Collana “Gli sfogliabili di Palazzo Tursi”
Genova e l’Ambiente
L’Acqua del Bronzino Una storia genovese 1
Collana “Gli sfogliabili di Palazzo Tursi”
Genova e l’Ambiente
L’Acqua del Bronzino Una storia genovese
Prefazione
del Sindaco di Genova
Ormai è consapevolezza diffusa che l’acqua è il bene comune su cui l’umanità dovrà fare scelte cruciali nei prossimi decenni. Qualcuno dice che i veri conflitti del nostro mondo globalizzato saranno per l’acqua. Ci auguriamo che ciò non accada, ma già oggi la carenza di acqua e le logiche del profitto senza regole risultano tra le prime cause del sottosviluppo e della povertà. Cosa possiamo fare da semplici cittadini? Intanto riconoscere il valore e l’importanza dell’elemento che ha dato origine a tutti gli esseri viventi sulla Terra e non ritenerne scontata la disponibilità come rischiamo di fare nella quotidianità dei nostri gesti inconsapevoli e nei nostri comportamenti individuali e collettivi. La disponibilità dell’acqua e la conoscenza delle tecniche efficaci per raccoglierla, trasportarla, conservarla e distribuirla hanno rappresentato, nel corso della storia, un elemento imprescindibile e discriminante nello sviluppo delle comunità. È così anche oggi. La comunità che saremo nel futuro dipenderà anche da come sapremo gestire, ammodernare e far evolvere i nostri presidi idrici. Genova ha una storia esemplare in questo senso. Nella nostra città sono state realizzate infrastrutture straordinarie per rendere disponibile l’acqua a fini domestici e commerciali, artigianali e industriali. Queste opere, alcune delle quali anche sotto il profilo estetico e monumentale possono essere considerate veri e propri capolavori, sono la più concreta testimonianza delle conoscenze che i genovesi hanno accumulato nei secoli. Un insieme di saperi e di esperienze che hanno consentito ai giorni nostri di realizzare una rete di captazione e distribuzione in grado di sopperire alle esigenze di una città che vuole svilupparsi garantendo disponibilità, qualità e riproducibilità di questa risorsa. Il Professor Alessandro Leto descrive per noi questa storia con ricchezza documentale e chiarezza espositiva perché ci si accorga che se nulla è più semplice del bere un bicchier d’acqua, come ci tramanda il detto popolare, nulla è più complicato del procurarsi un bicchier d’acqua. A lui il mio ringraziamento per aver messo a disposizione della città generosamente il suo sapere ed il suo contagioso entusiasmo e averlo trasformato in un gesto di amore e fiducia per il nostro futuro. Intelligenza e cuore. 5
“L’Acqua del Bronzino” è il primo numero della Collana “Gli Sfogliabili di Palazzo Tursi” dedicati a Genova e l’ambiente. Per un tema così importante abbiamo scelto un nuovo modo ecologico di fruizione: la rete e non la carta. Il libro in versione digitale sfogliabile è un vero libro fatto di bit e non di atomi, accessibile a tutti, che ognuno può studiare, integrare, arricchire a suo piacimento. Democratico e risparmioso: perfetto per una città Smart. Buona lettura.
Marta Vincenzi
Premessa metodologica dell’autore
L’idea di una Collana di Sfogliabili nasce in seguito alla presa di coscienza dei tanti cambiamenti intervenuti in questi ultimi anni nel rapporto fra i cittadini, le istituzioni e la cultura nei suoi nobili ruoli di mediazione e di ispirazione. Preso atto quindi che finalmente si torna a valorizzare la funzione formativa della cultura, ci si trova però purtroppo di fronte ad una serie di costrizioni di natura economica dettate dalla recente crisi, che costringono le persone a rivedere le loro priorità. È del tutto evidente perciò che l’acquisto di libri di qualsiasi genere, cominci a pesare sui budget familiari, nonostante il desiderio di sapere e di maturare nuove conoscenze conosca per fortuna una nuova intensa stagione. Questo è il contesto in cui matura il Progetto Multimediale degli “Sfogliabili di Palazzo Tursi”, per consentire a chi lo desidera di approfondire temi di stretta attualità e di vicinanza con la propria vita quotidiana. Non è un caso quindi che tale iniziativa nasca a Genova (nella speranza che possa essere di stimolo ad altre analoghe iniziative altrove), la città che per definizione ha fatto della parsimonia, della sobrietà e del risparmio motivo di vanto nel mondo. I volumi di questa Collana sono infatti disponibili gratuitamente, basta scaricarli dal sito web del Comune di Genova con un semplice click: in questo modo poi ci si potrà relazionare sia passivamente come semplici lettori, che o dinamicamente inviando al Team di Gestione della Collana le proprie note ed osservazioni in merito, per tenere costantemente aggiornate le singole pubblicazioni, che saranno così tributarie dell’aiuto di un numero crescente di persone. Due aspetti specifici caratterizzano gli “Sfogliabili di Palazzo Tursi”. Il primo è che tutti i Volumi sono dedicati al rapporto fra Genova, i genovesi e l’ambiente, inteso qui nella sua accezione tradizionale come “ciò che circonda”. Il secondo è che, proprio per la sua stessa natura di pubblicazione aperta, i diritti d’Autore saranno ceduti a titolo gratuito e diverranno perciò fruibili gratuitamente, contribuendo a realizzare una piattaforma culturale condivisa che incoraggia le modifiche, i suggerimenti e le integrazioni di tutti coloro, genovesi e non, che vorranno partecipare a questa nuova forma di “Agorà” del Terzo Millennio. Inoltre, e questo è un aspetto che rende per ora unico questo Progetto, al libro in formato e book viene associato un Cortometraggio dallo stesso titolo affinché, in omaggio al detto 7
“un’immagine vale più di tante parole” la vista appagante delle bellezze, dei segreti di Genova e del suo intenso rapporto con l’Acqua, possano risultare ulteriormente d’aiuto in questo viaggio nella consapevolezza. È una chiamata in causa che tocca tutti ed il successo di questa iniziativa si misurerà anche sulla mobilitazione e sulla partecipazione che sarà in grado di suscitare. Un modo quindi per passare dal ruolo di Cittadini Passivi a quello, ben più impegnativo, ma straordinariamente appagante, di Cittadini Attivi.
Alessandro Leto
Indice
Prefazione del Sindaco di Genova Premessa metodolica dell’Autore 1. Acqua ...............................................................................................................................11 2. Genova ............................................................................................................................21 3. Genova e l’acqua ............................................................................................................31 4. L’acqua a Genova ...........................................................................................................39 5. L’acqua del Bronzino ....................................................................................................53 Bibliografia ............................................................................................................................59 Link suggeriti .........................................................................................................................61 Ringraziamenti ......................................................................................................................63 Biografia dell’autore .............................................................................................................65 Team di revisione ed aggiornamento ................................................................................67
Acqua
H2O, ovvero la forza della semplicità: 2 atomi di idrogeno ed 1 di ossigeno combinati fra loro per formare una molecola d’acqua, che è la fonte della vita sul nostro pianeta. La Terra si distingue dagli altri pianeti del sistema solare, proprio per la presenza di immense masse di Acqua che ricoprono circa due terzi della sua superficie, al punto che le immagini satellitari lo indicano come il “Pianeta Azzurro”. Vale la pena allora riassumere l’importanza della sua presenza sul nostro pianeta, in Italia ed in Liguria, perché questa preziosa risorsa viene condivisa da tutte le forme di vita. L’Acqua copre per circa il 70% la su-
perficie della Terra, ma la maggior parte di essa (circa il 97%) è quella salata dei mari e degli oceani: solo il 3% residuo è Acqua Dolce, ma di questa la metà è in forma solida, contenuta nei ghiacciai eterni. È chiaro quindi come ci si trovi innanzi ad un “Bene Finito”, ad una risorsa che nel linguaggio degli economisti viene definita come una “Risorsa Esauribile”. Non solo, per definizione non è distribuita in maniera omogenea sulla terra: nel tempo, con l’alternarsi di periodi di siccità con periodi di vere e proprie inondazioni, e nello spazio, con l’alternanza di aree desertiche e di aree allagate.
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L’Uomo e L’Acqua È indubbio che il progresso sociale ed il radicamento dei primi insediamenti presero forma in prossimità di aree in cui l’acqua era presente in abbondanza. Le prime civiltà non svilupparono a sufficienza le conoscenze necessarie a convogliare l’acqua lontano, e quindi furono soggette a successive fasi di migrazione ogni qualvolta i livelli delle acque disponibili in precedenza calavano rendendone più difficile l’accesso diretto. Ma in seguito, l’uomo (Homo sapiens sapiens) riuscì in una delle conquiste più importanti in assoluto del genere umano: il controllo dell’acqua e dei suoi relativi flussi. Ogni civiltà si prodigò quindi nel dare risposte proprie alle diverse, quanto complesse problematiche legate ad inondazioni, siccità e trasporto delle acque. Se dapprima si cominciò con l’utilizzo della acque “dolci” superficiali, ebbene man mano che le esigenze delle comunità si facevano più complesse, si cominciarono ad utilizzare anche le acque sotterranee. Ed in questo contesto si è andata affinando anche la capacità di approvvigionarsi selettivamente solo di acqua potabile, oppure, quando in mancanza dei requisiti di idro-potabilità, di rendere utilizzabile quella di miglior qualità. Il consolidamento delle civiltà cosidette stanziali arriva poi con l’agricoltura, la quale contribuisce in maniera determinante ad uno dei punti di svolta dell’evoluzione umana, proprio grazie alle maggiori conoscenze acquisite nella gestione delle acque.
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Quando l’Acqua è potabile? A scapito della propria salute, l’essere umano ha sperimentato in prima persona il pericolo della non potabilità dell’acqua. Inizialmente ha proceduto per tentativi, comprendendo empiricamente quali fossero quelle da bere e quelle da scartare, magari anche solo per brevi periodi, quelli necessari ad esempio allo smaltimento delle sostanze tossiche rilasciate dalla carcassa di un animale morto poco sopra il punto di presa dell’acqua stessa. Poi ha iniziato ad utilizzare sistemi di depurazione via via sempre più efficienti ed efficaci, ed in tempi recenti (almeno a partire dall’ultimo secolo) ha stabilito una serie di norme condivise a livello internazionale, funzionali a garantire il consumo umano delle acque in termini di potabilità ed igiene. Disporre di forme di organizzazione razionale nella gestione delle acque, è stato da sempre uno degli incipit dei governanti, pressochè urbi et orbi, e con l’evoluzione stessa di queste forme di organizzazione, si è progressivamente affinato anche il concetto di potabiltà. Così, nel tempo, oltre ai tradizionali ed intuitivi requisiti atti a garantire potabile una determinata acqua, come ad esempio limpidezza, assenza di cattivo odore, di contaminazione da metalli noti (frequenti furono in antichità gli avvelenamenti da piombo) ed alghe, se ne associarono successivamente anche altri, progressivamente sempre più sofisticati. A partire dal XVIII secolo si cominciano ad elaborare le prime basi scientifiche per la determinazione dei criteri di
potabilità, che raggiungono agli inizi del Novecento una considerevole maturazione, anche alla luce dei progressi relativi effettuati dalla chimica, dalla biologia (poi microbiologia) e dalla fisica. In Italia, nello specifico, negli anni immediatamente successivi il termine del secondo conflitto mondiale si assiste ad una vera e propria trasformazione socio economica del paese, alla quale corrisponde un incremento dell’attenzione su tutti i fattori di rischio, incluso ovviamente ogni riferimento al ruolo dell’acqua, sia negli agglomerati urbani sottoposti a forti stimoli di crescita per l’urbainizzazione forzata registratasi in prossimità del boom industriale, che nelle aree a forte vocazione industriale. È del 1950 infatti, l’inchiesta sullo stato dell’approvvigionamento idrico del paese promossa dall’Alto Commissario per l’Igiene e la Sanità Pubblica. Oggi sono in vigore norme che conferiscono al consumatore la certezza di poter bere acqua dichiarata potabile senza correre alcun rischio, in virtù di una serie di controlli capillari effettuti con cadenza costante e ravvicinata, che includono pure una crescente sensibilità per le singole, specifiche caratteristiche organolettiche tipiche di ogni acqua. Cenni chimici e biologici L’insieme di tutti gli ambienti in cui a vario titolo l’Acqua si trova presente nei differenti stati, si chiama “Idrosfera”. Ma si trova pure in quantità rilevanti nel sottosuolo, ed anche se in proporzioni ridotte, nell’atmosfera, dove è chiamata a svolgere
una funzione fondamentale nel mantenimento del clima che consente la vita nel nostro pianeta in tutte le sue forme. Da essa dipendono tutti i tipi di vita, organici come inorganici e la sua straordinaria capacità di solvente universale, consente di scogliere un numero di sostanze superiore a quello di qualsiasi altro liquido. Possiede un elevato calore specifico, ossia richiede molto tempo e temperature elevate prima di scaldarsi ed impiega molto tempo prima di disperdere il calore accumulato. È presente allo stato liquido, gassoso e solido e le sue proprie-tà rimangono inalterate lungo tutto il suo ciclo. Ed è importante ricordare, che esiste comunque una perdita d’ acqua sul nostro pianeta, che potremmo definire fisiologica, per effetto della sua naturale dispersione nello spazio, in prossimità della parte superiore dell’atmosfera. Una menzione particolare merita poi a questo riguardo, la vita letteralmente “magmatica” che scorre in profondità, ma non troppo, sotto di noi. A partire da 30 km circa sotto la superficie della crosta terrestre infatti, pur in presenza di temperature oscillanti intorno ai 1.000° e di rocce fuse, permangono notevoli quantità di acqua imprigionate nei minerali che compongono il Mantello. Attraverso eruzioni vulcaniche, geyser e bocche idrotermali (o fumarole), l’acqua stessa viene successivamente liberata sotto forma di vapore acqueo. E’ curioso notare poi, che gli stessi vulcani simboli del fuoco e per questo considerati antitetici all’acqua, in origine erano in gran parte sommersi, e contribuirono 13
in maniera determinante alla trasformazione del pianeta, vista la natura sottomarina delle loro eruzioni. L’origine dell’Acqua La sua presenza sul nostro pianeta è di duplice natura, esogena ed endogena. Nel primo caso si fa riferimento ai Ghiacci Spaziali, ovvero combinazioni di ossigeno ed idrogeno presenti nel cosmo. A seguito di bombardamento meteorico poi, steroidi composti anche di ghiaccio spaziale, importarono sulla terra al momento del loro impatto enormi masse di acqua. Nel secondo caso invece, si fa riferimento al ruolo del “Brodo Primordiale” (sulla cui importanza non si nutrono più dubbi), nella nascita delle prime sostanze organiche, cioè quelle che fanno parte degli organismi viventi. Questa sostanza, nota anche come “Brodo Prebiotico”, era molto concentrata e si creò in seguito alla composizione dell’Atmosfera Primordiale, formatasi a sua volta quando in corrispondenza del consolidamento della cresta terrestre, attraverso fessure e spaccature, fuoriuscirono gas volatili generatisi nelle viscere della Terra che si miscelarono con le altre sostanze presenti che formavano una sorta di “mantello” sul nostro pianeta. Nelle concentrazioni di Acqua primordiali, le sostanze organiche si combinarono insieme con i sali inorganici al riparo dalle forti radiazioni ultraviolette che penetravano un’atmosfera non ancora spessa a sufficienza. Così, lentamente, attraverso numerosi passaggi, l’Acqua ha fatto da levatrice alla Vita, che si è articolata nella odierna, vasta serie di biomi presenti in natura. 14
La Memoria Biologica dell’Acqua e le sue straordinarie facoltà Fra le sue proprietà più importanti, funzionali anche all’approfondimento di studi e ricerche molto diverse fra loro, vi è la capacità di conservare tracce evidenti del passato. Gli studi dello scienziato giapponese Masaru Emoto (1), hanno dimostrato come i singoli cristalli di Acqua abbiano un loro passaporto biologico che consente di identificarne chiaramente la provenienza. L’acqua poi, dimostra di saper interagire agli stimoli esterni, rispondendo con armonia alle sollecitazioni della musica classica ed in maniera scomposta alla cacofonia dei rumori disarmonici, come nel caso della musica heavy metal. Studi approfonditi sono tuttora in corso per scoprire le informazioni che l’Acqua conserva in relazione alle sue prodigiose capacità ed ai messaggi che può veicolare, favorendo così nuove stimolanti quanto utili scoperte. E’ inoltre sorprendente notare come ogni molecola d’acqua sia legata a quella successiva da forze elettriche chiamate “legami a ponte di idrogeno”. Senza di essi, non avverrebbero i processi biochimici alla base della vita. Questa facoltà le consente di rompere i propri legami a ponte, ad ogni passaggio di forma da liquida, a solida, a gassosa, mantenendo inalterate le proprietà caratteristiche e rilasciando energia.
Aman Iman “Aman Iman”, ovvero “l’Acqua è vita”: così dicono i Tuareg, i gelosi custodi delle secolari tradizioni del deserto del Sahara che da sempre vivono il loro rapporto con l’Acqua con la consapevolezza della sua intima relazione con la vita. Oggi, finalmente, anche alle nostre latitudini cominciamo a renderci conto della impellente necessità di considerare questo prezioso elemento nella pienezza del suo straordinario valore biologico. Questa ragione ci porterà a maturare in un futuro che speriamo sia il più prossimo possibile, una nuova consapevolezza che ci renda coscienti della rarità e della difficoltà che ci deriva non solo dall’accesso all’Acqua, ma anche dalla necessità di orientare verso un nuovo corso le politiche di consumo che per troppo tempo, soprattutto nei paesi più avanzati, sono state improntate ad un utilizzo avventato delle risorse idriche. Troppo a lungo infatti, i nostri sistemi economici e le nostre consuetudini sociali, hanno avvallato una spreco costante e continuo dell’Acqua, senza monitorare adeguatamente la dimensione del consumo che oggi si manifesta in tutta la sua potenziale ed incontrollabile pericolosità, quando associata alle prospettive di sviluppo di un pianeta che nel 2030 si stima supererà gli 8 miliardi di abitanti. Anche perché i cambiamenti antropici cui è sottoposto il ciclo dell’acqua, associati ai cambiamenti climatici, potrebbero causare danni permanenti a molte delle forme di vita sulla terra, almeno così come noi le abbiamo conosciute fino ad oggi.
La grande Sfida del Consumo Consapevole Quando in presenza di una “Risorsa Esauribile”, coloro che ne hanno bisogno per mantenersi in vita sono costretti ad assumere un atteggiamento responsabile: questo è il senso della pratica del Consumo Consapevole. Una regola di vita, collettiva ed individuale, capace di ispirare le nostre consuetudini sociali ed economiche in funzione di un utilizzo dell’Acqua adeguato e proporzionato alla Capacità di Carico della Terra, che è un sistema chiuso e quindi presenta equilibri molto delicati che non possono essere compromessi. Ma i presupposti di questa consapevolezza si devono estendere pure al suo ruolo geopolitico ed alle conseguenze relative alle diverse contese fra stati e comunità, che proprio sull’accesso all’acqua contano per consolidare le rispettive prospettive di sviluppo. E queste contese, è bene ricordarlo, sono presenti pressoché ovunque sul pianeta: vi sono quelle americane fra USA e Messico, quelle asiatiche fra Pakistan ed India, quelle africane sul corso di Niger e Nilo, fino alle più tormentate come quella annosa, tristemente conosciuta anche come “Idro-Jihad” fra Israele, ANP (Autorità Nazionale Palestinese) e Giordania. La forza incessante e continua del messaggio veicolato dalle pratiche del “Consumo Consapevole”, è lì a dimostrare come non sia più tempo di indugiare sui vecchi ritmi e sulle consuetudini superate espresse da modelli di crescita eco15
nomica che stimavano come una prospettiva remota, l’esaurimento delle risorse idriche. Oggi sappiamo che non è così e che per garantire la continuità della nostre conquiste sociali e la prosperità delle nostre stesse economie, abbiamo bisogno di correggere la rotta lungo la quale si sono impropriamente indirizzate le nostre vite nel corso degli ultimi decenni. Questo processo richiederà tempo e si articolerà lungo percorsi a tratti difficili, ma non c’è alternativa: solo orientandoci verso nuove direttrici di sviluppo potremo garantire alle generazioni che verranno ragionevoli possibilità di vivere il rapporto con l’Acqua con attenzione, magari con parsimonia, ma non nei termini di emergenza quotidiana come invece sono costretti a fare già oggi gli oltre 2 miliardi di persone che vivono con difficoltà estrema l’accesso all’Acqua. Ma quanta acqua ci serve? I numeri in questo caso sono molto, ma molto più eloquenti delle parole: per produrre infatti i seguenti beni ed alimenti, occorrono: • 1 automobile di media cilindrata 380.000 lt • 1 kg di riso non meno di 200 lt • 1 kg di carta 50 lt ca • 1 kg di carne bovina in California 500 lt ca • 1 kg di grano 500 lt ca Negli ultimi anni si sono registrati incoraggianti successi nella diffusione di dati, fatti e circostanze che hanno agevolato la comprensione dei limiti raggiunti 16
dai sistemi correnti di crescita economica, che sono solo parte della più alta ed importante dimensione dello Sviluppo Umano, non dimentichiamolo. In questo, alcuni indici e parametri sono stati di particolare aiuto, come quello della ”Impronta Ecologica”, che calcola l’impatto che ogni prodotto costruito, od ogni servizio erogato genera sul nostro pianeta. La sfida futura è proprio quella di cominciare ad associare al prezzo economico di ogni bene, anche il costo sociale ed ambientale necessario alla sua produzione. “Gutta cava Lapidem”: è la stessa forza inarrestabile dell’acqua, che ci ricorda come si possano modificare, goccia dopo goccia è il caso di dirlo, pur se nel lungo periodo, le nostre abitudini di consumo più radicate. L’Idrografia in Italia La nostra Penisola, che si estende in lunghezza per un totale di circa 1.300 chilometri, è suddivisa in tre diverse aree omogenee: una continentale confinante a nord con la catena alpina, una peninsulare che si allunga nel Mediterraneo fino a circa 150 chilometri dalle coste dell’ Africa, ed infine una insulare che include Sardegna e Sicilia, le due maggiori isole del Mediterraneo. I confini territoriali sono lunghi in tutto 1.800 km circa e contano su uno sviluppo costiero di 7.500 km. È chiaro quindi come questo scenario caratterizzi anche un diverso rapporto fra il territorio e l’Acqua, a seconda della diverse regioni. I fiumi italiani, rispetto a quelli delle altre regioni europee, sono più brevi per
la presenza degli Appennini che dividono le acque in due versanti opposti, ma sono numerosi. Ciò è dovuto alla relativa abbondanza delle piogge di cui fruisce l’Italia in generale ed anche alla presenza della Catena Alpina che alimenta il complesso idrografico settentrionale, attraverso un generoso sistema di ghiacciai. È ovvio poi che la loro importanza in termini di portata e lunghezza, risenta anche delle caratteristiche del suolo, come pendenza e permeabilità. Per evidenti ragioni i fiumi di maggiore portata sono ubicati nella regione alpina e subalpina, mentre lungo il resto della penisola invece, in funzione della presenza dei rilievi appenninici e del contemporaneo, diverso declivio dei due versanti, i corsi d’acqua sui versanti adriatico e jonico percorrono brevi valli trasversali
e, tranne il Reno, non superano mai i 200 km in lunghezza ed una decina appena superano i 100 km. Sul versante tirrenico per contro, sono mediamente più lunghi perché i contrafforti appenninici e la fascia sub-appenninica sono più ampi, e perché per il primo tratto seguono valli longitudinali correndo poi trasversali rispetto all’asse della catena, nella zona sub-appenninica. L’Idrografia in Liguria Quella ligure è una terra antica che, soprattutto nella fascia rivierasca che va da Finale Ligure alla Francia, costituisce un’area di notevole interesse paleoantropologico: vi sono state rinvenute infatti, tracce di insediamenti umani che risalgono al Paleolitico (grotta dei Balzi
Il Bisagno e il Ponte Carrega 17
Rossi, zona delle Arene Candide, grotta della Basura a Toirano) e che, insieme con i ritrovamenti nel Finalese relativi all’era neolitica, offrono la più preziosa documentazione di tutta l’Italia nordoccidentale dell’epoca. È una regione la nostra, il cui ambiente naturale presentava sin dall’origine una straordinaria varietà di specie vegetali, ed è tra le aree d’Italia che sono state maggiormente trasformate dall’uomo, in parte anche per la limitata estensione del territorio, che in nessun punto supera la distanza di 30 km dal mare. Le condizioni climatiche della regione poi, sono fuori dalla norma rispetto allo standard settentrionale, almeno nei 330 km del tratto costiero. Questo è dovuto al Mar Ligure, già molto profondo anche a breve distanza dal litorale, che esercita una costante azione mitigatrice sul clima, a sua volta protetto dai rilievi appenninici che formano una barriera fisica contro i freddi venti del nord. La forma stessa di questa regione lunga e stretta non consente la formazione di veri e propri fiumi, si può parlare infatti solo di brevi torrenti, a volte impetuosi e capaci di pericolose esondazioni in occasione delle piene primaverili, o autunnali e quasi asciutti d’estate. Di un certo rilievo sono però alcuni importanti affluenti e subaffluenti del Po, il cui corso interessa soprattutto altre regioni, come Bormida, affluente del Tanaro, Trebbia (115 km) e Scrivia (90 km). Infine, presso Ventimiglia sfocia la 18
Roia (59 km), il cui corso però si svolge quasi interamente in Francia. Sufficiente è anche il flusso delle precipitazioni, che si attesta su una media di oltre 1.000 mm all’anno nel Ponente, contro un massimo di 800 mm a Levante. Se, come abbiamo visto, i corsi d’acqua liguri sono soprattutto a carattere torrentizio, i laghi rappresentano invece un’importante risorsa per l’autosufficienza idrica della regione e costituiscono anche un importante habitat per le numerose biodiversità tipiche delle rispettive zone. Quelli più importanti sono: Brugneto, Busalletta, Giacopiane, Gorzente, Osiglia, delle Lame, Ortiglieto e della Val di Noci. Una menzione particolare la merita il Lago del Brugneto, non solo perché il più grande come superficie, ma anche perché è la più importante riserva idrica della città di Genova ed in parte anche di Piacenza. Si tratta di un bacino artificiale la cui costruzione cominciò nel 1959 ad opera dell’allora Azienda Municipalizzata Gas e Acqua di Genova, a sbarramento dell’omonimo torrente Brugneto, affluente del fiume Trebbia. Si trova a 777 metri di altitudine sul livello del mare, ha una lunghezza di 3 km ed una larghezza massima di circa 200 m, con una circonferenza totale di 13,5 km e può contare su una capienza massima di 25,13 milioni di metri cubi d’acqua. Ed i genovesi lo considerano senza indugio la loro “Banca dell’Acqua”.
(1) Masaru Emoto, Yokohama, Giappone, 1943, studioso dell’acqua
Mappa di Genova (inizio sec. XIX)
Genova
Genova è più di una città, e potrebbe essere definita oggi, all’alba di una nuova era che speriamo sia quella della conciliazione fra l’uomo e l’ambiente, in tanti modi diversi. È una stratificazione di storie differenti fuse in unicum, che da luogo ad un modo di essere nel mondo. E forse val la pena presentarla così a chi viene da fuori, ma anche di farla riscoprire a quei genovesi che sono soliti conoscerne solo una parte. Allora, forse, può tornare utile guardarla con occhi nuovi, indagandola magari con lo sguardo dell’altro. Di chi capisce subito quindi che, in fin dei conti, la leggenda legata al suo nome pare avere fondamento: si narra infatti, che a fondarla fu Giano, il Dio bifronte, proprio per la caratteristica di avere un lato che guarda al mare, ed uno che guarda ai monti. Anche se poi, in virtù di quella inquietudine che la caratterizza da sempre, nel corso dei secoli ha cambiato il suo nome, da Genua come in età ligure e romana, a Ianua, cioè “porta” in epoca basso-medievale. La città È la sesta per numero di abitanti del paese e la terza nel nord. Portatrice disinvolta, ma consapevole, di una storia straordinaria scolpita da
grandi individualità che però hanno quasi sempre saputo servire anche gli interessi allargati della propria comunità, è stata descritta efficacemente innumerevoli volte. Ma credo valga la pena citare le felici parole del Petrarca, che seppe cogliere e trasmettere concisamente il suo spirito: “...Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare ...” È unica, con quella sua peculiare capacità di rivelarsi gradualmente, prima allo sguardo, poi al tatto, sulla pelle ed infine all’olfatto. Apparentemente uguale ed immutabile, eppure sempre diversa, come le facce dei marittimi che sbarcano (tutti simili fra loro per professione, eppure ognuno così diverso dagli altri per origine e storie di vita) e poco dopo si reimbarcano, sicuri che tanto, prima o poi, torneranno. Chi viene da nord, dalla grande pianura, quella che in inverno ti nasconde dispettosa il sole sotto il suo manto grigio, non fa in tempo ad abituarsi alle curve tortuose dell’Appennino che già si trova in quota, scollina e d’improvviso vede il mare, spesso illuminato dal sole. 21
Ma non è un mare qualsiasi quello genovese: è una vera e propria porta d’acqua, che introduce subito alla dimensione delle profondità del mondo marino, così come induce subito al confronto con altri mondi, quelli del sud, che si preannunciano anch’essi all’olfatto e, talvolta, anche alla vista e che hanno lasciato traccia di sé nell’intercalare di un dialetto inclusivo. È un mare aperto che porta con se sbalzi d’umore e venti antichi che soffiano da tutte le direzioni, a volte brezze, altre tempeste: così carichi di umanità, energia e misteri. Un mare maschio che sa farsi dolce, ma d’improvviso si rivela insidioso, così diverso da quello rassicurante e materno del Tirreno centrale e
Veduta del Giolfi (sec. XVIII) 22
dell’Adriatico. E lì subito, appare Genova, lunga, stretta e schiva, ma al contempo così aristocraticamente essenziale, con i suoi colori vivaci e la sua sobria, sinuosa eleganza: come una bellezza mistica adagiata sulla riva di un invitante mare ammantato di eterno. Chi viene dal mare invece, vede prima le vette dell’Appennino e poi scorge, sotto la tutela minacciosa della costellazione degli antichi forti, quella città che tutti coloro che vengono da sud ben conoscono come la porta d’Europa. Che tutti rispettano da secoli per quella sua caratteristica tutta genovese di comprendere al volo la natura di chi ne tocca il suolo.
Chi la conosce bene poi, sa che proprio le montagne che si stagliano alle sue spalle, così inospitali, custodiscono quelle risorse che, nel corso dei secoli, hanno consentito a Genova di trarre con continuità sostentamento e risorse, in primis l’acqua ovviamente. Oggi, è vero, Genova la puoi vedere anche dall’alto, ma nonostante il cambiamento di prospettiva il suo fascino è preservato e rimane immutato, e cominci a percepirlo anche se voli fra le nuvole che, quando si diradano, ti offrono una lunga promenade di immagini che la abbracciano, scorrendo dalla baia di Nervi, fin quasi a Voltri.
Spirito e carattere Insomma, giungere a Genova non è cosa scontata, è sempre un’esperienza corporale e corposa, anche estetica, non ci giungi per caso e se proprio ci passi attraversandola in senso latitudinale, lo sguardo si volge a sud istintivamente, perché il richiamo dell’anima è intuitivamente sensibile al fascino della bellezza: e Genova, diciamolo, è tremendamente seducente. Non solo e non tanto per il suo fascino intrinseco e per il suo ruolo nella storia, ma anche perché il capoluogo ligure rappresenta al meglio l’espressione concreta dell’Homo Faber, colui che fa, che costruisce il suo futuro contribuen-
do contestualmente a quello della sua comunità, progettandolo in maniera ardita, trasformando faticosamente il sogno in realtà al prezzo di un duro lavoro. Sia esso il sottrarre ai ripidi pendii le terrazze (1) utili all’agricoltura, o sia il convogliare acque fresche, ma lontane fin giù in centro a servire una città che nel corso dei secoli ha conosciuto una crescita, urbanistica e demografica, a tratti anche tumultuosa, ovunque si trova traccia del lavoro dell’uomo che è stato capace di esprimere in comunità ciò che da solo non sarebbe mai riuscito a realizzare. Sempre con la finalità di trasformare l’esistente in utili strumenti atti a rendere meno difficile la dura vita quotidiana dei genovesi in un contesto tendenzialmente inospitale. E con la consapevolezza che, quando le sfide si fanno epocali, si è capaci di una motivata e diffusa mobilitazione funzionale al reperimento delle risorse, anche finanziarie, necessarie a dotare la città delle infrastrutture di cui ha bisogno. A conforto di questa opinione, è sufficiente recuperare i dati tecnici e le previsioni di impegno finanziario relativi alla realizzazione, pur in epoche diverse, dei tre acquedotti storici genovesi, senza dimenticare ovviamente quello “Marino”, che si rivelò di fondamentale importanza per la pulizia, la disinfezione ed il decoro urbano della Superba. Uno spirito indomito quindi, quello genovese, che ha forgiato un’autentica capacità di coniugare il bello all’essenziale. Un tratto questo, che rivediamo anche nel rapporto fra i genovesi e l’acqua, 24
perché ogni singolo presidio idrico funzionale alla sua erogazione in città infatti, più che scenografico, doveva essere essenziale ed utile. Niente spazio ai fasti quindi, ma solo a quello che oggi non esitiamo a definire un vero e proprio stile di sobria eleganza che nel tempo è divenuta un’attitudine ed un biglietto da visita di Genova e dei genovesi nel mondo. Una città solidale Ma sempre senza perdere quel tratto caratteristico di coesione sociale, quell’attitudine che oggi potremmo definire insieme popolare e popolana, che ha consentito ad esempio, contestualmente all’edificazione di sontuose quanto sicure residenze per le nobili famiglie a partire dal XVI secolo in poi, di non dimenticare le esigenze della popolazione più umile. La distinzione in classi sociali fu infatti sempre presente nella storia genovese e trovò proprio nella distribuzione idrica una sua ulteriore esplicitazione, posto che solo ai privilegiati era concesso l’uso esclusivo di un proprio bronzino. Ma ciò non impedì la decisione di dotare i “quartieri” più semplici di lavatoi pubblici, intorno ai quali si sono poi sviluppati fenomeni di urbanizzazione e di aggregazione sociale degni di nota. Addirittura, una fra le immagini più caratteristiche di Genova resta quella colta dall’obiettivo del famoso fotografo Alfred Noack (2) che nel 1880 circa immortalò i Truogoli di Santa Brigida, sovrastati da quella folta schiera di panni stesi ad asciugare che sembravano tante vele tese al vento fra i tetti dei caruggi della città antica.
A riprova di ciò è bene ricordare lo sviluppo che in città ebbero le Diane, vere e proprie canalizzazioni presenti nelle abitazioni che raccoglievano l’acqua piovana dai tetti convogliandola in apposite cisterne. Erano sì ad uso privato, ma il loro insieme formava una vera e propria sub rete idrica, di straordinaria utilità in occasione degli inevitabili, quanto ricorrenti periodi di siccità che la città ha conosciuto nel corso della sua lunga storia. Ancora oggi, nelle campagne genovesi si possono ammirare diane tuttora funzionanti. Questo ha consentito a Genova di mostrarsi bella, anzi radiosa in tutto il suo splendore, grazie alla capacità di mantenere quel verde lussureggiante che la contraddistingueva arrivando dal mare. Forse per impressionare i potenti con la magnificenza dei suoi giardini, così particolari anche per via di quel loro tratto sofisticato ed esotico, ma di certo pure per appagare quel senso di fiera autonomia che i genovesi seppero custodire gelosamente nel loro animo, tramandandolo di generazione in generazione. Sui mari del mondo (con l’acqua dell’Appennino) Questa attenzione per l’acqua, come la radicata consapevolezza della sua vitale importanza, diverrà fin da subito anche tratto caratterizzante dei numerosi negoziati della lunga stagione delle conquiste della Superba nel Mediterraneo. Infatti, fra le prime imposizioni cui erano soggette le popolazioni appena conquistate dalla potente flotta genovese, vi era la disponibilità di una chiesa sì, ma anche di pozzi
idonei per capacità e durata a rifornire la sua flotta. I comandanti genovesi, fin dai tempi della galere, erano ben consci infatti dell’importanza dello stivaggio di acqua potabile a bordo delle loro imbarcazioni, perché il rischio della disidratazione dell’equipaggio era non meno pericoloso di quello della battaglia con il nemico. Non è un caso quindi che in tutte le città portuali, ieri come oggi e a Genova in primis, le prime fontane sorsero proprio in prossimità dei moli. La più antica fonte al molo nella Superba pare sia stata la “Fontanella” (3). Ed è curioso notare come l’acqua dell’entroterra genovese, già in quei tempi remoti, fosse oggetto di un vero e proprio fenomeno di globalizzazione ante litteram perché, caricata inizialmente in grandi botti di legno e poi successivamente in apposite casse in metallo, proseguiva il suo viaggio lungo le tratte itineranti delle imbarcazioni, fino alle destinazioni più remote, allungando così a dismisura il tragitto dell’acqua della Superba.
Acque Bianche ed Acque Nere a Genova Siamo così presi dall’elencare le tante diverse virtù dell’acqua ed a magnificare le reti che la veicolano, che spesso tendiamo a dimenticare un’altra parte delle infrastrutture idriche, che forse rappresenta una delle più importanti conquiste del genere umano negli ultimi secoli. Bianche sono le acque limpide, 25
cristalline, potabili che presiedono alle tradizionali funzioni biologiche che scandiscono il ritmo delle nostre consuetudini sociali. Quando dilavano via, vengono convogliate in apposite reti che prevedono anche, nei casi più virtuosi, il loro riciclo. Tali reti, è ovvio, sono ben separate da quelle in cui scorrono le acque nere, perché in caso di confusione fra le due, le conseguenze sarebbero molto gravi. Questa attenta distinzione fra Acque Bianche e Nere era ben presente anche nell’antichità, basta pensare al prezioso contributo fornito a questo riguardo da Ippocrate (V sec. A.C.) (4), che rivelò grande interesse per l’ambiente quale causa di malattie ed infezioni, e che era solito dividere le acque in “curanti e malefiche”. Giova ricordare fra l’altro, che tra i diversi utilizzi della Acque Bianche, spicca quello dell’acqua ad uso curativo. Alla civiltà romana si riconosce il merito di aver elevato il bagno al rango di cura, non solo estetica, per diverse patologie. Ancora oggi, con il termine SPA (Salus per Aqua, o Sanitas per Aquam), indichiamo centri specifici in cui la stessa acqua gioca un ruolo attivo e dinamico nel benessere delle persone. Per amor di verità però, questi acronimi non sembrano direttamente 26
riconducibili all’epoca dei fasti della Roma Imperiale, ma sembrano piuttosto essere una sorta di locuzione retrodatata. Le condotte di scarico, un tempo con malcelato fastidio si chiamavano fogne, poi sono state definite condotte per le “acque nere”, mentre oggi, in omaggio al lessico tecnicista in voga, vengono definite reti per la gestione delle acque reflue urbane. Quest’ultima definizione, decisamente più chic delle precedenti, non cambia però la sostanza delle cose e soprattutto non modifica la sua funzione fondamentale per la società, che appare progressivamente sempre più evoluta e sana nella misura in cui riesce a separare con efficienza il circuito delle acque che alimentano la vita (quelle bianche), da quelle che allontanano i nostri rifiuti, sociali e corporali (quelle nere). Insomma, non si può parlare di infrastrutture idrauliche, senza menzionare l’importanza capitale rappresentata dalla gestione delle acque reflue urbane. Ne erano ben coscienti anche nell’antichità, basta pensare ai resti ancora oggi ben visibili lasciatici in eredità dalla cultura greca. Ma sono stati i romani i primi a dedicare crescente attenzione al problema, edificando imponenti reti per il deflusso delle acque, come ad esem-
pio la Cloaca Maxima risalente al VII secolo a.c., vero e proprio collettore fognario, utile per altro anche al risanamento di alcune zone paludose intorno a Roma. Tale opera è ancora oggi inserita nel sistema fognario primario della Capitale, e questo da solo rende l’idea della straordinaria capacità progettuale dei romani, che potevano contare su una fitta rete di cloache minori, a loro volta collegate con gabinetti pubblici. Come altre infrastrutture di diverso tipo, anche quelle idriche conobbero un rapido declino contestualmente al collasso dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.c.) e pressoché lungo tutto il medioevo non si registrarono miglioramenti degni di nota, con l’eccezione delle strutture di alcuni Monasteri (soprattutto di Monaci Cistercensi), che erano dotate di sistemi di riutilizzo della acque reflue a fini agricoli. Solo col Rinascimento si inaugurò una nuova, felice stagione di ricostruzione e/o di realizzazione ex novo di infrastrutture idriche, sia ad uso potabile che di smaltimento. Risalgono poi rispettivamente al 1596 l’invenzione del “Water Closed” da parte di Sir John Harrington of Kelston, che funzionava con “accumulo di acqua dedicata”(5), ed al XVIII secolo l’introduzione dalla Cina della carta igienica.
Ecco quindi che elementi di novità, cominciarono ad affermarsi nell’ambito della progettazione delle nuove aree urbane, come della dotazione delle residenze destinate all’alta società. Ma in questo specifico ambito, il punto di svolta è rappresentato dall’avvento della Rivoluzione Industriale, alla quale corrisponde un inur-bamento forzato che costringe i governanti a fare i conti con la necessità di trattare e gestire le acque reflue per evitare copiose epidemie, le cui cause erano finalmente divenute razionalmente comprensibili, grazie agli studi di Luis Pasteur il Padre della Microbiologia, che proprio riferendosi alla veicolazione da parte dell’acqua della maggior parte delle infezioni e delle patologie allora dilaganti, ebbe a coniare la famosa frase “beviamo il 90% delle nostre malattie”. Contestualmente, si procedette ai primi trattamenti di potabilizzazione, attraverso sedimentazione e filtrazione a sabbia o a carboni attivi, e deodorazione con cloro ed ozono. Le successive conquiste tecnologiche hanno poi consentito di raggiungere un livello omogeneo di trattamenti in molte parti del mondo, che sostanzialmente si riferisce sempre alla modalità standard che prevede il deflusso della acque reflue da trattare lungo due linee parallele, una dedicata alla frazione liquida e l’altra al trattamento dei fanghi. 27
Man mano poi che le esigenze della società si affinavano ed aumentava l’attenzione per la tutela della salute, le normative cominciarono a recepire standard sempre più elevati e rispondenti in termini di sicurezza per la collettività. Per questo ad esempio, le stesse acque che erano dichiarate potabili secondo i criteri dettati dalle leggi di vent’anni fa, oggi non lo sono più e quindi, in funzione della crescente selettività dei parametri adottati, nuovi e più idonei processi di potabilizzazione si sono resi necessari. A Genova in particolare, la situazione generale è decisamente in linea con i parametri più esigenti. Come ricorda Giorgio Temporelli(6), “la gestione integrata del ciclo idrico prevede, oltre ai sistemi di captazione, potabilizzazione e trasporto delle acque da destinarsi al consumo umano, anche un adeguato sistema di raccolta e trattamento delle acque di rifiuto. La peculiare conformazione geografica di Genova ha reso necessaria la costruzione di un numero ele-vato di depuratori, ben otto impianti di dimensioni medio grandi che, da ponente a levante, sono situati a: Voltri, Pegli, Sestri Ponente, Valpolcevera, Darsena, Punta Vagno/Volpara, Sturla, Quinto. Al fine di monitorare e prevedere tutti i fenomeni che possono aver 28
influenza sulle portate agli impianti, l’intero sistema di rilancio dei liquami è posto sotto costante telecontrollo. La lunghezza della rete è pari a circa 1.200 chilometri, la maggior parte della quale è mista e funziona a gravità; tuttavia il superamento di alcuni dislivelli dovuti alla naturale conformazione della città ha richiesto l’attivazione di cinquantacinque stazioni di sollevamento munite di condotte in pressione. Se oggi è consentita la balneazione nelle acque della maggior parte delle coste genovesi lo si deve soprattutto all’opera di questi impianti.”
(1) Le terrazze sono esse stesse opere degne di particolare menzione, rappresentando al contempo l’ingegno dei genovesi e la loro caparbietà nello strappare alla natura pendii anche molto scoscesi, altrimenti impossibili da utilizzare a fini economici. Non solo addolciscono i versanti appenninici fronte mare, impedendo all’acqua che vi scorre sopra di fuggire via troppo velocemente prima di aver ottemperato alla sua funzione fondamentale di irrigazione del terreno. Ma sono anche dotate di canali trasversali che raccolgono l’acqua in eccesso, convogliandola in apposite canalette o piccoli rivi, utili ad esempio quali abbeveratoi per gli animali. Ed infine, grazie alla loro struttura portante basata sui tradizionali muretti a secco, consentono alla stessa acqua di essere filtrata lungo la sua discesa a valle. (2) August Alfred Noack (Dresda, 25 maggio 1833 - Genova, 21 novembre 1895) è stato uno dei pionieri della fotografia. (3) Francesco Mantelli, Giorgio Temporelli, “L’Acqua nella Storia”, Franco Angeli Editore, Collana Fondazione AMGA, Milano, Italy, 2007 (4) Ippocrate, (Kos 460 a.C. circa – Larissa, 377 a.C.) è considerato il “padre” della medicina (5) L.Cogorno, M.Mazzucchelli, M.E. Ruggiero “Genova e l’Acqua”, San Giorgio Editrice, Genova, 2004 (6) Giorgio Temporelli, laureato in fisica, divulgatore scientifico, esperto in acque destinate all’alimentazione e trattamenti di potabilizzazione
Genova e l’acqua
Per chi viene dal mare, Genova è l’approdo verso l’acqua dolce corrente; per chi viene da terra Genova è la porta sull’infinito del mare, sulla libertà. Due modi di essere dell’acqua, due modi dell’uomo di vivere l’acqua. È una città di frontiera quindi la Superba, luogo d’incontro lungo un esile striscia di terra, e di due declinazioni diverse della presenza dell’acqua sulla terra. Nel corso della sua lunga storia sui mari, le navi, genovesi e non, sapevano di poter contare su un sicuro approvvigionamento idrico, veicolato attraverso le varie “prese” dislocate in città, grazie ad un sistema razionale di infrastrutture per certi versi unico. E che ha accompagnato la storia della città, scandendo con la sua evoluzione le fasi di espansione territoriale e di evoluzione socio-politica di una città che ha conservato, secolo dopo secolo, la sua peculiare capacità di farsi protagonista dei processi di cambiamento nella storia della Penisola, in Europa, nel Mediterraneo. Crescita e modernizzazione delle città sono tratti distintivi dell’epoca contemporanea nelle società industriali: il formidabile aumento dei consumi idrici ne è un inevitabile aspetto. Ed è curioso come, giocando (col dovuto rispetto) con la storia, si trovino
tracce di questa dualità tutta genovese, anche nella competizione fra i due acquedotti storici della città, nel corso del primo Novecento, Nicolay e De Ferrari Galliera, senza dimenticare poi l’arrivo del terzo, cioè l’AMGA, che svolse con il tempo e con ammirevole lungimiranza infrastrutturale, un ruolo di crescente importanza. La storia dell’acqua a Genova e dei genovesi con l’acqua è antica, e ricorda anche la propensione di un popolo a saper progettare il futuro in maniera inclusiva, con ruoli e responsabilità ben distribuiti, pur in una realtà sociale come quella genovese, che nel tempo non si è mai sottratta alla divisione per censo della propria popolazione. In altre parole, appare chiaro come l’analisi della storia della gestione delle reti idriche genovesi abbia messo in evidenza una radicata capacità di partecipazione da parte di tutta la popolazione, sia nelle fasi di progettazione, che di costruzione ed infine di gestione e manutenzione degli acquedotti e delle loro rispettive strutture di supporto ed alimentazione. La stessa inevitabile conflittualità fra le esigenze di coloro che vivevano nelle aree interessate dal passaggio degli acquedotti, e quelle delle istituzioni cittadine che dovevano in qualche misura far valere il 31
principio della ragion di stato su un bene vitale per la stessa città, ricorda come in passato vi sia stata una forte vocazione al dialogo. Da una parte capacità di ascolto, dall’altra disponibilità al sacrificio individuale, spesso compensato, per il bene supremo della comunità intesa però come somma dei singoli e dei loro diritti. A questo proposito val la pena ricordare la controversia del 1822-1825 fra la gente di Struppa ed il Comune di Genova che, su progetto dell’architetto Carlo Barabino proponeva la costruzione di una derivazione per raccogliere le acque del Rio Torbido incanalandole in un nuovo, apposito condotto da costruire sulla sponda sinistra dell’omonima valle, per ragioni di stabilità. Gli abitanti di Struppa ritardarono con la loro opposizione l’avvio dei lavori, ma convennero successivamente con il Comune di Genova sull’importanza dell’opera, ed ottennero in cambio l’apertura di due bronzini pubblici, presso i quali venne murata una targa quale memento della concessione effettuata. Che si trattasse o meno di una precoce sindrome NIMBY (Not In My Back Yard), o di una contesa altrettanto ante litteram sulle “grandi opere”, ebbene le autorità di Genova e gli abitanti di Struppa, furono capaci di trovare un’equa, pacifica e condivisa soluzione al problema. Inizialmente, come ovvio, l’acquedotto funzionava per captazione delle acque cosiddette libere (erano ancora lontani i tempi degli invasi artificiali), e si scelse la Val Bisagno quale area di approvvigionamento, perché più vicina alla città rispetto 32
alla Val Polcevera. Anche se fin dall’inizio, ci si dovette confrontare con le rilevanti difficoltà di carattere morfologico di questa vallata, la quale cambia frequentemente il suo orientamento rispetto alla linea della costa seguita invece dalla città nel corso del suo sviluppo urbanistico. Il rapporto di Genova con l’acqua è peculiare, basato com’è su una distribuzione molto particolare, su unità di misure autoctone e su principi complessi, che val la pena di menzionare. Le Prese Le prese, ovvero l’avvio del lungo viaggio effettuato dall’acqua per giungere a destinazione in città, erano i punti, scelti con grande accuratezza, in cui i torrenti presentavano particolari caratteristiche di idoneità per l’afflusso e la continuità delle correnti. In prossimità dei punti scelti, si creava un piccolo sbarramento in pietra per agevolare la direzione dell’acqua il cui corso veniva deviato verso il canale dell’acquedotto, al quale accedeva attraverso una sorta di filtro preliminare,
Una presa sul Torrente Bisagno
spesso realizzato con una grata in ferro capace di trattenere i corpi estranei più voluminosi. A quel punto l’acqua stessa veniva raccolta in una vasca detta di “regolazione e compensazione” e di seguito immessa nella rete dell’acquedotto. Lungo il tragitto poi, un susseguirsi di filtri, garantiva una progressiva rimozione delle impurità. Ovviamente, le modifiche del corso degli acquedotti genovesi hanno moltiplicato le prese, anche se alcune di esse sono rimaste in servizio per secoli, pur modificando radicalmente la propria fisionomia iniziale, come nel caso di una fra le più antiche di esse, quella sul fossato del San Pantaleo (1).
Ponti-Canale e Ponti-Sifone È di tutta evidenza come il tortuoso viaggio dell’acqua verso la città abbia costretto i costruttori degli acquedotti genovesi al ricorso a ponti, veri e propri ponti-canale, per superare declivi, valli e vallecole che ne impedivano con la loro stessa presenza lo scorrimento lineare. Se in epoca medievale il percorso delle reti idriche cercava di seguire armoniosamente la conformazione del territorio, limitandosi alla costruzione di piccole opere, col passare del tempo ed il miglioramento delle tecniche di ingegneria rese via via disponibili dal progresso, i ponti presero forme più imponenti proprio per accorciare il percorso verso la città. Risalgono addirittura al 1303 il Ponte Canale di San Pantaleo (alto 25 metri) ed al 1355 quello
Sifone Geirato 33
di Sant’Antonino (alto ben 37 metri). Affascinante a questo riguardo è la stratificazione delle esperienze costruttive, ben visibile nel susseguirsi delle tecniche di costruzione che si sono succedute per rendere utilizzabili queste strutture anche in funzione dell’adeguamento degli acquedotti che sono nati e si sono successivamente integrati fra loro nel corso dei secoli (3). • Ma la natura scoscesa e ripida di certe valli dell’immediato entroterra genovese,
Sifone. Ancora oggi la tecnica tradizionale consiste nel raccogliere l’acqua in apposite vasche sulla parte alta della collina all’imbocco dell’avvallamento da superare, convogliarla in tubi che corrono in discesa e, per effetto della stessa pressione dell’acqua lì contenuta, spingerla in salita sul versante opposto, fino ad un’altra vasca di contenimento. Una tecnica complessa, soprattutto nei secoli passati, che richiedeva la determinazione del diametro dei tubi, la costruzione e l’approvvigionamento degli stessi,
Ponte canale dell’acquedotto storico sul rio Torbido
così come l’impellente necessità di trasferire nuovi e crescenti volumi d’acqua da fonti di adduzione alternative, richiesero ai progettisti uno sforzo maggiore per trasportare l’acqua in città. Ed in prossimità di alcuni punti che potremmo definire nevralgici, come la valle del Geirato e quella del Veilino nei pressi di Staglieno, per giungere dall’altra parte dell’avvallamento, era necessario ricorrere ai Ponti34
nonché il punto preciso in cui posizionare la camera di carico e quella di arrivo, o di raccolta. Per venire a capo di una sfida del genere, ancora oggi complessa ed un tempo certamente ardita, è necessario impostare un’equazione idraulica basata sui dati del canale (sezione del condotto, sezione bagnata, pendenza) e dei sifoni stessi (diametro interno, lunghezza effettiva, differenza di quota tra l’imbocco e lo
sbocco del tratto sifonato(3). Un banale errore di calcolo avrebbe compromesso la continuità del flusso di acqua, inficiando così l’intero tracciato della rete idrica. A questo proposito, val la pena ricordare un gustoso aneddoto che vide contrapposti il fisico genovese G.B. Baliano e Galileo Galilei. Il primo scrisse all’illustre scienziato toscano chie-dendogli consiglio per il perfezionamento di Sifone appena costruito che non funzionava, ma non persuaso dalla risposta proseguì per la sua strada. È interessante notare poi, come, in aree del mondo dove l’uso dei metalli (soprattutto il piombo) non era disponibile (specialmente in Asia), la tecnica di costruzione dei Ponti Sifone ricorse a manufatti in pietra, utilizzando blocchi sapientemente lavorati. Le Gallerie Il percorso che convogliava l’acqua dalla Val Bisagno fino in città, era però soggetto a frane e smottamenti e quindi, per ovviare all’intorbidamento eccessivo
Sbocco di una Galleria
dell’acqua e soprattutto per evitare le interruzioni indotte dalla compromissione di alcune strutture sopraelevate, si decise di ricorrere alla costruzione di gallerie lungo le quali far transitare le condotte. Le gallerie più importanti furono realizzate a partire dagli inizi del XIX secolo, ed alcune di esse furono ragguardevoli per l’epoca: quella di Gambonia (1878) misurava ben 500 mt e fu usata durante il Secondo Conflitto Mondiale anche come rifugio anti-aero, quella di Ruinà (Rovinata) (1830) 148 mt, e quella di Gava (1848) 157 mt. Bronzini, Troglietti e Spandenti Il bronzino discendeva dai brochii, che avevano in precedenza la stessa funzione, era composto tradizionalmente da un tubo di ottone fuso del diametro 12,38 mm (circa la 20a parte del palmo genovese), era impiombato nel marmo e veniva murato sulle pareti dei canali dell’acquedotto. È stata per secoli l’unità di misura dell’acqua a Genova e corrispondeva circa ad un oncia d’acqua. Ecco perché ancora oggi il suo nome viene spontaneamente associato dai genovesi all’erogazione dell’acqua pubblica. Con apposito Decreto del 1741, i bronzini furono numerati con una targa marmorea, a partire dalla presa di Schienadasino fino al porto. • I bronzini sversavano ininterrottamente l’acqua in un troglietto, che è una vasca di 30-40 cm, profonda circa 40 cm, che ripartivano a loro volta l’acqua e da cui partivano piccoli canali, inizialmente in terracotta e poi in piombo, che scendevano nelle strade di pertinenza fino ad 35
appositi contenitori o, nel caso delle abitazioni dei signori, fino ai tetti dei palazzi, dove venivano raccolte in una altro troglietto. • A loro volta i troglietti posti sui tetti della case erano dotati di un apposito spandente, ovverosia uno strumento utile, in caso di eccedenza nell’afflusso di acqua, a raccogliere l’acqua inutilizzata in idonee cisterne, a volte per riutilizzarla nei periodi di siccità, altre volte per rivenderla. (1) F. Podestà, “L’Acquedotto di Genova”, Genova, 1879 (2) L. Rosselli, “L’Acquedotto storico di “Genova”, Nuova Editrice Genovese, Genova, 2009 pag 54 nota 1 “La struttura più antica del Ponte sul Rio Figallo a Preli, è formata da un’arco in mattoni, a differenza dei ponti della stessa epoca che erano formati da un arco in pietra squadrata. Il suddetto arco in mattoni è sostenuto da un secondo arco in pietra ben visibile, costruito a seguito degli ampliamenti successivi. (3) cfr “Verifiche idrauliche sull’Acquedotto storico di Genova”, di M. Pittaluga e G. Temporelli, pag 564, nr. 12 Dicembre 2009 Rivista Tecnico Scientifica“Ingegneria Ambientale”, Cipa Editore, Milano
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L’acqua a Genova
Ma com’è arrivata l’acqua “dolce” a Genova? Domanda intrigante questa, che sottende ad una risposta articolata, con la cronaca che lungo i secoli via via si fa storia e parla da sè, raccontando gesta epiche di un’ingegneria ardita capace di progettare strutture che hanno conservato nei secoli la propria efficienza. Una storia appassionante, ricca di aneddoti, di particolari curiosi, di sofisticate intuizioni e di duro lavoro, che almeno ogni tanto dovrebbe stimolarci nella curiosità, per capire come sia possibile che ogni qualvolta apriamo il rubinetto ed approfittiamo dello scorrere dell’acqua che ne sgorga, questo “miracolo” si ripeta instancabilmente, senza tempo, per consentirci la nostra quotidiana simbiosi con la fonte della vita. Degli inizi di questa straordinaria esperienza storica, resta una testimonianza che fa capolino fra i rovi, lungo i corsi d’acqua e nei centri abitati, e che oggi è stata in parte recuperata, dando vita ad un percorso pedonale lungo circa 28 km, in uno scenario affascinante che porta i tratti superstiti di questa ingegnosa via d’acqua che si è stratificata nel tempo, giù fin quasi al centro cittadino. Si tratta dell’Acquedotto Storico: la sua presenza in città è già un racconto in sé e per sé, che evoca storie di impegno
civico, di grande lavoro e di ingegno, che hanno goduto dell’apporto di architetti e di ingegneri di grande valore, come ad esempio Claudio Storace, Matteo Vinzoni, Carlo Barabino. A volte, per avere conferma dell’unicità di questa storia bellissima, basta aggirarsi nel centro storico con il naso all’insù e riflettere sull’originaria utilità di quelle strutture antiche che nel corso dei secoli hanno cambiato la loro funzione, ma tradiscono ancora il loro forte legame ancestrale con le vie d’acqua della città, per capire il ruolo straordinario giocato dall’Acquedotto genovese, nel corso della sua mutazione storica stratificata. I portici di Sottoripa sono costruiti sulle arcate dell’acquedotto che portava acqua alle navi ed anche i palazzi di Piazza Corvetto in cui hanno sede rispettivamente l’amministrazione provinciale di Genova e la Prefettura, poi la Porta di Vacca, la Fontana di Piazza Sarzano, le Mura dell’Acquasola ed infine il Campo Pisano, sono pezzi storici di Genova realizzati su strutture delle condotte di un tempo. Molti di noi conoscono solo sommariamente la storia di Genova e della sua acqua, ed allora vale la pena riassumerla, sia pur se per sommi capi.
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La storia delle reti idriche genovesi Genova e l’acqua sono intimamente legate, come capita di riscontrare in molte altre città certo, ma si può tranquillamente asserire che la presenza di una capillare rete idrica capace di accompagnare il suo sviluppo fin dai primordi, sia stato un elemento determinante nella costruzione della sua identità. Un’identità certamente forgiata dalla tenacia e dalla caparbietà che risultarono evidenti per secoli, nel tentativo di equi-
ti che attraccavano ai suoi moli. Inizialmente addirittura, lungo alcuni tratti si è proceduto ad una vera e propria stratificazione delle strutture, molto interessante anche dal punto di vista storico e che lascia traccia di sé nella sovrapposizione dei canali e dei loro rispettivi sostegni, evidenziando l’evoluzione delle tecniche di costruzione e dei materiali. L’Acquedotto Romano Da un punto di vista propriamente
Acquedotto romano (rovine)
librare la crescente richiesta di acqua dei genovesi, che per molto tempo hanno conosciuto lunghi periodi di siccità ed hanno avuto con l’acqua un rapporto a tratti penosamente e dolorosamente deficitario. Un altro elemento che appare caratteristico delle reti idriche genovesi, è l’ideale continuità dei diversi tracciati seguiti dagli acquedotti che via via si sono assunti il compito di dissetare la città ed i bastimen40
infrastrutturale la prima rete idrica di cui Genova si dotò, fu quella del cosiddetto Acquedotto Romano, la cui costruzione si fa comunemente risalire al 200 a.c. circa. La sua realizzazione cominciò, pare, contestualmente alla ricostruzione della città dopo la distruzione operata dai cartaginesi ed era alimentato dalle allora copiose ed abbondanti acque del fiume Feritore, l’odierno Bisagno (1). Un corso
d’acqua, allora ben più capace in termini di portata rispetto ai volumi odierni, che quindi garantiva flussi piuttosto regolari, testimoniati anche dalla presenza lungo il suo corso di alcuni mulini per la macinazione dei cerali. Particolare interessante è la rispondenza di alcune tracce di calce e sabbia rinvenute in alcuni piloni ed archi, la cui origine anch’essa è stata fatta risalire al tempo dell’acquedotto romano, lungo il percorso che si suppone questa prima rete idrica abbia effettuato per collegare la città alla Val Bisagno. Il tracciato fu scelto con cura, posto che proprio quella del Bisagno era la zona più piovosa vicino a Genova, e l’opera si rivelò davvero all’avanguardia con i suoi circa 11 km di lunghezza e la pendenza media calcolata approssimativamente in 3,3 mt al km. Il percorso rivela un’attenta pianificazione che ispira lo snodarsi della sua struttura lungo la valle, fino al mare, passando per Montesano, a monte per l’attuale Brignole, poi fino a Piccapietra per superare la collinetta di Sant’Andrea posta a circa 30 mt sul livello del mare, e da lì veicolare l’acqua in quella zona compresa fra Sarzano e la Ripa (2). Di questa straordinaria realizzazione restano tuttora tracce lungo la Val Bisagno ed in alcune aree metropolitane come in Via delle Ginestre, ed all’interno del Cimitero di Staglieno.
L’Acquedotto Medievale Nel corso dell’XI secolo, l’effetto concomitante di due fattori di fondamentale importanza, portò all’abbandono della rete idrica realizzata dai romani. L’espandersi della città verso le alture prospicenti l’area portuale e la necessità di dissetare una popolazione in crescita, portarono così alla costruzione di brevi tracciati di raccordo, che trovarono una soluzione integrata nella realizzazione di un nuovo acquedotto, la cui data di edificazione è incerta. Alcuni la fanno risalire intorno al 1071, altri la posticipano fino al 1257, attribuendone la costruzione all’Architetto Marino Boccanegra (3). Fra i documenti certi, possiamo citare testimonianze scritte che confermano la distribuzione dell’acqua in prossimità di Porta dei Vacca, passando appunto da Castelletto. Di certo il cambiamento fu sostanziale rispetto a quello precedente, se si pensa che il nuovo tracciato era in grado di raggiungere il colle di Castelletto, in corrispondenza del quale furono rinvenuto infatti anche i mulini più antichi di Genova. La nuova rete idrica si alimentava da diverse prese. Inizialmente da quelle del Rio Pantaleo e del Rio Casamavari, poi fu prolungata fino al Veilino intorno al XIII secolo, e poi oltre, fino a raggiungere le acque del Rio Campobinello e del Rio Poggetti. Nel corso del XVI secolo poi si registrarono importanti eventi per l’Acquedotto genovese: le sue prese giunsero fino a Trensasco, e la portata della rete fu incrementata, grazie all’aumento di sezio41
ne del canale. Furono realizzati inoltre i ponti-canale di San Pantaleo nel 1303 e di Sant’Antonino nel 1355. In questo modo si poté soddisfare il crescente fabbisogno idrico di una città che aveva bisogno di sostenere l’impatto di una popolazione in crescita, insieme con le ambizioni legate ad un aumento effettivo dell’influenza genovese sui mari. In questo contesto, proprio per sganciare la gestione delle reti idriche cittadine dal contesto ordinario che ormai risultava inidoneo in termini di garanzie, con prontezza di intervento e di efficienza, nel 1491 tramite apposito decreto i “Padri del Comune” cui era demandata la responsabilità della gestione degli interessi collettivi della comunità, crearono la figura del Magistrato per le Acque al quale veniva demandata ogni incombenza gestionale relativa all’Acquedotto (4). L’Acquedotto Seicentesco In epoca successiva si rese necessario un ulteriore incremento della distribuzione di acqua, posto che la penuria di questa risorsa in città continuava e che questo la rendeva vulnerabile, non solo agli assedi dall’esterno, ma anche per effetto delle rivolte interne minacciate da un popolazione che viveva in case senza cisterne e che quindi era soggetta ai capricci metereologici. La Signoria diede pertanto corpo al progetto a suo tempo presentato dall’Architetto Giovanni Aicardo. I lavori cominciarono nel 1623 e furono sostenuti anche dai “Padri della Patria”, nella loro funzione di tutori dell’interesse pubblico, poiché si verificarono diversi casi 42
di sabotaggio da parte delle popolazioni interessate dal nuovo tracciato. Il nuovo percorso da Trensasco a Cavassolo, fu completato nel 1636 e l’ultimo tratto fino a Schienadasino nel 1639, dando luogo ad un tracciato di ben 14,892 km(5). La sezione del canale era certamente di grande portata, potendo contare su 1 mt di profondità e ben 70 cm circa di larghezza. Furono poi intrapresi lavori di ristrutturazione della parte precedente (Cinquecentesca) dell’Acquedotto, che fu dotata di canali della stessa portata. Le prese poi erano poste alla confluenza del Lentro e del Bisagno, ed avevano la peculiarità di raccogliere l’acqua da entrambi. A Trensasco addirittura, il nuovo Acquedotto si collegò a quello Medievale, posizionato più in basso, grazie ad un complesso sistema di mulini. La realizzazione di quest’opera fu estremamente costosa e determinò l’emissione di nuove tasse, sia sui bronzini, che sui mulini. E segna anche il passaggio della gestione nelle mani di due Custodi che vengono affiancati da un Commissario, passaggio che avviene grazie ad apposito Decreto datato 8 Aprile 1639. Per amor di verità bisogna ricordare che il contenzioso nato in occasione di questa realizzazione infrastrutturale e che vedeva contrapposti i proprietari di ben 43 mulini posizionati lungo il corso del Bisagno a valle delle nuove prese, contro le autorità genovesi, portò ad un parziale risarcimento del danno: testimonianza questa, di una complessità relazionale già presente all’epoca in materia di conflitto fra interessi pubblici e privati.
L’Acquedotto Nicolay Questa fu, fra le fonti di approvvigionamento idrico della città di Genova, quella che per prima venne progettata in sinergia con alcune di quelle che oggi definiremmo altre “grandi opere”, costituendo così prima di tutto un esempio di felice lungimiranza progettuale. La “Compagnia del Nuovo Acquedotto” si costituì in data 14 giugno 1853 con atto del regio Notaio Michelangelo Cambiaso ed ebbe per oggetto “la raccolta delle acque di sorgiva concorrenti nella
alle necessità poste in essere dall’affinamento delle nuove esigenze igieniche. E, non dimentichiamolo, anche in risposta alle esigenze di natura tecnica ed industriale, come ad esempio l’alimentazione delle caldaie delle locomotive a vapore. Questo fu solo l’atto formale, perché l’avvio dell’operazione industriale avvenne un anno dopo quando il governo piemontese, presieduto da Cavour (che nutriva una mai celata simpatia per il capoluogo ligure, pare originata da un suo amore di gioventù sbocciato con una gio-
Acquedotto Nicolay
grande galleria dei Giovi e la loro conduzione in Genova”. Tale coraggiosa iniziativa imprenditoriale prendeva corpo in risposta alla necessità ormai impellente, di dotare la città di un nuovo acquedotto per far fronte, non solo al fabbisogno in aumento di una popolazione in crescita costante, ma pure
vane nobildonna quando lui era di stanza a Genova come ufficiale dell’esercito), ratificò con proprio decreto le convenzioni che concedevano al Cavalier Paolo Antonio Nicolay di derivare le acque provenienti dal torrente Scrivia utilizzando la galleria ferroviaria dei Giovi, allora in corso di costruzione, fronteggiando così per 43
questo, anche una certa rumorosa fronda parlamentare, che si dichiarava contraria al progetto. Sono anni di tumultuoso sviluppo industriale quelli. Sia nel Regno di Piemonte e Sardegna, di cui Genova fa parte dopo il Congresso di Vienna del 1815, che nel resto d’Europa. I primi decenni di attività dell’acquedotto sono caratterizzati da molteplici difficoltà: finanziarie, per la mole degli investimenti necessari per posare le condotte che dalla Val Polcevera devono arrivare nel centro di Genova; tecniche, perché occorre acquistare dall’estero le grandi condotte in ghisa che nessuno produce localmente; economiche, poiché le opere realizzate in tempi considerevolmente lunghi, tardano a dare il ritorno economico che gli azionisti si erano ripromessi. Ma pian piano l’acquedotto si espande dai comuni della Val Polcevera fino al centro storico ed alla circonvallazione a monte, che proprio in quegli anni si sviluppa per offrire alla nuova borghesia abitazioni confacenti ai tempi. La Società Anonima si è anche svincolata dalla dipendenza di derivare l’acqua tramite la galleria ferroviaria, costruendo una nuova galleria attraverso i Giovi. Durante gli anni della Prima guerra mondiale, a causa anche del diffondersi di gravi malattie infettive (la terribile influenza spagnola, ndr) inizia la costruzione di un impianto di filtrazione e trattamento delle acque provenienti dallo Scrivia. L’impianto è costruito nel comune di Mignanego, ed è realizzato secondo i più moderni criteri di potabilizzazione allora 44
in auge. Tra questi ricordiamo un progetto, mai divenuto realtà, di un impianto di disinfezione a raggi ultravioletti. Gli anni del secondo dopoguerra vedono la società impegnata non solo nell’opera di ricostruzione degli impianti danneggiati dai bombardamenti, ma anche nell’ammodernamento di tutte le linee e condotte principali. Il decennio 1970-1980 vede la realizzazione di nuove grandi opere: la diga sul torrente Busalletta (Lago della Busalletta), che ha un invaso di 4.500.000 m3 e un nuovo impianto di filtrazione a Mignanego, in sostituzione del precedente. L’Acquedotto Nicolay, proprio perché la sua principale fonte di derivazione era il torrente Scrivia, andava soggetto, durante i periodi estivi nei quali la siccità si presentava particolarmente prolungata, alla riduzione programmata della propria erogazione, con penosi, parziali razionamenti nella distribuzione. Alternando l’uso delle due fonti, torrente e diga, a seconda della situazione idrica, si raggiunse un equilibrio di risorse che permise di fronteggiare anche i periodi di maggior difficoltà, come nel 1990, quando a Genova, solo gli utenti del Acquedotto Nicolay non furono soggetti al razionamento idrico. L’acquedotto De Ferrari Galliera Sul finire del XIX secolo Genova visse un periodo di notevole crescita, sia sotto il profilo economico per la progressiva affermazione delle proprie industrie ed il conseguente incremento delle attività marittime per l’importazione delle mate-
rie prime necessarie e l’esportazione dei prodotti finiti, che demografico, per effetto di una forte urbanizzazione indotta anche dalla sua affermazione come città di punta a livello nazionale dell’economia e dei traffici. È in questo contesto che si prende atto della crescente difficoltà in termini di approvvigionamento idrico prospettico per il futuro della città, e che contemporaneamente alcuni genovesi cominciano ad interrogarsi sulla natura degli interventi infrastrutturali da realizzare. In questo ambito, di fronte alla ricorrente sfida della soddisfazione di nuove esigenze della città, pur se sintetiche e concise, le parole di Niccolò Bruno sul
potenziale deficit idrico della città risultano esaustive: “...prima che una nuova massa d’acqua fosse importata a Genova, pel suo approvvigionamento non poteasi calcolare che su d’una quantità di m.c. 1100 per ora forniti per m.c. 650 dall’Acquedotto Civico e per m.c. 450 dall’Acquedotto della Compagnia Nicolay” (6). Passando dalle parole ai fatti, lo stesso Ing. Niccolò Bruno, suo fratello Salvatore anch’egli ingegnere ed il loro collega Stefano Grillo, costituirono il 12 Febbraio 1880 la società Anonima Acquedotto De Ferrari Galliera (chiamata così in omaggio alla munificenza di quell’antica famiglia genovese), con l’intento di superare la fase di pericolosa staticità nel re-
Acquedotto De Ferrari Galliera 45
perimento di nuove risorse idriche per la Superba. L’elemento caratteristico di questa iniziativa imprenditoriale si riscontrava nel tentativo di superare il principio dell’approvvigionamento da acque correnti di superficie, immaginando la costruzione di un grande serbatoio artificiale che potesse insieme, garantire continuità nei flussi indipendentemente dall’andamento meteorologico, e fornire energia alle nascenti imprese della val Polcevera. Un impresa coraggiosa nel concetto e, per i mezzi di allora, quasi titanica nella sua realizzazione pratica. La scelta del luogo in cui costruire l’invaso cadde sul versante settentrionale dell’Appennino, a circa 680 metri sul livello del mare, presso le sorgenti del torrente Gorzente. Dal punto di vista tecnico, si poteva garantire un invaso artificiale della capacità di 2.400.000 mc circa, capace di erogare costantemente (e questo era l’importante) circa 250 litri d’acqua al secondo veicolata attraverso una galleria che collegasse il versante appenninico padano a quello tirreno, ed infine una produzione idro-elettrica derivante dallo sfruttamento di un salto di circa 350 metri in corrispondenza di un apposito serbatoio di regolazione, trasportata da una rete di fili elettrici metallici posti a trenta metri di altezza su appositi tralicci. Sorsero così tre centrali idro-elettriche dedicate ad altrettanti grandi fisici italiani, Galvani, Volta e Pacinotti. Questo “avveniristico” utilizzo dell’energia rappresentava in sé un primato, certamente a livello nazionale e forse 46
anche mondiale, perché un solo impianto provvedeva all’erogazione di forza motrice ed all’illuminazione, portando l’energia a distanza considerevole ed usando solo un corso d’acqua grazie ad apposite vasche di regolazione. L’intera opera costò una cifra immensa per l’epoca, per altro in larga parte corrisposta da investitori privati: oltre 4 milioni di lire, lievitati poi fino ad oltre 12 in corrispondenza dell’aumento della capacità degli impianti che furono sostanzialmente triplicati (tre dighe e tre invasi), al quale si aggiunse poi anche il lago della Lavagnina con una capacità di 1.092.000 mc.. Quest’ultimo impianto era finalizzato sostanzialmente alla produzione di energia elettrica destinata agli abitanti del versante padano della vallata, a titolo di compensazione per i mancati flussi di acqua deviati in favore di Genova. Si garantì quindi quel necessario e sostanziale supporto in termini di soddisfazione del fabbisogno idrico ai citta-dini genovesi ed alle industrie della città, che altrimenti non sarebbe stato possibile. A fronte dell’innalzamento delle dighe e dell’utilizzazione di nuovi alvei poi, corrispose pure l’allargamento dei servizi erogati in altre parti della città, soprattutto nel Levante e poi addirittura da Nervi fino a Pegli, con una rete che già nel 1927 poteva contare su ben 273 chilometri di lunghezza. Passate le difficoltà della guerra, negli anni cinquanta cominciò una progressiva sinergia industriale e distributiva con il concorrente di sempre, l’Acquedotto Nicolay.
L’Acquedotto marino Nel 1922, sull’esempio di alcuni precedenti come quelli di Plymouth, Eastbourne e La Havre, il Comune di Genova autorizzò la costruzione di una rete idrica con acqua di mare per l’espletamento di alcuni servizi cittadini di base, sia igienici che tecnici. Ci si basò sul precedente di Carignano, che da tempo utilizzava l’acqua di mare tratta da un piccola presa posta in corrispondenza di Via Corsica, per lavare le strade. Ecco quindi che anche Genova poteva ora contare sulle proprietà dell’acqua di mare per disinfettare le latrine, pulire le strade ed alimentare le fontane. Fu di fondamentale importanza anche per migliorare le prestazioni dell’impianto fognario della città, che ai tempi era unico e prevedeva una sola rete per lo smaltimento delle acque piovane e per lo smaltimento del liquame: nei periodi di siccità infatti, il minor afflusso di acqua piovana diminuiva la velocità di deflusso dei liquami causando incrostazioni ed odori insopportabili. Il raccordo con l’acquedotto marino
ovviò a questi inconvenienti. La città fu così divisa in tre aree distinte est, centro ed ovest ognuna dotata di un proprio serbatoio in cemento ed apposite pompe. Ogni presa fu posta rispettivamente in Albaro, presso il Molo Giano ed in Via degli Armeni. Anche questo fu un primato, perché Genova fu la prima città italiana a dotarsi di un sistema idrico di acqua non potabile, per l’espletamento dei servizi pubblici di igiene e di decoro urbano. La progressiva diversificazione dell’utilizzo di questa rete andò di pari passo con l’evoluzione dei tempi: ci si alimentò un impianto termale nel 1928, l’ospedale San Martino per ragioni terapeutiche nel 1931, vi si allacciarono alcune famiglie durante la guerra per cucinare, giunse nelle cucine della Caritas per preparare la minestra dei poveri nel 1945, fu utilizzato dalla Nettezza Urbana per la pulizia delle strade (e per prevenire la formazione di ghiaccio) e fu usato nel diurno di Piazza De Ferrari a partire dal 1966. Insomma, a parte il fatto che buona parte delle tubature era costruita in Eternit (ma a quei tempi non se conoscevano i dannosi effetti collaterali), fu certamente molto utile ai genovesi, almeno fino al suo progressivo abbandono collocato fra gli anni ’60 e ’70, e motivato, fra l’altro, dal cambiamento della mobilità, dei costumi sociali ed urbani e dalla disponibilità di nuova acqua dolce generata soprattutto dagli invasi del Brugneto e della Busalletta.
Chiusino dell’acquedotto marino 47
L’AMGA Nella sua funzione di operatore idrico, AMGA cominciò ad operare nel 1935, prima infatti si occupava solo della distribuzione del gas in città. A partire da quella data ricevette in gestione dall’allora Amministrazione comunale gli impianti dell’Acquedotto della Val Noci e, nel corso dei decenni successivi, anche di altri acquedotti minori. A partire dall’inizio del Novecento, la crescita demografica della città aveva prodotto l’incremento di nuove costruzioni residenziali sulle alture della città, rendendo ancora più complessa dal punto di vista tecnico, la distribuzione dell’acqua. Si individuò quindi nella Valle del torrente Noci, l’area di approvvigionamento funzionale alla soddisfazione del crescente fabbisogno idrico dei genovesi, grazie soprattutto all’altitudine alla quale fu costruita la diga omonima, ben 415 mt di altezza sul livello del mare. Da tale “quota”, si potevano agevolmente alimentare per gravità i quartieri “alti” della città, senza dover ricorrere a costosi sistemi di innalzamento.
Chiusino Amga 48
E così l’8 Maggio 1922, il Consiglio Comunale deliberò la concessione all’AMGA, insieme alle necessarie autorizzazioni per le opere infrastrutturali necessarie, il nulla osta per la realizzazione del progetto. Si procedette alla costruzione di una diga di sbarramento per realizzare un bacino artificiale di raccolta, due gallerie-canale per il trasporto dell’acqua fino agli impianti di filtrazione e disinfezione e da qui, a circa 415 mt di altezza, si fece l’impianto di distribuzione. Fu poi aggiunta una piccola centrale idroelettrica che sfruttava un salto creato appositamente alla congiunzione fra le reti di distribuzione. Nel 1930 la portata era di 265 litri al secondo e, intuizione innovativa, l’acqua veniva filtrata con sistemi a sabbia sommersa e depurata prima del suo arrivo nei centri abitati serviti, in modo da poter disporre successivamente di eventuali diramazioni senza dover costruire nuove stazioni di depurazione. Nelle abitazioni servite da questa nuova rete si introdusse il sistema di conteggio tariffario a contatore, al posto del tradizionale “a bocca tassata”, ed il primo tratto servito (10,7 km di lunghezza) andava da Oregina a Piazza Manin. La svolta, in termini di capacità e portata, oltreché di impegno finanziario ed infrastrutturale, avvenne negli anni ’50, con l’ormai acquisita consapevolezza della ricorrente, sopraggiunta insufficienza delle reti disponibili nel soddisfare i nuovi accresciuti fabbisogni idrici, anche industriali, della città.
Si decise di costruire un nuovo grande invaso, l’impianto del Brugneto i cui lavori cominciarono nel 1959 e terminarono nel 1962. Con una capacità di 25 milioni di m3, grazie ad una diga alta 87 mt, nacque così il lago del Brugneto che ancora oggi è la più grande riserva della regione. Prima di raggiungere l’impianto di potabilizzazione di Prato, l’acqua veniva incanalata in una condotta forzata ed inviata ad una turbina capace di generare energia elettrica per 35 milioni di kWH/ anno. Sotto la gestione dell’AMGA, passò anche l’Acquedotto Genovese, inaugurato nel 1913 ed anch’esso capace di distinguersi in termini di innovazione posto che, a differenza delle altre reti cittadine, pescava acque di subalveo, garantendo una temperatura costante di circa 12 gradi tutto l’anno, mentre le acque delle altre reti idriche registravano oscillazioni consistenti di temperatura. L’acqua di subalveo appariva inoltre sempre limpida e priva sostanzialmente di sostanze contaminanti, sia chimiche che biologiche. Da AMGA a Mediterranea delle Acque Genova è sempre stata all’avanguardia nella progettazione, realizzazione e gestione delle reti idriche al servizio della città, ed ha sperimentato forme inedite di totale proprietà e gestione privata degli acquedotti, così come di serena convivenza fra strutture pubbliche ed imprese private. Questa capacità di essere sempre, so-
briamente quanto efficacemente, all’avanguardia nei processi decisionali strategici, ha portato all’inizio del nuovo millennio ad una serie di riflessioni sul ruolo degli acquedotti cittadini, culminata nella decisione di fondere insieme le tre principali reti idriche genovesi Genova Acque, Acquedotto Nicolay e Acquedotto De Ferrari Galliera, in un’unica nuova società: Mediterranea delle Acque (oggi parte del gruppo IREN). La nuova azienda ha associato così alla tradizionale funzione di espletamento dei servizi idrici, anche la non facile integrazione delle reti degli acquedotti che si erano spesso intrecciate e sovrapposte nei loro rispettivi tracciati, nel corso dei secoli. Un problema, quest’ultimo, decisamente gravoso per i genovesi perché la gestione separata in città dell’erogazione dell’acqua attraverso tre diverse reti, ne ha
Il logo di IREN
condizionato in negativo l’equa e razionale distribuzione, soprattutto in occasione dei ricorrenti periodi di siccità. Si è proceduto quindi ad una integrazione progressiva dell’acqua, oggi nella 49
condizione di poter trasferire da una rete all’altra (per volumi considerevoli) in caso di necessità. Così, Mediterranea delle Acque si è trovata nella invidiabile posizione di poter contare su infrastrutture decisamente alla avanguardia e su bacini di alimentazione di grande capacità: • 6 invasi • 48 corsi d’acqua • 453 sorgenti • 17 pozzi • Oltre 1.700 km di rete • Immissione media annua in rete di 100 mio/m3 (1) F. Podestà, “Escursioni archeologiche in Val di Bisagno”, Genova, 1878 (2) A. Gaggero, “La costituzione romana nel vecchio acquedotto genovese”, Rivista Municipale del Comune, Genova, 1932 (3) “Rapporto istorico e ragionato sui pubblici acquedotti”, Genova, 1816 (n4) Archivio di Stato, Cod. Div. X 1074, anni 1490-1491 (5) G.V. Mosele, “Cenni storici sull’ acquedotto civico”, Rivista Municipale, Genova, 1938 (6) Niccolò Bruno, Monografia sull’Acquedotto De Ferrari Galliera”, Genova, 1892
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L’acqua del Bronzino
Sia sotto il profilo storico che tecnico, è del tutto evidente come la storia dell’acqua a Genova, si sia evoluta, molto più che in altre città, sotto l’egida di una notevole capacità di determinazione strategica, mai venuta meno con il passare delle ere e delle forme di governo, così come di una diffusa partecipazione popolare alle diverse fasi di sviluppo che hanno consentito di varare progetti anche molto ambiziosi senza mai dividere in maniera esiziale la città.
Forse è questo quindi il fil rouge che lega in una sorta di continuità ideale, le tante diverse fasi attraversate dall’acqua e dalla sua storia nel capoluogo ligure. Giova ricordare, forse, che questa lungimiranza rappresenta pure una sorta di piccolo patrimonio in termini di esempio per il resto della comunità nazionale, che soprattutto su questi temi, non riesce a trovare un punto di equilibrio condiviso. Questo inevitabilmente capita quando
Una fontana Acqua del Bronzino 53
la storia volta pagina e si affacciano periodi di transizione complessi, quando si abbandonano le tradizionali griglie di interpretazione di un sistema che volge al termine e non si ha ancora confidenza con i nuovi strumenti di interpretazione utili per comprendere ed agire nei modelli sociali in corso di affermazione. Così si tende a dilatare il presente per paura di affrontare il futuro con il suo carico di responsabilità, ed allora ci si trova di fronte al rischio di misurarsi con idealità sfinite, invece che infinite come per definizione dovrebbero essere quelle utili ad ispirare la costruzione di nuovi modelli sociali, in linea con i tempi Certamente tutti noi, in questo frangente di grandi difficoltà sociali ed economiche, guardiamo con nostalgia alle sfide vinte nel merito ed alla metodologia condivisa che in passato hanno reso la nostra città all’avanguardia: la capacità di scegliere su argomenti determinanti per il futuro di una comunità, sapendo distinguere gli interessi privati, siano essi dei singoli o delle imprese, da quelli collettivi ed operando scelte capaci di valorizzare i primi senza penalizzare i secondi. In questo senso credo sia importante collocare l’esperienza dell’Acqua del Bronzino, perché, soprattutto da un punto di vista culturale aiuta a far percepire un’impresa ormai adulta e diffusa su un territorio ben più grande dei confini cittadini, la IREN, ancora come un’azienda cittadina. Ma soprattutto, consente di riavvicinare i cittadini all’acqua, come in una sorta di viaggio a ritroso capace di trasferirci 54
in un’altra dimensione, quella dei cittadini consapevoli. Consapevoli, formati ed informati sul grande valore dell’acqua, che trascende quello semplice, fondamentale e ben noto di natura biologica (ma di cui troppo spesso ci dimentichiamo), e va oltre ricordandoci la sua importanza in termini sociali, ambientali e soprattutto di diritti. Acqua come portatrice di diritti in questi tempi confusi, per tornare a dare segnali concreti sulla possibilità di poter incidere sui processi di gestione delle nostre società, come cittadini attivi quindi e non semplici consumatori passivi. È una ben strana epoca quella in cui ci è dato di vivere: affetti da uno strabismo della memoria, siamo portati infatti a dare per scontati diritti ormai felicemente acquisiti alle nostre latitudini, ma ancora un sogno apparentemente irrealizzabile per una vasta moltitudine di esseri viventi ad altre latitudini (e non necessariamente sempre a sud della nostra): oppure siamo alla ricerca di nuove sfide per affermare in termini di diritto inalienabile alcune bizzarrie dei nostri costumi correnti: ma continuiamo a dimenticare l’importanza del diritto alla vita nel senso bio-fisiologico del termine, perché paradossalmente ogni diritto pur faticosamente acquisito con i sacrifici più grandi, è subordinato a quello prioritario di aver accesso alla quantità di acqua necessaria non solo a sopravvivere, ma a poter vivere con dignità. Il diritto all’accesso all’acqua dovrebbe trovare spazio in un apposito emendamento alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948, perché è del tutto evidente che
tutti gli altri diritti (politici, sociali, religiosi, di razza, etc) sono subordinati al fatto che per goderne bisogna esser vivi e per farlo bisogna avere accesso all’acqua. Insomma, in corrispondenza della frase “semplice come bere un bicchier d’acqua”, bisognerebbe indicarne un’altra “complicato come procurarsi e riempire un bicchier d’acqua”, perché in effetti nulla è più semplice che dar retta ad uno stimolo fisiologico come quello di dissetarsi, ma per poterlo fare nella comodità e negli agi della nostre comunità così all’avanguardia sotto il profilo tecnologico, bisogna disporre di infrastrutture che sono il frutto di secoli di investimenti, di puro ingegno e di faticoso lavoro. Ecco cosa c’è dietro l’Acqua del Bronzino: un tentativo tutto genovese di riconciliare fra loro le tante anime dell’acqua, anche attraverso il banale sgorgare (in apparenza, come abbiamo visto) da una fontanella, della risorsa più importante del nostro pianeta.
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Aneddoti e Curiosità Misure dl lunghezza
Piede romano = 0,296 m Passus doppio romano antico (5 piedi) = 1,48 m Stadio attico = 125 passus romani = 185 m Miglio romano antico = 8 stadi = 1480 m 1 braccio bolognese = 0,64 m 1 braccio fiorentino, di due palmi = 0,583 m 1 braccio milanese, di 12 once = 0,595 m 1 braccio veneziano = 0,683 m 1 palmo genovese = 0,248 m 1 canna napoletana, di 10 palmi = 2,646 m 1 canna romana, di 10 palmi = 2,234 m 1 canna siciliana, di 8 palmi = 2,065 m 1 trabucco milanese, di 6 piedi = 2,611 m 1 trabucco torinese, di 6 piedi liprandi = 3,086 m 1 raso torinese = 0,60 m 1 piede bolognese = 0,38 m 1 piede torinese = 0,293 m 1 piede veneziano = 0,348 m
Le Ondo-Pompe Impianti meccanici a puleggia in grado di utilizzare il moto ondoso del mare per alimentare l’acquedotto marino. Furono proposte, fra gli altri, anche dall’Istituto Idrografico della Regia Marina al Comune di Genova nel 1922. Nonostante gli studi dimostrassero il loro affidabile funzionamento, il Comune non li commissionò mai e rimasero quindi sulla carta. Per mantenere costante l’idratazione corporea l’uomo dovrebbe bere almeno 2 lt di acqua al giorno. Si stima che l’intervento antropico su considerevoli masse di acqua, come la costruzione di dighe e la deviazione di imponenti vie d’acqua, abbia causato un rallentamento della rotazione della terra, 56
che a sua volta ha prodotto un sensibile allungamento delle giornate, rispetto a solo mezzo secolo fa. Curioso è il caso delle Formiche Scorpione in Sud Africa, che resistono alle piene che dilavano il terreno in occasione delle grandi piogge, unendo le loro zampe e, galleggiando, formano vere e proprie zattere, consentendo loro di approdare là dove il terreno è propizio. Ogni fiocco di neve ha una simmetria esagonale di base al momento della sua formazione. L’acqua è l’unica sostanza conosciuta ad essere più leggera allo stato solido, che allo stato liquido. Il ghiaccio è duro a sufficienza per incidere la roccia , ma è così leggero da galleggiare sull’acqua. Se il ghiaccio dei poli non galleggiasse, ma affondasse nel mare, il nostro sarebbe un pianeta sommerso.
Rassegna Giuridica “ Dal vuoto legislativo post referendum, a nuove proposte normative in materia�
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Bibliografia
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Link suggeriti
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www.iaea.org www.imf.org www.alessandroleto.com www.sierraclub.org www.un.org www.un.org/esa/sustdev/csd www.unccd.int www.un.org/esa/sustdev www.unep.org www.unido.org www.watertoday.eu www.worldbank.org www.who.org www.johannesburgsummit.org www.wto.org www.warredoc/unistrapg.it
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Ringraziamenti
Se questa iniziativa editoriale multimediale ha “visto la luce”, è perché ha potuto contare sin dall’inizio sull’entusiasmo e sulla determinazione delle numerose persone che inizialmente hanno condiviso il progetto, ne hanno poi compreso lo spirito ed infine si sono messe al lavoro con passione. Il loro contributo, tecnico, scientifico, professionale e soprattutto umano è stato davvero straordinario. Così come il loro dinamismo, la loro precisione e la loro rapidità. Fra gli altri, la Signora Sindaco Marta Vincenzi ed io, desideriamo ringraziare in modo particolare: Francesco Bollorino, Silvano Bonini, Simone Caltabiano, Ernesto Lavatelli, Piero Manuelli, G. B. Pittaluga, Michele Ruvioli, Silvio Sciunnach, Carlo Senesi, lo staff ed il Gabinetto del Sindaco di Genova, lo staff dell’Assessorato all’Ambiente ed alla Città Sostenibile, la DPS Srl., la Fondazione AMGA (Giorgio Temporelli, Michele Pittaluga) e il Gruppo IREN (Paola Verri). Le foto contenute nella presente pubblicazione sono state gentilmente messe a disposizione dalla Fondazione AMGA. A titolo personale poi, mi riconosco debitore ancora una volta dell’affetto e dell’incoraggiamento di mia moglie Marta e dei miei figli Giovanni, Niccolò e Maria Sole. Ed alla nostra Genova, semplicemente: grazie di esistere e di essere così come sei.
L’Autore
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Biografia dell’autore
Alessandro Leto, Genova 1965, e’ considerato fra i più autorevoli studiosi di Sviluppo Sostenibile a livello internazionale. Autore di numerose pubblicazioni sull’argomento, di film documentari sul tema del rapporto fra Uomo ed Acqua, ha maturato una significativa esperienza istituzionale in Italia ed all’estero, ed ha coniato in seguito ad approfonditi studi sull’interazione fra le dinamiche economiche ed ambientali, la definizione di “Sviluppo Sostenibile e Responsabile”. E’ noto al grande pubblico anche come Editorialista per diversi quotidiani e periodici europei e commentatore per network televisivi.
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Team di revisione ed aggiornamento
Coordinamento: Marta Vincenzi, Carlo Senesi e Alessandro Leto Team Staff: Michele Pittaluga Giorgio Temporelli Paola Verri
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