BENI CULTURALI A CATANZARO UNA CITTĂ€ PER I GIOVANI E LA CULTURA
Comune di Catanzaro Assessorato alla Cultura Beni Culturali e Politiche Giovanili
INDICE
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Rocco Pangaro: L’Accademia di Belle Arti e la Città di Catanzaro
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Andrea La Porta: La Città come Bene Culturale
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Mauro F. Minervino: Catanzaro uno Sguardo dal Ponte
BENI CULTURALI ARCHITETTONICI
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Maria Luisa Corapi e Bruno Fabrizi: Catanzaro ’900
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Anna Russo: Catanzaro… Fuori dalla Storia
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Antonio Panzarella: Il Teatro Politeama di Catanzaro
BENI CULTURALI STORICO ARTISTICI
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Alessandro Russo: Opere d’Arte nel Decoro Urbano
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Teresa Esposito: Monumenti
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Angela Palaia: Intorno ai Musei Catanzaresi
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Giancarlo Chielli: Un Museo per Giuseppe Rito
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Giuseppe Funaro: Esempi di Produzione Artistica Contemporanea
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Guglielmo Gigliotti: Mimmo Rotella da Catanzaro al Mondo e Ritorno
BENI CULTURALI ECCLESIASTICI
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Oreste Sergi: Arte e Fede. Un Itinerario nella Memoria: Museo Diocesano, Chiese ed Oratori
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Sandro Scumaci: Lo Stemma dell’Arciconfraternita del SS. Rosario di Catanzaro
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Luca Pietro Vasta: Le Edicole Votive: Arte tra Religione e Religiosità Popolare
BENI CULTURALI LIBRARI, ARCHIVISTICI E ANTROPOLOGICI
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Caterina Bettiga e Isaura Barbieri: Biblioteche e Archivi
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Angela Fidone: I Segni delle Apparenze
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Mauro F. Minervino: George Gissing a Catanzaro
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Note Bibliografiche
L’Accademia di Belle Arti E LA CITTÀ DI Catanzaro
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Rocco Pangaro
L’iniziativa editoriale che qui presentiamo in collaborazione con l’Assessorato ai Beni Cuturali e alle politiche giovanili del Comune di Catanzaro fa parte dell’attività culturale svolta da questa Accademia (mostre, spettacoli, rassegne, convegni etc.) a favore di una fruizione pubblica e partecipata delle conoscenze e del patrimonio artistico nel territorio. Questo importante volume che ci vede a fianco della città di Catanzaro nella riscoperta e valorizzazione dei sui beni culturali e artistici e della sua immagine di città, afferma ancora una volta la forte propensione dell’Accademia di BB.AA. di Catanzaro a contribuire in modo originale alla ricerca e alla produzione artistica dell’intera regione di cui rappresenta il riferimento più proprio e immediato. Tali attività non restano infatti confinate nelle aule e nei laboratori tra le attività didattiche e i lavori istituzionali, ma piuttosto rappresentano per noi occasioni feconde per interagire con importanti contesti artistici del nostro territorio, per offrire una qualità di servizio del nostro prodotto culturale, disponibile al vaglio e alla indispensabile fruizione del pubblico, alla vita delle città, al confronto con le sue forze culturali. Tanto più oggi che un vasto processo di rinnovamento e di rinascita culturale, lo stabilirsi di nuovi e qualificati servizi per la cultura e il territorio, attraversa la città di Catanzaro. L’attività di ricerca e di elaborazione culturale e artistica svolta dall’Accademia anche con questo volume dedicato a Catanzaro non può dunque che collocarsi in questa prospettiva, con le sue preziose peculiarità e la vivacità che contraddistingue la sua presenza. L’Accademia rappresenta difatto nel nuovo assetto della formazione universitaria, la punta più avanzata della ricerca nel settore delle arti e dei beni culturali, il punto di congiunzione tra le innovazioni di forme e di linguaggi che avvengono in Italia e nel mondo e la realtà dei territori che come il nostro oggi partecipano attivamente, e non più con ruoli di retroguardia, alle conoscenze dell’arte e dei nuovi saperi. La città di Catanzaro per noi tutti non è solo un luogo di studio, di riflessione e di approfondimento critico di ciò che avviene “altrove”, ma un laboratorio di conoscenze, un luogo di produzione e innovazione, una sede operativa del fare arte e ricerca sui luoghi in un rapporto critico e fondato che guarda con occhi privi di
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pregiudizio tanto al mondo che alle realtà a noi più prossime. Questo importante volume su Catanzaro, realizzato dalle professionalità e dagli esperti presenti nella nostra Accademia, costituisce un esempio di valore e la testimonianza fattiva di un impegno di conoscenza artistico e culturale rivolto in direzione della città. Va dunque reso merito in egual misura ai docenti e agli studenti impegnati a dare forza e contenuti alla realizzazione di questo progetto che restituisce alla conoscenza aspetti inediti del patrimonio culturale, antropologico, artistico e architettonico di una città stratificata nella storia e ricca di bellezze e di inedite presenze culturali. Non è inutile ricordare ancora che la conoscenza e la valorizzazione dei luoghi e delle città sostengono inoltre un processo di riqualificazione degli studi e della ricerca, l’innovazione dei linguaggi della didattica e del fare l’arte nei suoi diversi comparti e discipline, in linea con lo spirito di riforma e di rinascita che anima questa fase di rilancio istituzionale del ruolo delle Accademie e della formazione artistica nel nostro paese dopo la riforma di cui attendiamo il compimento. L’ampliamento e l’interdisciplinarietà degli spazi di ricerca e dei curricola della formazione, con la riformulazione delle tradizionali ripartizioni “scolastiche”, il rinnovamento dei saperi e delle discipline accademiche, sono infatti condizioni imprescindibile per favorire il completo dispiegamento e la liberazione di enormi potenzialità conoscitive anche sui nostri territori e nelle nostre città. La capitalizzazione delle risorse e dei valori di cultura e di civiltà, oltreché le grandi capacità di produzione e di lavoro che l’intero settore artistico (nel nostro paese e nella nostra regione specialmente) allo scopo di dare valore ai patrimoni locali, attende nuove occasioni e spazi di governo più adeguati. L’attuale momento di interesse artistico per i territori e le città nelle arti visive, nell’architettura e nelle antropologie urbane che già interagiscono spontaneamente con la vita del territorio catanzarese e calabrese, appaiono per noi oggi come la condizione necessaria a favorire la stabilizzazione di un ruolo culturale forte per la nostra Accademia. A Catanzaro proprio per il tramite dell’Accademia si è registrata negli ultimi decenni una reale rinascita delle arti e delle produzioni culturali, che oggi può essere rafforzata e qualificata ulteriormente fondando una stabile e duratura politica di sviluppo per le conoscenze, le arti e la cultura, in grado di stabilizzare in questa città spazi di servizio e funzioni decentrate sul territorio. Occorre sostenere attraverso il contributo ineludibile della nostra Accademia una cultura artistica autocentrata e autoprodotta sul territorio, in modo da confrontarsi e comunicare con gli altri centri di produzione nazionali e internazionali. Bisogna dunque dare forma a servizi e risorse stabili a sostegno di queste politiche di partenariato tra la Città e l’Accademia di Belle Arti. Questa iniziativa che attraverso il volume che qui presentiamo ci vede protagonisti di un progetto di valorizzazione dei beni culturali di Catanzaro, assieme alle istituzioni di governo
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della città, è un esempio da seguire. Come abbiamo già rilevato in altre occasioni, si avverte oggi una nuova esigenza di protagonismo e di operatività, frutto della crescita più matura e consapevole di una nuova leva di artisti, dell’affermarsi di studiosi e professionisti che mirano a dare nuova e moderna identità al fare arte e cultura in Calabria. Processo al quale non è rimasta estranea la presenza e il ruolo sviluppato della nostra Accademia. Per la prima volta infatti oltre alla crescita di una nuova leva di artisti, studiosi e professionisti della cultura, si assiste nella regione anche alla crescita di un pubblico per l’arte, la cultura e lo spettacolo. Si afferma la presenza di un livello intermedio di tecnici e di operatori che contribuisco a vario titolo a formare sul territorio un tessuto diffuso di opportunità, nuove imprese, associazioni di interessi che costituiscono e formano insieme una “rete” della società civile a sostegno dell’arte e della cultura. È un momento di crescita globale che annuncia forse un decollo decisivo e non sporadico che, come appare evidente, non riguarda più soltanto le opportunità di sviluppo per l’arte, ma il rafforzamento dell’intero impianto civile e culturale della regione. Il settore delle attività culturali, la produzione artistica e tutte le pratiche del fare arte in Calabria collegate con i processi “caldi” di innovazione e di ricerca, non possono essere più considerati un elemento accessorio, ma piuttosto il motore di una nuova fase virtuosa dello sviluppo, un elemento-ponte che investe l’identità e il futuro stesso della regione di fronte alle sfide della globalizzazione. La ricerca finalizzata al recupero di esperienze e saperi, di elementi fondativi dell’identità cittadina che provengono dalle stratificazioni culturali di un territorio antico e ricco di storia e di bellezze artistiche, appaiono dunque come elementi indispensabili per partecipare dalle nostre posizioni e col nostro carico di valori e di conoscenze a questo nuovo rinascimento catanzarese. Indispensabile appare ancora una volta stabilire un protocollo di collaborazione paritaria e sinergica che incoraggi e sostenga le politiche pubbliche in una integrazione tra Enti Territoriali e Istituzioni Culturali e attori della formazione come l’Accademia di BB.AA. Solo così e a differenza del passato forze intellettuali e interessanti personalità artistiche maturate a Catanzaro e nei territori locali troveranno qui e non altrove le condizioni necessarie a vivere e lavorare al meglio delle loro capacità. Non va dimenticato che l’arte e la cultura fanno parte di un modo radicato e diffuso di intendere e declinare l’identità regionale. La mappa delle sue differenze e dei suoi legami, le nuove opportunità di conservazione e di rilancio non possono dunque che rendere più efficace un processo di riappropriazione critica e di rifondazione dell’identità culturale di questa città nella prospettiva del suo carattere di antico centro di una regione mediterranea che oggi guarda con interesse al mondo. L’Accademia di BB. AA. di Catanzaro ha contribuito per la sua parte alla redazione di questo catalogo ragionato delle bellezze artistiche e delle emergenze cul-
turali catanzaresi, con l’intelligenza dei suoi studenti e con la professionalità dei suoi docenti. Un’esperienza che rappresenta anche per noi un rinnovamento di prospettive e un’inversione di tendenza culturale rispetto alla marginalità e al provincialismo del passato. L’ingresso delle Accademie riformate tra le competenze del Ministero dell’Università e della Ricerca sancisce anche per noi sul piano politico e degli indirizzi di governo anche questo ruolo e queste capacità. Anche a Catanzaro la nuova collocazione delle accademie deve perciò agevolare e qualificare ulteriormente un rinnovamento strategico del ruolo e degli studi artistici, collocando la nostra Accademia tra gli interlocutori privilegiati per qualsiasi progetto e iniziativa che abbia realmente a cuore le sorti dell’arte e della cultura in questa città capoluogo, nella nostra regione e nei territori locali. Le Accademie chiedono di potersi riformare in modo originale e autopropulsivo, per consentire ai nostri istituti di conservare e incrementare in modo nuovo e creativo le caratteristiche laboratoriali, i percorsi autonomi di sperimentazione di ricerca di cui è ricca l’essenza culturale della nostra offerta formativa. È fondamentale infine prevedere e quantificare uno stanziamento di risorse adeguate per finanziare la concreta attuazione della riforma e l’attività delle singole Istituzioni, in un quadro di sinergie e di progetti autocentranti di sviluppo territoriale che, in partnership con gli enti e le istituzioni locali (regioni, comuni, province e istituzioni decentrate) sia in grado di integrare e non di sostituire le indispensabili risorse dello Stato. Le discipline delle arti, della musica, dello spettacolo, provenendo dalla comune radice delle scienze umane hanno pari dignità con quelle delle scienze e della tecnologia e concorrono insieme a costituire la nuova “Università dei Saperi”. Occorre quindi, come abbiamo provato a fare anche in questo nostro volume dedicato alla città di Catanzaro, avanzare assieme riflessione teorica e creatività, scoprire conoscenze inedite per valorizzare anche nella nostra città la cultura del bello e la sapienza pratica di un “operatività” trasmessa dalla storia alle cose del passato e agli oggetti di oggi, seguendo le tracce che attraversano la poetica e la memoria dei luoghi che incontrano oggi gli oggetti e le realizzazioni del moderno. Questo libro è infine il frutto di una “cultura del progetto”, in modo che l’identità dei luoghi, il sapere e il fare nella vita delle città non vadano più divisi ma riunificati. L’Italia è il paese che possiede il 65% dei cosiddetti giacimenti culturali presenti in tutto il mondo. La Calabria non è da meno e Catanzaro possiede un patrimonio di bellezze e di peculiarità culturali e artistiche ancora inesplorato. Qui abbiamo provato a indicarne una parte per illuminare ciò che ancora resta da fare. Il nostro ruolo professionale e istituzionale anche nel futuro di questa città si propone come risorsa indispensabile per progredire nelle conoscenze e come antidoto contro i gravi ritardi di gestione e di prospettiva culturale che hanno finora limitato il nostro ruolo e le nostre funzioni.
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LA CITTÀ COME BENE CULTURALE
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Andrea La Porta
Un volume sui beni culturali della città è, anche – così mi pare –, un contributo alla riappropriazione della città, degli spazi, del “pubblico” da parte degli urbani, cioè di tutti. Dove la particella iniziale ri presuppone un ritorno a una condizione precedente, di “proprietà” della città da parte dei suoi abitanti. E poiché sempre più prevale il già costruito, il già occupato, il già insediato, il motivo della riappropriazione si accompagna inevitabilmente a quello altrettanto urgente e assai delicato del recupero: non tanto e non solo degli spazi pubblici, di intere aree urbane degradate, ma anche di manufatti o edifici. Ecco perché i profili disciplinari coinvolti in un’impresa del genere sono molteplici: dall’arredo urbano all’arredo e decorazione di interni, dal design all’architettura vera e propria, dalla storia dell’arte all’urbanistica, dall’antropologia alla semiotica. Naturalmente, lo scambio tra le varie discipline, ma anche il loro sovrapporsi o il trascorrere l’una nell’altra sono importanti e necessari, ma solo fino a quando non fanno sì che un problema non venga trascurato o rimanga insoluto. Credo che la prima questione da affrontare, nell’ottica in cui ho voluto collocare queste note, sia la seguente: che cos’è una città?, che cos’è la città? La città è un luogo comune. (Locuzione volutamente ambigua, che contiene sia la cosa che l’immagine della cosa). È il luogo – ma anche il tempo, come vedremo – della convivenza, per la sopravvivenza. La città, diceva Marsilio Ficino, non è fatta di pietre, è fatta di uomini. È la dimensione dell’esistenza. Viverci significa progettare la propria esistenza, ma anche conservarne la memoria. In un certo senso progettare la città significa progettare il passato perché questo non risulti mai, nel presente, opera di pazzi. È questa dialettica, ben più complessa di quanto possa sembrare, di passato, presente e futuro, che cittadini, amministratori, uomini politici, urbanisti, architetti, e artisti, devono sapere intessere. Perché la città, nel senso più lato del termine, può considerarsi un bene (culturale) di consumo: anzi addirittura un immenso, globale sistema di informazione inteso a determinare il massimo consumo di informazioni. L’origine della città è l’organizzazione della convivenza. Ora, alla base di tale organizzazione vi
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è necessariamente lo scambio e la comunicazione. La città è dunque un sistema complesso di comunicazione: comunicazione nel senso di dislocazione e di relazione, ma anche nel senso di trasmissione di determinati contenuti urbani. “È proprio del monumento – osserva lo storico dell’arte e dell’architettura G. C. Argan – comunicare un contenuto o un significato di valore, per esempio l’autorità dello Stato o della legge, l’importanza della memoria di un fatto o di una personalità della storia; il senso mistico o ascetico di una chiesa o la forza della fede religiosa, ecc. È così che anche l’architettura privata diventa comunicazione di valori reali o attribuiti”. Immagini forme e funzioni, nella città si contestualizzano e diventano il contenuto dello scambio comunicativo. Da questo punto di vista, la città è uno spazio totalizzante. Più che luogo è dunque tempo: scansione ripetitiva di ritmi e bioritmi; elisione e collisione di linguaggi; sovrapposizione di significati. La città è il trionfo incondizionato della cultura, ovvero dell’usabilità, riproducibilità, riciclabilità di tutte le cose; è la serie delle potrebbilità. Allora, considerare l’estetica della città non è evasivo, perché l’estetica diviene la condizione attiva della comunicazione reciproca, il terreno in cui esperire, soggettivamente e collettivamente, le risultanti esistenziali di determinate strutture formali. Sono i prodotti artistici che qualificano la città in quanto tale: esisterebbe Corinto, quale noi la conosciamo, senza la produzione vascolare che ne diffonde il nome in tutto il Mediterraneo? O, nel Medioevo, si riconoscerebbe la città senza quegli straordinari segni urbani che sono le cattedrali e, più tardi, senza il monumento che, della città e della sua storicità, è la più compiuta autorappresentazione? E arrivando all’epoca moderna, l’epoca inaugurata dalla rivoluzione industriale, non si può forse dire che la città che nasce dall’industrializzazione consegnerà agli artisti lo scenario quasi naturale dell’arte nuova?, che futurismo, cubismo, espressionismo ruberanno alla città tono e colore, confusione e movimento, luci e ombre?, che niente – come ha scritto Argan – meglio dei dipinti di Pollock e di Tobey e della prosa di Joyce “ha saputo cogliere l’immagine dello spazio urbano reale, rilevare la mappa dello spazio-città e registrare il ritmo del tempo urbano, che ciascuno di noi si porta dentro e che costituiscono il sedimento inconscio delle nostre nozioni di spazio e di tempo, almeno in quanto ci servono a quella esistenza-nella-città, che rappresenta indubbiamente la maggior parte della nostra esistenza”? Arte e città: il rapporto è strettissimo, a volte persino inestricabile. C’è un altro esempio, tra i molti che potrebbero farsi, che vorrei portare a testimonianza di questa inestricabilità. Negli anni venti e per un decennio nella Russia sovietica per la prima volta le avanguardie artistiche videro la possibilità, tanto ambita, di materializzare le loro utopie. La confluenza tra lo sperimentalismo figurativo e quello architettonico del Movi-
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mento moderno si poteva adesso compiere nella “costruzione del socialismo in un solo paese”, dopo che ogni prospettiva internazionalista si era vanificata nel resto d’Europa. Dall’astrazione suprematista di El Lissitskij alla costruzione produttivista di Vladimir Tatlin, dal razionalismo estetizzante di Nikolai A. Ladovsky o plastico di Konstantin Mel’nikov al rigore funzionalista di Moisej Ginzburg, vide la luce un patrimonio architettonico che appartiene alla storia dell’architettura europea come esempio di dialogo e, talvolta, di fusione tra le istanze della geopolitica, della sperimentazione artistica, e delle esigenze di un impegnativo programma di interventi edilizi finalizzati a trasformare l’economia del Paese da agraria in industriale. Si tratta di architetture che non vogliono sembrare né normali né anonime, ma si sforzano tutte di parlare. Nella versione di Tatlin, di Malevic e di El Lissitskij, ma anche di Mel’nikov, dei Vesnin e di Golosov, questo avviene nel segno delle avanguardie figurative, dal futurismo al dadaismo, anche di quel neoplasticismo De Stijl che al contrario del realismo comunicativo ricerca l’astrazione, fino a smaterializzare i volumi in fasce di colore puro. Negli architetti che Stalin finirà per preferire e utilizzare prevalentemente prevale una geometria da architettura parlante che parte da lontano e che non rinuncia all’uso espressivo della decorazione. Tutti questi esempi dicono che esiste un problema del valore estetico della città. Tale problema è il problema della città come spazio visivo, anche se una città non è soltanto un oggetto da valutare esteticamente. In altri termini, non sto dicendo che una città è un’opera d’arte o un insieme di opere d’arte. Ma stabilire l’identità di arte e città è importante per stabilire la legittimità di una metodologia critica: la città letta come opera d’arte totale, e l’arte posta come “attività tipicamente urbana e non solo inerente, ma costitutiva della città”. Gli architetti traggono spesso ispirazione dall’arte contemporanea, non solo dalla sua presenza tattile, fisica e dal trattamento fantasioso dei materiali, ma anche dall’investigazione analitica che opera sulla società. Arte e architettura traggono vantaggio reciproco da questo dialogo. L’architettura più innovativa propone soluzioni che incorporano strategie artistiche; mentre il contenuto di molta arte si può spesso mettere in relazione a dati architettonici. D’altra parte, la necessità di questa trasformazione delle arti visive in urbanistica, in visualizzazione dello spazio urbano, è stata teorizzata partendo dal presupposto che anche il lavoro dell’artista è un servizio sociale. L’integrazione delle arti visive nell’impresa urbanistica si chiama disegno industriale, e vi sono stati alcuni grandi artisti (citerò soltanto Kandinsky, Klee, Mondrian, Albers, Moholy-Nagy) che l’hanno accettata in linea di principio e tentato di renderla operante, tra il 1920 e il 1930, concretando le loro poetiche in una dialettica – quella del Bauhaus – rima-
sta unica e insuperata nella storia della cultura moderna. Ciò che si richiede è un ripensamento, da parte di tutti, del concetto di urbanità: l’urbanità non è solo appannaggio dell’architettura o dell’urbanistica, consistendo piuttosto in una fruizione adeguata delle architetture, qualunque aspetto esse abbiano. G. C. Argan ha sottolineato con forza l’analogia indubbia, addirittura sorprendente, che si può riscontrare tra il fenomeno della formazione, dell’aggregazione, della strutturazione dello spazio urbano e quello della formazione, aggregazione e strutturazione del linguaggio o, più precisamente, delle diverse lingue. Analogia a cui ovviamente corrisponde quella tra il linguista (nel senso strutturalistico del padre della linguistica moderna: il ginevrino Ferdinand de Saussure) e l’urbanista. La configurazione urbana non sarebbe che l’equivalente visivo della lingua. “Come nella lingua – osserva Argan –, anche nella configurazione e nell’evoluzione della configurazione urbana, la dinamica del sistema si fonda sulla relazione di segno significante e di cosa significata, ma con una possibilità di movimento che può condurre a un mutamento profondo sia dell’uno, sia dell’altra”. Saussure ha insistito, nel suo Corso di linguistica generale, sulla analogia metodologica ed epistemologica tra linguistica ed architettura ed urbanistica. “Da questo duplice punto di vista – egli scrive –, una unità linguistica è comparabile a una parte determinata di un edificio, ad esempio una colonna; questa si trova, da un canto in un certo rapporto con l’architrave che
sorregge; tale organizzazione delle due unità egualmente presenti nello spazio fa pensare al rapporto sintagmatico; d’altra parte, se questa colonna è d’ordine dorico, essa evoca il confronto mentale con altri ordini (ionico, corinzio, ecc.), che sono elementi non presenti nello spazio: il rapporto è associativo”. L’urbanità di cui stiamo parlando, in questa prospettiva storicocritica, diviene allora la funzione urbana, che come tale “può facilmente paragonarsi al discorso, con la sua concatenazione lineare; quello che chiamiamo lo spazio visivo, il sentimento spaziale della città, è fatto di rapporti associativi e costituisce quel ‘tesoro interiore’ che è il pensiero della città, e che ci permette di chiamarci suoi cittadini, allo stesso modo che il ‘tesoro interiore della lingua’ e di una determinata lingua ci permette di chiamarci uomini e uomini di quel determinato paese” (Argan). L’urbanità di cui stiamo parlando non regna, dunque, nelle strade, nelle piazze e nei parchi, se non vive nelle menti delle persone che vi abitano. Ed è proprio alla ridefinizione del concetto di urbanità che l’arte, gli artisti, le opere dell’arte, sono sempre stati chiamati a dare un contributo. Se infatti l’urbano organizzato è la condizione per la sopravvivenza collettiva e individuale, è la fruizione estetica, il linguaggio dell’immagine, il connettivo della sopravvivenza. Ma l’estetica in cui siamo immersi è Fare: ci chiama alla partecipazione, coinvolge, rende complici. Allora è qui, nell’invenzione quotidiana a cui ognuno è costretto, il luogo della reinvenzione estetica.
In apertura: opera di Mimmo Rotella (part.) Palazzo delle Poste Catanzaro. Catanzaro di notte.
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Il bene artistico-culturale come bene semioforo Il termine “bene culturale” venne utilizzato per la prima volta nell’art. 1 della Convenzione dell’Aja del 1954; in essa si parlava di “protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato”. Fu poi la volta fra il 1962 e il 1964 dell’UNESCO sempre a livello internazionale e della Commissione Franceschini, istituita nell’aprile del 1964, in campo nazionale. Tale commissione detta Franceschini dal nome del suo presidente, ma in realtà: “commissione d’indagine per la tutela e valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio”, introdusse il concetto di bene culturale in modo da unificare i preesistenti termini di “cose” d’interesse storico, artistico, archeologico e di bellezze naturali. Sin dai primi lavori delle due commissioni si rilevò una categoria di beni culturali molto ampia, individuabili non solo in base a criteri estetici, ma soprattutto per la loro funzione culturale-storica e di interesse per la collettività. Secondo la dottrina si considerano beni culturali non solo i beni immobili ma qualunque parte del territorio nazionale che sia “testimonianza di cultura, di tradizioni, di costumi”. I beni artistico-culturali hanno dunque connotati semiologici, simbolici e relazionali. Sono beni semiofori. Il concetto di bene semioforo (portatore di segno) è un concetto che Panofsky ha sviluppato nell’ambito della filosofia dei beni simbolici. Il suo punto di partenza è una tassonomia che divide i beni in due classi: a) gli oggetti pratici, ossia quei beni che non richiedono di essere esperiti esteticamente; b) le opere d’arte, che esigono di essere esperite esteticamente. “Ogni oggetto – puntualizza Panofsky –, sia esso naturale o opera dell’uomo, può essere esperito esteticamente. E questo lo si fa quando, per esprimerci nel modo più piano possibile, lo si guarda, o lo si ascolta, senza riferirlo, intellettualmente o passionalmente, a qualcosa d’altro fuori di esso. Se uno guarda un albero dal punto di vista di un carpentiere, lo associerà ai vari usi che potrà fare del legno; se lo guarda da ornitologo lo associerà agli uccelli che potrebbero farvi il nido. Chi alle corse dei cavalli segue il cavallo su cui ha puntato, associa la corsa del cavallo al desiderio che vinca. Solo chi si abbandona semplicemente e interamente all’oggetto della sua percezione, può dire di esperirlo esteticamente” (Panofsky, 1940, pp. 14-15). Tanto gli oggetti pratici quanto le opere d’arte, sostiene Panofsky, possono essere: 1. veicoli di comunicazione; 2. apparecchi funzionali. Ad esempio, un giornale è un oggetto pratico veicolo di comunicazione; un quadro è un bene d’arte che comunica un messaggio; una caffettiera è un oggetto pratico funzionale; una cattedrale è un’opera d’arte che funziona come un apparecchio utile. Ciò che in definitiva distinguerebbe gli oggetti pratici dalle opere d’arte è per Panofsky l’intentio. Nel caso degli oggetti
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pratici l’intentio “è chiaramente fissata sull’idea del lavoro, più precisamente sul concetto da trasmettere o sulla funzione da assolvere”. Nel caso delle opere d’arte “l’interesse per l’idea trova un contrappeso nell’interesse per la forma, quando non è del tutto sopraffatto da questo” (Panofsky, p. 15). Siccome ogni oggetto pratico e ogni opera d’arte possiedono una forma, è impossibile definire scientificamente in qual misura e quando l’elemento formale sia prevalente: “Dove cessi la sfera degli oggetti pratici e cominci quella dell’arte dipende dall’intentio dei creatori. E l’intentio non può essere determinata con assolutezza” (p. 16). Il ragionamento di Panofsky rimanda, quindi, indirettamente a un’ulteriore indagine per approfondire il contesto culturale in cui si rivela l’intentio. I significati e le intenzioni si materializzano e variano nel tempo e nello spazio, e più si approfondisce il contesto culturale più ci si avvicina all’intentio del creatore. “Una cosa – dice Panofsky – comunque è certa: quanto più il rapporto tra l’importanza assegnata all’idea e quella assegnata alla forma è vicino all’equilibrio, tanto maggiore è l’eloquenza con cui l’opera rivela quello che si chiama il suo contenuto. Il contenuto, in quanto opposto al soggetto, può essere definito, usando le parole di Peirce, come ciò che l’opera lascia trasparire, ma non ostenta. È cioè l’atteggiamento di fondo di un popolo, di un periodo, di una classe, una convinzione religiosa o filosofica: tutto questo inconsapevolmente qualificato da una personalità e condensato in un’opera. È naturale che questa involontaria rivelazione tanto meno risulterà esplicita quanto più uno dei due elementi, l’idea o la forma, verrà volontariamente accentuato o soppresso. Una macchina per filare forse è la più eloquente manifestazione di un’idea funzionale e un quadro astratto è forse la più esplicita manifestazione della pura forma, ma entrambi hanno il minimo di contenuto” (p. 17). L’opera d’arte è dunque un bene semioforo, portatore, “grazie alla sua forma materializzata, di un segno estetico riconosciuto in uno specifico cosmo o contesto culturale”. Da ciò deriva la sua doppia natura: essere al tempo stesso segno e oggetto, simbolo e merce. In quanto simbolo (termine preferito qui a segno in quanto, come diceva Cassirer, gli animali possono reagire a segni e segnali, ma solo gli uomini riconoscono i simboli), l’opera d’arte è un significante e, come ha dimostrato la linguistica, ogni significante appartiene ad un sistema, manifestandosi attraverso la distinzione e l’opposizione dei segni. L’arte, i beni artistici, quelli che conosciamo e riconosciamo come beni artistico-culturali, in quanto linguaggio costituiscono un sistema di comunicazione sociale, nel senso che l’apprezzamento del significato dipende dal sistema sociale di rappresentazione. La comunicazione artistica “passa attraverso codici, relazioni stabili significante/significato, che si fondano su basi comuni, su convenzioni culturali generali e consensuali”.
Palazzo dell’ex Liceo Galluppi e il Corso Mazzini.
Alla luce di quanto detto assume valore ancora più forte l’invito che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, parlando da uno dei siti-simbolo della lotta al degrado urbanistico-ambientale, il borgo medievale di Civita di Bagnoregio (Viterbo), in occasione del ventennale dell’Associazione Civita – istituzione in prima linea nella salvaguardia delle opere d’arte e nella promozione culturale attraverso la gestione di decine di musei e la cura di esposizioni artistiche nelle più importanti città italiane –, ha rivolto per “salvaguardare e rilanciare il patrimonio artistico italiano, il cui potere di seduzione, unico al mondo, rappresenta un valore economico e culturale di portata inestimabile”. Parole che poggiano sulla notissima inchiesta dell’UNESCO, secondo cui in Italia si trova collocato oltre il 50% del patrimonio monumentale del mondo e dove quindi l’incidenza “pratica” del fenomeno è divenuta basilare in ogni settore, con tutte le implicazioni, positive o vincolanti che porta con sé. Ma il punto cruciale è che non si dimentichi che la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio artistico, o di quelli che oggi
sono conosciuti e riconosciuti come beni culturali, poggiano sul riconoscimento della capacità relazionale insita nei beni, intesi panofskyanamente come beni portatori di valore simbolico. E qui, allora, in chiusura possiamo tornare a quanto detto all’inizio a proposito dell’idea di città come bene culturale. Perché l’appello del presidente della Repubblica non rimanga inascoltato, bisogna che si capisca che il vero compito dello specialista, dell’amministratore dei valori culturali della città, “è di educatore più che di tecnico; il suo vero fine non è di creare una città ma di formare un insieme di persone che abbiano il sentimento della città. E a questo sentimento confuso, frammentato in migliaia e milioni di individui, dare una forma in cui ciascuno possa riconoscere se stesso e la propria esperienza della vita associata” (Argan). Il volume-guida sui beni artistico-culturali della città, che l’Amministrazione comunale ha voluto realizzare, affidandone la cura alla locale Accademia di Belle Arti, credo sia ispirato a questa consapevolezza e a questa volontà.
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CATANZARO uno sguardo dal ponte
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Mauro F. Minervino
Guardo questa città. Appare sempre così strana. Spunta dalle colline di creta smangiate dal vento come una sfinge tra le sabbie di un deserto. Catanzaro col suo profilo ondoso sembra un magma di città che preme sul collo dai finestrini dell’auto aperti sullo scirocco, nella calura troppo precoce di questo principio d’estate 2007. La guardo, come faccio sempre ogni volta che torno qui. Ormai un pezzo dei quartieri nuovi tracima dal vecchio alveo dei tre colli e dilaga verso il basso, oltre la Fiumarella e l’argine di creta grigia dalle colline di Germaneto. Adesso dalla macchina Catanzaro la intravedi la lontano, aggrappata al costone di marne e sabbie incrostate di strati di trilobiti e conchiglie fossili, resti minerali di una crosta friabile affiorata dal mare, trincea incostante di una terra di confine su cui spuntano le sue ultime propaggini urbane, sfrangiate e spellate dal vento come un caravanserraglio chiuso tra le dune di un deserto. Quando la superstrada si infila nel budello nero del Sansinato perdi di vista il paesaggio finché il tunnel non ti sputa fuori alla luce e in un attimo un muro di case ti viene improvvisamente addosso senza scampo. Il mio è mestiere che si fa in moto, mi porta in giro per il mondo, a incontrare e vedere luoghi e persone diverse. Ma è qui, nella città capitale di quelle che una volta erano le vecchie “Calabrie” degli scrittori del Grand Tour, che faccio quella che Marc Augé chiama “antropologia della prossimità”, l’antropologia di quello che vivo e vedo da vicino. Passano gli anni e Catanzaro mi si fa intorno ogni giorno che sto qui. La guardo, come faccio sempre ogni volta che ritorno per lavorarci. Sono una dozzina d’anni ormai. Le abitudini sono una forza sottovalutata per capire le cose del mondo. Catanzaro sta lì a ricordarmelo. Con le sue espressioni più ineffabili e vistose, i suoi linguaggi mischiati, le sue figure umane paradossali, le sue strade stravolte dal traffico, questa città sta dentro il mondo contemporaneo con un suo certo particolarissimo stile. Insomma nell’intervallo opaco che si scava in mezzo ai viaggi in auto, tra soste vietate e ripensamenti, tra i corsi e un turno e l’altro di lezioni, Catanzaro, si è infilata dentro il mio lavoro. Dovrei dire, dopotutto questo via vai, che si è presa un posto anche un posto non da poco nella mia vita.
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Senza mai risiedervi, tra andate e ritorni settimanali, anche Catanzaro è diventata in questi anni una delle mie città, uno dei miei molti, instabili, domicili. A Catanzaro è facile sentirsi ospite, fare amicizie. La gente ti vuole conoscere, si fa subito giro, ti annusa e ti accoglie, affabile, curiosa e circospetta insieme. Non importa da dove vieni, dopo un poco sei “amicu meu”. Ma allo stesso tempo non ti levi mai di dosso la sensazione dubbiosa che qui resterai pur sempre distante da loro, in uno stato precario, come uno straniero. Dopo un po’ ti molla. Catanzaro è una città resistente, fortemente identitaria. Catanzaro, confine sul crinale friabile e scistoso della Calabria di mezzo, con la penisola italica che qui si assottiglia e si scava alle costole come un velo di terra a mezzo tra i due mari, è una città che ti tiene in sospeso, come di passaggio, in equilibrio sulla soglia, sempre un po’ indecisa sul da farsi. Ho risolto che forse tra qualche anno, quando ne capirò di più e avrò il tempo e il materiale necessario a scriverne, ci farò sopra uno dei miei prossimi libri. Sarà un altro modo per rivisitarla e abitarla. Convinto a starci ancora nell’intimità di un’appartenenza che oramai mi lega a questi luoghi, o viceversa l’occasione per ricapitolarla nelle sue irrisolvibili stravaganze ed aporie per darle così finalmente disdetta. Un modo per dirle definitivamente addio o per restarne stregato, prigioniero per sempre, come si fa dopo un amore lungo e tormentato che si è preso una parte indispensabile di te e resta lì a ingombrarti la vita anche dopo, quando pare che tutto si è già consumato nel tempo. Catanzaro è una di quelle città a cui bisognerebbe fare un ritratto. Difficile però tenerla ferma, costretta in posa. La sua dialettica è instabile e si svolge in altalena tra alto e basso, tra salite e discese di senso. È una città sfuggente, molteplice, contrastante. Si fa già fatica a capirla da lontano, a circondarla con gli occhi da vicino. C’è qualcosa nell’immagine esteriore di Catanzaro che già si presenta dalle sue apparenze, che mi stupisce sempre, che mi disturba e mi diverte, mi incuriosisce e continua a farmi problema. A Catanzaro l’armonia di forme, la bellezza classica, non sembra essere mai stata di casa. Ha qualcosa di sgranato e diffratto; è incongrua come un disegno cubista, una figura spiegazzata di Boccioni o una di quelle afficheces cinematografiche fatue e sognanti sovrapposte alle vecchie pubblicità annonarie strappate via in un gesto di sfregio carico di furiosa rabbia creativa, alla maniera iconoclasta di Mimmo Rotella, il suo artista-simbolo che da qui, per poter diventare Rotella, è fuggito prestissimo. Però non è neanche un posto che, così com’è, definiresti senza aver paura di sbagliarti, senza neanche un dubbio, “brutto”. Catanzaro ha le sue stranezze, questo è certo, e un’irrefutabile eterogenesi è il suo carattere paradossale. Forse il suo carattere distintivo, perdurante. Anche l’arte, come la vita stessa che si fa in questa città, non può che risentire dei commerci simbolici di questa forma complessa. Catanza-
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ro è diventata città nonostante la sua incredibile discontinuità spaziale. Lo spazio qui ancora conta più di tutto. Specie oggi che tutto è amplificato dal confronto col mondo. Lo spazio qui ha le sue pretese, le ha imposte in origine e le mantiene, estese su ogni cosa. Ogni oggetto, persona e gesto che vi abitano ne sono implicati. Quello di Catanzaro è uno spazio speciale, con la sua scarsità, l’alternarsi scultoreo di vuoti e di pieni, di gigantismo e microfisica, di ascese e cadute determinate della sua faticosa e accidentata verticalità. Lo spazio qui spesso si infittisce o precipita, scava tunnel e sottopassi, oppure erige ponti e simulacri di vertigine: qui tutto ciò che è costruito incontra una sua irrisolta e caotica antropologia dei luoghi, una sconnessione che ancora reclama uno sguardo di risarcimento e di riparo. C’è un’ansia di equilibrio, una scossa tellurica che percorre come una corrente spezzata l’aria Catanzaro. Quando sono a Catanzaro non riesco mai a smettere di rivolgerle lo sguardo. Sin dall’arrivo. Dopo le ultime curve della circonvallazione, superato il buio del tunnel che sbuca come ogni mattina con il suo fiume di auto e bus incolonnati fuori dal Sansinato, la città appare di sorpresa, impennata verso l’alto, con intorno le vecchie mura del forte di San Giovanni e il suo centro storico fitto di piccole case che sembrano disperatamente aggrappate a filo di precipizio su di uno sperone roccioso. Catanzaro si presenta in salita, come l’inizio di certe storie d’amore. Sembra la vecchia fotografia di un luogo arcaico simile a un forte medievale, un nido d’aquile o l’acropoli antica sorta a guardia dei due mari. Poi vista più da vicino ti accorgi che la Catanzaro che oggi si affaccia su questo panorama di svincoli e flyng bridges da far invidia a Los Angeles è una città del Sud di adesso, brulicante di vita, avvolta come un ottovolante dal traffico delle ore di punta e orlata da una spessa e screziata cortina di grandi palazzoni nuovi che si superano in altezza e tracimano passando come un’onda di cemento da un vallone all’altro, da un ponte all’altro. Il traffico è impressionante, non c’è mai un parcheggio. Si continua a costruire negli interstizi. Il suo disordine variopinto e compatto a volte ferisce lo sguardo, altre volte sembra una prova concreta dell’esistenza di certi archetipi junghiani, un prototipo di quell’anima dei luoghi di cui ha scritto James Hillman. Deve esserci un antico genius loci trogloditico, una specie di horror vacui unito alla prossemica del respiro e della vicinanza cellulare, che dorme qui sotto e piega l’attaccamento della gente alla scelta dei fondatori e all’impronta dei luoghi delle origini – e anche i catanzaresi di oggi sembra vogliano restarvi abbarbicati, affiatati l’un l’altro a dispetto di tutto. In uscita, da lontano, nuovamente la crosta ininterrotta di case e palazzi cresciuti a catasta in un enorme intrico di vani, cubature e prospettive fuori scala, sembra formare uno di qui vasti ed estesi termitai che si alzano come un muro compatto e isolato su una gobba della savana. Ma qui siamo lontani dalla
linea dell’equatore. È la città dei due mari, l’Italia più stretta, in mezzo alla via istmica tra il Tirreno e lo Ionio, le due rive del mito, la terra di mezzo in cui erano piantati i giardini delle Esperidi, eden antico del profondo occidente. Magna Græcia delle migliori annate, dicono le guide di un turismo nostalgico. Ma anche la Catanzaro del 2000 a suo modo resta tributaria dei miti. Un mito suo, inventato, contemporaneo e post-moderno. Anzi sembra un sogno sconnesso che sorge sul nulla di questa Calabria che tutta intera, proprio come Catanzaro, la sua emblematica città-capitale, resta aggrappata sul vuoto, sul baratro che le si spalanca intorno, attaccata alla frangia di un caos in cui tutto appare irrisolto e simultaneo. Nelle luci della sera il suo profilo sparso di città provinciale costellata dai cubicoli enormi dei quartieri nuovi, si estende a dismisura in un inganno da caleidoscopio. Svettando sul buio dei valloni quasi come una Metropolis da fumetto futuribile disegnata a mano libera sul profondo canyon della Fiumarella, il profondissimo dirupo naturale che un tempo la separava dal mondo, la città sembra moltiplicarsi a soverchio fino al mare, oltre i suoi confini naturali. Secondo me la Catanzaro di adesso ormai non ha più bisogno di nuovi musei e gallerie d’arte contemporanea. Così com’è l’intera città, bella o brutta che sia, è già diventata museo, il tempio di se stessa. A cominciare dal suo simbolo identificativo, il brand sacrilego e cosmopolita della sua Grande Soglia: il Ponte. Oggi questa è la vera scultura concreta di Catanzaro, l’opera formato king size degna dell’enfasi impacchettatrice di un Christo, il monumento al presente in cui Catanzaro si celebra al meglio. Ogni volta che ci passo nel traffico delle ore di punta mi vengono i brividi pensando all’incredibile e inavvertita sottigliezza dell’arcone in cementoarmato del ponte Morandi, (secondo tra quelli a campata unica in tutta Europa), sorta di vertiginosa passerella tibetana tesa da un capo all’altro dei valloni in secca che scivolano verso le rive dello Ionio. Il viadotto sulla Fiumarella, come fosse il suo ponte di Brooklin, disegna il punto più alto e scenografico di questo inconfondibile sky-line catanzarese. Uno scenario strano e indimenticabile che diventa ancora più suggestivo in una giornata limpida d’inverno, quando pare che la tramontana che ramazza e spolvera impetuosamente la città voglia strapparla a forza di vortici e folate dal cocuzzolo di queste cime ventose per portarsela via, dietro le nuvole che corrono veloci nel cielo. Questo costrutto della tecnica, questa visione empia del granponte è già arte en-plen-air, il suggestivo e insolito panorama che si offre oggi al viaggiatore appena giunto in prossimità del moderno capoluogo della Calabria. Catanzaro bifronte, insieme antica e post-moderna, dicevamo. Una città che appare tanto caotica e instabile nel suo nuovo e ancora mutevole volto urbanistico e sociale di affollato e trafficatissimo centro politico e amministrativo regionale, cuore della Calabria odierna, quanto
piuttosto all’occorrenza il suo centro antico sa mutarsi in sussiegosa e riservata enclave, al riparo dei suoi anditi e negli angoli ombrosi tra le strette viuzze del suo intricato nucleo storico. Qui fra le chiese barocche e i palazzi sbrecciati, nella pancia della vecchia Catanzaro medievale, dalle parti del Pianicello fino all’Arcivescovado, tra la Filanda, Case Arse e la Stella, (dove è alloggiata l’Accademia), Catanzaro si rivela invece al viaggiatore più accorto, sobria e compassata nell’andamento lento dei suoi immutabili riti quotidiani. Qui ridiventa provincia meridiana e orientale: i caffè sempre affollati, il sapido cibo di strada, il discutere a crocchi, il dialetto ostentato come lingua scettica e iniziatica, il lento passeggio sul corso; ingentilita dalla sua proverbiale ospitalità, conservatrice e snob, persino ottocentesca nelle sue vecchie abitudini cittadine nobiliari e demodè. Quasi gelosa della sua storica e austera separatezza provinciale ormai perduta. Catanzaro, un tempo nota per la fiorente arte della seta ereditata dai fondatori bizantini e dagli ebrei della diaspora mediterranea, qui conserva uno spazio residuale per i suggestivi palazzi nobiliari dai blasoni in pietra e i portoni scrostati, con gli scaloni e le corti che si aprono sui quieti giardini interni simili a minuscoli halambra dove ancora crescono in abbandono vecchie piante di agrumi. Quasi un dedalo di viuzze e vicoli della memoria sepolto nel tempo e trascurato dall’abitudine. Il resto della città oggi fa i conti a modo suo con l’estroversione dei tempi. È la soglia dei suoi mille passaggi, la città dei ponti, per via degli alti viadotti spazzati dal vento e per gli arditi anelli stradali di circonvallazione che la spingono a tracimare fuori dal segno delle vecchie mura, in una irrefrenabile, disordinata quanto singolare espansione. Il nuovo è tutto cucito e tenuto insieme da anelli di cemento armato che, in assenza di spazio, sono diventati i suoi tendini, le sue braccia, le sue vere uniche piazze. Piazze centrifughe, vertiginose e onfaliche, piazze a rovescio, che si aprono sospese nel vuoto dei piloni e la circondano. Anche quando intersecate come una “fettuccia di Moebius”, queste strade ne aggirano interamente il profilo, escludendo il nocciolo fitto e duro del centro antico, consentendo alle ondate di traffico crescente in entrata e in uscita nel capoluogo regionale un più veloce accesso e deflusso. Ma Catanzaro non ha mezze misure, qui tutto pare da un momento all’altro frenetico o stagnante. Dopo la frenesia del mattino, c’è la gora languente della controra catanzarese. Certi pomeriggi d’estate su Corso Mazzini rovente e attraversato solo da qualche ombra umana, quasi fantasmi che slittano via attaccati ai muri. A Catanzaro sembra che tutto passi senza mai arrestarsi, in una sorta di eterno transito che però non tocca mai il nucleo, il suo cuore segreto e fermo, la sostanza immobile e minerale di questa città senza tempo. Insomma un posto interessante anche per uno come me. Un posto da antropologia del contemporaneo. Anzi una capitale post-moderna del nuovo sud.
In apertura: Ponte Morandi, panorama notturno di Catanzaro.
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Catanzaro ’900 Maria Luisa Corapi Bruno Fabrizi
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L’Art Noveau, cioè quello che noi comunemente denominiamo Liberty, è un momento del gusto che si manifesta sincronicamente in tutta Europa, in un lasso di tempo che va, all’incirca, dal 1890 all’inizio della prima guerra mondiale. Le manifestazioni locali di questo stile hanno, però, in genere uno slittamento di data, che risulta posticipata rispetto a quella ufficiale, a causa di un normale effetto di “provincialismo”, per cui l’adesione a questa tipologia del gusto si verifica, spesso, con tempi ritardati rispetto a quelli considerati ufficiali. È facile trovare nelle nostre città, specie meridionali, opere classificabili come “Liberty” datate 1920 ed anche oltre. Altrettanto si può affermare per quel gusto decorativo-costruttivo denominato “Eclettico”, che si afferma in Europa addirittura nella seconda metà dell’ottocento e che, provincialmente, ha una variabilità di datazione ancora più ampia degli altri stili e, spesso, un esprimersi formale che non lo distingue in maniera evidente dalla locale “Art Noveau”. Fatte queste premesse generali, vediamo con quali modalità esse si realizzano nell’ambito architettonico decorativo della città di Catanzaro. La qualità della posizione politico amministrativa, acquisita dalla città fra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, fece sì che in questo periodo si costruissero numerosi immobili, sia pubblici che privati, di notevole importanza. Essi risultano collocati su tutto il territorio cittadino, ma si presentano in forma più frequente ed organica nella parte nord della città, specialmente per quanto concerne le costruzioni private, che in questa zona trovarono, all’epoca, applicati gli strumenti urbanistici atti all’espansione. Tutte queste costruzioni si caratterizzano con elementi formali tipici del tempo, ma quasi nessuna è ascrivibile a personalità conosciute nel campo dell’architettura o della scultura. Per quanto riguarda le decorazioni, siano esse in stucco, in ferro o in ceramica, è da ritenere che le singole costruzioni siano opera di maestranze locali. Quando ciò non si verifica è perché (in alcuni casi se ne ha testimonianza) è sopravvenuto l’apporto di ditte edilizie operanti in città, spesso provenienti dal nord Italia. In tali casi esse hanno utilizzato album con repertori formali di ornato, molto diffusi in quell’epoca e certamente apprezzati ed adoperati dalle com-
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In apertura: fronte laterale con scale della torre della Palazzina Bisogni, su via F. Crispi (quartiere Milano). Sotto: Ingresso del teatro Masciari, tuttora attivo e con un suo cartellone annuale. Molto interessanti, nella composizione generale della facciata, i due pannelli in bassorilievo in alto in pendant, di bella fattura e di sapore tipicamente liberty.
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mittenze del posto. Gli edifici pubblici come le vecchie Poste, la vecchia sede della Provincia e della Prefettura, il Tribunale, l’Intendenza di Finanza sono costruzioni importanti, che vedono declinate in sè tutte quelle variabili stilistiche considerate più attuali ed appropriate al loro ruolo, tipiche della prima parte del secolo scorso e che, a Catanzaro, grazie ad un lessico architettonico adoperato con buona capacità compositiva, hanno lasciato nel panorama generale del centro storico una decisiva impronta caratterizzando e mettendo in luce l’importanza terziaria ed amministrativa della città. L’impegno profuso dall’Amministrazione Centrale dello Stato in quel lasso di tempo che va dai primi del 900 alla metà degli anni trenta, per fare della città il centro direzionale della regione, è ben evidenziato da tutte quelle costruzioni, sede di uffici ed istituzioni, corredate sempre da facciate importanti, con intenti anche decorativi e monumentali, molte delle quali si sono ancora conservate in tutto il proprio valore, grazie a buone opere di manutenzione effettuate fino ai giorni nostri; mentre alcune di esse, purtroppo, sono state malamente ristrutturate o meglio distrutte nel corso degli anni 60. Una per tutte l’edificio delle opere pubbliche di via Crispi nel rione Milano, ove solo una facciata laterale presenta le tracce della impegnata composizione originaria della intera costruzione, mentre tutto il resto è stato malamente ristrutturato e modernizzato senza alcuna valutazione circa ciò che si andava distruggendo, né alcuna capacità critica nei confronti di ciò che di nuovo si andava edificando. Da segnalare, fatto unico nel mezzogiorno, ma anche raro in tutta la penisola, che la città già all’inizio del 900 era dotata di servizio pubblico con funivia e tram elettrico. Tali mezzi collegavano rapidamente e facilmente tutta la città, il servizio era garantito anche da una stazione realizzata nel primo decennio del 900 ed entrata in funzione nel 1909. L’edificio di questa stazione, anche se di modeste dimensioni presenta una interessantissima decorazione di un particolare liberty, evocante le caratteristiche tecniche della destinazione d’uso dell’edificio, che è un unicum in tutto il contesto urbano e la cui decorazione non è stata riutilizzata neanche come eco in nessun altro edificio cittadino, molto probabilmente la sua progettazione è stata effettuata da tecnici della Società STAC di Torino, che aveva realizzato tutti gli impianti relativi al trasporto. L’edilizia privata, o di utilizzazione privata dei primi decenni del 900, è ben rappresentata sia da edifici a più piani, con vari appartamenti, che da ville monofamiliari, in entrambe i casi è notevole la ricercatezza formale soprattutto nelle caratterizzazioni volumetriche e nelle decorazioni esterne, che indicano la significativa presenza di fruitori appartenenti alla classe borghese emergente e colta, che riferendosi a modelli innovativi, apprezzavano particolarmente le linee e le decorazioni liberty, di pertinenza e diffusione europea.
Particolari della facciata del palazzo in piazza le Pera. Non privi di originalità, essi si collegano alla tradizione, diffusissima nel meridione, delle maschere apotropaiche. Tradizione peraltro molto presente in tutta la Calabria
La raffinata decorazione floreale d’angolo di Casa Mazzocca, su via Jannoni: un bell’esempio di villa monofamiliare dei primi del novecento, posta in pieno centro storico della città.
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Particolare dell’iingresso principale del Palazzo Di Tocco, posto tra la fine di via XX settembre e il Corso G. Mazzini. Visione d’insieme di Palazzo Di Tocco.
La Palazzina Scandale su corso Mazzini presenta una decorazione liberty, introdotta in Catanzaro probabilmente da operatori torinesi, tale decorazione ha chiare assonanze con quella della stazioncina dei tram, realizzata in città nel primo decennio del 900. Particolare della decorazione d’angolo della Palazzina Scandale, tra corso Mazzini e piazza Grimaldi.
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Palazzo della Prefettura nel centro cittadino, vista di insieme. La parte centrale del Palazzo della Prefettura. Si notano chiari intenti monumentali, in stile umbertino, secondo i canoni più caratteristici della fine dell’800.
Particolare della facciata di fine 800 di Palazzo Vercillo, su corso Mazzini, con ingresso sulla strada laterale. La parte centrale con l’ingresso di Palazzo Fazzari, ascrivibile alla fine dell’800. L’ingresso è in stile con la facciata, completamente in pietra, bugnata al primo livello e con ornato severo, di scuola tipicamente fiorentina.
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La facciata, in stile liberty, elaborata e realizzata in diversi materiali, del bar Caffè Serrao; storico luogo di incontro di artisti ed intellettuali. Particolare della decorazione liberty in marmi, metallo e vetro del bar caffè Serrao.
Il palazzo dell’Istituto Tecnico Industriale Statale E. Scalfaro a fuoriporte, oggi piazza Matteotti, realizzato nella prima metà del novecento con una importante facciata eclettico trionfale. Particolare della parte centrale della facciata dell’Istituto Tecnico Industriale Statale E. Scalfaro, con i bassorilievi rappresentante le professioni tecniche.
A sinistra: Palazzo dell’Intendenza di Finanza. Questo immobile si presenta con un insieme organico e fortemente caratterizzato dalla presenza di aperture omogenee, arcuate e con alleggerimento verso l’alto degli ordini.
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La stazione della tramvia in piazza G. Matteotti (ex Stocco) nei primi decenni del 900. Particolare della facciata laterale della stazioncina del tram. La stazioncina del tram di Piazza Matteotti presenta questa interessantissima facciata liberty, realizzata ai primi del 900. Nonostante le cattive condizioni e le trasformazioni, con l’occlusione dei vuoti, originariamente molto ampi, la raffinatezza della decorazione, che determina rientranze e volumi in realtĂ inesistenti e la sua composizione, rivela la mano di un progettista esperto ed attento, probabilmente di area piemontese, anche se non se conosce il nome. Rilievo grafico della facciata della stazione. Il Palazzo di Giustizia, realizzato a “fuoriporteâ€? nei primi anni del 900, in stile umbertino presenta una bella composizione su tutte le facciate ed interessanti particolari decorativi. Particolare del basamento del Palazzo di Giustizia, la finestra tra basamento e primo piano.
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Palazzo Mauro tra via Milano e via Vercillo meglio conosciuta come “a scinduta e’ Mauro”. Foto d’epoca di Palazzo Mauro prima della sopraelevazione. Particolare di Palazzo Mauro: la decorazione complessa delle finestre e del marcapiano floreale al primo piano.
Particolare di Palazzo Mauro: i vuoti della facciata.
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Particolare degli amorini della palazzina di via Vercillo. La palazzina di via Vercillo, con la facciata “decò” particolarmente ornata con elementi architettonici molto corposi, piastrelle di ceramica, e altorilievi plastici.
Casa Salerno su via Milano, particolare d’angolo. Anche se realizzata nei primissimi anni del secondo dopoguerra, questa casa presenta ancora elementi “decò”.
Particolare della Casa ad appartamenti su via Milano, con chiari elementi liberty nella decorazione della facciata.
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Villino delle rose ex Martelli, particolare della facciata, cornicione con motivi floreali liberty. Villino delle rose ex Martelli, particolare della facciata con elementi architettonici ed il cornicione con motivi floreali liberty.
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Palazzina Bisogni su via Crispi (quartiere Milano), realizzata nei primi anni 30 in stile eclettico medievale. Palazzina Bisogni su via Crispi (quartiere Milano) particolare della torretta e dei camminamenti.
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La Palazzina Lazzaro su via F. Crispi, con elementi eclettici sulla semplice ma equilibrata facciata.
Particolare di villa Amena nel quartire omonimo realizzata alla fine del secondo decennio del 900, è tra le poche costruzioni della prima metà del secolo scorso di cui si conosce l’autore l’Arch. Luigi Corapi 1849-1941) di cui in città e provincia si conoscono altre realizzazioni.
La palazzina degli amorini su via F. Crispi, caratterizzata con elementi plastici tridimensionali in sommità e originalissimi bassorilievi su tutte le aperture.
Villa Amena particolare della decorazione Liberty della soluzione d’angolo.
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Sopra: Villa Varcasia, in via Fratelli Plutino, prospetto: disegno del progetto originario del 1915 (Arch. Luigi Corapi 1849-1941). A destra: Villa Varcasia particolare decorativo: disegno del progetto originario del 1915 (Arch. Luigi Corapi 1849-1941).
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Catanzaro... fuori dalla storia
Anna Russo
È difficile leggere una città, valutarne i contorni, gli incastri, le saldature. La tendenza moderna è per la “perdita del centro”, il rifiuto per le gerarchie, l’interesse per l’imprevedibile, il mostruoso, il difforme, l’eccentrico, l’abbandono della semplicità, noiosa e paralizzante. “Aveva un occhio poco adatto alla vita di città; i cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulla spiaggia del deserto. Invece una foglia che ingiallisce su un ramo, una piuma che si impiglia ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso di un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che non notasse e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti delle stagioni, i desideri del suo animo le miserie della sua esistenza”. Italo Calvino La maggior parte della società è insensibile ai segni della città, la vede passivamente, la legge, ma non la fruisce, non ne fa esperienza, non ne è una componente dinamica, non esercita una vera appropriazione attraverso i valori estetici, visivi, tattili, olfattivi, motori del paesaggio. La critica paesaggistica ed urbanistica continua a non interessarsi alla lettura di paesaggi urbani con i loro aggregati anonimi e sparsi e “fuori dalla storia”, differenziare, specificare e storicizzare questi fenomeni significa impossessarsene, quindi non solo “facciatismo” ma anche abitato anonimo, occluso, aritmico, letto criticamente e amato ci darà la speranza di penetrare il significato estetico della nostra scena urbana più silenziosa. “Non possiamo pensare senza disgusto e compassione che esistono società per la conservazione del paesaggio. Per la conservazione, si noti bene, di quello che le stampe e i quadri antichi ci hanno lasciato da certi luoghi [..] Come non fosse infinitamente sublime lo sconvolgere che fa l’uomo sotto la spinta della ricerca e della creazione, l’aprire strade, colmare laghi, sommergere isole, lanciare dighe, livellare, squarciare, forare, sfondare, innalzare, per questa divina inquietudine che ci spara nel futuro”. Umberto Boccioni
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D’altra parte questo sconvolgimento è stato prodotto anche dall’emarginazione e dalla subalternità di certe classi sociali che realizzando un dialetto architettonico hanno contribuito alla trasformazione del tessuto urbano. E.Guidoni definisce l’architettura popolare come l’insieme di manifestazioni inerenti alla costruzione, alla trasformazione ed all’uso dello spazio abitato, all’interpretazione complessiva del mondo fisico locale e del paesaggio, allo sfruttamento del territorio e della sua riappropriazione rituale; e pure in questi contesti si individuano emergenze poetiche come accade in letteratura e in musica, si pensi a certe povertà crudeli, a finiture di casette, miracolo di gentilezza e di misura del fare, di innata sapienza del colore. Ogni cosa ha valore perché addossata ad un’altra in una unità imprescindibile, fatta dalla discontinuità di un fare autonomo. Gli urbanisti si sono occupati di riconoscere nella struttura dei centri minori la natura e la qualità delle influenze dovute a determinati avvenimenti storici sforzandosi di localizzare i punti nevralgici in cui il potere religioso e quello civile hanno impresso il loro segno, determinando i connotati generali del tessuto urbano. La discontinuità evidente tra i pochi edifici civili e la folla degli altri che stanno quasi per loro conto, con modi strutturali propri, mette in evidenza un mondo culturale non estraneo allo spirito della comunità. “Era una città su un poggio; ad affacciarsi dai suoi spalti si scorgevano valloni dirupati su cui folte piante di fichi d’India accentuavano il colore dei prati in discesa. Andare per quei valloni era la meta delle nostre fughe da scuola, e ci accorgevamo che il mondo fuori era tutto intento ad altro; le piante a fiorire, gli animali a pascolare, i contadini a badare ai campi. Nicola aveva la sua famiglia in quella città, ed era ricco, allora. Io lo invitavo a mangiare le cose che mi mandava mio padre, e con un coltellino tagliavo il buon pane in piccoli dadi. Anche a Nicola piacevano le cose semplici. Ci avviammo per uscire. Io cercavo qualcosa da potergli dire. «E i nostri luoghi, gli dissi, non sei più stato nei nostri luoghi?» Egli fece cenno di no, con la testa”. Corrado Alvaro E. Benincasa afferma che “…nel Mezzogiorno un’antica arte di abitare conferisce all’architettura specifici caratteri, gli spazi interni guardano sull’atrio, sul cortile, sul patio. Vi è un riflesso della vita all’aperto che non va confusa con la spasmodica smania nordica del “plein air”; in Italia, come nei paesi mediterranei l’opzione è per il semiaperto, riparato dal sole d’estate e dal vento d’inverno”. Più che la poesia del focolare, domina quella della terrazza, del portico, della corte che conserva “la pace e il raccoglimento del chiostro, eliminandone la clausura”, ed offre il punto d’incontro, di saldatura o discordia, tra edifico e paesaggio. I vicoli, aree impersonali, dove la gente installava sedie e i bambini giocavano. Nasce qui “il vicinato…”.
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Il coagulo sociale è dato dalla piazzetta, dalla “corte” dove si svolge il coro sinfonico e bandistico del complesso di storie che si intrecciano. “Catanzaro è una realtà in cui non contano le ‘belle’ costruzioni o i monumenti, non contano le risonanze e le attenzioni al singolo manufatto pregnante d’arte bensì è l’insieme ambientale, come complesso di edifici, di spazi e di visuali, nonché l’ambiente umano come si è venuto formando nel tempo che merita attenzione al pari di esempi più fortunati.” Emilia Zinzi Lo sviluppo di un certo interesse per i centri minori e per quegli aggregati sparsi sul territorio cresce in concomitanza all’attenzione per la difesa ambientale e le battaglie ecologiche, disgregando sempre di più la pressione mentale e psicologica delle metropoli in favore della riscoperta dei piccoli centri dove è favorito il concetto del “vicinato”. Nei grandi monumenti vince il “disegno” con le sue proporzioni, simmetrie, sequenze ripetitive che valgono indipendentemente dal fatto di essere realizzate in marmo, laterizi o stucco, nell’architettura minore il disegno a volte conta poco, non è mai a priori, domina la capacità di riflettere o respingere la luce, le screpolature, le scolature, gli effetti della pioggia e del vento, i segni dell’invecchiamento. La deformazione giusta, quella disarmonia visiva nasconde una comunione profonda con l’intorno naturale e si traduce in un senso di cordialità e di modestia. In questa ottica gli spazi esterni, strade, piazze, visuali assumono la precedenza nella lettura urbanistica di un continuum tra oggetto ed ambiente. Gli spazi non sono tanto quelli interni alle case quanto quelli racchiusi, ma scoperti, che testimoniano e narrano il rapporto tra individuo e collettività, che le arterie delle grandi città smorzano ed appiattiscono, indicano le singole famiglie, il loro raggrupparsi in “vicinati”, il successivo dipanarsi da questi, il loro sfociare all’esterno dell’abitato o il risucchio in altri percorsi. B. Zevi afferma che “…in una chiesa, in un ospedale, in un palazzo comunale si cammina a lungo all’interno. La ‘promenade architecturale’ in un aggregato è invece sempre all’aperto con rapide diversioni, in cavità protette da una copertura. Questo percorso mette in risalto scarti, squilibri, disarmonie ibride fusioni che mantengono la poetica del non-finito, il kitch, il rumore, la casualità”. Qui nasce l’interesse per i luoghi nascosti della città alla ricerca di una poesia architettonica, di un dialetto fatto di muri che usurpano la loro storia. Portali, inferriate, logge, muri dissonanti.
Il dialetto architettonico I cortili di Catanzaro “C’è la città dei monumenti, la città delle facciate, delle insegne, dei negozi, dei traffici, la città caotica delle manifestazioni e degli scioperi. E poi c’è la città delle intimità, la città riflessiva, gioiosa, inquieta, angosciosa, segreta. Quella delle storie private. Tra la città dei rumori e quella privata dei silenzi, l’uomo e secoli di storia urbanistica hanno interposto un diaframma, un filtro: la piazza, il portico. A Catanzaro, come in altre città dell’Italia meridionale, il cortile, inteso dunque non solo come spazio percorribile ma come salone all’aperto, ambiente dove incontrare e ricevere, da arredare e decorare. Sono piccoli come fazzoletti o vasti come saloni, signorili o popolari, bianchi di calce o scoloriti dal tempo, rossi di gerani, verdi di rampicanti, quasi sempre portano il nome del primo proprietario o della via: i cortili, gelosi custodi del loro tesoro secolare, fatto di passioni, di segreti, di malincuore. Schivi e diffidenti nei confronti dei visitatori da cui si nascondono dietro mura, portali corrosi dal tempo, inferriate, come se volessero difendere e custodire frammenti di storia e di memorie, loro ultimi conoscitori di arcani segreti”. L’intento di questa ricerca è quello di conoscere un aspetto poco conosciuto di Catanzaro, partendo dai suoi palazzi, dai suoi cortili, da quei luoghi nascosti, ma proprio per questo più veri, più corrispondenti alla storia della comunità catanzarese. I cortili di una città, attraverso i vari elementi architettonici e decorativi che li compongono, esprimono lo spirito e la cultura di una società, sono utili strumenti per comprendere i mutamenti culturali, i cambiamenti di vita e di costume che avvengono nel tempo. Questi piccoli spazi, con tutta la loro storia, possono essere un’ottima chiave di lettura della città, infatti, le volte, gli archi, le lesene, le ringhiere e tutte le diverse soluzioni tecniche, non sono altro che testimonianze di uno stile ma anche di una scelta di vita; sono come fiumi di parole che testimoniano il nostro passato e il nostro passaggio, come un libro aperto che aspetta di essere letto e interpretato. Un tempo il cortile era fruito da un’antica famiglia socialmente agiata e tutto l’edificio era espressione di questa omogeneità; in seguito al frazionamento della proprietà, dovuto al cambiamento sociale, tutto il complesso esprime la nuova situazione, non più un’unità di stile e di vita ma una eterogeneità che è espressione diretta delle diverse individualità. Ogni famiglia modella sul suo stile personale la propria parte, così tutto l’edificio si trasforma in base alle nuove esigenze, il cortile smette di essere tale, non è più segno di distinzione sociale, ma si trasforma in vera e propria piazza, è una sorta di città nella città, con vie e accessi, dove tutti partecipano alla vita degli altri, dove ogni esperienza viene vissuta in comune, dove il protagonista non è più l’individuo ma la comunità.
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Palazzo Raffaelli
Palazzo Pecorini
Casa Ruggero conosciuta oggi come Palazzo Raffaelli sorge in Corso Mazzini. Catanzaro fu città di conventi e anche questo antico palazzo altro non era che un alloggio monastico, infatti fu dopo la canonizzazione del 1572 di S. Francesco da Paola che la città volle dedicargli una chiesa con annesso convento. Dopo circa due secoli di regolare vita conventuale all’edificio venne tolta la sua funzione originaria e nel 1784, dopo il famoso terremoto, la Cassa Sacra lo vendette ai privati, i quali, considerata la bellezza del panorama, lo ristrutturarono ricavandone appartamenti di civile abitazione. Dopo il restauro, la superstizione popolare cominciò a credere che gli acquirenti fossero perseguitati dalla cattiva sorte, come già era capitato alle famiglie Ruggiero, Suriano e Folino. Fu così che l’imprenditore Tommaso Pudia, “cedendo a scrupolo di coscienza” volle riscattarsi pubblicamente rinnovando e decorando la chiesa nel frattempo ceduta alla parrocchia di S. Bartolomeo. L’edificio è a pianta quadra, con una leggera rientranza sulla parte destra del cortile. Tutto il complesso si articola su tre livelli: pianterreno, primo e secondo piano, a questi si aggiunge, un evidente dissonanza visiva dovuta ad una superfetazione subentrata in epoca successiva. Il prospetto principale ha un’eleganza formale degna di essere sottolineata. Ampia e luminosa infatti è la facciata in netto contrasto con la penombra del cortile, su di essa si apre una teoria di balconi alternati a finestre. L’opera di ristrutturazione ne ha sottolineato l’accuratezza degli elementi decorativi prevalentemente in stile neoclassico. Al primo piano ogni apertura è incorniciata e sormontata da un architrave, al secondo piano, perfettamente speculare al primo, le aperture sono decorate da archi a sesto ribassato, con figure antropomorfe in bassorilievo. La sequenza dei piani è sottolineata da cornici lineari e scanalate; in alto il cornicione chiude il prospetto principale con elementi decorativi ritmici. Il portale d’ingresso, ad arco a tutto sesto, è inquadrato da una cornice scanalata, che si ripete nella serie di aperture laterali. L’androne d’ingresso, coperto da una volta a crociera, immette il visitatore nella penombra dell’ampio cortile che appare suddiviso in due blocchi distinti. La ricchezza e la ricercatezza formale unita alla luminosità della facciata principale, non ha eco nel cortile che si presenta privo di ogni elemento decorativo di rilievo. A sinistra l’antico cornicione aggettante decora la sommità dell’edificio, a destra, il prospetto presenta alcune caratteristiche stilistiche della facciata come l’arco a tutto sesto che decora il portale del corpo scala, illuminato da grandi vetrate, una per piano, modellate con lo stesso motivo. La semplicità degli affacci, le inferriate chiodate a maglia larga, le arcate che aumentano la spinta ascensionale, l’atmosfera cupa del luogo, sono tutti elementi che ci rammentano l’antica destinazione conventuale.
Percorrendo via Montecorvino, dove sorge l’omonima chiesa, vi è Palazzo Pecorini, al numero civico 5, che con la sua dignitosa eleganza fa da cornice alla piazzetta circostante. Sicuramente nel corso dei secoli l’edificio ha subito notevoli mutamenti: da semplice abitazione in periodo medioevale, lentamente si è sviluppato invadendo l’area coltivata e acquistando l’odierna forma solo nel XIX secolo. All’esterno l’edificio si sviluppa orizzontalmente e si concatena ad altre aree abitative (tipico dei borghi normanni e di quelli medioevali). Il complesso si articola su due livelli: piano terra e primo piano. Al piano terra si apre il portale d’ingresso, coperto da un arco a tutto sesto, inquadrato da pietra locale lasciata a vista. La facciata, simmetrica, presenta un ritmo di aperture a balconi e finestre, decorate da timpani e, nel centro, da archi ribassati. Dal portale si passa all’androne d’ingresso, coperto da un semplice solaio e alleggerito da due grandi archi ribassati, che inquadrano l’arioso cortile. Vibrante nella sua colorazione rosa antico, l’elemento principale d’arredo è la scala centrale che, diramandosi verso i lati dell’edificio, conduce verso le abitazioni. Il cortile visto dall’alto appare come una bella piazzetta ottocentesca, dove la simmetria è mantenuta anche negli affacci. Cornici lineari e scanalate mettono in risalto i due piani e inquadrano le diverse aperture. La pavimentazione, formata da ciottoli di fiume, riprende motivi geometrici, tipica decorazione dei cortili catanzaresi, e accentua l’asse di simmetria della costruzione. Lo spazio è affascinante per la leggerezza architettonica; la frammentazione della proprietà non ne ha leso le caratteristiche costruttive, ma lo ha trasformato in un sorprendente passaggio, un vicolo della città, percorso tortuoso verso altre abitazioni che esprimono il loro dialetto architettonico.
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Via Poerio – Numero civico 74 Il cortile che si apre al numero civico 74 di via Poerio è l’espressione di un unità architettonica originaria frantumata dalla discontinuità di un fare autonomo delle diverse proprietà. Un portale sostenuto da un arco a tutto sesto, decorato da una cornice scanalata, ci immette nel buio dell’androne verso una realtà multiforme e colorata. Posta centralmente, una semplice scalinata è la via d’accesso ai vari piani superiori; un’altra piccola scala, sul lato sinistro, comunica con il primo piano. Vistoso appare il colore rosa della pavimentazione. A destra, un’arcata anticipa un lungo corridoio che porta ad altri nuclei abitativi. Impossibile riportare l’intero complesso alla forma originaria, forse perché non ne ha mai avuta una, essendo il risultato di un continuo processo di assimilazione, dove ogni aggiunta è divenuta nel tempo parte integrante dell’intero complesso. L’individualità esasperata ha creato in questo cortile, piccole vie, piazze, accessi angusti; una serie di infissi in legno contrastano vistosamente con la vetrata in alluminio al secondo piano. Questi ed altri elementi, che potrebbero sembrare irrimediabili cadute di gusto, nel loro insieme segnalano la quotidianità di una vita che scorre tranquilla, senza eccessive pretese, filtrata da quello spirito di aggregazione solidale tipica del meridione.
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Palazzo Toraldo Via Poerio – Numero civico 65 Percorrendo la stessa strada, sul lato opposto, al numero civico 65, si apre il portale di Palazzo Toraldo, decorato con un arco a tutto sesto e impreziosito da una cornice scanalata. Varcato il portale, veniamo immersi in un grande androne a pianta quadra completamente privo di luce. L’oscurità dell’androne dirige lo sguardo verso il cortile irradiato dalla luce, che dall’alto come una cascata luminescente precipita verso il basso. Questo piccolo cortile presenta varie porte d’accesso a locali adibiti a magazzini. A sinistra, di fronte al portale, una semplice scalinata comunica con i piani superiori. Il loggione che si affaccia sul primo livello è decorato con una ringhiera chiodata di fine XIX secolo, molto frequente nel centro storico cittadino e presenta un’iscrizione: “D.O.M. EGO DOMUM AUGUSTINUS-PETROSINUS 1757”, che sancisce l’antica proprietà di una parte del complesso. Dal basso si scorge l’altezza inusuale delle pareti che racchiudono il cortile; la pavimentazione, le pareti e le aperture, appaiono prive di decoro formale, la luce che scorre velocemente sulla loro superficie crea un effetto luminoso che fa da contrasto all’oscurità dell’androne, suggerendo un’atmosfera dai toni freddi e drammatici, altamente teatrale.
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Via Poerio – Numero civico 52 Continuando il percorso, quasi al termine di via Poerio, al numero civico 52, un ampio portale baroccheggiante mostra la sua poderosa struttura composta da due grossi pilastri e un bugnato a doppia punta di diamante alternato a bugne semplici squadrate. L’androne si sviluppa verticalmente; nella sua parte terminale un’ampia arcata a tutto sesto riprende la forma del portale, anticipando un lezioso cortile squadrato; le facciate interne si articolano su quattro piani, il piano terra e primo piano hanno mantenuto l’originaria forma, in contrasto con i successivi piani, d’epoca più recente, dalla struttura architettonica semplice e asciutta. A destra, di fronte l’entrata, una piccola scala sale fino al primo piano, caratterizzato da una loggia decorata da tre archi ribassati, di varia ampiezza; tutta la struttura è sorretta da semplici pilastri, il gioco dei pieni e dei vuoti alleggerisce piacevolmente il tutto. A sinistra, la ringhiera della scala segue il piccolo portico, mentre una ringhiera, dalla forma stilizzata, decora parte del lato destro. Sul piano terra si aprono una serie di locali, con porte di accesso di differente forma. L’azzurro di una vecchia tinteggiatura, insieme alla linea arcuata del portico creano un ambiente poetico, di raffinata semplicità, che il passaggio inesorabile del tempo immerge in un’atmosfera eterea.
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Via Poerio – Numero civico 42 Al numero civico 42 si apre un portale decorato da un classico bugnato; è la via d’accesso a quella che rappresenta l’ultima mèta della via finora percorsa. Già dall’esterno si scorge una suggestiva atmosfera. Un lungo androne, con volte a botte è immerso in una penombra che si fonde con la luce soffusa del piccolo cortile; entrando a sinistra, un dislivello introduce all’ingresso di un’abitazione, adiacente alla quale trova sede un’edicola sacra. Il cortile è un piccolo spazio rindondante di archi, che unendosi ad altri elementi architettonici, producono forti effetti chiaroscurali. La composizione delle parti è armonica e si presenta come una scenografia, la ricostruzione di un piccolo brano di tessuto urbano.
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Palazzo Ferrari-De Riso Via De Grazia – Numero civico 17 Lasciando alla spalle via Poerio, salendo verso la chiesa dei Cavalieri di Malta, meglio conosciuta come S. Giovanni, ultimo confine dell’antico centro abitato, proseguiamo, percorrendo Via De Grazia; in linea con la chiesetta normanna di S. Omobono, si affaccia Palazzo Ferrari-De Riso, al numero civico 17. Il prospetto principale si sviluppa su due piani; accanto al grande portale, un alto arco introduce ad un esercizio commerciale, mentre al primo piano si affacciano due balconi dai decori classicheggianti. La ricchezza decorativa del bugnato che incornicia il portale è una gradita anticipazione al cortile interno; l’androne d’ingresso è ampio e privo di luce, con un solaio a travi in castagno. L’ impianto del cortile, a pianta quadra, risulta ampio e arioso; un corpo scala è protagonista del complesso che il tempo e la natura hanno contribuito a rendere affascinante. La facciata centrale è caratterizzata da cinque grandi arcate, accesso e vani illuminanti dell’elegante scala, coperta da volte a crociera, con rosoni centrali e pedate in marmo verde di Gimigliano. Una serie di cornici scanalate definiscono in alto la struttura, sopra la quale si innesta un corpo aggiunto in epoche successive. Il lato sinistro risulta più alto per effetto di numerose superfetazioni. Un sistema di colonne in ferro, esili e rastremate, concorre ad accentuare lo sviluppo verticale della struttura in netta dissonanza con le altre parti del complesso. Un’iscrizione “NAPOLI 1869”, posta sul fusto delle colonne, data la fusione degli elementi che sostengono le balconate, arricchite da ringhiere liberty. Sulla pavimentazione, sotto uno strato di cemento, si individua un lastricato composto da un antico basolato misto a ciottoli di fiume.
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Palazzo Anania Via De Grazia – Numero civico 51 In Via De Grazia, dopo la piccola chiesa di S. Anna, al numero civico 51, si erge Palazzo Anania, la cui costruzione si fa risalire al 1732. La facciata, articolata su due livelli, presenta un’impostazione lineare, decorata, esclusivamente, dallo stemma di famiglia. Il contrasto con il cortile interno è sorprendente, luminoso, dagli intonaci chiari, ingialliti dal tempo, verdi di muschio e con soluzioni architettoniche raffinate. Il fronte interno si sviluppa su tre livelli, collegati da un sistema di scale in pietra locale, arricchite da volte a crociera, rosoni, lesene, cornici e aperture ad arco a tutto sesto. La facciata, squadrata e massiccia, è alleggerita dagli ordini di archi che percorrono, in modo ritmico, tutto il prospetto; nell’ultimo ordine gli archi sono decisamente più bassi e, assieme alle incisive lesenature, concorrono a suggerire un’illusione prospettica che slancia il prospetto verso l’alto. Il cortile, altrove, si offre in soluzioni dissonanti: balconi e finestre si alternano in un fare casuale, rendendo, per contrasto, più preziosa la facciata principale.
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Pianicello – via Cefalì numero civico 18 Il quartiere Pianicello, insieme ad altri come la Grecìa, la Stella e il largo dei “coculi” sono la memoria storica dei quartieri popolari della città. Infatti da essi si diramano una serie di stradine che ricordano l’antico impianto normanno, tutte costellate, dall’età medievale, fino alla prima metà del secolo, da botteghe artigiane, piccoli negozi e locande. Il Pianicello prende nome dalla grande area pianeggiante su cui sorge, al centro della quale, una piazza incorniciata da alti palazzi è la protagonista incontrastata. Tutt’oggi il quartiere con la sua piazza è un luogo di ritrovo e di piccole feste popolari per lo più a sfondo religioso. Su questa area, in via Cefalì al numero civico 18, si affaccia un significativo portale, decorato da un arco a tutto sesto e incorniciato da un sistema di bugne a doppia punta di diamante alternato a bugne semplici squadrate, che ci immette in un inaspettato cortile che non ha riscontro, nella scelta stilistica, in nessun’altra parte della città. Il piccolo androne, a pianta quadra, in perenne penombra, inquadra un’inusuale soluzione architettonica. Tre aperture, decorate con archi a sesto acuto, spiccano, nell’atmosfera cupa, riprendendo stilemi dell’architettura gotica, nettamente in contrasto con la classicità del portale e dell’androne. Dall’arco centrale, la scala in pietra locale, si arrampica ai piani superiori, diramandosi simmetricamente; l’impianto è sorprendentemente alleggerito da ringhiere chiodate con tipica lavorazione a rosoni, miste a ringhiere in ghisa con decorazioni “raffaellesche”. Motivi gotici si ripetono anche al piano superiore evidenziando una precisa volontà di scelta stilistica.
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Via dell’Arcivescovado – Numero civico 31 Dal quartiere Pianicello ci spostiamo verso la Cattedrale: l’edificio sacro più importante della città. La piazza su cui sorge è una delle più antiche, sorta intorno alla chiesa normanna consacrata da Callisto II nel 1122; ad essa si innesta l’antica Via dell’Arcivescovado che presenta, al numero civico 31, un portale, arricchito da un elegante bugnato. Il chiarore della facciata fa da contrasto con l’atmosfera soffusa dell’androne squadrato, che, attraverso un arco ribassato sostenuto da due pilastri, immette nel piccolo cortile a pianta quadra, illuminato dall’alto da una luce soffusa; i due livelli sono decorati da una serie di archi ribassati, tre su ogni piano; la ridotta dimensione degli archi del primo piano, produce un’illusione prospettica che aumenta la spinta ascensionale, snellendo l’intero complesso. Al piano terra, rialzato da tre gradini, un alto arco è la via di accesso al piano superiore e al giardino che si scorge dietro un lezioso cancello in ferro battuto. Il primo piano speculare al piano terra è tutto percorso da una balconata centrale e da piccoli balconi sui lati minori. Il valore estetico di questo spazio architettonico è esaltato da un’atmosfera da colori tenui e avvolgenti.
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IL TEATRO POLITEAMA di catanzaro
Antonio Panzarella
Quando Guido Piovene, negli anni ’50, visitò Catanzaro per il suo “Viaggio in Italia”, trovò una città ariosa, con magnifica vista sulla Sila e sul Golfo di Squillace, aperta da ogni lato ad un paesaggio diverso, montana o marino, una città di cultura, con un cine-club, conferenze ed un fiorente Circolo di Amici della Musica. Una città, racconta lo scrittore vicentino, dove si vendevano 3000 copie di giornali e riviste al giorno. Piovene “incontra” una città vivace, piena di interessi culturali, aristocratica, ma senza un teatro, senza “il luogo” del cerimoniale sociale, come si dice oggi. Catanzaro, fino al 1938, aveva un teatro che era il vanto della città e dei cittadini, ma poi è stato abbattuto lasciando un vuoto enorme. Finalmente dopo sessanta anni dalla demolizione, viene affidato a Paolo Portoghesi, un protagonista della scena architettonica internazionale, il progetto del Teatro Politeama. L’architetto romano, fin dall’inizio della sua carriera si è battuto per riportare l’architettura moderna nell’alveo della tradizione storica, teorizzando “l’architettura dell’ascolto”, basata su una interpretazione sensibile della natura dei luoghi. E proprio a Catanzaro, Portoghesi, autore tra l’altro della Moschea di Roma, dell’Accademia di Belle Arti di L’Aquila e delle chiese: S. Maria della Pace di Terni, e della Sacra Famiglia di Salerno, usa la legge prospettica per recuperare un momento di “riposo della forma” in una composizione essenzialmente dinamica, pensata per dare l’impressione ad ognuno che entri di essere accolto ed abbracciato, non in quanto singolo osservatore ma come membro di una comunità. Professore Portoghesi, lei ha realizzato un teatro dove la gente di Calabria deve ritrovarsi, un luogo dove la società dispiega i propri miti e può esprimere i propri drammi di fondo senza mettere in gioco la sua stessa esistenza. Certamente, il teatro Politeama è tutto questo, ma tante altre cose ancora. È un teatro multimediale che può ospitare anche l’opera lirica. È un grande teatro nella tradizione del teatro all’italiana.
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Per la prima volta viene costruito un teatro completamente nuovo, di questo tipo nel dopoguerra, il che significa riprendere una nobile tradizione. Confesso che è stata un’esperienza veramente appassionante la fase di progettazione di un teatro di questo genere, all’interno di un tessuto quale è quello del centro storico di Catanzaro, dove esisteva un bel teatro che i Catanzaresi chiamavano “San Carlino”, per l’analogia con il teatro di Napoli. Era importante rievocare quest’archetipo depositato nella memoria collettiva e poter avere nello stesso tempo quel tipo particolare di comportamento acustico che è inscindibile dalla sala a ferro di cavallo in cui i palchetti fungono da trappola del suono. Il Teatro Politeama è sorto proprio con la funzione di riammagliare l’antico tessuto; esso si affaccia verso la valle attraverso un grande parcheggio, quindi si tratta di un’opera che si inserisce nel cuore della città senza però costituire un peso, un ingombro per essa perché supportato da questo spazio per le automobili, così che il pubblico potrà affluire anche da fuori senza provocare danni alla città, tanto più che l’accesso è consentito direttamente dall’esterno. Si tratta di un elemento che rende più vivo il tessuto della città attuale, alla quale restituisce la funzione dei centri storici. Cioè luogo di incontro e di socializzazione, ma più che altro un teatro che deve dare “senso” alla città. È vero, molto vero, anzi per sottolineare quanto dice, è “la città senza teatro che non ha senso”, tra l’altro ci troviamo nella Magna Grecia, quindi in uno dei luoghi nei quali il teatro ha fatto la sua prima comparsa nella storia della civiltà. Secondo me è veramente molto importante la realizzazione di quest’opera; è stato questo un modo per fare della Calabria, che per molti aspetti è una regione non privilegiata rispetto alle altre regioni italiane, una regione all’avanguardia nell’affrontare il tema del teatro in modo nuovo, perché questo teatro sarà anche un luogo di elaborazione delle tecnologie, una struttura nella quale affrontare il problema dei software delle tecnologie, per la propulsione culturale. Penso veramente che questo nuovo “edificio” possa stimolare la cultura teatrale dell’Italia meridionale in modo da renderla interlocutrice valida nell’ambito europeo; d’altronde siamo nella comunità europea e l’Europa dovrebbe trasformarsi in Europa delle regioni, oltre che in Europa delle patrie. Il teatro si cala in questo contesto urbanistico e “dialoga” con questo luogo particolare, con le sue viuzze, i suoi slarghi, la sua caratteristica, tipica dell’edilizia minore meridionale. Si, è vero, come ho detto prima l’Edificio si inserisce cercando un colloquio con questa architettura, presenta un fronte che è
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curvato, come ripetesse il gesto delle braccia che accolgono coloro che entrano in esso. Una caratteristica tipica dell’architettura barocca qui ripresa in forme moderne. Del resto in prossimità di Catanzaro, precisamente a Serra San Bruno, è possibile ammirare stupende chiese barocche. Si tratta comunque di un edificio moderno, la cui facciata richiama vagamente alla mente una nave, con grandi finestre orizzontali. I muri tendono a racchiudere, ad orientare, l’edificio verso il luogo attraverso il quale è possibile l’accesso, mettendolo in evidenza. La cerimonia delle persone che accedono al teatro diventa un rito collettivo, piacevole da vedere. Internamente, la sala presenta le caratteristiche dei teatri all’italiana, naturalmente in forma rinnovata; infatti l’arco scenico è sostituito da una maggiore osmosi fra lo spazio della sala e quello del palcoscenico, proprio per venire incontro alle caratteristiche evolutive del teatro, nel quale spesso è ancora usata la classica divisione dalla scena in palcoscenico e platea. In alcuni casi è preferibile abolire questa netta divisione, per cui si cerca di creare un continuo dialogo fra palcoscenico e platea. Questo teatro rende possibile questo tipo di interpretazione, quindi ci troviamo dinanzi ad un teatro sostanzialmente nuovo. Ritengo che anche la tecnica realizzativa renda questo edificio particolarmente interessante. Viene usata la struttura in cemento armato, ma instaura un dialogo armonico con gli edifici preesistenti del centro storico. Per questo progetto si è ispirato ad una iconografia o a forme particolari? Si, penso si possa parlare di architettura organica, nel senso che si fa preciso riferimento alle forme della vita. Per esempio, vediamo delle grandi pareti che si sfogliano, che si aprono per dare la sensazione a chi entra di sentirsi accolto; inoltre notiamo un preciso riferimento al modello del teatro d’ope-
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ra soprattutto nella cupola, che richiama la cupola del “Grand Opéra” di Parigi. L’intenzione è quella di rievocare alla mente di chi vede questo grande edificio l’idea dello strumento musicale: il violino, il violoncello, cioè strumenti dotati di una cassa armonica, la cui forma è stata studiata proprio per amplificare il suono. Questo edificio nasce proprio da uno studio approfondito del comportamento acustico, che anch’esso dovrebbe, come uno strumento musicale, ingentilire e amplificare il suono. Il teatro Politeama, con queste dimensioni e questa struttura, deve “volare alto”, non può fermarsi solo sulla città capoluogo di regione, ma deve andare lontano, incontrare altra gente, altre culture. Deve contribuire a muovere l’economia della città e del suo comprensorio. Questo teatro è stato finanziato con la legge 64 proprio in seguito ad un attento studio di fattibilità elaborato dal professore Leone il quale dimostrava come la creazione di un teatro e la sua gestione in una città come Catanzaro può avere una notevole influenza sullo sviluppo economico. Innanzitutto perché il teatro rappresenta il simbolo dell’importanza di una città; in secondo luogo, tutte le aree circostanti la città sono in qualche modo valorizzate dalla nuova costruzione, infine, fondamentalmente l’attività culturale in una visione dell’economia moderna ha un ruolo propulsivo importante. Noi sappiamo benissimo che ci stiamo avviando verso una società, in cui anche il consumo della cultura sarà sempre maggiore, interesserà strati sempre più vasti della cittadinanza. Tutto ciò dà un immediato significato e riscontro economico alla creazione di un teatro. Personalmente mi auguro che questo primo esperimento possa mostrare la validità di questo assunto e quindi rendere possibile una rifioritura di teatri nell’Italia meridionale, certamente molto più carente rispetto al resto d’Italia per quanto riguarda queste strutture fondamentali.
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OPERE D’ARTE NEL DECORO URBANO
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Alessandro Russo
La Cattedra di Decorazione dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, da anni studia gli elementi decorativi dei centri storici calabresi, producendo disegni, pitture, fotografie, schede e tesi che hanno analizzato: portali, edicole votive, roste lignee, ferri battuti, sopra portoni, cancelli, inferriate, ringhiere, scale, balconi, lampioni, lanterne, gazebi, batacchi, anelli da cavallo, insegne, sporti, pietre, marmi, legni. Una parte di questi studi relativi a Catanzaro, hanno dato ad alcuni studenti la possibilità di collaborare alla realizzazione della prima guida dei beni culturali dell’Amministrazione della città. Coordinati dai professori, hanno fornito alla direzione editoriale, studi sulle sculture del parco della biodiversità, schede e foto delle opere di Paladino, Fabre, Gormley, Cragg, Quinn ed altri. Schede e cenni storici sulle sculture di Villa Trieste, realizzate dai più grandi scultori calabresi, operanti in Calabria ed a Napoli tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, artisti come Francesco Jerace, il fratello Vincenzo, Ercole Castagna, Francesco La Monaca ed altri, raffiguranti uomini di stato, artisti e patrioti. Sono stati altresì documentati stilemi delle cappelle gentilizie del Cimitero storico, opere d’arte negli edifici istituzionali (Palazzo De Nobili, Palazzo della Provincia, Palazzo delle Entrate, Palazzo del Tribunale, le Plastiche ornamentali della facciata principale dell’Istituto Tecnico Industriale e di Via Milano). Si sono evidenziati decori, epigrafi, bassorilievi, portali, ceramiche, a volte “inosservati” ma sempre pronti per essere goduti come le due formelle di terracotta di Giuseppe Rito, sulle porte d’entrata della Corte dei Conti di Via Crispi. Il tutto in un’ottica di riappropriazione degli spazi urbani da vivere con maggiore partecipazione e godimento, lasciando alle spalle le distruzioni del passato, come quelle del Teatro Comunale, della Porta Marina, di Palazzo Serravalle e la Strettoia di Corso Mazzini. Lo studio analitico dei dettagli decorativi di un sito urbano, di norma si basa su uno stilema identificativo: come l’epoca, i materiali che lo compongono ed il contesto ambientale nel suo complesso storico ed estetico.
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Il Centro Storico di Catanzaro, presenta una serie di problematiche di conservazione, dovute perlopiù al cambiamento arbitrario degli elementi caratterizzanti, dal cattivo uso degli intonaci, ai brutti rifacimenti dei tetti, con soluzioni dozzinali e inopportune, alla sostituzione totale dei legni, alla distruzione dei decori a volte puramente estetici, altre volte strutturali, mutando totalmente la valenza antropologica dei luoghi. A discapito della storia di una città che tra il 1830 ed il 1937, aveva vissuto i momenti di maggiore espansione con l’approvazione nel 1970, del primo vero e proprio Piano Urbanistico. Furono questi gli anni dello sventramento del Corso Vittorio Emanuele da Fuori le Porte a Bellavista. L’espansione della città verso Nord, della costruzione dell’Azienda del Gas, dell’espansione del Cimitero Urbano, della costruzione del Tribunale, dell’inizio dei lavori di via Milano, abbellendosi di nuove costruzioni, impianti e pavimentazioni. Fu questo un momento economicamente fiorente e la città si abbelliva sempre più, con l’ampliamento della villa comunale e la realizzazione di opere di arredo urbano, costituite da opere d’arte di fonderia di altissima qualità estetica come le Fontane di Piazza Roma, di Santa Caterina e il Monumento marmoreo a Francesco Stocco. La crescente economia favorì la fioritura di testate giornalistiche periodiche. George Gissing, il viaggiatore inglese, dirà in una sua pubblicazione, che la cultura media dei cittadini catanzaresi era più alta di quella dei cittadini della provincia inglese, tutti si intendevano di teatro e nei Caffè i contenuti delle discussioni erano colte e sagge. Oggi la città ha un nuovo teatro operante ed attivo, un complesso espositivo prestigioso, un Corso in via di recupero nel selciato e nella dimensione estetica, un parco della biodiversità che è divenuto in pochissimo tempo luogo di svago e di cultura. Un’area nel centro della città dotata di giochi per bambini per tutte le età, uno spazio espositivo all’aperto con sculture di autori contemporanei di livello internazionale, un museo delle armi di interesse, con attorno un parco ricco di arredi, di verde attrezzato, di un anfiteatro e di fontane artistiche. E allora speriamo non si debbano subire altre mutilazioni strutturali e culturali e che la politica del decoro inteso anche come momento di distinzione estetica, possa svettare voli alti.
A sinistra: Stilema ferro battuto Farmacia Leone, Palazzo Fazzari. In apertura: Particolare decorativo.
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Pagina precedente: Francesco Jerace “Busto di Andrea Cefaly� Villa Trieste. Di fianco: Mensole eclettiche Via Milano. A destra: Stilema ferro battuto Farmacia Sestito. Pagina destra: Particolare stilema ferro battuto Farmacia Leone.
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Giuseppe Rito Formella in Terracotta Facciata Palazzo Corte dei Conti, Via Crispi. A destra: Cappella Gentilizia fam. Marincola.
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MONUMENTI
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Teresa Esposito
Ripercorrendo un viaggio attraverso il tessuto più antico di una città, poco a poco riscoperta nelle sue dimensioni reali, attraverso le piazze, da sempre punto di ritrovo e di cultura, in cui convergono in un armonico rapporto ambientale, arte e architettura, ci si accorge di come a distanza di tempo si conservi in ogni pietra, le tracce della sua storia. Per quanto diverse l’una dall’altra, sia tecnicamente sia espressivamente, l’unica circostanza in cui arte e architettura coincidono nelle intenzioni e negli obiettivi, è il Monumento. Molto spesso capita di osservare in modo superficiale tutto ciò che ci circonda dimenticando che, la nostra storia, passata e presente, sta lì sotto i nostri occhi, definita dalla presenza di edifici e opere d’arte che quotidianamente vivono con noi e che in un certo senso ci “contraddistinguono” mediante quel messaggio di artisti che a loro volta hanno partecipato alle vicende sociali e culturali del proprio tempo. Non solo semplici valori aggiuntivi o abbellimenti, ma una chiara volontà di affermare, esaltare e divulgare determinati prestigi e azioni umane come idee politiche e religiose, offrendoci visivamente il senso di epoche ormai lontane altrimenti incomunicabili. Qui a fianco abbiamo riportato la fontana del “Cavatore”, opera monumentale situata in Piazza Matteotti. La statua in bronzo di elevato prestigio scultoreo fu realizzato tra il 1951 e il 1954, da Giuseppe Rito il quale ha collocato la scultura alta quattro metri, all’interno di una nicchia delle mura perimetrali del castello, decorata da laterizi di stile neoclassico, dove sorge una fontana. In quest’opera si riassume il pensiero dello scultore Dinamese che da sempre rimase fedele alla sua terra, elevandone i valori della gente calabrese. Il “Cavatore”, nell’atto di brandire la grande roccia per far sgorgare l’acqua, rappresenta l’emblema del proletario del Sud, che con serenità e caparbietà, pone come fattore determinante, una nuova vita, senza il continuo tormento del fenomeno dell’emigrazione.
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Monumento dell’Assunta Opera scultorea commissionata nel dopo guerra dall’arcivescovo mons. Fares per la ricostruzione del nuovo Duomo di Catanzaro. La statua di bronzo alta sette metri e mezzo, fu realizzata dal grande scultore calabrese Giuseppe Rito, incidendola con quel suo nuovo modo di trattare la materia, che divenne il suo biglietto da visita nell’arte contemporanea italiana. Questa bellissima opera è collocata sul pinnacolo del Duomo, facilmente visibile da ogni parte della città.
Monumeto ai Caduti della Grande Guerra 1915/18 Inaugurato nel 1933 e parzialmente danneggiato dai successivi bombardamenti del 1943, l’opera del grande scultore calabrese Michele Guerrisi (1893-1963), fu realizzato per commemorare i caduti della I Guerra Mondiale. Inizialmente al gruppo di uomini era posta una figura femminile di un tempo, con l’umile veste e un mantello come copricapo, raffigurata in posizione eretta rispetto ai soldati, andata perduta sicuramente col tempo ma visibile mediante foto d’epoca. Sito in piazza Matteotti, il gruppo scultoreo in bronzo è un monumento eroico-civile di alto impegno che assorbe la classicità in una dimensione di alta eloquenza moderna.
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Fontana di Santa Caterina Realizzata verso la fine del XIX secolo, dalla Sociètè Fonderies du Val D´Osne, una delle più prestigiose Fonderie d’Europa del 800, produttrice di manufatti e gioielli in ghisa per uso pubblico e privato. La fontana di stile classico, interamante fusa in ghisa è costituita da tre vasche di varie dimensioni poste su tre livelli, ornata nella parte sottostante da quattro putti che cavalcano dei delfini, mentre nella parte superiore erge una statua femminile, che sembra raffigurare una ninfa. Col tempo l’opera subì deterioramenti tali, da provvedere a un recupero totale, affidato all´esperienza di Domenico Neri e della sua società, che ne rintracciò le foto d’epoca e i disegni originali riprodotti sul catalogo della società produttrice, restituendone il grande valore che la fontana oggi possiede. Secondo alcune testimonianze a questa fontana se ne associa una seconda “gemella” per la composizione, prodotta dalla stessa fonderia. Questa un tempo era collocata in piazza Duomo ma dopo la seconda guerra mondiale fu distrutta. Ne rimane solo un particolare decorativo, il puntale, che si trova oggi a ornare una vasca di Villa Trieste. Il nome popolare “Santa Caterina” sembra derivare da un ex convento che un tempo sorgeva proprio nell´attuale piazza Cavour, oggi sede del palazzo della Questura.
Giustizia e Libertà Monumento al Generale Garibaldino Francesco Stocco Statua di marmo risalente al 1898, posta su un plinto di stile neoclassico, opera dello scultore Francesco Scerbo. Il monumento fu realizzato in memoria del generale Francesco Stocco, un importante e valoroso patriota risorgimentale e generale garibaldino, rappresentato con un’espressione fiera e grintosa, investito dalla furia del vento che modella il gran mantello lungo il suo corpo lasciando intravedere la grande sciabola posta sul fianco. L’opera collocata originariamente nell’attuale Piazza Matteotti, fu installata nel 1939 nella piazzetta prospiciente l’ospedale militare dal quale oggi deriva il nome.
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Gruppo scultoreo in bronzo posta nell’atrio del Palazzo di Giustizia sito in piazza Matteotti, commissionata a Giuseppe Rito dal primo presidente della corte d’appello dott. Enrico Carlo Magno dopo la caduta della dittatura fascista. In quest’opera d’impostazione classica, Rito rivoluziona completamente l’iconografia delle due figure, rivelando i due concetti etico-religioso della Giustizia e della Libertà. Le due “Ultime Dee” sono rappresentate nella condizione ideale di ogni singolo uomo e della società nel suo insieme. Nell’osservare quest’opera è facile riscontrare la piena maturità dell’artista, il quale ha saputo dare espressione d’arte a uno dei motivi più ardui e più sentiti della società umana.
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Ponte Bisantis-Morandi Il Ponte Bisantis è un’opera architettonica di grande prestigio realizzato intorno al 1962 dall’ing. Riccardo Morandi. La sua funzione è fondamentale poiché innalzandosi sulla cosiddetta valle “fiumarella”, collega la parte storica della città con i quartieri a ovest: rione De Filippis e quartiere Gagliano, facilitandone la viabilità. Interamente costruito in cemento armato per anni, è stato definito il più alto d’Europa per l’ampiezza della sua arcata, consacrandolo come vero e proprio monumento di alta ingegneria architettonica tanto da diventare il simbolo della città di Catanzaro.
Complesso Monumentale del San Giovanni
Madonna con il Bambino Sito nel portico del Duomo, il gruppo statuario in marmo, di stile bizantineggiante, fu scolpito a tuttotondo intorno al 1591. Fu donato al Duomo dalla famiglia Morano, di cui porta sul basamento lo stemma. Ad oggi non si conosce l’autore dell’opera, ma si suppone possa trattarsi di un seguace di Antonello Gagini, scultore palermitano di bottega messinese.
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Dall’ambizione di non “accontentarsi” del patrimonio ereditato dal passato, nasce l’esigenza di un’apertura nei confronti dell’arte contemporanea, un interesse che ha fatto nascere un nuovo spazio espositivo divenuto uno dei più notevoli poli culturali ed espositivi dell’Italia meridionale. Disposta su due piani, vi si accede da una scalinata in ferro, che porta al cortile interno, fino alle numerosissime e ampie sale espositive. Sorge sull´area del castello Normanno-Svevo sorto sotto la dominazione di Roberto il Guiscardo il quale riconobbe al territorio catanzarese un’importanza strategica notevole sia per il sito naturalmente inespugnabile sia per la centralità, tanto da fondare il castello intorno al 1060, che poi fu parzialmente distrutto intorno al sec. XV. I materiali dell’imponente fortilizio furono utilizzati per ristrutturare la chiesa dell’Osservanza e
per costruire la chiesa dei SS. Giovanni Battista ed Evangelista (1532) tra le più belle e importanti chiese della città, e parte integrante del complesso da cui prende proprio il nome. Ne fecero parte gli edifici della Congrega dei Bianchi di Santa Croce (1563) con l’Hospitio (1569), (coincidente con l´attuale edificio) e il Convento dei Teresiani (1645) che in seguito ospitò la caserma del Genio militare e le carceri dell’Udienza, distrutte quest’ultime nel 1970 dal crollo delle mura del castello che si estendevano su via Carlo V. Del Complesso, fa parte anche la grande nicchia della Fontana del “Cavatore”. Suggestivo e affascinante è l’ampio terrazzo aperto al pubblico da poco tempo, che vanta dell’unico elemento architettonico sopravvissuto: ‘antica pavimentazione e la bellissima Torre normanna che in passato serviva come sistema di avvistamento.
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intorno ai musei catanzaresi
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Angela Palaia
Il Museo Provinciale di Catanzaro è uno dei più antichi e rappresentativi musei della regione Calabria. Era di fatto il 4 maggio 1879 quando l’avvocato Antonio Cannoni, il professor Domenico Marincola Pistoia e l’avvocato Antonio Serravalle sottoscrivevano il verbale di inaugurazione nei locali di piazza Tribunali (oggi piazza del Rosario). Il Museo è nato come grande archivio al fine di catalogare e conservare al proprio interno quadri, ceramiche, sculture e monete provenienti da collezioni private o da ex conventi disciolti e demanializzati dopo l’Unità d’Italia. Nel corso del tempo ha acquisito numerosi reperti di forte ed emblematica valenza archeologica e preistorica. Oltretutto, grazie alle successive acquisizioni dovute all’azione di sostegno all’arte nel territorio calabrese portata avanti dall’Ente Provincia, il patrimonio pittorico è stato arricchito fino a raggiungere un numero consistente di circa 200 opere tra cui 43 di Andrea Cefaly (costituendo così il maggior nucleo organico di questo artista esistente in Italia ed in possesso di un ente), un’opera estremamente significativa attribuita a Mattia Preti (“I Due Filosofi”) e diverse tele del Battistello Caracciolo, tra cui la “Madonna in Gloria”. Attualmente queste opere sono conservate nel Palazzo della Provincia insieme con una delle più grandi e rare gipsoteche d’Italia rappresentata da circa 34 manufatti accordati all’esperta mano di Francesco Jerace. Restaurato e nuovamente inaugurato il 4 maggio 2001, il Museo Provinciale di Catanzaro consta di una vasta sessione prettamente archeologica ed è organizzato in 27 vetrine con un percorso didattico costituito da pannelli posti sulle pareti delle sale, mentre alcune riproduzioni fotografiche di quadri di particolare valore artistico e documentale esemplificano la dinamica e la formazione del museo nei suoi 123 anni di storia. Bene di inestimabile valore e pezzo di maggiore interesse, osservabile in questo museo, è il ricco medagliere che comprende circa 8000 monete. La collezione è stata costantemente arricchita e di grande interesse risultano le monete di età greca, rappresentate in maniera ottimale per tutte le regioni dell’Italia antica e della Sicilia. Per l’età romana sono raccolte monete del periodo repubblicano e imperiale, coniate in bron-
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zo e argento. Ricca la sezione di monete bizantine. Il nucleo di monete di età normanna e sveva è stato incrementato in maniera sostanziale nel secolo scorso e la sua varietà testimonia i fiorenti scambi commerciali che avvenivano localmente, confermando così i dati sulla circolazione monetaria in Calabria nel periodo in questione. Attualmente è esposta anche una parte dei reperti litici di epoca preistorica (circa 1000 pezzi) donati negli anni venti dal paleontologo Foderaro e che rappresentano un documento unico della preistoria calabrese. Oltre alla raccolta di materiale preistorico e protostorico, nel museo sono conservati capitelli e cippi marmorei dell’area crotonese, ceramiche e reperti esotici raccolti da viaggiatori di fine ’800 e materiale archeologico proveniente dalle zone di Simeri Crichi, Tiriolo e Petilia. Suggestivo da osservare, per la rarità del ritrovamento, è l’elmo di bronzo rinvenuto a Tiriolo, databile negli ultimi decenni del IV secolo a.C. Carismatico e di forte impatto artistico è il frammento di statua equestre di epoca imperiale del Cavaliere di Petilia (una scultura in bronzo del II sec. d.C.) così come di particolare bellezza è la minuziosa incisione bizantina elaborata su lamina d’oro e raffigurante l’Adorazione dei Magi, considerato un vero e proprio capolavoro. Nel Museo vengono esposti a rotazione alcuni dei dipinti conservati all’interno del Palazzo della Provincia che, come già evidenziato in precedenza, ospita una delle più grandi e importanti collezioni pittoriche della regione: l’operato artistico del maestro Andrea Cefaly e della sua Scuola di Cortale. Nato nel 1827, Cefaly risulta essere la figura più rappresentativa di tutto l’Ottocento calabrese, colui al quale spetta il merito della riscossa artistica della nostra Regione. Ed è proprio nel vasto e complesso panorama ottocentesco che l’operato del maestro di Cortale spicca con estremo vigore attraverso le più svariate tematiche storiche, i soggetti garibaldini e i motivi letterari, esplicandosi in quella che è stata definita una delle più felici “sintesi fra verismo partenopeo, lezione macchiaiola e romanticismo”. L’opera di Andrea Cefaly trova la sua giusta collocazione quale indefinibile punto d’incontro tra il verismo di Domenico Morelli (Napoli, 1823-1901) e il naturalismo di Filippo Palizzi (Vasto, 1818 - Napoli, 1899). Cefaly aveva assimilato la modernità di una pittura concepita non più come freddo accademismo o copia della realtà, quanto piuttosto quale insostituibile espediente espressivo assolutamente efficace sul piano della comunicazione visiva. L’arte, insomma, non era più un semplice mezzo per ritrarre minuziosamente l’esteriorità, ma era un modo per far emergere i contenuti, uno strumento di forte valenza polemica e costruttiva. Egli stesso affermava: “non sono un Realista come oggi si vuole, perché a me pare che il Vero sia tutt’altro che il Reale. Il Vero io considero scopo e il Reale mezzo: Quello tenta di raggiungere la forma estetica del pensiero; questo
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costituisce il magistero nell’esecuzione [...] quindi la massima difficoltà nell’esecuzione: quella di rivestire di forma reale la verità delle idee”. Provenendo dalla libera Scuola del Bonolis, è in Filippo Palizzi che il maestro di provincia ritrova i teoremi di Francesco De Sanctis sull’arte di realtà e sul capovolgimento dell’ideale nel reale. Tuttavia egli sentì di superare in qualche modo il realismo palizziano, fortemente ancorato a solide valenze naturalistiche, introducendo nei suoi dipinti elementi di peculiarità fantastico-narrativa, tipica della poetica espressiva del Morelli. “Bruto che Condanna i Figli” è uno dei più eclatanti esempi di Realismo Letterario, in cui il vero è rintracciabile negli elementi della narrazione e in tutti gli aspetti formali del dipinto stesso. Iniziato nel 1862 e terminato nell’anno successivo, il monumentale olio su tela di cm 238x321 venne realizzato per poi essere destinato a ricevere la giusta collocazione nel Palazzo di Giustizia catanzarese. La solenne impostazione scenica, la struttura e il taglio dell’opera, malgrado il forte vincolo alle rigide norme accademiche – si veda ad esempio la postura del Bruto, sicuro sul baldacchino, la lupa e i dioscuri scolpiti, e la colonna posta a contrappeso – danno vita alla dottrina del maestro di Cortale, ripercorrendo i numerosi anni di produzione romantica. Inoltre la precisione del disegno e la morbidezza dei passaggi tonali ricordano molto da vicino “quel fare morbido e delicato” del Mancinelli. L’eco poetica e monumentale del dipinto, gremito di figure accollate l’una all’altra sotto “il cielo del dramma”, è determinata, con buone probabilità, dall’importanza stessa della commissione e dalla destinazione prestigiosa dell’opera. Era il 1877 quando Cefaly portava a termine un olio su tela di cm 43x38,2 intitolato “Il Viaggio di Caino Attraverso lo Spazio”, anno in cui il dipinto fu esposto alla Mostra Nazionale di Napoli. L’impostazione generale dell’opera, collocata nell’illimitato spazio del cielo, la cifra stilistica, il segno linguistico della pennellata, la materia cromatica denotano l’unicità di quello che potremmo definire uno dei più alti capolavori del realismo letterario del maestro Cefaly. Di fatti erano quelli gli anni in cui venivano rivalutati non soltanto i romanzi di Oscar Wilde, Byron e Thomas Moore, ma anche la narrativa romantica italiana. Fu questo il motivo principale per cui il Caino fu presentato alla mostra napoletana con il titolo “Il Viaggio di Caino Attraverso lo Spazio”, chiaro riferimento all’omonimo romanzo di Byron. Furono proprio le parole di quest’ultimo ad ispirare il maestro di Cortale: “sullo spazio indefinito sopra la terra volano Caino e lo Spirito e vanno osservando tutti i fatti e tutte le generazioni precedenti ad Adamo”. C’è da chiarire cosa sia lo Spirito dal momento che nel dipinto di Cefaly la figura centrale di Caino si libra nell’etere azzurrogrigiastro trasportato dalle ali nere di un angelo irato. Si tratta forse di Lucifero? Questo spiegherebbe la presenza del serpente avvinghiato alle gambe dei due protagonisti e for-
Pagina precedente: A. Cefaly “Il Viaggio di Caino Attraverso lo Spazio” 1877 - olio su tela 43x38,2 cm. A sinistra: A. Cefaly “La Battaglia di Legnano” 1857 - olio su tela 102,5x210 cm.
nirebbe una chiave di lettura allegorica per l’immagine di Caino, primo grande peccatore e traditore tra gli uomini al pari di Lucifero ritenuto primo grande peccatore e traditore tra gli angeli. Di altrettanta valenza morelliana sono “La Battaglia di Legnano”, “La Battaglia di Benevento”, dell’inizio degli anni Settanta e i dipinti di argomento dantesco, come “La Barca di Caronte” (del 1857) e “Piccarda Donati”. Esposta alla Mostra Nazionale di Roma del 1883, “La Battaglia di Legnano”, realizzata tra il 1857 e il 1862, rappresenta il celebre episodio relativo alla vittoria conseguita nel 1176 dalla Lega lombarda sull’esercito di Federico Barbarossa. Sulla grande tela ad olio (le cui dimensioni sono di cm 102,5x210), Federico è raffigurato in primo piano mentre l’impianto compositivo si staglia lungo uno squarcio orizzontale, dividendo il dipinto in due parti uguali: in alto il veridico e drammatico cielo sovrasta la scena della battaglia, mentre in basso Barbarossa viene rappresentato come un eroe anche nel momento della sua sconfitta. Un altro magnifico olio su tela risulta essere il dipinto “La Bat-
taglia di Benevento”, databile presumibilmente attorno al 1870. La monumentale opera (cm 211x242) veniva commentata nel 1927, in un excursus sulla pittura di Cefaly, dal critico Vincenzo Vivaldi che a tal proposito scriveva: “i gruppi sono varii e bene armonizzati; le diverse figure magistralmente ricercate ed esprimenti ciascuna un sentimento particolare; le tinte forti e rispondenti al soggetto; la luce bene distribuita [...]; ma in questo dipinto v’è la figura di Manfredi, disegnata nel mezzo, che richiama tutta la nostra attenzione”. Lo storico considera quanto addirittura fosse stato fedele l’artista nel raffigurare Manfredi, prossimo a ricevere un’ulteriore ferita al petto, in base a quelli che erano i versi danteschi: “Biondo era e bello e di gentile aspetto”. La figura del re che combatte a piè sospinto, seppur ferito a morte, campeggia al centro del quadro, occupando il primo piano della composizione in proporzione maggiore rispetto ai combattenti retrostanti. Della stessa grandezza sono invece le figure dei cadaveri a sinistra e dei guerrieri a destra, più in basso. La figura di Manfredi risulta
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quindi molto più evidente ed incisiva a tal punto che lo stesso Vivaldi commenta: “produce così profonda impressione questo Manfredi, il quale pure mortalmente ferito combatte da leone, che voi per un momento dimenticate tutto il resto e vi obliate interamente in lui”. All’Esposizione Generale di Torino del 1884 era in mostra un’altra straordinaria opera di Cefaly: “Chi compra Manfredi?”. Questo dipinto si rifà ad un episodio della battaglia di Benevento, isolandone quello che il maestro di Cortale considerava uno dei più drammatici passi del conflitto. L’artista propone nuovamente lo schema compositivo dell’opera antecedente, dove l’impatto con il protagonista della scena era molto più forte, rispetto ai personaggi retrostanti, a causa delle incrementate proporzioni di gran lunga maggiori in relazione al resto delle figure presenti nella composizione. Di fatti Cefaly pone il nucleo della raffigurazione su un’altura rispetto al punto di vista dell’osservatore (così come aveva fatto nella Battaglia di Benevento) creando uno schema compositivo piramidale. Il profanatore del cadavere del re, trasportato sulla groppa di un asino di squisito naturalismo palizziano, sta per essere colpito con un bastone dall’armigero sulla sinistra. “Le figure, poche, ma disegnate stupendamente sono di un’evidenza meravigliosa: e all’armonia dell’insieme concorre la campagna, rappresentata brulla ed arsa, ed un lembo di cielo, che si stende meravigliosamente su quella triste scena” (Vincenzo Vivaldi). Nel panorama di quello che è stato definito il Realismo Letterario di Cefaly troviamo un intero filone dedicato alla letteratura dantesca: si tratta delle interpretazioni pittoriche ispirate ai versi della Divina Commedia.
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In grande: A. Cefaly “La Battaglia di Benevento” 1870 - olio su tela 211x242 cm. In alto: A. Cefaly “Chi Compra Manfredi?” 1870(?) olio su tela 161x243 cm.
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In alto: A. Cefaly “La Barca di Caronte” 1857 - olio su tela 61x125 cm. In basso: A. Cefaly “Piccarda Donati” olio su tela 143x108 cm. Pagina successiva in alto: A. Cefaly “Autoritratto in Divisa Garibaldina” olio su tela 45x58 cm. In basso: A. Cefaly “La Madonna dell’Uva” 1903 - olio su tela 103x76,5 cm.
“La barca di Caronte” è uno dei maggiori ed emblematici esempi di questa meravigliosa tendenza narrativa del maestro di Cortale. L’artista si sofferma a dipingere con acuta precisione ogni più piccolo dettaglio descrittivo, rimanendo incredibilmente fedele ai versi del III Canto dell’Inferno dantesco. Alla nostra destra Caronte è ripreso nell’atto di tormentare le anime dei dannati con pesanti colpi di remo (“Caron dimonio, con occhi di bragia, loro accennando, tutte le raccoglie; batte col remo qualunque s’adagia”; Canto III, vs. 109-111) mentre i suoi occhi fiammeggianti fissano le figure di Dante e Virgilio sulla riva dell’Acheronte. “Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: «Guai a voi, anime prave! […]»” (Ibidem, vs. 82-84), allo stesso modo lo spettatore assiste all’arrivo della barca e, immerso dalla cupa atmosfera del dipinto, si ritrova catapultato in prima persona all’interno della composizione. La scena è immersa in una luce rossastra mentre il vento increspa le onde e travolge le anime dannate (ivi compresa la folta capigliatura del crucciato traghettatore), in basso a sinistra il corpo di Dante giace privo di sensi ai piedi dell’amato maestro Virgilio. “La terra lagrimosa diede vento, che balenò una luce vermiglia la qual mi vinse ciascun sentimento; e caddi come l’uom cui sonno piglia” (Ibidem, vs. 133-136). Altro soggetto dantesco è quello della tela “Piccarda Donati”, attualmente conservata all’interno del Museo Provinciale di Catanzaro. L’opera, di difficile datazione, è racchiusa in una cornice a tema modellata a sbalzo dallo stesso Cefaly (per un totale di cm 143x108). Dante incontra Piccarda Donati nel III Canto del Paradiso, in quello che potremmo definire il Primo
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Cerchio dei Beati. Il protagonista si trova dunque nel Primo Cielo, il Cielo della Luna, che appare in eclissi sullo sfondo. Nonostante in questo primo cerchio le anime perdano la propria consistenza corporea, Piccarda, ancora legata ad una timida passionalità terrena, viene rappresentata con le sembianze formose di una donna eccezionalmente aggraziata. Un mirabile espediente, insomma, con cui l’autore riesce a raffigurare la controversa personalità di un’anima beata, meritevole del Paradiso malgrado il suo delicato attaccamento alla vita terrena. Mediata dalla lezione di stampo paesaggistico di Filippo Palizzi è tutta una produzione di altre opere di Cefaly quali le graziose scene di genere o di vita quotidiana, il repertorio garibaldino e la ritrattistica. Elementi di particolare estro naturalistico sono di fatto riscontrabili nell’olio su tela intitolato “Autoritratto in Divisa Garibaldina” (cm 45x58). Il gusto del dettaglio descrittivo e lo studio minuzioso dell’animale, protagonista della scena al pari del proprio cavaliere, si combinano in una straordinaria formula cromatica di stampo macchiaiolo. La storiografia artistica ha sempre sottolineato una sorta di disinteresse da parte di Andrea Cefaly verso la pittura di ispirazione religiosa, o meglio una sua poco convinta adesione alle istanze che questa richiederebbe. Tuttavia egli recuperò tale produzione artistica riscattandola non tanto attraverso quello che poteva essere un saldo concetto religioso o ascetico, quanto piuttosto per il forte sentimento umano di cui le sue opere erano intrise. Siffatto interesse nei confronti del passato, proteso verso un particolare criticismo ed una concreta volontà revisionistica, è stato comunque manifestato nella splendida tela ad olio di cm 103x76,5 intitolata “La Madonna dell’uva” (databile attorno al 1903), tutt’ora custodita nel Museo Provinciale di Catanzaro. Questa tela presenta così chiari riferimenti all’arte del Seicento da non stupire se, in un futuro, si rivelasse un vero e proprio rifacimento ispirato ad un qualche originale dell’epoca summenzionata. L’Immacolata Maria è qui rappresentata in abiti popolani, i capelli incolti sotto un foulard verde. Sulla sinistra il piccolo Messia offre un grappolo d’uva al Giovannino che, con un delicato gesto della mano, si avvicina agli acini succosi. Tutta la scena è talmente carica di un così forte sentimento umano che, se non fosse per la presenza degli elementi iconografici sacri, potrebbe tranquillamente rimandare ad un episodio quotidiano di vita popolare. Al pari dell’operato pittorico del maestro Cefaly l’opera di Francesco Jerace afferma se stessa in tutto il suo splendore attraverso le magnifiche composizioni in gesso tutelate all’interno della Gipsoteca del Palazzo della Provincia di Catanzaro. Artista altissimo, Francesco Jerace diede prova del suo ingegno e della sua arte al mondo intero da Napoli a Londra, da Madrid a Varsavia, da Odessa ad Atene sino a raggiungere persino Bombay. Nutrito dall’estetica classica, il suo lavoro risulta allo stesso tempo vigoroso e fresco,
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Pagina precedente in grande: “La Carità” (particolare). In alto a destra: F. Jerace “Resurrezione di Lazzaro” 1885 - bassorilievo in gesso. In questa pagina in alto a sinistra: F. Jerace “La Carità” 1885 - bassorilievo in gesso.
caratterizzato da un’ardita vena romantica. Jerace nasce a Polistena nel 1853 e porta avanti i suoi studi all’Istituto di Belle Arti di Napoli, dove stringerà una solidale amicizia con Andrea Cefaly e si guadagnerà l’ammirazione e il rispetto di Saverio Altamura e Tommaso Solari. L’impressione che scaturisce dalla valutazione delle sue opere è soprattutto quella di una vita artistica e umana dai caratteri forti e ben delineati. La notorietà e la moda dell’epoca lo renderanno di fatto un personaggio artistico di grande fama e di notevole rilievo nell’ambito dell’arte monumentale. Da questa scultura destinata a piazze e ville, piuttosto che a più riposti vestiboli, si svilupperanno, attraverso un linguaggio plastico-figurativo di proporzioni grandiose, gli elementi distintivi e caratteristici dell’opera di Jerace. La scultura del maestro Jerace è di lettura facile, piana e immediata. I suoi busti, i suoi ritratti o i suoi monumenti sono tranquillamente godibili senza alcuna mediazione critica e senza che avvenga una qualche ricostruzione storica di ciò che è rappresentato. L’iconografia è di facile comprensione, immediata ed essenziale. Ne sono, infatti, dei validi e lampanti esempi i modelli in gesso realizzati per il monumento funebre del Console Elvetico Oscar Meuricoffre. Il Palazzo della Provincia custodisce due modelli in gesso realizzati nel 1885 come studio per il bassorilievo attualmente riportato sulla Tomba del Vecchio Cimitero Britannico a Napoli. Si tratta della “Resurrezione di Lazzaro” e “La Carità”. In questa prima opera il Cristo, commosso per la morte dell’amico, viene rappresentato col capo chino volto ad ascoltare le suppliche di una delle sorelle di Lazzaro, Maria, inginocchiata ai suoi piedi. Sullo sfondo i Giudei osservano perplessi la scena mentre Marta, sorella di Maria e amica di Gesù, mostra l’ingresso del sepolcro ove è seppellito l’amato fratello. La scena, magistralmente scolpita, è di una tale
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chiarezza iconografica da far pervenire alla mente le parole del Vangelo. «Maria, dunque, quando giunse dov’era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: “Signore se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”» (Gv 11, 32). Di eccezionale carisma è la donna velata che simboleggia una delle tre Virtù Teologali: trattasi del bassorilievo di formidabile lavorazione intitolato “La Carità”. A differenza dell’iconografia classica, suggerita da Cesare Ripa, la carità di Jerace non viene rappresentata con in grembo tre fanciulli ma con uno soltanto. Il neonato assurge il latte dal seno destro, così come vuole la tradizione e tuttavia, a sinistra della caritatevole dama, un umile viandante, curvo sul proprio bastone, stringe un tozzo di pane offertogli dalla donna. Due angeli, che con buone probabilità simboleggerebbero le altre due Virtù Teologali (Fede e Speranza), si collocano sullo sfondo del bassorilievo a giudizio della scena. Significativa è l’incisione sulla sinistra dello spettatore, proprio sotto l’ala di uno dei due angeli è infatti riporta la scritta latina “Uno num Amor”: «è forse l’amore per uno soltanto?». Altra magistrale opera, di proprietà della famiglia Meuricoffre, è il Camino in marmo del Salone della «Villa La Fiorita» (1875) di cui se ne conserva, all’interno del Palazzo Provinciale, un frammento del modello in gesso. Si tratta di una delle due colonne laterali del camino e rappresenta una la ninfa Siringa, seguace di Artemide. La si riconosce facilmente grazie alla presenza iconografica del flauto di Pan e del flauto doppio di canna. Secondo il mito, infatti, il dio Pan si innamorò perdutamente della Ninfa che, per sfuggirgli, scappò fino alle rive del fiume Ladone ove invocò l’aiuto delle Naiadi che la tramutarono in un fascio di canne palustri. Il dio, udendo il sublime suono dei fuscelli al vento, raccolse i fusti e li utilizzò per costruire uno nuovo strumento musicale al quale diede, in ricordo dell’amata, il nome di Siringa.
A destra in grande: F. Jerace «Frammento del Camino del Salone di “Villa La Fiorita”» 1875 - bassorilievo in gesso. Pagina successiva: F. Jerace “Fanciullo con Angelo” 1900 - modello in gesso, opera scultorea a tutto tondo.
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Pagina successiva a sinistra: F. Jerace “S. Francesco di Paola” 1924 - modello in gesso, opera scultorea a tutto tondo. A destra: F. Jerace “Madonna del Rosario” 1930 - modello in gesso, opera scultorea a tutto tondo.
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Del 1900 è lo studio in gesso realizzato per il gruppo statuario in marmo destinato alla Cappella della Famiglia Greco nel cimitero di Cosenza. L’aggraziata figura androgina dell’angelo tiene tra le braccia un ragazzo che, sereno nell’attimo della propria morte, si lascia trasportare dalle divine ali verso la luce celeste. D’incredibile freschezza è il modello in gesso del “San Francesco di Paola”, realizzato nel 1924 per l’Altare della Basilica di Santa Maria dell’Olmo (Cava dei Tirreni). Anche in questo caso l’immediatezza nella riconoscibilità iconografica del soggetto è lampante. Il santo, incappucciato nel proprio saio, si erge maestoso e umile nel contempo dinnanzi allo spettatore, appoggiato al proprio bastone da eremita, la barba lunga e fol-
ta, lo sguardo rivolto al cielo. Delicato e sinuoso è lo studio in gesso per la statua della “Madonna del Rosario”, realizzata nel 1930 e destinata alla Chiesa del Rosario di Cittanova (Reggio Calabria). La Vergine madre sostiene amorevolmente il pargolo tra le braccia e, calpestando la serpe fedifraga, lo protegge dalle insidie del maligno. Nonostante la mancanza di elementi simbolici eclatanti quali, ad esempio, paramenti sacri, aureole o angeli, l’allegoria è inequivocabile. Le rose, finemente abbozzate e poste ai piedi della donna, sono infatti un chiaro segno dell’iconografia ecclesiastica e sono il simbolo della regina celeste, Maria, e della verginità. Unico nel suo genere è la statua in gesso raffigurante “San Ciro”, realizzata nel 1936. L’opera compiuta era destinata alla Chiesa del Gesù Nuovo a Napoli ma, purtroppo, non fu mai portata a termine e scolpita nel marmo a causa della morte del maestro Jerace, sopraggiunta nel 1937, per cui è rimasto solo il modello in gesso conservato all’interno del Palazzo Provinciale che ne detiene l’unica copia esistente. Il Santo è inginocchiato sull’arida terra del suo paese natio, Alessandria d’Egitto, volge il capo al cielo, folgorato dalla luce divina. Sappiamo dalla tradizione che San Ciro era un medico valente che, praticando l’arte della medicina senza richiedere alcuna ricompensa in cambio, si guadagnò l’appellativo di medico anargiro, cioè senza argento. Purtroppo, a causa delle persecuzioni dell’imperatore Diocleziano, il santo fu costretto all’eremitaggio in terre arabe dove, in piena solitudine, poté dedicarsi totalmente alla preghiera e alla meditazione, dando origine a quella forma di vita monastica di cui, in seguito, Sant’Antonio Abate sarà considerato il fondatore. Jerace rappresenta il santo con semplicità, attribuendogli simbologie chiare e di facile lettura o comprensione. Il medico anargiro porta con sé un crocifisso, similare al bastone da eremita o al labaro spesso utilizzati per raffigurare San Giovanni Battista. Ai suoi piedi una sacca, contenente alcune pergamene arrotolate, simboleggia iconograficamente la scienza medica di cui il santo era profondo conoscitore. Tutte queste opere, attualmente conservate ed esposte nel Palazzo della Provincia di Catanzaro, verranno presto collocate in una sede più adeguata, il Museo delle Arti di Catanzaro (M.AR.CA.). Articolato su circa 2000-2500 metri quadri, il M.AR.CA. aprirà presto e l’inaugurazione è prevista a marzo del 2008. Il progetto, curato dall’Assessore Provinciale alla Cultura Maurizio Rubino, prevede l’allestimento risolutivo della Pinacoteca e della gipsoteca provinciale della città. Il museo sarà strutturato su tre diversi piani, ognuno dei quali avrà il proprio spazio espositivo delineato. Nel primo piano verranno collocati i dipinti più illustri, appartenenti alle personalità artistiche di maggiore spicco nel territorio calabro. Verranno infatti esposti i dipinti di Andrea Cefaly, Mattia Preti, Battistello Caracciolo ed alcune rarità attribuite ad Antonello da Messina e Salvator
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A destra: “Madonna del Rosario” (particolare del volto). Pagina successiva: F. Jerace “San Ciro” 1936 - modello in gesso, opera scultorea a tutto tondo, in basso particolare del piede.
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Rosa. Inoltre sarà previsto, sullo stesso piano, un vasto percorso espositivo sull’operato scultoreo di Francesco Jerace. Il secondo piano includerà un allestimento permanente della Collezione, per lo più monumentale (trattasi di grandi lamiere di metri 6X3), delle opere di Mimmo Rotella, artista contemporaneo d’avanguardia di origini catanzaresi. Il terzo piano, denominato “MARCA UNDERGROUND”, sarà dedicato ad esibizioni temporanee di mostre a tema sull’arte contemporanea, il teatro, il cinema, l’arte performativa (performances) e quant’altro. Sono inoltre previsti due punti ristoro ed un bookshop per cataloghi ed eventuali souvenir. Altra importante struttura, inaugurata nella primavera del 2007, è il Museo Storico Militare Provinciale “Brigata Catanzaro” ubicato all’interno del grande parco cittadino, il Parco della Biodiversità Mediterranea. Il MUSMI nasce dalla volontà di lasciare aperta una finestra sugli eventi del passato, da quelli più lontani e romantici dell’epoca napoleonica e risorgimentale a quelli più recenti e tragici risalenti al periodo dei due grandi conflitti mondiali. Una visita al museo diviene quindi l’occasione ideale per rivivere, attraverso immagini, cimeli, armi e divise, centocinquanta anni di storia. Tra corazze, cimieri, divise, sciabole e armi da fuoco, un forte senso di commozione e
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drammaticità pervade il suggestivo scenario storico-militare. Al riguardo l’Assessore alla Cultura Maurizio Rubino ha dichiarato: «In una più generale e complessa politica di promozione culturale, la realizzazione del MUSMI assume un ruolo importante per le sollecitazioni che reca alla nostra memoria e alle nostre coscienze. La sua presenza, affianco alle tante altre iniziative di questo assessorato, tese a valorizzare la creatività dei nostri giorni, è un modo per ribadire con forza come sia necessario ed opportuno possedere la consapevolezza del passato per apprezzare con pienezza il presente e guardare con più responsabilità al futuro». In questo senso l’apertura del MUSMI è un segnale positivo di maturazione e di progresso, non soltanto per il valore intrinseco delle risorse che ogni raccolta museale preserva e tutela, ma anche per le potenzialità di cui ogni nuova istituzione culturale si fa portatrice in termini di quella che potrebbe essere una nuova ipotesi di formazione al servizio delle generazioni a venire. Ben congeniato su una vasta planimetria articolata su due piani, il MUSMI si suddivide secondo un prospetto storico ben preciso. Il primo piano della struttura ospita il filone di epoca napoleonica e risorgimentale, mentre il secondo piano è indirizzato al periodo delle due guerre mondiali. Il complesso museale consta inoltre di una sala conferenze, book-shop, uffici e servizi. Nell’area dedicata all’era napoleonica è possibile ammirare corazze, divise, elmi, medaglie al valore ed armi da combattimento del XVIII e XIX secolo. Un esempio fra tutti lo Shako da ufficiale superiore del 5° Reggimento, fanteria di linea, che prese parte alle battaglie di Wagram, Valencia e Waterloo. Alto e robusto, il modello 1812 non presenta chevrons di rinforzo e cordoni intrecciati ornamentali, in quanto furono aboliti con il decreto del 9 novembre del 1810. Tuttavia la visiera risulta consolidata da un compatto bordo in ottone. Trattandosi di un copricapo da ufficiale, i soggoli si presentano a scaglie fini in ottone dorato mentre sulla placca frontale è stata applicata un’aquila coronata che sovrasta adagiata uno scudo semicircolare su cui è riportato il numero del reggimento. L’imponente pennacchio, abolito per truppa, sottufficiali e ufficiali subalterni, rimase in uso solo per gli ufficiali superiori. Di epoca risorgimentale è la splendida Sciabola della Guardia d’Onore Borbonica, dalla lama leggermente curva ad un solo filo e con punta a falso filo, sezione triangolare. La guardia dell’elsa risulta essere a tre rami mentre l’impugnatura è in bronzo scanalato. Il fodero, in metallo, consta di due campanelle e di un puntale crestato. La guardia d’onore borbonica, a reclutamento volontario, fu creata il 30 maggio 1833 ed era addetta esclusivamente al servizio di scorta del re e della famiglia reale. Il personale doveva fornirsi a proprie spese di tutto l’equipaggiamento, compreso il cavallo, ma era esentato dal servizio militare. Il Corpo comprendeva 18 squadroni, di
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Pagina precedente: modello in gesso per il monumento a Gabriele Pepe, Jerace 1913. A sinistra: “L’Italia Napoleonica” MUSMI ala ovest, piano terra.
cui 14 provinciali e 4 siciliani, che si distinguevano dal colore di mostreggiature e copricapo, amaranto per i provinciali, blu per i siciliani. Si tratta di un tentativo ben riuscito, da parte della monarchia borbonica, di legare alla casata alcune classi sociali adeguatamente selezionate, quali media ed alta borghesia nonché la piccola nobiltà. Innumerevoli furono gli arruolati, nonostante le molteplici e differenti motivazioni, ed a sostegno di ciò e dell’affetto per questo Corpo è esemplare che ancora oggi i materiali di equipaggiamento ad esso relativi siano i più numerosi da reperire, avendo superato indenni la ventata reazionaria del 1860 che comportò la quasi totale distruzione di tutti gli equipaggiamenti militari borbonici. Risalente alla prima guerra mondiale è la Divisa da Sergente della Brigata Catanzaro. La divisa presenta il caratteristico colore bigio che accompagnerà il soldato italiano attraverso i due grandi conflitti mondiali. Databile intorno alla fine del 1915, l’uniforme si compone di una giubba con collo alla coreana (modello 1909) e di un paio di pantaloni di panno. La casacca non presenta
tasche esterne, ha la bottoniera coperta, risvolti delle maniche a punta, mostrine regolamentari con i colori della brigata e stellette in metallo bianco. I pantaloni, provvisti di tasche oblique ai lati e sagomati al polpaccio, sono chiusi alla caviglia da fettucce mentre gli scarponcini in cuoio marrone sono muniti di chiodature e rinforzati lateralmente per favorire la marcia in montagna. L’elmetto Adrian, di colore grigio-verde, è ancora di produzione francese. Magistralmente riprodotta e di forte impatto visivo e psicologico è la ricostruzione di una postazione di trincea. La Grande Guerra fu infatti combattuta secondo gli schemi di una strategia innovativa che imponeva ripetuti attacchi nei confronti del nemico tramite bombardamenti dell’artiglieria e ripetuti assalti della fanteria. In tal modo, chi fosse riuscito a rompere il fronte avrebbe avuto un vantaggio incalcolabile nell’affondare il colpo risolutivo ai fini della vittoria. Gli attacchi avvenivano in modo regolare su tutti i fronti attraverso bombardamenti insistenti effettuati dall’artiglieria. Terminato il bombardamento, la fanteria usciva
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A destra: “Cavalleria Francese” riproduzione in scala della Battaglia di Waterloo. In basso: “La Grande Guerra” ricostruzione fedele di un accampamento militare di trincea.
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dalle trincee e assaliva lo spazio che la divideva dal proprio avversario, nel tentativo di riuscire ad aprirsi una breccia in quello che era la difesa di fuoco delle mitragliatrici nemiche. Questo ripetitivo schema, impartito alle truppe nell’effettuare tali assalti, comportava perdite umane elevatissime. Gli uomini che vivevano all’interno della trincea, oltre a sottostare ad una ferrea disciplina militare, furono costretti ad adattarsi ad uno stress psicologico devastante. A detta di Padre Agostino Gemelli “il soldato in trincea pensa poco, perché vede assai poco, pensa sempre alle stesse cose. La sua vita mentale è assai ridotta, niente la alimenta”. I soldati di trincea, angosciati da costanti preoccupazioni, rimanevano concentrati sulla battaglia domandandosi quando sarebbe avvenuto il prossimo assalto e a chi sarebbe toccato di morire.
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UN MUSEO PER Giuseppe RitO
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Giancarlo Chielli
L’episodio più romantico e insieme più struggente della biografia di Giusepe Rito è sicuramente quello di lui giovanetto e povero che, volendo realizzare un pennello, tagliò la coda dell’asino e con i peli dell’animale legati a un legnetto creò il suo primo strumento d’artista. Molto spesso, i biografi attingono con brani più o meno romanzati ad alcuni frammenti della vita di un’artista, per sottolinearne attitudini e capacità. Ancora oggi molti ricordano l’episodio del cerchio di Giotto sotto lo sguardo stupito di Cimabue, ma non è dato di sapere se un simile episodio si sia mai verificato: quello che conta, per il biografo, è tratteggiare una figura, attribuirle una personalità. Ma l’episodio del pennello di Giuseppe Rito potrebbe anche essere vero, perché intriso di quella povertà che sicuramente caratterizzava tutto l’entroterra calabrese dei primi del novecento. Una storia fatta di povertà e di essenzialità, dove il fare arte veniva vissuto come una disgrazia, perché le bocche da sfamare erano tante e le braccia servivano per i campi o per contribuire al bilancio familiare. Ma in quell’episodio del pennello si scorge il carattere di Rito, il suo fare testardo, il rischio di chi, sapendo di andare incontro a guai sicuri, ostinatamente, persegue una vocazione, un credo. La Scuola d’Arte di Monteleone che Giusepe Rito frequentò nel 1922 dimostra la sua capacità di imporsi alla famiglia, che ripagò grazie a un impegno che lo vide assai considerato durante gli studi futuri all’Accademia di Belle Arti di Napoli, allora capitale dell’arte in Italia meridionale. Si è indagato poco in questo senso e sarebbe interessante cogliere i primi debiti formativi di Giuseppe Rito, soprattutto nei confronti di quei docenti, Chiurazzi in primis, proprietario della più importante fonderia monumentale in meridione e splendido riproduttore di opere classiche richieste, allora, in tutto il mondo. È là, in quella immensa fonderia che contava allora più di 600 operai, che il giovane di Dinami avrà sicuramente appreso i rudimenti del mestiere che lo porteranno a realizzare, anni dopo, lo splendido Gruppo di Giustizia e Libertà e la monumentale Statua del Cavatore. Un docente che sicuramente ebbe una qualche influenza su Giuseppe Rito fu
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Lionello Balestrieri, allora Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Napoli: questi partecipò alla Biennale di Venezia del 1926 attirando su di sé le simpatie di quanti, al Sud, vedevano di buon grado la sua volontà di rinnovamento delle forme e della didattica. Altro artista importante per capire gli esordi di Giuseppe Rito è Francesco Jerace, di Polistena, anche lui a Napoli nel periodo della formazione di Rito: li accomunava la stessa provenienza geografica, ma non sicuramente lo stesso conflittuale rapporto con la terra d’origine e la famiglia, visto che Francesco Jerace discendeva da una famiglia di artisti. Sarebbe importante per gli studi sulla Storia dell’Arte in Calabria capire l’influenza di Jerace nella prima produzione artistica di Rito. Quali assonanze, quali divergenze e, in ultimo, quale bagaglio di esperienze e conoscenze artistiche si portò a Milano Giuseppe Rito, dove risiedette negli anni trenta e per ben dieci anni. Una Storia esaustiva di Giuseppe Rito che indaghi i rapporti tra l’artista e l’ambiente napoletano prima e milanese dopo non è stata scritta. Solo approfondendo l’analisi del contesto formativo è possibile comprendere quella rivoluzione plastica degli anni cinquanta basata sul “rigato”, anche attraverso lo studio delle splendide immagini inedite pubblicate in questo catalogo. La fortuna critica di Giuseppe Rito, ancora là da venire, fa sì che ancora oggi, nonostante siano evidenti le sue qualità, una critica calabrese distratta relega l’operato del maestro di Dinami a pochi e accorati inviti a “fare qualcosa” da parte di chi lo conosceva, cercando sempre nell’operato della Regione Calabria un partner a cui affidare il “riposizionamento critico” dell’artista. Personalmente, studio da un paio di anni l’opera di Rito e all’interno del mio corso di Beni Culturali e Ambientale, qui a Catanzaro, ho avviato studi specifici sulla figura del maestro, curando una ricerca per l’esame del corso di specializzazione in Beni Culturali all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro su Giuseppe Rito (studente Marcello Cua), una tesi di laurea discussa nel giugno 2007 da Teresa Esposito dal titolo “Giuseppe Rito scultore calabrese”; infine, l’incarico affidato al prof. Antonio Cilurzo, docente di fotografia, di fotografare le opere dell’artista, pubblicate a corredo di questo mio contributo. Naturalmente, si tratta solo di un timido punto di partenza per cominciare a raccogliere materiale, testimonianze e contributi, allo scopo di collocare Giuseppe Rito all’interno della Storia dell’arte calabrese e, più in generale, per proporre un ripensamento sulla attualità e la contemporaneità di Giuseppe Rito nel contesto della produzione artistica italiana degli anni cinquanta e sessanta. La modernità dell’operato di Rito, trovo, vada ben al di là dell’effetto plastico del rigato, tratto distintivo che rischia di limitare l’artista, invece che di comprenderlo a pieno. Per una
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più profonda comprensione della produzione artistica di Giuseppe Rito, occorre ripensare al significato più generale della ricerca plastica nel dopoguerra e riflettere sul ruolo che la scultura ebbe nel formarsi di una nuova coscienza estetica, quella che nacque negli anni cinquanta. È noto come, dal secondo dopoguerra in poi, l’arte della scultura entrò in crisi. Le spinte informali di Burri e degli americani e via via il susseguirsi di tendenze artistiche – dal concettuale Piero Manzoni alla Pop Art di Andy Wharol – portarono la ricerca artistica a confrontarsi più con la pittura e con tutte le sue declinazioni che non con la scultura. Scorrendo qualsiasi manuale di arte contemporanea non si può fare a meno di notare come la pittura abbia rappresentato il vero campo di confronto dell’arte: non c’è rapporto tra il numero di artisti pittori e quello degli artisti scultori. E ancora oggi, la scultura fatica a ritrovarsi tanto che, del concetto originario di plastica, si realizza ben poco, sacrificata la scultura sull’altare della installazione che, di scultoreo e di plastico ha ben poco se non il rapporto con lo spazio. Per questo lo splendido isolamento di Giuseppe Rito, chiuso in un contesto impermeabile al nuovo – New York era, negli anni sessanta, molto distante per gli artisti calabresi – consente di capire la modernità del pensare alla scultura non come arte che in un qualche modo celebra, ma come riflessione sui concetti di materia/luce/spazio, concetti che portarono Giuseppe Rito a una nuova concezione del classico che niente ha a che fare con lo stile freddo e ripetitivo del neo classicismo. L’opera di Giuseppe Rito, erede della grande tradizione magno greca, è autenticamente intrisa di quei valori che consentirono nel V secolo a.c. la formazione di un linguaggio originale, non copiato, ma inventato, in un nuovo rapporto di mimesi con la Natura: il linguaggio di Fidia, per intenderci. Là, nel maestro greco, c’era la tecnica del “panno bagnato” che, attraverso il modellato delle vesti, creava un volume con un forte impatto chiaroscurale. Qui, in Rito, il volume e il chiaroscuro è ottenuto con il rigato: ad entrambi però non interessa l’effetto decorativo in quanto tale, ma interessa come la forma prende vita con la luce, e come l’artista demiurgo può definire i confini della nostra immaginazione, di quello che noi possiamo percepire come volume, come forma: quella forma che, in Giuseppe Rito, può essere indifferentemente un Pinocchio o un ritratto. Gli artisti negli anni sessanta si interrogavano sul significato del ruolo dell’artista nell’arte, Rito si interroga sul ruolo dell’arte nell’arte o meglio, del modellato nella scultura. I riferimenti colti sono sicuramente individuabili in una riflessione sull’opera di Medardo Rosso, come si evince da alcune sculture presenti nel catalogo. Proprio in queste opere inedite di Rito concesse al pubblico grazie alla sensibilità degli eredi, si nota la volontà di cogliere
l’attimo fuggente, il fare sospeso della figura, l’intimità dell’anima. Se Medardo Rosso predilige, come è noto, la tecnica della scultura a cera la quale, non trattenendo la luce, suggerisce un modellato appena accennato – giusto l’indispensabile per individuare un sorriso, gli occhi ridenti, il candore delle guance – Giuseppe Rito è maestro nella modellazione della terracotta che da materiale povero viene nobilitato attraverso la sapiente miscela di chiaroscuri, sempre nell’ottica – ed è qui la vera assonanza con Medardo Rosso – di un impressionismo visivo che suggerisca non solo Forme ma anche Storie dietro quelle Forme. Ma i due riferimenti sopra descritti – il rapporto con il classico di Fidia e con l’impressionismo di Medardo Rosso – possono essere solo un punto di partenza per approfondire l’opera di Giuseppe Rito che quindi và studiato e protetto: lo straordinario numero di opere disseminate sul territorio và catalogato e inventariato. Da sempre si sente, visitando gli studi di artisti della Calabria, “ho un Rito”. È tempo che i precetti di Legge per le opere di ingegno di autori morti negli ultimi cinquant’anni possa trovare applicazione per tutelare quei “beni culturali testimonianze materiali avente valore di civiltà” rappresentati dalla eccezionale quanto feconda attività dell’artista catanzarese d’adozione onde prevenire quanto già successo in altri luoghi: la dispersione delle opere in collezioni private italiane e straniere. La mia proposta, in quanto docente di Beni Culturali presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, è l’acquisizione delle opere del maestro da parte del Comune e della Provincia di Catanzaro e della Regione Calabria, al fine di costituire la prima collezione permanente di scultura del MAC, il Museo di Arte Contemporanea dell’Accademia di Catanzaro. Giuseppe Rito era uno di noi: ha studiato all’Accademia, lì si è formato e se non vi ha insegnato è solo perché a Catanzaro, in quegli anni, non c’era l’Accademia. Sono cosciente che i tempi non possono essere brevi anche perché bisogna, in primis, avere la disponibilità degli eredi aventi diritto. Ma un primo passo concreto può essere rappresentato da una esposizione permanente delle opere di Giuseppe Rito all’interno di una Istituzione importante della città – Comune o Provincia – a seguito della mostra che, come corso di Beni Culturali, abbiamo in programma nel 2008. Catanzaro ha celebrato, giustamente, Mimmo Rotella, un figlio della Città che ha avuto fortuna nel mondo. Ma avrebbe avuto la stessa fortuna, Mimmo Rotella, se avesse deciso di rimanere a Catanzaro? Non ci sono dubbi. Anche se la Storia non si fa con i se e con i ma, è evidente che la poetica di Rotella non sarebbe stata compresa dai conterranei e non ci sarebbe stato l’artista Mimmo Rotella così come oggi lo conosciamo. Giuseppe Rito ha scelto di rimanere fedele alla sua terra, una scelta che, per un artista
In apertura: Giuseppe Rito “Pinocchio” Terracotta, altezza 120cm. A sinistra: foto di Giuseppe Rito.
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di talento, comporta sacrifici e oblìo. Catanzaro ha celebrato Rotella perché altri hanno individuato nel maestro catanzarese innovazione e capacità: la città di Catanzaro è intervenuta a fama già acquisita. Non è una colpa della città, sia chiaro. Altri tempi, altra cultura, che non hanno impedito a Mimmo Rotella di conservare però sempre affetto e amore per la città natale, tanto da creare una apposita Fondazione, tanto da farsi seppellire a Catanzaro, nonostante a Milano l’Accademia di Brera gli attribuisse il massimo degli onori per un’artista: la camera ardente all’interno della Sala Napoleonica del Palazzo di Brera. Catanzaro ha la possibilità – in un’ottica di recupero dei veri valori e del significato originario di Bene Culturale – di fare oggi per Giuseppe Rito quello che altri hanno fatto in passato per Rotella: sottolinearne la modernità e l’importanza nel panorama artistico italiano del ‘900 attraverso l’istituzione di un Museo che salvi l’opera omnia del prolifico artista calabrese. L’opera di Rotella è grande, ma non compresa dai più, siano essi abitanti di Catanzaro o meno, perché cerebrale, innovativa, in poche parole, per l’utilizzo di soggetti e tecniche, contemporanee. L’opera di Giuseppe Rito è compresa dal territorio che vede, nella sua arte, le proprie radici, il proprio passato, la propria Storia: ovvero quelle testimonianze materiali ma anche “immateriali” aventi valore di civiltà che rappresentano la specificità unica di un territorio. Un Museo per Rito quindi o, meglio, Il Museo dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro a Giuseppe Rito: il passato prossimo della ricerca d’arte contemporanea in Calabria e il futuro prossimo della ricerca artistica garantito dalla passione degli studenti. Un progetto di grande importanza per l’Accademia, per il suo Museo, per la Città di Catanzaro. Agli eredi, che tanto cortesi sono stati nel consentirci di fotografare e quindi studiare l’opera del maestro – a cui va la mia personale gratitudine – dedico quanto Cesare Mulè scrisse a proposito della donazione che Donna Rosa Jerace volle fare dei gessi di Jerace a Catanzaro. La discoperta di una antica gloria è oggi patrimonio comune di una più vasta comunità. Per questi motivi, il gesto di Donna Rosa Jerace acquista una esemplarità quasi singolare e la città di Catanzaro già legata al Maestro da vincoli di ammirazione si arricchisce oggi di deferente apprezzamento per la sua figlia che mostra di amare la Calabria tanto da donarle quanto di più caro e intimo le appartiene, spartendo il suo ricordo nella consapevolezza di avere anche così onorato, come noi oggi più ampiamente onoriamo, il suo illustre genitore.
In alto: Giuseppe Rito “Ragazzo che Gioca” Terracotta, altezza 110cm. In basso: Giuseppe Rito “Busto di Corrado Alvaro” Bronzo, altezza 60cm. Di fianco: Giuseppe Rito “L’acrobata” Terracotta, altezza 150cm.
Pagina successiva: Giuseppe Rito “Testa di Bimba” Terracotta, altezza 30cm. Pagina successiva in alto: Giuseppe Rito “Volti” Terracotta, altezza 60cm. Pagina successiva in basso: Firma di Giuseppe Rito.
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Di fianco: Giuseppe Rito “Aiutante Muratore” Terracotta, altezza 40cm. A destra: Giuseppe Rito “I Deportati” Terracotta, altezza 40cm.
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A sinistra: Giuseppe Rito “Testa di Cristo” Terracotta, altezza 30cm. In alto: Giuseppe Rito “Contadino Ubriaco” Terracotta, altezza 30cm. In basso: Giuseppe Rito “Lo Spaccapietre” Terracotta, altezza 30cm.
Di fianco: Giuseppe Rito “Il Gatto” Terracotta, altezza 60cm.
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Esempi di produzione artistica contemporanea
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Giuseppe Funaro
La città di Catanzaro non ha un corpus di opere di arte contemporanea organico. Le opere che sono presenti in città sono molteplici e di diverso contenuto artistico e abbracciano un periodo di oltre quarant’anni, da Ugo Ortona – che venne incaricato di realizzare il mosaico nella sala della Provincia – alle ultime opere realizzate nella fortunata manifestazione denominata Intersezioni passando per le opere presenti in Comune, dove, tra i ritratti dei Sindaci dipinti da artisti locali spicca un’opera sicuramente significativa, Ludi all’entrate, opera di Alessandro Russo, un affresco di grandi dimensioni che si caratterizza per l’originalità dell’impianto e del soggetto quanto mai attuale: magistrati, vescovi, politicanti, pubblico, si confrontano su un palcoscenico mitico in quanto ideale e pertanto intriso del sapore del racconto teso a diventare Storia. Alessandro Russo è divenuto in seguito titolare della cattedra di Decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro dove svolge apprezzata attività didattica. All’Accademia di Belle arti di Catanzaro si deve il MAC, il museo di arte contemporanea dell’Accademia, un progetto che mira ad acquisire opere dagli artisti/docenti che vi hanno insegnato. Sono state realizzate sempre al complesso monumentale del San Giovanni, due importanti mostre: MAC Opere e Artisti 1973/1992 e MAC nuove acquisizioni 1993/2007 corredati da due cataloghi che indagano con un ricco repertorio di immagini l’attività dei docenti che hanno insegnato e che insegnano in Accademia. Del MAC è visibile l’opera di Enrico Bugli presente nel catalogo, esposta nei corridoi dell’Accademia. Di respiro internazionale è la manifestazione voluta e promossa dalla Provincia di Catanzaro – Intersezioni – che ha il grande merito di riproporre una usanza che da sempre caratterizza le politiche delle Province italiane: l’acquisizione di opere d’artisti contemporanei per costituire una collezione d’arte permanente. Nello specifico si è pensato ad un Parco delle sculture collocato nell’Università della Biodiversità e l’acquisizione delle opere di Mimmo Paladino, Tony Cragg, Jan Fabre, Antony Gormley, Stephan Balkenhol, Marc Quinn, Wim Delvoye collocano la città di Catanzaro all’avanguardia nelle manifestazioni riferite all’arte contemporanea.
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In apertura: Stephan Balkenhol “Uomo e Ballerina” 2006. A sinistra: Alessandro Russo “Ludi all’Entrate” olio su tela 200x400cm Palazzo delle Entrate della Calabria, CZ.
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Alessandro Russo “Imago Urbis” Affresco Palazzo del Comune, CZ (particolare).
Enrico Bugli “Senza Titolo” Accademia di Belle Arti di Catanzaro Ugo Ortona Mosaico Pallazzo della Provincia
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Sopra: Mimmo Paladino “I Testimoni” 2002.
A destra: Jan Fabre “l’Uomo che misura le nuvole” 1998. Wim Delvoye “Betoniera“ 2007 - Acciaio corten.
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Pagina precedente: Marc Quinn “Darth Vader” 2006 - Cemento. Tony Cragg “Cast Glances” 2002.
Di fianco: Antony Gormley “Seven Times” 2006.
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Mimmo Rotella da Catanzaro al mondo E RITORNO
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Guglielmo Gigliotti
Era nato a Catanzaro il 7 ottobre 1918 e, dopo la morte, avvenuta l’8 gennaio 2006, a Catanzaro, nel Cimitero monumentale, è stato seppellito, come da sua volontà. In mezzo, una carriera ai vertici dell’arte mondiale della seconda metà del ’900. Mimmo Rotella ha vissuto a Roma, a Kansas City, a Parigi, a New York, a Milano, ha viaggiato per il mondo ed ha esposto nei maggiori musei dei cinque continenti, ma Catanzaro, così diversa dagli altri centri, e forse proprio per questo, era il luogo del ritorno. Ogni estate tornava infatti a riabbracciare la famiglia e a riposarsi, lontano dai frastuoni. Ritrovava i due fratelli e la sorella, i nipoti, il padre (morto nel ’72), ma soprattutto la madre, Teresa (morta nel ’98 a 102 anni), modista catanzarese, disegnatrice e realizzatrice, nel suo atelier, di cappelli per signora. Il legame di Rotella con Catanzaro è profondo e ambivalente. Catanzaro è stata forse l’unica cosa ferma in un vita sempre in movimento, una vita proiettata nei territori ampi della geografia fisica e nella geografia dell’arte, in perenne esplorazione e scoperta, in contatto con miriadi di persone, tra successi e qualche sconfitta, nell’avvicendarsi anche frenetico di esperienze. Ma Catanzaro stava sempre lì. Chissà quante volte l’avrà pensato Rotella. Deve essere stato proprio l’irrequieto impulso al viaggio perenne ad avergli creato, nel tempo, l’idea di una Catanzaro interiore, di un luogo dell’anima e dei ricordi, da cui non poter prescindere, da non poter non amare, nonostante le idiosincrasie da Rotella pure espresse in qualche occasione. La dimostrazione, più che nelle parole, di cui Rotella era parco, è nelle azioni, a principiare dalla realizzazione della “Casa della memoria”. La “Casa della memoria” è la casa-museo inaugurata il 18 marzo 2005. È sita in Vicolo dell’Onda 7, nel cuore di Catanzaro, e Rotella vi aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza; dopo la creazione della Fondazione Mimmo Rotella a Milano nel 2000, diretta da Piero Mascitti e presieduta da Rocco Guglielmo, Rotella ha voluto conferire concretezza a quelle memorie lontane ma presenti che nessun décollage avrebbe potuto strappare via, e così vi ha dedicato un tempio e l’ha riempito dei suoi oggetti preferiti, le sue opere d’arte (una quindicina dagli anni ’50 ai
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primi del Duemila) e i cappelli realizzati dalla madre. Oggi la “Casa della memoria” è un’istituzione museale di grande rilievo per Catanzaro, è un punto di riferimento per la cultura e l’arte della città, e per chi la voglia conoscere meglio attraverso la storia di un suo figlio molto illustre. L’architetto Marcello Sestito, docente dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, incaricato della progettazione degli interni, ha realizzato un contrappunto talmente calibrato di linee e tagli da rendere gli spazi un’opera d’arte a se stante, l’involucro ideale per l’arte di Rotella. Una targa all’esterno reca la dedica dell’artista: “A mia madre, che mi ha fatto vedere i primi colori che sono serviti alla mia formazione artistica”. All’interno, oltre a una biblioteca che raccoglie volumi su Rotella e su l’arte del suo tempo, accanto ai cappelli della madre che pendono dall’alto, le opere di Rotella che vanno da “Naturalistico” del ’53, a “Ritz” del ’63, a “Night Love” del 1982, a “Dolle” del 2003, opere che, secondo le parole di Piero Mascitti, “farebbero invidia a istituzioni come il MOMA o il Guggenheim di New York”. È una casa-museo viva. Patrocinati dall’Assessorato alla Cultura e alle Politiche giovanili del Comune di Catanzaro, vi si svolgono infatti, tra l’altro, laboratori didattici per bambini. A organizzarli e a realizzarli, in collaborazione con la Fondazione Mimmo Rotella, è Ilaria Musio, già docente di Pedagogia e Didattica dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, assistita da Graziella Nisticò. Gruppi di bimbi provenienti dalle scuole elementari della città vengono introdotti così alle pratiche artistiche di Rotella e ai temi dell’arte contemporanea attraverso un approccio ludico, creativo e formativo. L’iniziativa didattica dell’ottobre 2007, “Progetto Casa della memoria”, è stata inoltre inserita dal Comune tra le attività didattiche degli istituti scolastici locali. Frutto di questa collaborazione tra pubblico, privato e professionisti è anche la realizzazione, da parte della Galleria Tega di Milano, ma in collaborazione con la Fondazione Rotella e col patrocinio dell’Assessorato alla Cultura e alle Politiche giovanili del Comune di Catanzaro, del libro per bambini “Uno strappo alla regola” (a cura di I. Musio, Edizioni Artebambini, 2007). È indubbiamente la più originale delle pubblicazioni dedicate finora a Mimmo Rotella. Il binomio Catanzaro-Rotella avrà tuttavia nel nascente MARCA (Museo d’Arte di Catanzaro) un’ulteriore polarità, questa volta inevitabilmente postuma. Il Museo, voluto dall’Assessorato alla Cultura della Provincia di Catanzaro, ospiterà, accanto a opere storiche dal ’600 all’’800 della Pinacoteca provinciale e a un settore dedicato a mostre temporanee, un’ampia sezione dedicata al solo Rotella. A curare tale sezione sarà, per conto della Fondazione Mimmo Rotella, Alberto Fiz, tra i massimi esperti dell’artista e già curatore delle tre edizioni di “Intersezioni”, mostre che hanno portato importanti artisti contemporanei ad esporre tra i ruderi dell’antica Scolacium. Al MAR-
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CA interi gruppi di opere di Rotella saranno esposte a turno, secondo criteri quando cronologici quando stilistici o tematici. Si inizierà con una quarantina di lamiere realizzate tra gli anni ’80 e i primi del Duemila, alcune molto grandi. Il supporto della lamiera connota gran parte della produzione rotelliana nelle sue ultime stagioni artistico-esistenziali, e partire dal fondo è anche un modo per fare entrare il pubblico in immediata sintonia con l’artista. Il ritorno concreto di Rotella nella sua terra è tuttavia progressivo, è un processo di vicendevole riscoperta di cui la “Casa della memoria” e il MARCA sono solo i due episodi culminanti. Esso ha inizio infatti già all’indomani del significativo ritorno di Rotella in patria, ciò che avviene nel 1980, quando l’artista lascia Parigi per Milano. Ciò è significativo in quanto, oltre a segnare una passaggio ad ulteriori stagioni della vita e dell’arte di Rotella, è il capitolo fondativo di un riavvicinamento a un lato di sé che ha radici nell’intimo, nel senso di appartenenza a una lingua e a una cultura che ci si porta dietro da sempre, mentre l’apertura cosmopolita, che con l’intimo non contrasta, è purtuttavia una condizione acquisita. Da Milano, dove Rotella vivrà fino alla morte, la Calabria è più vicina, dunque più raggiungibile. Nel 1982, eccolo nella prima operazione decollagistica in terra calabrese, in occasione della mostra “La città infelice…e l’immaginario” ad Aprigliano, presso Cosenza, per la cura di Tonino Sicoli e Fernando Miglietta e con testo in catalogo di Filiberto Menna. Rotella effettua nei giorni della mostra strappi sui muri cittadini, e lo strappo, come si sa, è il suo modo di dire “Io ci sono”. Di seguito a Cosenza il Centro d’Arte La Bussola ospita una piccola mostra personale dell’artista, che si inaugura il 28 dicembre del 1982 e si conclude il 20 gennaio dell’anno successivo. È la prima mostra di Rotella nella sua terra, se si eccettua quella di una decina di disegni e due litografie del ’69-’70 esposte alla libreria dell’amico Mario Giuditta a Catanzaro nel novembre-dicembre 1973, annunciata dallo stesso artista nella sua autobiografia “Autorotella”, apparsa nel ’72 per Sugar Editore. Nel 1989 la “riconciliazione” con la sua terra assume un risvolto spettacolare e paradossale, come d’uso in Rotella. Con abiti e auto in perfetto stile anni Trenta, l’artista, assieme al critico d’arte Francesca Alfano Miglietti e all’architetto Marcello Sestito, esegue, sotto la colonna superstite del tempio di Hera Lacinia, una parodia di un summit di mafiosi, dal titolo “La Scuola di Crotone”. Il 31 marzo del ’92 a muoversi è invece l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, che conferisce a Mimmo Rotella la Laurea honoris causa. Dal 23 maggio al 30 giugno 1996 una mostra di Rotella, curata da Tonino Sicoli, è ospitata al Museo Civico Palazzo Zagarese di Rende, presso Cosenza. È il preludio per la grande antologica che, sempre per la cura di Tonino Sicoli, il Complesso Monumentale del San Giovanni
di Catanzaro ospiterà dal 26 novembre 1999 al 5 marzo 2000. Meglio tardi che mai, avrà pensato Rotella dall’alto dei suoi 81 anni di vita e 55 di arte, nella considerazione che era la prima grande mostra nella sua città. Il principio del “nemo profeta in patria” è definitivamente ribaltato, e a dimostrarlo, al di là del successo della mostra, è l’inaspettata – e poi successivamente confermata – sensibilità della politica per il catanzarese Rotella: l’artista ottenne la possibilità di svolgere una defissone pubblica di manifesti nel territorio di Catanzaro grazie a un’apposita ordinanza comunale dell’allora sindaco Sergio Abramo. L’esito fu la realizzazione di un grande décollage “Tacco a spillo ritrovato: omaggio a Catanzaro” che venne presentato alla mostra al Complesso Monumentale del San Giovanni. Oltre all’“omaggio” alla sua città, il significato più vero dell’operazione è in quel “ritrovato” dichiarato nel titolo, che Rotella, pensando alla sua terra, rivolge a se stesso, con una soddisfazione facilmente presumibile. Di lì è un succedersi di occasioni di riconferma di questa “riconciliazione”, dalla committenza di un grande pannello per l’atrio dell’aeroporto di Lamezia Terme, che Rotella realizza ispirandosi al volo di Icaro, al conferimento, nel 2002, di una Laurea honoris causa da parte della Facoltà di Architettura dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, e la nomina, nello stesso anno, da parte della Giunta regionale calabrese di Rotella quale “Ambasciatore della Calabria nel mondo”. Il catalogo della grande retrospettiva di Catanzaro del 1999-2000 recava un appassionato testo di Pierre Restany, il grande critico d’arte francese che, dopo aver conosciuto Rotella a Roma nel gennaio del ’58 ed averlo inserito nel novero degli artisti del gruppo del Nouveau Réalisme fondato nel ’60, non aveva più perso di vista l’italiano, anzi, si era unito a lui di un’amicizia profonda. Del rapporto di Rotella con Catanzaro, Restany scrive: “Mimmo ama profondamente la sua terra natale e soprattutto il mare, la costa ionica che egli definisce ‘magica’. Se gli piace ricordare i bagni con la famiglia, il trenino che collegava Catanzaro alla sua spiaggia, Catanzaro Marina oggi Catanzaro Lido; se evoca volentieri le figure significative della sua famiglia, suo padre e la sua macchina del Genio Civile che guidava, suo fratello Ferruccio, di due anni maggiore di lui, e soprattutto sua madre, morta a centodue anni dopo essere stata la grande modista del Ventennio, è per contro molto più riservato sulla sua vita personale. Certo, riconosce di aver fatto parte del Club dell’Anguilla con alcuni monelli della sua età e di aver cercato con loro il mitico tesoro nascosto, si dice, dai pirati alcuni secoli fa a Tiriolo, un paesino sulle colline. Non rammenta bene se il suo nome di battaglia era “occhio di pesce” o “occhio di velluto” …e, tutto sommato, c’è una bella differenza. Il ricordo che ci lascia attraverso le sue rare allusioni alla sua infanzia catanzarese è quello di un ragazzino sensibile e riservato, amante del disegno, che passava ore
intere a fantasticare seduto su una panchina della Villa Comunale o a guardare il professor Migliaccio dipingere i grandi cartelloni pubblicitari per film proiettati al cinema. Era il 1925 e Mimmo era affascinato dai western muti. Questa precoce fascinazione per il cinema e le sue immagini pubblicitarie non doveva lasciarlo più”. Proprio così. Ma prima doveva esserci l’incontro con Roma. È il 1945. Mimmo Rotella giunge nella capitale, dove vivrà per quasi vent’anni, da impiegato del Ministero delle Poste e Comunicazioni, presso l’Ufficio Patrimonio in qualità di disegnatore. A Roma entra subito in contatto con le punte allora avanzate del dibattito artistico-culturale. A Roma in quel periodo nascono l’Art Club e il gruppo di Forma 1, viene aperta la libro-galleria l’Age d’Or e opera il Gruppo Origine. Rotella è a stretto contatto con questo ambiente, stringe amicizia ed espone con Dorazio, Perilli, Turcato, Accardi, discute con Emilio Villa, frequenta il bar Rosati di Piazza del Popolo, partecipa a mostre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna ma anche al Caffé Greco. La sua pittura di quegli anni a cavallo tra anni ’40 e ’50 è in perfetta consonanza con le ricerche astrattiste del tempo, assestandosi in un’area idiomatica geometrizzante in cui confluiscono le esperienze di De Stijl come del Futurismo, di Matisse e di Kandinsky. Ritmo e policromia sembrano essere i suoi essenziali punti di riferimento, amalgamati in un telaio costruttivo che non esclude il sincopato o l’imprevista apertura. È quanto avviene nell’opera più impegnativa di questo periodo, che è al contempo curiosamente tra le meno note: la decorazione murale a tarsie marmoree e in calcestruzzo realizzata nel 1949 per l’esterno del nuovo Palazzo delle Poste Centrali in Piazza dell’Immacolata a Catanzaro. È l’unica opera pubblica realizzata da Rotella nella sua città natale, conservata peraltro a tutt’oggi in ottimo stato. È lì, sotto gli occhi di tutti i catanzaresi, anche se, essendo non firmata, non sono tanti quelli che ne conoscono la paternità. Basta tuttavia fare i riscontri con la pittura di Rotella di quegli anni, che subito salta all’occhio la perfetta comunanza con le problematiche espressive e compositive delle opere realizzate a Roma. L’unica differenza è che a Catanzaro il tema “postale” richiede vaghe evocazioni figurative, e così si vedono comparire quattro stilizzati colombi bianchi recanti buste da lettere che dispiegano le ali su un campo color salmone, percorso a sua volta da un telaio lineare che richiama il circuito telegrafico, nonché elementi circolari che alludono ai grandi trasmettitori e dischi telefonici. Progressive sequenze di segmenti a curva intendono suggerire le onde che si spandono nell’etere. Le soluzioni dimostrano una tale padronanza del codice linguistico astratto, da permettere a Rotella di farne strumento per un racconto per immagini di una comunicazione che vola sulle ali metaforiche dell’elettromagnetismo, una comunicazione immateriale. I bozzetti del lavoro catanzarese
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sono andati dispersi, ma nulla esclude che abbiano fatto parte del bagaglio di opere che Rotella si portò con sé nel suo primo soggiorno americano, a Kansas City, tra il settembre 1951 e l’agosto ’52, grazie all’ottenimento di una borsa di studio della Fullbright Foundation. Rotella è ospite all’Università della città americana, per la quale realizza un grande pannello murale, anch’esso oggi disperso. La Fondazione Mimmo Rotella possiede tuttavia in archivio i bozzetti di tale opera, nonché le fotografie del lavoro portato a termine. Ebbene, le analogie con il lavoro murale di Catanzaro di due anni prima sono evidenti, tanto nella libertà delle strutturazioni, quanto nella scelta di singoli elementi morfologici, a principiare dalle grandi curve che da elettromagnetiche si tramutano, nel lavoro americano, in funzioni cromo-spaziali in espansione a vortice. In America Rotella “esporta” per la prima volta anche una delle sue “invenzioni” più originali, la poesia epistaltica, ovvero la sua versione di poesia fonetica a base di nonsense e asemantiche sonorità, teorizzata in un manifesto del ’49: “La parola è soprattutto suono: va eliminato il muro divisorio tra la musica e la poesia che sono essenzialmente la stessa cosa.” I recital di poesia fonetica sono il filo rosso che attraversa tutta la carriera del calabrese nel mondo. Ne effettuerà fino a tarda età a decine in gallerie, musei, case private, in Italia ma anche in Germania, in Francia e, a partire dalla performance registrata nel ’52 e conservata presso la Library of Congress di Washington, anche negli Usa. L’origine della poesia fonetica è dadaista (l’“Ursonate” di Kurt Schwitters) e futurista (Rumorsimo di Russolo e “Tavole parolibere” di Balla, Carrà e Cangiullo); l’applicazione rotelliana dimostra quindi l’attenzione dell’artista per lo spirito che mosse le avanguardie di inizio secolo, e per una sua personale immedesimazione in quelle ricerche che non si limitava solo al pittorico. Dimostra inoltre la presumibile lettura di riviste del periodo, che protagonisti del tempo come Prampolini e Severini, molto vicini ai giovani artisti operanti a Roma nel secondo dopoguerra, avranno reso possibile al giovane calabrese. Le ricostruzioni storiografiche, anche le più accorte, si perdono inevitabilmente per strada quell’insieme di discussioni e confronti che dànno il tono a uno specifico momento storico, ne costituiscono la tessitura vitale e l’atmosfera culturale. È tuttavia importante capire che il fenomeno Rotella non nasce per caso e dal niente. Lo stesso décollage, la sua rivoluzione linguistica più importante è rivoluzione figlia del suo tempo e dell’arte del suo tempo, è un indubbio passo in avanti, ma di un cammino che parte da lontano. I manifesti pubblicitari strappati da Rotella produssero uno shock nell’arte di metà secolo e coniarono un nuovo modo di vedere l’arte e di vivere la città, ma negli occhi di chi li produsse c’era la materia-energia di Burri e la perforazione della tela di Fontana, c’era il gesto
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ribelle dadaista e il ready-made duchampiano, e c’era anche il gusto per la matericità casuale dell’Informale. Questo non per dire che Rotella non è stato quel grande artista che invece fu, ma per dire che l’arte nasce sempre dall’arte e che Rotella stava nel cuore di questo flusso, stava al centro dell’arte. Era il 1953, e Rotella, tornato da circa un anno dagli Stati Uniti, stava vivendo una grande crisi, aveva la sensazione che la pittura avesse detto tutto e che era il caso di abbandonare quel mondo o di fare un grande salto, sì, ma dove? Girovagava a Roma tra Via Ripetta e Piazza del Popolo, quando il suo sguardo inciampò in un manifesto lacerato: Rotella la chiamò “l’illuminazione zen”, la svolta linguistica che cercava e che trovò sui muri. Nasce così la pratica artistica del décollage, l’affiche strappata e incollata su supporto. È gesto barbarico ed essenziale, tragico e liberatorio, che crea distruggendo. È “energia che nasce dall’interno della materia”, secondo le parole di Germano Celant nella grande monografia uscita nel 2007 per Skira. E inoltre è arte urbana e notturna: la defissione va svolta nottetempo perché è pratica vietata. All’inizio sono solo monocromatiche retro d’affiche, poco dopo appariranno lembi di immagini, brandelli semi-casuali di un incipiente consumismo che si rivolge anche allo sguardo, oggetto di quella Pop art che Rotella anticipa. Depotenziare la comunicazione pubblicitaria era un modo di poeticizzarla, rendendola più simile alla vita. Uno “strappo” di Rotella, infatti, dice della vera vita urbana più di molti ponderosi saggi di sociologia. Lo “strappo” colpisce la superficie ma non in superficie, s’incunea in quella realtà cittadina e mediatica che sta sorgendo sulle ali del benessere e del nascente consumismo. La grande novità sociale è la comunicazione di massa a fini commerciali. Rotella è tra i primi artisti al mondo ad intuire ciò, a rendere oggetto della proprio arte l’estetica di massa. Come? Facendola deflagrare, facendo letteralmente a pezzi la pubblicità, e, da quelle macerie, costituire una nuova immagine. L’intervento è effrattivo, è violazione di integrità, ma il fine non è distruttivo, bensì poetico: è come se l’artista calabrese volesse rivelare il lato nascosto dell’immagine di massa, il suo residuo potenziale fantasticante. Lo ha capito bene il piccolo Thomas, nel commento a un’opera di Rotella nel citato libro per bambini “Uno strappo alla regola”: “Penso che Mimmo sia un tipo molto curioso, va sempre a vedere cosa si nasconde sotto”. Assuefazione e omologazione sono i grandi rischi della massificazione dell’immagine, questo percepisce l’artista visivo Mimmo Rotella. Col senno di poi, un profeta: “Strappare i manifesti dai muri”, aveva scritto Rotella nel 1957, cinquant’anni fa ”è l’unica rivalsa, l’unica protesta contro una società che ha perduto il gusto dei mutamenti e delle trasformazioni favolose”. Quello di Rotella è uno sguardo altro rivolto verso quel mondo allora in fermentazione, ed oggi trionfante, uno sguardo
Mimmo Rotella nei primi anni ‘50, courtesy Alessandro Russo, Catanzaro. In apertura a pag.130, Mimmo Rotella “Mitologia” - 1962 - décollage, cm 164 x 190, Collezione privata, courtesy Fondazione Marconi e Fondazione Mimmo Rotella, Milano.
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ancora valido: di qui l’attualità di Rotella. Oggi siamo sommersi dalla pubblicità, giornali, tv, internet, cellulari, carrozzerie d’autobus, ponteggi di palazzi, ovunque c’è qualcuno che vuole venderci qualcosa. Lo “strappo” rotelliano è il primo e forse il più efficace espediente escogitato sinora, nell’ambito di una interazione fruttifera con la realtà mediatica, per riattivare quell’energia che scaturisce dallo stupore per un ritrovamento inaspettato, quello, nello specifico, di un relitto murario, di un frammento iconico. Rotella non ha tuttavia mai fatto politica, ma “solo” arte. Arte che parte dal basso, da un’iconografia minore manipolata, che esula dalla pittura; non tuttavia dal pittorico. L’effetto della costituzione d’immagine, infatti, per tagli, sfrangimenti, emersione di sottostanti strati cartacei è infatti finalizzata all’ottenimento di effetti di natura pittorica, se non “pittoricistica”. Rotella si è per l’appunto definito sempre un pittore, e non era un lapsus. Le sue immagini sono delle sinfonie del segno di carta quando causato, quando casuale, sono rifrazioni caleidoscopiche del mondo dei muri urbani visto attraverso uno specchio frantumato, capaci di rapire lo sguardo e di attrarre la mente. Il primo ad accorgersene è Emilio Villa nel ’54, poi Leonardo Sinisgalli nel ’55 (sulla rivista “La Civiltà delle Macchine”), infine quella sfera del mondo dell’arte romano e nazionale più attento alle importanti novità. Tra il ’56 e il ’60 espone in personali e collettive alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis e alla Galleria La Salita di Tommaso Liverani a Roma, nonché alle gallerie del Naviglio (Milano), Il Cavallino (Venezia) e Selecta (Roma) di Guido Le Noci. Nel ’60 il salto internazionale: Mimmo Rotella è cooptato da Pierre Restany nel movimento del Nouveau Réalisme. Parteciperà, assieme ai suoi nuovi compagni di strada Arman, Christo, César, Spoerri, Tinguely, nonché ai “colleghi” affichistes Hains, Dufréne e Villeglé, a molte delle mostre e dei festival del gruppo, in Italia, Francia, Germania e Stati Uniti. Nel ’64 la consacrazione, con la sala personale alla Biennale di Venezia. All’inaugurazione a giugno tuttavia Rotella non è presente, è da quattro mesi chiuso nel carcere romano di Regina Coeli, con l’accusa di detenzione di marijuana, caduta poi nel nulla. In cella l’artista pratica lo yoga, riflette sulla sua vita e quando uscirà, nel luglio, non sarà più lo stesso, e soprattutto ha bisogno non solo di aria, ma di nuova aria: si trasferisce a Parigi. Vi rimarrà fino al 1980. A Parigi abbandona il décollage, giunto in quel momento a saturazione. Rotella ha bisogno di nuovi lidi dell’immagine “trovata”, e si rivolge, ancora una volta tra i primi in Europa, al riporto fotografico, quello che sarà chiamata Mec-art, arte meccanica. È infatti un procedimento meccanico e an-artistico quello che induce a fotografare immagini tratte da giornali e riviste, per poi trarne dei negativi da proiettare su una tela trattata con l’impiego di un’emulsione fotografica. Sono macro-immagini tratte dal mondo della politica (l’assassinio Kennedy, i viaggi
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di papa Paolo VI) o dal mondo dell’arte, con ritratti di Fontana come di César, Oldenburg, Lichtenstein o anche di se stesso. Spiega lo stesso artista: “Le mie nuove opere non sono più décollages ma (…) riporti di immagine su tela a colori o in bianco e nero. Ho invertito il mio vecchio modo di procedere: prima ho cercato di disintegrare, adesso cerco di reintegrare questa materia, questa realtà.” Nel ’65 espone un gruppo di questi lavori alla Galleria J di Parigi, assieme a lavori di Mec-art di Béguier, Gianni Bertini, Pol Bury, Alain Jaquet e Nikos, nella mostra curata da Restany “Hommage à Nicephore Niepce”. La nuova “integrità” iconica è tuttavia ancora una volta negata e frastagliata in quei lavori avviati a partire dal ’66 e che, dalla crasi di art e typographie, saranno chiamati Artypo. Gli Artypo nascono dalla sovrapposizione di prove di stampa proprie dei test per gli avviamenti delle macchine tipografiche. In quei fogli, per mezzo dei quali lo stampatore controlla la qualità delle immagini e dei colori, Rotella “trova” ancora una volta l’immagine che cercava, l’immagine ready-made, già fatta. Dopo averne selezionate alcune, le sovrappone, ne miscela le figurazioni e le scritte, fa nascere nuove immagini, nuove realtà iconiche. Procederà così fino alla fine degli anni ’70, alternando riporti fotografici ad Artypo e ad Effaçages. Quest’ultima tecnica è avviata nel ’71 e consta di immagini tipografiche abrase e cancellate per mezzo di un solvente, la trielina. Come si vede, l’ossessione di Rotella verte sempre sul solito punto: l’immagine di massa. Rotella sa che è quella la sfera della visualità con cui tutti si devono e sempre più si dovranno confrontare, la nuova realtà della vita contemporanea. Décollage, Mec-art, Artypo, Effaçages: sono vari modi di attivare sonde silenti nell’oceano della comunicazione di massa. Penetrano a fondo e risalgono alla superficie con nuove luci di senso riguardo alla concezione neo-iconica, nuove ipotesi di riflessione e di visuale consapevolezza. Il 1980 è anno di svolta, sia esistenziale che artistica. Rotella lascia Parigi e va a vivere a Milano. Lascia però anche la riproduzione foto-meccanica dell’immagine e torna al manifesto, ma con una nuova, sorprendente novità: i Blanks. Li realizzerà sino all’inizio del 1982, il nome glielo affibbierà l’amico Restany. I Blanks sono manifesti obliterati da fogli monocromatici, quando bianchi, quando verdi o viola, come quelli che appaiono alla scadenza delle pubblicità. Sono tra le opere più radicali e sconcertanti di tutta la carriera di Mimmo Rotella. Sono ammutolimenti di immagine, loro negazione e azzeramento visivo. A riguardo di questi lavori, Pierre Restany, presentandoli nel 1981 in una personale allo Studio Marconi di Milano, scrive di “qualità di un pieno-vuoto”, di “presenza dell’assenza” e di “luogo dell’attesa di un’infinità d’immagini”. Blank in inglese vuol dire proprio qualcosa lasciato vuoto, in bianco. E c’è proprio questo senso della sospensione nelle anti-immagini
dei primi anni ‘80’ di Rotella, qualcosa che dice non dicendo, che c’è non essendoci. Più che immagini sono confessioni, dichiarazioni di silenzio e di impossibilità d’immagine da parte dell’altrimenti grande e immaginifico reinventore d’immagini. Davanti a quei fogli assoluti, che pure erano affiorati in qualche opera del ’62-’63 (“Il punto e mezzo”, 1962 “Viva America”, 1963), lo sguardo si blocca d’un colpo e si rivolge verso se stesso, dentro se stesso. Sono barriere insormontabili, per quanto di carta, barriere rivolte a un occhio stanco di guardare per eccesso di stimolazioni visive, un occhio che cerca soste e se le inventa ancora una volta all’interno della pratica visiva urbana e commerciale, in un suo momento di pausa, di norma transitoria e secondaria, da Rotella trasformata in emblema di una rinnovata riflessione. È la notte dell’immagine seriale svolta in pieno giorno, la sua implosione e, forse, suo suicidio. Non basta più strappare, rimescolare, riprodurre, sovrapporre, bisogna svuotare. Rotella consoce lo zen e pratica lo yoga, sa che lo svuotamento psicofisico, ottenuto mediante pratiche di meditazione, null’altro è che liberazione dagli usuali sovraccarichi mentali, da ciò che eccede dal naturale e autosufficiente processo vitale. Svuotare è quindi condurre a uno stadio puro, è pulire e sgravare. Con l’operazione nichilistica e iconoclasta dei Blanks Mimmo Rotella manifesta proprio l’esigenza di recuperare una verginità della visione, di far quindi tabula rasa di quel superfluo comunicazionale che pure stava – e sta – intasando i canali della relazione percettiva con l’ambiente sociale. L’acme è raggiunto nel 1981 con un gigantesco Blank di sei metri per tre completamente ricoperto di una carta bianca; l’affiche la si intuisce per trasparenza sotto questa candida coltre, ma per il resto la monocromia è totale, e il silenzio è assoluto. È il grado zero dell’arte del manifesto manipolato. L’arte di Mimmo Rotella giunge così a un momento critico, andare oltre non si può. L’artista non produce opere per circa un anno, ma poi ecco, nel 1984, spuntare dal deserto il fiore d’una nuova immagine, ecco l’evidenziarsi del significato ultimo di quelle immagini svuotate che sembravano dover essere le ultime: da quel niente doveva risorgere la pittura. Rotella prende in mano pennelli, tele e colori (acrilici) e, come non faceva da trent’anni, torna a dipingere in senso tradizionale. Il soggetto è sempre l’affiche a soggetto cinematografico, ma figure e scritte sono realizzate da Rotella ex novo. Un altro paio d’anni, e dal magma del pittorico recuperato, torna ad affiorare pure il décollage, questa volta in simbiosi con la pittura: è il ciclo delle Sovrapitture, portato avanti fino ai primi anni del Duemila. A settant’anni Rotella è quindi capace di reinventarsi, di dire ancora la sua con originalità, e non pochi sono a stupirsene. L’amalgama di carte strappate e lettere, scritte, segni, figure è svolto infatti con una verve e una freschezza che appartengono ad artisti in quegli anni ben più giovani di lui, quegli stessi con cui peraltro
Rotella va idealmente ad aggregarsi con queste nuove prove: i neo-espressionisti o neo-selvaggi qual dir si voglia, attenti a un recupero del pittorico in salsa graffitistica, infantiloide e sagacemente “trascurata”. È un’esplosione di nuova creatività, un tuffo nel caos vigilato degli idiomi dell’arte colta e di quella di strada, dell’alto e del basso. È una novità per personaggi quali Schnabel o Cucchi, Basquiat o Chia, ma per Mimmo Rotella è una semplice e pluridecennale consuetudine che cambia pelle ma non tensione espressiva. A colpire è spesso anche il dominio sereno delle grandi superfici. Ulteriore novità è infatti il gigantismo delle dimensioni, soprattutto quando il décollage e il gesto “sovrapittorico” avvengono sul supporto di lamiera, capace di rafforzare l’apparenza di brutalità murale dell’immagine. È il caso di “Lezione di Anatomia” del 1987, décollage e sovrapittura su lamiera di tre metri di lunghezza per uno e mezzo di altezza. O de “La casa dello studente” realizzato un anno dopo, di tre metri per tre. In “Situazione perdente” del ’92, Rotella rinuncia a sovradipingere segni o scritte, lasciando il campo di 300 cm per 150 a un solo monumenate décollage su lamiera. È una cascata di stralci cartacei, un pandemonio di brandelli policromi che defigurano un’immagine rendendola illeggibile. La tecnica del décollage ha a questa data quasi 40 anni di vita e Rotella è ancora lì sul fronte dell’immagine prelevata e frantumata, pronto a coglierne bagliori di dramma e poesia. Nel caso della grande lamiera a décollage e sovrapittura realizzata nel ’96 per l’aeroporto di Lamezia Terme compare anche l’elemento narrativo, nel riferimento al mitologico volo di Icaro. Lo stesso vale per “Il vecchio telefono” del 1992-94 e per la lamiera “Il mio cuore in Russia (Autoritratto)”, un décollage e sovrapittura su lamiera di cm 300 x 150 che fa riferimento al nuovo indissolubile legame che Mimmo Rotella stringe con la Russia, avendo sposato nel ’91 Inna Agarounova (testimoni al matrimonio l’immancabile Pierre Restany e Giorgio Marconi). Nel ’98 un ready-made, “Il sogno di Asya”, è tutto dedicato alla figlia nata nel ’93: in una scatola di cartone, una bambola di pezza, una scarpa e fogli di carta sono disposti come in un box che ne tutela l’incanto. D’altronde, in un décollage e sovrapittura su tela del 2001 campeggia una sola grande scritta di mano dell’artista: “MIRACOLO”. È forse stato questo uno dei segreti di Mimmo Rotella, il vivere la vita come una grande opera d’arte, il mondo come un solo ready-made, gli eventi come capitoli di una lunga favola. Il più grande insegnamento che ci lascia Mimmo Rotella è forse proprio la sua capacità di guardare il lato sognante della realtà. Quello che nel ’57 gli fece veder Roma alla stregua di un immenso collage: “Se avessi la forza di Sansone, incollerei Piazza di Spagna con le sue tinte autunnali tenere e molli sulle rosse piazze del Gianicolo ai bagliori del sole calante…”.
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ARTE E FEDE. UN ITINERARIO NELLA MEMORIA: MUSEO DIOCESANO, CHIESE ED ORATORI
Oreste Sergi
«Ogni forma autentica d’arte è, a suo modo, una via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo». Con queste parole Giovanni Paolo II, al punto 6 della sua “Lettera agli artisti” del 4 aprile 1999, sottolinea l’efficacia e l’importanza dell’arte, rapportandosi a quanto sottolineato già dai Padri della chiesa nella “Sacrosanctum Concilium” in cui si mette in risalto la relazione tra l’arte sacra e la suppellettile liturgica «con l’infinita bellezza divina, che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell’uomo, e sono, tanto più orientate a Dio e all’incremento della sua lode e della sua gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato se non quello di contribuire il più efficacemente possibile, con le loro opere, a indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio». La struttura museale di Catanzaro conserva testimonianze significative per la comprensione della genesi e delle vicende storico-artistiche della diocesi, della città ed in particolare della Cattedrale, di cui sono, insieme, memoria visiva e narrativa. La struttura può definirsi, pertanto, luogo della memoria nella prospettiva di conservare e recuperare parte di quel patrimonio storico-artistico della Chiesa locale ancora disperso, nella consapevolezza che esso rappresenta ancora la testimonianza concreta di fede, di pietà popolare, di vita sociale espressa dalle comunità cristiane del luogo per dare splendore di bellezza ai luoghi del culto attraverso la creatività artigianale e artistica. Il museo diocesano di Catanzaro, quale luogo deputato alla conservazione dell’arte sacra, oltre a porsi come museo del territorio, mira all’idea di una inculturazione della fede, sulla scorta degli insegnamenti di Giovanni Paolo II il quale ha più volte sottolineato come le opere d’arte sono lo strumento in grado di parlare a tutti, credenti e non credenti, cristiani e fedeli di altre religioni. Per questi motivi, sin dal 1997, anno di apertura del museo, voluto e creato da mons. Antonio Cantisani allora arcivescovo di Catanzaro-Squillace, la raccolta di arte sacra, in linea con gli orientamenti postconciliari della Chiesa, viene incontro a molteplici istanze: salvaguardare dalla dispersione o da sicuro degrado manufatti che
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avevano perso del tutto o in parte il legame con il contesto di appartenenza; conoscere e valorizzare l’identità storico-religiosa delle singole testimonianze, della pietà e delle tradizioni locali; rievocare il cammino di fede della comunità storica locale; stimolare e sostenere l’impegno degli enti ecclesiastici e dei singoli operatori culturali in ordine alla conservazione, recupero, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale di loro pertinenza. Ancora oggi la suppellettile liturgica, i paramenti sacri, i dipinti, le sculture e quanto sinora prodotto all’interno della nostra millenaria diocesi, esplicano al meglio il significato di cultura concentrato sull’insieme di tradizioni, di modi di pensare, di parlare, di agire, nei quali ogni comunità cristiana ha operato e continua ad operare. Il museo diocesano d’arte sacra, proprio per questi motivi, è stato allocato all’interno del palazzo episcopale, quest’ultimo parte integrante del complesso del “Vescovato” che, dall’età normanna in poi, andò a costituire la cittadella vescovile insieme alla millenaria mole della Cattedrale di Santa Maria Assunta e dei Santi Pietro e Paolo. Tutto il complesso delinea e circoscrive quella che già in epoca medievale era ed è la piazza del Duomo, sede del potere religioso, che mantiene ancora oggi, sebbene alterate dopo le distruzioni operate dai bombardamenti aerei anglo-americani del 27 agosto 1943, le caratteristiche e gli elementi storico-urbanistici ed architettonici originari; non a caso, ancora oggi, il colle su cui sorge la cittadella conserva il toponimo medievale di “Vescovato”. Il museo si sviluppa in tre sale e conserva opere d’arte provenienti dalle antiche parrocchie medievali non più esistenti, dalle chiese di conventi e monasteri soppressi e non, dalla Cattedrale e anche dal territorio dell’antica diocesi di Catanzaro. Il nucleo più consistente si attesta in ciò che era il Tesoro della Cattedrale a cui fanno riferimento numerosi paramenti sacri e, in modo particolare, la ricca argenteria, scampati entrambi dalla distruzione e dai trafugamenti dell’ultima guerra; questi, infatti, rivestono una particolare importanza storico-documentaria oltre che artistica; basti pensare che tutta la suppellettile liturgica è ascrivibile ad un periodo di tempo racchiuso tra la fine del ’500 e gli anni ’30 del ’900. Ancorché non organizzato in vere e proprie sezioni, è possibile, tuttavia, seguirne il percorso attraverso le diverse tipologie degli oggetti.
I marmi I marmi esposti all’esterno e all’interno del museo provengono tutti dalla Cattedrale di Catanzaro. Tra questi si segnalano: il paliotto dell’altare di S. Vitaliano del 1769, il paliotto e gli angeli capialtare dell’altare del SS. Sacramento del 1766 opera di Giuseppe e Sivestro Troccoli di Napoli, la lapide della cappella di S. Fortunato del vescovo bolognese Nicola de Horazi del 1595.
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All’interno sono conservati quattro capitelli corinzi in marmo di cui, al momento, si ignora l’altare di provenienza, lo stemma lapideo di mons. Emanuele Spinelli, e un brano dello stemma di mons. Matteo Franco appartenente all’altare maggiore, realizzato dallo stesso presule nel 1846, e in parte ricostruito, nella ristrutturazione del 1960, all’interno della Cappella della Madonna del Soccorso.
Le sculture Le sculture rappresentano, nel panorama patrimoniale della struttura museale, la parte meno documentata. È racchiusa a soli sei esempi, tre dei quali situati all’esterno e costituiti dai busti in terracotta di S. Vitaliano, della Madonna con il Bambino e di un Santo Vescovo, probabilmente Ireneo, Fortunato o Gennaro, un tempo posti sulla terrazza prospiciente il giardino del palazzo episcopale, oggi coperta a seguito dei lavori di restauro e ristrutturazione degli anni ’60 del ’900. All’interno delle sale è custodito un busto reliquiario cinquecentesco proveniente dalla Cattedrale ed un tempo facente parte del corredo della Cappella di S. Vitaliano e del coro. L’opera è tra i pochi busti recuperati all’indomani del bombardamento aereo del 27 agosto 1943 che colpì in parte il duomo e si attesta, con l’altra coppia di busti reliquiari custoditi nella sagrestia della cattedrale, quale esempio di scultura tardo cinquecentesca in Calabria. Proveniente dalla chiesa di S. Teresa all’Osservanza, il busto di S. Vitaliano (fig. 2), datato al 1875, riprende, in chiave ottocentesca, le fattezze del busto reliquiario argenteo custodito nella cappella del S. Patrono. Proviene dalla Certosa di Serra S. Bruno un’opera contemporanea dello scultore certosino Michele Lapayese del 1962 raffigurante S. Bruno di Colonia la cui postura statica, sposata ad una verticalità iconografica, riprende il carisma ascetico dell’Ordine di elevazione dell’anima a Dio attraverso la preghiera.
I reliquari La dotazione di reliquari è tra le acquisizioni più recenti affidate alla conservazione del museo da mons. Antonio Ciliberti, attuale arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace. I reliquiari esposti al pubblico costituiscono soltanto una parte del patrimonio custodito all’interno del palazzo episcopale ma, allo stato attuale, sono gli esempi più importanti dal punto di vista storico-artistico. Il reliquiario più antico è costituito da una piccola boccettina del sec. XIII in vetro, ancora integra nel suo turino in ceralacca ma di cui ancora non si conosce il contenuto; al contrario, lo splendido reliquiario veneziano in vetro soffiato, ascrivibile ai primi anni del ’600, custodisce un frammento osseo del corpo di S. Placido e rappresenta, insieme
a quello di S. Alessandro martire, custodito nella Matrice, di Sellia superiore, una rara testimonianza di manifattura vitrea del genere presente in Italia. Il reliquiario catanzarese presenta un modello con piede circolare a bordo ribattuto sul quale si imposta un nodo centrale, con baccellature, stretto, a sua volta, da due collarini; il sovrastante calice cilindrico ed il coperchio semisferico, al centro del quale spicca una grande croce posta su un collarino, sono decorati, rispettivamente, da quattro piccoli fiori di colore verde e da quattro di colore blu cobalto posti due sul coperchio e due all’incrocio dei bracci della croce. Piccolissime anse, due sul coperchio e due ai lati del calice, recano ancora intatti i nastri in raso cremisi ed i coevi sigilli d’autentica in ceralacca. Accanto a tale esempio sono stati rinvenuti due “enkolpia” o reliquiari della Santa Croce, ascrivibili tra il sec. XVII ed il sec. XVIII, ed un’altra boccetta vitrea del sec. XVII-XVIII, chiusa all’interno di un reliquiario ligneo, contenente parti delle ceneri di S. Giovanni Berchmans, mentre gli altri reliquari sono costituiti dai classici esempi in filigrana d’argento, reliquari multipli alcuni dei quali decorati al centro da piccoli ovali realizzati a tempera su carta raffiguranti la Madonna con il Bambino, S. Pasquale Baylon, S. Vincenzo Ferrer, S. Domenico e altre sante francescane, tutte ascrivibili tra la fine del XVIII e la seconda metà del XIX secolo.
Pagina precedente: Busto di S. Vitaliano 1875.
I dipinti La pinacoteca del museo, costituita da ventiquattro tele, è degna cornice alle sete e agli argenti in un ideale percorso pittorico ascrivibile tra la metà del ’500 e gli inizi del ’900. Le tele provengono per la maggior parte da chiese parrocchiali e conventuali della città, alcune delle quali non più esistenti ( parrocchia di S. Biagio, Chiesa della Madonna della Catena, Chiesa di S. Caterina o di S. Rocco); altre, da tre realtà artistiche diocesane di notevole importanza, Serra S. Bruno, Squillace e Taverna ed altre ancora da acquisti di mons. Antonio Cantisani effettuati sotto il suo episcopato. A questi si deve l’acquisizione: del “San Nicola di Mira” (fig. 4), della metà del XVII secolo la cui fattura, di ambito romano, si relaziona alla cultura berniniana e cortonesca, con riferimenti alla pittura di Giacinto Brandi; del “Sant’Umile di Bisignano” della stessa epoca; del “Sant’Antonio da Padova”, della prima metà del sec. XVIII; del “beato Andrea Abellon”. Quest’ultima è opera di Silverio Capparoni, (1831-1907) pittore ottocentesco romano allievo di Francesco Podesti, che la realizzò nella sua piena maturità e sicuramente dopo il 1902, anno in cui Leone XIII conferma il culto nei confronti del beato domenicano. Tra le opere provenienti dal territorio diocesano spicca, quale espressione della “Scuola” di Monteleone, la “Natività” di Francesco Saverio Mergolo del 1785, proveniente da Serra S.
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Biagio De Vico “Incoronazione di Maria nella gloria dei santi” XVII secolo. A destro: “San Nicola di Mira” XVII secolo.
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Bruno, che in questa tela abbandona la sua cultura, legata alla scuola locale, per raggiungere un esempio straordinariamente felice di intuizione stilistica e di abilità compositiva. Da Squillace, precisamente dalla chiesa di S Giorgio annessa al monastero della Visitazione, provengono la seicentesca tela di “S. Lucia” e il “S. Giuda Taddeo” opera di Francesco Basile del 1827, mentre da Taverna il “S. Francesco di Paola” e il “S. Tommaso”, entrambi patrimonio della chiesa di S. Barbara. Accanto a questi esempi vi sono altre tele legate alla cultura locale e alla storia della città. Ad esempio: le tele domenicane del “SS. Nome di Gesù tra le sante Agnese Segni e Rosa” e il “S. Domenico di Soriano”, copia della più celebre tavola “Achiropita”, provenienti dal cinquecentesco convento delle terziarie domenicane di S. Caterina da Siena e, successivamente, poste ed adattate, a causa del trasferimento delle monache, agli altari della chiesa del Monastero della Maddalena o delle Convertite dalla quale provengono anche la tela seicentesca della “Madonna delle Grazie”, già pala d’altare della parrocchia medievale di S. Biagio, e il “Cristo che porta la croce”. Quest’ultima si contraddistingue non tanto per la resa pittorica quanto per la singolarità della frase che proferisce dalla bocca del Cristo: «Coraggio Figlia Coraggio», esplicita esortazione alle “convertite” , donne di malavita che, pentite, percorrevano, all’interno del monastero, un cammino di ascesi e di conversione. Altro soggetto raro e legato al culto mariano è rappresentato dalla tela della “Divina Pastora”, dipinto ascrivibile alla seconda metà del ’700, nella quale la Madonna pasce e difende dalla tentazione del peccato – esplicitato in basso dalla figura del serpente in agguato – le “pecorelle” a lei consacrate e marchiate sul vello dalla “M”, iniziale del nome di Maria, che si nutrono di Cristo, simboleggiato dalla rosa rossa che recano in bocca. Il tema della “Madonna delle Grazie” (fig. 1) è anche esplicitato dalla tela della prima metà del seicento che presenta una impostazione formale e compositiva che si distacca dalla cultura locale per legarsi maggiormente ai canoni della cultura dell’Italia centrale; questa tela proviene dal palazzo episcopale, per cui non si esclude che possa essere appartenuta al “corredo” vescovile di qualche presule dell’epoca o, con molta probabilità, all’arredo di un altare posto in Cattedrale ed in seguito distrutto dai restauri e dai rifacimenti effettuati nel ’900. Sempre dal palazzo arcivescovile proviene l’eclettica e romantica tela della “Madonna con il Bambino benedicente”, opera di A. Palomba del 1824 e di chiare ascendenze raffaellesche. Tra il quarto e il quinto decennio del Seicento è da ascrivere il “Gesù tra i dottori”, tela di ignoto pittore meridionale, proveniente probabilmente in origine da una chiesa di Albi nella presila catanzarese, che definisce, nel suo complesso, la cultura calabrese dell’epoca con accenni contrastanti di una pittura legata sia al tardo manierismo sia
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all’esperienza del Naturalismo napoletano e romano. Al terzo quarto del ’600 si inquadra l’“Incoronazione di Maria nella gloria dei santi” (fig. 3), olio su rame di Biagio De Vico che lo stesso autore desume da una sua tela di dimensioni più grandi realizzata per l’omonimo altare nel presbiterio della chiesa matrice di Gagliano. La straordinaria bellezza e la resa cromatica, accentuata dalla vivacità dei colori, si sposano perfettamente con l’effetto compositivo nel quale l’artista predispone le figure dei santi e delle sante secondo direttrici che delineano una “M”, espressione grafica e semantica della esaltazione del SS. Nome di Maria. Alla prima metà dell’Ottocento si legano le tele dell’“Assunta tra i santi Giovanni e Pietro”, opera devozionale di Giovanni Paladino del 1824, che, insieme alla coeva “Pietà” di ambito cortalese, proviene dalla chiesa di S. Maria Zarapoti, e quella della Madonna della Catena, opera di Domenico Ruffo del 1854, unica testimonianza dell’antica ed omonima cappella, oggi non più esistente, sita alla fine della via della Croce oggi via Giuseppe Poerio. Da alcune chiese conventuali provengono l’“Annunciazione”, pala del fastigio seicentesco della chiesa domenicana del SS. Rosario, e la “Pentecoste” di Domenico Leto che, assieme al coevo settecentesco portellino in legno scolpito dipinto a tergo con il “Buon Pastore”, provengono dalla chiesa di S. Maria del Carmine dei PP. Carmelitani Calzati. Della Cattedrale di S. Maria Assunta il museo custodisce, oltre alla tela settecentesca del “SS. Crocefisso”, l’affresco monocromo della cosiddetta “Madonna del Muro”, proveniente dall’omonima cappella aperta al culto il 27 novembre del 1910 da mons. Vescovo Pietro Di Maria; scoperto durante i restauri alle navate minori apportati al duomo dopo il 1835 ad opera dei canonici Melina e Pugliese, può essere datata, sebbene rimaneggiata, alla seconda metà del sec. XVI.
Gli argenti Il patrimonio di suppellettile liturgica in argento conservata nelle sale del museo rappresentano un’ampia documentazione della tradizione napoletana e meridionale in genere e si legano, per la maggior parte dei beni, al cosiddetto tesoro del Capitolo Cattedrale scampato ai trafugamenti e alle distruzioni del secondo conflitto mondiale. In questa sede non sarà possibile elencare tutti gli argenti custoditi ma si cercherà di tracciare un ideale percorso cronologico in cui si evidenzieranno i pezzi storicamente e artisticamente più importanti ascrivibili tra ’600 e ’900. Gli argenti seicenteschi trovano l’esempio più importante nel calice siciliano, di probabile manifattura messinese, datato al 1654 e dono della Duchessa di Monteleone a frà Lorenzo da Catanzaro e proveniente dalla chiesa dell’Osservanza; a questi si accosta la Pace (fig. 6) in bronzo dorato, con elementi decorativi legati ancora ai canoni cinquecenteschi ma appartenenti alla
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tradizione del primo trentennio del XVII sec., al centro della quale è raffigurata la Madonna del Carmine tra i santi carmelitani Angelo di Sicilia e Alberto degli Abati di Trapani; ascrivibile agli anni ’60 del Seicento, il calice (fig. 5) in argento dorato con un ricco apparato esornativo inciso, sbalzato e fuso, dove elementi vegetali e floreali si alternano a teste di angeli e alle Arma Christi: i simboli della Passione di Cristo; punzonata al 1695 e realizzata dall’argentiere napoletano Giovan Battista Buonacquisto, documentato tra il 1681 e il 1724, spicca la grande croce astile processionale al centro della quale, all’incrocio dei bracci, con fondo damaschinato a graffio e chiusi da terminali con teste di angelo, emerge la figura del Christus patiens, splendida scultura a tuttotondo del Crocefisso eseguita a fusione. Il settecento è documentato da alcuni oggetti di straordinaria fattura che si legano ora a schemi ancora barocchi, ora ad elementi decorativi e apparati compositivi del tardo barocco e del pieno rococò. Tra questi sono da menzionare le splendide ampolline in vetro soffiato e filigrana d’argento, ascrivibili alla fine del ’700, provenienti dal Monastero delle Clarisse e confluite soltanto nell’800 nel tesoro della Cattedrale, le quali, sebbene appartenenti ad una raffinata produzione locale, tuttavia si legano, nell’esuberanza decorativa, esaltata dalla lavorazione a filigrana che ben si presta a raffinati virtuosismi stilistici, al gusto devozionale e liturgico dell’epoca e ad altri esempi di manifattura siciliana. Tra gli ostensori di fattura napoletana dal classico fusto figurato caratterizzato da una coppia di angeli poggianti sul globo e sostenenti ora una ricca cornucopia, ora il Sacro Cuore di Gesù, su cui si innesta la grande sfera a doppia raggiera, spiccano quello proveniente dalla chiesa dei Teatini, opera dell’argentiere Salvatore Cafiero, e quello proveniente dalla chiesa del Monastero delle Clarisse, del 1782, che si caratterizza, oltre che per l’opulenza ornamentale, esplicitata dall’uso di pietre naturali, e l’impostazione formale della tipologia, anche per le tre sculture a fusione poste sul piede e raffiguranti S. Chiara e le Virtù teologali delle Fede e della Speranza. Al 1759 è riconducibile la realizzazione del calice di gusto rococò di un ignoto argentiere napoletano che operò sotto il consolato di Aniello Guariniello, documentato console nella città partenopea nel 1755, nel 1784/85 e nel 1789. Mentre è ascrivibile al 1771 la grande pisside con piede sbalzato, sopracoperchio e sottocoppa in argento sbalzato e traforato. Tutto l’oggetto, che presenta sul piede la microfusione del Buon Pastore, è un elegante esempio di elementi decorativi vegetali che si alternano con sobria eleganza ai simboli della Passione di Cristo. La ricchezza della decorazione a traforo e la copiosità di ametiste, granati, quarzi, madreperle, agate che si alternano a teste angeliche ed elementi acantiformi legati morfologicamente a reminescenze ancora seicentesche, contraddistingue il razionale da piviale, della prima metà del ’700, di mons. Ottavio Da Pozzo,
eletto vescovo della città nel 1737. Appartenente al corredo di mons. Raffaele M. De Franco, vescovo della diocesi dal 1852 al 1883, l’elegante alzatina che presenta tutte le caratteristiche del vasellame da tavola degli inizi del ’700 ancora improntato su forme rigide e semplici della fine del ’600. L’opera, realizzata nel 1716 dall’argentiere napoletano Francesco Cangiani, sotto il consolato di Nicola D’Ajello, sebbene riporti lo stemma di mons. De Franco, è, in realtà, un bene che entrò a far parte del corredo del presule negli anni del suo vescovato catanzarese e con molta probabilità proveniente dal Monastero delle Clarisse. L’Ottocento è ampiamente documentato con suppellettile liturgica che si accosta per la maggior parte dei casi a modelli tardo barocchi reinterpretati ed adeguati in base alle nuove esigenze stilistiche. Tra questi esempi sono da menzionare il servizio di ampolline del canonico mons. Giacomo Correa, il turibolo e il calice dorato con l’Assunta e le figure allegoriche delle Virtù teologali di mons. De Franco, tutte opere dell’argentiere napoletano Gennaro Romanelli, documentato tra il 1831 e il 1844, indicato dal Tuccio come uno dei migliori argentieri della città di Napoli. Accanto a questi esempi, la cassettina per le elemosine di S. Vitaliano realizzata da Vincenzo D’Onofrio, documentato a Napoli tra il 1830 ed il 1850, mentre si attesta al 1856, il tronetto eucaristico commissionato dalla badessa del convento della Maddalena Suor Giovanna Veraldi e realizzato dell’argentiere napoletano Antonio Abbate, patentato nel 1852. Il tronetto presenta una morfologia compositiva caratterizzata da una successione di elementi dove, unità architettoniche, il postergale, le figure allegoriche delle Virtù teologali, gli angeli e la corona sovrastante, dialogano con lo stesso spazio in una ricerca che unisce elementi ancora tardo barocchi e neoclassici, in uno sfarzo e una ricchezza di forme imponenti e sontuose. La teca del 1855 ed il calice del 1888 del canonico del Capitolo Cattedrale mons. Giacomo Correa, la teca del 1855 del canonico Diego Lucà e la coppia di corone imperiali da quadro riportano, invece, il punzone di Franceso Perretti il quale si distingue, nei suoi manufatti, soprattutto per la delicata ed elegante realizzazione della tecnica a sbalzo e per una ricercata ed equilibrata stesura degli apparati decorativi. Il Novecento è legato ad un particolare ed esaltante manufatto di oreficeria rappresentato dall’Ostensorio (fig. 7) in oro del Congresso Eucaristico Regionale del 1933, commissionato da mons. Giovanni Fiorentini ed opera del milanese Giuseppe Guelfi che lo realizzò su disegno di mons. Chiappetta, allora Presidente della Pontificia Commisione Centrale d’Arte Sacra. L’opera si contraddistingue per tutto l’apparato figurativo scandito da episodi dell’Antico Testamento, dalle figure della Fede, della Speranza e della Carità e da una grande sfera a tripla raggiera al centro della quale, a fare da contorno al ricettacolo, le nove schiere angeliche realizzate a fusione e in atto di adorazione e preghiera.
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In alto: Pace XVII sec. visuale frontale e laterale. In basso: Giuseppe Guelfi Ostensorio del Congresso Eucaristico Regionale 1933. Pagina successiva: Pianeta Gros de Tours in seta viola a lama d’oro ricamata in oro e sete policrome XVIII sec.
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I paramenti sacri Il museo si pone all’attenzione delle strutture museali cittadine in quanto è l’unico contenitore culturale che espone, attraverso i parati sacri, testimonianze della cultura manifatturiera tessile catanzarese. Gli arredi tessili conservati nel museo diocesano provengono da alcune chiese della stessa città e del territorio dell’odierna arcidiocesi metropolitana di Catanzaro–Squillace. È, principalmente, la sala espositiva “B” ad offrire una ricca, anche se non completa, scelta della dotazione tessile della Cattedrale catanzarese, con paramenti databili dal XVIII al XX secolo in cui primeggiano parati in terzo, piviali, pianete, veli del calice, pantofole pontificali e mitre. Questi appartengono in parte al “tesoro” della millenaria Cattedrale catanzarese e furono rinnovati nel tempo dopo le gravi perdite subite dal corredo tessile della sagrestia del Duomo a causa dell’incendio del 1660, delle dispersioni a seguito dei terremoti del 1744, del 1783, del 1832, della vendita di molti di questi avvenuta tra il 1855 ed il 1856, voluta dal Capitolo Cattedrale e documentata in alcuni carteggi del Can. Giacomo Correa, e non ultimi dalla distruzione dei bombardamenti aerei anglo-americani del 27 agosto del 1943. Tra i diversi arredi tessili di particolare pregio che i vescovi della città nel corso dei secoli hanno lasciato a testimonianza della loro opera pastorale, si ricorda uno splendido piviale in Gros de Tours in seta viola a lama d’oro caratterizzato da un gallone in oro che circoscrive tutto il parato sul mantello, lungo lo stolone ed intorno allo scudo, appartenuto al vescovo Ottavio Da Pozzo di Castellammare di Stabia, presule dal 1738 al 1751. Questo parato, tra i più antichi conservati all’interno del museo e databile alla prima metà del ’700, nella sua elegante semplicità si arricchisce alle estremità dello stolone, dello stemma vescovile del prelato ricamato per applicazione, in oro e seta policroma. Di Emanuele Spinelli, vescovo dal 1714 al 1727, si conserva il raffinatissimo piviale arricchito, sul fondo cremisi ed oro, da un merletto a fuselli e, sull’estremità dello stolone, dallo stemma del casato della nobile famiglia napoletana. Altrettanto individuabili e raffinati nell’austera semplicità, sono gli arredi contrassegnati dalle insegne vescovili del benedettino mons. Bernardo Maria De Riso e, ancor più, quelli del domenicano mons. Emanuele Maria Bellorado il quale, ancora vescovo di Catanzaro, al momento dell’assegnazione del pallio per la guida dell’arcidiocesi metropolitana di Reggio Calabria fece confezionare per la cattedrale catanzarese un parato in taffettas rosa con ricami in argento, aggiungendo al proprio stemma con l’arme dell’Ordine dei Predicatori le insegne arcivescovili metropolitane dell’arcidiocesi reggina. A tutto ciò si aggiungono le pianete e le dalmatiche in damasco classico di manifattura siciliana e catanzarese, ascrivibili tra la fine del ’500 e il primo decennio del
’600, provenienti dalla chiesa cittadina di S. Giovanni Battista. Accanto a tali esempi, nei quali emerge la sobrietà dei moduli tessili seicenteschi, si accostano i paramenti caratterizzati da elementi tipici dello stile Luigi XIV del primo quarto del XVIII secolo, con cornucopie, vasi, drappi, svolazzi, girali e fiori a cui si accostano i ricami a rilievo molto accentuato databili tra la fine del primo quarto e l’ultimo trentennio del ’700, contraddistinti da conchiglie, fiori e foglie, festoni, reticelle e rosette. In questo periodo si collocano: la pianeta realizzata in taffetas celeste con fondo cromatico compatto dal quale si distacca il disegno broccato a più trame di seta con colori sfumati in varie tinte, il cui sviluppo ad “esse” è formato da sequenze di mazzi di fiori legati tra loro da motivi fantastici, apparentemente piume, e da leggeri nastri a pizzo; la pianeta con gallone argenteo frutto di un equilibrato e raffinato lavoro di recupero e cucitura di brani di tessuto diversi che, nei festoni, nella profusione di colori sfumati, nella presenza di putti, nastri e svolazzi, si pone tra i tessuti più importanti e caratteristici per i disegni a grande rapporto e le fantasie floreali con struttura speculare e modulo verticale. Così come non manca un esempio di quei tessuti in taffetas chiné a la branche, caratterizzati da un disegno cosiddetto a “fiamme” con fondo ecrù e sfumature in rosso, verde, turchese e giallo e presente in una pianeta appartenuta alla famiglia Spedalieri di Guardavalle e documentato in alcune collezioni private di Lucca e Reggio Emilia, nonché nei musei diocesani di Bari, S. Severina e Reggio Calabria. Accanto all’accurata esecuzione dei tessuti di fondo e alla bellezza delle stoffe broccate si aggiunge la ricercata ricchezza del ricamo che conferisce alle pianete, alle dalmatiche, ai piviali, alle stole, ai manipoli, alle mitre una particolare preziosità, opere di schiere di “zitelle” e di monache e di lavoranti che, all’ombra dei chiostri e all’interno di sconosciuti laboratori, dedicarono anni e anni della loro “anonima” vita per rendere mirabilmente le estrose creazioni, in un tripudio di ori e di argenti e di sete policrome, quasi un cesello o una pittura realizzata a punta di pennello. Tra le pianete ricamate merita di essere menzionata quella proveniente dalla chiesa della Maddalena realizzata in Gros de Tours (fig. 8) in seta viola a lama d’oro riccamente ricamata in oro e sete policrome a motivi floreali e vegetali. Il ricamo, tra i più importanti presenti in città, si distingue per la ricchezza dei racemi, la bellezza dei galloni ricamati, l’abbondanza di particolari e la dovizia puntuale delle varietà botaniche, che rendono questa pianeta straordinariamente raffinata nell’esecuzione e unica nella fattura. Tra i paramenti si segnala, non tanto per la manifattura tessile, quanto per l’importanza storica, la casula indossata da papa Giovanni Paolo II in occasione della visita pastorale alla città avvenuta nel 1984.
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Cattedrale di Santa Maria Assunta e dei Santi Pietro e Paolo Progettisti arch. Vincenzo Fasolo – arch. Franco Domestico 1121 - Ricostruita 1960 Nell’autunno del 1960, dopo i danni del bombardamento aereo del 1943, veniva consacrato il nuovo Duomo della città progettato dagli architetti Vincenzo Fasolo e Franco Domestico. Il nuovo edificio ingloba parte dell’antica struttura a tre navate, con pianta a croce latina, mantenendo ancora, dal punto di vista architettonico ed urbanistico, l’imponenza della precedente costruzione. La nuova fabbrica si riporta, quindi, all’impianto originario normanno, con la sola eccezione della creazione di un portico a tre arcate sul lato nord prospiciente la piazza e lo spostamento della torre campanaria dal fianco sinistro della facciata principale al centro della stessa. L’interno è caratterizzato da un rivestimento in marmi pregiati comprendente: la navata maggiore, le navate minori e l’ampia e absidata area presbiterale. La cattedrale normanna fu consacrata nel 1121 alla presenza di Papa Callisto II che vi trasferì le reliquie di s. Vitaliano, ancora oggi custodite nel busto argenteo tardo cinquecentesco, probabile opera dell’argentiere napoletano Gilberto Lelio.
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Basilica Minore di Maria SS. Immacolata già della SS. Trinità o di S. Francesco d’Assisi dell’Ordine dei Francescani Minori Conventuali Aggregata alla Basilica Patriarcale di S. Maria Maggiore in Roma 1254 Gli storici sono concordi nell’affermare che il tempio, dapprima dedicato alla SS. Trinità, fu costruito nel 1254 – come evidenziano alcune monofore della navata centrale visibili soltanto dal sottotetto delle navate minori – e che i religiosi francescani furono i primi ad arrivare in città stanziandosi fuori le mura lì dove i cappuccini, nel 1534, eressero il loro convento di S. Maria degli Angeli. Nel 1750 l’edificio, dapprima ad unica navata, venne ristrutturato a cura di frate A. Matalona e, dopo diversi lavori di restauro e ampliamenti durati per tutto l’800 e il ’900, fu ingrandito con l’aggiunta delle due navate minori, della cupola e il restauro della facciata, quest’ultimo su progetto dell’Ing. Giuseppe Parisi. Nel 1775 fu realizzato l’altare della cappella dell’Immacolata commissionato a Silvestro Troccoli, su disegno di Tommaso Mancini, architetto e scultore napoletano, che andò a completare il fastigio realizzato in muratura e stucco al centro del quale è tutt’oggi posta la statua processionale della Vergine, patrona della città, databile tra la fine del ’500 e gli inizi del ’600.
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Chiesa e Convento di S. Maria delle Grazie o di S. Teresa all’Osservanza già dell’Ordine dei Francescani Minori Osservanti 1447 La tradizione vuole che la chiesa e l’annesso convento siano sorti nel luogo dell’antica cappella dedicata alla Madonna della Ginestra. La chiesa, passata successivamente ai PP. Riformati, fu abbellita nel XVII sec. con una cappella dedicata ai Misteri della Passione della quale oggi resta soltanto il Crocefisso schiodato, opera di P. Giovanni da Reggio. Soppresso nel 1861, il convento e parte della chiesa fu trasferito al Ramo militare, mentre il solo presbiterio, che forma l’attuale edificio sacro, passò al Municipio. Tutto l’interno è caratterizzato da una decorazione tardo barocca che si esplicita negli stucchi delle cupole, delle volte, dei capitelli e dello stemma francescano posto al centro dell’arco santo preceduto da un ovale affrescato con i santi Antonio da Padova e Francesco d’Assisi, probabile opera del pittore La Rosa (Tommaso o Giuseppe) di Squillace. La chiesa custodisce la marmorea statua della Madonna delle Grazie di Antonello Gagini del 1504 e il seicentesco gruppo scultoreo ligneo della Madonna della Salute.
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Chiesa di S. Giovanni Battista della Reale Arciconfraternita dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista dei Cavalieri di Malta Ad Honorem Aggregata alla Patriarcale Arcibasilica di S. Giovanni in Laterano 1502 – 1532 La chiesa sorse, presumibilmente alla fine del ’400, sul colle più alto del monte Triavonà e venne ampliata intorno al 1532 su un’area del castello di cui oggi rimane parte delle mura medievali e cinquecentesche. È aggregata alla Basilica Lateranense dal 1502 e sede, a partire dalla stessa data, dell’omonima Confraternita, come si evince dallo stemma in terracotta posto al centro del timpano della facciata. Oltre ad un impianto a croce latina con cappelle laterali ed ampio presbiterio, presenta una facciata tardo cinquecentesca al centro della quale si apre il portale seicentesco decorato ai lati da due colonne di pietra verde di Gimigliano con basi e capitelli d’ordine ionico in marmo bianco, sulle quali s’imposta un piccolo timpano spezzato. In asse con il portale, una nicchia accoglie la statua marmorea del santo Precursore realizzata a Napoli nel 1632. Tra le numerose opere d’arte custodite all’interno, oltre al ciclo di affreschi della cupola opera di Sesto Bruno, si annoverano le tele seicentesche di ambito carraccesco dei Santi titolari, dono di Clemente VIII.
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Chiesa e Convento delle Convertite di Santa Maria Maddalena già delle Monache del Terz’Ordine Regolare Francescano 1560
Chiesa e Convento di S. Francesco di Paola o dell’Addolorata già dell’Ordine dei Minimi o Paolotti 1577 - 1581
La cinquecentesca chiesa della Maddalena venne edificata con l’annesso monastero nel 1560, sotto il pontificato di Pio IV e il presulato di mons. Ascanio Geraldini e sorge nell’antico ristretto parrocchiale di S. Biagio, nel quartiere del Vescovato. Il suo interno presenta un’impostazione architettonica tipica delle chiese conventuali tardocinquecentesche caratterizzate da una navata unica con due cappelle per lato e profondo presbiterio. Quest’ultimo, sormontato da una piccola cupola, è impreziosito dall’altare maggiore in marmi policromi, importante manufatto del 1768 commissionato dal Procuratore delle Convertite Pietro Donato ai napoletani Silvestro e Giuseppe Troccoli. Intorno al 1930, oltre al rifacimento della facciata, furono realizzati, dal pittore Antonio Grillo di Pizzo Calabro, gli affreschi di Santa Chiara e Maria Maddalena sulla volta della navata, dei Cori degli Angeli sulla cupola e nel presbiterio, e dei quattro santi dottori della chiesa, Agostino, Tommaso, Alfonso e Bernardo, nelle quattro vele dei pilastri che sorreggono la cupola.
La costruzione del complesso conventuale dei PP. Minimi è attestata tra il 1577 e il 1581. La chiesa di S. Francesco di Paola, nonostante i ripetuti rimaneggiamenti, si mostra oggi mantenendo intatte le sue caratteristiche di edificio sacro conventuale della fine del secolo XVI e della piena controriforma. La facciata, con molta probabilità, risale alla fine del ‘700, epoca in cui tutta la chiesa fu restaurata in seguito al sisma del 1783. Ma i primi restauri dell’edificio sacro avvennero all’indomani del terremoto del 1638, allorquando il catanzarese P. Paolo Gaspa si preoccupò che la chiesa venisse portata a termine e decorata. Consacrata nel 1727 dal vescovo di Oppido, Giuseppe Maria Perrimezzi dell’Ordine dei Minimi, si presenta, nel suo rifacimento interno, sette-ottocentesco, con alcune modifiche apportate al presbiterio tra il 1901 ed 1903. In questi anni è realizzato, in stile neogotico, il nuovo altare maggiore con fastigio in marmi policromi al centro del quale spicca la settecentesca statua processionale in legno del santo titolare.
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Chiesa e Convento di Santa Maria della Stella già dell’Ordine delle Clarisse Francescane Cappuccine 1585 - 1588
Chiesa e Convento di S. Maria del Carmine già dell’Ordine dei PP. Carmelitani Calzati 1602
La chiesa e il monastero sono siti nell’antico “ristretto” della medievale parrocchia di S. Nicola Coracitano. L’edificio presenta una pianta tipica delle chiese conventuali del tardocinquecento con un’ampia navata – dominata dal barocco altare maggiore in legno dorato e argentato a mecca, unico esemplare presente in città, alle spalle del quale si erge il tardo settecentesco fastigio in stucco con la tela dell’Assunta – intervallata da tre cappelle per lato e da paraste, sormontate da capitelli tardobarocchi di ordine composito, realizzati in stucco. Le sei cappelle laterali, oltre a presentare gli archi decorati in chiave da teste di angeli in stucco, conservano gli originali fastigi, chiara opera di maestranze calabresi del tardo rinascimento, realizzati e scolpiti completamente in legno secondo il gusto dell’epoca e la tradizione delle chiese cappuccine. Ognuno di essi custodisce le tele originarie tra le quali si menzionano l’Immacolata, S. Francesco d’Assisi che riceve le stimmate e la Presentazione di Gesù al Tempio, quest’ultima ritenuta di ambito pretiano.
La storia della chiesa dei Carmelitani è intimamente connessa a quella della parrocchia medievale di S. Maria di Cataro. Dopo il 1783 il titolo fu trasferito, su concessione dei Padri, nell’altare a destra dell’arco maggiore di fronte a quello dedicato alla Madonna SS. del Carmine. Ancora oggi tutto ciò è documentato dall’antica effigie policroma in pietra e cartapesta di S. Maria di Cataro e dalla tela quadrilobata della Madonna del Carmine, opera di Domenico Basile di Borgia del 1747. L’edificio religioso si presenta nel suo rifacimento settecentesco, pur mantenendo il disegno e l’impianto seicentesco voluto dal primo costruttore, il priore dell’Ordine Carmelitano Calzato, P. Giovan Matteo D’Alessandro, con aderenza ai normali schemi conventuali degli ordini mendicanti. La chiesa è caratterizzata da una pianta longitudinale, con ampio coro e contigua al lato nord degli ambienti, riservati ai frati, dislocati attorno al chiostro. Tra le opere d’arte merita di essere menzionata la pala dell’altare maggiore opera di Domenico Leto del 1750.
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Chiesa del Monte dei Morti e della Misericordia dell’Ordine dei Francescani Minori Cappuccini già Oratorio dei PP. Filippini 1728 L’edificio sacro, con pianta a croce greca, fu costruito in età tardo barocca, sfruttando al massimo le leggi compositive architettoniche di questo periodo rappresentando un unicum all’interno del panorama artistico-architettonico della città sia all’esterno, con la facciata in pietra opera di maestranze roglianesi, sia all’interno, dominato dall’altare maggiore dedicato alle Anime del Purgatorio e sormontato da un fastigio con colonne e stucchi. La navata è inoltre coperta da una cupola posta sulle vele dei quattro grandi pilastri e decorate da altrettante tele raffiguranti gli evangelisti che, insieme alla “Gloria di S. Filippo Neri” posta al centro della cupola, furono realizzate nel 1796 dal pittore gasperinese Giovanni Spadea. L’interno custodisce inoltre molte suppellettili liturgiche, paramenti sacri con tessuti di manifattura catanzarese, damaschi sei-settecenteschi ed una grande pala d’altare del 1642 di Giovanni del Prete, raffigurante la Vergine della Porziuncola tra i santi Michele e Bonaventura, proveniente dal vecchio convento dei cappuccini di S. Maria degli Angeli.
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Santuario di S. Maria de Meridie o del Mezzogiorno Sec. IX – XI Il primo impianto di questo antico tempio mariano altomedievale, che deve il suo titolo all’orientamento liturgico posto verso sud-est, viene documentato tra i secoli IX e XI. Dedicato a Santa Maria Assunta, si presenta nel suo rifacimento sette-ottocentesco con cappelle laterali a navata unica; quest’ultima è dominata, nel presbiterio, dal fastigio seicentesco, costituito da marmi policromi con prevalenza del verde di Gimigliano, al centro del quale è posta l’antica effigie della Madonna assisa con il Bambino. La chiesa subì notevoli danni a causa del terremoto del 1783 assorbendo, all’indomani del sisma, anche la parrocchia dei Santi Pancrazio e Venera. Agli inizi dell’800, grazie all’opera del parroco di allora D. Giuseppe Carovita, si apportarono i primi riattamenti e abbellimenti, tra cui il portellino dell’altare della Madonna raffigurante il “Buon Pastore”, opera dell’argentiere napoletano Gennaro Iaccarino. L’esterno si presenta nel suo rifacimento post bellico. Nel 1945, infatti, fu restaurata, in forme eclettiche, la facciata e fu sopraelevato il campanile.
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Chiesa del SS. Salvatore o di S. Omobono già sede della Confraternita dei Sarti Sec. XII
Chiesa di S. Nicola di Morano o delle Donne già di S. Nicola Sicilli Sec. XIII
In base a studi recenti, l’origine di tale struttura potrebbe far ipotizzare, nelle prime fasi costruttive, un edificio con una articolazione a due o più piani rientrante nell’edilizia normanna privata. Trasformata successivamente in luogo di culto e rimaneggiata dopo i terremoti del 1744 e del 1783, si presenta con dimensioni simili alle tante piccole chiese cittadine ad aula unica. La facciata è caratterizzata dall’ingresso ad arco con doppio giro di conci a cui si accosta, a tutta altezza sul lato destro, un’alta monofora cieca. Al di sopra dell’arco centrale una piccola trifora, oggi murata con materiali di risulta e con l’arco centrale completamente scomparso, sormontata da un tipico tema decorativo normanno con conci squadrati posti a spina di pesce. Di maggiore interesse il prospetto laterale prospiciente via De Grazia che mostra, ancora intatti, gli archi a tutto sesto che ripropongono la bicromia dei laterizi e dei conci di calcare della facciata a doppio giro, intervallate da tre monofore rese cieche da interventi successivi.
L’antica parrocchia medievale di S. Nicola di Morano o delle Donne ricadeva amministrativamente nel quartiere “latino” di S. Giovanni dove, intorno al duecento, colonie di commercianti amalfitani e siciliani costruirono contestualmente le chiese di S. Angelo, detta de Malphitanis, e di S. Nicola, detta Sigilli. La chiesa, che ha subito pochi danni dai terremoti del 1783 e del 1832, è tra gli edifici di culto medievali che ha meglio conservato elementi stilistico-architettonici legati all’epoca di fondazione, tra cui il portale laterale svevo con arco a sesto acuto in conci di pietra locale. Orientata a sud-est, presenta un interno ad aula unica conclusa da una profonda abside, illuminata da una piccola monofora in pietra a sesto acuto con tracce di pitture nell’intradosso. La calotta, al contrario, è abbellita da affreschi che riproducono a trompe d’oeile una decorazione a lacunari al centro della quale spicca la colomba dello Spirito Santo. L’aula è coperta da una volta a padiglione al cui centro è posta l’immagine di S. Nicola di Mira.
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Chiesa di S. Maria de Figulis detta di Montecorvino sec. XIII
Chiesa di S. Maria d’Ognissanti detta di S. Rocchello sec. XIII – XVI
Chiesa di S. Maria de Plateis in S. Anna Sec. XVIII
Chiesa di S. Angelo de Siclis già di S. angelo Malfitanorum Sec. XIII
Il piccolo edificio sacro assume tale denominazione in quanto, come riportato da alcune fonti, questo ristretto parrocchiale costituiva, già in età medievale, il quartiere dei vasai i quali, con molta probabilità, si prodigarono per la costruzione della chiesa dedicandola a Maria SS. delle Grazie e fissandone la festa liturgica il giorno della Natività della B.V. Maria. Il titolo di Montecorvino si deve al toponimo che ricorda, secondo una tradizione, il numero enorme di corvi che, in un dato periodo dell’anno, si annidavano tra gli alberi dei numerosi “orti urbani”, ancora oggi, peraltro, presenti nelle vicinanze del sacro edificio. Elevata a rango di parrocchia nel 1601 e danneggiata dal sisma del 1783, venne restaurata nel 1858 dal parroco Pucci, il quale, pur mantenendo la pianta ad aula unica, chiuse l’antico ingresso posto a est e fece realizzare l’attuale soffitto con una calotta ad otto vele, con una struttura a “caroselli” o “figulini” successivamente abbellita da un ciclo di tempere raffiguranti “Scene della vita della Beata Vergine Maria”, opera di Nicola e Domenico Pignatari.
La chiesa d’Ognissanti fu ricostruita o ristrutturata dopo l’edificazione, nel 1565, del convento femminile delle terziarie domenicane intitolato a S. Caterina da Siena con l’annessa chiesa dedicata a S. Rocco. L’edificio prese il nome di S. Rocchello all’indomani del trasferimento della statua marmorea dal convento suddetto all’interno della chiesa; ciò affinché le monache non fossero disturbate dai devoti di S. Rocco che sempre affollavano la chiesa conventuale. L’interno, a navata unica, intervallata da tre cappelle per lato, si presenta nel suo rifacimento tardobarocco con stucchi di gusto rococò realizzati intorno all’ultimo decennio del 1700 probabilmente da Pietro Joele di Fiumefreddo. A questo periodo risale il fastigio settecentesco dell’altare maggiore, quest’ultimo in marmi policromi del 1898, la cui struttura architravata presenta una nicchia centrale all’interno della quale è posta la marmorea statua di S. Rocco del 1564, opera dello scultore napoletano Giandomenico D’Auria.
Questa chiesa fu edificata intorno al 1740 ad opera dei coniugi D. Giovanbattista e Chiara Grimaldi quale cappella del loro palazzo. Il titolo della vecchia parrocchia di S. Maria de Plateis o della Piazza vi fu trasferito presumibilmente dopo il 1832, anno in cui il parroco del tempo innalzò al lato sinistro un altare dedicato alla Presentazione di Maria Vergine al Tempio, titolare della Parrocchia, e lasciò l’altare maggiore dedicato a S. Anna. Quest’ultimo conserva ancora oggi, al centro dell’edicola del fastigio tardobarocco, il busto di S. Anna e la Madonna Bambina opera dello scultore catanzarese Vincenzo Pignatari. La chiesa è posta tra il Palazzo degli Anania e l’attuale Palazzo Bianchi con un prospetto esterno con caratteristiche eclettiche ottocentesche, preceduto da una breve scalinata chiusa da una cancellata in ferro battuto. L’interno è caratterizzato da un impianto con aderenza ai normali schemi delle chiese a navata unica presenti in città, con cappelle laterali ed un apparato artistico-architettonico sette-ottocentesco.
Questa antica chiesa, costruita da una comunità di mercanti amalfitani, sorge in quello che era definito anticamente il rione Paradiso, ed è documentato non solo tra i più vetusti ristretti parrocchiali di Catanzaro – menzionato per la prima volta in un documento in greco del 1267 – ma anche tra le più antiche testimonianze architettoniche legate al commercio dei tessuti serici per i quali la città ha avuto una lunga tradizione artigianale. La chiesa mantenne il titolo “Malfitanorum” fino alla metà del sec. XVI mentre, dal sec. XVII, divenne luogo di culto di una comunità di mercanti siciliani, comparendo con il nuovo titolo “de Siclis”. Soppressa dopo il sisma del 1783, fu ripristinata al culto soltanto nell’Ottocento. Non presenta particolari accenti linguistico-formali, fatta esclusione per la pianta ad aula unica e la traccia di un ingresso laterale, quali elementi tipici delle chiese altomedievali presenti in città. L’interno custodisce la settecentesca pala d’altare raffigurante San Michele Arcangelo desunta da modelli reniani e probabile opera di Domenico Antonio Colelli.
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Oratorio della Confraternita di S. Maria del Carmine 1689 L’oratorio è parte integrante del grande complesso conventuale di S. Maria del Carmine dei PP. Carmelitani Calzati. La costruzione dell’aula per le riunioni dei confrati è attestata da un atto pubblico del 1689, epoca in cui si realizza l’arredo ligneo in noce di tipo ancora rinascimentale ma con un ornato che muove verso un linguaggio barocco ed un lessico decorativo di ascendenza tardo-manieristica. Il semplice invaso spaziale è caratterizzato da un’aula unica, dominata dalla grande cattedra priorale e dagli stalli lignei a tre ordini di seduta disposti lungo le pareti laterali, conclusa dall’arco santo. Quest’ultimo, decorato da stucchi di gusto rococò, chiude e definisce il piccolo coro al centro del quale è posto il grande altare ligneo scolpito e dorato a mecca in cui è posta la statua processionale della SS. Vergine del Carmine. Ai lati dell’altare si aprono due finestroni sormontati da due piccoli oculi a cui fanno eco, sui lati minori, due coretti lignei che sovrastano le rispettive porte decorate e scolpite secondo un gusto ancora tardo-manieristico.
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Oratorio della Reale Arciconfraternita di Maria SS. Del Rosario 1621 L’oratorio fu aperto e consacrato l’undici maggio 1621. Nel 1683 fu abbellito, lungo le pareti, da stucchi barocchi caratterizzati da elementi vegetali e antropomorfi. L’interno, lungo ventitré metri e largo dieci, oltre al geometrico pavimento in marmi policromi, è impreziosito dagli stalli lignei di gusto tardo-manieristico, scanditi da paraste che racchiudono specchiature classicheggianti, su cui si imposta un ricco fregio e una cimasa continua a motivi vegetali e che trova il suo fulcro nella grande cattedra priorale decorata da vasi biansati. L’oratorio, dopo la seconda guerra mondiale, perse molto del suo arredo ed in particolare: il soffitto in legno, l’artistico altare e i quadri con i quindici misteri del SS. Rosario. Ques’ultimi, posti nelle cornici a stucco lungo le pareti e sul soffitto, furono sostituite, intorno agli anni ’30 del ’900, da affreschi realizzati dal pittore napitino Antonio Grillo che realizzò, inoltre, nei riquadri sopra la cattedra priorale, ai lati del grande stemma secentesco, la Madonna del Rosario con S. Domenico ed il ritratto di Pio V.
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Chiesa di S. Caterina V. e M. o del SS. Rosario in Gagliano sec. IX – XI
Chiesa Matrice di S. Maria Assunta o S. Maria del Carmine in Gagliano sec. XVI
Il nucleo abitativo del Gonio rappresenta, nel tessuto urbano gaglianese, l’antico polo spirituale e religioso medievale in cui si attesta, intorno al XII sec., con un orientamento est-ovest, l’impianto della chiesa di S. Caterina V. e M.. Il quartiere e la sua chiesa si contrappongono al nucleo fortificato che, secondo gli studi del De Siena, corrisponde al sito della Matrice il cui campanile potrebbe essere un’originaria traccia di una torre facente parte del sistema difensivo di cui l’oppidum di Gagliano era dotato. La chiesa presenta un interno, a navata unica con cappelle laterali, in cui predomina, nell’impostazione decorativa, il gusto tardo barocco dovuto ai restauri eseguiti dopo i danni del terremoto del 1783. L’edificio custodisce un notevole patrimonio d’arte rappresentato dal seicentesco pulpito ligneo, da altari marmorei tardo rinascimentali, da paramenti sacri di manifattura catanzarese ascrivibili tra il XVII e il XIX sec., nonché da opere pittoriche di F. e D. Colelli e D. Basile, e dal crocefisso ligneo quattrocentesco più conosciuto come la “Santa Croce”.
L’impianto urbano altomedievale di Gagliano si snoda, da nord a sud, sul crinale del colle dell’antica località Petrusa nella quale, secondo le cronache, fu fondata nel 1528 l’attuale chiesa matrice in posizione dominante sul resto dell’agglomerato urbano. Danneggiata dal sisma del 1783, fu restaurata e ampliata nel 1790 su progetto dell’ingegnere Claudio Rocchi. La chiesa è a croce latina con tre navate, la maggiore delle quali è intervallata da tre cappelle per lato, con ampio transetto e profondo coro. Il tutto è, inoltre, enfatizzato dagli stucchi di gusto rococò dell’altare maggiore e dell’altare della Madonna del Carmine, i cui partiti decorativi, insieme a quelli della navata centrale, richiamano, nella loro impostazione, quelli presenti all’interno della Basilica dell’Immacolata. La volta della navata maggiore presenta alcuni affreschi (l’Assunzione di Maria SS. ed il Trasporto dell’Arca Santa) attribuiti a Domenico Antonio Colelli mentre tra i dipinti, oltre a quelli di F. Colelli e D. Ruffo, si ricorda l’Incoronazione di Maria nella gloria dei santi opera di Biagio De Vico.
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lo stemma dell’arciconfraternita del ss. rosario di catanzaro
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Sandro Scumaci
Documentare lo Stemma dell’Arciconfraternita del SS. Rosario di Catanzaro contraddistingue un aspetto della città circoscritto e peculiare molto interessante come testimonianza distinta in più epoche, dalle diverse forme e in più materiali. Esso copre un periodo storico che va dal XVII al XXI secolo ed è realizzato con tecniche che vanno, dallo stucco al marmo, dal ricamo in seta, in oro ed in argento alla pittura, dalla ceramica e per finire alla stampa. La realizzazione dello stemma è quindi molteplice e diversificata da creare una varietà ricca ed importante. La presenza del tema in oggetto è quindi ricorrente nei diversi posti in quello che potrebbe definirsi “Complesso Monumentale del SS. Rosario”. Il presente lavoro di ricerca è realizzato nella descrizione degli stemmi dell’Arciconfraternita quale parte integrante nella storia artistica, tecnica e culturale, della Chiesa del SS. Rosario, l’ex Convento dei Domenicani e l’attigua Congrega. Mostra ricchezza materiale da una parte e spirituale dall’altra, che ha da sempre contraddistinto e manifestato la Confraternita in oggetto nei secoli con una presenza costante, operosa ed impegnata nella vita religiosa e sociale della città. Le numerose raffigurazioni di questo stemma ne fanno uno dei più rappresentati in edifici pubblici o religiosi della città. Ciò, a testimonianza dell’appartenenza della Chiesa, dell’Oratorio e di altri beni immobili e mobili ai Confratelli dell’Arciconfraternita del SS. Rosario. Manifestando a pieno titolo l’importanza culturale e artistica, religiosa e laica, ed inoltre solidale, che ha avuto nella storia della città di Catanzaro. Una presenza che nel passato è stata anche un’importante committenza corre il rischio di perdersi, dato l’abbandono e lo stato conservativo in cui versa l’intero Complesso. Lo stato in cui versa la Congrega e la Chiesa del SS. Rosario per il mancato intervento di restauro, pone gli edifici al rischio di crollo. Il sicuro ed inesorabile avanzamento del deterioramento strutturale negli immobili per l’umidità causata dalla mancanza di manutenzione e l’uso attualmen-
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Pianeta, lamio in seta bianca ed argento, XIX secolo, sagrestia. Pagina successiva: Stemma A.SS.R., particolare, ricamo in seta ed oro, XIX secolo, sagrestia.
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te non adatto dell’ex Convento dei domenicani presentano il problema di una valida fruizione da parte della cittadinanza come esposizione museale permanente delle opere del Complesso stesso, con sale per riunione e convegni. I manufatti sarebbero fruiti dai visitatori e dalla cittadinanza che ancora non ne conosce l’esistenza e quindi non cosciente di una parte importante del valore storico ed artistico della città. Sarebbe un’occasione per un valido recupero ed una appropriazione delle proprie radici e della propria identità culturale con la riqualificazione dell’ex Convento dei Domenicani per la nascita di quello che dovrebbe essere tutto il sito della piazza, in “Complesso Monumentale del SS. Rosario”. Nell’oratorio è crollato parte dello stucco raffigurante una conchiglia e la testa di un putto e parte del calcinaccio del soffitto, con piccoli particolari di affresco, come quello rappresentante il viso della Madonna, perdendosi irrimediabilmente. Il resto del soffitto presenta inoltre, diverse lesioni che preannunciano un possibile cedimento strutturale. Nella chiesa l’acqua piovana penetra dall’ingresso laterale è lungo le scale del campanile con il pericolo di danneggiare i preziosi manufatti in seta riposti nelle stanze attigue e nella sottostante sagrestia. La trave all’altezza dell’ingresso principale, è parzialmente lesionata precludendo l’ingresso dalla porta principale ed il percorso nello spazio antistante ai fedeli ed ai visitatori. L’ordinario utilizzo delle funzioni religiose come matrimoni, funerali e processioni è da tempo del tutto vanificato. La situazione dal punto di vista conservativo è quindi di grave degrado, sia nelle strutture architettoniche che per le numerose e pregevoli opere d’arte in esse custodite. Si pone evidente e chiaro un intervento urgente e radicale dal punto di vista conservativo e di recupero. Numerose sono le istanze prodotte presso gli enti competenti per il restauro, le aspettative per la convenzione con l’Università Magna Grecia di Catanzaro sono state disattese, mentre l’ultima richiesta d’intervento è stata fatta alla Regione Calabria nel novembre 2005. Lo stemma dimostra, dal punto di vista iconografico, il legame che unisce indissolubilmente l’Arciconfraternita del SS. Rosario ed il Comune di Catanzaro da cui appunto scaturisce, per l’elemento costitutivo comune dei tre colli. Una corretta testimonianza, una giusta valorizzazione, una valida ricerca, una precisa catalogazione descrittiva e fotografica, sono stati gli spunti ed i motivi che hanno dato occasione di creare, nello spirito giusto, l’attuazione del presente lavoro per una dovuta presa di coscienza dell’alto valore simbolico, religioso, artistico e culturale che ha rappresentato e rappresenta lo Stemma dell’Arciconfraternita del SS. Rosario di Catanzaro.
La Confraternita(1) Sorge dalla comunità fraterna di preghiera sviluppata nel monachesimo del VI e VII secolo come comunità spirituali di preti secolari o laici. La confraternita del Medioevo è composta come categoria professionale molto simile alle gilda assolvendo anche compiti di corporazioni. Nel primo millennio è composta ancora principalmente da soli chierici ma comincia ad essere organizzata anche da laici fino al XII secolo. Dal XII secolo diviene normale la confraternita mista, cui possono appartenere sia chierici che laici. Nel 1213 a Palancia in Spagna, San Domenico istituisce la prima Confraternita del SS. Rosario con il riconoscimento ufficiale del Papa Onorio III (1216-1227) Cencio Savelli, del 1216. Nel 1475 nasce a Colonia la Confraternita del SS. Rosario come diffusione della preghiera ed eretta dall’Ordine dei Domenicani, con il beneficio dell’esclusiva istituzione, sotto il titolo di “Madonna del SS. Rosario”, con bolla del papa domenicano Pio V (1566-1572) Antonio Michele Ghislieri, Bollarum Romanorum dell’11 giugno 1569. Con la vittoria dei Cristiani sui Turchi nella battaglia di Lepanto del 1571 i confratelli festeggiano la Madonna del SS. Rosario la prima domenica di ottobre, come ordinato da Papa Gregorio XIII (1572-1585) Ugo Bonconpagni, bolla Monet Apostolus dell’1 aprile 1573. Il maggiore splendore e la massima diffusione delle varie confraternite in genere, si ottiene nel XVI e XVII secolo. Il gruppo viene in seguito, variamente composto da laici e chierici, uomini e donne, consociato nelle città come nelle campagne per scopi di edificazione ed elevazione religiosa, di impegno liturgico, di solidarietà devota, di pratica penitenziale ed assistenziale. Tuttora sono chiamate, con il nome di Confraternite, le varie associazioni fraternali laiche in genere, mentre tra gli altri termini il più in uso e comune è quello di Misericordia. Oggi le Confraternite, rispetto al passato, sono meglio disciplinate. Hanno regole stabilite dall’ordinamento giuridico che fanno riferimento alla pubblica sicurezza, riguardo la vita delle associazioni private mentre nel diritto canonico, le associazioni istituite da fedeli per scopi religiosi hanno fondamento giuridico nel secondo libro del Codex Juris Canonici con il titolo “Nel Popolo di Dio”. Riguardo le Associazioni Laicali, il Titolo Quinto (canoni 215/219) stabilisce che le Confraternite sono composte da fedeli laici, che hanno lo scopo di praticare opere cristiane di pietà e carità e principalmente la promozione del culto. Le confraternite, a differenza delle altre associazioni di culto come i Terzi Ordini e le Pie Unioni, hanno personalità giuridica e, nell’ambito ecclesiastico sono collocate tra gli enti morali. Alle Confraternite è consentito stipulare compravendita di immobili, accettare donazioni e lasciti, possedere ed amministrate beni temporali con l’obbligo di osservare le disposizioni al controllo dei bilanci da parte dell’autorità ecclesiastica. Le Confraternite a Catanzaro erano numerose, alcune legate a corporazioni del
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lavoro come quella dei setaioli che formavano la Corporazione del Sangue di Cristo del 1569 con sede prima nella Cattedrale come cappella delle Arti dei Setaioli e poi nella Chiesa del SS. Rosario e quella dei Sarti con sede nella Chiesa di Sant’Omobono prima del 1681. Altre corporazioni erano prettamente religiose come quella dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista del 28 aprile 1502, di Santa Caterina del 1511, di San Rocco del 1566, di Santa Maria della Consolazione del 1587, del SS. Sacramento del 1588, dei Bianchi di S. Croce della seconda metà del ’500, dei Santi Crispino e Crispiniano nella Cattedrale Confraternita dei Calzolai, Pianellatori e Conciatori della pelle del 1662. Le uniche Confraternite rimaste attive in città sono quattro, la Confraternita del SS. Rosario, dell’Immacolata, del Carmine e dei SS. Giovanni Battista ed Evangelista. Partecipano contemporaneamente tutte e quattro alla processione del Venerdì Santo detta “Naca” (2) organizzandola ciascuno una volta l’anno. Fatto unico, particolare e straordinario è che alla Naca di Catanzaro partecipano nell’unica processione del Venerdì Santo, più figuranti del Cristo portacroce rendendola, nel percorso penitenziale, multipla nella valenza religiosa e tradizionale. La processione, di origine molto antica, consiste nel far percorrere lungo le principali vie cittadine del centro storico, la statua del Cristo morto e la statua dell’Addolorata con il seguito di fedeli delle varie parrocchie e la partecipazione dei confratelli delle quattro confraternite vestiti con il saio, la mozzetta e medaglione ed il Cristo porta-croce. La processione della Naca viene effettuata, inoltre, anche nei vicini comuni di Pentone, Borgia e Davoli (CZ). La Confraternita del SS. Rosario di Catanzaro cresciuta nel tempo di affiliati, dal 1587 si raduna in un’ampia sala del convento affacciata all’interno del chiostro, dove viene trasformata in oratorio e arredata con sedili ed altare intitolato alla vergine del SS. Rosario. I confratelli creano le regole della Confraternita rifacendosi a quelle di S. Maria sopra Minerva di Roma del 1481 e nel 1592 scelgono gli Ufficiali(3) che chiamano Priore, Sotto Priore e Procuratore divenendo così una vera e propria Confraternita autonoma. Durante le cerimonie e le processioni, vestono il sacco e la mozzetta nera, come indicato da San Pietro martire da Verona in riferimento al colore del saio dei domenicani. Nel 1621 costruiscono la sede definitiva in un locale esterno al convento, posto di fronte. Nel 1776 la Confraternita del SS. Rosario di Catanzaro per Regio decreto del re Ferdinando IV diviene Arciconfraternita(4). Aggregata all’Arciconfraternita del SS. Rosario di Catanzaro è la Fratrìa del Sangue di Cristo del 1569, altre Confraternite del SS. Rosario affiliate sono quella del quartiere Gagliano a cui è legata più anticamente, la Confraternita di Taverna (CZ) che risale al 10 luglio 1855 e quella di Stalettì (CZ) al 21 settembre 1858. Il 1857 il re di Napoli dichiara l’Arciconfraternita del SS. Rosario, la più antica della città. Al sodalizio erano iscritti sia nobili che
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gente modesta, infatti, il confratello più conosciuto è Domenico Scaramuzzino(5) di origini umilissime che con la raccolta dell’elemosina ha contribuito considerevolmente, tramite donazioni, alla ricchezza artistica della Chiesa. Da molti anni la Confraternita del SS. Rosario non è più operativa come la Confraternita del Carmine, mentre lo sono quelle dell’Immacolata e dei SS. Giovanni Battista ed Evangelista. Attualmente la Confraternita del SS. Rosario è guidata da una Rettoria tramite il sacerdote nominato dal Vescovo.
La chiesa del SS. Rosario Già dell’Annunziata e poi di San Domenico, oggi Chiesa Rettoria, è una delle Chiese più antiche, grandi e di valore artistico della città di Catanzaro. Rappresenta un notevole esempio architettonico rinascimentale con diversi rimaneggiamenti a causa dei diversi terremoti succedutosi a più riprese. Fu fondata insieme al Convento di San Domenico da frà Paolo da Mileto nel preesistente ospedale, su concessione del signore della città Nicola Ruffo il 10 dicembre 1401. Nel 1472 viene data alla chiesa il nome di SS. Annunziata, festeggiata il 25 marzo con una fiera nella piazza antistante. Venne consacrata il 24 maggio 1499 dall’arcivescovo di Santa Severina Alessandro De Marra in quanto il vescovo di Catanzaro Monsignor Stefano Goffredo era assente. Il 24 Aprile 1638 la Madonna del SS. Rosario viene eletta protettrice della città di Catanzaro ed esposta ai fedeli nel mese di ottobre con festeggiamenti nella prima domenica. Nello stesso anno viene danneggiata nel sistema archivoltato e nel crollo di una colonna dell’altare maggiore spezzata in due. Le decorazioni a stucco vanno dal XVII al XIX secolo, con quelli delle pareti realizzate da Pasquale e Gaetano Fezza da Rogliano(6) eseguite tra il 1770 ed il 1772. Nel 1742 frà Nicolò Moio, patrizio della città, ne favorisce la ricostruzione. Nel 1783 la Chiesa è ulteriormente danneggiata dal terremoto e riparata nel 1787. Il gravoso terremoto del 1832 ne obbliga la chiusura fino al 1891 per il crollo delle volta della cappella della Madonna del SS. Rosario e della cupola che viene ricostruita ad incannucciata, e per danni alla facciata ricostruita a capanna in stile neoclassico nel 1843. Tra il 1897 ed il 1898 viene realizzata la gradinata. Al posto della quarta cappella a destra, è presente l’apertura esterna laterale che permette l’ingresso da Via dell’Arcivescovado realizzata gli inizi del ’900 e l’intera ripavimentazione dell’edificio. Situata nella piazza precedentemente denominata Largo Tribunali, presenziata dagli antichi palazzi nobiliari delle famiglie Rocca-Grimaldi, Le Piane e De Riso, si eleva grandiosa con l’aspetto stilistico architettonico che è unico per la città. Alle spalle del Duomo, tra Via dell’Arcivescovado e Piazza del Rosario, si sviluppa complessivamente su un unico piano rialzato rispetto la sede stradale. Presen-
Pianeta, lamio in seta bianca ed argento, XIX secolo, sagrestia. Pagina precedente: Stemma, particolare, ricamo in seta ed oro, XIX secolo, sagrestia.
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ta un impianto planimetrico a croce latina ad unica ed ampia navata lunga m 38 e larga m 20, intervallata da quattro cappelle comunicanti parzialmente per lato e da cinque paraste sormontate da capitelli d’ordine corinzio, realizzati finemente in stucco, in una variante tipicamente neoclassica, sui quali si imposta l’aggettante trabeazione decorata finemente da girali fitomorfi in stucco, caratterizzati dai tipici motivi a racemi che percorrono perimetralmente l’intero edificio e sul quale si innalza la controsoffittatura a botte lunettata, anch’essa impreziosita da stucchi. La superficie della volta è scandita da piatte costolonature che vanno a poggiare in direzione delle paraste suddividendola in quattro campate, su cui si intervallano, in modo regolare, quattro finestroni, di cui due murati, ai lati della cantoria ottocentesca. La copertura realizzata a quattro spioventi sulla cupola ed a due sulla navata centrale, è costituita da coppi ed intercoppi in terracotta su di un orditura in legno. L’incrocio del transetto con i quattro pilastri e le altrettante grandi vele con la cupola, realizzata in canne e senza tamburo, conferiscono a tutto l’organismo presbiterale, importanza e solennità completato da stucco neoclassico decorati a festoni. Tutto ciò è esaltato artisticamente dall’altare maggiore del XVIII secolo, in pregiati marmi policromi, pietre dure e madreperla, opera di Silvestro e Giuseppe Troccoli(7), proveniente dalla chiesa del monastero di Santa Caterina da Siena della città; dall’elegante fastigio con colonne binate in marmo di Gimigliano(8) e bianco di Carrara del XVII e XVIII secolo, dai due grandi angeli lignei con cornucopia provenienti dalla chiesa di S. Caterina Vergine e Martire posti su colonne in marmo in stile neoclassico, nonché dagli altari della Madonna del SS. Rosario, opera di Andrea Maggiore da Carrara(9) del 1615 e del SS. Nome di Gesù del 1665 rispettivamente posti il primo a sinistra ed il secondo a destra del transetto. La chiesa è ricca anche d’importanti opere d’arte provenienti da chiese cittadine ormai non più esistenti. Nella sagrestia si custodiscono, inoltre, importanti esempi delle pregiate manifatture seriche catanzaresi, le quali abbracciano un arco di tempo ascrivibile tra i secoli XVII e XIX, con gli arredi sacri in tessuto di paliotti, mozzette, mantelli, dalmatiche, pianete ed accessori. Tra tutte occorre menzionare la seicentesca pianeta detta dei Borgia che la tradizione vuole commissionata da Papa Alessandro VI per le nozze di Don Goffredo Borgia con Donna Sancia d’Aragona, bastarda di Alfonso II per il titolo di Principe di Squillace. La facciata è sormontata dal timpano con lo Stemma dell’Arciconfraternita del SS. Rosario ed è percorsa nel resto, interamente in senso verticale, da sei lesene scanalate con base modanata e capitelli corinzi. Il restante spazio delimitato dalle lesene centrali è occupato inferiormente dal grande portone d’ingresso, centralmente da componenti architettonici con motivo a Serliana con vetrata a cornice cen-
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tinata, tutti elementi realizzati in materiale a graniglia. L’ampia scala semiottagonale in marmo grigio-verde con venature bianche che valorizza ulteriormente il prospetto, è ricostruita con la sistemazione delle strade adiacenti che vengono abbassate di livello. La costruzione dell’attuale facciata ha spostato il campanile, originariamente a coppia di lato, nel settore posteriore dell’intera costruzione, accanto la sagrestia, permettendone la realizzazione con le dimensioni attuali. La gradinata completata nel 1898 costa 4844,15 lire, insieme ad alcuni lavori in cemento sul frontespizio della chiesa diretti dal confratello dell’Arciconfraternita l’Ingegnere Michele Manfredi.
Stemma A.SS.R., particolare di pianeta in broccato, ricamo in seta ed argento, XIX secolo, sagrestia.
Il Convento I Domenicani vengono accolti a Catanzaro dal Conte della città Nicola Ruffo, che dona loro la sede dell’ospedale, dove fondano il 10 dicembre 1401 un convento con frà Paolo da Mileto, il quale aveva già fondato un monastero a Taverna. Le fonti attestano che il convento possiede un patrimonio cospicuo con rendite in denaro e beni di ingente valore per fondi, beni rustici, botteghe ed abitazioni. Nel 1501 il convento è ancora in costruzione, in quanto sono richiesti fondi dalla città a Consalvo de Cordova. Dal 1587 in una sala attigua al chiostro, ha sede la Confraternita del SS. Rosario decorata con intagli lignei e oro zecchino. Il 1661 il domenicano Antonio Lembo istituisce l’Accademia degli Agirati una delle tre istituite in città con quella dei Taciti e quella degli Aggirati istituita dai padri Teatini nella Chiesa di Santa Caterina sempre nel corso del XVII secolo. Presso il Convento il 25 marzo, si svolge la fiera dell’Annunziata che dura fino al 1668, quando viene interrotta dalla paura del contagio per la peste bubbonica che provoca la morte di circa un terzo della popolazione. Nel 1742 il convento viene ricostruito da Padre Priore Nicolò Moio. Nel 1783 viene soppresso in città l’Ordine dei Domenicani che sgombrano immediatamente il Convento dove si insidia nel 4 giugno 1784 la Giunta della Cassa Sacra fino al 1796 anno in cui ritornano i frati domenicani riprendendo l’attività religiosa nel Convento e nella Chiesa. Il 7 agosto 1809 Gioacchino Napoleone abolisce con Decreto, l’Ordine dei PP. Domenicani che lasciano di nuovo il convento, questa volta definitivamente, lo stesso anno e precisamente il 15 ottobre. Nel 1806 nell’edificio si stabilisce una guarnigione francese ed una parte del Convento è adibito ad ospedale per cui i confratelli dell’Arciconfraternita non potendo accedere alla congrega dal chiostro chiudono la porta di accesso e ne aprono un’altra nel versante della pubblica via che è quella tuttora esistente. Dopo il 1814 è sede dell’Ospedale Militare. Il 1816 sotto il regno di Ferdinando di Borbone, è sede dell’Intendenza, dei Tribunali e della Corte d’Appello con legge dell’8 dicembre dello stesso anno, trasferiti da Montele-
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Stemma A.SS.R., particolare di copriquadro in raso di seta cremisi, ricamo in filo dorato, XIX secolo, sagrestia.
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one, oggi Vibo Valentia, dove rimane fino al 1930. Nel 1821 vi prende posto la truppa austriaca alloggiata a Catanzaro. Nel 1843 in tre stanze del locale attiguo al Convento adibito prima a farmacia, si insedia l’Archivio di Stato. Il Convento in seguito diviene prima sede dei Carabinieri ed infine intorno al 1950 è sede della Guardia di Finanza. In tre stanze è posto il Museo Provinciale che viene trasferito definitivamente il 4 maggio 1879 nei locali predisposti di Villa Margherita. Fortemente riadattato di volta in volta, da cambiarne la fisionomia originaria per essere adibito ed adeguato all’utilizzo dei vari organismi a cui è stata destinata, fino a quella odierna della Guardia di Finanza. Ha perso, quindi, gran parte dell’impostazione architettonica con pesanti rifacimenti che hanno eliminato definitivamente l’aspetto originario. Sono eliminate o nascoste le arcate del chiostro che è ridotto ad un anonimo e vuoto grande androne. La facciata riadattata più volte, l’ultima negli anni novanta del novecento, con l’aspetto “nobilitato” a bugnato in cemento nel piano terra e nei due piani superiori con cornici a timpano o lesene orizzontali nelle finestre. L’aspetto è di un palazzotto riadattato, con gusto di tipo rinascimentale. Sarebbe auspicabile adibire un’ala a Museo della Chiesa e della Confraternita del SS. Rosario con esposizione permanente dei parati in seta catanzarese e dei manufatti artistici che attualmente non hanno idonea collocazione. Finalmente con un’esposizione adeguata, i manufatti sarebbero fruiti dai visitatori e dalla cittadinanza che ancora non ne conosce l’esistenza e quindi il valore storico ed artistico. Dando così, un’occasione ad un valido recupero ed un’acquisizione consapevole per una appropriazione delle proprie radici e della propria identità culturale con la riqualificazione dell’ex Convento dei Domenicani per la nascita di quello che dovrebbe essere tutto il sito della piazza, nella definizione più che valida e corretta in Complesso Monumentale del SS. Rosario. Catanzaro ha numerosi conventi, alcuni sono andati distrutti come il Convento romanico di San Francesco d’Assisi del 1252 demolito il 1938 insieme al rione Paisello, per allargare Piazza Prefettura e costruire al suo posto l’edificio dell’I.N.A. (Istituto Nazionale Assicurazioni). Tra quelli esistenti, la maggior parte, sono utilizzati dallo Stato come sede della Guardia di Finanza (San Domenico e Santa Caterina da Siena), del Distretto Militare (Cappuccini), dei Carabinieri (S. Chiara), dell’Intendenza di Finanza (Teatini e Liguorini), del Convitto Galluppi (Gesuiti), dell’Accademia di Belle Arti (S. Maria della Stella), della Scuola Elementare Maddalena (Convertite), o da riutilizzare dopo essere stati adibiti come Ospedale Civile (Agostiniani), Orfanotrofio Maschile (Carmine, che è in fase di restauro), ex Ospedale Militare (Osservanti), o utilizzato come esposizione di mostre in quanto facente parte del Complesso Monumentale del S. Giovanni (Teresiani o Carmelitani Scalzi) ed infine, adibito ad abitazione (S. Francesco di Paola).
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Pagina precedente: Stemma A.SS.R., di paliotto o gonfalone ricamo in seta ed argento, XIX secolo, sagrestia. A destra: Stemma A.SS.R., particolare di gonfalone, ricamo in seta ed oro, XIX secolo, sagrestia. Pagina successiva: Stemma A.SS.R., bassorilievo in marmo del 1898, lati della mensa d’altare del transetto sinistro.
Quindi, la presenza nella città di Catanzaro di numerosi conventi, con rispettive Chiese o Cappelle, danno testimonianza del fervore attivo che permeava oltre che da quello religioso, certamente, anche dal punto di vista culturale ed artigianale di altissimo livello. Essendo centri di vita religiosa organizzata, danno impulso a vari livelli alle attività preposte dagli ordini basti pensare, per quello che ci può interessare dal punto di vista artistico, ai lavori eseguiti dalle suore. Il taglio dei paramenti sacri, le vesti indossate dai celebranti durante la liturgia, ed il ricamo, danno un sicuro e validissimo importo artistico nella rifinitura all’attività dell’arte della seta catanzarese che tanto ha contraddistinto la città di Catanzaro nel suo passato. La tradizione delle nobili dame catanzaresi di donare la canduscia(10), ha permesso la conservazione della lavorazione della seta catanzarese che altrimenti sarebbe andata persa. Inoltre, l’elaborazione artigianale del ricamo in seta e filati in oro ed argento utilizzati nelle pianete nella realizzazione dello stemma della Arciconfraternita del SS. Rosario, rende ancora di più meraviglia per ciò che le abili mani hanno sapute realizzare con sapiente maestria.
L’Oratorio(11) Originariamente è in una stanza attigua al Chiostro del Convento, dove nel tempo non potendo più bastare come grandezza, si decide di scegliere una nuova sala più grande e con l’altare posto di fronte al convento, nella sede attuale della Congrega(12) in via Mottola d’Amato. L’11 maggio 1621 il lunedì dopo la festa di Pentecoste, si inaugura il nuovo locale da parte di Padre Giocondo di Altomonte. La Congrega viene decorata con soffitto in legno a cassettoni ad oro zecchino, con dipinti su tela dei 15 misteri del SS. Rosario, eleganti sedili in legno di noce a tinta naturale, intagliati in tre ordini con 48 posti ciascuno con quello più in basso riservato ai novizi(13). Dalla pianta rettangolare lunga m 20, larga m 10 ed alta m 8, con i lati minori senza finestre ed adornati in modo diverso. Quello entrando a destra, vi è in legno intagliato, la grande cattedra priorale ed in alto al centro lo stemma della Confraternita del SS. Rosario con nel cartiglio inciso “ANNO DOM. 1683” ed ai lati due affreschi, a sinistra Pio V orante con scena della Battaglia navale di Lepanto, a destra San Domenico ed il cane con in bocca una torcia accesa, che riceve la corona della preghiera del SS. Rosario dalla Madonna. Nell’altro lato corto in origine con altare in oro zecchino, il muro è dipinto con semplici motivi architettonici a modanature ha al centro ed in alto la scritta a caratteri dipinti REGINA SACRATISSIMI ROSARII ed una nicchia a semicerchio con catino in oro zecchino dove trova posto la statua della Madonna del SS. Rosario ora in sagrestia. Di lato in alto, due coretti pensili in legno intagliato con due dipinti
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ad olio su tela di San Antonino e San Vitaliano che protegge la città di Catanzaro e due tondi in legno dipinto entro cornice circolare in stucco, raffiguranti santi, ora posti in sagrestia. Gli altri tre lati sono, nella metà inferiore, interamente coperti dagli intagli lignei tranne nella porta d’ingresso e nell’incavo posto di fronte, dove era l’ingresso originario. Il notevole complesso ligneo scolpito nella seconda metà del XVII secolo è formato da scanni, balaustre, colonnine, elementi decorativi nei profili, dal fregio continuo a spirale ininterrotto per tutto il perimetro, formato da elementi fitoformi intervallato dai visi dei puttini ad altorilievo, la cornice a cimasa con elementi a fogli d’acanto ed anfore. Il tutto viene completato dalla magnificenza del movimento nel settore centrale che si innalza ed avanza con forme curve e spezzate, formando un grande coro, la grande cattedra priorale. In legno di noce calabrese, numerosi sono gli elementi decorativi che lo costituiscono come quelli floreali, e le modanature che con i gradini ed i pannelli che compongono i cosiddetti stalli a tre gradini. Vi sono ancora altri particolari antropomorfi con visi baffuti od adornati con orecchini che sono un chiaro riferimento ai saraceni infedeli sconfitti nella Battaglia di Lepanto nel 1576. La battaglia di Lepanto, affermò la devozione della Madonna della Vittoria, la vittoria dei Cristiani contro gli infedeli, immortalato nel dipinto ad olio su tela posto in sagrestia della Chiesa del SS. Rosario. Della prima metà del novecento sono i dipinti su muro di Diego Grillo(14) entro cornici in stucco, che sostituiscono i dipinti su tela andati distrutti nella seconda guerra mondiale. Il pavimento è in marmo nell’ampia pavimentazione rettangolare con il motivo modulare del quadrato alternato nella suddivisione a diagonale e perpendicolare con riquadri o triangoli di marmo di Gimigliano, marmo bianco ed ocra. Completano l’ambiente in modo degno ed adeguato, i fastosi stucchi delle pareti decorati a panneggi, frutta, fiori, foglie d’acanto, conchiglie, putti ed il ricco Stemma in altorilievo dell’Arciconfraternita del SS. Rosario. L’ambiente intero è in condizioni molto precarie per la presenza di infiltrazioni d’acqua piovana ed umidità da risalita che permettono la presenza nelle pareti di muffe, la successiva caduta di calcinacci, porzioni di stucco e di parti dipinte. Il legno viene eroso da tarli, perde consistenza e cede sempre più nella struttura. Il restauro avviato dagli anni ottanta del novecento in più fasi e non completato, non ha risolto il grave stato di degrado che è destinato a peggiorare se non si interviene in modo decisivo ed adeguato per risolvere la situazione definitivamente. Nell’Oratorio sono custodite due croci professionali di legno utilizzate nella “Naca” la Processione del Venerdì Santo. Una, dipinta di nero con cornice dorata, recante l’immagine di Cristo firmato G. Gagliardi e l’iscrizione A DEV. DI ANTONIO BARBIERI / 1945 e nell’altro lato, sul retro della croce, lo stemma della Confraternita del SS. Rosa-
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rio. L’altra croce di colore Bianco con cornice rossa, reca in un lato un calice a rilievo dorato. Sono rispettivamente, la prima della Confraternita del SS. Rosario (1401) e l’altra della Confraternita del Sangue di Cristo (1569). Congrega superstite in città, oltre a quello del SS. Rosario, è solo quello del Carmine anch’essa attigua alla chiesa ed all’ex convento del Carmelitani completamente restaurato nel 1998. Ambedue coevi, si possono definire gemelli nell’impostazione ed in parte nell’intaglio. Riguardo la disposizione degli stalli, all’Oratorio del Carmine, manca rispetto a quello del SS. Rosario, la lunga cimasa di foglie d’acanto ed anfore, ma ha in più l’altare in legno intagliato e ricoperto ad oro zecchino posto su tre gradini di tufo. Gli intagli lignei e gli stucchi sono stati realizzati probabilmente da decoratori calabresi.
Stemma A.SS.R., bassorilievo in marmo di Andrea Maggiore da Carrara del 1615, mensa d’altare del transetto destro.
Lo Stemma È lo scudo che con le figure, i colori e gli ornamenti che, disposti secondo determinate norme, contraddistinguono una nazione, una provincia, una città, una corporazione, una famiglia. Gli emblemi araldici hanno origine dalle insegne militari e dagli elementi simbolici di scudi e sigilli. Fanno la loro comparsa nel XII secolo e servono a distinguere i combattenti in guerra e nei tornei. Gli stemmi non sono mai stati riservati alla nobiltà, al contrario, fin dal diffondersi del loro uso e specie nell’età comunale, si estesero a tutte la classi sociali. L’uso dei sigilli contribuisce alla diffusione rapida degli stemmi anche tra i non combattenti, sono infatti adottati dalle donne, nel XIII secolo dagli ecclesiastici (vescovadi), dai borghesi, dagli artigiani ed infine nel XIV secolo dalle abbazie e dai contadini. Parte integrante dello stemma sono lo scudo o arma ed il fondo o campo sul quale vengono stesi gli smalti (cioè i colori) dove sono raffigurati le armi e gli emblemi araldici (pezze o figure). Gli ornamenti esteriori si considerano da ultimo, poiché non fanno parte integrante dello stemma, e possono variare a piacere del titolare anche se in realtà il loro uso è spesso costante. Lo Stemma dell’Arciconfraternita del SS. Rosario di Catanzaro è raffigurato nei secoli in diversi modi. Lo scudo cambia forma a secondo dei gusti estetici del periodo, con la costante presenza delle figure con i colli e le tre rose. Rappresentato in diversi materiali tra cui quello in stucco nella Congrega del 1683, nel timpano della facciata della chiesa che è sicuramente il più grande, e tra i più piccoli quello in ceramica posto all’esterno della Congrega, i ricami in seta policroma con filato in oro ed argento dei paramenti sacri e quelli realizzati a stampa. Sono ben 31 le realizzazioni senza contare le copie in più esemplari, come i 14 stemmi dipinti nella Via Crucis, la coppia di marmo lavorato a bassorilievo della base dell’altare della cappella della Madonna del SS. Rosario e le diverse riproduzioni dei ricchi
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paramenti in seta ricamati nei numerosi punti di lavorazione con aggiunta dei filati in oro ed argento. Gli stemmi sono realizzati per la maggior parte da ignoti mentre di alcuni si conosce l’autore tra cui: Andrea Maggiore da Carrara, con il bassorilievo in marmo della mensa dell’altare del SS. Nome di Gesù originariamente dell’altare della Madonna del SS. Rosario del 1615; Pasquale e Gaetano Fezza da Rogliano con lo stucco policromo ed oro zecchino al centro dell’arco trionfale della navata centrale del 1770, G. Gagliardi per il dipinto sulla croce nera professionale della “Naca” firmato e datato 1945 ed infine Alfredo Pino(15) per il dipinto circolare su legno del porta-incensiere del 2003. La corona che sovrasta lo stemma dà importanza ed aspetto regale allo Stemma che è ufficializzato nel 1781, con il Regio Assenso a titolo di “Reale Arciconfraternita del SS. Rosario”. Il campo o lo scudo è raffigurato in diverse fogge come lo scudo sannitico, circolare, ovale o sagomato ed arricchito nei contorni con raggi, rose, ghirlande con forme in rilievo o decori a foglie d’acanto accompagnati da putti in volo o seduti. Il simbolo araldico dell’Arciconfraternita del SS. Rosario di Catanzaro è caratterizzato dalle figure naturali dei tre colli sormontati da tre rose. I colli, se colorati, sono rappresentati in verde con sfumature, dalla forma triangolare con le cime appuntite od arrotondate all’italiana. Le rose sono raffigurate bianche, rosa e rosse, dalla corolla ricca di petali od in numero ridotto dalla forma realistica e viste frontalmente. I gambi si alzano dritti o ricurvi distintamente da ogni colle e più raramente dal colle centrale le foglie verdi ed il fondo celeste o bianco. Le tre rose sorgono distintamente ciascuna da ogni colle, a volte invece, sorgono tutte e tre dallo stesso colle centrale. La collocazione delle tre rose che sporgono dal colle centrale è probabilmente spiegabile dal fatto di sottolineare l’appartenenza alla Confraternita del SS. Rosario a Catanzaro, collocata insieme al Duomo sul colle centrale dei tre, che rappresentano la città. Lo Stemma dell’Arciconfraternita del SS. Rosario di Catanzaro ha la stessa tipologia nei tre colli con le tre rose, anche negli stemmi delle Arciconfraternite del SS. Rosario del quartiere Gagliano di Catanzaro e nei comuni di Borgia e di Tiriolo, quest’ultimo nella Chiesa dello Spirito Santo. Lo stemma della città di Catanzaro per quanto riguarda l’aquila, è uno stemma che appartiene alla classe di concessione, perché appunto assegnato dal sovrano Carlo V per riconoscenza verso la città, privilegio accordato per premiare la strenua resistenza dei catanzaresi nel 1528 contro le truppe francesi fedeli ai Valois. La descrizione più antica dello stemma della città di Catanzaro si trova nel libro “Memorie historiche dell’illustrissima, famosissima, fedelissima città di Catanzaro” di Vincenzo D’Amato del 1670: “Fa la città per la sua impresa un’aquila imperiale con la testa rivolta a destra, armata di corona, con le ali e coda
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Pagina precedente: Stemma A.SS.R., dipinto su legno, cimasa della Sedia Priorale, XIX secolo, Altare Maggiore, committenza di Domenico Scaramuzzino. A sinistra: Stemma A.SS.R., dipinto su legno, base del porta incensiere di Alfredo Pino del 2003, Altare Maggiore.
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sparse, in atto di sollevarsi a volo, nel di cui seno, che forma uno scudo, vi sono tre monti in campo vermiglio, sopra dei quali vi è una corona; tiene l’aquila col becco una fascia, nella quale sta questo motto delineato “Sanguinis effusione” per dimostrare che col sangue dei suoi cittadini, mai sempre sparso, in servigio della Cattolica Corona, ha quell’aquila meritato, che le concesse la sempre gloriosa memoria dell’imperatore Carlo V per aggiungerla alla sua antica insegna”. L’elemento centrale dello stemma della Città di Catanzaro è l’aquila imperiale, mentre i tre colli dello scudo simboleggiano la città di Catanzaro in riferimento ai tre colli, denominati Triavonà, dove sorge la città antica (di San Trifone o San Rocco, del Vescovado, del Castello o di S. Giovanni che è il più alto). Diversi paesi vicini a Catanzaro hanno come emblema comunale l’aquila o i tre colli. Caraffa ha un’aquila nera che si rifà all’aquila utilizzata dai paesi di origine albanese che in questo caso è per errore raffigurata con una testa, Davoli con l’aquila ad ali spiegate sovrastata da una piccola corona, Martirano con aquila d’oro coronata e Martirano Lombardo con aquila su due vette. Gli stemmi con la presenza di più colli è più numerosa mentre quelli in cui nello stemma comunale ne hanno tre sono: Decollatura con tre monti al naturale, Gasperina, Gimigliano con tre monti verdi a punta, Montepaone i cui monti sono sormontati da un pavone, Motta Santa Lucia con la santa su tre monti d’argento, Palermiti con tre monti dorati sovrastati da un grappolo d’uva e tre castagne, Petrizzi, San Pietro a Maida, Satriano, Taverna con i tre colli dorati sormontati da tre torri in mattoni rossi e più in alto un angelo con ali spiegate e con altre figure Fossato Serralta, Gasperina, Tiriolo, Squillace e Stalettì. Solo il Comune di Guardavalle ha nello stemma sia l’aquila che i tre colli. Per quanto riguarda le simbologie i fiori sono tra le principali figure tratte dal regno vegetale in quanto immagine evocativa della transitorietà dell’uomo. La rosa rappresenta l’amore divino e le vergini, nel medioevo, indossavano una ghirlanda di rose. Nella simbologia cristiana la rosa rossa è il sangue di Cristo versato dal Crocifisso ed il sangue che ognuno deve versare per la Chiesa, in altri contesti, è il sangue versato per la patria e per la libertà. L’iconografia ecclesiastica ha fatto della rosa, come regina, il simbolo di Maria, raffigurata spesso “nel roseto”. Al bianco si associa la verginità, la purezza e l’amore eterno, al rosa l’amore delicato e sincero, al rosso la passione. Nella simbologia araldica la rosa stilizzata ha forme di giglio (Croce dell’Ordine Domenicano) e simbolo di purezza della fede.
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Stucchi con stemma A.SS.R. del 1683, intagli lignei del XVIII secolo,dipinti della metà del XX secolo di Diego Grillo, Interno dell’Oratorio dell’Arciconfraternita del SS. Rosario di Catanzaro.
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Le edicole votive: arte tra religione e religiosità popolare
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Luca Pietro Vasta
La storia di ogni luogo, come si sa, si snoda attraverso innumerevoli percorsi che, come nella trama di un enorme arazzo, si intersecano, si incontrano e si allontanano. Volendo ricostruire le vicende che hanno portato una città dalla sua fondazione fino ai giorni nostri non bisognerebbe trascurare nulla: esse sono intrise di racconti popolari, tradizioni, riti che se da un lato si sono modificati nel tempo, hanno ancora mantenuto un qualcosa dell’originario impulso e manifestazione. Catanzaro è indubbiamente uno di questi luoghi. La coesistenza forzata fra moderno e antico, oggi, è visibile ovunque; ma se ci inoltriamo nei vicoli del centro storico e, spogliati dall’abitudine visiva e dai pregiudizi culturali, alziamo gli occhi, veniamo proiettati in uno spazio altro, in una “città nella città” lontani dal frastuono urbano: in un reticolo complesso di informazioni e immagini di un tempo in cui la religiosità popolare si amalgamava con la religione ufficiale (il Cristianesimo) formando l’ossatura spirituale di un intero popolo. Sono quelle immagini dipinte sui muri delle case a segnare anche il cammino della Storia, a puntellare gli avvenimenti principali e ad ammantarli di colori nuovi. Affrontare una tematica, decisamente particolare, come quella delle edicole votive vuol dire riscrivere la storia (non senza una qualche difficoltà) partendo dalla tradizione spirituale popolare. Inoltre vuol dire coinvolgere campi di studio specifici come l’antropologia, l’arte, la psicologia e la sociologia. Questo togliere le fuliggini del tempo ci permette di vedere come la questione dei Beni Culturali e Artistici non sia relegata solo alle chiese o ai musei, ma è viva e respira ovunque. L’edicola votiva ha origini antichissime ed è la testimonianza più immediata e genuina della religiosità popolare legata al culto di un particolare protagonista sacro, prescelto di volta in volta. A sottolineare l’importanza di queste testimonianze visive, iniziamo col delinearne la Storia. Fu il Concilio Ecumenico di Nicea (787 d.C.) a decidere che le venerabili e sante immagini di Cristo, della Madre di Dio (Teotòkos), degli Angeli e dei Santi – fatte di colori, mosaici e ogni altro materiale – dovevano essere venerate “in modo quasi uguale al segno della Croce degno di onore e vivificante”. Si affermava, inoltre, che l’onore reso alle sante icone
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“passava all’originale” e che chi si prostrava davanti all’icona lo faceva al contempo “all’ipostasi di colui che è in essa iscritto”. Il VII Concilio Ecumenico, che esaminò le sante icone, fece una netta distinzione tra “santo” e “sacrilego”. È per questo che il Concilio dichiarava “[…] noi accogliamo le sante immagini […] Anatema a chi non le onora! A coloro che definiscono le sante icone degli idoli: anatema!” (Atti del VII Concilio Ecumenico) ed aggiungeva che: “gli occhi degli spettatori sono anch’essi santificati dalle sante icone e, attraverso loro, lo spirito è portato a conoscere Dio (Synodikon dell’Ortodossia). Così si iniziò a manifestare il bisogno da parte dei fedeli di concentrare il pensiero e l’anima sui destinatari delle loro preghiere: i Santi rappresentati. Il VII Concilio Ecumenico definì l’onore reso alle icone e la prostrazione davanti ad esse “legge approvata e gradita a Dio e tradizione della Chiesa, devota richiesta e bisogno di pleroma della Chiesa” (Atti del VII Concilio Ecumenico). Ancora oggi vediamo persone che si inginocchiano davanti alle icone con devozione, si fanno il segno della croce e le baciano pregando, perpetuando, in maniera quasi automatica, una tradizione antica e oramai insita nel proprio modus vivendi. Le storie delle vite dei Santi, in seguito, vennero diffuse come modelli da imitare; ma l’imitazione riguardava principalmente i chierici. Per il popolo il santo rappresentava la manifestazione della potenza di Dio. Ad ogni santo viene attribuito un suo ruolo caratteristico; il santo diventa così il protettore di un’attività, patrono di un’arte particolare. Durante il Medioevo, secondo Shmitt: “il complessivo sviluppo del culto dei santi, suscitava – in rapporto al controllo sempre più severo che la gerarchia ecclesiastica intendeva fargli subire – nuove forme di «superstizione». André Vauchez ha mostrato come il papato, nel corso del secolo XII, abbia istituito una procedura istituzionale, inedita per la santificazione: il processo di canonizzazione veniva a fondarsi su un’inchiesta ufficiale e subordinava la santificazione all’esame della sola Curia pontificia. In forza di questa procedura si osservava parallelamente nei criteri di giudizio della gerarchia una crescente svalutazione dei miracoli che il candidato alla santità avrebbe compiuto in vita, ma gli stessi miracoli post mortem importavano meno della vita virtuosa del futuro santo: i meriti, e non i miracoli, sono considerati i segni più sicuri della santità. Il miracolo, escluso un po’ alla volta dai criteri ufficiali della santità, diventava, nel medesimo tempo, nel discorso teologico una categoria intellettuale più precisa, oggetto di definizioni e discussioni sempre più sottili che in effetti ne riducevano il campo. Quindi San Tommaso distingueva tre tipi di miracoli: supra naturam, contra naturam, praeter naturam.” (1) Con gli occhi di oggi, è straordinario notare come numerosissimi oggetti votivi mostrino linguaggi comuni come, ad esempio,
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affinità nell’impostazione compositiva dei personaggi o della scena stessa. Queste corrispondenze possono trovare spiegazione nel desiderio di rendere grazie alla divinità, con mezzi essenziali e nell’esecuzione schietta delle scenette votive affidate a pittori il cui livello artistico, spesse volte, coincide con quello del linguaggio popolare. È noto che i dipinti votivi non rechino quasi mai i nomi dei pittori (tranne quelli di fattura recente); questa mancanza conoscitiva, tuttavia, non diminuisce affatto il valore tematico dell’oggetto, attraverso il quale l’anonimo autore interpreta l’espressione corale della religiosità. Ignorare i nomi, siano essi quelli dei viventi, o degli autori degli ex voto, non aiuta certo a fare la storia. È invece possibile conoscere il motivo che ha determinato il formarsi di un certo culto, il suo legame con la vita e con l’ubicazione del relativo Santuario, la relazione figurativa tra le stesse immagini votive nel corso dei secoli; il possesso di questi dati potrebbe permettere di individuare l’immagine culta e di risalire alla sua origine iconografica mediante i rapporti intercorsi fra le trascrizioni posteriori. Ad evidenza, per procedere in logica successione cronologica, si dovrebbe essere in possesso di un ricchissimo materiale, così da poter stabilire un itinerario temporale attestante eventuali sviluppi o codificazioni arcaizzate del prototipo figurativo. Da questo punto di vista, infatti, la situazione è abbastanza deludente, essendo andate distrutte molte testimonianze votive ritenute inutili e prive di importanza ai fini della conservazione. Come abbiamo visto, il discorso sulla fede individuale abbraccia anche il fatto di “possedere il santo privato”, appendendo o facendo dipingere sulla parete di casa propria l’immagine sacra. L’edicola votiva diventa così un modo per raccontare una storia nella Storia, per rendere pubblica non solo la propria fede, ma anche il racconto delle vicende personali accadute all’interno di questa o quella abitazione. Come pietre miliari, queste immagini costituiscono una sorta di cammino, di percorso della fede. Come supporto a quanto detto finora, affronteremo di seguito alcune immagini votive che si ripetono in città e che hanno “cambiato” il corso drammatico di eventi storici.
San Vitaliano: la venuta in città e il miracolo di Via Case Arse San Vitaliano è patrono di Catanzaro dal 1122(2). Il culto del Santo si instaura con la venuta di Callisto II, insieme a quello di S. Ireneo e di San Fortunato. Della vita del Santo si hanno poche notizie, tra le quali quelle che si trovano nel Martirologio Gerominiano della prima metà del ’400, in cui si ritrova l’affermazione in Caudis Vitaliani (come se si fosse trattato di un martire del Sannio). Nei calendari posteriori a questa data, San Vitaliano è celebrato il 16 luglio.(3) La rinascita del culto risale agli ultimi anni del XII secolo, quando
un sacerdote beneventano scrisse la prima biografia del santo. In questo testo si affermava che San Vitaliano venne proclamato Vescovo di Capua contro il suo volere. Si dice, inoltre, che i suoi oppositori per svergognarlo davanti ai suoi fedeli, con un tranello, riuscirono a farlo comparire in pubblico vestito con abiti femminili. Il santo, scoperto il complotto, si allontanò dalla città. Raggiunto e catturato, venne rinchiuso dentro un sacco e gettato nel Garigliano. Ma Dio lo fece giungere incolume fino ad Ostia dove venne salvato da alcuni pescatori. Capua venne punita da Dio con siccità, peste e carestia. I capuani, pentiti del loro comportamento nei confronti di Vitaliano si recarono dal santo scongiurandolo di fare ritorno. San Vitaliano si convinse e decise di trattenersi a Capua, anche se per poco tempo. Poi decise di ritirarsi sul monte Partenio, dove costruì una chiesa dedicata a Maria Santissima. Da questa chiesa, San Guglielmo da Vercelli nel secolo XII costruì l’attuale Santuario della Beata Vergine di Montevergine. Il santo morì nel 699. Il corpo del santo, secondo alcuni storici, sarebbe stato traslato (prima del 716 d.C.) a Benevento dal Vescovo Giovanni. Papa Callisto II lo avrebbe poi inviato, insieme a quello di Sant’Ireneo di Lione e di San Fortunato di Todi a Catanzaro dove, nel 1311, Pietro Ruffo, conte di Calabria, fece costruire una cappella in Cattedrale per deporli e venerarli. Callisto II (immagine 1), dunque, scendendo verso la Calabria si imbatté nelle spoglie di San Vitaliano, donategli a Montevergine e ne fece dono, alla sua visita, a Catanzaro.(4) È interessante vedere come in molti testi sulla storia di Catanzaro venga sempre sottolineata l’importanza del Papa e della Bolla da lui emanata. Così scrive in proposito Giuseppe Santagata: “Più tardi, Roberto di Loritello, Conte di Catanzaro, fece erigere una nuova chiesa, col pieno proposito di farvi trasferire la Cattedrale della vecchia chiesa di S. Michele. Mentre il tempio veniva rifinito nei suoi particolari, il Conte veniva a conoscenza della temporanea permanenza di Papa Callisto II a Nicastro, per comporre la vertenza tra Guglielmo e Ruggiero, Conte di Sicilia, ed approfittando di quella occasione, fece invitare il Pontefice, per la consacrazione della nuova Cattedrale. E fu così che nel 1122, Papa Callisto II in persona, accompagnato da ventisette cardinali e vescovi, venuti espressamente in Catanzaro, procedette alla consacrazione della Cattedrale, dedicandola alla Vergine Assunta e ai Principi degli Apostoli: Pietro e Paolo, ed ivi vennero traslati le venerate reliquie di S. Ireneo e S. Fortunato […]. Callisto, soddisfatto dell’accoglienza e degli onori tributati volle fare dono alla nuova Cattedrale, del corpo di S. Vitaliano, Vescovo di Capua, facendolo trasferire da Montevergine (Avellino), che da quell’epoca lontana è protettore della città di Catanzaro”.(5) È da questo momento, dunque, che il culto di San Vitaliano e il suo “patronato” sulla città diventa ufficiale, e sarà da questo
momento che i catanzaresi invocheranno il Santo Patrono nei momenti più disperati, alla ricerca di quel miracolo che non tarderà ad arrivare. A rafforzare la stima che i catanzaresi hanno sempre avuto per il santo e per sostenere il nostro discorso sull’importanza antropologico-artistica delle edicole votive, vi è un racconto storico caro ai cittadini di Catanzaro, avvenuto a metà del 1440. Questo avvenimento è accaduto nel Quartiere Paradiso (6), dove si può ancora intravedere un edicola dedicata alla Madonna con ai piedi San Vitaliano che dietro richiesta del popolo fece cambiare direzione al vento ed evitò così che le fiamme appiccate dal Centeglia si propagassero oltre verso il centro della città. L’immagine del Santo si ritrova così in molti vicoli e quartieri. Il prototipo di questa icona rimane il busto argenteo nella Cattedrale della città (immagine 2). I suoi tratti sono riconoscibilissimi: la barba fluente, la mitra da vescovo e lo sguardo fisso in avanti. Questa iconografia la si riscontra in altre zone come a Capua (da dove ha origine il culto (immagine 3). In questo caso, un’immagine viene espropriata dal luogo di devozione e replicata nelle vie affinché diventi monito e al tempo stesso modello di imitazione per i fedeli. L’immagine del Santo, sui muri delle case, è spesso affiancata da quella della Madonna, quasi a testimoniare una sorta di scala gerarchica.
La Madonna dell’Immacolata libera dalla peste i catanzaresi Il culto dei santi e della Madonna è sempre legato ad un luogo, oltre che ad avvenimenti miracolosi. Il culto di Maria risale al Concilio di Efeso (431d.C.). Le chiese principali di Catanzaro, in cui si sono alternati nel corso dei secoli vari ordini, sono il Duomo, la chiesa dell’Immacolata e quella del Santissimo Rosario. L’erezione della chiesa dell’Immacolata risale al XII secolo. Dedicata all’inizio alla SS. Trinità, ma nella quale si venerava anche l’Immacolata Concezione a cui era consacrata una cappella, lì aveva sede l’omonima confraternita. Di ridotte proporzioni, all’inizio, rispetto all’edificio attuale, venne ampliato nel tempo. Nel 1254 venne affidata alle cure dei Francescani che la ricostruirono intorno al 1300 e venne intitolata al Santo di Assisi. Alla Madonna dell’Immacolata è legato un episodio ben preciso, che ha riscontro ancora oggi e di cui le edicole votive ne rinverdiscono il ricordo. Nel 1641 il flagello della peste imperversava nelle strade calabresi mietendo le sue vittime. I sindaci e gli altri ufficiali della città, riunitisi per affrontare il problema, dopo molteplici proposte e terrorizzati dal pericolo di una epidemia di dimensioni colossali, vennero alla conclusione di affidare la città stessa alla protezione della Madonna dell’Immacolata.(7) Catanzaro venne risparmiata dalla peste ed allora i responsabili dell’amministrazione pubblica si impegnarono per sé e per
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i loro successori, nel primo giorno di settembre di ogni anno, di recarsi in forma solenne nella Cappella dell’Immacolata per cantare l’inno di ringraziamento e di fare, in nome della Città, il giuramento di gratitudine nei confronti della Vergine Immacolata, riconoscendola come Prima Patrona e principale protettrice della città, e di difendere il privilegio dell’Immacolato Concepimento fino allo spargimento di sangue (usque ad sanguinis effusionem). Solitamente la Madre di Dio viene rappresentata contornata da angeli (immagine 4) o come Assunzione. La Madonna in atto di essere accolta in Cielo rappresenta il punto di contatto tra il terreno e il divino, la possibilità, cioè, di redenzione per tutti i fedeli.
La Madonna d’o Carbuna Può accadere anche il caso che le edicole votive prendano il nome delle vie in cui sono collocate. Questo è il caso, ad esempio, della Madonna d’o Carbuna (Madonna del Carbone) situata in via del Carbone, appunto. In questa via si può ammirare una piccola nicchia con all’interno raffigurante la Madonna. Pare che questo dipinto fosse stato posto lì, molto probabilmente, all’inizio del secolo XIX per dare conforto a molta gente che allora usava riscaldarsi con un braciere a carbone. Secondo la tradizione, dal momento che quello era diventato un vero e proprio luogo di incontro, in cui la gente del rione si riuniva per recitare il rosario, venne costruita una cappella fornita di una campanella e completa d’altare protetto da un cancello.
La Madonna del Pane Un altro esempio di iconografia, anche se si tratta di un’assunzione, che fa comunque parte della tradizione popolare, è la Madonna del Mezzogiorno. Santa Maria del Mezzogiorno era già esistente e frequentatissima alla venuta di Callisto II e la tradizione popolare vuole che qui sia apparsa parecchie volte la Vergine sfamando i fanciulli della zona con il pane (e da qui il nome Madonna del Pane) e che sia stata lei stessa in una delle sue apparizioni, a chiedere l’erezione della cappella in suo onore. Spero di avere dato l’idea dell’importanza di queste figure, ancora visibili sui muri delle case, e della necessità di una loro riscoperta. Per ovvi motivi di spazio, mi sono limitato solo a pochi esempi, ma vi si possono includere in una pubblicazione adeguata anche la Madonna del Rosario, Santa Lucia, San Rocco ed altre ancora, in un’ottica di restauro e conservazione di un patrimonio artistico e antropologico che, purtroppo, stà via via scomparendo.
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Biblioteche e Archivi
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Caterina Bettiga Isaura Barbieri
La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, hanno il compito di preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e promuovono lo sviluppo della cultura. Le Regioni, lo Stato, le province e i comuni sostengono la conservazione di questo patrimonio e ne favoriscono la pubblica fruizione e la loro valorizzazione. Appartengono a tali beni, gli archivi, i singoli documenti e le librerie dello stato, le raccolte librarie delle biblioteche delle regioni e degli enti pubblici territoriali, anche gli archivi e i singoli documenti, le raccolte librarie appartenenti a privati, rivestono un particolare interesse storico. Sono compresi anche manoscritti autografi, carteggi, incunaboli, nonché stampe, incisioni e fotografie con relative matrici e negativi ed in particolar modo, libri aventi carattere di rarità e pregio. Fanno parte di questo patrimonio anche beni culturali di interesse religioso, appartenenti ad enti e istituzioni della chiesa cattolica o di altre confessioni religiose.(1) In questo caso abbiamo selezionato quelli che sono i beni librari e archivistici degli enti pubblici, tralasciando quelli privati, sempre di notevole interesse, perché più fruibili e aperti ad ogni tipo di pubblico, in quanto, la storia e le tradizioni culturali appartengono alla sua comunità nel momento in cui vengono valorizzate ed esaltate per essere conosciute dal popolo a cui appartengono. La città di Catanzaro e il suo patrimonio librario corrispondono a queste caratteristiche. Tali beni sono presenti non solo nella ricca Biblioteca De Nobili, intitolata al suo più celebre bibliotecario, sita in Villa Trieste recentemente ristrutturata, ma anche nell’Archivio di Stato, nella Biblioteca e nell’archivio Arcivescovile “Antonio Lombardi”, nella Biblioteca provinciale “Bruno Chimirri” e nella Biblioteca della Facoltà di Giurisprudenza. Il libro è la testimonianza delle origini, della cultura e del pensiero, il patrimonio librario custodito presso le biblioteche ed archivi del nostro territorio sono la testimonianza delle nostre tradizioni e devono essere tutelati e divulgati. Ogni individuo deve beneficiare di tale “tesoro” tutto da scoprire; ed è grazie ai direttori e ai collaboratori delle suddette strutture che hanno messo a nostra disposizione tutto il materiale più antico e di pregio che si è potuto realizzare questo lavoro.
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Biblioteca Comunale Filippo De Nobili La biblioteca comunale di Catanzaro, istituita il 2 giugno 1889 nei locali del Municipio, contava circa un migliaio di opere perlopiù storiche e filosofiche, in seguito alle successive donazioni da parte del suo più illustre bibliotecario “Don Pippo De Nobili”, con un cospiquo numero di manoscritti, il fondo librario accrebbe il suo patrimonio. Nel 1958 la biblioteca venne trasferita nell’attuale sede in Villa Trieste e con la direzione nel 1970 del professore Augusto Placanica, la biblioteca diventa “moderna” aprendo il servizio di pubblica utilità. Successivamente, nel 1980, con la responsabilità direzionale della dottoressa Maria Teresa Stranieri, allieva di Placanica, si ha l’informatizzazione e la schedatura scientifica dei cataloghi.(2) Alla fine del 2004, il patrimonio complessivo della biblioteca era di circa 130.000 documenti comprendenti monografie, opuscoli e materiale no-book; ma anche periodici, riviste, quotidiani e materiale antico e di pregio che comprende 11 incunaboli, 7 pergamene e opere del XVI, XVII e XVIII secolo. Di particolare importanza è il Libro Rosso, manoscritto contenente i privilegi conferiti alla città di Catanzaro (sec. XIVXVII). Il libro è composto da 225 carte riguardanti: privilegi sovrani, lettere solenni, capitoli e grazie concesse all’Università di Catanzaro tra il XV e il XVI secolo (molti sono originali, con firme autografe dei sovrani aragonesi e spagnoli, tutti corredati di sigillo). Tra queste: il primo privilegio, concesso dal Re Ferdinando d’Aragona, è de1 1465. Il fondo librario si avvale di importanti donazioni di: F.Fiorentino, C. Sinopoli, G. Isnardi, F. e E. Squillace, T. Petrucco, G. Puccio, F. Procopio G. Mastroianni e A. Placanica. Tra il materiale antico e di pregio, spicca la pergamena del 22 Marzo 1536, indetta da Carlo V, che decreta una restaurazione politica, ed in particolar modo, della difesa della città di Catanzaro.(3)
A sinistra: gli Incunamboli della Biblioteca Comunale di Catanzaro. In alto: il Libro Rosso
A destra in alto: una pagina del Libro Rosso. A destra in basso: particolare di una pagina del Libro Rosso con un timbro dell’epoca.
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Archivio di Stato L’archivio Provinciale di Calabria Ulteriore seconda, fu istituito nel 1843 presso l’edificio dell’ex convento di San Domenico, con il suo primo archivista, il Barone Giuseppe Tramontano Santacroce. In seguito all’evoluzione legislativa degli altri archivi meridionali, nel settembre del 1963, prese il nome di Archivio di Stato con una sezione distaccata a Lamezia Terme. Il fondo comprende complessivamente 50.000 documenti, tra i quali 1359 pergamene (1307-1859) e documenti cartacei a partire dal XVI secolo; inoltre sono presenti l’archivio delle ferriere di Mongiana, la Cassa sacra, la Regia udienza, gli atti notarili antichi e i documenti sul brigantaggio e sui moti patriottici. La pergamena più antica, databile al 26 Maggio 1307, tratta la donazione di alcuni beni posseduti da Donna Sicilia, al Monastero di Santo Stefano in Bosco. In seguito al terremoto avvenuto in Calabria nel Febbraio del 1783, furono aboliti i monasteri e i luoghi pii della Provincia ed i loro beni furono devoluti; a tal proposito nel 1784 fu istituita in Catanzaro una giunta detta appunto di “Cassa sacra”, avente il compito di amministrare tali beni. Successivamente nel novembre dello stesso anno venne creata a Napoli una giunta, detta di Corrispondenza, ambedue furono poi abolite nel gennaio del 1796. Con l’istituzione del 1843 dell’Archivio di Stato, tali beni furono acquisiti; ne è un esempio la piantina del Convento Domenicano, custodita in un documento manoscritto, che testimonia quella che è ancora oggi l’attuale sede.(4)
A destra: Atto Notarile Larussa Domenico custodito nell’Archivio di Stato. A sinistra: particolare di una pagina dell’Atto Notarile Larussa Domenico, a lato vari timbri dell’epoca.
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Biblioteca Arcidivescovile “Antonio Lombardi”
A sinistra: Pergamena del 26 Maggio 1307, custodita nella Biblioteca Arcivescovile. In basso: piantina vaticana.
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La Biblioteca arcivescovile “Antonio Lombardi” è stata istituita, con decreto arcivescovile da mons. Antonio Cantisani, il 28 gennaio 1999. La collezione libraria ammonta ormai a 20.000 volumi, provenienti in gran parte dalla Biblioteca del Seminario Arcivescovile nella quale erano riuniti i libri che si salvarono dai bombardamenti dell’ultima guerra. Di notevole interesse è il fondo di libri antichi di cui fanno parte 4 incunaboli, 160 cinquecentine, e circa 800 volumi risalenti al XVII e XVIII secolo, nonché alcuni manoscritti di importante valore documentario risalenti al ’500 e al ’600. Nella biblioteca sono presenti libri donati da personalità illustri della nostra regione ed in particolar modo la collezione di libri di mons. Antonio Cantisani. (5)
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I segni delle apparenze
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Angela Fidone
Guardare avanti e pensare al futuro dovrebbe essere un obiettivo comune. Ma il futuro dipende dalla capacità che si ha di capire il senso più profondo del passato. La storia diventa un passaggio obbligato per comprendere ed individuare le parti di una fisionomia nascosta, resa leggibile attraverso un coerente tracciato unitario dal quale ne viene fuori il ritratto di una città, com’era un tempo. Lo scopo, in questo ambito, non è quello di fare una rassegna storica di ambienti ed edifici, ma piuttosto quello di penetrare nel cuore e nella mente dell’interlocutore, mediante la proposizione di una scena urbana fatta di tradizioni e di modernità. Oggi l’aspetto di una città, “la Catanzaro d’altri tempi”, porta le tracce di quel passato in cui l’eleganza faceva da padrona, un’eleganza che scaturiva dalla cura dell’apparenza. Parlare pertanto di costume, di moda, di abbigliamento diventa un mezzo per completare l’immagine di un luogo; infatti scopriremo come questa città del sud Italia, con i suoi usi e costumi, fosse al passo coi tempi nell’ambito della moda vestimentaria rispetto al resto della moda. A tal fine, la fotografia costituisce uno degli elementi base per la ricostruzione di un tempo che è stato. Ma, rievocare una scena come viva e vera, significa immaginare la gente sotto forma di personificazioni, come se fossero attori che narrano le proprie intimità e le proprie passioni; questo rende i luoghi, le strade ed ogni singolo edificio, quasi come testimoni muti del loro vissuto. Tutto un bellissimo arredo Liberty vestiva Catanzaro, la città appariva ricca di movimento, di modernità ed allegria, grazie allo sviluppo socio-culturale ed alle strutture che vi si andavano incrementando. Ma la massima espressione di cultura nella Catanzaro del tempo era senza dubbio il Teatro Comunale, motivo di orgoglio non solo per la gente locale ma per tutta la penisola. In uno scenario quasi fantastico si assisteva alle “prime” ed alle serate di gala, durante le quali le ricche e belle donne catanzaresi sfoggiavano splendide toilettes, abiti da sera e antichi gioielli di famiglia. Così il pensiero, il ricordo di ciò che è stato, che è diventato passato, si visualizza d’incanto ricostruendo la scena di un tempo. Le immagini prendono corpo e ci sembra quasi di vedere ad una “prima teatrale” una
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gentildonna bella ed elegante. Si avvicina all’ingresso con fare disinvolto, avvolta da uno splendido abito da sera dalla generosa scollatura, ed in testa un’elaborata acconciatura fra i capelli. Al suo fianco un uomo fiero, anche lui ostenta eleganza con in testa il cilindro e l’immancabile bastone, rigorosamente di ebano e col manico in argento, portato sul braccio. La moda, intanto, si diffonde tramite diversi canali. I ricchi si mettono in mostra seguendo la moda del momento, la gente comune ne imita il modo di vestire, ma con una certa semplicità di forme, alternando a volte il ricorso alla tradizione. Il modo di vestire appare, così, diversificato in base ai ruoli e alle circostanze, oltre che ai ceti sociali. Le signore ed anche gli uomini pervenivano pertanto alla conoscenza dei nuovi modelli da indossare presso il sarto o la sarta di fiducia e le modiste, ma soprattutto tramite le riviste e i figurini di moda. Localmente non esistevano ancora attività commerciali di abiti preconfezionati, ma piuttosto si potevano trovare negozi di stoffe, anche finemente tessute, di artigianato locale e non, dislocati intorno a piazza Prefettura. Mentre, per ciò che riguarda gli accessori moda quali guanti, ombrellini, busti, calze, iniziavano a sorgere i primi negozi tra i quali il Bazar Cristallo sito in piazza Grimaldi, che
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possiamo ritrovare ancora oggi nel suo splendido stile antico. La materia prima diventa tessuto e i tessuti si trasformano in abiti. Abiti che, nel loro rispecchiare un fenomeno moda globale, rimanevano ancorati all’individualità di una produzione singola. Come accadeva per gli abiti, anche per le calzature non vi erano negozi nei quali acquistarle preconfezionate; per farlo ci si recava dal calzolaio di fiducia. Le scarpe venivano foggiate e adattate alle misure desiderate. Proprio nel Corso Vittorio Emanuele erano situate le calzolerie migliori. Ma la più alta concentrazione di queste botteghe si trovava in via Duomo, soprannominata dai catanzaresi come “a strata de i scarpari”. Sia l’uomo che soprattutto la donna si sono sempre affidati all’aiuto di altri per riuscire a dar forma alle proprie chiome. In seguito alle trasformazioni sociali nacque la figura della pettinatrice, la quale aveva il compito di recarsi ogni giorno in casa delle nobildonne. Anche a Catanzaro, tra la fine dell’800 e gli inizi del ’900, esistevano le pettinatrici chiamate solitamente “capere”, espressione di origine napoletana. Anche gli uomini avevano i barbieri a domicilio. Ma, contrariamente a quanto avveniva per le donne, i signori uomini potevano godere già, alla fine dell’800, del privilegio dei “saloni” da barba e, conseguentemente, capelli. Solo più tardi, intorno agli anni Venti, i saloni da barbiere servivano anche le signore soprattutto per le permanenti. Ma la moda è soprattutto un fenomeno di èlite, nasce per creare le distinzioni e per fare le differenze. Per cui, per soddisfare una richiesta sempre maggiore da parte di coloro che non potevano rivolgersi all’alta moda, si verificò un nuovo tipo di commercializzazione. Già dalla fine dell’800 si diffuse il riciclaggio di abiti usati. Era un commercio che i tintori catanzaresi conoscevano bene, soprattutto nei periodi di lutto; l’abito riciclato, legato al lutto, costituiva infatti l’esempio più logico per certa gente, divenendo un mezzo per meglio esprimere l’atmosfera di dolore e di compostezza. Intanto, nella società in evoluzione, si stava verificando una corsa da parte delle classi sociali inferiori verso le mode di quelle superiori e questo avrebbe portato alla produzione in serie. Verso la fine dell’800 i periodici di moda assunsero un ruolo decisivo nella diffusione dell’abito confezionato, divulgando inserti che pubblicizzavano biancheria ed abbigliamento in genere. Anche sui giornali catanzaresi vi erano riportate, ad esempio, diverse pubblicità di negozi del nord Italia che praticavano vendita per corrispondenza. Inoltre era l’eleganza a costituire lo strumento fondamentale per l’affermazione della propria posizione sociale; a regolare l’eleganza durante tutto il XIX secolo nacquero e si diffusero i galatei. Questi spesso integravano le proposte delle riviste, dando consigli a quelle donne che si trovavano a condividere occasioni e modi del bel mondo. La rigidezza delle regole da rispettare faceva si che la veste, quale mezzo di distinzione, mostrasse chiaramente le stratificazioni sociali. Per cui
una donna finemente educata in genere finiva così per adattare il proprio abbigliamento ai diversi luoghi in cui si recava. La moda, con le dovute interpretazioni, si personalizza, diventa specchio di una realtà cittadina del sud che sa anche guardare lontano e cura la sua immagine sulla base di altri modelli, dimostrando di essere comunque al passo coi tempi.
L’arte della seta Parlando di abbigliamento e di tessuti, è opportuno menzionare ciò che riguarda l’arte serica, che attesta l’importanza relativa alla produzione di stoffe, risalenti ad epoche passate. Fin dai tempi antichi Catanzaro adottò l’arte della seta; furono gli orientali ad insegnare la lavorazione ai cittadini catanzaresi. Infatti, molto probabilmente, fu introdotta dai Bizantini con la stessa fondazione della Città, progredì grazie ai Normanni e dopo con gli Aragonesi. Tale attività, che rese la città nota in Italia ed all’Estero nell’arco del Medioevo, si diffuse anche ad opera dei commercianti, i quali si recavano alle fiere nazionali ed estere vendendo i prodotti tessili. Le stoffe erano riconoscibili dalla sigla V.V.V. (vale a dire le tre cose per le quali Catanzaro era sempre stata famosa: Vento, Velluto, Vitaliano, il santo patrono della città) marcate a margine. L’Italia e la Francia divengono i due grandi paesi produttori e, per ciò che riguarda l’Italia, Catanzaro ottiene un posto dignitoso e competitivo sul mercato. È l’intreccio ad angolo retto di due sistemi di fili che dava l’inizio della tessitura fino ad ottenere, tramite i telai a trazione altamente perfezionati, tessuti riccamente decorati. Il materiale più usato per le stoffe pregiate e decorate è da sempre stata la preziosa seta. Le sue caratteristiche peculiari, quali la leggerezza e la lucentezza, l’hanno resa adatta ad essere finemente disegnata. L’Europa, ammiratrice da secoli dell’arte orientale della seta, finisce per sviluppare una vastissima produzione autonoma. Dai paesi islamici e dall’Asia orientale giunsero quegli inediti motivi ornamentali che concorsero a creare l’enorme ricchezza e varietà dei tessuti serici. Il disegno minuzioso conferisce grande vivacità al motivo decorativo, mentre i colori brillanti della seta, spesso frammisti all’oro, esaltano lo splendore del tessuto. I disegnatori-artigiani trassero ispirazione dai modelli orientali combinandoli con il proprio patrimonio figurativo, dando così luogo ad uno stile decisamente originale. Per ciò che riguarda la tessitura e la decorazione della seta, l’Oriente aveva quindi fornito all’Occidente i modelli e l’ispirazione, ma è la tessitura del velluto a costituire un’invenzione originale del tutto europea. Il velluto si lega pertanto al lusso ed interpreta ed esprime il desiderio di sontuosità mediante la brillantezza dovuta alla sua materia tessile: la seta. La lavorazione dei tessuti di seta richiedeva l’organizzazione di molte attività che non riguardavano esclusivamente il prodot-
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to in sé, ma tutto il processo di reperimento e lavorazione della materia prima, di creazione degli strumenti di lavoro, ma soprattutto di strutture finanziarie e commerciali. Erano queste ultime, insieme alla possibilità di disporre di adeguati mezzi di trasporto, che rendevano stabili le vendite. L’economia della Città ruotava intorno a questa attività produttiva, che garantiva ricchezza, benessere e sopravvivenza alle diverse classi sociali. Il velluto in questo ambito, in quanto prodotto innovativo, appariva idoneo, date le sue caratteristiche tecniche ed estetiche, a esprimere la ricchezza fino a divenire lo status-simbol di un’èlite. Per produrre il velluto era necessario un sistema di lavorazione particolare, mettendo a punto telai e strumenti e ogni innovazione tecnica, acquisita e realizzata, veniva tutelata e protetta. La sperimentazione, l’invenzione e la meraviglia diventano regole del linguaggio dell’apparire; effetto ricercato nei tessuti che venivano articolati in modo da sembrare più ricchi di quanto non fossero in realtà, emulando una ricchezza e una luce quasi divina. La maggior parte dei tessuti d’abbigliamento prodotti dalla fine del cinquecento e del seicento fino al settecento e anche oltre, che sono giunti fino a noi, di solito sono di provenienza da vesti liturgiche. Le vesti liturgiche, non soggette al variare delle mode, sono sempre state mantenute con grande cura. Alla Chiesa si deve comunque la conservazione della maggior parte del patrimonio tessile esistente. L’uniformità dello stile e le caratteristiche di lavorazione legate ad una particolare tipologia, presente in un’area ben definita, ci aiuta a ricostruire l’attività produttiva locale. Solitamente nella struttura e nel disegno i tessuti rispecchiavano fedelmente lo stile e il gusto di un’epoca, diversificandosi in quelli per l’abbigliamento e per i rivestimenti nell’arredamento. La decorazione tendeva fondamentalmente ad una stilizzazione geometrica di motivi vegetali, attraverso decori dalle forme piccole e grandi. I piccoli motivi decorativi trovavano largo uso nell’ambito dell’abbigliamento, mentre i decori più grossi nell’arredamento. È significativo notare che le vesti liturgiche utilizzavano entrambi i tipi di motivi. Per la costruzione della sua immagine, la Chiesa richiedeva la produzione di preziose stoffe per celebrare i propri riti e vestire i suoi rappresentanti. La veste liturgica prescriveva pertanto l’uso della seta, facendo nascere il concetto di “tessuto da paramento”, in cui prevaleva una nuova strutturazione data da una ricca cromia della decorazione. È infatti dalla fine del ’600 che Catanzaro conobbe l’apice del successo, vi si fabbricavano damaschi lisci, lavorati e velluti, anche nella versione ricca; è attestato che i setaioli catanzaresi usassero tessere con fili d’oro e d’argento i tessuti destinati agli arredi e ai paramenti sacri. I paramenti sacri, da un punto di vista formale, derivano dal costume laico e, dopo essersi stabilizzati negli aspetti essenziali fin dal secolo IX, non hanno più subìto modificazioni di rilievo. Secondo lo scopo delle ce-
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lebrazioni, i giorni e le ricorrenze dell’anno ecclesiastico, sono prescritti per i paramenti particolari colori: bianco, rosso, verde, violetto ecc. Nelle vesti indossate da Vescovi e Sacerdoti ritroviamo sempre la “dalmatica” abbinata alla “pianeta”. La “dalmatica”, in origine di derivazione laica, si evidenzia come tunica a forma di croce, originaria della Dalmazia, introdotta a Roma nel secolo III. Mentre la “pianeta”, indumento in tessuto prezioso dalla forma ovale con un foro al centro per far passare il capo, nasce dalla trasformazione del mantello romano da viaggio di forma circolare munito di cappuccio, detto “penula”, che altresì ispirò il costume monastico. Vennero a definirsi altri capi quali il “piviale”, specie di mantello aperto avanti con cappuccio, usato nelle grandi cerimonie; esso deriva da un mantello da pioggia con cappuccio portato dal secolo IX in poi dai monaci. Inoltre facevano parte dei paramenti la “mitra”, copricapo del Vescovo, e la “stola”, striscia di stoffa lunga 2 metri, simbolo della dignità sacerdotale; il tutto naturalmente decorato. Le tessiture figurate erano impiegate per decorare e bordare tali vesti liturgiche, che altrimenti potevano venire ricamate. I disegni di piccole e grandi dimensioni dominano nei velluti e nei damaschi di seta e l’abilità del disegnatore consisteva nel variare all’infinito l’interpretazione di questi temi, nel proporre soluzioni particolarmente armoniche. Le sete calabresi venivano colorate con procedimenti quasi segreti, per cui la colorazione cremisi si otteneva con la cocciniglia, ocra con la terra di Tropea, il celeste usando una polvere detta castello, il nero con la corteccia delle noci. I paramenti sacri, presenti nel Museo Diocesano e in alcune chiese di Catanzaro, costituiscono l’esempio tangibile della produzione serica locale; analizzandone la fattura tessile e la decorazione, se ne desume un carattere stilistico, tecnico ed artistico, specchio della storia del tempo. Damaschi dal disegno fitto e chiaro, che hanno come motivo principale la melagrana, o spesso anche una forma analoga come l’ananas, il fiore di cardo o la pigna resa come nucleo principale del disegno. Il carattere compositivo raggiunge un perfetto compromesso tra la resa naturalistica e la stilizzazione dei motivi vegetali, motivi tipici del XVI e XVII secolo. Il fatto decorativo si evolve successivamente in senso naturalistico: attraverso un gioco di luci ed ombra si conferì ai fiori un effetto plastico, dato dalla graduale sfumatura di ciascun colore e dall’uso della policromia. Nell’ottocento la Chiesa prescriveva una tessitura artistica per la sopraveste liturgica, tendente ad una decorazione ancora fedele alla tradizione passata. I disegni liturgici dei tessuti da paramento si atterranno alla decorazione settecentesca, con la magnifica strutturazione della superficie e la ricca cromia in fiori sparsi alternati a delle righe, portando alle ultime conseguenze quel che rimaneva dello sviluppo dei motivi settecenteschi. A Catanzaro la produzione della seta è sempre stata, oltre il fattore produttivo in
sé, una vera e propria arte che coinvolgeva e regolava tutto un universo economico, sociale e culturale. L’arte della seta, così racchiusa tra antichi splendori e successivi tramonti, finisce per perpetuare quei suoi momenti di gloria affermando la propria identità e la propria cultura. Nella Catanzaro dei tempi antichi, tra duecento e settecento, la gente viveva in rapporto con l’universo dei velluti, dei damaschi, dei rasi, delle organzine; pertanto ogni uomo o donna, vecchio o ragazzo, ha finito per esserne coinvolto, convivendo quei tempi e ritmi con i canti e gli odori di un mondo fatto di angosce e di speranze. Nel tempo tale produzione subì un’inarrestabile decadenza, ma tra mille problemi non scomparve del tutto; per cui nei primi decenni dell’800 furono riattivate diverse filande, alcune delle quali lavoravano seta organzina. A metà ’800, fra le filande attive, c’era il Reale Orfanotrofio della Stella, che lavorava anche cotone e lino e che introdusse per la produzione il telaio Jacquard. Ancora oggi, a ricordare l’importanza dell’arte serica nella città, sono le vie ad essa dedicate: via Gelso Bianco, via Filanda ecc. Tale produzione serica contribuiva pertanto a mantenere un’atmosfera di benessere nella città, cosa attestata da più fonti. Ad esempio, in un articolo de “Il Calabro” del 1879, è riportata la pubblicità di uno stabilimento bacologico. La produzione come materia prima e anche lavorata della seta, anche se per il fabbisogno locale, continuò presumibilmente dal 1860 al 1930. Comunque, ai primordi dell’età industriale e della società moderna, l’arte catanzarese della seta resta circoscritta al suo mondo, lasciando un alto messaggio di civiltà fatto di tradizione e di operosità, di tenacia e buon gusto, di arte e fantasia.
che, inesorabilmente, muterà continuamente vivendo del disfacimento di sè stessa. Si può così apprezzare il piacere di un luogo che è denso di ricordi e di storia passata, continuando a rivivere negli occhi e nella mente di chi è presente. Ogni foggia diventa tipica, facendone riconoscere l’epoca giusta. Siamo alla fine dell’800, questa è l’epoca in cui il volume della gonna era tutto sul dietro, abbinato ad un rinnovato gusto dei drappeggi, mentre una lunga fila di bottoni chiudeva gli abiti fino al collo dando un richiamo di puritano erotismo. Negli anni successivi la veste subirà delle varianti, fra le quali si evidenzierà la particolarità dei colli alti e delle maniche, larghe alle spalle e strette fino al polso; come pure la produzione dei busti cuciti
L’abito nella scena urbana Abbiamo provato a ricostruire come in un puzzle l’immagine della Catanzaro d’altri tempi, dove i tasselli sono costituiti dalle immagini fotografiche e storiche, dove un ruolo importante assumono anche le riviste locali, che avevano allora lo scopo di divulgare le mode del momento. I vari suggerimenti avevano lo scopo di agire da guida alle lettrici, le quali potevano così orientarsi nel mare delle novità. Lo scopo principale di tali informazioni era comunque quello di indurre a fare delle scelte consapevoli con intelligenza e classe, finendo per personalizzare i dettami della moda in caratterizzazioni individuali. Uomini e donne, in momenti diversi, con addosso le tracce di interpretazioni di mode allora attuali, diventano commento vivente dei ricordi ma anche comparazione tra presente e passato. Come continuità di vita il tempo si annulla, il personaggio ritratto lascia la posa per assumerne un’altra più disinvolta; si trasforma la fisionomia ma anche la veste, il tempo scorre veloce e giustifica il cambiamento della forma
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a mano con incrostazioni di pizzo, ricami e nastri, divenendo il capo essenziale dell’intimo. Nel 1900 le signore, con i boleri attillati e le gonne lunghissime, portavano cappellini colmi di decorazioni floreali, chiara evidenza dell’influenza del Liberty. Una toilette di nuova foggia, giunta direttamente da Parigi per la primavera, aveva un’ampia gonna increspata, dalla vita stretta e con il colletto della bianca camicetta di mussolina che saliva fino al mento. Mentre per ciò che riguarda l’abbigliamento serale, che è sempre stato quello più curato, esso poteva essere confezionato in merletto bianco, in pizzo nero, elegante tulle rosa o in voile di colori ametista o rosso. Simili appaiono i modelli raffigurati in cartoline dell’epoca, spedite per corrispondenza da una famiglia del nord ad una di Catanzaro. La stagione estiva proponeva diversi eventi mondani; nel passeggio serale davanti ai caffè del tempo o lungo le vie del corso, le signore facevano a gara per mostrare l’abito più elegante e originale. Per qualunque ora del giorno l’articolo del 23-07-1905 edito dal settimanale “u munacheddu”, nell’apposito spazio riservato alla moda, indicava tessuti leggeri, come mussola di seta semplice o ricamata. La mussola era infatti molto versatile e consentiva di adattare la propria toilette, con piccoli accorgimenti, a qualunque circostanza. Sembrerebbe di mussola o voile beige l’abito da passeggio indossato da una signora di Catanzaro, la quale completa la vestizione abbinando un cappellino di colore blu ed un ventaglio. Se con l’avvicinarsi dell’estate ci si chiedeva quali fossero le novità in fatto di costumi da bagno e di toilettes da spiaggia, gli articoli del 25-06-1905 e 13-08-1905 soddisfacevano questa curiosità. Le fogge essenziali del costume erano le seguenti:
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calzoncini sbuffanti stretti sul ginocchio ed una lunga blouse. I colori erano certamente più vari con l’utilizzo del rosso e del blù, guarniti in bianco e completati da una paglia grigia. Oltre che sul costume, le signore potevano contare su vere e proprie toilettes da spiaggia, fatte con tele di lino e piquet, sulle quali contrastavano i ricami ed i pizzi cuciti sopra. Fanciulle e signore proteggevano viso e capelli con le enormi paglie e con cappelli fatti di mussole e crepe. I medesimi articoli prendevano in considerazione anche il vestiario infantile. La nuova moda proponeva gonne corte confezionate con un alto volant a due o tre balze. Il capo era sempre costituito dalla blusa molto lunga con aggiunte delle sciarpe della stessa stoffa dell’abito, annodato dietro, lasciando le due code svolazzanti. Gli uomini alla moda seguivano la linea di stile inglese fine ’800 che descriveva un’eleganza sobria, ottenuta mediante un taglio impeccabile con giacche che si chiudevano molto in alto. Intorno agli anni 10 si verificò una vera rivoluzione della moda femminile, che portò all’abolizione del busto a stecche. L’impronta della moda anni 10, come in un frammento, appare nelle immagini fotografiche dell’epoca. Esse divengono il segno tangibile di ciò che è stato, in cui tutte le descrizioni divengono esplicite focalizzandosi nei vari oggetti. Come in uno scorcio appare un’immagine di Catanzaro, con un suo momento di vita cittadina, con i suoi personaggi ben abbigliati fissati li per sempre. All’epoca, la corrispondenza mediante cartoline postali, oltre ad adempiere al suo scopo prioritario, agiva quindi anche da mezzo di diffusione della moda; una serie di cartoline, spedite nel 1918 dal nord a Catanzaro, rendevano note al ricevente le caratteristiche più salienti della moda del momento. In seguito
alla diffusione del concetto di praticità e funzionalità, abbinato ai significativi cambiamenti economici e sociali, si verificò una mutazione dell’aspetto esteriore degli individui. Nel costume femminile si verificò un accorciamento della gonna, i capelli vennero tagliati corti e gli abiti, dalla linea essenziale, tesero ad allungare la figura mediante l’innalzamento del punto vita. I cappelli, nella variante di modelli, calzavano aderenti al capo fino a coprire completamente sopracciglia e fronte. Il privilegio degli accessori femminili passò dalle perle ai braccialetti alla schiava e soprattutto alle borsette. Queste potevano essere a forma di valigetta in pelle o confezionate in preziosi tessuti e quindi riservate alla sera. La varietà di modelli è resa nota tramite testimonianze tratte da riviste dell’epoca e borsette appartenute a una gentil donna di Catanzaro marina. Mentre l’abbigliamento femminile subiva le suddette varianti, il boom delle calze di seta trasparente non ebbe tutta quella fortuna nel diffondersi senza tabù; infatti molte donne continuarono ad inguainare le loro gambe con calze di maglia nera. Per quel che riguarda l’abbigliamento maschile, i canoni dell’eleganza, giungevano sempre dalla corte inglese e quelli simbolo degli anni ’20 erano il fazzoletto nel taschino, i guanti, il cappello floscio e la paglietta. Le giacche divennero più attillate, mentre i pantaloni, larghi in vita, giungevano alla caviglia stringendosi un po’ e finendo spesso con un risvolto. I racconti diventano così visualizzazioni e tendono a riempire il quadro come in una messinscena. Dove una sfilata di abiti anni ’20, con alle spalle lo scenario e le atmosfere delle vie di Catanzaro, diventano tracce di un passato che ama rapportarsi con il presente e preannuncia il futuro dei cambiamenti.
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Vestire la Tradizione Per completare l’immagine della città, dal momento che in Catanzaro, alla fine del XIX secolo, vivevano diverse categorie di persone, appare logico parlare, oltre che della moda a più livelli, anche della tradizione che si è perpetuata nel tempo definendo il cosiddetto “Costume Popolare”. Il costume, nei confronti della transitorietà della moda, oppone il suo essere stabile e, mediante una certa uniformità, comunica il suo luogo di appartenenza e il vasto codice dei comportamenti di un gruppo. Il costume della città di Catanzaro ripone in sé un tipo di abito capace di rappresentare quello di ogni parte della Calabria media e quello di consistenti società urbane legate alla cultura ed all’economia della città. Il costume era così disposto: una lunga sottana rossa partiva dalle spalle e veniva coperta sul davanti con un semplice grembiule. A chiudere il busto vi era un corpetto largo con le maniche lunghe dalle bordure dorate. Questo corpetto veniva stretto sul davanti con dei laccetti disposti a zig-zag, che spesso avvolgeva anche i lembi del fazzoletto, chiamato anche “maccaturi”, messo a coprire le spalle. Per copricapo le donne usavano mettere uno scialle dai bordi ricamati, lungo fino alle spalle. Da notare inoltre che il fazzoletto legato attorno al collo poteva non essere un vero e proprio fazzoletto, ma bensì un ampio collo ricamato della camicia bianca sottostante. A volte la sottana veniva sollevata davanti e annodata, o “mpaddata”, dietro a formare una sorta di strascico a mò di coda. Tipico del costume catanzarese e del suo circondario era “u pannu russu”, un rettangolo di panno rosso arrotolato sotto una lunga camicia bianca, partendo dalle ascelle fino a metà gambe. Questo non possedeva alcun tipo d’attacco ma veniva sostenuto dal corsetto e dalla gonna che, una volta tirata sù, lo lasciava intravedere. Sempre rosso nelle donne maritate, cambiava colore nelle ragazze nubili e nelle vedove che lo portavano rigorosamente nero. Per quanto riguarda i tessuti, possiamo attestare che fossero probabilmente di produzione locale, arricchiti in un secondo tempo da ricami e merletti. Il cotone o la seta erano riservati agli abiti della festa o a quelli nuziali. Possiamo comunque affermare che il costume popolare, pur avendo fissato le sue regole nella tradizione, si è comunque rifatto al modo di vestire delle classi dominanti e da esso è partito per sviluppare le sue forme. Pertanto il gesto di alzare e annodare la gonna, che finisce per formare una sorta di strascico dietro, tende a valorizzare la veste sottostante, divenendo peculiarità del costume. Ciò attesta come il costume popolare abbia comunque sviluppato il suo ideale di bellezza, facendosi interprete della moda, della vita quotidiana e degli eventi della famiglia, caratterizzandoli e riunendoli in una forma abbigliamentaria dettata da una quasi uniformità. E benché il costu-
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me, inteso come abito, sia un mezzo di espressione collettiva, esso si riserva in fine di essere nello stesso tempo individuale. Imponendosi come importantissimo mezzo di comunicazione e presentazione, tanto di un popolo quanto di un singolo.
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George Gissing a Catanzaro
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Mauro F. Minervino
Lo scrittore vittoriano George Gissing viaggia nel 1897 nelle regioni del Sud. Sul diario che tenne durante tutta la durata del viaggio, Gissing annotò con puntiglio documentaristico un’abbondante quantità di impressioni. Durante gli spostamenti indirizzò da varie località numerose lettere ai famigliari in Inghilterra, disegno una serie di bozzetti (molto vivaci e delicati, quasi tutti di soggetto femminile e archeologico), ricopiò lapidi ed epigrafi incontrate sul cammino, prese appunti di scene di vita quotidiana e aspetti di costume, raccolse note d’ambiente, osservazioni naturalistiche, assieme a numerose descrizioni e ricordi dei personaggi e delle figure umane di cui fece conoscenza. Tenne insomma un inventario, un catalogo ragionato di ciò che egli conobbe e osservò, attingendo in ciò esclusivamente dall’esperienza in vivo. Di fatto, al suo rientro dall’Italia, gli appunti e le numerose note riguardanti il viaggio al Sud compiuto nel 1897, nelle prime intenzioni avrebbero dovuto fornire allo scrittore materiali e soggetti utili alla produzione di nuovi romanzi e novelle. Questi materiali, destinati in un certo senso all’archivio, furono invece ripresi e sistemati da Gissing solo qualche anno più tardi, durante il 1899, andando a formare la materia per un libro di ricordi sulla sua esperienza di viaggio nel mezzogiorno d’Italia, intitolato “Sulle rive dello Ionio. Note di un vagabondaggio nell’Italia del Sud”. Gissing nel corso di questo vagabondaggio farà in tempo ad assistere al tramonto di quegli aspetti di vita quotidiana di più facile presa folklorica che ancora costituivano agli occhi degli stranieri in viaggio l’antonomasia del carattere popolare dell’italiano del Sud. Già prima della partenza lo scrittore notava: «Napoli è diventata meno rumorosa (...), ora la musica per le strade è rara (...), il cambiamento è molto significativo; ancora qualche anno e la melodia popolare sarà rara a Napoli e a Venezia quanto sulle rive del Tamigi (...). Non ci sarebbe da stupirsi se la modernizzazione della città, insieme alla situazione generale italiana, avesse un effetto depressivo sui modi tradizionali dei napoletani» Qualche giorno più tardi sbarcato nella primitiva Calabria, a Paola, egli avrebbe poi persino patito la delusione di non vedere nessun costume interessante: “tutti vestivano
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In apertura: George Gissing nel 1899, ritratto dal finestrino di un treno (foto archivio Minervino). In alto: Londra, 1898 George Gissing, primo a sinistra nella foto, insieme ad alcuni amici scrittori. Il terzo da sinistra è Sir Arthur Conan Doyle (foto Gissing Trust Foundation). A destra: George Gissing nel 1888 (foto Gissing Trust Foundation).
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alla maniera grigia e comune della nostra età distruttrice”, e giunto a Catanzaro noterà “pochissimi esemplari del cappello alla calabrese, che sembra stia andando, in disuso ovunque”. Ma nonostante lo scadimento di certe livreee esotiche, egli attraversando la Calabria di quel caotico finale di secolo sarà comunque, e specialmente, capace di identificare subito chi è l’uomo o la donna che gli passa davanti: la sua è, tutto sommato, una semiologia ante litteram. Una semiologia del passante, dell’uomo e della donna che egli incontra per la sua strada. Una semiologia “umana”, del corpo, dei volti dell’abbigliamento. Di alcuni pescatori, scrive: “i pochi panni che quegli uomini indossavano per compiere la loro quotidiana fatica si adattavano addosso a loro perfettamente, come sempre accade quando la foggia di un abito si adatta alla vita naturale e materiale di chi lo possiede, acquistando così per chi lo indossa la giusta bellezza dell’utile”. Per Gissing ognuno di questi segni animati che ancora si inscrivono in ciò che resta del costume tradizionale indossato dai calabresi della fine del secolo XIX è un simbolo della modernità che decanta il suo prodotto sociale alle latitudini del Sud. Il sembiante umano avvolto dai panni tradizionali, in questa visione di Gissing è un simbolo superiore, un codice di segni, su cui si raffigurano differenze di cultura e di civiltà non ancora omologate, una sorte di superficie antropologica su cui è possibile cogliere gli effetti di realtà prodotti da queste trasformazioni. Il viaggiatore Gissing, non dimentico della sua personale esperienza di testimone e osservatore partecipe della vita condotta dalle plebi urbane nei bassifondi londinesi, lavorando per comparazione su questi segni del sembiante capisce subito il «chi è» dell’uomo e della donna che incontra in Calabria, alle porte del secolo che presenterà dappertutto su scala mondiale la realtà già oppressiva e fagocitante imposta dalle mode del capitalismo industriale e dell’imperialismo. Egli “vede” dai panni se l’uomo o la donna che gli passa davanti esplorando le diverse contrade del Mezzogiorno, è ricco o povero, se è un abitante delle montagne o un pescatore, capisce il più delle volte che mestiere fa. L’eccezione estetica accade solo nel caso delle osservazioni sull’abbigliamento delle donne albanesi di Calabria incontrate a Cosenza e a Catanzaro. Egli esamina la gala del loro variopinto costume tradizionale con attenzione, quando più spesso per il resto degli abitanti delle città capoluogo non è più il costume esotico della tradizione, ma già il grigio abito borghese che vestirà poi tutti “in questa nostra età distruttrice”. Gissing arriva così persino a cogliere i dettagli più intimi della semiologia del passante, poiché il simbolismo delle vesti, come è noto, non nasconde nulla. Ad esempio dal costume e dal sembiante riesce a penetrare i segreti dell’universo femminile o ad indovinare dove sta andando un florido contadino che sale sul treno, incontrato alla fermata di una stazione intermedia, diretto da Crotone a Catanzaro. Osserva il sembiante del
mendicante e quello del possidente, della donna che si reca al mercato, del borghese affarista, degli abitanti del popolo nel giorno di festa. Ma, ovviamente, in questo gioco dello sguardo lo scrittore inglese non si atteggia a semiologo, si schermisce modestamente sostenendo che oramai, anche nella realtà moderna del Sud, già così lontano dall’esotismo d’accatto di certa letteratura di viaggio, nell’abbigliamento di massa, una volta preso piede, valgono dovunque, sulle rive del Tamigi o su quelle dello Ionio, due presupposti materiali e culturali che possiamo così riassumere: se tanto mi dà tanto, e in fondo, le eccezioni della fattispecie sono pochissime. Nell’età di Gissing anche al Sud il viaggio si allontana sempre più dall’esotico. Tutte le occasioni dello sguardo, tutti gli avvenimenti che riguardano il costume e il sembiante, sono oramai inseriti in questo frustro gioco combinatorio, in questo labirinto di segni oramai dappertutto così poco policromi. Un’eccezione che nel 1897 sopravvive forse soltanto nel costume indossato delle donne albanesi che lo scrittore vittoriano incontra per le strade di Catanzaro. Nell’autunno del 1897, proveniente da Napoli, dove il giorno prima aveva fatto testamento davanti al console inglese Mr. Rolfe, Gissing sbarca la mattina del 17 novembre 1897 dal vapore Florio. Scende sulla costa della Calabria tirrenica, a Paola, un «paesino dai colori stinti», attratto lì solo da quel suggestivo nome di donna. Inizia da questa località, da questo grembo di donna, il lungo détour dello scrittore che visiterà una dopo l’altra le diverse contrade della Calabria, regione considerata dai grandi viaggiatori una sorta di intervallo opaco tra Napoli e Palermo, un deserto della civiltà. Il viaggio, proseguito a piedi e con mezzi di fortuna verso le località dell’interno, lo porta poi nei giorni più umidi e piovosi di «un orribile novembre» nelle diverse contrade della malarica e sperduta Calabria di fine secolo. A Crotone subisce un attacco di tisi e il delirio della febbre polmonare. Viene curato generosamente (solo tè e chinino) da un medico del posto, Riccardo Sculco, «il mio amico dottore», e accudito dalle querule serve di una povera locanda della città pitagorica. Si rimette miracolosamente in piedi, riparte in treno e fa tappa a Catanzaro, la cima ventosa scelta per una breve convalescenza. Appena arrivato cerca una sistemazione in albergo; la città gli è completamente sconosciuta. I suoi manuali di viaggio borghesi, seguiti da Gissing svogliatamente e solo in caso di pura necessità, uno inglese – il Murray’s Handbook – e l’altro tedesco (la famosa guida Baedeker per l’Italia meridionale, stampata a Lipsia e aggiornata periodicamente), segnalano concordemente l’esistenza dell’unico albergo di Catanzaro «decoroso e ben situato», il «Centrale», aperto sul corso principale della città. Ed è tra le mura di questo modesto albergo di provincia che per noi si compie il salto nel tempo. Tra le pagine di un libro prende forma il gioco dei travisamenti che detta la cifra paradossale di tutta questa storia. Proprio a un
ricordo di George Gissing e alla sua umanissima e sensibile passione per il Sud, il mondo deve il curioso e goffo nomignolo di «paparazzo». Un nome comune superimposto dai media che oggi designa universalmente a Parigi e a Roma come a Tokyo e a New York, i fotografi d’assalto e il loro mestiere di testimoni oculari di un mondo che vuol tutto vedere, vita e morte, tragedie e farse. Salito su questo «monte del rifugio», Gissing sostò a Catanzaro dal 7 all’11 di dicembre, alloggiando al «Centrale», nella speranza di riprendere in pochi giorni le forze infiacchite dalle febbri. Catanzaro è a quel tempo un centro di provincia piccolo e sparuto. Poco più di un paese antico, al di sopra di «una valle verde e grigio argentea di ulivi che dall’alto del monte sembra di una lunghezza smisurata». Una sorta di «castello di Drumlanrig» o città delle favole, «issata su una cima battuta da venti furiosi. Non era facile capire come si potesse arrivare alla città lassù in alto. Catanzaro sorge sulla sommità di una rupe isolata che sembra priva di tracce di strade, ai lati della montagna burroni spalancati nel vuoto a destra e a sinistra. Un vero e proprio abisso dove è impossibile non pensare ai terremoti. Le case e i muri esterni intorno corrono tutti sull’orlo del precipizio e sembrano dover cadere giù nell’orrido da un momento all’altro. I panorami ovunque si spinga lo sguardo sono magnifici, indescrivibili. Anche il giardino pubblico della città è simile a un bosco incantato sull’orlo di un precipizio che guarda a oriente». Catanzaro di cent’anni fa, senza i ponti e il casino del traffico di oggi. Squassato in passato dai terremoti, il centro – allora come ora – è fatto di un grumo di «vecchie case rachitiche e di grossi edifici nuovi non ancora finiti, pubblici e privati, costruiti con materiale scadente e di una rozza intelaiatura di cemento». Privo di qualsiasi attrattiva classica, il luogo gli diventa però ugualmente memorabile. «Fra le donne del popolo c’è profusione di grazia e di fiere bellezze. Qui le donne per fortuna sono ancora attratte dalla bellezza e dall’intelligenza, a cui rendono volentieri omaggio. Non è forse meglio della stupida finzione inglese di sacrificare tutta la bellezza della vita sull’altare di un’ipocrita moralità?». Guidato in città da un picaro locale, il vice console inglese di Catanzaro, Don Pasquale Cricelli, un anziano aristocratico del posto «che non sapeva parlare una sola parola d’inglese», scopre conversando con i borghesi del circolo “Unione” che anche la gente comune per intelligenza e tradizione «mostra un rispetto innato per le cose dello spirito, che manca invece tipicamente nell’inglese medio». Trova la popolazione cittadina autenticamente ospitale, la gentilezza verso lo straniero priva di affettazione. «Anche per strada ci si comporta con dignità, in modo austero, quasi nobile. Un caffè di Catanzaro può sembrare al paragone di certi pub di Londra un’assemblea di saggi e di filosofi». Gissing in quei pochi giorni che trascorse a Catanzaro non passò inosservato. Ancora alcuni anni dopo il suo soggiorno in città, il giornale “La Giostra”
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Le illustrazioni riprodotte in bianco e nero fuori testo sono tratte dagli schizzi di viaggio di George Gissing, i cui originali sono conservati presso la A. Berg Collection della New York Public Library (N. Y. - USA).
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non manca di ricordarlo tra i visitatori illustri in un articolo dell’ottobre del 1900. A sua volta, il più famoso ed eccentrico Norman Douglas, in Old Calabria del 1915 ripercorrerà il cammino sulle tracce di Gissing a Catanzaro e Crotone. Accadde così che l’episodio del foglio di Don Coriolano, carico di ingenua retorica e di umori strapaesani, legato a quel nome “ Paparazzo” che per Gissing fa già personaggio, venne riportato con cura meticolosa nel diario di viaggio di questo vittoriano solitario. Era di mercoledì, il 7 dicembre 1897. Il proprietario dell’«Albergo Centrale» di Catanzaro, Don Coriolano Paparazzo, proprio quel mattino, preoccupato per il calo registratosi in quel periodo nei suoi affari, aveva saputo «con sommo rammarico» che certi suoi clienti andavano «a pranzare altrove». Paparazzo aveva deciso di collocare sulla porta di alcune camere occupate dagli ospiti di riguardo, un foglio di avviso con il quale veniva a lamentarsi del fatto che negli ultimi giorni i clienti presenti in albergo avevano mancato di utilizzare il servizio di cucina offerto dal ristorante interno, posto al primo piano dell’albergo. «Ciò tocca il morale di detto proprietario, così come danneggia il prestigio della Ditta», aveva scritto su quell’avviso, addolorato e un po’ risentito, il signor Paparazzo. E perciò, da quel momento, egli prendeva solennemente e per iscritto l’impegno di soddisfare la sua clientela migliore, promettendo personalmente «che farà tutto del suo meglio per mantenere alte le qualità dei cibi» offerto agli ospiti nel ristorante dell’albergo. L’avviso terminava con una buffa e cerimoniosissima formula di invito rivolta ai clienti disertori: «detto proprietario si onora dunque pregare i rispettabili Signori Clienti affinché vogliano benignarsi il ristorante al servizio della Ditta, ecc.». La firma apposta in calce al foglio era stata siglata personalmente dal proprietario, autore di quel curioso comunicato, con uno svolazzo d’inchiostro. «Firmato dal Proprietario: Don Coriolano Paparazzo». Quel tale Paparazzo, zelante proprietario del “Centrale”, aveva notato l’ospite straniero tra i soliti clienti del suo albergo. Un giovane distinto, alto e magro, il volto pallido, lunghi capelli alla nazarena e folti moustache. Era arrivato in albergo con l’aria sofferente, trascinandosi dietro un’enorme valigia. L’aspetto riservato e un pò misterioso, qualcosa di eccentrico e artistico nel sembiante affilato incuteva rispetto e curiosità. Certamente un ospite insolito, da trattare con riguardo. Non voleva fare brutta figura Don Coriolano, oste all’antica e gentiluomo di Catanzaro, con quello straniero sconosciuto. Anche Gissing in quegli stessi giorni aveva disertato volentieri il pretenzioso ristorantino del signor Paparazzo – «Questo Albergo Centrale non è certo molto confortevole e si mangia molto male, nella sala da pranzo al primo piano non si fermano mai più di cinque o sei avventori» egli ci ricorda – per assaggiare in un’osteriola del centro il piatto preferito dal popolo, un sapido e piccante “morsello”», lo spezzatino di interiora accompagnato da un
corroborante vino rosso di Cirò. Ma lo scrittore vittoriano non dimenticò mai più quel manierato e comico rimbrotto e il nome da burla del suo occasionale padrone di casa, che in suo onore si era improvvisato goffamente aulico prosatore. «Buffo e divertente», dice Gissing, che poi nel testo di By the Ionian Sea, mostrandosi più indulgente coi ricordi del tempo, corregge le sue prime impressioni e scrive a onore del suo oste catanzarese che «il vitto che mi provvedeva il signor Paparazzo mi andava bene, e il vino era così buono che avrebbe fatto perdonare molti dei suoi errori di cucina». Nella figura di Paparazzo lo sguardo antropologico di George Gissing sembra raccogliere tacitamente un profondo riverbero simbolico, un genius loci ridotto a sopravvivere nella contraddizione nominale di un icastico frammento del passato. Un nome che suona come un rintocco minimo della memoria, documento esemplare di una vita minore che si svolge nel crepuscolo anticlassico di una piccola città immersa nell’orizzonte sonnolento del profondo milieu calabrese: la Catanzaro di cent’anni fa, con le sue goffe ambizioni e velleità di grandeur, con i suoi riti provinciali e la sua lingua maccheronica fatta di gerghi avvocatizi e manierismi desueti, con i suoi personaggi fantasiosi e grotteschi, specchio del più tardo e prosaico Mezzogiorno ottocentesco. Tuttavia il ricordo di luoghi e persone chiamate a raccolta da questa piccola e stralunata cronachetta, all’insaputa degli stessi interessati, imprimerà col mutare dei tempi un segno postumo e indelebile nella storia del costume del secolo successivo. Il secolo xx. Il secolo della fotografia e dei divi del cinema, il secolo del gossip e dei reporter. Il secolo dei fotografi d’assalto: i paparazzi, appunto. Sono loro l’antonomasia della vita spiata, dell’immagine continua, della «morte al lavoro» che tutto mostra e rivela per bello o brutto che sia, gli orrori della guerra come il glamour della moda, gli scandali e le stravaganze dei vip che sorridenti o agonizzanti riempiono i rotocalchi di tutto il mondo. Sono loro che additano a tutto il mondo il mestiere del fotografo indiscreto che ruba con l’occhio freddo della sua fotocamera le immagini che tutti il giorno dopo corrono a vedere. Tutto ciò è divenuto inseparabile da questo ironico nome d’arte che suona strapaesano e nemmeno tanto concerned: «paparazzo». Insospettabilmente, è proprio un grande fotoreporter, Ivan Kroscenko, in un’intervista al Guardian del 23 luglio 1983, forse unico o uno tra i pochissimi altri suoi colleghi al mondo, mostra di conoscere l’origine letteraria del nome paparazzo universalmente affibbiata al suo mestiere di fotogiornalista: «Lo scrittore Ennio Flaiano l’ha suggerito a Fellini come il nome migliore per il fotoreporter del film La dolce vita, dopo aver letto il libro di George Gissing By the Ionian Sea. Il signor Paparazzo era un proprietario d’albergo che si è dimostrato buon amico dello scrittore», e perciò, aggiunge infine Kroscenko con riguardo a se stesso e alla categoria, «personalmente non ho mai pensato
che essere chiamati “paparazzi” fosse da considerarsi un insulto». Per dare un nome universale a questi lavoratori conto terzi di una società di guardoni, dunque qualcuno, un altro scrittore, Ennio Flaiano, ha affibbiato loro il comico nomignolo di un incredibile e balzachiano trattore catanzarese che un giorno di cent’anni fa, sfidando inconsapevolmete il ridicolo firmò di suo pugno un fantasioso foglietto commerciale. Come accadde? E quando, caduto sotto gli occhi e la penna di Flaiano, questo bislacco avviso di cucina conservato da uno straniero di passaggio all’albergo centrale di una prudente città di provincia calabrese, testimone uno scrittore inglese ammalato di tisi e di malinconia, si trasforma in un’altra cosa? Un nome in una sceneggiatura, un personaggio nuovo in un film che segnerà per tutti la percezione di un’epoca, un altro mondo. E perché proprio quel nome in mezzo a tutti gli altri possibili diventerà quello del fotografo della Dolce vita di Fellini e Flaiano? L’albergatore Coriolano Paparazzo non è forse un personaggio felliniano ante litteram? Aspettava solo un altro curioso, un esegeta del secolo successivo, quel nome buffo lasciato sopravvivere come un simbolo a futura memoria tra le pagine del diario di Gissing: per via di quel ridondante e comico dispaccio commerciale e per quella incredibile mescola di Coriolano, un nome altisonante e classico, che allo scrittore vittoriano non poteva che ricordare, oltre al famoso generale romano che espugnò la città di Corioli, l’omonima tragedia scritta nel 1610 dal suo amato Shakespeare. Gli stranieri notano il nome di battesimo. A don Coriolano la sorte aveva però affibbiato, nella persona e nel nome dell’ineffabile ospite catanzarese di Gissing, l’eco lutulenta e plebea del popolaresco cognome “Paparazzo”, evocante il suono del ruzzo starnazzante di un modesto pennuto da cortile (o quel che resta degli oscuri fonemi del nome di un prete greco o di un indovino orientale, se vogliamo invece dar retta alle più sofisticate congetture di moderni linguisti). Ma ogni nome è un simbolo. E un simbolo, per quanto strano e curioso, aspetta solo di essere scoperto e decifrato da qualcuno. Come accadde? Quel libro di Gissing, uscito a Londra nel 1901, si intitolava By the Ionian Sea, dicevamo. In Inghilterra assieme alla Woolf lo lessero in pochi da principio, a puntate sulle gazzette popolari. Del resto lo stesso Gissing è restato per lungo tempo un outsider. Ammirato successivamente da Orwell (“un formidabile cronista della volgarità, della miseria e dell’insuccesso”) e da uno scrittore di culto tra i bibliomani come Christopher Morley, recentemente divenuto oggetto di studio per filosofi e analisti sociali come l’americano Russel Kirk o Edward W. Said, al centro delle analisi di un critico della letteratura dell’età vittoriana come il francese Pierre Coustillas, solo oggi Gissing incomincia a diventare un autore popolare. Gissing è un narratore ritrovato e dagli esiti incredibilmente profetici se è vero che ha ispirato la cupa saga di K.W. Jeter, l’autore di Blade Runner, e
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uno straordinario scrittore di atmosfere londinesi come Peter Ackroyd (London, The Biography). Pochi ma buoni, una minoranza crescente i lettori di Gissing. Non solo in Inghilterra. Anche in Italia. A cominciare per limitarci a pochi letterati maggiori: Raffaele La Capria, Mario Praz (di Sulle rive dello Ionio scrive nel suo Il mondo che ho visto, annotando che il viaggio di Gissing al Sud “si rivelò un’avventura così disperata e commovente che il suo racconto supera per tensione drammatica la situazione ricreata da Virginia Woolf in Gita al faro”), e Giuseppe Tomasi di Lampedusa (“il tugurio o, peggio ancora, l’appartamento sinistro del vicoletto di quartiere periferico, lo scialbo cattivo odore delle stoviglie mal governate, la prostituzione che s’insinua nella mente delle ragazze miserabili con la lentezza e la sicurezza della tubercolosi, queste e molte altre immagini disperate hanno trovato in Gissing il loro straziante poeta (...) Scrisse molto, e non ho letto tutto, ed ho avuto torto”). Sulle rive dello Ionio, libro di viaggi di uno scrittore vittoriano, un inglese che voleva farsi calabrese, quasi interamente dedicato alla Calabria della fine dell’Ottocento, gli italiani lo poterono leggere in traduzione per la prima volta solo dopo la guerra, nel 1957, pubblicato a Bologna dall’editore Cappelli. Erano gli anni della ricostruzione, gli anni romani della «Dolce vita» (espressione anche questa ripresa e resa famosa da Fellini, che era però il titolo di una commedia del 1912 di Arnaldo Fraccaroli). Gli anni della «Dolce vita» erano gli anni della «Hollywood sul Tevere», di via Veneto cinica e gaudente: facce buone per i fotoreporter che oggi come allora stanano le loro prede famose a colpi di flash, le braccano da vicino e non se le lasciano scappare se non dopo aver scattato tutta la pellicola e messo in salvo il rullino. Sono gli anni mitici dei fotografi di strada che ispirarono dal vero il film di Fellini. Furono loro i primi testimoni oculari di quella «Dolce vita» divenuta proprio attraverso le loro istantanee da rotocalco il sinonimo di un’esistenza votata alla noia e alla stravaganza, a una specie di nichilismo del cuore che non risparmia neanche la vita dei più ricchi, belli e famosi. Alcuni di quei pionieri della caccia all’immagine-shock sono poi divenuti famosi, come Tazio Secchiamoli, è lui «Paparazzo», il personaggio immortalato nel film di Fellini dall’attore Walter Santesso, poi c’erano Nino Barillari (calabrese di Bovalino, che sul suo araldico biglietto da visita ha scritto “King of Paparazzi”), Guidotti, Bonora e Pierluigi: i «paparazzi», appunto. All’epoca della sua prima edizione, era il 1957, il libro di Gissing venne anche tra le mani di molti dei personaggi che animavano la vita culturale della Roma di quegli anni. Tra questi ebbe anche due lettori, personaggi illustri e ruzzanti, entrambi calabresi, amici di Fellini: Leonida Répaci, romanziere e fondatore, con la moglie Albertina, del premio letterario Viareggio. È lui Leonida – “ah Leò!” –, lo scrittore vitalista che riceve e tiene salotto, e recita se stesso ne “La dolce vita”. Ma anche più forte era lo
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stralunato e fantasioso sodalizio artistico che già univa il regista de I vitelloni all’attore e commediografo Leopoldo Trieste (anch’egli calabrese) Proprio da questi il libro di Gissing passò al vaglio del genio immaginifico del suo amico Fellini. Complice l’insonnia notturna (Fellini leggeva moltissimo di notte) il racconto di viaggio di Gissing, «un aureo libretto», passò poi tra le mani del suo fedele mentore letterario, lo scrittore Ennio Flaiano. Fu così che da questi eccezionali lettori del libro di Gissing venne fuori il «paparazzo» del film. Accadde tra il giugno del 1958 e il marzo del 1959. Fellini e Flaiano stavano lavorando alla sceneggiatura de La dolce vita, che uscì poi nel 1960. Flaiano scriveva del travaglio del suo lavoro di sceneggiatore alle prese con i personaggi e con «una società sguaiata, che esprime la sua fredda voglia di vivere più esibendosi che godendo realmente la vita». Questo mondo merita i suoi testimoni: «Merita fotografi petulanti. Via Veneto è invasa da questi fotografi...Oggi è venuto un altro fotoreporter, Tazio Secchiaroli. È lui che ha fornito parecchi spunti a Fellini per La dolce vita. Il film è nato come una riflessione sui servizi fotografici più azzeccati degli ultimi mesi...Secchiaroli ha creato un genere di fotografia, una notte di Ferragosto in via Veneto». Ma anche la ricerca del nome da assegnare ai protagonisti e ai diversi personaggi del film impegnava molto Flaiano. La caratterizzazione dei fotorepoter che si muovono nel film aveva bisogno di nomi particolarmente efficaci e memorabili. Non una scelta qualsiasi, ma una «cosa letteraria» molto ragionata, carica di significati e di «affinità semantiche», come afferma con preoccupazione lo stesso Flaiano, dato che si andava alla ricerca di un nome speciale per un personaggio nuovo e speciale come il fotoreporter: «Nel nostro film ce ne sarà uno, un fotoreporter, compagno indivisibile del protagonista. Fellini ha ben chiaro in mente il personaggio, ne riconosce il modello: un reporter d’agenzia, di cui mi racconta una storia abbastanza atroce...Ora dovremmo mettere a questo fotografo un nome esemplare, perché il nome giusto aiuta molto e indica che il personaggio “vivrà”. Queste affinità semantiche tra i personaggi e i loro nomi facevano la disperazione di Flaubert, che ci mise due anni per trovare il nome di Madame Bovary, Emma. Per questo fotoreporter non sappiamo cosa inventare: finché aprendo quell’aureo libretto di George Gissing che si intitola Sulle rive dello Ionio troviamo un nome prestigioso: “paparazzo”. Il fotografo si chiamerà Paparazzo. Non saprà mai di portare il nome di un onorato albergatore delle Calabrie, del quale Gissing parla con riconoscenza e con ammirazione. Ma i nomi hanno un loro destino», conclude fatalisticamente Flaiano. Flaiano si ricorda di questa scoperta proprio nei suoi appunti dei Fogli di via Veneto, 1958, solo alcuni pubblicati in quel periodo dall’Espresso (ripubblicati di recente in volume, dopo la prima edizione della sceneggiatura de La dolce vita uscita all’epoca pure da Cappelli, in La solitudine del Satiro, Adelphi, 1996).
Flaiano ribadisce così che leggendo «per caso» il racconto di viaggio di Gissing lui e Fellini furono colpiti entrambi dal suono surreale del «prestigioso nome» di quel Coriolano Paparazzo, albergatore catanzarese ricordato dallo scrittore. Ma fu proprio la fantasia di Fellini che restò impressionata, in un gioco onirico di libere associazioni, dalla «simbologia fonetica» di quella insolita e assai comica cacofonia, e scambiando il cognome popolaresco dell’oste calabrese con un nome comune creò con «paparazzo» il prototipo del fotografo d’assalto. Fu così che l’albergatore si trasformò in fotografo. Fellini decise che almeno uno dei quattro fotoreporter che si incontrano nel film si sarebbe chiamato proprio Paparazzo. E da quel momento questo nome è diventato una delle parole italiane più conosciute nel mondo, consacrata dalla Treccani e dalla voce omonima del Migliorini. Mutatis mutandi. “Paparazzo: il fotografo d’agenzia che scatta immagini per i rotocalchi rosa e per la stampa scandalistica. Nome che viene usato come antonomasia per definire un genere fotogiornalistico”.
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A destra: testo della targa ricordo affissa dall’Amministrazione comunale di Catanzaro in occasione del Convegno Internazionale di Studi Gissinghiani “Gissing a Catanzaro”, 23 ottobre 1999. In basso: l’Hotel Centrale di Catanzaro in una cartolina dei principi del ’900. In primo piano l’insegna. Nella pagina precendente: foto di giovane donna nel costume femminile di Gizzeria (primi decenni del XX secolo).
“Mr. Paparazzo”. Un vittoriano al Sud - 1897, da “I diari” di viaggio e “Lettere ai famigliari” di George Gissing Lettera alla sorella Ellen
Catanzaro, 7 dicembre 1897 Ventitré lettere mi stavano aspettando qui a Catanzaro, assieme a un cumulo di bozze da correggere. Città straordinaria questa, situata sulla sommità di una montagna, isolata da burroni, con precipizi e strapiombi su ogni versante. Il centro della città resta a mezz’ora di carrozzabile (su per una strada ventosa) dalla stazione ferroviaria, situata più in basso. Ho gioito nell’aver appreso che tutto procede per il meglio. Ho ricevuto una quantità di buone notizie e molto materiale letterario. Ripartirò da qui alla volta di Squillace, poi verso Reggio, e successivamente ancora una volta direttamente per la cara vecchia Roma. Ho messo da parte, durante questo mio viaggio, materiali e appunti a sufficienza per farne un buon piccolo libro. (Il libro uscirà poi con il titolo By the Ionian Sea nel 1900).
Mercoledì 7 dicembre Questo «Albergo Centrale» di Catanzaro non è affatto confortevole; giornata fredda e senza sole; e qui si mangia molto male. Era ad attendermi una montagna di lettere; anche le bozze del mio libro su Dickens da correggere e una copia del libro di John Holland Rose: “The Rise of Democracy” (collana «Era Vittoriana»). Ricevuto lettere dalla Signora Gabrielli e da Cappelli - da quest’ultimo ricevo anche alcune foto di buoi. La giornata è passata tra la corrispondenza e le bozze. Giornata tetra e piovosa. Mi sento influenzato. Divertente avviso sulla porta della mia stanza. Il proprietario ha rilevato con sommo rammarico che alcuni dei suoi clienti andavano altrove a pranzare senza così utilizzare il ristorante all’interno dell’albergo, che era situato al piano terreno. Ciò tocca il morale di detto proprietario, così come danneggia il prestigio della ditta. Il proprietario fa presente nell’avviso che farà del suo meglio per mantenere alte le qualità del cibo, ecc. e si onora pregare i suoi rispettabilí clienti perché vogliano benignarsi di andare al ristorante, ecc. Segue la firma del proprietario: don Coriolano Paparazzo.
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8 dicembre 1897 Bella giornata. Alle 10 in punto sono andato in città con la mia lettera di presentazione a far visita al vice-console inglese a Catanzaro. Ho scoperto così che quel brav’uomo non sapeva parlare una sola parola d’inglese. Il nostro vice-console mi ha portato a visitare il giardino pubblico della città, in verità molto suggestivo, piuttosto trascurato e simile quasi a un bosco incantato sull’orlo di un precipizio che guarda a oriente; successivamente siamo stati in visita al Duomo e alla Chiesa dell’Immacolata, dove abbiamo trovato un grande assembramento di folla; oggi si celebra la festa dell’Immacolata - «che per importanza quaggiù», mi disse il vice-console, «è seconda soltanto al Natale». Un’orchestrina di strumenti a corde suonava dal vivo, strimpellando rumorosamente all’interno di una delle navate della chiesa. Sempre questa mattina ho ascoltato il suono delle zampogne, che ho poi udito risuonare per le strade durante tutto il giorno. I pittoreschi costumi indossati da alcune contadine mi sono sembrati molto simili a quelli che vidi a Cosenza. Resistono invece pochissimi esemplari del cappello alla calabrese, che sembra stia andando in disuso ovunque. Fra le donne del popolo c’e profusione di fiere bellezze, del pari fra i contadini sembra di scorgere i volti di eroi antichi. Tutti qui hanno un aspetto molto florido. Persino un mendicante, che ho visto trascinarsi per strada camminando mani e piedi sul selciato, ha un volto sano e rispettabile. Nessun disordine chiassoso né alcuna turbolenza sembrano agitare i gruppi di folla, la gente del popolo si comporta in modo austero, quasi nobile. Per finire, il vice-console mi ha condotto a visitare una farmacia del centro, fornita di banchi, scaffali ecc., tutto lavorato in legno finemente intagliato, su imitazione di opere esemplari del XVI secolo, una vera ostentazione di lusso e sontuosità. Fuori dall’ingresso, all’angolo della strada, i proprietari hanno collocato una mostra [un’insegna] in ferro battuto, una sorta di grifone, un lavoro simile a quelli che si vedono a Siena. La farmacia si era nel frattempo riempita di gente, contadini. Il farmacista, facendo cadere l’attenzione su un gruppo di questi, mi indicò quelli che fra di loro sono chiamati i «Greci». Provengono da un villaggio vicino [forse Andali, Caraffa, Tiriolo; n.d.t]. Le loro donne portano i piccoli, e altri fardelli, collocati a mo’ di soma su una specie di basto che caricano sullo spalle invece che di fronte, o tenendolí sulle braccia. In un’altra bottega il vice-console don Pasquale Cricelli mi ha fatto dono di due pezze di seta tessute a mano in una manifattura di Catanzaro. (Trad. dall’inglese di Mauro F. Minervino)
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NOTE BIBLIOGRAFICHE
lo stemma dell’arciconfraternita del ss. rosario di catanzaro Sandro Scumaci
(1) Confraternita, dal latino medioevale Confraternitas, derivato dal nome Confrater, Confrate. Associazione di laici non governata da una regola religiosa avente per fine, l’elevazione spirituale degli iscritti mediante pratiche di pietà, carità e culto. (2) Naca, dal greco, Vello di pecora. Culla fatta dallo stesso materiale. In Calabria era tradizionalmente di panno e posta sospesa sopra il letto matrimoniale. Ha anche il significato di altalena. Detti dialettali :regionali del reggino “Jiri naca naca”, lenteggiare e catanzarese “S’annaca”, dondolarsi. La Naca, processione del Venerdì Santo di Catanzaro, esce alternativamente dalle Chiese delle quattro Confraternite della città, secondo il seguente ordine: Rosario, Immacolata, Carmine e San Giovanni. E’ sempre stata molto seguita dalla cittadinanza. Nel passato la processione usciva ognuno per conto proprio, da tutte e quattro le Confraternite. Per ovviare alla confusione che si veniva a creare, l’Arcivescovo Giovanni Fiorentini (1919-1956) ha abolito l’uscita distinta di più processioni, con un’unica processione in cui partecipano tutte la Confraternite ma organizzata a turno da ciascuna di esse. (3) Ufficiali, Confratelli che ricoprono le cariche più importanti della Confraternita. (4) Arciconfraternita, Confraternita principale, distinta per particolari titoli e privilegi. (5) Scaramuzzino Domenico, detto Micarello (fine secolo XVIII - Catanzaro 01.04.1886). Confratello dell’Arciconfraternita del SS. Rosario. Ha fatto realizzare con i soldi raccolti dalle elemosine, in quanto indigente, per donarli alla Chiesa del SS. Rosario: il mantello della statua della Madonna in velluto piano di seta beige; lo stendardo; le poltrone priorali ed i quattro sgabelli intagliati e ricoperti con fogli di argento e dorati a mecca; la porticina a sbalzo in argento del Tabernacolo dell’altare maggiore; l’ombrello processionale in seta rossa e ricamo in oro; il pallio per la processione del SS. Sacramento in lamio in seta bianca con fili d’oro. In Chiesa è ricordato con una lapide in marmo posta nella navata destra ed un ritratto ad olio su tela collocato in sagrestia di F. P. Pisani del 1859. (6) Fezza Pasquale e Gaetano di Rogliano. Pasquale Fezza, Capo d’arte, fornisce i disegni e dirige i lavori di restauro e decorazione barocca in stucco anche della navata centrale della Chiesa di Maria SS. del Perpetuo Soccorso a Serrastretta (Catanzaro), tra il 1770 e il 1778. Archivio di Stato di Catanzaro, Notaio D. Larussa 1770, 1771, 1772. (7) Silvestro e Giuseppe Troccoli, maestri scalpellini (Napoli XVIII secolo). Nella città di Catanzaro eseguono in marmi policromi, un altare presso la Chiesa della Maddalena del 1768 e l’altare nella cappella dell’Immacolata presso l’omonima Basilica nel 1775 ed a Cropani (CZ) l’altare maggiore del Duomo dell’Assunta. (8) Marmo di Gimigliano o Marmo verde di Calabria. E’ uno delle dodici qualità di marmo italiano, caratterizzato da venature bianche dovute alla presenza di calcite e quarzo. Molto utilizzato nella decorazione di edifici religiosi come colonne degli altari, acquasantiere o fonti battesimali, ed in edifici civili nella pedata dei gradini. Da segnalare la base circolare della fontana di ghisa di Piazza Cavour a Catanzaro, le decorazioni dell’altare della Vergine con le quattro colonne in marmo corneo della facciata nella Chiesa Arcipretale dell’Assunta di Gimigliano, le fonti battesimali della Chiesa di Santa Lucia a Miglierina e della Chiesa Matrice di San Pietro Apostolo in Calabria e l’utilizzo nella Chiesa del Gesù a Napoli, nella Reggia di Caserta e nella Basilica di San Giovanni Laterano a Roma. (9) Andrea Maggiore da Carrara, architetto e maestro scalpellino, lavora il marmo in Calabria realizzando cappelle ed altari. Oltre a quella Chiesa della Madonna del SS. Rosario a Catanzaro (Archivio di Stato di Catanzaro, Fondo Notarile Inv. Notaio Giuseppe Orlando di Catanzaro, B 24 Foll. 287/289 dell’1 dicembre 1615), sono documentate anche le realizzazioni di cappelle in marmo nella Cattedrali di Cosenza, Squillace (CZ) e S. Severina (KR). Mussari Bruno e Scamardì Giuseppina, Andrea Maggiore scalpellino di Carrara tra Catanzaro e Squillace, in Vivarium Scyillacense 1988. (10) Canduscia dall’arabo, specie di sopraveste ovvero, veste con lo strascico o dal latino Caudam lucere. Candusciu è il termine dialettale catanzarese che designa una persona molto trasandata, mal vestita ovvero vestita con indumenti strappati. Le dame catanzaresi usano disfarsi del loro vestito dal ricco strascico realizzato di solito in taffettà o ermosino che caratterizzano l’abito femminile del XVIII secolo, donandolo alle suore che utilizzano la preziosa stoffa dalla parte più lunga, che va dalla vita alta fino a terra formando lo strascico detto appunto canduscia. I ritagli di stoffa, venivano riutilizzati per comporre i paramenti sacri del sacerdote che vengono tuttora indossati per la funzione della messa come la pianete, la stola, il manipolo, ecc. Grazie a questa tradizione, si conservano di-
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versi esempi di stoffa in seta catanzarese visionabili nella Chiesa del SS. Rosario, dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista, nella Basilica dell’Immacolata, del Rosario di Gagliano e nel Museo Diocesano di Catanzaro, oltre a diverse chiese della provincia. Anche se i preziosi manufatti non corrispondono a pieno al colore che il periodo liturgico prevede (bianco, rosso, verde, viola e nero) ed è presente solo in minima parte, i sacerdoti utilizzano con piacere ed orgoglio questi preziosi paramenti sacri, cercando di adattarli al colore richiesto. (11) Oratorio, dal latino oratorium, oratorio. Edificio o piccolo edificio, spesso annesso a chiese o a conventi, per le riunioni dedicate alla preghiera. (12) Congrega, dal latino Kongrega, compagnia, congregazione o confraternita di religiosi o secolari associati per esercizi religiosi. (13.)Novizi, confratelli iscritti da poco che devono passare un periodo di prova per la definitiva ammissione alla Confraternita. (14) Diego Grillo, detto Antonio. (Pizzo, Vibo Valentia 1878 - Roma 1963) Studia all’Accademia di Belle Arti di Napoli dove è allievo di Filippo Palizzi (Vasto, Chieti 1818-Napoli 1899) e Michele Cammarano (Napoli 1835-1920). Predilige soggetti d’arte sacra con l’uso della tecnica dell’affresco, realizzati molte volte in collaborazione del pittore conterraneo Carmelo Zimatore (Pizzo, Vibo Valentia 1850-1933). Si trovano opere oltre che nell’Oratorio del SS. Rosario, nel Santuario di Maria SS. Della Quercia (soffitto della navata centrale con l’apparizione della Madonna, il Martirio di Sant’Andrea e la predicazione di San Giovanni Battista ed nella cantoria, Re Davide e Santa Lucia) a Conflenti, nella Chiesa della Beata Vergine del Carmelo, Chiesa della Madonna dell’Assunta, Chiesa di Maria SS. Addolorata e Chiesa di San Bernardo a Decollatura, nella Chiesa Matrice del SS. Salvatore e nel Museo d’Arte a Gimigliano, nella Chiesa di Santa Maria Cattolica a Maida, nella Chiesa di San Michele Arcangelo a Soveria Mannelli (Catanzaro), nella Chiesa di San Biagio ad Amantea, nella Chiesa Matrice di Sibari (Cosenza), a Rosarno (Reggio Calabria) e nella Chiesa di San Nicola a Mileto, nella Nuova Certosa di Serra San Bruno, nella Chiesa delle Grazie e nella Chiesa di San Giorgio a Pizzo (Vibo Valentia) con la pala d’altare raffigurante su tela il Santo a cui è intitolata la Chiesa, ritenuta la sua opera più importante. (15) Alfredo Pino, pittore (Catanzaro 1962) Diplomato al Liceo classico di Catanzaro, si forma artisticamente presso lo studio del pittore catanzarese Giovanni Marziano. Apprende, tramite Giorgio Morsetti la tecnica dell’affresco che utilizza, facendosi apprezzare anche all’estero, riferimenti della tradizione classica italiana legati ad elementi decorativi architettonici. Nella sagrestia della Chiesa del SS. Rosario di Catanzaro vi è un proprio dipinto di un ritratto a figura intera di sacerdote.
Le edicole votive: arte tra religione e religiosità popolare Luca Pietro Vasta
(1) Shmitt, Medioevo «Superstizioso», Editori Laterza, 2004, pp. 114 – 115. (2) A quando, cioè, Papa Callisto II, in missione a Nicastro per «mettere pace tra Guglielmo signore d’Italia e Ruggiero» - come si legge nella Bolla dallo stesso emanata proprio nel capoluogo calabrese – viene chiamato a Catanzaro per benedire il Duomo fatto erigere da Goffredo di Loritello. (3) Data confermata anche dal Martirologio Beneventano di Santa Maria del Gualdo. (4) Interessante è capire chi è questo Papa così atteso e richiesto dai Catanzaresi e perché proprio lui si dovette interessare di una questione politica così importante. Callisto II è un papa che “agisce”: a lui si deve,l’anno prima della sua morte, la firma del Concordato di Worms (settembre 1122). È un “Papa -politico” chiamato a mettere a posto le questioni importanti a livello nazionale e internazionale, grazie alla sua grande capacità diplomatica. Guido da Vienne (poi Callisto II) fu eletto nel 1119. Autoritario e dotato di buon senso pratico, al momento era la persona giusta occorrente per contrastare la prepotenza imperiale. Già in precedenza si era distinto per la sua determinazione, in quanto era stato il primo a lanciare nuovamente la scomunica contro Enrico V allorquando questi nel 1111 aveva estorto all’allora pontefice Pasquale II la facoltà di continuare a nominare vescovi. Di nobili natali ed avendo legami con i membri delle famiglie reali, Callisto II, godeva di indubbia condizione di privilegio in confronto ai suoi predecessori. Grazie a lui, ne 1122, si aprivano così finalmente i negoziati tanto attesi, nella città di Worms, dove furono firmati quei patti che chiudevano uno dei capitoli indubbiamente più aspri del Medioevo. Poco prima di partire per Worms e risolvere la questione con Enrico V, Callisto II dovette affrontare un’altra disputa: questa volta fra Guglielmo I di Bari e Ruggero II di Sicilia.
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(5) In G. Santagata, Calabria Sacra, Ed. Parallelo 38, Reggio Calabra, 1974. (6) Ora Via Case Arse. (7) Perchè non più a San Vitaliano, il santo che li aveva già protetti più di una volta? Bisognerebbe analizzare cosa era cambiato nella configurazione religiosa della città. Un tentativo di risposta potrebbe essere che cambiato l’ordine religioso, la Chiesa dell’Immacolata diveniva il luogo principale di culto. Ricordiamo che la Chiesa dell’Immacolata fu dichiarata dai vari re di Napoli, cappella reale prescelta per le funzioni religiose e regali di corte in tutte le solennità civili e patriottiche.
Biblioteche e ArchivI Caterina Bettiga Isaura Barbieri
(1) Tratto dagli art. sui beni culturali e paesaggistici. (2) C.f.r. tratto dall’articolo redatto dalla direttrice della Biblioteca Comunale Maria Teresa Stranieri nell’opuscolo: “La Biblioteca Comunale F. De Nobili CZ. Presentazione nuovo progetto architettonico e intitolazione Sala Augusto Placanica”, 12 Novembre 2005. (3) C.f.r. Ibidem. (4) C.f.r. opuscolo: Archivio di Stato di Catanzaro, Domenico Coppola e Italo Montoro. (5) Notizie tratte dall’attuale sito internet.
MR. PAPARAZZO
Mauro F. Minervino Riferimenti • George Gissing, The Diary of Gorge Gissing, edited by Pierre Coustillas, Harvester Press, London, 1978. • George Gissing, Sulle rive dello Ionio. Un vittoriano al Sud, a cura di Mauro F. Minervino, EDT, Torino 1993. • Mauro F. Minervino, La vita desiderata. George R. Gissing, il Sud di un vittoriano, Fondazione Lorenzo Catizone, Cosenza, 1994. • Le illustrazioni riprodotte sono tratte dagli schizzi di viaggio di George Gissing, i cui originali sono conservati presso la A. Berg Collection della New York Public Library (N. Y - USA). • George Gissing a Catanzaro, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Catanzaro 23 ottobre 1999, a cura di Mauro F. Minervino.
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