioni di massa che vengono spesso menzionate e che contengono sia i morti nei campi di concentramento titini (come Goli Otok), sia i condannati a morte, sia le persone di cui non è mai stato trovato il corpo. Ciò che si dimentica di dire è che la stragrande maggioranza di questi era appartenente a milizie di collaborazionisti e si erano macchiati di crimini di guerra. In ogni caso le cifre riguardanti le persone uccise o morte di stenti nei campi jugoslavi variano dai 3-5000 della Commissione mista51 ai 1500 dell’Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione52.

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L. Bogdanić, Il movimento partigiano jugoslavo, la questione nazionale e della nazionalità, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubbli ca», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 65 “Trieste Sera”, 4 febbraio 1948 I rapporti italo-sloveni 1880-1956. Relazione della commissione storico cultu rale italo-slovena, Koper – Capodistria, 25 luglio 2000 AA.VV., Caduti, dispersi e vittime civili dei comuni delle regione Friuli-Ven ezia Giulia nella seconda guerra mondiale, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, Udine 1987-1992

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7. Le foibe della primavera del 1945 Gli infoibamenti della primavera del '45, avvenuti durante l'occupazione jugoslava, sono un fenomeno radicalmente diverso da quanto avvenuto due anni prima, tanto che sarebbe più corretto parlare di fenomeni delle foibe, anziché di fenomeno. Se nel 1943 effettivamente gli infoibati furono vittime di violenze i cui corpi furono gettati nelle cavità carsiche, due anni dopo si indicano con lo stesso termine «sia persone che vennero uccise e i cui corpi furono effettivamente gettati nelle cavità carsiche conosciute in italiano come “foibe”, sia persone uccise in altro modo, come pure coloro che morirono per malattie o anche per maltrattamenti nei campi di detenzione istituiti dagli jugoslavi»53. Allo stesso modo si evita accuratamente di distinguere tra chi fu vittima di vendette private, di comune criminalità o chi fu arrestato e giustiziato. Gianni Oliva, in un impeto di onestà intellettuale, ammette che nelle cavità carsiche «vi erano stati gettati anche soldati caduti in azioni militari, i cui corpi dovevano essere fatti sparire con rapidità»54 A scanso di equivoci le truppe americane e neozelandesi si calarono nelle foibe del Triestino e del Goriziano e recuperarono 464 corpi55. Nonostante ciò, sono circolate e circolano tuttora versioni quanto mai fantasiose e slegate da qualsiasi seppur minimo riscontro, specialmente per quanto riguarda la foiba di Basovizza dove, secondo alcuni, basandosi sulla “Relazione Chelleri” «le salme recuperate furono 600»56. Innanzitutto, vale la pena ricordare che tale relazione, la cui esistenza è stata smentita dallo stesso Chelleri, è alla base di tutta la storiografia “affermazionista” e sarebbe stata vista dal solo Padre Flaminio Rocchi. Dopo la sua morte, nel 2001, se ne sarebbero perse le tracce. Una fonte piuttosto “atipica”. 53 54 55

S. Volk, Foibe ed esodo, un binomio da sciogliere, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 70 G. Oliva, La resa dei conti, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1999 p. 138 R. Spazzali, Foibe: un dibattito ancora aperto. Tesi politica e storiografia giuliana tra scontro e confronto, Lega Nazionale, Trieste 1990.

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In secondo luogo viene dimenticato che il Partito Liberale pubblicò il giorno 29 luglio 1945 sul proprio organo di stampa ufficiale “Risorgimento liberale” un comunicato con cui «il Comando generale dell’Ottava Armata ha ufficialmente smentito oggi le notizie pubblicate dalla stampa italiana secondo cui 400 o 600 cadaveri sarebbero stati ritrovati in una profonda miniera della zona di Trieste». Infine si tende a dimenticare che i soldati neozelandesi si calarono nella cavità del pozzo di Basovizza e recuperarono dieci cadaveri di soldati della Wehrmacht e le carcasse di diversi cavalli: si trattava delle salmerie dell'esercito tedesco colpite dai raid alleati durante la battaglia di Basovizza. Eppure oggi un monumento ricorda 2500 civili italiani brutalmente uccisi dalla barbarie slavo-comunista. A voler essere precisi, nella zona di Basovizza, nel cosiddetto abisso Plutone, furono rinvenuti i cadaveri di 18 civili infoibati: si tratta delle vittime di un gruppo di criminali comuni e reduci della X MAS (si tratta della banda Steffè) che «si inserirono nella Difesa Popolare a Trieste al momento dell'insurrezione di fine aprile '45 e si diedero a ruberie, violenze ed omicidi»57. Anche storici attendibili come Arrigo Petacco sono stati tratti in inganno da fonti di dubbia autenticità, arrivando a scrivere che nelle foibe ci sarebbero «persino soldati neozelendesi»58, guardandosi bene di ricordare come nel 1996 il Ministero della Difesa neozelandese rispose all'interrogazione di un emigrato istriano in Australia: «In passato noi abbiamo indagato su simili rapporti ed abbiamo verificato che non sono basati sui fatti»59.

56 Federica Saini Fasanotti, La gioia violata. Crimini contro gli italiani 1940-1946, Ares, Milano 2006 57 B. Cernigoi, Foibe, tra storia e propaganda, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 81 58 Arrigo Petacco, L'Esodo, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1999 p. 59 59 B. Cernigoi, Foibe, tra storia e propaganda, in «Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica», Edizioni Kappa Vu, Udine 2008, p. 87

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8. Conclusione Istituendo con le legge n.92 del 2004 la Giornata del Ricordo, le istituzioni governative hanno fatto proprie le posizioni delle associazioni degli esuli come la ANVGD60, che di fatto sono estremamente minoritarie rispetto al numero stesso degli esuli. Innanzitutto bisognerebbe chiarire una volta per tutte che foibe ed esodo sono due episodi distinti, se non per altro almeno secondo un criterio prettamente cronologico: l'esodo, infatti, durò almeno una quindicina di anni. Questo senza contare come la gran parte degli esuli se ne andò legalmente, avvalendosi del diritto di optare per la cittadinanza italiana, come stabilito dal Trattato di pace. A cavalcare la data del 10 febbraio sono soprattutto i movimenti di estrema destra che tramite questa data trovano spazi di agibilità politica per esprimere i propri ideali politici xenofobi, riuscendo a passare per i “buoni” che si oppongono con la forza della “verità” alle “menzogne comuniste”. Per averne riprova basta dare una rapida occhiata ai comunicati e ai volantini/manifesti che le varie Forza Nuova, Casa Pound e Casaggì producono per l'occasione. Sono costoro a essere sempre pronti a tacciare di “negazionismo” chiunque tenta di staccarsi dalla visione “affermazionista” di storici e studiosi più o meno seri e attendibili. In questo trovano l'appoggio delle stesse istituzioni, infatti nel 2010 il ministro Meloni arrivò a proporre l'istituzione del reato di negazionismo proprio per le foibe! Ma non è necessario scomodare i Ministeri, visto che sono le istituzioni locali a revocare le autorizzazioni e gli spazi a convegni in cui compaiono tra i relatori i nomi degli storici Kersevan, Volk o Cernigoi, non mostrando però lo stesso zelo verso i neo-fascisti. Questo opuscolo non ha la pretesa di costituire un documento storico contenente una supposta “verità assoluta”, bensì vuole essere un tentativo di portare un contributo al dibattito universitario e studentesco circa il revisionismo storico. 60

Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, la principale associazione di esuli con i suoi 8000 iscritti. Nello statuto si propone di «compiere ogni legittima azione che possa agevolare il ritorno delle Terre Italiane della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia in seno alla Madrepatria». Tra i suoi presidenti possiamo trovare tale Maurizio Mandel, il cui nominativo compare tra i presunti criminali di guerra italiani.

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Appendice

Intervista rilasciata da Marco Rossi al Collettivo Aula R a primavera 2010 per essere in origine pubblicata su "L'Interferenza"

"Ribelli senza congedo" parla delle rivolte partigiane dal 1945 al 1947. Chi decise di tornare sui monti e perchè lo fece? E quale fu l’atteggiamento del PCI nei loro confronti? - A tornare sui monti furono, generalmente, quelli che c’erano già stati durante gli anni della Resistenza. Erano quelli che i nazifascisti chiamavano banditi e disertori. Le ragioni di una scelta così radicale, ossia tornare alla macchia talvolta anche armati, non mancavano certo, ma si possono sintetizzare parlando di una speranza delusa riguardo autentiche prospettive di Liberazione. Infatti, la quasi totalità dei dirigenti fascisti e persino gli aguzzini della Repubblica di Salò era tornata in circolazione (grazie in primo luogo all’infausta “amnistia Togliatti”, ma anche per la compiacenza della magistratura, mai defascistizzata, e degli stessi Alleati) mentre alcuni antifascisti erano stati condannati a decenni di galera in quanto colpevoli di aver eliminato qualche criminale fascista “a tempo scaduto”; le fabbriche occupate e difese dagli operai nei giorni dell’insurrezione erano tornate in mano alla medesima ed impunita classe industriale; in piena restaurazione capitalista dilagavano i licenziamenti e neanche chi era sopravvissuto ai lager nazisti riusciva a trovare una possibilità di reinserimento sociale, mentre ad essere “epurati” dai posti di lavoro erano proprio gli antifascisti specialmente se ritenuti degli agitatori di sinistra. Per quanto riguarda i due più significativi episodi d’insorgenza citati nel libro, quella di Santa Libera vide come protagonisti soprattutto ex-partigiani comunisti, mentre quella di Curino ex-partigiani socialisti, azionisti e libertari. Per disarmare i primi, il governo utilizzò l’inganno e la mediazione del PCI, mentre contro la seconda rivolta si ricorse alla repressione poliziesca, favorita dal blocco dell’informazione e fiancheggiata dalla criminalizzazione svolta dall’apparato del PCI. 32


Nella Resistenza, a fianco delle componenti comuniste, socialiste, azioniste, vi fu anche una componente libertaria. Perchè non se ne parla mai? Puoi parlarcene brevemente? - In realtà questa rimozione non ha colpito soltanto gli anarchici, ma anche le diverse realtà comuniste “alla sinistra del PCI” che peraltro, durante la Resistenza, furono tutt’altro che “minoritarie” anche se autonome o in contrasto con le direttive del CLN. Basti pensare al ruolo determinante che ebbero i Comunisti internazionalisti, “Prometeo” e “Stella Rossa” nella riorganizzazione operaia all’interno delle fabbriche, a partire dai primi grandi scioperi del ’43. L’emarginazione dalla storia ufficiale ha riguardato persino gli “irregolari” socialisti e azionisti. Basti pensare alle 335 vittime delle Fosse Ardeatine: in quanti sanno che la maggior parte erano partigiani di “Bandiera Rossa”, nonché di “Giustizia e Libertà” e un certo numero di militanti anarchici? Solitamente vengono ricordati come “patrioti” o “comunisti” ed avvolti nella retorica tricolore, senza neanche un minimo di rispetto per le loro convinzioni. Si trattava evidentemente di protagonisti politicamente scomodi in quanto la loro lotta contro il fascismo esprimeva, se non la rivoluzione, almeno un’autentica prospettiva di liberazione sociale che andava ben oltre la semplice cacciata dell’occupante nazista. Oggi invece predomina un’interpretazione politica, direi rassicurante e pacificatoria, per la quale i partigiani morirono per la patria libera, la democrazia e la Costituzione; ma si tratta di una visione quantomeno parziale. Invece molti (e se dicessi la maggior parte non farei neanche un’affermazione storicamente poi così azzardata)di coloro che scelsero d’impugnare le armi contro la dittatura avevano idee molto più avanzate di quanto si possa credere. E non mi riferisco soltanto al ristretto numero di militanti più consapevoli che aspiravano ad una società socialista, comunista o anarchica, ma ad un sentire popolare per il quale, dopo la fine del fascismo, niente avrebbe dovuto essere come prima.

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Esistono varie interpretazioni della Resistenza: guerra di liberazione nazionale, guerra civile, guerra rivoluzionaria. Quale si avvicina di più alla realtà storica? Come ha ben delineato lo storico (e partigiano!) Claudio Pavone che ha insegnato per tanti anni all’Università di Pisa, la Resistenza comprese queste tre “guerre”. Quella che combatteva per la liberazione nazionale dal terrore nazista e dai collaborazionisti di Salò. Una seconda che era la continuazione della guerra civile combattuta tra fascisti e sovversivi dal 1919 al 1922, prima della marcia su Roma e dell’affermazione del regime (basti dire che nel 1921, forse l’anno più cruento dell’offensiva antiproletaria, ogni giorno nelle piazze italiane si contavano circa 10 assassinati per mano statale o fascista). E, infine, la Resistenza fu attraversata dalla guerra di classe che si proponeva una riscatto della classe lavoratrice non solo contro i fascisti ma anche per mettere fine a quel potere padronale – sia agrario che industriale – che oltre ad aver finanziato il primo squadrismo antiproletario ed aver incrementato i profitti con le guerre coloniali e fasciste, avrebbe continuato a sfruttare i salariati e a mantenere la disuguaglianza economica. Che senso poteva avere parlare di democrazia e libertà, se ancora non venivano messi in discussione l’ingiustizia sociale, la proprietà privata, la legge del profitto? In altre parole, se il mondo era ancora diviso tra privilegiati e miserabili?

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Durante la presentazione del tuo ultimo libro hai parlato di alcune precise responsabilità della sinistra italiana riguardo al revisionismo storico e alla mitizzazione delle foibe. Vuoi parlarne anche ai nostri lettori? - Voglio premettere una considerazione storica. Nel 1921, proprio mentre dilagava la violenza fascista, arginata quasi soltanto dagli Arditi del Popolo, l’anarchico Luigi Fabbri in un vero istant-book dell’epoca (di recente ristampato) definì il fascismo come “Controrivoluzione preventiva”, per sottolineare il ruolo assunto dai fascisti nel ristabilimento dell’ordine padronale e statale scosso dalla conflittualità sociale seguita alla fine della Grande Guerra. Ben pochi, a sinistra, colsero la fondatezza di tale analisi e soltanto in tempi recenti la storiografia ha assunto tale lettura del fascismo. La sinistra ufficiale invece, per ragioni politiche, ha sempre preferito utilizzare dei “miti” piuttosto che analizzare criticamente taluni passaggi storici, favorendo indirettamente così il cosiddetto “revisionismo storico” dei neofascisti. Gli stessi in grado solo di riproporre schemi propagandistici vecchi di oltre mezzo secolo anche se spacciati per storia “non-conforme”. Penso ad esempio, alla retorica attorno al 25 Aprile e alla Resistenza. Riconoscendo soltanto una lotta di liberazione nazionale, durante la quale gli “italiani” avevano combattuto i “tedeschi”, si sono forniti ai fascisti i presupposti per proporre una “pacificazione nazionale” tra italiani, anche se combattenti su fronti opposti. In fondo, secondo tale visione mistificata, che differenza c’era tra i “ragazzi di Salò” che combattevano contro gli invasori angloamericani e i giovani partigiani che combattevano contro gli occupanti tedeschi?! Invece, come si poteva allora leggere su un opuscolo di “Giustizia e Libertà” stampato alla macchia: “Oggi noi partigiani sentiamo un fratello nel tedesco anti-hitleriano e un nemico mortale nell’italiano fascista”. Anche per quanto riguarda la questione delle foibe siamo di fronte ad un caso di mitologia speculare. Da un lato ci sono stati gli anticomunisti che hanno pianificato la costruzione del mito delle foibe come simbolo della barbarie partigiana (e quindi per definizione comunista!), funzionale anche per attenuare la memoria tragica della Risiera di S.Saba, il lager italiano di Trieste. Dall’altro almeno alcuni settori comunisti, più o meno stalinisti, hanno eletto le foibe a simbolo di in35


flessibile giustizia rivoluzionaria. Per fortuna, ci sono storici e storiche che, attraverso ricerche assai serie e documentate, stanno destrutturando questo doppio mito costruito su delle fosse comuni in cui, in tempi di guerra, finì un numero limitato di morti con nazionalità e appartenenze politiche diverse nonché vittime di circostanze non univoche. Per questi motivi, sarebbe paradossale che per paura d’essere sospettati di “revisionismo storico” si rinunci a mettere in discussione la storia ufficiale, di Stato, che si vuole imporre come “condivisa”. Al contrario, come ha scritto L. Febvre: “Lo storico non è colui che sa, è colui che cerca”.

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COLLETTIVO AULA R Scienze Politiche Pisa AULAR@AUTISTICI.ORG aulaerre.noblogs.org


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