don’t worry be angry
Person of the year 2011: il Time elegge The Protester, il volto elaborato da Shepard Fairley, celeberrimo artista del momento (Obey, “Hope” Obama Campaign ecc...). Una scelta che ci racconta cos’è stato l’anno che ci siamo lasciati alle spalle: «Everywhere this year, people have complained about the failure of traditional leadership and the fecklessness of institutions». Quest’inverno, quand’è stato il momento di pensare al nuovo numero di ConAltriMezzi, non ci sono state incertezze nel determinare il tema da declinare nelle nostre sezioni: l’intenzione è stata immediatamente quella di narrare le vicende di un anno decisivo e di cogliere l’anima del moto di rabbia globale. La scelta del Time, in corso d’opera di CAM#06, non ha fatto altro che confermare le nostre intenzioni. È per questo motivo che ConAltriMezzi ha deciso di dedicare il primo numero del 2012 proprio a questo tema: dagli eventi che stanno scrivendo il nostro futuro, allo spazio che la letteratura dedica e ha dedicato alla rabbia, passando, con lo stile che ci è proprio, per l’arte contemporanea e raccogliendo qualche istantanea delle sue espressioni, della sua violenza e delle sue pretese. Abbiamo riportato le rivolte e le rivoluzioni che hanno caratterizzato il 2011; i fenomeni di massa – da Indignados a Occupy – che da queste si sono generati o che le hanno prodotte per poi approfondire le posizioni di due importanti comunità militanti radicali della scena extraparlamentare italiana e padovana, raccolte in due interviste esclusive: CSO Pedro e CasaPound. Inoltre abbiamo presentato quel fenomeno letterario diffuso – e in costante crescita commerciale e, forse, qualitativa – che va sotto il nome di noir; abbiamo osservato il panorama contemporaneo della poesia militante e civile; abbiamo approfondito l’esistenza di un tema tanto attuale anche tra le pagine di un grande intellettuale italiano come Paolo Volponi. Infine abbiamo ascoltato la musica di Gaber, tuttora esempio di lucida e brillante abrasività; abbiamo conosciuto l’etichetta indipendente Tempesta Dischi; abbiamo guardato i film del controverso cineasta danese Lars Von Trier e analizzato la lotta espressa attraverso performance provocatorie del collettivo russo Voina. Aspettando i prossimi passi dei Protesters di tutto il mondo, e invitando i lettori a seguirci sul nostro nuovo sito, www.conaltrimezzi.com – dove approfondimenti, commenti e osservazioni su CAM#06 troveranno, come al solito, ulteriore spazio – non ci resta che affidarvi questo numero dal titolo solo apparentemente ironico: DON’T WORRY, BE ANGRY.
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ATTUALITÀ 7 11 14 17 22
RIBELLI, OCCUPANTI, CONTESTATORI di Giulia Cupani FIGLI DELLA STESSA RABBIA di Emanuele Caon MADE IN HATELY di Alberto Bullado INTERVISTA AL PEDRO a cura di Emanuele Caon INTERVISTA A CASAPOUND a cura di Alberto Bullado
LETTERATURA 29 33 35 39
LA VITA È UNO SCHIFO di Tommaso De Beni IL GIALLO È L’ORDINE. IL NERO È IL CAOS di Giulia Cupani POESIA INCAZZATA MA CIVILE di Tommaso De Beni INTERVISTA A MATTEO FANTUZZI a cura di Tommaso De Beni
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IL SOGGETTO IRRITABILE di Tommaso De Beni
ALTRE ARTI 46 49 52 55
VOINA, L’ARTE DELLA GUERRA di Alberto Bullado RIBELLIONE E DISPERAZIONE di Paolo Radin LA CHIAMANO TEMPESTA di Emanuele Caon, Valeria Naci e Sara Moscagiuri TROPPO INVISCHIATO NEI VOSTRI SFACELI di Isacco Tognon
POESIE E RACCONTI 58 58 58 59
TROPPO FREDDO PER PIANGERE di Tommaso De Beni SENZA TESTE E SENZA MANI di Antonio Lauriola SENZA di Chiara Pasin L’ULTIMO CICERONE di Massimo De Beni
ATTUALITĂ€ 7 11 14 17 22
Ribelli, occupanti, contestatori Figli della stessa rabbia Made in Hately Intervista al Pedro Intervista a CasaPound
RIBELLI, OCCUPANTI, CONTESTATORI
di Giulia Cupani
Appunti su un anno di lotte, proteste, rivoluzioni
The protester è il personaggio dell’anno 2011. L’uomo che manifesta, che scende in strada e occupa le piazze, i marciapiedi, i binari, che pianta la tenda in un parco newyorkese, nel centro di Tel Aviv, in una piazza di Madrid. Che prova a costruire, dal basso, movimenti di protesta e di proposta capaci di ridare voce a quella parte sempre più ampia di società civile che non si accontenta più di delegare i suoi rappresentanti per mezzo del voto ma che, di fronte all’incombere di una crisi globale sempre più estesa e di fronte alla quale ogni forma di potere costituito appare disarmata, vuole fornire un’alternativa, vuole costruire uno spazio per far sentire finalmente la propria voce, le proprie proposte, le proprie critiche al sistema. La scelta del settimanale Time non fa che confermare qualcosa che, in fondo, chiunque di noi ha potuto constatare con i propri occhi negli scorsi mesi: il 2011 è stato l’anno di una protesta generalizzata, nata in luoghi diversi e con motivazioni differenti, ma capillare e globale, capace di toccare da vicino ogni continente e di costituirsi, pur nelle infinite differenze interne, come un unico movimento sfaccettato e imprevedibile, capace di ritararsi in infiniti modi a seconda dei luoghi e della contingenza e accomunato dall’universale desiderio di riappropriarsi del diritto a mettere in discussione uno status quo, e di farlo per mezzo della contestazione spontanea nata in seno alla società civile. Questo è forse l’unico approccio che consente di tenere insieme e rileggere in una prospettiva comune una serie di eventi che, nelle loro cause e nel loro svolgimento, hanno assunto forme e avuto esiti del tutto diversi. Bisogna guardarsi, insomma, dal creare analogie troppo strette tra i giovani tunisini ed egiziani che hanno rovesciato i regimi sotto cui i loro popoli vivevano da decenni e i giovani americani di Occupy Wall Street, figli di un capitalismo che ha cresciuto e protetto le generazioni precedenti alla loro ma che si è rivelato in definitiva
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un nodo scorsoio, destinato a soffocare la società da lui stesso creata. Non è possibile – e sarebbe indecente e irrispettoso nei confronti delle migliaia di morti che si contano tra le file dei ribelli arabi - affermare che la loro protesta è stata, a prescindere dalle infinite differenze, la stessa protesta. Ma non è nemmeno possibile separare questi movimenti sforzandosi di considerare la loro contiguità nel tempo come un puro effetto del caso: è necessario ammettere che qualcosa è successo, nel mondo, nell’ultimo anno. Qualcosa che ha a che vedere con la necessità di partecipazione popolare alla gestione della vita degli stati, e con la consapevolezza generalizzata che solo partendo dal basso è possibile rimettere in discussione un sistema politico e sociale che, anche nei paesi democratici, si è rivelato inefficace, debole, incapace di reagire di fronte agli attacchi che minacciano la vita della collettività, incapace di proporre alternative e soluzioni di fronte ai cambiamenti economici e sociali da lui stesso generati. Per capire meglio – o quantomeno per provare a ricordare - i connotati di questo fenomeno dalle infinite sfumature, impossibile da riassumere in poche parole, basta sfogliare i quotidiani degli ultimi mesi. La fine del 2010 non sembra preludere a niente di particolarmente rivoluzionario: non ci sono movimenti di protesta globali; la crisi economica sembra aver concluso la sua prima fase; alcuni stati europei – come l’Irlanda e la Grecia – arrancano nel tentativo di contenere i loro debiti e di ottenere credito dai mercati internazionali, ma nessuno sembra volersi far carico dei loro problemi a scapito dei propri. Solo in Italia qualcosa sta succedendo: da alcuni mesi è in atto una protesta degli studenti (iniziata però, di fatto, già nell’autunno di due anni prima), contrari all’approvazione della riforma universitaria proposta dal ministro dell’istruzione Gelmini, che sta assumendo un carattere nuovo. Oltre a
«C’est une Rivolte?», «Non Sire, c’est une Révolution» Luigi XVI e il duca di Lioncourt alla notizia della caduta della Bastiglia
mettere in discussione i contenuti e lo spirito di una specifica riforma considerata deleteria per il sistema universitario e, di conseguenza, per l’intera società, gli studenti italiani tentano infatti di richiamare l’attenzione di tutti sulla condizione di un’intera generazione di giovani che si rende conto di non avere, all’orizzonte, alcuna concreta prospettiva e che rifiuta di pagare per una crisi che non ha causato e contro cui non c’è apparentemente alcuna possibilità di difesa. La protesta, quindi, non vuole solo testimoniare l’opposizione al progetto di riforma ma vuole piuttosto essere il mezzo tramite cui affermare la necessità della partecipazione delle giovani generazioni alla vita del paese, la necessità di costruire nuovi spazi di dibattito e di discussione collettiva, dato che la politica e gli organi tradizionali non sembrano in grado di comprendere le difficoltà e la peculiarità della situazione presente, né di farsene carico. Quello degli studenti italiani è uno dei primi movimenti, assieme a quello dei loro coetanei greci, che si fa portavoce di una protesta che non vuole essere limitata a uno specifico provvedimento ma che vuole mettere in discussione la struttura sociale ed economica dello stato in quanto tale. Gli esiti di quella stagione di rivendicazioni e di proposte sono, però, probabilmente inferiori alle aspettative e l’anno si
Il 2011 è stato l’anno di una protesta generalizzata, nata in luoghi diversi e con motivazioni differenti, ma capillare e globale, capace di toccare da vicino ogni continente e di costituirsi, pur nelle infinite differenze interne, come un unico movimento sfaccettato e imprevedibile.
conclude (dopo alcune vergognose dichiarazioni da parte di esponenti della maggioranza che invocavano “arresti preventivi” per gli studenti ritenuti pericolosi e che consigliavano alle famiglie di “tenere i figli a casa” perché nei cortei si annidavano “potenziali assassini”1), con l’approvazione del testo della riforma Gelmini da parte di un governo sull’orlo della crisi politica dopo la risicata fiducia ottenuta alla Camera il 14 dicembre dello stesso anno. Il 2010 si conclude, quindi, in questa situazione di apparente calma, ma basta sfogliare i giornali dei primi giorni del 2011 per essere travolti da un’ondata di notizie provenienti dal Nord Africa che fanno capire come le cose abbiano già preso una piega del tutto imprevista, destinata a produrre una valanga di reazioni. Il 10 gennaio arrivano in Italia le prime informazioni a proposito della rivolta in Tunisia, iniziata in realtà a metà del mese precedente ma considerata, fino a quel momento, niente più che una semplice protesta di carattere locale. Quattro giorni dopo il presidente Ben Alì, che governava la Tunisia dal 1987, è costretto a lasciare il paese fuggen-
do in esilio in Arabia Saudita. Contemporaneamente a Mosca gruppi di militanti protestano chiedendo al Cremlino la liberazione di alcuni oppositori politici ingiustamente incarcerati. Pochi giorni dopo, in Egitto, le strade sono invase da manifestanti che chiedono le dimissioni di Hosni Mubarak, presidente del paese dal 1981, che sarà costretto pochi giorni dopo a lasciare il suo incarico e a ritirarsi a Sharm el Sheik. I ribelli egiziani scelgono come luogo simbolo della loro protesta Piazza Tahrir, al Cairo, piazza che diventerà il simbolo per eccellenza di tutte le rivolte della “primavera araba”. A febbraio arrivano in Italia notizie relative ad altre sollevazioni popolari in Algeria, Iran, Libia, Bahrein, Kuwait, Siria, sollevazioni che costano sempre più morti e contro cui la comunità internazionale sembra annaspare, incredula e totalmente impotente (emblematico è il caso della Siria dove, dopo un anno di proteste e un numero incalcolabile di vittime tra i manifestanti, il regime del presidente Assad ancora resiste). L’unico caso parzialmente differente è quello della Libia, dove – a causa degli interessi economici di svariati stati occidentali – le forze ribelli vengono sostenute da un intervento militare NATO. La rivolta in Libia si concluderà solo nell’ottobre del 2011, con l’uccisione del colonnello Gheddafi. Mentre nel Nord Africa i dittatori cadono uno dopo l’altro sotto i colpi di una protesta sempre più generalizzata e sempre più disperata, l’intero mondo occidentale resta a guardare, incredulo e troppo impegnato a fare i conti con una crisi economica di portata eccezionale e dagli esiti incerti. La Grecia, sempre più debole a livello economico e politico, è il primo stato a fare le spese della difficile situazione internazionale e nel corso dei mesi è attraversata da vere e proprie ondate di sollevazioni popolari contro la classe dirigente nazionale - ritenuta incapace e responsabile di una crisi economica senza precedenti - ma anche contro gli organismi della Comunità Europea, accusata di speculare sulle difficoltà degli stati membri e di voler influenzare le libere scelte dei popoli, causando di fatto una sospensione della democrazia. Contemporaneamente in Inghilterra il disagio di una parte sempre più consistente della società porta a proteste di piazza e, in seguito, a veri e propri atti di guerriglia urbana che mettono a ferro e fuoco interi quartieri di Londra e di altre città del sud del paese. Negli stessi mesi in Spagna, altro paese europeo costretto a fare i conti con la recessione, nasce un movimento
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Non molto diversa è stata, alcuni mesi prima, la risposta a un altro movimento di protesta italiano, quello dei contestatori del progetto di costruzione della TAV in Val Susa. Il cantiere per la creazione della linea ferroviaria ad alta velocità che dovrebbe attraversare la valle viene, infatti, inaugurato nel giugno del 2011 (nonostante il parere contrario espresso per anni dagli abitanti tramite svariati comitati autogestiti), ma dev’essere costantemente presidiato dall’esercito per contrastare i tentativi di occupazione da parte della popolazione, che vuole ad ogni costo impedire la costruzione dell’opera. In più di un’occasione, da giugno in poi, manifestazioni di esponenti del movimento no-TAV vengono disperse con la forza dalla polizia a causa della presunta infiltrazione di elementi violenti (definiti dall’allora ministro degli interni Roberto Maroni “terroristi”). Anche in questo caso si assiste a una protesta che, nata spontaneamente per mano di un gruppo di cittadini determinati a difendere un interesse specifico, si allarga fino a coinvolgere migliaia di persone e a portare alla ribalta i temi della difesa dell’ambiente e del diritto alla tutela e alla gestione autonoma del proprio territorio. Quella della Val Susa, quindi, riassume su piccola scala molte delle proteste occidentali dell’ultimo anno: anche qui una maggioranza di giovani che propongono un radicale rinnovamento della politica nazionale che, a loro dire, non li rappresenta e non li tutela e che ha dimostrato, alla prova dei fatti, di non essere in grado di reagire alla crisi che ha colpito l’Europa e il mondo se non facendo pagare ai cittadini – per mezzo di tagli al welfare e alla spesa sociale – gli effetti di una bolla speculativa nata da interessi privati e amplificata dagli interessi dei mercati finanziari e delle agenzie di rating. È proprio da questo nucleo che nascerà il movimento degli Indignados, che finirà per coinvolgere centinaia di migliaia di persone solo in Spagna e che poterà, grazie a mesi di occupazione delle piazze di decine di città iberiche, alla definizione di un nuovo paradigma di partecipazione alla vita sociale fondato non sulla democrazia rappresentativa ma su un diretto intervento della società civile nelle scelte che la riguardano più da vicino. Sull’esempio dei giovani spagnoli, in molti stati occidentali nascono movimenti di protesta pacifica, che trovano il loro centro simbolico nel movimento americano Occupy Wall Street, che contesta gli abusi del capitalismo finanziario e vuole proporre un nuovo modello di crescita e sviluppo economico capace di superare la crisi economica per mezzo di un ripensamento radicale dei principi del neoliberismo. Contemporaneamente a Tel Aviv centinaia di giovani piantano le tende nelle vie centrali della città per protestare contro l’inflazione e le politiche governative in risposta alla crisi economica, e in molte altre città del mondo i giovani “indignati” protestano in vario modo contro le scelte economiche e politiche dei loro governi. Questi movimenti di protesta, nati spontaneamente e separatamente ma accomunati dalla contestazione radicale a un certo modello di crescita economica e di controllo dell’economia sulla politica, organizzano una giornata di mobilitazione collettiva (15 ottobre 2011) che si svolge pacificamente in tutto il mondo fuorché in Italia, dove gruppi di black block si infiltrano nel corteo degli indignati e di fatto rendono impossibile lo svolgersi della manifestazione, attaccando apertamente la polizia – colpevolmente disorganizzata e di fatto impotente – e lasciandosi alle spalle interi quartieri devastati. L’unica reazione del mondo politico è, ancora una volta, quella di proporre una sospensione dei cortei a tempo indeterminato (così come dichiarato subito dopo gli scontri dal sindaco di Roma Gianni Alemanno) per provare a fermare la violenza nel modo più miope e più semplice: impedendo a chiunque di manifestare.
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Il disagio sociale ha trovato nella protesta di piazza un canale per esprimersi ma anche per cercare di proporre alternative a un potere percepito ovunque come incapace ed estraneo alle esigenze dei singoli cittadini.
silenziosa di cittadini estranei all’impegno politico tradizionale ha organizzato e tenuto vivo per mesi un movimento di contestazione che, nato dal desiderio di affrontare un problema specifico, si è poi trasformato in qualcosa di più ampio, arrivando a mettere in discussione l’intera organizzazione sociale ed economica del paese. E anche in Val Susa, come altrove in Italia e nel mondo, le reazioni delle forze politiche e di sicurezza sono state la delegittimazione del movimento, accusato di derive violente e pericolose per la società, e la sua sostanziale repressione. Basta questo incompleto e parziale elenco per dimostrare come qualcosa di sostanzialmente nuovo sia accaduto nell’ultimo anno: ovunque, nel mondo, nei modi e con gli esiti più differenti, il disagio sociale ha trovato nella protesta di piazza un canale per esprimersi ma anche per cercare di proporre alternative a un potere percepito ovunque come incapace ed estraneo alle esigenze dei singoli cittadini (quando non, come nei paesi arabi, apertamente dittatoriale e corrotto). Resta da chiedersi quale sarà l’evoluzione di questi movimenti
«Le rivoluzioni vincono non in forza delle loro idee, ma quando riescono a confezionare una classe dirigente migliore di quella precedente» Indro Montanelli
sul lungo periodo, quale sarà il destino dei giovani indignados spagnoli, così come dei ribelli americani di Occupy Wall Street; resta da capire in che modo i nuovi stati del Nord Africa sapranno gestire la fine dei regimi che li hanno retti per decenni e la transizione alla democrazia (e da questo punto di vista le notizie che arrivano da Piazza Tahrir – dove l’esercito è tornato a sparare sui manifestanti - non sono confortanti). È, ovviamente, impossibile dirlo, anche a causa del carattere autonomo, imprevedibile, globale di tutti questi movimenti. Quello che è certo è che The protester ha attraversato le strade del mondo, nell’ultimo anno, proponendo una via alternativa, forse utopistica ma senz’altro concreta e tangibile, per ripensare le forme della protesta civile e della partecipazione democratica, per proporre un diverso modello di sviluppo e di gestione delle politiche economiche e sociali. In qualsiasi modo la società e la politica tradizionali faranno i conti con questo fenomeno, quel che è certo è che gli ultimi dodici mesi hanno visto l’emergere di un nuovo desiderio di contestazione e partecipazione difficile da ignorare. NOTE: 1. Dichiarazioni rilasciate alla stampa dal senatore Maurizio Gasparri, all’epoca capogruppo del PdL al Senato, il 19 e il 20 dicembre 2010.
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FIGLI DELLA STESSA RABBIA
di Emanuele Caon
Il fenomeno mondiale Occupy e gli Indignados
Il 31 ottobre 2011 il primo ministro greco Giorgos Papandreou annuncia la volontà di indire un referendum così da affidare alla popolazione la decisione da prendere in merito agli accordi per il salvataggio dell’euro raggiunti il 27 ottobre. In sostanza si tratta di decidere se imporre o no nuove misure di austerità a un popolo che si trova già in una situazione tragica. Non serve attendere molto perché, da tutte le parti d’Europa, giungano critiche: è naturale, durante la crisi mondiale è vietato chiedere un’opinione al popolo, non c’è tempo. Oltre alla scelta politica di Papandreou, poco saggia per il paese ma una vera furbata dal punto di vista politico, rimane il dato di fatto: la democrazia deve prendersi un periodo di pausa. Ci penseranno i politici a risolvere la crisi e a pagarne il prezzo saranno i cittadini. Almeno questo sembra il messaggio di fondo, ribadito, tra l’altro senza molto pudore, dallo stesso Presidente della Repubblica Francese Nicolas Sarkozy: «Oggi siamo costretti a prendere delle decisioni per conto di paesi che non ci hanno eletto. Tutti possono capire che questo pone dei problemi di democrazia». Non servirà attendere molto perché cada anche il governo Berlusconi, subito rimpiazzato dal governo dei tecnici: impossibile credere che tutto ciò sia potuto accadere senza le pressioni di forze straniere. Ma quanto detto fino adesso cosa c’entra con il fenomeno mondiale degli Indignati? In Spagna il 15 maggio 2011 nasce il movimento degli Indignados, una delle più importanti iniziative di protesta dell’anno che si è appena concluso, nonché di una delle mobilitazioni occidentali più estese e meglio organizzate. Questo almeno fino al 17 settembre, giorno in cui prende vita Occupy Wall street, movimento analogo a quello spagnolo, al quale tra l’altro deve molto. In ogni caso gli Indignados e i manifestanti di Occupy sono diventati i simboli delle proteste nel mondo occidentale. I motivi di tale dissenso sono evidenti: una situazio-
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ne di crisi generalizzata e persistente che comporta incertezze e precarietà. Inoltre l’inasprirsi delle difficoltà economiche spinge la gente in strada, nelle piazze e, in alcuni casi, a stabilirsi in presidi permanenti. Di fatto, però, le cause della mobilitazione vanno ricercate anche oltre le motivazioni economiche: ad esempio, non possiamo dimenticare il precedente simbolico della Grecia, sia per il suo mancato referendum sia come sede storica della polis ateniese, in cui nell’antichità si era esercitata la democrazia diretta. Quindi la sospensione della democrazia, ammessa dallo stesso presidente francese, ha spinto i cittadini a scendere in piazza, al fine di replicare con un tentativo di democra-
«Una rivolta è in fondo il linguaggio di chi non viene ascoltato» Martin Luther King
zia diretta: ovvero con le assemblee popolari strutturate orizzontalmente, senza leader, in cui i problemi vengono discussi assieme e le decisioni vengono prese non a maggioranza ma con il consenso di tutti. Ne consegue che il problema principale contro cui gli indignati protestano non è di carattere economico ma democratico. Le accuse che solitamente vengono avanzate contro questi due movimenti, Indignados e Occupy, riguardano la mancanza di proposte e di alternative specifiche. Sebbene non sia completamente vero – basta pensare che gli Indignados prima che cadesse Zapatero avevano influenzato l’agenda politica del governo, che aveva accolto alcune delle loro proposte – si tratta di osservazioni legittime: il passaggio dalla critica radicale al costruire una valida alternativa rappresenta una delle sfide più dure che i movimenti dovranno affrontare. Un processo che richiede tempo, e i militanti lo sanno bene, tanto che uno dei concetti ricorrenti è proprio quello che la democrazia si muove con estrema lentezza. Qualcuno addirittura afferma che non farà nemmeno in tempo a vedere il cambiamento di cui si parla. Ad ogni modo il non riuscire a esprimere delle rivendicazioni in maniera dettagliata rimane un problema innegabile, dato da un lato dalla difficoltà di giungere a un comune accordo, dall’altro dalle rivendicazioni stesse dei due movimenti: «Non stiamo combattendo per giocherellare con la riforma del sistema. Questo sistema deve essere sostituito». Sono le parole di Arundhati Roy a Zuccotti Park, che rendono chiare le difficoltà di formulare delle richieste specifiche. Com’è possibile immaginare che delle persone comuni, il cui unico legante consiste nel non riconoscersi in un sistema di potere e di governo vigenti, possano essere in grado di mettere nelle condizioni i propri leader di cambiare rotta? È probabilmente assurdo pensare che quest’ultimi prendano atto della volontà popolare e decidano di applicare le medesime riforme volte a rivoluzionare la società per un semplice atto di bontà democratica. Per quanto il governo di turno possa manifestare un’anima riformista, i vertici del potere solitamente difendono le proprie posizioni conservatrici. In questo senso le riforme varate rappresenteranno sempre dei ritocchi superficiali dello status quo e difficilmente causeranno delle rotture sostanziali sulle quali edificare un nuovo sistema politico e sociale. In ogni caso il dissenso continua a persistere. Gli Indignados spagnoli non si trovano più in piazza in modo permanente, ma sono riusciti a creare un sistema di collegamenti grazie al quale continuano a tenersi in contatto, a fare assemblee e a
Il problema principale contro cui gli indignati protestano non è di carattere economico ma democratico. (...) L’unico vero modo per far sentire la propria voce è quello di unirla a quella degli altri: la democrazia richiede, per funzionare decentemente, la partecipazione di tutti i cittadini.
creare mobilitazioni di massa. Questo è il punto di forza del movimento, ed in questo consiste la portata rivoluzionaria di tale mobilitazione, ovvero riuscire a creare dei rapporti che persistano oltre l’accampamento, punti di riferimento per i cittadini in cui fare esperienza e affinare sempre di più le forme di protesta. E se questo continuerà, mese dopo mese, battaglia dopo battaglia, si potrebbero raggiungere dei risultati importanti, tenendo presente che la crisi non è per nulla superata, anzi, c’è il timore che il peggio debba ancora arrivare. Un altro insegnamento fondamentale che la crisi ci ha dato consiste nel dover superare quel terribile individualismo che affligge la nostra società e che non ci permette di collaborare con i nostri concittadini per la creazione di un mondo migliore. Questo è un concetto che nel 2011 è stato ripetuto più volte da vari esponenti dei movimenti di tutto il mondo. «Pareva che la gente si fosse di nuovo impossessata delle città. Eravamo insieme, uniti nonostante le divergenze», «L’unione fa la forza. Perché alla fine tutto si riduce a questo», «I nostri padri non hanno avuto la possibilità di protestare, prima perché c’era la dittatura e poi perché, una volta finita quella, è rimasta una sorta di paura ereditata che si è mischiata a uno spaventoso individualismo: l’idea che ognuno poteva farcela da solo, lottando con le sue forze», «Secondo me, ci siamo riuniti perché ne abbiamo bisogno. Le gente in America ha bisogno di ritrovare una sola voce per dire ai politici che devono prendersi cura di noi». Queste sono le parole di alcuni militanti rispettivamente dalla Grecia, Spagna, Cile e USA. Luoghi differenti della terra che vivono condizioni politiche e sociali profondamente diverse, ma in cui ricorre un pensiero unico: l’idea che uno dei peggiori mali della nostra epoca sia l’individualismo, che spinge le persone a trovare le soluzioni in solitudine invece di intraprendere un percorso comune all’interno della società. L’unico vero modo per far sentire la propria voce è quello di unirla quella degli altri: la democrazia richiede, per funzionare decentemente, la partecipazione di tutti i cittadini. La problematica che si vuole risolvere è prima di tutto quella della rappresentanza democratica, che così com’è strutturata non premette di incentrare adeguatamente il discorso politico sui diritti dei cittadini. Ecco l’idea degli Indignados e dei militanti di Occupy: per risolvere la crisi economica prima di tutto è necessario risolvere quella della democrazia, perché
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Forse se anche in Italia riuscissimo a creare dei veri e propri movimenti di massa che riflettano sul cambiamento potremmo, se non formulare vere ipotesi per uscire dalla crisi, almeno tentare di difenderci da derive reazionarie e nazionalistiche.
è la prima a derivare dalla seconda e non viceversa. Difatti il problema della distribuzione della ricchezza proviene da una mancanza di peso politico reale dei cittadini nelle proprie democrazie. Di certo i movimenti si dovranno preparare a formulare delle richieste precise, altrimenti non riusciranno mai a sfruttare a pieno l’influenza sempre maggiore che stanno acquisendo. Certo qualche ipotesi è stata fatta, come quelle di non pagare i debiti pubblici nazionali, un’idea non da poco. Però altre domande importanti dovranno trovare una risposta. Se si volesse affossare il capitalismo, allora quale nuova entità economica e sociale lo dovrebbe sostituire? Se così com’è strutturata la democrazia non va bene, quale nuova forma dovrà assumere? È difficile pensare seriamente che mobilitazioni di questo tipo possano arrivare a formulare delle idee precise in campi così delicati e difficili da analizzare. Questi sono da secoli temi di discussione tra economisti, filosofi, sociologi e intellettuali di tutti i tipi, per queste ragioni sembra irreale che un movimento di massa possa portare avanti una comune discussione su argomenti di questa portata. Non dimentichiamoci però che dietro a queste realtà si muovono anche pensatori di un certo peso. Non è un caso se Bloomberg Businessweek1 ha dedicato un intero articolo a David Graeber, sostenendo che molti di Occupy Wall Street neanche lo conoscono ma che le sue idee sui debiti e sul denaro si sono diffuse fra tutti i partecipanti. Certo, se il movimento difficilmente potrà riuscire a formulare richieste precise e dettagliate, può al contrario riuscire ad esprimere la sensibilità dei suoi militanti. Non si può negare che ci siano dei punti di vista in comune, come la richiesta di una ridistribuzione della ricchezza, di un’economia non più vittima delle speculazioni finanziarie, di una democrazia reale e di riportare all’attenzione la questione ecologica. Poi le modalità per giungere alla realizzazione di questi obiettivi non sono facili da teorizzare. L’unico vantaggio di essere in molti, è che l’intelligenza dei singoli può essere sommata creando una sorta di “unico cervello pensante”. Per ora questi movimenti continuano a segnare le nostre società, e in un ipotetico scenario in cui la crisi dovesse raggiungere livelli drasticamente più gravi, potranno rappresentare la base su cui costruire un cambiamento. Con la loro rete di contatti tra persone e di esperienze accumulate in tutti questi mesi, realtà di questo tipo possono rappresentare un vero e
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proprio salvagente da pericolose derive che molte volte nella storia sono state prese dalle nazioni colpite da una profonda crisi economica. Forse se anche in Italia riuscissimo a creare dei veri e propri movimenti di massa che riflettano sul cambiamento potremmo, se non formulare vere ipotesi per uscire dalla crisi, almeno tentare di difenderci da derive reazionarie e nazionalistiche, insomma dal marciume che più di una volta le nazioni hanno espresso in tempi di crisi, arrivando fino alla messa in atto di terribili tragedie umane. Forse con l’aiuto di realtà come quelle degli Indignados o di Occupy Wall street avremmo potuto evitare che il 15 Ottobre venisse mediaticamente vanificato e delegittimato a causa delle violenze. Perché uno dei punti di forza degli indignati è l’indirizzare la loro rabbia verso le istituzioni e le forme di potere, non contro altri cittadini. Non sono casuali le parole di Slavoj Zizek: «Non prendetevela con i comportamenti delle persone: il problema non sono la corruzione e l’avidità, il problema è il sistema che spinge le persone a essere corrotte». La tensione, in Italia e in tutta Europa, sta aumentando sempre più. Se dovesse arrivare la fatidica ora X, ovvero quella del crollo dell’economia, come reagiremmo? Costruendo qualcosa di nuovo, o puntando il dito gli uni contro gli altri? Di certo per evitare questo bisognerebbe iniziare per tempo a mobilitarsi e non attendere momenti ancor più duri. Perché in Italia non si sta facendo nulla del genere? Perché solo in Italia il 15 ottobre ha raggiunto quella violenza? Perché la rabbia sociale che nasce dall’incertezza economica si trasforma anche in odio razziale? Sono domande che meriterebbero se non una risposta, almeno una riflessione. Possibilmente non dal politico, giornalista o “tecnico” di turno, ma dalle persone comuni che solo nel momento in cui decideranno di attivarsi si meriteranno il nome di cittadini. NOTE: 1.Bloomberg Businessweek è un settimanale economico statunitense, l’articolo in questione è David Graeber, the anti-leader of Occupy Wall street. Riproposto in seguito anche dall’Internazionale.
«Se l’obbedienza è il risultato dell’istinto delle masse, la rivolta è quello della loro riflessione» Honoré de Balzac
MADE IN HATELY
di Alberto Bullado
Odio e violenza come cifre storiche di una nazione
L’Italia odia. È nel profondo del suo corredo genetico la causa di questa ostilità, nella specificità stessa di questo paese: essere ed essere stato teatro di violenza nel quale spirano e hanno costantemente spirato venti di odio, esasperazione, intolleranza e, di conseguenza, disgregazione. Un paese perennemente oppresso e nel contempo oppressore, che non riesce e non è riuscito a conservare una propria sovranità così come quella del suo popolo. Ricordate le parole di Dante? «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta non donna di province, ma bordello!». In questo verso c’è la storia del nostro paese, compreso il ventre del XX secolo, dal dopoguerra fino al bunga-bunga. Quindi una nazione preda di particolarità storiche e culturali che hanno fatto dell’Italia un caso unico. Le origini di una tale patologia? Una lunga tradizione di conflitti secolari dalle antiche radici: a cominciare dalle dominazioni straniere che hanno visto nell’Italia una terra di conquista e saccheggio. Inoltre la disgraziata peculiarità di paese di frontiera, una prerogativa geopolitica che l’ha reso obiettivo allettante per le mire egemoniche di poteri internazionali e criminali. A tutto ciò va aggiunta una frammentazione politica e culturale impressionante, mantenuta dalle forti identità territoriali e regionali e da inestinguibili germi sociali e culturali: appartenenze feudali, politiche ed economiche, piccole grandi mafie connaturate in gruppi d’interesse, cordate, consorzi, famiglie, padronati, tutti impegnati a rincorrere l’utile in barba ad una visione collettiva della società e del bene comune. L’individualismo e la prevaricazione come valori storici trasversali. Il recente passato ci ha restituito odi e violenze da guerra civile. Climi al limite del conflitto hanno spirato anche in molte altre nazioni mediterranee ed europee, ma solo in Italia l’effetto di tali miasmi si è prolungato tanto a lungo, addirittura per decenni. Persino la lotta partigiana, momento topico e
fondante della nostra nazione, è ancor oggi motivo di divisione. Un evento che ha mantenuto delle spaccature mai risolte e che si sono protratte sino ad oggi. Non è un caso che l’anno del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia sia stato attraversato da un rinnovarsi delle ostilità e delle divisioni, amplificato da velleità politiche e malcelato da una retorica di Stato in certi casi vuota, cerimoniale e stucchevole che è apparsa piuttosto povera e desaturata di uno spirito di coesione nazionale autentico, oltre che incapace di far fronte alle minacce concrete del nostro presente: una perdita di sovranità e una crisi della democrazia senza precedenti. Un patriottismo all’italiana che non risolve né allevia i nostri problemi, perché
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In un simile paese dall’indole anarchica, fatto di cinismi, divisioni, faziosità, lotte tribali, corruzioni e vittimismi, l’odio non solo erode una mancanza di coesione nazionale ma si è spesso convertito in violenza politica, sindacale, ideologica e sociale.
un po’ paravento e un po’ troppo paraculo. In un simile paese dall’indole anarchica, fatto di cinismi, divisioni, faziosità, lotte tribali, corruzioni e vittimismi, l’odio non solo erode una mancanza di coesione nazionale ma si è spesso convertito in violenza politica, sindacale, ideologica e sociale. Una violenza che si vive anche quotidianamente nei rapporti dei singoli. Per questa ragione in un paese come l’Italia il conflitto è spesso evaso dalla metafora politica e si è manifestato in qualcosa di più concreto. All’estero ha costituito la base del confronto di idee, il sale della democrazia, poiché in questi paesi tuttora vige una coesione su interessi essenziali e su valori inviolabili, compreso il diffuso rispetto per la legalità. Rimane sempre e comunque un confine tra odio e violenza, ma in Italia tale limite è stato spesso superato. Lotta armata, terrorismo, vandalismo, sovversivismo. In questo paese il conflitto diviene sistematicamente un progetto demente e lacerante, che logora il tessuto civile e mina le fondamenta stesse della democrazia. Poca cultura dello Stato e del bene pubblico hanno debilitato la democrazia e hanno beneficiato la corruzione. Potere e criminalità in Italia viaggiano parallelamente: l’uno un’estensione dell’altro, in una società socialmente e patologicamente portata ad infrangere le regole in nome del bene spicciolo e del tornaconto personale. L’onestà è trasgressione, ma ancor di più il senso di responsabilità, della misura, la razionalità. In un simile scenario l’Italia si è rivelata un perfetto teatro di battaglia nel quale hanno potuto agire le mire egemoniche straniere: specie durante la Guerra Fredda, condotta da intelligence responsabili di piccoli grandi conflitti, delitti, stragi e segreti sottaciuti, nei quali si sono inseriti criminalità, mafia e servizi segreti deviati. Commistioni tetre e dementi, mai del tutto esplorate e a fatica riportate a galla dalla storiografia ufficiale. E poi, sullo sfondo, l’odio politico. L’ideologia che diviene militanza, la militanza che si converte in piombo ed il piombo nelle bombe, nei roghi, negli squadrismi ed infine nella malavita. L’Italia di quegli anni è al centro di uno scontro a fuoco. La società civile come bacino di vittime sacrificali di giochi di potere mostruosi. All’indomani di una simile stagione, la temperanza diviene un dogma, ma la negazione dell’odio non solo si è rivelata alla lunga come la negazione del dissenso ma si è evoluta in un farmaco controverso. Infatti ci si è spesso drogati di un falso buonismo, un involucro di sorrisi e bonomia tipicamente italiano e ipocrita, una coltre
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«Sono un carciofino sott’odio» Leo Longanesi
sotto la quale la politica ha potuto operare indisturbata, ben oltre Tangentopoli. Si è assunto come valore “l’essere moderati”: in questo modo una fascia di larghe intese parlamentari, che più tardi prenderà il nome di “casta”, ha dato adito alle conseguenze più controverse del potere, a cominciare dalla governance economica tra politiche del lavoro e dell’istruzione. E poi ancora leggi, tasse, manovre finanziarie e privatizzazioni criminali, premesse della cosiddetta “macelleria sociale”, che sono il computo di sopraffazioni che vengono da lontano, le cui ragioni vanno ricercate non solo nel nostro parlamento ma anche nelle politiche continentali a cui è soggetto qualsiasi governo, soprattutto il nostro, debole e sempre più delegittimato. La conseguenza è presto detta: l’acuirsi di un rancore in realtà mai sopito. L’insorgere di un nuovo risentimento di classe. L’Italia torna quindi ad odiare, nell’ombra di una crisi che ha investito ogni aspetto del reale. Si riproduce uno scarto secondo il quale il nostro paese decide di evadere dal torpore e di non rimanere a guardare, di tornare ad esprimere un disagio non solo profondo ma radicale. Il punto sta nel vedere, valutare e comprendere quali siano i meccanismi di indignazione di massa messi in atto da un tale “esorcismo sociale” che mai come in questi ultimi tempi sta assumendo una dimensione collettiva, trasversale e generazionale e che sempre più spesso assume i contorni ambigui di un’isteria di massa sequestrata da sentimenti populistici irrazionali, acefali ed amplificati dai media. Un malcontento come al solito facilmente strumentalizzabile per fini che spesso non coincidono con gli interessi stessi della collettività. A rendere la situazione ancor più incendiaria ci sono gli effetti di un senso di precarietà e rovina tale da esondare in fenomeni di pura irrazionalità. Una follia che, ad esempio, irrora la malapianta dell’intolleranza. Poiché l’odio italiano non è solamente sociale o fratricida, ma anche razziale e spesso indugia verso lo straniero, il diverso, l’Altro. Anche questo è un dato storicamente costante nella nostra storia, recente e lontana. Dall’antisemitismo alla xenofobia, dai suprematismi religiosi a quelli culturali, dalle leggi razziali alla burocrazia dell’espulsione, fino a sfociare nella barbarie dei raid, delle aggressioni, degli omicidi, dei roghi. L’accoglienza in Italia è sempre stata una retorica ad uso e consumo di una nazione intimamente repulsiva per ragioni pratiche, ovvero un’irrisolvibile precarietà dello Stato a cui supplisce un sommerso criminale disumanizzante, ma anche culturali. La Chiesa, che pure ha sede in Italia e che esercita nel nostro paese un’in-
Ma la violenza è anche la forma di lotta più gretta e vile, inferiore e brutale che si possa concepire e per queste ragioni ancor più pericolosa, perché profondamente illusoria, solita celebrare puerili trionfi poiché, in fin dei conti, figlia della debolezza e generatrice di ulteriore instabilità e precarietà.
fluenza non indifferente, ha fatto molto per scalfire o attenuare questo odio, ma di fatto al giorno d’oggi prevale l’identità bifronte della nostra società: un cattolicesimo a corrente alternata, più di pancia che di spirito e quindi più soggetto all’emotività collettiva che alla ragione dell’anima. Uno spirito religioso, anche quello, che tende a escludere più che ad unire, motivo di scontro più che di concordia su bioetica, laicità e diritti sociali. Senza contare le perverse strumentalizzazioni suprematiste nelle mani di una certa destra. Se da una parte l’odio trova un esercizio quotidiano a livello linguistico, per mezzo del web, il giornalismo ed i mass media, la violenza trova invece, sempre più spesso, sfogo in manifestazioni gravi e concrete. Una minaccia che si delinea in questo 2012 potenzialmente riottoso, dilaniato come non mai da conflitti sociali e da prospettive che preludono a scenari ancor più tetri. Ma la violenza è anche la forma di lotta più gretta e vile, inferiore e brutale che si possa concepire e per queste ragioni ancor più pericolosa, perché profondamente illusoria, solita celebrare puerili trionfi poiché, in fin dei conti, figlia della debolezza e generatrice di ulteriore instabilità e precarietà. Una pratica contraddittoria che distrugge non solo chi la subisce ma anche le ragioni di chi la fa.
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INTERVISTA AL PEDRO
a cura di Emanuele Caon
Intervistati: Enrico Zulian, Ermanno Brancaccio e Luigi Pischedda
In Italia i centri sociali sono stati spesso argomento di discussione nei giornali e nell’opinione pubblica. “Antagonisti”, “No-Global”, “disobbedienti”, “anarchici”: questi i nomi con cui spesso ci si riferisce ai militanti di certi ambienti, una realtà allo stesso tempo controversa e interessante, che non è mai stata accettata in pieno dalle istituzioni e dalla politica, nemmeno da quella di sinistra. In questi tempi “duri”, ConAltriMezzi ha deciso di dedicare un numero alla rabbia sociale e di andare a toccare con mano queste realtà. Per questo abbiamo scelto di intervistare alcuni esponenti del Pedro, lo storico centro sociale occupato padovano, punto di riferimento nel nord-est per tutta l’area della sinistra extraparlamentare. Il risultato è stato un lungo confronto, piacevole e appassionato, che ha voluto indagare nelle contraddizioni e nei punti di forza del C.s.o. Pedro. Un modo per uscire da possibili pregiudizi e capire la vera natura di un centro sociale, ma anche per discutere, con dei giovani militanti che provengono da quel tipo di ambiente, di alcuni tra i più importanti fatti di attualità politica, per tentare di comprendere le loro ragioni e il perché dei loro metodi di lotta. Qui di seguito troverete un estratto della lunga intervista, gentilmente rilasciata dai portavoce Enrico Zulian, Ermanno Brancaccio e Luigi Pischedda. La versione integrale sarà reperibile nel nostro sito www.conaltrimezzi.com, dove sarà possibile approfondire la linea di pensiero del Pedro. Abbiamo infatti discusso di università, razzismo, fascismo, antifascismo, mobilitazioni, metodi di lotta e violenze. Ma anche della crisi e delle sue conseguenze, di contrapposizioni ideologiche e di rivoluzioni. Il tutto provando ad analizzare la società, aprendoci alle loro idee ma senza dover per questo rinunciare ad una personale coscienza critica. In questo ultimo numero di ConAltriMezzi abbiamo deciso di affrontare il tema della rabbia, intesa come insofferenza, indi-
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«Lo stato è la violenza sociale organizzata» Nikolaj Lenin
gnazione e quindi anche reazione. Ma anche rabbia come odio e disagio sociale ed interiore. Voi vi ritenete arrabbiati? E se sì, contro cosa? ERMANNO: Sicuramente siamo arrabbiati. Contro cosa sarebbe lungo da elencare. ENRICO: Faccio un piccola riflessione. Il Pedro si trova in Via Ticino 5, però di certo non esprime la sua iniziativa sociale, politica e culturale solo lì dentro. Noi siamo un collettivo che fa politica a 360°, e la fa nella vita della persona. La nostra arrabbiatura non si conclude all’interno del centro sociale: noi ci promuoviamo come dinamica collettiva. Ci poniamo il problema di fare intervento politico nella città, nelle scuole superiori, nell’università e nell’ambito della precarietà fino ad arrivare alle problematiche legate alla cultura in generale. Come centro sociale, noi vogliamo fare cultura in forma indipendente, liberi da qualsiasi meccanismo di controllo politico, associativo o istituzionale. E la facciamo in forma totalmente autofinanziata ed autogestita: a noi i soldi non li da nessuno. Non abbiamo vincoli con nessuno e, in questo momento storico, non siamo scesi a compromessi con nessuno. Prima di parlare di rabbia, facciamo un po’ di storia. Cos’è il Pedro, com’è nato e cosa sarà nel futuro? Er: Il Pedro nasce nell’87, in un periodo storico di movimenti che era completamente differente da quello che viviamo ora. Quest’anno siamo entrati nei 25 anni di occupazione, e proprio su questo tema stiamo lavorando e promuovendo una grande quantità di iniziative. Vogliamo mettere in risalto quelli che sono stati i 25 anni del Pedro, per evidenziare le enormi differenze che lo hanno attraversato in questo periodo. In un quarto di secolo ci sono passate 5 generazioni, ed è cambiato anche il modo di rapportarsi alla dimensione cittadina. Adesso il Pedro, nel modo in cui lo intendiamo noi, è un bene comune. Nel senso che tutto quello che facciamo lo facciamo sempre in collaborazione con
realtà differenti dalla nostra, che a loro volta fanno altre attività con varie associazioni e soggetti. Naturalmente abbiamo sempre un occhio di riguardo verso ciò che succede in città. Dalla più semplice dance hall del sabato sera, al teatro del venerdì, al jazz, alla degustazione di vini, alla cucina a km zero, abbiamo mutato completamente quello che è il centro sociale. Com’è quantificata e com’è strutturata la vostra rappresentanza tra gli studenti all’interno dell’università di Padova? Che rapporto avete e volete avere con l’università e il mondo studentesco? Er: Ci sono tantissime persone del Pedro che fanno l’università, e quindi fanno politica anche lì, con collettivi universitari e in particolare con Les Sabots. A livello di numeri, ci sono poche persone a scienze politiche, tante a lettere e filosofia e a psicologia. Partecipiamo alla vita delle facoltà attraverso il nostro collettivo, ma al di là di questo il centro sociale è comunque sostenuto dalla dimensione studentesca universitaria e, il sabato in particolare, anche dagli studenti medi. A voi sembra di trovare un ambiente più favorevole, e quindi di avere un maggiore peso, nelle scuole medie superiori o
Noi siamo un collettivo che fa politica a 360°, e la fa nella vita della persona. La nostra arrabbiatura non si conclude all’interno del centro sociale: noi ci promuoviamo come dinamica collettiva. Ci poniamo il problema di fare intervento politico nella città.
nelle facoltà universitarie? En: Non ci poniamo questo problema: il nostro obiettivo è riuscire ad avere un ruolo sul cambiamento della società, non del Pedro: non ci interessa fare politica per aumentare i numeri del nostro collettivo. Noi crediamo che in questa fase storica di crisi siano in crisi tutti: tutti i gruppi politici, tutti i collettivi e noi stessi. Certamente ci interessa aumentare di numero nella dinamica di aggregazione, essere sempre di più, ma per determinare un cambiamento per tutti, non solo per noi. L’impressione che ho è che in questi ultimi tempi, soprattutto fra gli studenti con una diversa sensibilità politica, vi sia una sensazione di insofferenza nei confronti del Pedro. Non vi sembra che la vostra penetrazione nei movimenti di protesta, mai come in questi ultimi tempi trasversali e generazionali, abbia dato più di qualche fastidio allo spirito, magari apolitico, di molti manifestanti? Er: Se parli delle manifestazioni del 2008 ti dico di sì, perché le ho vissute tutte. Nelle mobilitazioni del 2008 è accaduta
esattamente questa cosa, perché purtroppo a Padova si vive molto di residui storici. Si vive tanto di rumore di fondo che si crea attorno alle cose, di pettegolezzo. Io non voglio mettere in discussione quello che è stato fatto nel passato, ma credo che ogni evento accade perché esiste un contesto che lo giustifica: noi oggi siamo una cosa diversa da quello che era il Pedro quando è stato fondato. Al di là di questo caso specifico, credo che l’astio sia una forma di pregiudizio. Un pregiudizio come c’è ne sono nei confronti di qualsiasi soggetto politico, così come ce ne sono su tutto. Detto questo, secondo me negli ultimi due anni, in particolare nelle grosse mobilitazioni del 2010, questa cosa è stata molto meno sentita, anche perché noi non andiamo mai alle assemblee in quanto portavoce del Pedro. Ora vorrei farvi una domanda un po’ terra terra. Qual è la condizione giuridica del Pedro? Pagate le tasse e le utenze? En: Il Pedro è occupato dall’87, ed è tuttora sotto occupazione e sotto sgombero. C’è stata una convenzione firmata nel ’97, con la prima giunta Zanonato, della durata di sei mesi. Scaduta la convenzione siamo tornati in occupazione. Quindi di fatto lo stabile di via Ticino 5 è in occupazione. Paghiamo le utenze, ma non le tasse, anche se l’iva dei rifornimenti ovviamente la paghiamo, altrimenti non riusciremmo a comprare nulla. Inoltre dalle varie attività che fate avrete sicuramente degli introiti, siete in regola? E come li gestite? En: I profitti ci sono, ma servono a finanziare l’attività politica del centro sociale stesso. Dopo di che ci sono alcune persone che utilizzano del loro tempo anche per dei lavori professionali (come cucinare o fare le pulizie), a cui noi diamo un contributo. È una cosa che noi rivendichiamo fino in fondo: soprattutto in una momento di crisi, questo può servire come forma di auto reddito. Però devo dire che non è un gran che: da settembre a dicembre saranno 2500 euro. Volevo chiedervi qualcosa a proposito dei Disobbedienti. È un fenomeno che appartiene un po’ al passato, ma voi vi ci identificate? En: Io sono stato Disobbediente, e identifico i Disobbedienti con un ciclo di lotte: sono nati il 20 luglio del 2001 a Genova,
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in una dinamica poi finita attorno al 2005. Quando Bertinotti andò al potere come presidente della camera, in quel momento finirono i Disobbedienti. E sono finiti perché è finita una fase storica che credevamo fosse intelligente, ma che ora non c’è più. Comunque l’etichetta è rimasta ed è identificabile con l’area politica di cui facciamo parte. Er: Ora non ci identifichiamo più con quello, da parecchi anni, perché quella fase storica è finita. Credete nei loro metodi di lotta? Pensate abbiano portato a qualcosa? En: La disobbedienza ha a che vedere con l’illegalità, e su questo nodo noi crediamo sia fondamentale l’obiettivo che vuoi darti: se il fatto di disobbedire a delle leggi ingiuste permette di mettere in luce delle contraddizioni che vogliamo portare a galla, la riteniamo una dinamica giusta. Mi ricordo quando Borghezio venne a parlare qui a Padova, nel periodo in cui aveva fatto tutta la sua polemica bruciando la maglietta di Maometto: quella volta lì io sentivo di dover disobbedire al razzismo di Borghezio e bloccare un convegno che ritenevo ignobile, e credo di essermi giustamente ribellato nei confronti di un europarlamentare razzista anche se per farlo ho dovuto scontrarmi con la polizia. Er: Il punto fondamentale è proprio l’obiettivo, l’uso della forza va capito in base a quello. Questo è un punto di centrale importanza per tutto il discorso sulla rabbia. I vostri metodi prevedono anche l’uso della forza? En: Certo, l’uso della forza è previsto, ma non è l’uso della violenza. Noi crediamo di vivere in un mondo che è basato sulla violenza, proprio per il concetto filosofico sul quale è fondato lo Stato Nazione moderno, che si fonda sull’esistenza di un organo, un’istituzione che ha il monopolio sull’uso della violenza (e non mi riferisco solo alle forze di polizia: c’è tutto un discorso molto più sociologico che andrebbe fatto). Proprio per questo noi crediamo che, a seconda dell’obiettivo che ci si pone, tutti i mezzi siano necessari. Questo è un dato storico che ci hanno insegnato tutti i movimenti del mondo: la frase che ti ho detto, «tutti i mezzi sono necessari», è addirittura di Malcom X. La storia dell’umanità è piena di esempi che insegnano che in base all’obiettivo che hai, a quanto sei legittimato e soprattutto alla tua consistenza numerica, determini di fatto i mezzi che puoi usare. Faccio un esempio: nell’inverno scorso 7000 persone hanno occupato la stazione
La disobbedienza ha a che vedere con l’illegalità, e su questo nodo noi crediamo sia fondamentale l’obiettivo che vuoi darti: se il fatto di disobbedire a delle leggi ingiuste permette di mettere in luce delle contraddizioni che vogliamo portare a galla, la riteniamo una dinamica giusta.
di Padova. Non è stato il Pedro a determinare quell’azione, il Pedro ha dato un semplice contributo come lo hanno dato tante altre realtà promotrici di quella giornata. Però lo hanno dato in base ad una decisione collettiva. Ad esempio quella volta che avete “litigato” con la Lega in Piazza Garibaldi1, non mi sembra abbiate agito in base ad una decisione collettiva. En: Il 9 aprile 2011 c’era un’iniziativa contro la precarietà e noi abbiamo trovato un banchetto della Lega Nord in piazza nello stesso momento. Dovevano andare via, e invece sono rimasti lì a provocare. In quel caso, io credo che persone che incentivano la dinamica dell’odio razziale con dichiarazioni del tipo “gli immigrati non bisogna accoglierli, bisogna buttarli in mare” vadano cacciate con i mezzi necessari. In quel caso però non credete che l’uso della forza abbia danneggiato la protesta? Non credete che sia stato dannoso per la causa comune? Er: In alcuni casi può capitare che la violenza apra una crisi, ma in alcuni casi in Italia si parla troppo, si fanno troppe chiacchere su cose assurde. A volte la moderazione può essere anche più violenta dell’estremismo, io la penso così. L’uso di certe frasi è molto più aggressivo, molto più violento che non un pugno in faccia. Perché quelle cose poi entrano nella società, si infilano in quei contesti in cui c’è una dimensione di mancanza di cultura e vanno a creare consenso per il razzismo, parlando più alla pancia che alla testa della gente. Io queste cose decido di bloccarle, anche smontando un banchetto e buttandolo a terra, perché è giusto farlo, io la vedo così. Perché persone del genere non devono fare propaganda, non ne hanno nessun diritto, non devono avere nessuna possibilità di parlare in questo modo alla gente. Qual è la vostra posizione a proposito degli scontri del 15 ottobre 20112? En: Io quel giorno ero in piazza e ho visto dei provocatori. C’erano 300 mila persone, e in 300 si sono messi a spaccare tutto, facendo un riot alla cazzo e scontrandosi con la polizia in una dinamica che sembrava più da ultras dello stadio che non da chi punta a creare un cambiamento.
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«Il fine giustifica i mezzi? È possibile. Ma chi giustificherà il fine? A questa domanda che il pensiero lascia in sospeso, la rivolta risponde: i mezzi» Albert Camus
Certo, l’uso della forza è previsto, ma non è l’uso della violenza. Noi crediamo di vivere in un mondo che è basato sulla violenza, proprio per il concetto filosofico sul quale è fondato lo Stato Nazione moderno, che si fonda sull’esistenza di un organo, un’istituzione che ha il monopolio sull’uso della violenza.
In quel caso voi dite che non esisteva un reale obiettivo e che quindi la violenza era ingiustificata. Er: Il 14 dicembre dell’anno prima il delirio era esploso in Piazza del Popolo perché da lì bisognava andare sotto il parlamento, mentre la manifestazione del 15 ottobre non aveva un obiettivo. È stata una dimensione di rabbia pura e semplice, ma la rabbia senza la costruzione di un’alternativa non serve a nulla. Basta pensare al riot che è successo a Londra, a cosa è servito? Hanno ottenuto solo leggi ancora più repressive. Il punto è proprio che la rabbia espressa senza una reale alternativa, senza la costruzione di qualcosa che conti realmente, non serve a nulla. La rabbia ha senso quando serve a costruire l’alternativa. È in quel contesto che si può e si deve esprimere, mentre se la si esprime fine a se stessa, come è successo il 15 ottobre, non è sensata, non la capiamo e non la giustifichiamo. Per noi quello che è successo non ha nessun senso, anzi è esattamente l’opposto di quello che vogliamo. En: Riprendo la domanda iniziale: noi si siamo arrabbiati, ma di una rabbia degna e quindi di una rabbia che serva a portare dei cambiamenti.
Non credete che fascismo e antifascismo oggi siano fuori tempo massimo? E che ci sia bisogno di qualche altra categoria? LUIGI: Io manterrei queste due parole, perché un atteggiamento che sta diventando ormai comune è quello di non dare mai alle parole la loro storia e la loro caratterizzazione. Er: Considerato quello che ha rappresentato storicamente il fascismo, bisogna mantenerne il senso, proprio per andare avanti in un’altra direzione. Su questo ci siamo, quindi i termini sono più che giusti da utilizzare. Solo che oggi, quando mi definisco antifascista, mi definisco in opposizione alla Lega. Giustamente voi condannate le aggressioni e i raid fascisti. Però anche da parte della sinistra non mancano episodi di violenza. Spesso sembra che ci sia più una distinzione sul piano dell’ideologia che su quello pratico. Ad esempio: a livello formale ci sono dei bersagli di lotta che sembrano essere comuni a voi e a CasaPound. Potrebbe essere possibile vedervi assieme, a sostenere la stessa causa? Lu: No. Le persone e anche le organizzazioni hanno la loro storia e la loro cultura definita. Io sono inconciliabile con CasaPound, non solo per la visione del passato, ma perché abbiamo un modo di fare politica totalmente diverso, soprattutto per quel che riguarda gli obiettivi. Se non si parte da questo, si genera un qualunquismo micidiale, che è quello che è successo poi anche a livello più alto nella politica italiana. Dove non esiste più una distinzione tra destra e sinistra. In particolare mi riferivo a quello che è successo a Roma nel 20093 durante la manifestazione in piazza Navona. C’erano quelli di Blocco Studentesco, ma in quel caso i movimenti di sinistra e di destra erano in piazza apparentemente per lo stesso motivo, eppure ci sono stati degli scontri. Credete che sarebbe stato giusto cacciarli dalla piazza? Non credete che l’esito della giornata abbia solo danneggiato la protesta? Er: Loro potevano anche essere contrari ai tagli, ma non erano per niente d’accordo su quello che era la costruzione di un discorso molto più ampio che si stava facendo sulla riforma. Sono entrati in quel corteo, ed è stata in quell’occasione che hanno usato Rino Gaetano. Quando gli studenti si sono accorti che erano loro, e hanno provato a cacciarli questi hanno risposto a cinghiate. Sono usciti in piazza Navona e si sono messi con le mazze. Loro non avrebbero proprio dovuto esserci, perché quelle manifestazioni erano certamente contro i
Parlerei di fascismo e antifascismo. Vorrei chiedervi, innanzitutto, cos’è l’antifascismo per voi? Er: Attualmente, a differenza di un tempo, l’antifascismo può essere porsi contro la Lega Nord. Oltre che contro CasaPound, che è una delle poche organizzazioni di estrema destra che riesce a mascherare dietro alle attività sociali quello che realmente è - sono molto bravi sotto questo profilo. Qui a Padova sono in quattro gatti, ma a Roma sono molto forti e attecchiscono tanto nell’immaginario giovanile. Si tratta di gente che usa Che Guevara, De Andrè, Rino Gaetano. Sono entrati in un corteo con le canzoni di Rino Gaetano e la gente li seguiva, poi quando si sono resi conto che erano quelli di CasaPound hanno provato a cacciarli ma questi hanno risposto a cinghiate. Se guardiamo le altre aree fasciste, Forza Nuova praticamente sta scomparendo dal territorio nazionale. Le varie organizzazioni estremiste alla vecchia maniera, come Fronte Veneto o skinheads, sono molto fini a se stesse. Non sono loro il problema. Oggi essere antifascisti è andare contro queste realtà, o contro CasaPound in alcune zone d’Italia, ma il problema più grave di revisionismo dell’ideologia fascista è quello proposto dalla Lega Nord.
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tagli che si stavano facendo al fondo ordinario dell’università, ma non c’era nessun altra compatibilità sull’alternativa che si stava cercando di costruire in quella fase. Quello che è successo con Vittorio Aliprandi4. Non dico che il Pedro lo rivendichi, però per quanto meno si è trattato di due persone vicine a voi. Er: Erano due persone del giro largo del Pedro. Ma ti dico subito che quando è successo quella cosa noi abbiamo azzerato completamente la nostra situazione politica. L’abbiamo ricostruita da Settembre. Per quei quattro mesi, noi abbiamo deciso di bloccare completamente tutto. Ci siamo detti: ok, se due del nostro giro fanno una cosa del genere vuol dire che tutti noi non ci stiamo capendo un cazzo. Forse è la prima volta che lo diciamo pubblicamente, ma ci siamo sentiti tutti responsabili per quella cosa lì, perché si è trattato di un fatto che non ci è mai appartenuto.
Attualmente, a differenza di un tempo, l’antifascismo può essere porsi contro la Lega Nord. Oltre che contro CasaPound, che è una delle poche organizzazioni di estrema destra che riesce a mascherare dietro alle attività sociali quello che realmente è - sono molto bravi sotto questo profilo.
Volevo informarvi che noi di CAM intervisteremo anche CasaPound Padova. Anzi: per una strana coincidenza la loro intervista si sta svolgendo in contemporanea alla nostra. Se noi potessimo rivolgere loro una vostra domanda, cosa gli chiedereste? (ridono) Er: Posso non rispondere a questa domanda? Perché non gli parlerei. Non ho niente da dirgli.
NOTE: 1. Il fatto in questione si riferisce al 9 Aprile 2011, giorno in cui era stata organizzata un’iniziativa contro la precarietà. In piazza Garibaldi a Padova era presente un banchetto dei Giovani Padani con cui alcuni militanti del Pedro, dopo un litigio, sono giunti fino allo scontro fisico, interrotto dall’arrivo della polizia. Pd, Sel e Cgil dopo l’accaduto hanno deciso di sospendere la manifestazione come segno di condanna per le violenze e in solidarietà ai dirigenti leghisti. 2. Il 15 Ottobre 2011 era la giornata internazionale di “United for global change” che ha visto lo svolgersi di numerose manifestazioni in moltissime città del mondo. Di fatto le iniziative si sono svolte ovunque in modo pressoché pacifico, tranne a Roma, l’unica città del globo ad essere stata messa a ferro e fuoco da una minoranza di attivisti.
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3. Nel 2009 a Roma in piazza Navona, durante la Manifestazione Nazionale contro la Riforma Gelmini, tra gli studenti di diverse fazioni politiche sono avvenuti degli scontri che hanno visto coinvolti in maniera particolare i membri di Blocco Studentesco e militanti di diversi collettivi studenteschi di sinistra. 4. Il 21 Aprile 2011, attorno alle 10 di mattina, Michele Nigro e Alex Favaretto aggredirono, armati di caschi e catene, Vittorio Aliprandi e il figlio che si trovavano in galleria Duomo. Sono stati poi condannati a 2 anni e 4 mesi. Va sottolineato che l’aggressione avvenne dopo che Aliprandi aveva già subito la condanna a 4 mila euro di multa più 6 mila euro di risarcimenti per aver inserito nel proprio profilo di Facebook offese contro i Rom.
«Una rivoluzione è un’opinione appoggiata dalle baionette» Napoleone Bonaparte
INTERVISTA A CASAPOUND
a cura di Alberto Bullado
Intervistati: Alessio Tarani e Alberto Bortoluzzi
Idee forti, battaglie politiche appassionate, militanze radicali. CasaPound è ad oggi il laboratorio più energico e vivace della destra radicale in Italia e nel contempo uno tra i più discussi. Per questo motivo ConAltriMezzi ha voluto vederci più chiaro. Ha incontrato i “Fascisti del Terzo Millennio” di persona per saperne di più, senza accontentarsi dei luoghi comuni o delle informazioni di seconda mano. Ne è venuto fuori uno scambio di idee semplice, sincero e diretto, privo di giri di parole, senza cedere ai pregiudizi e senza rinunciare al filtro della critica. In un numero dedicato alla rabbia sociale abbiamo perciò ritenuto interessante ed opportuno incrociare il cammino di questa comunità militante, sebbene caratterizzata da forti chiaroscuri ed opposizioni – da una parte le rivendicazioni politicamente scorrette dall’altra l’apertura al dialogo – per comprendere la mentalità e l’attitudine che vi sta dietro. Propaganda, aggregazione, azioni politiche e radici identitarie, tra rivisitazioni storiche e visioni sociali: ConAltriMezzi ha cercato di tracciare un profilo esauriente ed approfondito di una delle realtà più controverse del panorama politico non istituzionale, senza dimenticare la voce di Blocco Studentesco, il movimento che cerca di portare all’interno delle scuole e delle università lo spirito di CasaPound. Qui di seguito abbiamo riportato un estratto della lunga intervista cortesemente rilasciata da Alessio Tarani, responsabile provinciale di CasaPound Italia e da Alberto Bortoluzzi, portavoce del Blocco Studentesco di Padova. Per un maggiore approfondimento a proposito di temi sociali, politici e culturali rimandiamo alla versione più estesa, che verrà pubblicata nel nostro sito www.conaltrimezzi.com, nella quale abbiamo cercato di toccare più argomenti possibili: questione abitativa, forme di lotta, rivalità ideologiche, violenza politica, immigrazione, razzismo, omofobia. E poi ancora Europa, Israele, revisionismo storico, negazionismo, le attività culturali e le
accuse dietrologiche rivolte dai detrattori di CasaPound, tra reminescenze fasciste, favoritismi politici e rapporti con le forze dell’ordine. Tutto questo all’indomani dei tragici fatti di Firenze. Innanzitutto come e perché CasaPound nasce anche a Padova. TARANI: CasaPound arriva a Padova ormai tre anni e mezzo fa, seguendo l’esempio di Roma dov’era nata come occupazione a scopo abitativo nel quartiere Esquilino. CasaPound, dopo aver percorso alcune strade all’interno di movimenti politici come la Fiamma Tricolore, decide di uscirne perché non si sente più rappresentata da un determinato ambiente che di solito viene identificato come “estrema destra”, cercando di esportare il proprio stile e il proprio metodo anche in tutto il resto d’Italia. In questo modo abbiamo incontrato la simpatia e l’interesse di tutte quelle persone che si erano già dissociate da quell’ambiente. Ricordo che una delle prime magliette di CasaPound riportava sul retro una scritta: “Torna a credere, ricomincia a lottare” [ovvero uno dei motti principali di CasaPound n.d.r]. Queste parole identificavano quelle persone che erano stufe di un certo ambiente, di un certo modo di vedere e di intendere la politica e che quindi stavano cercando una strada innovativa. L’hai già in parte anticipato: voi rifiutate di essere inglobati all’interno della cosiddetta ”estrema destra” e mi sembra che accettiate a malapena l’etichetta di “destra radicale”. T: Sì, a malapena quella per identificare più un percorso passato che futuro. Altrimenti vi definite “Fascisti del Terzo Millennio” oppure vi collocate all’”Estremo Centro Alto”, che suona un po’
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iniziative portate avanti dal Blocco Studentesco da un punto di vista culturale ma anche più concreto. Quindi possiamo dire che il Blocco Studentesco lavora come un aggregante identitario, cioè come premessa per una futura comunità militante all’interno dell’università? B: Certamente sì, lo scopo è proprio quello. Creare in ogni facoltà un piccolo nucleo militante che poi lavori su varie tematiche affrontate dal Blocco Studentesco. Le battaglie maggiori del Blocco sono indirizzate ad ottenere uno svecchiamento delle università incrementando la rappresentazione studentesca in ogni organo consiliare, abbiamo progetti per cambiare il modo tradizionale d’insegnamento portando lo studente al centro del proprio percorso di crescita (progetto piattaforma) e altri progetti volti ad ottenere un ambiente universitario più dinamico e all’altezza dei suoi costi: strutture e servizi adeguate alle tasse pagate. Molto importante è anche la promozione di iniziative culturali all’interno dell’ateneo. Penso ad esempio alla mostra fotografica sulle Foibe, di cui non si parla mai, o alla conferenza a favore della popolazione Karen che CasaPound aiuta attraverso l’onlus Popoli.
come uno slogan. Mi puoi spiegare cosa significano queste espressioni? T: “Estremo Centro Alto” è una definizione che è stata coniata proprio per toglierci dalla destra radicale e dall’estrema destra. “Estremo” perché abbiamo una visione della politica affezionata, radicale, impegnata; al “centro” perché vogliamo rappresentare l’interesse di tutta la nazione e non di una sola parte; in “alto” per staccarci da quelle che sono le etichette di “destra” e “sinistra”. “Fascisti del Terzo Millennio” invece è un’invenzione giornalistica che poi è piaciuta perché identifica due aspetti fondamentali: un’appartenenza storica ad alcuni elementi del fascismo però applicati al Terzo Millennio, come a voler dire: “Sì, ok, sappiamo da dove veniamo ma andiamo avanti”. Non siamo un movimento nostalgico che gira in camicia nera il 28 ottobre [data della Marcia su Roma n.d.r]. Volevo proprio arrivare a questo punto. Si può dire, nel caso di CasaPound, che i riferimenti storici, culturali e politici sono molto più legati ad un fascismo storico delle origini piuttosto che al neofascismo degli anni ’70? T: Sì, assolutamente. BORTOLUZZI: Anche se non dimentichiamo che, se noi abbiamo la possibilità di fare politica adesso, è anche grazie agli sforzi e ai sacrifici dei ragazzi degli anni ’70 che con il loro coraggio e la loro intraprendenza hanno dimostrato che si poteva fare politica in quegli anni difficili. Siamo qui anche grazie a loro. Poi chiaramente il riferimento culturale è più vicino al fascismo della prima ora, oppure a quello della Repubblica Sociale, passando per l’esperienza delle leggi sociali del ventennio, il futurismo e l’esperienza dannunziana di Fiume, etc... Invece, parlando di Università, come siete messi a livello di rappresentanza, numero di tesserati o simpatizzanti? Mi sai dare qualche cifra? B: Blocco Studentesco, ora come ora, non ha mai affrontato il momento elettorale, ma ci stiamo lavorando. Comunque abbiamo parecchi ragazzi dentro l’Università di Padova. Da Ingegneria a Giurisprudenza, piuttosto che a Scienze Politiche, Storia, Filosofia ecc… Il prossimo passo sarà quello di arrivare al momento elettorale che non è sicuramente un fine o un traguardo ma un nuovo inizio per poi proporre varie
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Per quanto riguarda le iniziative per il 2012, avete qualcosa in programma? B: Sicuramente continueremo a fare aggregazione all’interno delle varie facoltà, poi al momento delle elezioni ci presenteremo sicuramente. Invece per quanto riguarda CasaPound? T: Continuiamo quello che abbiamo fatto a fine anno, ovvero la raccolta firme contro l’attuale assetto di Equitalia. Si tratta di una proposta di legge popolare a livello nazionale, per cui stiamo raccogliendo firme in tutte le città. Le prime azioni di gennaio saranno rivolte a questo indirizzo. Poi con La Foresta che Avanza, che è l’organizzazione ambientalista di CasaPound Italia, abbiamo in progetto di ripiantare gli abeti che abbiamo in casa. In alcuni comuni del circondario padovano ci siamo già accordati con i sindaci. Per quanto riguarda la politica, ovviamente organizzeremo delle conferenze soprattutto sul Mutuo Sociale che è la nostra proposta principale e che fortunatamente è stata approvata nella regione Lazio. Ora stiamo cercando di portarla anche qui in Veneto. Si può dire che CasaPound, rifacendosi agli ideali del fascismo delle origini, auspichi la creazione di uno stato nazio-
“Fascisti del Terzo Millennio” invece è un’invenzione giornalistica che poi è piaciuta perché identifica due aspetti fondamentali: un’appartenenza storica ad alcuni elementi del fascismo però applicati al Terzo Millennio (...). Non siamo un movimento nostalgico che gira in camicia nera il 28 ottobre.
«Non ho mai conosciuto uno che non valesse un fico secco e che non fosse irascibile» Ezra Pound
nale più forte, organizzato e autoritario anche riforgiando uno spirito nazionale? B: Questo sicuramente. Lo Stato che vogliamo è uno Stato etico, organico, inclusivo, guida e riferimento spirituale della comunità nazionale, uno Stato che torni a essere un fatto spirituale e morale. Il suo primo compito è quello di riaffermare e riconquistare la sovranità e l’autonomia minacciate da poteri forti, di natura privata ed internazionalista. T: Basterebbe anche guardare a nazioni come la Francia e la Germania di oggi. Da quanto ho capito, non avete mai dichiarato di essere un movimento eversivo. Ne deduco che, malgrado alcune vostre critiche radicali, la vostra lotta politica avvenga sempre all’interno della democrazia. T: Certo. B: E alla luce del sole, soprattutto. Quello che però voglio capire è che idea avete della democrazia. La ritenete un bene irrinunciabile oppure un qualcosa di più confuso e grottesco? Penso ad esempio ad una una canzone degli ZetaZeroAlfa che dice «democrazia grande pollaio». Una metafora che vi sentite di sposare? B: Sì, assolutamente. Per questo tipo di democrazia. T: Credo che sia sotto gli occhi di tutti. La democrazia parlamentare è un pollaio. Fanno il Daspo contro la gente che si mena allo stadio e poi si menano in parlamento. Voglio dire, più pollaio di così dove vogliamo andare? Io l’ho detto anche un po’ di tempo fa: ogni tanto ascolto Radio Radicale per seguire i lavori parlamentari e per due giorni sono andati avanti discutendo se il prezzo del barbiere dovesse essere superiore o inferiore. Siamo alla follia pura. Dal barbiere ci devi andare fuori dal parlamento. Secondo voi l’Italia ha più bisogno di nazionalismo o di riforme? B: Entrambe. C’è bisogno di riforme per il popolo italiano e per la nazione. Riforme che aiutino i cittadini ad essere fieri di essere italiani e che incentivino tutti quanti a dare un contributo per migliorare il nostro paese. T: Il mancato nazionalismo degli italiani è la mancanza di fiducia nel governo. Non si vogliono pagare le tasse, non tanto per una mancanza di servizio, ma perché non c’è una correttezza del servizio. Permane sempre un magna magna a livello alto dirigenziale e questo non va bene. Certo è che ogni cittadino italiano
C’è bisogno di riforme per il popolo italiano e per la nazione. Riforme che aiutino i cittadini ad essere fieri di essere italiani e che incentivino tutti quanti a dare un contributo per migliorare il nostro paese.
dovrebbe compiere un’auto-introspezione e cercare di capire se effettivamente anche lui avrebbe commesso lo stesso errore se si fosse trovato nella stessa posizione. Perché questo è il problema più grande. B: Ma soprattutto l’Italia avrebbe bisogno di uomini nuovi; una nuova classe dirigente completamente all’opposto di quella che c’è attualmente. Dovrebbe essere giovane, molto preparata, incorrutibile dai poteri forti e che guardi al bene dell’Italia e degli italiani. Difficile ma non impossibile. Per quanto riguarda l’immigrazione, qual è la linea di CasaPound? T: CasaPound è totalmente contraria all’immigrazione, cioè questo tipo di immigrazione basata sullo sfruttamento da parte di poteri forti che favoriscono l’arrivo degli immigrati considerati come una risorsa proprio perché vengono pagati meno al fine di aumentare la concorrenzialità dal punto di vista del costo del lavoro, a fronte di un abbassamento del nostro Made in Italy. Questo tipo di immigrazione, inoltre, funge da sostentamento per chi campa sugli immigrati, come la Caritas, che ne ha fatto un istituto. Se non ci fossero gli immigrati la Caritas non riuscirebbe a tirare avanti. In alcune mense, ad esempio a Milano, vengono addirittura rifiutati gli italiani, mentre vengono fatti accomodare soltanto gli immigrati. Noi non siamo d’accordo con questo tipo di immigrazione perché porta un disagio alla struttura dell’Italia. Senza contare che in questo modo si creano delle sacche di povertà, come a Padova, che portano alla delinquenza. Io non sono uno di quelli sempre pronti a colpevolizzare l’immigrato, però in questi giorni, purtroppo, c’è sempre un caso. Non è razzismo: io so benissimo qual è il problema, ovvero lo stesso degli italiani che sono migrati in America. Quella che parte è la gente più povera, la popolazione più a rischio, che poi esporta un’immagine della Tunisia, del Marocco o del Kenya che non è quella reale. Queste persone, peraltro, vengono sradicate dal proprio habitat naturale. Noi siamo per l’identità nazionale, nostra e quella degli altri. A noi piace confrontarci moltissimo, ma non ci piace mischiare le identità, anche perché è provato che il melting pot americano ha fallito. Lì ci sono i ghetti, punto. Quindi voi non siete favorevoli ad una società multirazziale. B: Assolutamente no.
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Tornando a casa nostra, cioè in Veneto, sappiamo che si tratta di un regione con una forte anima leghista. A proposito di valori e politiche c’è qualche punto in comune tra voi e la Lega Nord? B: Ci divide la questione dello spirito nazionalista. Noi siamo nazionalisti, loro no. Poi bisognerebbe vedere quanti tra i loro elettori si ritengono veramente “venetisti” o “pro Padania”, un’invenzione territoriale che ci divide. Poi magari con qualche personaggio della Lega c’è un po’ di simpatia, nel senso che alcuni di loro sono seri e preparati, anche da un punto di vista tecnico e culturale. T: A noi può anche stare bene il senso di appartenenza alle tradizioni, quando queste tradizioni sono fondate. La Padania invece non esiste, mentre per il Veneto è tutto un altro discorso. Quando si inizia a dire che lo stato italiano non esiste, che il sud si deve arrangiare – anche se il sud dovrebbe sicuramente cercare di tirarsi su, ci mancherebbe altro – a noi non sta bene. Non accettiamo divisioni, così come apparentamenti con altri stati avanzati da qualche folle. Inoltre non accettiamo il discorso della xenofobia, ovvero la paura del diverso da parte del piccolo borghese che si preoccupa unicamente del proprio orticello.
B: Cosa ci fa incazzare? La situazione politica italiana. Inoltre il fatto di aver praticamente subito un colpo di stato. Quello che mi fa incazzare è che nessuno si indigna a dovere, sembrano tutti d’accordo, in tv e sui giornali. T: Ci fa incazzare vedere Equitalia che pignora case per 69 euro di debito. Ci incazziamo quando qui a Padova continuano a suicidarsi piccoli imprenditori strozzati dalle banche.
Da questo punto di vista il 2011 è stato un anno piuttosto riottoso. Ci sono stati molti scontri e manifestazioni. Volevo sapere quali sono le vostre posizioni su quello che è successo il 15 ottobre a Roma e durante le manifestazioni NoTav. B: Beh a Roma si è visto chi fossero i protagonisti, i cosiddetti black bloc, anche se in realtà si sa benissimo da dove provengono, ovvero dai circuiti dei centri sociali nei quali si fomenta questo tipo di odio verso le istituzioni. Inutile nasconderlo. Il fatto che abbiano manifestato contro il governo Berlusconi e abbiano distrutto mezza città senza che la polizia abbia fatto fondamentalmente niente fa pensare, perché se l’avessimo fatto noi, a cui viene impedito anche di stare in piazza, ci avrebbero portato via in due secondi. Stessa cosa per quanto riguarda le manifestazioni NoTav. Si tratta di una rete che opera a livello nazionale e che ha fatto di questo tipo di cose una professione. Su questo argomento uscì anche un articolo su Panorama. Lo ricordo, Professione antagonista [di Carmelo Abbate, Panorama, 27 dicembre 2010]. B: Esatto, che ha dipinto molto bene questa realtà. T: Loro mi ricordano moltissimo (si incazzeranno ma non me ne frega) la mentalità dei piccolo-borghesi leghisti, perché il fatto di essere contro il progetto Tav richiama l’atteggiamento di chi si mette sistematicamente contro la discarica, contro i rigassificatori ecc… ovvero la logica de: “il mio orticello non si deve toccare”. Allora signori, bisogna pensare ad un punto di vista più ampio, cioè di unità nazionale. Ovviamente se ci sono pericoli dimostrabili dal punto di vista della vivibilità è un conto, ma andare avanti ad oltranza con una protesta e accerchiare gli operai che stanno facendo il loro lavoro significa che: A) tu non sei a favore, come una volta, del proletariato; B) stai difendendo l’orticello; C) non stai facendo l’interesse della tua nazione. Perché se la Tav non la facciamo noi la farà qualcun altro, ad esempio la Svizzera, e noi ci perderemmo tutto un indotto che potrebbe essere molto interessante. A Padova esistono questi antagonisti di professione: tutte le volte che vai sul sito del Gramigna e vedi che si sta organizzando una protesta NoTav sai che ci sarà il gruppetto che parte e va là. Secondo te gliene frega qualcosa della Val di Susa? Assolutamente no. Vanno lì per scontrarsi con la polizia, punto e basta, questo è il loro obiettivo. Venendo ai fatti di Firenze (so tra l’altro che tu vieni proprio da lì): in estrema sintesi voi avete ammesso che Casseri
Vi ho anticipato che il nuovo numero di ConAltriMezzi tratterà di odio, rabbia sociale, indignazione e forme di reazione. Vi ritenete in qualche modo indignati? Cos’è che vi fa particolarmente incazzare? B: La situazione politica italiana. Inoltre il fatto di aver praticamente subito un colpo di stato. Quello che mi fa incazzare è che nessuno si indigna a dovere, sembrano tutti d’accordo, in tv e sui giornali. Tutti i partiti ad eccezione della Lega, che ha deciso di opporsi, anche se bisogna vedere quanto ci sia di vero in questa opposizione. T: Ci fa incazzare vedere Equitalia che pignora case per 69 euro di debito. Ci incazziamo quando qui a Padova continuano a suicidarsi piccoli imprenditori strozzati dalle banche. Il comune ha aperto un numero verde per quattro mesi, poi l’ha chiuso dicendo che l’emergenza era finita: questo ci fa incazzare, oltretutto, perché si tratta di una presa per i fondelli da parte di quelle istituzioni che invece dovrebbero dare una mano e ribellarsi ad una logica unicamente improntata sul commercio e sul guadagno.
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«L’odio è una palla al piede. La vita è troppo breve per passarla sempre arrabbiati, non ne vale la pena» American History X
era un vostro simpatizzante e che frequentava certi vostri ambienti. Tuttavia avete allo stesso modo preso più volte le distanze da lui e dall’accaduto. T: Casseri era un iscritto aderente, come potrebbe essere un qualsiasi iscritto all’Arci, dal momento che la nostra è un’associazione di promozione sociale a livello nazionale. Ha partecipato anche a delle conferenze, come pubblico, e a delle nostre iniziative. Questa persona ha pubblicato libri per Bompiani, ha collaborato con Gianfranco De Turris, era dentro un centro ambiente che si occupava di letteratura fantasy, tra Tolkien e Lovecraft. Ho peraltro scoperto di possedere, senza neanche saperlo, un libro a cui aveva dato un contributo. Io, che vengo da Firenze, non l’avevo mai visto né conosciuto, neanche in ambienti precedenti a CasaPound. Ho parlato con i ragazzi di Pistoia che mi hanno detto che si trattava di una persona con problemi di depressione, che però non aveva mai manifestato. Non era mai andato in escandescenza e non era nemmeno uno di quelli che dicesse «negri di merda» o cose di questo genere, giusto per essere precisi. Da un giorno all’altro è completamente sbroccato e si è macchiato di un delitto allucinante, cosa che ci ha portato grossi problemi, inutile negarlo. Perché purtroppo la stampa e i mass media hanno cercato di generalizzare, alla ricerca di un colpevole come fanno sempre. Ti faccio un esempio: la bambina cinese che è stata ammazzata assieme al padre qualche tempo fa. All’indomani dell’omicidio ricordo i giornalisti dire che erano stati degli italiani. Due giorni dopo, invece, erano stati sì degli italiani ma, essendoci il Sert vicino, si trattava di drogati. Il terzo giorno invece erano marocchini… Insomma, c’è la ricerca ossessiva e brutale del capro espiatorio. Una cosa che a noi non piace in qualsiasi caso. Da questo punto di vista io sono sempre stato un garantista, nel senso che non puoi bollare le persone in questo modo. Voglio dire, il Pd allora ne ha fatto di tutti i colori: associazione mafiosa ad un ex sindaco arrestato qualche giorno fa, la segretaria del Pd che faceva filmini porno… B: Lo stupratore seriale militante del Pd. T: Pietro Pacciani aveva la tessera del Pci, io che sono di Firenze ve lo posso dire. E nessuno si è mai permesso di accusare il Partito Comunista Italiano di essere un partito di assassini. Mi è stato contestato il fatto che queste persone non se l’andavano a prendere con oppositori politici o con bersagli ideologici. Ma sapete voi cos’è passato per la testa di Casseri? Sapete perché ha ammazzato quelle due persone? Io francamente no. Si tratta di una tragedia che non ha niente di politico.
T: La differenza è che il nostro stile sta nel non rispondere alla violenza con la violenza e quindi con la vendetta. Invece negli anni ’70 fu fatto questo errore. B: Ovviamente, nell’immediato, se ci attaccano noi ci difendiamo. Non è che rimaniamo fermi. T: Non siamo Gandhi. Ma il giorno dopo non andiamo a vendicarci.
Gli antifascisti sono soliti accusarvi di avere un trattamento privilegiato da parte del potere. Vi reputano dei “paraculati”, quelli che ricevono appoggi politici ed economici. Loro sostengono che non venite perseguiti a dovere e che, in sostanza, non dovreste nemmeno esistere. B: Secondo me sono solo dei vecchi tromboni (ride). A parte gli scherzi: è vero ci accusano di essere dei “paraculati”. Ma se consideriamo i casi di violenza qui a Padova c’è da chiedersi perché uno come il signor Gallob [Max Gallob, tra i leader del Centro Sociale Occupato Pedro n.d.r] non si sia mai fatto un giorno di galera, anche se probabilmente ha un numero di denunce maggiore di ognuno dei nostri. T: Nessuno di noi glielo augura. B: No, certo, assolutamente no. Ma dal momento che ci accusano di essere “paraculati” vorrei capire da quale pulpito arrivano queste osservazioni. Tanti altri esponenti del Pedro hanno questioni in sospeso con la legge e sono a piede libero. Noi non siamo “paraculati”, come si può vedere dagli arresti che sono stati fatti in Calabria piuttosto che a Roma, vedi Zippo, Alberto Palladino [dirigente di CasaPound del IV Municipio di Roma arrestato per l’aggressione a danni di alcuni esponenti dei Giovani Democratici n.d.r]. Lui è ancora agli arresti domiciliari per una questione totalmente assurda. I militanti del Pd si sono presentati in questura denunciando l’aggressione portandosi dietro le presunte armi. Alberto Palladino è stato arrestato all’aereoporto come un narcotrafficante, con tanto di agente in borghese travestiti da turisti, di ritorno da una missione umanitaria in Birmania, con la comunità solidarista Popoli. Ma non ci sono prove, non c’è niente. La sera stessa dell’aggressione i carabinieri erano accorsi sul posto e non avevano trovato nessuno. Sono cose strane. T: Per quanto riguarda la storia dei finanziamenti del Pdl [accusa avanzata dai media, rilanciata anche da Global Project n.d.r] se vogliono mando loro la bolletta dell’affitto. A noi non ci dà una lira nessuno. Inoltre i vostri detrattori dicono che siete “amici degli sbirri”. T: Andrebbe sfatato il mito per cui a destra ci sono molti amici dei Carabinieri e simpatizzanti delle forze dell’ordine, per il semplice motivo che i movimenti giovanili erano l’opposto. Se non altro perché s’erano verificati degli episodi, come l’omicidio di Nanni De Angelis in galera, che hanno segnato
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uno spartiacque incolmabile [il 5 ottobre 1980 De Angelis viene trovato impiccato nella sua cella dopo essere stato duramente picchiato dalla polizia in seguito all’arresto e misteriosamente rilasciato dall’ospedale malgrado la prognosi di sette giorni; per queste ed altre ragioni sono in molti a sospettare del suicidio del militante di Terza Posizione n.d.r]. Esiste un rapporto istituzionale e burocratico con le forze dell’ordine, ma da questo a sentirmi dire di essere un protetto della polizia non mi sembra proprio il caso. B: Forse la differenza è che loro si possono permettere di fare di tutto grazie all’impunità di cui godono, mentre noi, pagando per qualsiasi cavolata, non tendiamo a fare il passo più lungo della gamba. T: Loro pensano che noi non siamo contro la polizia probabilmente perché non facciamo gli scontri in piazza contro le forze dell’ordine. La polizia non è un nemico e nemmeno il nemico. Se io sono in piazza a manifestare contro le banche, non devo calcolare la polizia. Eventualmente mi pongo contro le banche ma non contro lo sportello, oppure contro il lavoratore di Equitalia che apre il pacco e gli esplode in mano. Non è questo il sistema di lotta, non la piccola vendetta contro chi non c’entra nulla, ma lo è la sensibilizzazione di tutta la struttura sociale, che si deve ribellare al sistema. I poliziotti, come disse Pier Paolo Pasolini, sono degli operai che vanno lì per lavorare, punto e basta. I poliziotti normali, poi quelli che li mandano a caricare sono un altro discorso. A proposito di violenza politica: quasi sempre, da una
parte e dall’altra, ci si difende dicendo di aver reagito a un’aggressione, oppure si tira fuori l’alibi della legittima difesa. Non c’è mai nessuno che rivendichi un attacco, tanto che non si capisce mai l’origine e la responsabilità di certi episodi di violenza. Nell’ambiente stesso della destra radicale si dice che tutta la violenza nera, dagli anni ’70 in poi, è originata da una reazione. È davvero così? B: Sì è vero. Magari all’inizio è stato così, poi si sono innescati dei meccanismi di vendette su vendette che hanno reso impossibile capire di chi fosse la colpa degli episodi di violenza. Negli anni ’70, quando c’erano scontri tutti i giorni, era anche inutile sforzarsi di trovare delle responsabilità. Per quanto riguarda CasaPound noi abbiamo sempre subito aggressioni, sin dalla nascita. Vuoi sassi, vuoi la bomba o l’aggressione fisica nelle varie sedi d’Italia o i pestaggi per strada, in dieci contro uno. T: La differenza è che il nostro stile sta nel non rispondere alla violenza con la violenza e quindi con la vendetta. Invece negli anni ’70 fu fatto questo errore. B: Ovviamente, nell’immediato, se ci attaccano noi ci difendiamo. Non è che rimaniamo fermi. T: Non siamo Gandhi. Ma il giorno dopo non andiamo a vendicarci altrimenti ricomincia il circolo vizioso. B: Forse questo è quello che loro vorrebbero ottenere con le provocazioni. Vorrebbero rimettere in piedi un clima di tensione molto forte che poi potrebbe sicuramente sfociare in qualcosa di brutto. Cosa che noi non vogliamo.
Le immagini in bianco e nero contenute in questo articolo sono state tratte da Oltrenero. Nuovi Fascisti Italiani, di Alessandro Cosmelli e Marco Mathieu, Contrasto Due Editore.
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«È uno dei vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed essere odiati senza conoscerci» Alessandro Manzoni
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La vita è uno schifo Il giallo è l’ordine. Il nero è il caos Poesia incazzata ma civile Intervista a Matteo Fantuzzi Il soggetto irritabile
LA VITA È UNO SCHIFO
di Tommaso De Beni
Fenomenologia dell’odio nella letteratura dalle origini ai giorni nostri
All’inizio, in letteratura non c’era spazio per la povera gente, di conseguenza manca nei primi documenti scritti la rappresentazione della rabbia. O meglio, non è tanto la rabbia in sé a mancare, quanto piuttosto quello che molti di noi probabilmente intendono oggi per rabbia, cioè un sentimento che sia collettivo e che vada oltre le lamentele personali contro il vicino di casa. Se nel 2011 in tutto il mondo i movimenti di protesta e le rivolte popolari, dal basso verso l’alto, hanno avuto un grosso contributo da internet e dai social network, c’è stato un tempo in cui la letteratura aveva il potere di muovere le coscienze, e poi le persone. Il primo impulso verso la rivoluzione è spesso stato dato dalla fame e dalla miseria, ma l’alfabetizzazione e la diffusione della stampa e del pensiero libero hanno contribuito alla formazione di una coscienza sociale che ha permesso di trasformare il semplice gesto di violenza in atti formali organizzati, che hanno modificato il modo di stare al mondo delle persone. Un uomo ignorante è sicuramente più facile da governare (e da fregare) di un uomo colto e ben istruito; d’altro canto le “armi” letterarie consentono di esprimere razionalmente il sentimento informe della rabbia e di dire cose altrimenti sconvenienti. A questo proposito sono nati anche due generi letterari, uno all’interno della poesia e uno all’interno dell’oratoria: rispettivamente la satira e l’invettiva. Aristofane sputtanava letteralmente i politici dell’epoca, ma la gente continuava a votarli perché il “motto di spirito” smorzava la vena polemica; Fedro era costretto a nascondere la denuncia morale con l’espediente delle favole animali. Gli antichi romani erano forse leggermente più “incazzati” dei greci: Giovenale, Catullo, Catone, Cicerone, Petronio, seppure in maniera diversa, forniscono esempi di rabbia e indignazione che vanno dall’offesa personale alla denuncia dei costumi corrotti. Va ricordato comunque che concetti come indignazione, società e rivoluzione, si sono for-
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mati e sono mutati nel corso dei secoli; il concetto stesso di rabbia è mutato nel tempo e può sottintendere diversi atteggiamenti. La definizione canonica parla di uno stato di forte irritazione che però è momentaneo, si dice infatti “essere in preda alla rabbia, o “esplodere in uno scatto d’ira”, come se la rabbia fosse un’entità soprannaturale che in certe occasioni e per breve tempo si impossessa degli uomini facendo loro compiere azioni dissennate. Nell’antica Grecia era normale pensare che i sentimenti degli uomini fossero indotti dagli dei attraverso l’anima: l’amore per esempio non sarebbe altro che la momentanea possibilità di riconoscere l’“anima gemella” unendosi alla quale ci si può avvicinare all’iperuranio e alle divinità. Così anche l’ispirazione poetica non sarebbe altro che l’invasione della mania divina: ha qui origine la frequentissima associazione tra il matto (o l’ubriaco) e il poeta. Stando al vocabolario italiano, sinonimi di rabbia sono ira, collera, furia, furore. Questi ultimi due rimandano però alla violenza, anche a quella insita nella natura, si parla infatti di “rabbia del mare”. Come costruire allora una mappatura del tema: rabbia in letteratura? Intanto distinguerei tre sottocategorie: la denuncia sociale, la violenza e la follia. Queste ultime due sono spesso difficilmente separabili e sicuramente molto presenti soprattutto nella letteratura antica, in cui l’ira era prerogativa degli dei o degli eroi, come Achille. Nel mito di Prometeo (e nella tragedia di Eschilo) attraverso la vicenda di Io amata da Zeus e punita da Giunone, si fornisce un’interessante rappresentazione della follia, identificata con la donna, soggetto debole per eccellenza. Il comportamento di Prometeo a favore della “categoria” umana sembra una sorta di primogenitura del sindacalismo, analogamente a quello di Spartaco. Anche nella Bibbia, come nella mitologia greca, la rabbia è concepita soprattutto nella dialettica tra colpa e punizione, la quale spetta a Dio, come dimostra
«Quando sei arrabbiato, conta fino a quattro; quando sei molto arrabbiato, bestemmia» Mark Twain
l’episodio di Caino, vittima dell’invidia e della gelosia. Nel Nuovo Testamento invece l’episodio di Gesù che irrompe nel tempio scagliandosi contro i mercanti che violano un luogo sacro con l’economia può forse essere considerato un primo esempio di “giusta ira” o indignazione. In molti casi, quindi, la rabbia nasce dalla violazione di una norma morale, ma più che di rabbia si tratta di collera, di reazione ad un comportamento sbagliato. Sbagliato secondo chi? Secondo la legge di Dio, o di Zeus, o al massimo del re o imperatore. Gli uomini comuni non hanno il diritto di arrabbiarsi, soprattutto nella cultura cattolica, in cui l’ira è uno dei sette peccati capitali. Per giustificare le invettive contenute nella Divina Commedia, che non risparmiavano nemmeno il papa, Dante coniò l’espressione “giusta ira”, che è un sinonimo di sdegno morale; in seguito, invece, la peccaminosa ira fu sostituita dalla più prudente indignazione, sentimento piuttosto cattolico e borghese. Più o meno negli stessi anni in cui viveva Dante, Cecco Angiolieri scriveva «S’i’ fosse foco arderei ‘l mondo» manifestando sintomi di ribellismo che con delle mirabolanti capovolte sembrano anticipare sia i poeti maledetti dell’Ottocento sia la “gioventù bruciata” degli anni ‘50 del Novecento e il nichilismo punk del ‘77. Esistevano quindi delle modalità
contando di Orlando che perde la ragione per colpa di una donna ed usa la sua forza non contro i nemici, ma contro tutto e tutti, iniziò a degradare i valori cavallereschi. Poi arrivarono i romanzi picareschi, Cervantes e Rabelais. In quest’ultimo la rabbia e la violenza, come il riso e qualsiasi altra manifestaLe “armi” letterarie consentono di zione dell’animo umano, rappresentano una liberazione, soprattutto per la povera gente, di cui il carnevale è l’emblema esprimere razionalmente il sentimenprincipale: la povertà e la morte vengono esorcizzate dagli una delle peculiarità deldire Kitsch to informe della rabbia e di cose scherzi e dagli eccessi. Anche le fiabe francesi erano infoltisarebbe la stilizzazione di personaggi te di violenza per rappresentare la dura realtà dell’estrema altrimenti sconvenienti. A questo promiseria contadina. Quando si dice ai bambini “fai il bravo che,sono non nati essendo caratterizzati posito anche due generi perché se no arriva l’uomo nero che ti porta via, o ti mangia” fisicamente e psicologicamente purtroppo si sta involontariamente rievocando una realtà stoletterari, uno all’interno della poesia e rica. Johnathan Swift nel suo Modest Proposal esponeva detdiventano così facili stereotipi uno all’interno dell’oratoria: rispettivatagliatamente un piano per sistemare l’economia e curare la povertà mangiando i bambini; ovviamente qui si è sul piano mente la satira e l’invettiva. del sarcasmo, come nel caso de L’assassinio come una delle belle arti di Thomas De Quincey, una sorta di trattato sulla morte violenta. Nel secolo dei lumi la rabbia sembrava un ritorno al passato barbarico, per cui si puntava di più sul sarcasmo e sulle arguzie intellettuali. Tra Settecento e Ottocento il clima preromantico prima e romantico poi recuperarono invece il periodo medioevale e diffusero i concetti di eroismo e titanidi sfogo alternative a quelle ufficiali dello sdegno morale, ma smo. Anche in virtù del successo di romanzi epistolari come erano inquadrate in un genere letterario preciso, quello “co- Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo e I dolori del giovane mico-realistico”, al quale aderì talvolta lo stesso Dante, che Werther di Goethe il suicidio veniva visto come un gesto eroiprevedeva la realizzazione di componimenti “bassi”, giocosi, co di ribellione e di lotta contro le tirannie. Leopardi, pur non cattivi e pessimistici. Talvolta i poeti si sfidavano tra loro a chi essendo propriamente un romantico, nelle canzoni giovanili la sparava più grossa, rinfacciandosi a vicenda vizi e difetti. All’Italia e Ad Angelo Mai fornisce a mio avviso un esempio Da qui nacque l’espressione “rispondere per le rime” e l’idea di rabbia civile e di sdegno per le condizioni politiche e modi usare la letteratura (o la musica) per esprimere i propri sen- rali del nostro paese. Sostanzialmente l’800 è un secolo fontimenti negativi (quelli positivi erano invece ben accetti nella damentale e di grande modernità per la letteratura. In Franlirica); idea che secoli dopo è stata ripresa e degradata dal cia Baudelaire prima e Zola poi cambiano la funzione stessa genere musicale rap. dell’artista e dell’opera letteraria. Il primo descrive la conQuando fu inventata la stampa le cose iniziarono a cambia- dizione degradata dell’intellettuale e dell’artista, che hanno re; si pensi per esempio alle tesi di Lutero, che diedero vita «perso l’aureola» e che si riconoscono nelle figure borderline ad una rivoluzione epocale all’interno del mondo cristiano, del clown, del matto e della prostituta. Il secondo conferisce o alla possibilità di poter leggere personalmente ed indivi- al romanzo il ruolo di rappresentare le condizioni della popodualmente i testi sacri. Nel contempo i contenuti della lette- lazione: a mio avviso è a quest’altezza che in letteratura entra ratura stavano lentamente diventando più realistici: penso compiutamente il concetto di denuncia sociale. In Germania per esempio ai poemi cavallereschi che nel Cinquecento e Nietzsche rovescia il sistema di valori vigente con libri come Seicento vennero rovesciati dal loro interno. Già Ariosto, rac- L’Anticristo e Genealogia della morale. Da qui in poi la crisi di-
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venta sempre più forte, sintomo di grandi cambiamenti, e la follia non è più necessariamente un male ma a volte diviene una chiave di lettura privilegiata. Il Novecento è sicuramente il secolo in cui l’odio non è più un impulso primitivo ma diviene lucida pianificazione e addirittura oggetto di campagne elettorali, come dimostrano la figura di Adolf Hitler ma anche altri esempi più recenti di intolleranza. Gli studi di Freud mettono per iscritto i meccanismi intrinseci alla psiche umana e la letteratura ne prende atto. Secondo Giacomo De Benedetti le nuove correnti letterarie del primo Novecento consentono «l’irruzione del brutto nella letteratura» e i casi di follia e nevrosi sono innumerevoli, non solo nei romanzi, ma anche nella vita stessa degli autori. L’avanguardia che più di tutte, a mio avviso, si mostra capace di fornire una nuova via perseguibile coerentemente nei romanzi è l’espressionismo, che prevede la deformazione violenta del linguaggio e dello stile. Sempre dalla Francia vengono casi esemplari di autori “dell’odio”; parlo per esempio di Louis-Ferdinand Céline, pseudonimo di Louis-Ferdinand Destouches, uno scrittore che a volte è stato messo da parte dalla critica, colpevole di essere di ideologia reazionaria. Sembra quasi che la rabbia nella cultura di sinistra riesca a trasformarsi in denuncia sociale, mentre nella cultura di destra rimanga fine a se stessa e legata alla violenza e allo sfogo. In realtà questo è solo un pregiudizio, giacché il rapporto tra ideologia e letteratura non è così lineare e diretto, come dimostra per esempio Verga. Tornando a Céline: Voyage au bout de la nuit, del 1932 e Mort à credit, del 1936, tradotto in Italia da Caproni nel 1964, sono considerati i suoi capolavori, caratterizzati da uno stile espressionista, termini gergali, ideologia reazionaria e pessimista sul mondo e sulla società, e da molta violenza. A parte lo stile, ci sono molte caratteristiche che accomunano l’opera di Cèline al noir francese, di cui si inaugurò una serie letteraria nel 1945 e il cui maggiore esponente è considerato Leo Malet, giornalista vicino al gruppo di surrealisti raccoltosi attorno a Breton (quindi di ideologia non reazionaria come Céline, anche se ugualmente pessimista), che nei suoi romanzi ha raccontato la miseria e lo squallore della provincia francese. Dopo una serie di romanzi incentrati sulla figura di un poliziotto, nel 1948 scrive La vita è uno schifo che ha per protagonista un criminale: «La vita è uno schifo, un ignobile e spaventoso ingranaggio […] Non è vivere il termine da usare ma schifare, urlare e vomitare.» Nel 1939 John Steinbeck scrive quello che secondo molti è il
suo capolavoro, cioè il romanzo Furore, il cui titolo originale è The Grapes of Wrath, cioè “i frutti dell’ira”(anche se è curioso notare che in inglese wrath significa “ira, collera”, ma anche “indignazione”). Il romanzo descrive impietosamente la grande depressione americana degli anni ‘30; il furore è quello riflesso negli occhi della povera gente, ma anche di chi è stato colpito dalla crisi e non riesce a rialzarsi. Steinbeck sembra proporre la versione moderna de I Malavoglia nel raccontare la vicenda di una famiglia disgraziata attraverso gli occhi di tre generazioni. A quest’altezza sembra delinearsi abbastanza chiaramente la distinzione tra autori “incazzati”, ma che agiscono da cani sciolti e rappresentano un odio abbastanza generico, ed autori che usano la rabbia come denuncia di determinate condizioni sociali. In Inghilterra ci sono molti autori “impegnati”, come Orwell e Beckett (irlandese ma operante in Francia e Inghilterra), ma ce ne sono altri che non hanno bisogno di giustificazioni politiche e sociali per arrabbiarsi; un autore che incarna secondo me la rabbia intesa come sfogo violento e fine a se stesso è John Osborne. In Luther, dramma storico del 1961 in realtà privo della dimensione storica, i sentimenti di rabbia, vergogna e indignazione e la stessa spinta riformistica di Lutero vengono più dall’infanzia e dall’intestino che dal cuore o dalla mente, a causa dei suoi problemi rispettivamente col padre e con la digestione. La liberazione spirituale sarà anche una liberazione anale dalla stitichezza. Il suo dramma d’esordio, e probabilmente il più noto, cioè Look back in Anger, del 1956, rivoluzionò il teatro inglese e non si può non nominare parlando di rabbia in letteratura. Il protagonista, Jimmy Porter, è l’antenato di personaggi ribelli di recente memoria letteraria e cinematografica, come quelli di Fight Club e La 25esima ora. Giovane brillante ma di estrazione popolare, rappresenta l’intera generazione di giovani del secondo dopoguerra in un’Inghilterra che, pur avendo vinto la guerra, appare economicamente molto indebolita e socialmente incapace di mantenere le promesse di riforme e di equità. Le sue invettive, urlate e spesso volgari, non risparmiano nessuno, dai laburisti ai conservatori, dalla Chiesa al poeta Wordsworth. Un atteggiamento in un certo senso “punk”, che però mostra il suo più grande punto debole proprio nell’incapacità di indirizzare la rabbia verso un bersaglio preciso e concreto e di trovare forme costruttive per esprimerla, tanto che Jimmy (e con lui l’autore) finisce per rimpiangere il glorioso passato dell’Inghilterra imperiale.
Sembra quasi che la rabbia nella cultura di sinistra riesca a trasformarsi in denuncia sociale, mentre nella cultura di destra rimanga fine a se stessa e legata alla violenza e allo sfogo. In realtà questo è solo un pregiudizio.
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«Il potere, dicono a Buenos Aires, è come un violino. Si prende con la mano sinistra e si suona con la destra» Eduardo Galeano
In Italia è forse più difficile trovare esempi interessanti. È un paese in cui non si fa la rivoluzione ma ci si ammazza per un parcheggio, così in letteratura siamo pieni di casi di nevrosi, violenza e scoppi d’ira, ma raramente, soprattutto di recente, si arriva ad una letteratura civile e impegnata nella critica sociale o anche solo nell’indignazione. Questo anche perché in Italia, a mio avviso, invece di imitare Roth, Auster e De Lillo, i nuovi scrittori (non necessariamente giovani, come dimostra Faletti) imitano Stephen King o Bret Easton Ellis. Per quest’ultimo è difficile parlare di rabbia, pur essendo uno scrittore che ama provocare e scandalizzare il pubblico con scene di violenza gratuita. I suoi personaggi non solo non sono eroi, ma non hanno nemmeno la voglia o la pretesa di arrabbiarsi per un motivo giustificato. Sono uomini vuoti che uccidono e torturano per noia. Da D’Annunzio a Tozzi, fino a Pavese, non mancano casi di violenza nei racconti e romanzi italiani, ma sembra mancare una direzione. Per quanto riguarda la denuncia sociale vanno sicuramente citati autori come Vittorini, Volponi e Pasolini; nella letteratura recente si cerca invece più l’“effetto speciale” in direzione del pulp o dello splatter. La rabbia come violenza è presente in molti autori, da Ammanniti a Carlotto, ma la rabbia come impegno civile è semmai affidata ai soft seller, cioè a libri come La casta. Un’intera casa editrice, la Chiarelettere di Milano, è nata ed ha avuto successo pubblicando quasi esclusivamente saggi ed inchieste che puntano a raccontare verità scomode e a rinnovare il giornalismo. Il romanzo e il racconto non sono dunque, in Italia, dei “luoghi” privilegiati per esprimere rabbia e dissenso. In Italia a dire il vero esiste anche un premio apposito per la letteratura civile, il premio Volponi, ma ciononostante risulta difficile avere le idee chiare su chi possa essere oggi in Italia uno scrittore incazzato. Come in Quinto potere di Sidney Lumet pare che da noi solo un presentatore televisivo abbia l’autorità per invitare la gente a ribellarsi, vedi per esempio il caso di Beppe Grillo. Una celebre eccezione è data da Roberto Saviano che con Gomorra, nel 2006, e con vari interventi pubblici, ha rispolverato la figura dell’intellettuale impegnato che si arrabbia contro le ingiustizie e i soprusi. Interessante è anche il romanzo, recentissimo, Dove eravate tutti del giovane Paolo di Paolo, che intrecciando la dimensione pubblica con quella privata prova a tracciare un bilancio degli ultimi vent’anni, segnati indubbiamente, sulla scena politica (e non solo politica) italiana, dalla figura di Silvio Berlusconi. Qualcosa dunque pare si stia muovendo; si può allora sostenere, in conclusione, che la presenza nella letteratura della rabbia, soprattutto se intesa come denuncia sociale, è direttamente proporzionale al tasso di aderenza al reale e al quotidiano della medesima.
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IL GIALLO È L’ORDINE. IL NERO È IL CAOS
di Giulia Cupani
Letteratura, rabbia sociale e disperazione: piccolo decalogo noir dei tempi moderni Nel 1949 Raymond Chandler elencava, in una serie di brevi “appunti sul noir”, le dieci regole che un autore di romanzi neri non deve mai tradire nello scrivere un’opera degna di tale nome: si tratta di una sorta di decalogo che, pur nello stile elegante e un po’ retro dell’autore, è ancora in gran parte valido per descrivere il noir di oggi, i suoi fondamenti e quello che lo distingue dalla miriade di generi simili che però si pongono obiettivi totalmente diversi dai suoi. Il noir, scrive Chandler, deve in primo luogo essere fondato su situazioni, personaggi, e azioni credibili e plausibili: tutto deve svolgersi in un contesto concreto e non artificialmente costruito dall’autore (come, ad esempio, l’ambiente di Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie, che è così forzatamente “letterario” da generare una serie di eventi per forza di cose incongrui, che possono essere affascinanti nella loro irrealisticità ma a cui nessun lettore può credere davvero). La storia dev’essere solida in tutti i suoi dettagli, da quelli tecnici a quelli di caratterizzazione psicologica dei personaggi, e ogni cosa deve essere improntata a un senso profondo di verità: il noir è un genere che trova la sua forza nell’aderenza ai fatti, non nell’emotività dei personaggi o in quella, riflessa, del lettore. Tutto questo, però, non basta: la storia deve avere anche un valore di fondo, un significato che trascenda la semplice narrazione di eventi. È proprio in virtù di questo che un buon noir può aspirare a indurre il lettore, una volta concluso il romanzo, a rileggerlo pur avendo esaurito la spinta iniziale a delineare lo svolgimento dei fatti, a “risolvere il mistero” implicito nella narrazione, a capire in che modo si è sviluppata l’azione criminale. Il noir deve avere colore, slancio, deve saper graffiare e, spesso, deve saperlo fare per mezzo di uno stile che non vada a colpire la sfera emotiva e sentimentale del lettore ma che sia il più asciutto, concreto e lineare possibile. Infine, il noir prevede necessariamente che il colpevole, il re-
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sponsabile, alla fine della storia venga punito. Magari non in un tribunale, magari non secondo le regole dell’ordine costituito, ma la conclusione dell’opera non può non comprendere l’amministrazione di una qualche forma di giustizia, e «contrariamente a quanto si pensa, ciò non ha niente a che fare con il moralismo. È parte della logica del genere letterario. Senza questo, la storia è come un accordo musicale che resta incompiuto: lascia un senso di irritazione». L’ultima annotazione di Chandler riguarda la necessità di una letteratura noir che sia, fondamentalmente, una letteratura “onesta”, in cui gli elementi che costituiscono la narrazione siano evidenti, alla portata di un pubblico che è tanto trasversale quanto ramificato.
Il lettore deve sempre sapere in che contesto la storia si sta sviluppando (...) : il noir non deve ingannare chi lo legge, ma deve nascondere la propria portata morale e narrativa dentro la quotidianità di un mondo realistico, più vero della verità.
«L’altra sera ho acceso la tv: sesso e violenza, sesso e violenza. E quelle erano solo le previsioni del tempo» Daniele Luttazzi
tà. Il noir, dal canto suo, descrive un mondo labirintico in cui la condanna del colpevole non risolve alcunché ma serve solo a mettere in luce le infinite contraddizioni di un universo per sua natura ingiusto, caotico, in cui non c’è alcuna facile forma di redenzione. Il giallo è l’ordine, insomma, tanto quanto il nero è, per natura, la rappresentazione del caos, del disagio e della rabbia che attraversano la società contemporanea, di un’ingiustizia contro cui si deve combattere anche senza la speranza di un’effettiva, definitiva redenzione. La matrice del romanzo noir, in sostanza, va ricercata nella consapevolezza che non esiste devianza individuale che non sia, in realtà, la spia di un disagio sociale di portata più ampia, molto più profondo e molto più endemico. Le colpe dei singoli sono sempre le colpe dell’intera società, anche di quella parte di essa che crede di essere innocente ed estranea alle dinamiche dell’illegalità, e lo scopo della letteratura nera è esattamente quello di farle emergere, di trarle dall’ombra in cui siamo soliti nasconderle. Nelle parole di Derek Raymond, autore inglese morto nel 1994: «Il noir nasce quando il genere umano è spinto alla follia in un bar o nell’oscurità, descrive uomini e donne che la sorte ha spinto troppo in là, la cui vita si è contorta e deformata. […] Il noir esiste per far
Il lettore deve sempre sapere in che contesto la storia si sta sviluppando, deve comprenderne i meccanismi e i principi, deve essere in grado di decifrarne gli eventi muovendosi in un mondo costruito in modo chiaro ma mai troppo esplicito: il noir non deve ingannare chi lo legge, ma deve nascondere la propria portata morale e narrativa dentro la quotidianità di un mondo realistico, più vero della verità. Oltre sessant’anni dopo l’enunciazione di Chandler, le cose non sono molto cambiate: il noir è ancora un genere trasversale, capace di catturare lettori di qualsiasi caratura e provenienti dagli ambienti più diversi, e di farlo per mezzo di una narrazione “onesta”, veloce, tendenzialmente lineare ma non per questo neutra o fredda, anzi animata molto spesso dal desiderio di farsi portavoce di un punto di vista, di una critica sociale, di una voce di contestazione. Volendo approfondire il decalogo di Chandler si potrebbe precisare che questo genere di narrativa, secondo i principi espressi dall’autore nel 1949, tende, nella sua declinazione contemporanea, a farsi portavoce di un’analisi della società che vuole mettere in luce le zone d’ombra del nostro tempo, che ha come obiettivo quello di riuscire a rappresentare il crimine, la vita ai margini della società, il disagio sociale, gli infra-mondi sconosciuti che fanno parte del nostro mondo e che, pur essendo costantemente sotto gli occhi di tutti, passano sotto silenzio per un tacito patto di “pace sociale”. Il noir è per definizione la forma letteraria che più di tutte si propone di dare spazio e voce a una rabbia che è quella dei singoli contro l’Ordine, in qualsiasi accezione lo si voglia intendere, ma è anche, come dice Chandler, un genere fortemente “morale”, in cui spesso i personaggi positivi non sono i “buoni” comunemente intesi ma dove è chiaro chi sono i cattivi e dove i colpevoli, in qualche modo, sono sempre chiamati a farsi carico delle proprie responsabilità. È proprio in questo che risiede la sostanziale differenza tra il noir e il romanzo giallo classico: il noir rappresenta il disordine della società, la sua fragilità costituzionale, il dilagare della colpa e del dolore che essa genera, proprio come il giallo rappresenta, per sua natura, il trionfo dell’ordine. Il giallo, infatti, inizia con una rottura dell’ordine sociale – tramite l’omicidio, il furto, l’azione criminale – e si conclude con il ripristino di quello stesso ordine, garantito da un’indagine risolutiva portata a termine da un esponente della parte “sana” della socie-
Il noir rappresenta il disordine della società, la sua fragilità costituzionale, il dilagare della colpa e del dolore che essa genera, proprio come il giallo rappresenta, per sua natura, il trionfo dell’ordine.
vedere agli uomini cos’è la vera disperazione: le piccole, buie stanze dell’esistenza dove ogni uscita è sbarrata». Se questa è la matrice di questo genere, il suo scopo è comunque quello di superare la semplice narrazione di quelle vite per arrivare a descrivere qualcosa che spesso passa sotto silenzio: il noir serve perché, finché il male esisterà, sarà necessario conoscerlo, descriverlo, analizzarlo per mezzo della letteratura. Con la consapevolezza che non c’è niente di più pericoloso e falso che illudersi della possibilità di sconfiggere il male per mezzo dell’azione apparentemente salvifica di un intermediario che, col ricordo alle armi della logica e della legge, sappia incastrare i colpevoli e ricostruire l’ordine che quel male ha creato. Il noir si incarica di sollevare il tappeto buono sotto cui si nasconde di norma la devianza sociale: le trame nascoste e trasversali che attraversano la società non vanno nascoste, non vanno negate. Il crimine va punito, perché ciò è inevitabile, ma sempre con la consapevolezza che il germe da cui il nero nasce è parte costitutiva del nostro mondo, ed è prima di tutto annidato dentro ciascuno di noi.
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POESIA INCAZZATA MA CIVILE
di Tommaso De Beni
Dai grandi autori del passato alle nuove generazioni: storia, impegno e pubblico
Esiste uno sfogo letterario, un impegno militante, per la rabbia, l’indignazione, la frustrazione delle nuove generazioni? Se volessimo ragionare per categorie potremmo rispondere che il postmoderno, avendo affossato le ideologie forti e il concetto di storicità, ha sempre tenuto lontano l’impegno dall’arte. In realtà, il cinema e le arti visive non mancano di offrire esempi che potrebbero smentire quest’affermazione. Si potrebbe, allora, correggere il tiro limitando il campo alla letteratura e sostenendo che negli ultimi venti o trent’anni è mancata (o è stata rara) la capacità degli scrittori italiani di mantenere un rapporto con la realtà e soprattutto di trovare forme e modi per rappresentarla in maniera credibile e soddisfacente. A questo punto i più critici nei confronti del postmoderno, e i più ottimisti verso la situazione letteraria attuale, potrebbero affermare che si sta aprendo una nuova fase in cui filosofi e scrittori si sono accorti che esistono le cose, e quindi esiste la realtà, e cercano di renderne conto nelle loro opere. Ovviamente spetta ai “categorizzatori” stabilire se questa nuova fase sia interna al postmoderno o segni la sua fine. In ogni caso i più pessimisti potrebbero far notare che, in Italia, non sono molti i romanzi che rispondono a queste caratteristiche e che le questioni urgenti della realtà politica e sociale vengono affidate a inchieste giornalistiche, basti pensare al successo di quotidiani come «Repubblica» e «Il fatto quotidiano» o delle trasmissioni di Michele Santoro o di libri come La casta. Ma questa era solo l’anteprima, direbbe appunto Santoro. Ciò che qui interessa, infatti, è l’ambito della poesia e non dei romanzi. E già mi immagino la sala di un ipotetico convegno sull’impegno in letteratura svuotarsi mestamente. A parte gli scherzi, bisogna ammettere che l’argomento è di per sé ostico. Non è semplice (ma è necessario) parlare di poesia contemporanea, definirla, classificarla, capirla. La questione si complica se ci mettiamo dentro anche
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l’impegno, che rimanda al problematico rapporto tra letteratura e ideologia e alla definizione di “poesia civile”. Premesso che esistono esempi di poeti d’oggi che trovano forme e modi interessanti di affrontare certe questioni sociali, occorre fare un passo indietro. Secondo Paolo Volponi da Dante in poi la poesia italiana è sempre “poesia civile”; effettivamente la Divina Commedia mi pare un esempio grandioso di come si possano, in poesia, dire cose serie e potenti (e immortali) sulla politica, sulle persone, sulla Chiesa, senza per questo perdere l’aura magica con cui il fare poetico circonda le parole. Ovviamente l’affermazione di Volponi è contestabile, dato che sull’argomento si potrebbe dibattere a lungo. Da un punto di vista teorico-estetico la poesia di argomento e intento civile rischia di peccare di originalità e di gradevolezza; è un’accusa rivolta spesso alla triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio e a alla poesia risorgimentale, ma che non risparmia nemmeno Pasolini o Scotellaro, i quali tentarono con forme e modi diversi di applicare anche alla lirica i canoni del neorealismo. A mio avviso altissimi risultati li hanno raggiunti Montale ne La bufera e altro e Gatto in alcune poesie sulla Resistenza. Essi affrontano, ciascuno a suo modo, il dramma del nazismo e della Seconda Guerra Mondiale senza che il contenuto prevarichi la forma e la liricità del testo. A questo proposito è interessante la “rivalità” che negli anni ‘50 opponeva Pasolini a Luzi e che ebbe sfogo in alcuni interessanti articoli della rivista «La chimera». Il poeta di Casarsa accusava Luzi di non rappresentare nelle sue “nuove” poesie (cioè quelle post ermetiche di Primizie del deserto e di Onore del vero, che pure rappresentavano un paesaggio e un’umanità miseri) la cementificazione selvaggia che sconvolgeva il paesaggio italiano e la fine delle tradizioni contadine dell’Italia del secondo dopoguerra. Dal canto suo, il poeta toscano rispondeva che l’ideologia non può condizionare la scrittura, che il realismo in poesia non
«Il rivoluzionario crede nell’uomo, negli esseri umani. Chi non crede nell’essere umano, non è rivoluzionario» Fidel Castro
può essere una forzatura e che lui intendeva rappresentare un dolore esistenziale e spirituale e non politico attraverso immagini archetipiche di un’umanità umile e quasi primitiva, aggiungendo che il marxismo non avrebbe attenuato la sofferenza dell’umanità. Poi è arrivato Sanguineti, su cui si discute ancora oggi. In generale, il Gruppo 63 e la Neoavanguardia, a parte gli interventi pubblici o saggistici, realizzarono il loro “impegno” attraverso la frantumazione del senso e della forma, ottenendo però una poesia fredda e intellettuale che allontanò i lettori. Infatti anche se i dibattiti pubblici e su riviste erano molto accesi e numerosi, la poesia italiana prese una piega che si è protratta per tutti gli anni ‘70 e che, per certi autori, dura tuttora (le neo e post avanguardie ormai non si contano più), basata sull’idea che la poesia debba essere una “cosa per pochi”. Troppo spesso la poesia contemporanea tende infatti ad assomigliare alle arti visive quanto ad eccesso di concettualità. Vale la pena, comunque, menzionare la raccolta di Sereni Gli strumenti umani, del 1965, in cui compaiono testi di forte impatto sociale e politico come Visita in fabbrica e Amsterdam. I poeti già “affermati”, come Zanzotto o Fortini, continuano a produrre testi notevoli e interessanti nello stile e ad affrontare, in poesie o interventi pubblici, vari temi di forte
Troppo spesso la poesia contemporanea tende infatti ad assomigliare alle arti visive quanto ad eccesso di concettualità. (...) Il distacco tra pubblico e poeti si fa intanto ancora più acuto.
attualità. Fortini fino alla morte, avvenuta nel 1994, continuò il suo impegno militante a sinistra; Zanzotto, scomparso di recente, non ha mai smesso di preoccuparsi per il paesaggio e il territorio veneti. Negli anni ‘80 e ‘90 si assiste da un lato all’accentuazione di fenomeni avanguardistici e postmoderni come il pastiche, dall’altro ad una ricomposizione di forme e stili tradizionali come il sonetto e la rima. Il distacco tra pubblico e poeti si fa intanto ancora più acuto. Esemplare mi pare l’anno 1993, cruciale per l’Italia da un punto di vista politico, sociale ed economico, in cui viene fondato il Gruppo 93 ed alcune riviste pubblicano delle poesie poi confluite nell’antologia Poeti contro la mafia. Il Gruppo 93 è un tentativo di recuperare forme e modi della neoavanguardia unendo ex esponenti del Gruppo 63 e giovani autori; l’obiettivo era, inoltre, quello di recuperare, anche in maniera provocatoria o irriverente, un rapporto con il pubblico e ravvivare il dibattito intorno alla poesia italiana. L’antologia Poeti contro la mafia, uscita nel 1994 presso l’editore La Luna di Palermo, risponde all’appello lanciato
agli intellettuali affinché si esprimessero sulle catastrofi giudiziarie e sociali e mostrassero una reazione ai gravi attacchi allo Stato da parte della mafia, e raccoglie poesie e interventi di intellettuali del calibro di Volponi, Luzi, Zanzotto e Sanguineti. Paolo Volponi, che tra l’altro nella raccolta Con testo a fronte del 1986 propone, caso raro in Italia, una poesia “narrativa”, aveva del resto già affrontato temi civili, sia raccontando a modo suo l’esperienza industriale nella raccolta citata, sia intervenendo sulla condizione politica e sociale dell’Italia in poesie apparse su riviste e giornali all’inizio degli anni ‘90 assieme a testi di altri autori come Sanguineti, Leonetti, Giudici, Luzi. In O di gente italiana, del 1993, viene ripreso il topos della personificazione dell’Italia nella figura di una donna, spesso umiliata, in catene o «di bordello», molto presente nella poesia italiana da Dante a Leopardi passando per il classicismo barocco. Volponi, però, in un certo senso degrada ancor di più l’immagine aggiornandola allo stesso tempo: «Italia, o di gente italiana;/ eri una povera puttana/[...] Quand’è che il tuo cuore si arrese?/ Perché oggi tu sei un incanaglito/ furente travestito/ al margine, senza terra, sui raccordi/ che guata l’ombra infetta/ dei nuovi quartieri.» Indipendentemente da forme e temi, uno dei problemi più grandi della poesia è sempre stato (e sempre sarà) quello di coinvolgere, attirare, dialogare con, o creare, un pubblico che possibilmente sia il più vasto possibile o, se non vasto (non lo è mai stato, almeno in Italia), almeno costante, coerente, coeso. La poesia cosiddetta “civile” risponde proprio a questa esigenza. Ciò, a mio avviso, non deve però ridurla a pura merce che assume tanto più valore quanto più si fa vendere, come il film campione d’incassi o il best-seller. Si potrebbe ribattere che i best-seller (siano essi film o romanzi) non sono necessariamente e automaticamente prodotti di scarsa qualità. Penso tuttavia che non si migliori lo stato della poesia italiana puntando solo al fattore economico e di vendite. Credo che l’obiettivo principale della poesia civile debba essere quello di dimostrare che la letteratura non parla solo di sé stessa, come invece troppo spesso si crede. Accanto all’adozione di temi sensibili all’opinione pubblica da parte dei poeti, si tratta anche (o soprattutto) di creare eventi come festival dedicati alla poesia, letture pubbliche, dibattito su riviste (cartacee o on-line), incontri con gli autori. E qui la palla passa al mondo della critica, specializzata o no, e dell’istruzione.
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Del rapporto tra pubblico e poeti si è recentemente occupato un interessante articolo scritto in collaborazione da Matteo Fantuzzi, Lorenzo Mari, Francesco Terzago e Guido Mattia Gallerani apparso sul blog letterario Nazione Indiana. Gli autori non si limitano ad elencare didascalicamente degli esempi significativi di poeti “impegnati”, ma letteralmente si incazzano (sostenuti da buone argomentazioni) cercando di scuotere l’ambiente. Non si risparmia nessuno: dalle case editrici a pagamento, colpevoli di intasare i canali di diffusione e distribuzione della poesia pubblicando gli sfoghi di persone immature (o casalinghe disperate) che, scrivendo, vanno a capo ogni tanto, alle accademie che snobbano i poeti contemporanei e mantengono lontano il grande pubblico, a certi critici convinti che l’allontanamento del pubblico possa costituire il vantaggio di una maggiore libertà creativa per i poeti. Fino ai poeti stessi, colpevoli troppo spesso di non saper parlare alla gente. Non mancano riferimenti alla crisi economica che ovviamente incide pesantemente e negativamente anche sul mondo dell’editoria e che però impone allo stesso tempo la necessità di non arrendersi e di reagire. E non mancano nemmeno delle proposte concrete, perché «parlare della realtà con la poesia significherà anche comunicare, e quindi divulgare,
al pubblico la poesia stessa.» Si tratta di creare eventi, «soluzioni perfomative, di contaminazione e via web». Per quel che riguarda, invece, il tipo di poesia da proporre, gli autori dell’articolo collettivo citato concordano nel sostenere la necessità di una poesia che sappia essere comunicativa e che sappia anche raccontare. Per mettere in pratica questi obiettivi occorre forse mettere in discussione il concetto stesso di “lirica” allargando la dimensione dell’“io” a quella dell’“altro”. Una poesia dialogica a più voci, o dei lunghi poemetti narrativi, soluzioni rare nel panorama poetico italiano del Novecento, potrebbero essere delle valide opzioni. Vediamo ora alcuni esempi concreti di quella che è stata definita “Nuova poesia civile”, partendo dalle opere. Fabrica, di Fabio Franzin (classe 1963), uscito presso Atelier nel 2009, è connotato da tre caratteristiche principali e fondamentali: è una sorta di poemetto su un unico argomento, è scritto in dialetto e parla di fabbriche e di operai. Diversamente da Sereni, Franzin non è l’intellettuale che va a far «visita» agli operai in fabbrica, ma è egli stesso un operaio calato dentro la realtà
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degli «asettici inferni» che racconta una sua giornata tipo. La condizione operaia, che sembrava storia ormai vecchia e superata, viene così riportata in scena con tutta la crudezza delle cose che accadono e che sono, intrecciandosi con un altro problema sociale che è allo stesso tempo realtà di tutti i giorni, cioè l’immigrazione. Tra gli operai infatti vi sono «[...]indiani, roméni e neri/atei e cristiani, musulmani/ o de jèova, del demonio/dea fame, o del dio dei schèi,/ tuti misciàdhi, cussì [...]», tanto sfruttati dentro la fabbrica quanto disprezzati e osteggiati fuori. Una realtà marginale rispetto a ciò che viene costantemente posto sotto i riflettori dei media è raccontata in una lingua altrettanto marginale (che però è la stessa della gente che vive accanto agli operai e degli stessi padroni che li sfruttano, quindi è più funzionale alla comunicazione del messaggio), cioè il dialetto veneto dell’area opitergina-mottense. L’uso del dialetto è anche l’argomento di una lettera che Franzin ha inviato ad un quotidiano del Nord-Est; la lettera non è stata pubblicata, ma è leggibile on-line sul blog Rebstein. Il poeta prende posizione contro la strumentalizzazione propagandata dalla politica, che in nome delle tradizioni e del territorio vorrebbe l’introduzione dell’insegnamento dei dialetti nelle scuole. Egli, avendo scelto proprio la forma dialettale come strumento di comunicazione ha forse più di altri qualcosa da dire in merito, ricorda che la difesa del territorio e delle tradizioni non ha impedito la diffusione del culto per il dio denaro e la cementificazione che violenta il territorio e il paesaggio del Veneto. Argomento, questo, caro anche a Zanzotto e Rigoni Stern. Franzin sostiene inoltre che il dialetto veneto si è ormai trasformato, o meglio, si sono trasformati i suoi parlanti: da gente umile, povera, ma educata, a «paroni» arroganti e chiusi; il dialetto diventa così una scusa per creare ulteriori barriere politiche e sociali, mentre dovrebbe essere prima di tutto «lingua dell’anima». L’impegno del poeta riguarda quindi anche il linguaggio che adotta e la necessità di difenderlo dalle distorsioni e dagli abusi del potere. Prima di Fabrica, nel 2006, presso l’editore Lietocolle, è uscita una raccolta molto interessante che tratta in maniera diversa temi simili, cioè l’emarginazione di alcuni strati di popolazione. Si tratta di L’opposta riva di Fabiano Alborghetti, poeta nato nel 1970 a Milano e residente a Lugano, che ha raccolto, tra il 2001 e il 2004 le testimonianze dirette degli immigrati clandestini incontrati nei CPT, nelle questure o per strada. Quello che emerge è un affresco preciso, una sorta di inchiesta giornalistica, iniettata dell’anima della poesia, sulla condizione clandestina oggi in Italia. A parlare sono direttamente gli
Uno dei problemi più grandi della poesia è sempre stato (e sempre sarà) quello di coinvolgere, attirare, dialogare con, o creare, un pubblico (...). Credo che l’obiettivo principale della poesia civile debba essere quello di dimostrare che la letteratura non parli solo di sé stessa, come invece troppo spesso si crede.
«La rivoluzione sociale o sarà morale, o non sarà affatto» Charles Péguy
immigrati stessi, come gli operai di Franzin. Anche in questa raccolta, poi, è possibile riscontrare un ipotesto (più o meno esplicito), cioè un modello letterario della grande tradizione: se Fabrica proponeva, infatti, un inferno dantesco attualizzato, L’opposta riva sembra proporre una moderna Odissea, con la differenza che le avversità non terminano una volta giunti alla terraferma, anzi, spesso (se va bene), vanno a confluire nell’inferno raccontato da Franzin. Si può dunque individuare una caratteristica che accomuna alcuni autori della “Nuova poesia civile”, oltre ai temi aderenti alla realtà sociale: l’io lirico non è più centro e motore della composizione. In pratica, il soggetto si fa da parte per lasciare spazio all’oggetto, che però non è un oggetto vero e proprio, come nella poetica di Gozzano e Montale, bensì (e non è cosa da poco) una persona, anzi una serie di persone, una sorta di umanità “non ufficiale”. Possono essere citati ancora due autori. Piero Simon Ostan è nato a Portogruaro nel 1979 dove vive e insegna Lettere alle scuole medie; è quindi legato al territorio veneto e alla sua parlata da un lato, e al difficile compito di insegnare qualcosa alle nuove generazioni dentro la tanto bistrattata istruzione pubblica dall’altro. Il suo ultimo libro si intitola, appunto, Pieghevole per pendolare precario (La luna, 2011) e cerca di trovare la vera poesia nel vasto materiale impoetico della piccola e
banale realtà quotidiana, anche attraverso l’appoggio al calco dialettale o all’autentica espressione gergale. Gli impianti del dovere e della guerra (2010) di Antonio Riccardi ci riporta, invece, al tema della fabbrica e degli operai. Nato a Parma nel 1962, Riccardi vive a Sesto San Giovanni, città portata recentemente alle cronache da alcuni scandali giudiziari, ma un tempo nota come “la Stalingrado d’Italia”. Occupa un ruolo importante come editor per la Mondadori, il suo impegno percorre dunque il doppio binario della programmazione e diffusione culturale da un lato e della ricerca poetica dall’altro. Anche Gli impianti del dovere e della guerra, da un punto di vista “geografico” è bipartito: da un lato la campagna di Cattabiano e dall’altro le fabbriche di Sesto, descritte come «la bolgia dei vivi». Ritorna quindi, nella poesia più recente, l’immagine infernale attribuita alla fabbrica, come già avveniva negli anni ‘50 e ‘60. Si può allora concludere che nel panorama poetico italiano non manca, come si è cercato di dimostrare, chi sappia dare voce all’indignazione e alla rabbia per le discriminazioni e i disagi sociali e cerchi allo stesso tempo di riavvicinare il pubblico alla poesia. Ora sta alla critica, alle accademie e ai lettori, cioè a chi detiene “il potere” (culturalmente parlando), impedire che il grido di allarme e di attenzione venga soffocato o costretto a cercare altre orecchie fuori dall’Italia.
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INTERVISTA A MATTEO FANTUZZI
a cura di Tommaso De Beni
Lo stato di salute della poesia italiana, tra impegno e pubblico
ConAltriMezzi incontra Matteo Fantuzzi, poeta e curatore per la casa editrice Ladolfi dell’antologia La generazione entrante. Poeti nati negli anni ‘80. Nato nel 1979 a Castel San Pietro Terme (BO), ha pubblicato e collaborato su diverse riviste, tra cui Nuovi argomenti e Atelier. Una sua recente raccolta poetica è Kobarid, del 2008. Personalmente trovo che l’atto stesso del fare poesia, soprattutto ai nostri giorni, assuma un significato in un certo senso politico. Credere in essa, non solo scrivendola e cercando di pubblicarla, ma soprattutto parlandone e divulgandola, penso sia una forma di forte impegno e una scelta di campo che indipendentemente dai temi pone già il poeta o il critico in una posizione “militante”. Tu che ne pensi? In Italia non è stato così negli ultimi decenni, o almeno non è stata questa la componente predominante nella poesia. Ancora oggi assistiamo a una forte spinta alla pubblicazione senza un reale interesse per i fruitori: è una tendenza tipicamente italiana; sviluppatasi soprattutto negli ultimi trent’anni del Novecento e che ancora non riusciamo a toglierci di dosso. Chiaramente esistono dei fenomeni virtuosi, anche molto importanti dal punto di vista delle opere: è da questi, a mio avviso, che dobbiamo ripartire. Già negli ultimi dieci anni mi sembra che la controtendenza sia stata evidente, le problematiche sono vive e quotidianamente c’è chi lavora in tal senso con la scrittura, mirando anche a una sorta di “alfabetizzazione” del pubblico della poesia: questa è a tutti gli effetti una visione politica non solo della poesia, ma della cultura in generale. Speriamo di riportare anche in Italia quello che è assolutamente normale all’estero. Nella poesia c’è però un problema forte che riguarda il rapporto difficilmente scindibile tra forma e contenuto. L’ag-
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gettivo “lirico” pone già di per sé l’accento sulla musicalità delle parole e sull’intimità dei temi trattati. Penso che in un romanzo di trecento pagine sia più difficile parlare solo di sé stessi ignorando la realtà sociale, rispetto al testo poetico. Rinunciando alla musicalità e al lirismo, non si rischia di far sì che la gente si chieda se questa è ancora poesia? Bisogna chiederlo agli anglosassoni, che il problema lo hanno superato da tempo. Il grande Novecento che abbiamo avuto, l’esplosione della lirica di Montale, Sereni, Caproni, Luzi ecc... non deve essere visto come un obbligo di frequentare sempre gli stessi percorsi. Il percorso, anzi, non dovrebbe essere considerato nemmeno vincolante, la forma – altra questione prettamente italiana – non deve prevaricare quello che più dovrebbe interessare, ovvero la sostanza. E questo è un problema che non vale solo per i nuovi lirici, per i “lombardi” delle ultime generazioni, ma anche per chi dietro ad esplosioni del linguaggio nasconde poetiche debolissime che per potersi reggere hanno bisogno di lunghissime prosopopee, esercizi di sopravvivenza che occupano spazi che potrebbero essere “spesi” meglio. È in quel caso che la gente finisce per chiedersi se si trova ancora di fronte alla poesia: un testo capace di avere strutture precise non preoccupa nessuno anche all’interno di dinamiche maggiormente prosastiche. In un articolo collettivo apparso su Nazione Indiana (Pubblico e poeti: una svolta civile?), nel quale è presente un tuo intervento, si parlava della necessità di un’epica italiana anche per la poesia. Il critico Paolo Zublena ha posto più volte l’accento sulla mancanza di una credibile e cospicua linea narrativa e dialogica all’interno della poesia italiana del secondo Novecento. Pensi dunque che la svolta civile nella poesia italiana contemporanea debba necessariamente corrispondere a una rivoluzione
«I rivoluzionari sono più formalisti dei conservatori» Italo Calvino
formale nell’ottica del poemetto, del verso lungo e della forma dialogica? Non per forza: ci sono esempi come Gianni D’Elia che vanno in tutt’altra direzione, ma addirittura l’ultimo Luzi e l’ultimo Raboni, certamente lontani da quel modo di intendere la poesia: è chiaro che in questi casi sono stati gli eventi a modificare le cose e la svolta civile è corrisposta più a un moto di indignazione che a una precisa volontà di costruzione dell’opera. La questione posta da Zublena si dovrebbe considerare come una questione “storica”, perché il secondo Novecento è già finito da oltre dieci anni (forse col postmoderno è terminato addirittura prima), ed è un po’ come volere considerare una scienza con le conoscenze di dieci anni fa. Se nel mondo scientifico un decennio è considerato un’enormità, potremmo forse estendere la stessa considerazione alla poesia; purtroppo ci troviamo in un sistema in cui un “giovane autore” ha cinquant’anni. Restando sulla metafora scientifica, abbiamo bisogno di più cure, e non di più dottori: e la cura sono le opere. Che spazio può avere oggi la poesia nel gran calderone di opere pubblicate e nel grande circolo delle case editrici, considerato il fatto che la gente si aspetta una critica sociale soprattutto dai romanzi o da libri come La casta? Non vorrei fare la fine del contadino di Poggio Versezio di Raimondo Vianello, non vorrei cioè che la gente si “rincoglionisse” a forza di vedersi offrire solo e soltanto ciò che qualcuno crede che essa voglia. Lo dico anche dal punto di vista delle case editrici che hanno il dovere, soprattutto per quanto riguarda la poesia, di pubblicare buoni libri, al di là delle tematiche trattate, perché un libro con tematiche importanti ma scritto in maniera imbarazzante... è semplicemente un libro imbarazzante. Non so chi e come potrebbe trattare in poesia gli stessi temi affrontati dalle inchieste giornalistiche (casta, precariato, politica, ecc...). Penso però che riuscire a parlare di politica anche nelle poesie, se fatto in maniera intelligente, potrebbe essere molto interessante. E sicuramente se ne ricaverebbe un’opera più commerciale. Quanto è importante il ruolo della scuola e dell’università nella divulgazione della poesia? Quanto importa, dall’altro lato, che si formi un pubblico di “non addetti ai lavori”? Il mondo delle università dovrebbe in partenza essere formato e dovrebbe essere il maggiore responsabile della divulga-
Da diversi anni la sfida è la seguente: se due milioni di persone scrivono poesia e solo duemila la leggono, ecco che tutto l’enorme margine del nostro lavoro è già impostato. Occorre invertire la tendenza: non più circoli per pochi eletti, ma una condivisione comune.
zione. Mi sembra illogico che studiosi ai massimi livelli per le patrie lettere non conoscano l’abbicì della nostra poesia. Diverso è il discorso per quanto riguarda il pubblico, chi potrebbe ora avvicinarsi alla poesia, e da diversi anni la sfida è la seguente: se due milioni di persone scrivono poesia e solo duemila la leggono, ecco che tutto l’enorme margine del nostro lavoro è già impostato. Occorre invertire la tendenza: non più circoli per pochi eletti, ma una condivisione comune. Da un punto di vista contenutistico, un grande tema restituito all’attenzione del pubblico, quarant’anni dopo Visita in fabbrica di Sereni, è quello degli operai. In Fabrica, Franzin pone però implicitamente anche la questione degli immigrati. Che spazio possono avere i cosiddetti “nuovi italiani”, sia come autori sia come pubblico, nel panorama poetico contemporaneo? I nuovi italiani sono lettori e poeti come tutti gli altri, non bisogna caricarli di particolari aspettative o considerarli persone “svantaggiate”. Quali sono le soluzioni più opportune per riavvicinare il pubblico? Reading, blog letterari, festival, programmi televisivi? Può andare bene qualsiasi forma di fiducia, anche se è chiaro che in questo predomina una certa idea “piccola” di poesia come cosa non accessibile alle masse; servirebbe a poco riempire gli stadi e poi andare a casa come se nulla fosse. Ben vengano reading e festival per coinvolgere un centinaio di persone alla volta: bisognerebbe intessere una rete che abbracci quartieri e città in ogni comune italiano. Un rapporto di fiducia, insomma, in cui qualcuno porta, consegna – donandola – la poesia, che viene vissuta come un regalo utile, non un oggettino di porcellana da mettere in salotto. Voi parlate in maniera abbastanza dura dell’ambiente letterario. Addirittura vengono usati i termini “pedofilia” e “puttanesimo”. Puoi spiegarci meglio? Non sono termini che mi appartengono, andrebbero commentati da chi ne è l’autore, anche se l’articolo che hai citato è firmato da quattro persone. Comunque l’ambiente letterario è stato bene fotografato da Paolo di Stefano lo scorso 19 luglio sul Corriere della Sera. Credo sia ancora impressa un’idea
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sbagliatissima di vendita all’interno delle patrie lettere: quando non si hanno buoni testi da offrire per andare avanti, per avere la propria piccola celebrità si finisce per vendere il corpo, a volte l’anima. Il discorso “pedo” è invece da avvicinare a una certa morbosità nei confronti delle ultimissime generazioni, quella voglia di nuovo per fare “sopravvivere” il vecchio che si è visto in alcune recenti antologizzazioni. Spero che il mio lavoro La generazione entrante, uscito per Ladolfi nel 2011, possa dimostrare che è possibile un approccio differente volto a fare crescere gli autori anziché a bruciarli per lasciare tutto inalterato come in una sorta di eterno Gattopardo. Il tempo dirà se la direzione verso la quale è volto questo lavoro è giusta oppure o no.
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«Se odiamo qualcuno, è perché nella sua effige odiamo qualcosa che è in noi. Quello che non è in noi non riesce ad eccitarci» Hermann Hesse
IL SOGGETTO IRRITABILE
di Tommaso De Beni
Una lettura critica dei romanzi di Paolo Volponi attraverso il tema della rabbia La critica ha spesso sottolineato la presenza, nei romanzi di Volponi, della figura del folle e del diverso, cui è affidata una precisa funzione: Al fondo della poetica di Volponi si colloca una percezione irriducibilmente lirica, ovvero altra, della realtà che troverà la propria figurazione esemplare nell’immagine del folle, nella sua ottica deformante e visionaria. Il nevrotico diviene[...] un ribelle al quale la stessa nevrosi dà una capacità di interpretazione della realtà più acuta e rivelatrice. L’oltranza della follia, diviene strumento di conoscenza: diviene la specola, la ferita-feritoia dalla quale inquadrare la violenza della normalità istituita. (Guido Santato, Il linguaggio di Volponi tra poesia e romanzo, in «Paragone-Letteratura», n.442, 1986, pag. 12-13) La follia in Volponi non è fine a se stessa e si manifesta quasi sempre come una reazione virulenta, attraverso i vari stati di quella che in psicanalisi si definiva “isteria”, che non è solo malattia o sfogo, è la conseguenza di una razionale ricerca di un rapporto tra l’individuo e la società, ma l’io sociale è sempre un io ferito. È stato infatti spesso evidenziato il risvolto polemico nei confronti della società nelle opere di Volponi, individuando contemporaneamente il carattere visionario, allucinatorio del suo modo di guardare il mondo, supportato non di rado da personaggi nevrotici o folli: il linguaggio “lirico” ha allora il doppio compito [...] di esprimere l’ottica deviante di costoro, vittime della società, e di porre un’esigenza di alterità “utopistica” rispetto al mondo stesso di oggi, nelle sue forme neocapitalistiche. (Mengaldo Storia della lingua italiana. Il novecento, Bologna , il Mulino, 1994, pag. 180 e 356)
Il lanciatore di giavellotto, del 1981, è forse un romanzo in cui la follia è più “individuale” e meno “sociale”, derivata da un rapporto morboso del giovane protagonista con la madre bellissima e fedifraga e dalla difficoltà a rapportarsi con le donne, che lo porta a coltivare una violenza repressa, che l’esercizio fisico non basta a sedare, fino al doppio gesto estremo finale. Il suicidio però non è sempre un segno di sconfitta, ma spesso, come in età romantica, è concepito come un’offesa e un affronto al mondo. Nelle opere di Volponi l’annullamento dell’io è una costante (Saluggia, Crocioni, Aspri, Possanza e Saraccini sono dei perdenti, sconfitti e annichiliti dalla società e dalle persone) anche se solo due volte nei romanzi e una nei racconti il protagonista ricorre al suicidio. Marco Vianello nel suo saggio Volponi e il tema del suicidio, apparso nel 2003 sulla rivista «Studi Novecenteschi», confronta i protagonisti di La macchina mondiale, Il lanciatore di giavellotto e Talete, sostenendo che non si può parlare di follia: si tratta invece di una lotta interna alla ragione e di una reazione alla folle “ragione strumentale” della società neocapitalistica: compresenti sono i due elementi che determinano la ‘stranezza’ dei personaggi volponiani e, alla fine, le cause ultime del suicidio, ‘soggettivo’ e ‘oggettivo’: l’irregolarità soggettiva dei personaggi da una parte, dall’altra la società che esclude e respinge l’uomo. È ancora, anche se il problema è ora posto in altri termini, il tentativo dei romantici di comunicare con l’autrui, solo che Volponi sembra mettere l’accento accusatorio soprattutto su quest’ultimo, nel mondo borghese e industrializzato. (pag. 73-74) Una follia non più soggettiva è invece rappresentata in due romanzi “apocalittici”: Il pianeta irritabile, del 1978, e Le mosche del capitale, del 1989. Il primo è proiettato in un futuro lontano
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I romanzi di Volponi dimostrano in maniera esemplare come rabbia, furore, collera, invidia, violenza, disperazione, dolore, follia, ideologia, disagio fisico, repressione sessuale ed esclusione sociale tendano spesso a fondersi e confondersi.
che però non esita ad alludere a fenomeni degli anni ‘70 e si configura come un ritorno ad un passato primitivo e primordiale, in cui la violenza fa parte della logica della sopravvivenza. In questa grande allegoria ad arrabbiarsi è il pianeta stesso con la sua natura e i suoi animali, che si sbarazzano dell’ingombrante e nociva presenza umana. Le mosche del capitale invece è un romanzo che ebbe una lunga gestazione, proprio perché Volponi cercò di renderlo il più possibile oggettivo, essendo stato pensato e scritto in seguito a una forte rabbia e delusione personale. È praticamente una lunghissima invettiva contro l’industria e il capitalismo italiani, la follia è collettivizzata e l’individuo è ormai perso nella massa, una massa postmoderna; la rabbia si trasfigura in immagini apocalittiche e grottesche che riflettono profonda amarezza e critica sociale. Si è fin qui parlato molto di follia, non perché si intenda svolgere un’approfondita analisi psicopatologica dei personaggi volponiani (a questo proposito si può infatti rimandare al saggio di Valerio Cuccaroni La follia nella narrativa italiana (1960-1980): i romanzi di Paolo Volponi fra scrittura della nevrosi e sperimentazione), ma perché effettivamente il pensiero comune tende spesso a classificare la violenza, considerandola follia quando non è direttamente collegabile a motivazioni ideologiche. In verità non è così semplice distinguere tra i due casi, e i romanzi di Volponi dimostrano in maniera esemplare come rabbia, furore, collera, invidia, violenza, disperazione, dolore, follia, ideologia, disagio fisico, repressione sessuale ed esclusione sociale tendano spesso a fondersi e confondersi. In particolare, il romanzo d’esordio, Memoriale, del 1962, e il romanzo per molti aspetti centrale e cruciale della produzione volponiana, cioè Corporale, del 1974, possono fornirci alcuni esempi importanti1. Il protagonista di Memoriale, Albino Saluggia, è un operaio che decide di scrivere una sorta di resoconto della sua esperienza, nella convinzione di essere stato ingiustamente perseguitato ed espulso dalla fabbrica e nella speranza di usare la scrittura della verità come un’arma e un’accusa. Il lettore ha quindi di fronte direttamente la voce del protagonista, senza mediazioni, in modo da avere forte e chiara la sensazione di J’accuse nei confronti della fabbrica. Il senso di ingiustizia e la voglia di riscatto umano e sociale sono dunque alla base della rabbia del protagonista. Ci sono però alcuni indizi che portano il lettore a sospettare della sua sanità mentale. Innan-
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«La violenza è la retorica della nostra epoca» José Ortega y Gasset
zitutto, l’esperienza dello sradicamento e della prematura recisione del cordone ombelicale di Saluggia rispetto alla sua terra d’origine, cioè Avignone e, poi, al suo caro paesaggio di Candia, durante la guerra. La morte prematura del padre, il difficile rapporto con la madre, la diagnosi della tubercolosi, l’esperienza quasi forzata in sanatorio e la difficoltà di un uomo abituato alla vita da contadino ad adattarsi alla vita moderna della città industriale sono tutti elementi che potrebbero aver contribuito a minare la sua psiche: diventavo sempre più irascibile, di umore cattivo e così aspro tanto che nemmeno i miei mali lo condizionavano più. […] Prendevo spesso a calci la cassetta dei pezzi rovesciandola e la cascata rumorosa del metallo era come un avvio, un incentivo a distruggere, a fare ancora cose più sconvenienti; così rompevo tutto quello che potevo, dalla catena dei gabinetti alle maniglie, ai bicchieri degli spogliatoi. Rispondevo male ai miei compagni e se appena lo avessi potuto gli avrei picchiati.(Romanzi e prose, vol. I, pag.130-131) In questo passaggio Albino sostiene che “i suoi mali”, cioè la tosse e i dolori al petto che secondo i medici sono sintomi della tubercolosi, non sono la causa della voglia di distruggere tutto. Qualcos’altro, forse a livello inconscio, agisce dunque sulla sua mente; in certi casi è una sorta di moralismo, unito a una poco velata misoginia, come nel caso del «pestone» rifilato a una donna che ha una relazione con il suo amico Gualatrone, «sui piedi nudi nei sandalini» (pag. 130). Il fatto che si sottolinei la nudità dei piedi (in altre parti Saluggia sostiene di essere infastidito dai vestiti estivi delle donne anche in settembre e dai grembiuli slacciati delle operaie) indica un certo disagio nei confronti della sessualità, causato forse da un lato dall’asfissiante presenza di una madre troppo apprensiva e dall’altro dalla rigida educazione cattolica. Quest’ultima del resto, soprattutto dentro una fabbrica, non fa che aumentare lo scollamento del protagonista rispetto all’avanzare dei tempi. Il timore di perdere il lavoro che assale Saluggia quando i medici lo dichiarano tubercoloso non impedisce alla sua rabbia di concretizzarsi e di manifestarsi sotto forma di aggressione ad un compagno di reparto: Finché un giorno, poco dopo arrivati in quel reparto del montaggio, allungò le sue mani sporche verso di me, come se volesse pizzicarmi o accarezzarmi, bofonchiando qualcosa tra la saliva. Mi vinse soprattutto la repugnanza della sua bocca e lo colpii con un pugno ancora pieno dei pezzi da montare. (pag. 144-145) La sospensione dal lavoro è un’occasione per riposarsi e riflettere, ma non sembra che ciò basti a placare Saluggia. Le poesie che egli scrive in sanatorio mostrano come il ritmo di lavoro forsennato imposto dal cottimo influisca anche sui suoi pensieri, in cui le parole si susseguono con frequenza ossessiva concatenandosi attraverso le rime. Un episodio di violenza primordiale insita nella natura acuisce inoltre, come avviene nei romanzi e nelle novelle di Tozzi, il suo senso di disagio e smarrimento: A un tratto, vidi un guizzo rapido in un canale: avevo sorpreso un luccio grosso come un braccio d’uomo che aveva azzannato un altro pesce. Il luccio era fermo un attimo per finire la sua preda; lo vedevo quasi emergere dalla sua superficie. Il suo occhio era dritto nel mio ed era l’occhio di un assassino sorpreso, che non ritira il coltello. Prima di fuggire doveva inghiottire l’altra creatura, della quale in quell’attimo rimasero appena le scosse dell’acqua. Per un altro attimo il luccio ri-
mase fermo, con il suo occhio nel mio, con la sua bocca dentata che respirava aperta per la fatica. La scena mi spaventò e quell’ambiente e quel cielo pallido e lontano, nel quale non si poteva leggere né scrivere niente, mi dichiararono più solo e spaventato. (Pag. 188) Saluggia patisce la lontananza dal mondo contadino e mostra di non sapersi adattare ai mutamenti storici e sociali. Verso la fine del romanzo la sua situazione di operaio, che è già di per sé una situazione da subalterno rispetto all’organigramma sociale, viene ulteriormente degradata dal nuovo incarico di piantone all’esterno della fabbrica: Così spesso avrei voluto urlare contro gli operai che deridevano la grande fortuna di essere dentro, uniti, con un lavoro. Un giorno ne sentii tre che camminavano ancora più adagio del solito nella pausa rubata tra una porta e l’altra; parlavano di scioperare. Io ero in cima al mio paletto, nel sole, a sedere come una sentinella indiana. […] Il risentimento che provavo e quella fortezza della fabbrica mi diedero l’idea di un assalto. Una sortita avrebbe dovuto venire dalla fabbrica ed io avrei dovuto respingerla dal mio posto con una mitragliatrice. […] Io impugnavo la mitragliatrice. Eccone due alle porte. Facevo fuoco. Le mie labbra misuravano la mitraglia. […] Sparavo su interi gruppi che cercavano di ripararsi in tutti i modi. Lo spiazzo davanti alle porte era sempre pulito perché il sole divorava i morti man mano che cadevano sotto la mia mitraglia. Uccidevo tutti quelli che tentavano di uscire e la mia ansia era implacabile come quella del sole che divorava tutti i cadaveri. (pag. 225-226) Incapace di individuare la vera origine del suo disagio e di porvi rimedio, ed escluso (anche per colpa sua) dalla lotta sindacale e di classe, l’operaio Albino Saluggia compie la sua vendetta e sfoga la sua rabbia solo in un delirio visionario che mescola immagini bibliche da giorno del giudizio a ricordi personali del trauma della guerra. In questo romanzo la rabbia non riesce a trasformarsi in impegno sociale e sfiora la follia, ma è chiaro comunque il suo stretto rapporto con le condizioni del lavoro in fabbrica. NOTE: 1. Restano fuori Il sipario ducale, del 1975, e due romanzi pubblicati molti anni dopo la loro stesura, uno addirittura postumo, cioè La strada per Roma e La zattera di sale. In questa sede si è preferito tralasciarli non perché non siano legati al tema della follia, ma perché meriterebbero un discorso a parte e diversificato rispetto a quello che vuole essere un percorso tematico sulla rabbia come violenza o come indignazione e protesta.
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ALTRE ARTI 46 49 52 55
Voina, l’arte della guerra Ribellione e disperazione La chiamano tempesta Troppo invischiato nei vostri sfaceli
VOINA, L’ARTE DELLA GUERRA
di Alberto Bullado
Oltraggio, sabotaggio, vandalismo: arditismo militante tra avanguardia e rivoluzione 14 giugno 2010 è il compleanno del Che Guevara. Un cazzo di 65 metri si erge di fronte al quartier generale dell’FSB, l’ex KGB. I servizi segreti russi hanno potuto ammirare la più grande erezione della loro vita sovrastare i tetti di San Pietroburgo, una volta che il ponte mobile di Liteiny si è levato verso il cielo. Sono bastati 23 secondi di tempo libero e 66 litri di vernice per realizzare una delle più riuscite opere di defacing, sfregio artistico-provocatorio ad infrastrutture pubbliche, che passerà alla storia come “Il cazzo catturato dall’FSB”. 15 novembre 2010, ore sette di mattina. Agenti del reparto E, corpi scelti dell’antiterrorismo, irrompono in un appartamento e arrestano Oleg Vorotnikov e Leonid Nikolaev, rispettivamente fondatore e presidente di un collettivo di artisti anarchici, più alcuni altri militanti. Gli agenti del corpo speciale li incappucciano con buste di plastica e li caricano su un furgone. Al governo non solo non deve essere andata giù la faccenda del pene gigante ma anche quella delle sette volanti della polizia ribaltate due mesi prima davanti al castello Mikhajlovskij sempre a San Pietroburgo, nome dell’operazione: “Rivoluzione di Palazzo”, un atto dimostrativo contro la polizia corrotta e che rilancia la riorganizzazione del Ministero degli Interni. Era il 15 settembre, nella tradizione biblica il Giorno del Giudizio: «i poliziotti devono inginocchiarsi e supplicare noi, lavoratori dell’arte, per il perdono. La punizione di Dio sta per arrivare. Sbirri, pentitevi per i vostri peccati!», un estratto del comunicato di rivendicazione pubblicato nel blog di Alexei Plutser-Sarno, l’ideologo del gruppo. In Russia la prigione non è esattamente una passeggiata di salute, soprattutto per chi viene ritenuto un nemico dello stato. Soprattutto se quel nemico si è preso gioco della polizia. «Nel mondo artistico la detenzione di un artista è un evento» dice Oleg Vorotnikov. «Noi possiamo dire che la consideriamo un prolungamento delle nostre azioni e della nostra battaglia per la libertà». In
ogni caso a salvare i militanti dalle sbarre è Banksy, proprio lui, l’anonima superstar della Street Art. È bastato vendere i diritti d’autore di una delle sue opere, “Choose your weapon”, per pagare la cauzione di 127mila dollari. A questo punto il progetto Voina cattura l’interesse dei media internazionali. Voina in russo significa guerra, proprio perché i membri del collettivo non ritengono l’arte roba per fighetti. Perché la Russia è la Russia e perché l’arte se è di strada non può cibarsi di vernissage e biennali, e se è militanza non può essere roba per gallerie d’arte o salotti borghesi. Questa è la filosofia degli anarco-artisti di Voina. E allora via con le performance estre-
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Ciò che motiva le azioni dei suoi membri è un’attitudine oltraggiosa, uno spirito insolente, una rabbia creativa che intende spingersi sempre più in là (...). La regola principale di Voina è proprio questa: ogni azione deve essere sempre più grande ed eclatante della precedente.
me, tra la provocazione e il reato, difficili da catalogare. Al progetto Voina sta effettivamente stretta qualsiasi etichetta. Street art gang? Prank-art crew? Troppo poco. Ciò che motiva le azioni dei suoi membri è un’attitudine oltraggiosa, uno spirito insolente, una rabbia creativa che intende spingersi sempre più in là, infrangendo qualsiasi limite, alla ricerca di bersagli ed avversari sempre maggiori. La regola principale di Voina è proprio questa: ogni azione deve essere sempre più grande ed eclatante della precedente. Il collettivo dopo anni di attività criminal-avventurose, conta ora circa duecento membri guidati da un nucleo ideologico di tredici persone. Nasce nel febbraio 2007, per iniziativa di alcuni studenti di filosofia, con la commemorazione funebre in metropolitana dell’artista poliedrico Dmitri Prigov, rinchiuso dal KGB in un manicomio nel 1986 perché sorpreso a distribuire poesie scritte di suo pugno per strada. Di lì in avanti le azioni di Voina assumeranno sempre più le dimensioni di una guerriglia nei confronti della Russia post-sovietica, quella degli zhlob al potere, dell’omologazione reazionaria, della corruzione politica, dell’autoritarismo putiniano, del fanatismo ortodosso e della soppressione del malcontento. Una Russia dove i dissidenti
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politici spariscono e i giornalisti finiscono ammazzati, una Russia liberticida e guerrafondaia preda di un filisteismo culturale e statale violento e fascista. Durante la notte tra il 6 e il 7 novembre 2008, anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, sulla facciata della Bely Dom, la Casa Bianca russa, sede del governo, compare un teschio con le ossa incrociate. È il Jolly Roger, simbolo anarchico, proiettato sul palazzo del potere di Grande Madre Russia. «La Casa Bianca è la tela perfetta per un artista. Il teschio e le ossa sulla Casa Bianca sono l’avvertimento al governo che l’anarchia è la reazione inevitabile ad una politica xenofoba e genocida», ancora una volta le parole di Plutser-Sarno dal suo blog. Le azioni radical-schock proseguono tra teppismi e performance eclatanti. 29 maggio 2009, Mosca. Nel tribunale di Tagansky i curatori d’arte Andrei Yerofeev e Yuri Samodurov sono processati per aver organizzato l’esposizione “Arte Proibita” al museo Sakharov nella capitale. I soldati di Voina si introducono nella sala d’udienza improvvisando un concerto punk sulle note di A.C.A.B, All Cops Are Bastards. Nome dell’operazione: “Cazzo in culo”. L’anno precedente, due giorni prima delle elezioni, i membri del collettivo inscenano un’orgia dentro il Museo di Biologia di Mosca. Nome dell’operazione: “Scopa per il successore-l’Orsacchiotto”, ovvero Dmitri Medvedev, il delfino di Vladimir Putin (in russo il gioco di parole è evidente: Medvejonok). 3 luglio 2008, un attivista travestito da prete-poliziotto entra in un supermercato, riempie cinque borse di merce andandosene senza pagare e senza che nessuno abbia avuto il coraggio di muovere un dito. Il significato dell’azione è presto detto: un attacco diretto all’impunità delle autorità russe. I supermercati divengono lo scenario prediletto per le azioni del collettivo. Il 7 settembre dello stesso anno alcuni cittadini russi rischiano l’infarto nel trovarsi cinque uomini impiccati tra le corsie di un supermarket di Mosca. L’effetto è estremamente realistico, si tratta infatti di esseri umani veri (altro che manichini di Cattelan): due omosessuali, un attivista per i diritti gay e due operai di razza centroasiatica. L’azione, che vuole essere un’aspra critica contro le politiche omofobe e razziste del sindaco Luzhkov, prende il nome di “La Commemorazione Decabrista”, in onore dei cinque rivoluzionari impiccati per volere dello zar Nicola I in seguito a un’insurrezione armata del 1826. 20 luglio 2010, San Pietroburgo. Gli attivisti di Voina entrano ancora una volta in un supermercato, oscurano il sistema di sorveglianza interno mentre una militante riesce ad infilarsi un pollo nella vagina prima di uscire indisturbata. La rivendicazione online accompagna il video dell’azione: «Nell’antica Russia la parola “puttana” significava “menzogna” e “imbroglio”. Oggi in Russia ci sono milioni di “puttane” di ambo i sessi che hanno perso i loro principi morali ed etici, che imbrogliano e si uccidono tra di loro. Voina fotterà simbolicamente i russi doppiogiochisti e le loro prostitute del Cremlino!». Seguono altre azioni, blitz ed azioni terroristiche volte a disturbare la quiete comune, dai baci strappati alle poliziotte ai gatti vivi lanciati dentro i fast food. In internet cominciano a circolare leggende sul conto di Voina e per le strade qualcuno replica le performance del collettivo per spirito di emulazione, mentre i leader del gruppo sono costretti ad una vita di clandestinità, tra mandati di cattura internazionali e sequestri di passaporto. In Occidente il dibattito è aperto: geni o teppisti? Niente di tutto questo, gli stessi militanti del collettivo si autodefiniscono patrioti: «si può essere un patriota avversando completamente le logiche statali. Il Paese e lo Stato sono due concetti diversi, da non confondere tra loro» le parole di Oleg Vorotnikov. «Una persona intelligente non può definirsi un “patriota dello Stato”. Lo Stato, infatti, è un’istituzione che veicola
«Cittadini, vorreste una rivoluzione senza rivoluzione?» Maximilien de Robespierre
un tipo di violenza legalizzata: non può piacere. Noi siamo dei patrioti a tutti gli effetti». 31 dicembre 2011, è quasi mezzanotte alla stazione di polizia n. 71 a San Pietroburgo. Gli attivisti del collettivo Voina scavalcano la recinzione ed incendiano con delle molotov una camionetta per il trasporto dei detenuti. Nome dell’operazione: “Autodafé, o fottendo Prometeo”. Dal comunicato di Pluster-Sarno: «Distruggiamo tutte le prigioni! Libertà per tutti i prigionieri politici! I poliziotti non ci fottono – siamo noi a fotterli! Buon anno, compagni!». Questa l’ultima azione del collettivo. L’arte diviene reato e in un paese illegale tutto ciò si tramuta in una monumentale rivendicazione di libertà: sovversione ed anarchia come atti patriottici o bravate dimostrative fini a se stesse? L’impressione è che l’atto politico semplice e diretto abbia in questo caso prevalso sull’anima artistica che finora aveva coinvolto l’irriverente creatività del gesto. Gli attivisti di Voina hanno semplicemente demolito un simbolo delle autorità e della repressione con il fuoco. Del resto le premesse c’erano tutte: qui si fa sul serio, costi quel che costi, ogni atto doveva essere più grande e ardito del precedente. Per queste ed altre ragioni la domanda che ora un
po’ tutti si pongono è la seguente: a cosa potrà mai portare una simile escalation? Forse a nulla di buono, proprio perché la posta in gioco è alta, la Russa è la Russia e poi questa è Voina, la guerra. Ma i militanti del collettivo non sembrano preoccuparsene: «Come ci vediamo tra dieci anni? Non sono sicuro di vivere così a lungo» dice Oleg Vorotnikov «il cammino degli attivisti russi è tragico». È vero, c’è il rischio che il regime possa soffocarli, tuttavia «dieci anni non sono niente. Noi apparteniamo alla storia». Il 10 dicembre 2011 quasi centomila persone avevano manifestato all’indomani delle elezioni contro il governo Putin. Si era trattata della più grande manifestazione civile dalla caduta dell’Unione Sovietica.
Fonti: www.free-voina.org www.vice.com www.laprivatarepubblica.com www.cafebabel.it
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RIBELLIONE E DISPERAZIONE
di Paolo Radin
Da una convinta e fiduciosa rabbia sociale ad una lucida melancolia. Un viaggio nella filmografia di Lars Von Trier dal 1995 al 2011 Da una convinta e fiduciosa rabbia sociale ad una lucida melancolia. In questi ultimi quindici anni il percorso filmico di Von Trier si è snodato entro questi due estremi in un progressivo incupirsi delle prospettive che ha visto sostituirsi alla fede in una coraggiosa rivolta contro il sistema, atta a restituire l’uomo a se stesso, una lucida e sconfortata consapevolezza della malignità dell’uomo. Due sono i punti di partenza della sua riflessione che fanno da filo rosso tra i suoi film dal 1995 al 2011: l’assunto che l’essenza profonda dell’esistere siano caos, contraddizione e irrazionalità e l’idea che l’umanità sia soffocata dalle sovrastrutture e convenzioni sociali che essa stessa ha creato. Ciò che cambia è la prospettiva scelta da Von Trier nell’indagare questi principi e, conseguentemente, le conclusioni tratte. Nei film più legati al manifesto di Dogma ‘95 (“Le onde del destino”, 1996 e “Idioti”, 1998) le strutture sociali, le convenzioni, sono percepite come un tentativo di razionalizzare la realtà. Diventano quindi espressione di una non-accettazione dell’essenza caotica e contraddittoria dell’esistere, in quanto costruite sulla pia illusione di riuscire a controllare ed inquadrare all’interno di schemi un qualcosa che non accetta regole né tantomeno rigide strutture. In una prospettiva non molto dissimile da quella presentata da T. Malick, l’umanità di “Idioti” e “Le onde del destino” è un’umanità alienata che ha perso se stessa. Un universo di anime ingabbiate e castrate, incapaci di vivere appieno la propria vita e la propria identità, figure perse e smarrite, scollate e dimentiche della loro essenza più vera e profonda sepolta sotto una miriade di assurdi schemi e regole. Ne “Le onde del destino” il modo in cui è vissuta la religiosità spiega alla perfezione questa idea. Religione, quando è un insieme di insensati principi, è sinonimo di dolore e sofferenza, perché darà vita ad una frattura nell’uomo, sospeso tra quello che
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dovrebbe fare, per rispettare tali regole, e quello che vorrebbe fare rispettando i propri sentimenti, il proprio io. Se invece religione riesce ad essere espressione di una fede profonda, un’intima adesione ad un principio d’amore svincolato da regole esterne, allora è sinonimo di quel principio salvifico in grado di cambiare le carte in tavola e compiere il tanto atteso miracolo. Per riuscire a riappropriarsi di se stessi è necessario rompere queste convenzioni, distruggere, far saltare gli schemi. Come farlo? Von Trier fornisce la soluzione nel film successivo a “Le onde del destino”, “Idioti”. Gli idioti sono persone che per una loro particolare patologia, soffrono di un deficit comportamentale, mentale o fisico, i cosiddetti handicappati e disabili. Questa condizione li rende insensibili e svincolati da tutte quelle convenzioni che la società impone, facendo di loro delle persone vere, sincere e libere. Bisogna quindi comportarsi da idioti, avere il coraggio di distruggere tutti gli schemi agendo come gli altri non si aspetterebbero, solo così si potrà rompere ogni vincolo per rientrare in contatto con la propria identità più vera e profonda. Così fa Karen, la protagonista del film, che durante il cerimoniale della colazione in famiglia inizia a vomitare il cibo appena ingerito, come farebbe un idiota, un handicappato con problemi a mangiare. Karen non cerca di spiegare il suo comportamento e non cerca nemmeno una via d’incontro: vuole semplicemente far saltare tutte quelle assurde e disumane regole per affermare se stessa e la sua indipendenza, per riappropriarsi di sé e per vivere e superare come meglio crede il proprio dolore, conseguente alla recente morte del figlio. “Le onde del destino” e “Idioti” sono animati da una fiduciosa rabbia sociale, una programmatica volontà di rivolta, ritenuta salvifica rispetto all’annichilente ordine costituito sia
«La sorte di chi si è ribellato troppo è di non aver più energie se non per la delusione» Emil Cioran
ma ciò che le distingue è l’esito del rispettivo sacrificio. Se quello di Selma sarà incerto, quello di Grace sarà negativo: il suo instancabile perdono, il suo fiducioso sottostare a tutti i soprusi della comunità non porterà ad alcun cambiamento, non salverà né lei stessa, costretta ad una condizione di vita così bassa e degradata da annichilire quasi totalmente la sua umanità, né tantomeno il paesino, che abuserà sempre più della sua bontà e disponibilità. Il capovolgimento di prospettive iniziato con “Dancer in the Dark” viene così portato a compimento: se prima erano le convenzioni sociali ad essere espressione di un rifiuto dell’essenza vera del reale e la ribellione a tali schemi era la via d’uscita, con “Dogville” è la ribellione stessa ad essere espressione di una non accettazione della natura irrazionale e caotica dell’esistenza. Le convezioni sociali vengono ricondotte e saldate alla natura profonda dell’uomo, da sovrastruttura diventano parte della struttura, e quindi un loro rifiuto corrisponde ad una negazione e conseguente non-accettazione dell’essenza vera dell’esistenza. Il sacrificio viene completamente svuotato di ogni principio salvifico, diviene un vano martirio offerto sull’altare di una causa che non esiste. La ribellione non può essere risolutiva: a livello umano-esistenziale che artistico-cinematografico. Il manifesto Dogma ‘95, infatti, è mirato a scardinare tutti gli stilemi della cinematografia contemporanea abbandonando ogni forma di finzione per riportare il cinema ad una dimensione di onesta e sincera rappresentazione della vera realtà umana. La condizione umana è dipinta a tinte fosche, e questa ribellione è drammatica, difficile e spesso coincide con un sacrificio (la morte, nel tentativo di salvare il marito, di Bess ne “Le onde del destino”, la perdita dei familiari in “Idioti”), ma garantisce la salvezza se non di se stessi, almeno dell’amato. Qualcosa comincia incrinarsi a partire da “Dancer in the Dark” (2000). La struttura del film è speculare a quella de “Le onde del destino”: troviamo sempre una donna, Selma, che lotta per salvare la vita del suo amato, in questo caso suo figlio, ma qualcosa è cambiato. L’esistenza di Selma non è minacciata dalle terribili e disumane regole di un’antiquata religione, ma dal vicino di casa, l’amico che fino a qualche giorno prima l’aveva protetta ed aiutata, l’amico che improvvisamente si dimostra pronto a distruggere lei e i suoi sogni pur di sopravvivere. Il problema dell’umanità risiede sempre nelle strutture sociali che ne soffocano l’esistenza, ma ne “Le onde del destino” e in “Idioti” Von Trier ne analizza le conseguenze e cerca di trovare una soluzione mentre, a partire da “Dancer in the Dark”, cerca di risalire all’origine, alla radice, di tali vincoli e costrizioni, origine che viene rintracciata nella natura stessa dell’uomo: ciò che minaccia e opprime l’esistenza umana è l’uomo stesso. Se nei due film precedenti troviamo una dimensione di uomovittima che deve sapersi svincolare dalle strutture da lui stesso create, da “Dancer in the Dark” rintracciamo una dimensione di uomo-carnefice in cui schemi, regole e convenzioni sociali diventano arma di supremazia sul prossimo più debole, un’ar ma di controllo e dominio per garantirsi la più egoistica, avida e crudele auto-conservazione e sopravvivenza. La ribellione, il sacrificio di Selma ha un senso? Riesce a salvare il figlio come il sacrificio di Bess, ne “Le onde del destino”, aveva salvato l’amato? Von Trier lascia cadere la questione. In “Dogville” (2002) arriva l’inevitabile risposta alla domanda rimasta in sospeso in “Dancer in the Dark”. La protagonista, Grace, condivide con Selma sogni, carattere e aspirazioni,
“Le onde del destino” e “Idioti” sono animati da una fiduciosa rabbia sociale, una programmatica volontà di rivolta, ritenuta salvifica rispetto all’annichilente ordine costituito sia a livello umano-esistenziale, che artistico-cinematografico.
la natura profonda delle cose non può essere modificata, perché è la base imprescindibile delle nostre esistenze. Cosa resta da fare all’uomo? Accettare tale terrifica verità ed adeguarsi, così come fa Grace al termine di “Dogville”, abbracciando il credo paterno e sfruttando il “potere” di famiglia, per far bruciare la cittadina e i suoi abitanti, comportandosi con la stessa brutalità con cui i suoi concittadini si erano comportati con lei. Con “Antichrist” (2009) Von Trier sembra alla ricerca di conferme alla sua pessimistica visione dell’uomo, e sembra trovarle in quella che nel film viene definita “natura” ovvero l’essenza profonda alla base di tutte le cose. Ogni singolo essere al mondo appare parte di un vano e futile “circuito di produzione e distruzione” (G. Leopardi, “Dialogo della natura e di un islandese”), non c’è nient’altro; si nasce, si cresce e si muore ed ogni essere non fa altro che lottare per la propria egoistica sopravvivenza. Tutto viene svuotato, ogni incanto viene infranto. La vita è un vano percorso in cui ci si trascina avanti spinti da bisogni primordiali e necessità corporee, e la
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morte, o perché vecchi e inutili o perché schiacciati dal più forte, è la sua terrifica ed inevitabile conclusione. Von Trier inizia smantellando pezzo per pezzo l’idea d’amore. Amore matrimoniale, ricondotto a mero sesso e desiderio maschile di controllo. Amore materno privato di ogni affettività. Proseguendo il discorso giù iniziato in “Manderlay” (2005), ogni sentimento, ideale, filosofia e costruzione intellettuale viene ridotto ad inutile e compiaciuto castello di carta o a mezzo di controllo e dominio. Alla fine di “Dogville” il narratore si chiede se lo sterminio degli abitanti della cittadina e la distruzione della stessa abbiano effettivamente migliorato, per quanto in minima parte, l’esistenza umana sulla terra. Il film si chiude con uno zoom su di un cane, rimasto sagoma per tutto il lungometraggio e ora finalmente ripreso in tutta la sua corporea fisicità. Alla luce di questa conclusione e del successivo “Antichrist” la risposta alla domanda del narratore sembra essere un chiaro e netto no. Il pessimismo è totale, verrebbe da definirlo, in un’accezione quasi leopardiana, cosmico. L’umanità è un branco di cani assetati di sangue, l’uomo è bestiale, animalesco e brutale, animato da una cieca crudeltà che ha come unico obiettivo
L’uomo è solo nell’universo. La natura del cosmo è indifferente all’uomo così come l’uomo è indifferente al prossimo. Prima o poi anche noi saremo destinati a morire, come una ghianda qualsiasi che, caduta dall’albero, muore non diventando quercia.
la supremazia sul prossimo al fine di garantirsi un’egoistica autoconservazione. La natura di tutte le cose è indifferente, cieca ed egoista, e quindi non può che essere maligna, non può che essere, coma la definisce nel film la moglie, la “chiesa di Satana”. In “Antichrist” il marito tenta di sfruttare le sue razionali conoscenze di psicoanalisi nel tentativo di guarire la sofferenza della moglie, ma si rivela tutto completamente inutile, perché il suo dolore deriva dalla piena coscienza del male della natura umana, un male che è parte di lei e che non può ne essere sanato. “Le querce arrivano a vivere per centinaia di anni non devono far altro che generare un albero ogni cento anni per potersi riprodurre [...] le ghiande cadevano sul tetto, cadevano e cadevano e morivano e morivano ed io ho capito che tutto quello che mi sembrava bellissimo a Eden [la zona in montagna dove si svolge il film NdR] era probabilmente orrendo, ora riuscivo a sentire quello che non riuscivo a sentire prima, il pianto di tutte le cose che sono destinate a morire” (L. Von Trier, “Antichrist”).
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Se “Antichrist” descrive le fasi di elaborazione del dolore conseguenti al progressivo insorgere della consapevolezza di questa terrifica verità, il recente “Melancholia” (2011) si colloca alla fine di questo percorso, descrivendo quel sentimento di lucida melancolia che deriva da tale presa coscienza. Melancolia, quella tristezza di fondo derivante dalla precisa consapevolezza di non poter far nulla per cambiare la natura maligna dell’uomo e il suo destino di morte. L’uomo è solo nell’universo. La natura del cosmo è indifferente all’uomo così come l’uomo è indifferente al prossimo. Prima o poi anche noi saremo destinati a morire, come una ghianda qualsiasi che, caduta dall’albero, muore non diventando quercia. L’ idea di una fiduciosa rivolta si è rivelata una gigantesca bolla di sapone. Ora è definitivamente esplosa e ha lasciato Von Trier privo di ogni speranza. Evoluzione o involuzione? Molti ritengono che l’accentuarsi del pessimismo e dell’aggressività nei lungometraggi di Von Trier sia espressione di degrado, di una mente malata (Von Trier soffre/ha sofferto di depressione) divorata da se stessa in un allucinato vortice di paranoie ed ossessioni. Ma temo che liquidare l’opera di Von Trier come “classico delirio di un matto”, o non volerle dar peso perché cupa e pessimistica, sia estremamente limitante. Questi presupposti non permettono di cogliere la forza evocativa di un cinema che è un disperato urlo di dolore, continuamente ed affannosamente teso verso una liberazione che sembra non giungere mai. Con una forza ed una crudezza che non hanno confronti, Von Trier svuota ogni vana retorica ed inutile buonismo facendo esplodere davanti ai nostri occhi tutta la negatività dell’esistere. Negatività che, volenti o nolenti, è insita, anche se forse in minima parte, nelle nostre esistenze. Forse l’uomo non è maligno come lo descrive il regista danese, e forse le sue conclusioni sono presuntuose e disfattiste, ma è certo che l’uomo non è un essere di sola luce. Lunghe e tetre ombre lo hanno seguito e continueranno a seguirlo nel suo percorso attraverso la storia.
«Il mondo è iniquità: se l’accetti sei complice, se lo cambi sei carnefice» Jean Paul sartre
LA CHIAMANO TEMPESTA
di Emanuele Caon, Valeria Nanci, Sara Moscagiuri
Rabbia e musica, l’Italia canta
Se il mercato finanziario italiano, come il settore politico e quello culturale, è in crisi e in fase di cambiamento, non può non avere dei sintomi anche quello musicale. Il mercato della musica in Italia, come per il resto del mondo nella sua era capitalista, è stato da sempre segnato dal business americano e dalla morale dell’idolo. Il risultato di tale etica è stato allora quello di promuovere continuamente la stessa musica, che rispondesse alla richiesta della massa o dei locali affollati dalle masse, verso un unico inevitabile e diabolico scopo: creare mode, costruire tendenze, conformare. Eppure, c’è chi questa follia non la sopporta più, c’è chi ha iniziato a detestare il business, i numeri, le leggi e le definizioni, c’è chi odia catalogarsi e ama credere in quello che fa, c’è chi ha ancora la voglia di fare musica e soprattutto, chi pensa che «fare musica possa davvero cambiare qualcosa». Queste sono le parole di Enrico Molteni, bassista dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che quando nel 2000 fondò a Pordenone l’etichetta indipendente italiana Tempesta Dischi (poi distribuita dalla Universal) di certo non immaginava che nel giro di un decennio avrebbe raccolto attorno a sé circa ventimila fan. La sua fondazione fu, quasi per caso, un’occasione per promuovere i Tre Allegri Ragazzi Morti, indipendentemente dalle leggi del mercato, ma sin da allora gli fu chiaro che per emergere, per far sentire la propria voce diversa, alternativa, dal basso, non sarebbe bastata l’autopromozione, ma sarebbe stato necessario unire più forze, più voci, con più toni e creare allora un collettivo di artisti con la bella forma di un’etichetta discografica. Le band sono addirittura ventitré e molti artisti, infatti, collaborano fra loro: sono Altro, Aucan, A Classic Education, Berto, cosmetic, Don Vito e i Veleno, Fine Before You Came, Frigidaire Tango, Giorgio Canali, i Melt, il Pan del Diavolo, il Cane, il Teatro degli Orrori, Le Luci della Centrale Elettrica, Massimo Volume, Moltheni, One Dimensional Man,
Rossofuoco, Señor Tonto, Sick Tamburo, Smart Cops, Tre Allegri Ragazzi Morti, Zen Circus, che dal 2005 hanno organizzato ben sei eventi da Vicenza a Codroipo, fino al recentissimo festival al Rivolta di Marghera (Dicembre 2011), in cui ciascun artista si alternava all’altro, su ben due palchi, in una mezzora di esibizione scatenando l’adrenalina dei fan che, con soli quindici euro di biglietto, potevano assistere almeno ad una dozzina di concerti diversi. La loro storia sembra nascere allora da un’etica differente, non soltanto dall’ambizione di distinguersi; la loro è più una necessità, l’urgenza di un cambiamento, l’esigenza di uno scambio, di uno scontro e di un confronto, o meglio, di uno scontro per un confronto; è la ricerca di una coscienza personale che sia in grado di ri-costruirne una collettiva. Forse la loro storia nasce dalla storia di ciascuno di noi che vede il proprio Paese morire e il proprio Popolo tacere, nasce da quell’umore pacato, nevrotico, capace di deformare un volto, celato dall’indifferenza quotidiana, profondamente pericoloso se fuori controllo che molti chiamano Rabbia. Ogni gruppo però, ha un’identità e racconta la musica in modi diversi, mostrando perciò, con toni diversi, quali differenti facce può assumere la rabbia. Cominciamo con Le Luci Della Centrale Elettrica: sono il progetto artistico e musicale di Vasco Brondi, cantautore ventisettenne che ricorda Guccini o De Andrè per i testi carichi di parole e di significati. La sua è poesia accompagnata da note musicali o musica in forma di storie, comuni e private, e di immagini che s’ alternano agli arpeggi della sua chitarra; la sua è un’ “acuta visione acustica” del mondo che ci circonda, di quel mondo che vorremmo inventare, di quello che costantemente, inconsciamente ci sfugge. «Era per questioni condominiali e sentimentali/per disegnarti sulla schiena delle strisce pedonali/per distruggere una fabbrica/perché è troppo
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malinconica» è una strofa di «L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici» dove davvero le questioni della sfera privata e quelle globali si intersecano tanto da prendere vita autonoma e creare fabbriche malinconiche e strade sulla schiena. Il suo gioco di assonanze e di sinestesie racconta la rabbia in maniera di pacata e ricamata disperazione: è la rassegnazione e fredda indignazione di fronte all’impotenza delle proprie delusioni personali, sociali, di fronte all’indifferenza della gente che delusa, indignata, si rassegna, a sua volta, alla solitudine e alla diffidenza. Tutt’altro si può dire, invece, di Giorgio Canali che, a più di quarant’anni, non si è ancora stancato di scatenarsi col suo punk-rock sul palco. «Io penso che alla fin fine nel Rock quello che vale è la gente che urla là fuori»: questa è il suo modo di fare musica: urlare, urlare per farsi sentire, urlare per farsi capire, non c’ è altro modo, se si è alternativi fino in fondo. Ancora oggi, Giorgio conserva il mood dei CCCP Fedeli Alla Linea, di cui entrò a far parte dagli anni Novanta: è cinico, arrabbiato, corrosivo, maledetto, scrive testi potenti, d’ impatto, sempre in violento contrasto con ogni deriva perbenista. La sua rabbia è di tipo politico, chiaramente anarchica, partigiana, rivoluzionaria, come si può, per esempio, ascoltare in
C’è chi ha iniziato a detestare il business, i numeri, le leggi e le definizioni, c’è chi odia catalogarsi e ama credere in quello che fa, c’è chi ha ancora la voglia di fare musica e soprattutto, chi pensa che «fare musica possa davvero cambiare qualcosa».
Non può, poi, non essere citato un altro fondamentale personaggio dell’etichetta Tempesta, ossia Pierpaolo Capovilla, fondatore nel 1997 dei One Dimensional Man e, in seguito, nel 2000, del progetto assieme a Giulio Favero del Teatro Degli Orrori. I loro dischi sono cantati sia in italiano che in inglese e ciò gli ha permesso di farsi conoscere anche all’estero. Una delle canzoni più ispirate è il «Padre Nostro», un’autentica ironia sull’etica, ipocrita, della Chiesa. Il loro genere è noise rock, un alternative rock mezzo parlato e mezzo suonato che ricorda più una recita accompagnata da musica, appunto un teatro suonato e cantato, dove mettere in scena sul palco tutti i personaggi della realtà italiana, anche passata e renderli nudi, spogliarli della loro forma, raccontarne l’essenza: il fine è sempre lo stesso, dire quello che non vuoi sentirti dire, ascoltare quello che non sentiresti dire, sentire quello che vorresti dire, urlare, arrabbiarsi, ma ora di una rabbia più ironica e ricercata. Fino ad ora pare chiaro come le band, seppure diverse fra di loro, insistano con una maturità espressiva molto personale a riflettere sulle stesse tematiche: questa è l’intenzione del progetto rap di Nico e Rapo (Matteo Palma e Riccardo Gamondi) con il loro «Libro Audio», o per la band indie A Classic Education che per i loro testi in inglese e per la precisa somiglianza con i loro coetanei londinesi hanno già fama internazionale; ancora, la musica elettronica degli Aucan, poco parlata, filtrata attraverso le tastiere delle loro console, tenta di stimolare angoscia e desolazione, per scaricare e ricaricare di nuove idee la mente inquinata delle persone. Tre generi di rabbia diversa: rap, indie, elettronica, ricercate con tre percorsi differenti, ma verso un’unica direzione, verso l’unica tappa, l’attesa fine: la liberazione. Ma torniamo al principio, quando tutto doveva nascere: I Tre Allegri Ragazzi Morti sono Davide Toffolo, cantante, chitarrista e fumettista della band, Luca Masseroni, batterista, Stefano Pasutto, chitarrista ed Enrico Molteni, bassista, nonché fondatore ufficiale dell’etichetta. Sin dall’origine (1997), il loro genere ha subito variazioni e oscillazioni dal punk al pop al reggae che bene mostrano il dinamismo della band, in costante evoluzione con le novità del mercato e con il loro percorso musicale; hanno saputo rinnovarsi e fare degli ostacoli le loro occasioni: come già accennato, infatti, la promozione della band fu aiutata dalla produzione di una nuova etichetta che potesse far sentire solo e soltanto la loro voce, secondo i loro mezzi. Credo sia proprio questa, allora, la rabbia che viene raccontata attraverso i loro dieci album, tra le onde mu-
«Lettera del compagno Lazlo al colonello Valerio». Lui parla con una rabbia punk, uscita direttamente dagli anni Ottanta, e sembra che proprio da lì nasca tutta la sua carica. Anche gli Zen Circus non sembrano scherzare, col loro ultimo album «Nati per subire». Nella canzone d’ esordio cantano «nato già fregato, amato e poi dimenticato/sei nato per subire, te lo ricordano i bambini/già stronzi e come te, dei futuri soldatini»: vogliono denunciare il disagio in società e chi, come loro, si sente esposto ad un costante pericolo che è la lotta contro tutti. Ma se ascoltiamo ancora: « l’ innocenza è dei bambini, la purezza degli dei’/ma l’ innocenza non esiste, gli dei siamo noi/la curiosità è donna, il potere degli eroi’/la curiosità è di tutti, affanculo gli eroi» capiamo che il loro Rock non è demolizione come per Giorgio Canali o lenta desolazione come per Vasco Brondi, ma vitalità, voglia di reagire e creare un’ alternativa: la loro rabbia è quella di chi ha deciso di dire NO, di denunciare le cose che non vanno e dare un’occasione, darsi un’ altra occasione, sfidare i propri limiti, le proprie debolezze e chi fa del giudizio il proprio potere.
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«Accade che la libertà è partecipazione agli utili» Giorgio Canali & RossoFuoco
sicali delle loro storie: saper usare i propri mezzi e le proprie risorse, che, in fondo, è la sola strada necessaria per la costruzione di un’ identità. Le maschere, per esempio, che gli artisti indossano nei loro live sono opera di Toffolo, come i fumetti e le proiezioni che spesso accompagnano le loro performance. La musica poi, è di centrale importanza. «Credo ancora che cantare una canzone possa ancora cambiare, possa ancora cambiare qualcosa»: così Enrico Molteni si presenta. Dunque, cambiare cosa? «Col cambiamento che porta una canzone intendo un cambiamento dentro le persone, un cambiamento che porti verso una società migliore, un cambiamento che aiuti ad interpretare meglio la vita». Credo che siano queste le premesse necessarie della Tempesta Dischi, i comuni denominatori di ciascuna band: l’esigenza di un cambiamento e la consapevolezza che per cambiare bisogna ricominciare da sé, bisogna credere che la rivoluzione, non si fa con la violenza, ma con la pazienza, giorno per giorno, un passo dopo l’altro, continuando a coltivare le proprie passioni e a trovare il modo o l’ alternativa per condividerle. La rabbia, allora, diventa uno stimolo, è l’energia potenziale che come la tempesta può distruggere, demolire, scaricare, ma poi costruire, ricostruire, rasserenare. Sì, è proprio questa la Tempesta Dischi. Ora, immagina di essere un giovane batterista, o magari un bassista, che è cresciuto tra i Pink Floyd e i Foo Fighters, che ha passato l’ adolescenza nel garage dell’amico a suonare cover, poi ad improvvisare qualche assolo, a inventarsi qualche nuovo pezzo, soltanto per gioco, ed ha nutrito la voglia di farsi sentire. Immagina di sognare, di vedere il suo nome in televisione, la sua faccia su un volantino, la sua band su un palco a far casino, la sua voce che urla nelle orecchie di un pubblico sordo. Immagina le ragazzine che ti chiedono l’ autografo, che piangono se gli fai l’occhiolino. Immagina i giornalisti che t’ intervistano, i fotografi che ti fotografano. Cosa ti è rimasto di tutto questo? Dove sei arrivato? Cos’ hai raccontato? Quanta gola fa la fama, sentirsi un’ idolo! Ecco: questa è la storia che la Tempesta Dischi ha deciso di non scrivere. Se incontri Enrico Molteni per strada ti saluta, magari con orgoglio, con quell’orgoglio di chi crede in quello che fa e lotta per quello in cui crede; Giorgio Canali s’offende se gli dai del lei; ai loro festival, gli artisti stanno tra il pubblico ad ascoltarsi, a tifare l’uno per l’altro, chiacchierano con i ragazzi, scherzano. Davide Toffolo ha improvvisato un concerto con una chitarra acustica, seduto su una panchina di legno, la scorsa estate a Villa Tempesta (Codroipo), dopo che un’ acquazzone aveva visto l’ organizzazione costretta a sospendere la serata. Forse questo rende l’idea dello spirito che accomuna i vari artisti della Tempesta Dischi. Immagina di essere un giovane batterista, o forse un bassista. È il tuo momento, ora; puoi scegliere. Quanto sei arrabbiato? Cosa vuoi cambiare? Ri-comincia da te.
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TROPPO INVISCHIATO NEI VOSTRI SFACELI
di Isacco Tognon
Quando la canzone sublima la rabbia. Una lettura di Io se fossi Dio di Giorgio Gaber. Cecco Angiolieri lo si legge quasi per gioco, con un sorriso stampato a mezza bocca tra l’ammiccante e il compiaciuto. E come potrebbe essere altrimenti? Nel suo sonetto più noto l’immaginazione lo porta a pensarsi forza della natura, legislatore supremo: Cecco si fa fuoco, vento, acqua. Diventa papa, imperatore, Dio. Ha il potere e con il potere distrugge, brucia, sommerge il creato e l’uomo che nel creato sguazza. Poi ritorna uomo, la velleità cede il posto al reale, Cecco è di nuovo Cecco e può dedicarsi in toto alle “donne giovani e leggiadre”, come meglio gli si confà. La parola del poeta affascina, si trasforma in un “personalissimo giudizio universale” senza possibilità di appello, salvo sgretolarsi infine di fronte all’impotenza della condizione di uomo, alla quale l’Angiolieri torna come fosse l’ultimo rifugio – unico possibile – con sottile ironia. I quattordici versi di Cecco Angiolieri, dopo aver ribollito per secoli nel calderone della tradizione letteraria nazionale riemergendo di tanto in tanto in superficie, arrivano lontano, incrociando le strade di due grandi cantautori del secolo scorso: Fabrizio De Andrè musica la sessantottina S’i’ fosse foco – l’album in cui è presente, Volume III, viene pubblicato proprio nell’anno del Maggio francese – e ne fa una ballata da ascoltare tutta d’un fiato, con chitarra rullante e fisarmonica a scandire il ritmo del delirio immaginativo. Ma una vena diversa scorre in corpo a Giorgio Gaber quando scrive Io se fossi Dio; correva l’anno 1980. Il debito verso il poeta trecentesco è già nel titolo, riecheggia nelle strofe, nell’anafora continuata e ossessiva di un periodo ipotetico – ripetuto 23 volte – che oscilla tra la minaccia e l’immaginazione più spietata. Conta 34 ricorrenze la sola parola “Dio”, basso continuo del pezzo. Gaber non gioca con la parola, l’immaginazione è solo il “la” per un’invettiva, lucidissima, contro gli altarini prodotti da una società borghese che si specchia nelle chiazze impolverate del recente passato, negli anni che il terrorismo ha tinto
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di angosce e contraddizioni, passando per gli omicidi di Pasolini (1975) e di Aldo Moro (1978). Gaber sembra averne per tutti: le sue stilettate sono scalpelli che grattano la superficie e vanno dritte alla natura delle cose, senza ricami. Riescono a concentrare in poche parole, in una semplice descrizione o in una definizione-lampo, il ritratto del loro bersaglio. Stile icastico quello del cantautore milanese, che condensa la rabbia in immagini, trasforma uno sfogo e un senso di insofferenza nei confronti della società in musica che avanza, gonfiata da archi e immancabili trombe del Giudizio, a scandire il ritmo del transumanare dell’io-uomo in Dio, partendo dalla sua presenza curiosa e spiona fra la gente fino ad arrivare alla sua uscita di scena, explicit con disincanto e allontanamento, ai confini della rassegnazione. Il volo pindarico in cui Gaber si lancia è tripartito: l’uomo si innalza verticalmente facendosi divinità, quindi si precipita a capofitto pescando qua e là i peccatucci e le colpe degli uomini, attaccando senza riserve giornalisti, politici, borghesi, lambiccandosi sulle mosse che farebbe se vestisse i panni del Creatore. Finisce poi col chiamarsene fuori, rifugiandosi in campagna, una volta compresa la lezione che vuole la lontananza come “unica vendetta, unico perdono”. È un Dio “sempre presente”, avido di sapere, di osservare inosservato il comportamento degli uomini, ma è al contempo uno spettatore esterno, che preferisce e rimpiange, spara a zero e critica; un Dio che deve al fin della tenzone riconoscere la propria impotenza, il proprio delirio d’immobilità causato da una vicinanza troppo stretta e nociva – poco divina – con il genere umano: “ma io non sono ancora / nel regno dei cieli / sono troppo invischiato / nei vostri sfaceli”, recita il ritornello. Questo Dio è fin troppo simile agli uomini, vive delle stesse passioni, si incendia della medesima ira. Ecco allora le contraddizioni di questa divinità impetuosa e immaginaria, che inizia col gettarsi a capofitto tra i mortali in
«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me» Gesù Cristo
preda al desiderio di giudicare e mimetizzarsi e finisce con un ipotetico quanto improbabile autoesilio, saldando così le due facce coesistenti di Gaber-Dio-fittizio e Gaber-uomo. Questo Dio emette il suo giudizio senza peli sulla lingua. Il cantautore scaglia le sue frecce più acuminate contro i piccolo borghesi e le loro ridicole incoerenze, dietro alle quali si annida la più disarmante fragilità. Attacca il padre di famiglia, un “coglione, […] un delinquente, […], una canaglia che ha tentato pure di violentare sua figlia”; passa al vaglio i giornalisti, “specialmente tutti”, rei di essere schiavi del gusto per l’effetto ad ogni costo, di essere incapaci di pensare con la propria mente pur rivendicando a testa alta il loro diritto di scrivere. Alza la voce per sfatare il mito di Aldo Moro, acclamato e compianto all’epoca dei fatti, dopo l’omicidio e il ritrovamento della salma in via Caetani, come il più grande statista italiano. Il grido si leva, colmo d’ira, contro lo spirito da “santo subito” che ha animato l’opinione pubblica, portandola a trasfigurare un uomo in un simbolo, lasciando invece a margine quello che Moro realmente era, nel male più che nel bene – dice Gaber – cioè un politico. Eppure, in questo spietato affresco di bersagli ben delineati c’è spazio anche per il silenzio, per un vuoto che reclama la sospensione del giudizio. Di fronte ai
brigatisti, agli attentatori e ai guerrafondai, ogni parola viene meno e resta “solo lo sgomento”. Nasce dall’odio, Io se fossi Dio, da un odio che non può essere represso e cerca un modo di manifestarsi. Ecco la svolta. La rabbia si trasforma in amore per la parola, nella fiducia in ciò che l’uomo può ancora dire, scrivere, cantare. La canzone diventa lezione di stile, via preferenziale per manifestare un pensiero, un’angoscia profonda. Fa paura il testo di Gaber, e fece paura all’epoca. Le radio censurarono il testo. La Carosello, casa discografica del cantautore, temeva che il brano avrebbe potuto intaccare la reputazione dell’etichetta, così il singolo venne inciso dalla piccola F1 Team. A trent’anni di distanza, la gente è ancora incazzata. Per quest’Italia sempre più in crisi e indebitata, svigorita nei suoi valori civili, ammaestrata all’ammiccamento verso piccole cose di pessimo gusto. Un’Italia che fa schifo agli italiani, che sottrae ai cittadini la voglia e le energie per affrontare e spazzare via quello stesso schifo. Ma ancora non si è trovata la forza di smascherarla, di cambiarla radicalmente; forse, questo è il punto, non si è ancora trovato il modo. Certo, le
Io se fossi Dio sembra non lasciare posto alle speranze, non c’è nulla che faccia presagire una pars construens. Ma è un testo che spiazza e disorienta, che mette spalle al muro la realtà: ben venga anche la rabbia allora, se c’è arte in grado di sostenerla, forme in grado di sublimarla in canto di protesta.
canzoni non rimettono in piedi un Paese. Ma ci sono musiche e parole che svegliano, spingono, alimentano energie. Basti pensare a We shall overcome, che si fece largo nel corso del Novecento attraverso le voci e le corde di cantanti e musicisti più o meno noti, fino a diventare l’inno dei lavoratori afro-americani e della lotta per i diritti civili in America. Il successo di questo canto di libertà deve molto alle registrazioni di grandi artisti. Basti citarne due: Joan Baez, che fece suo il brano nel 1963 e lo cantò in numerosissimi concerti ed eventi; Bruce Sprengsteen, che incise nuovamente il pezzo nell’album omonimo del 2006, dando continuità a un canto mai sopito negli orecchi e nelle coscienze dei cittadini americani. Io se fossi Dio sembra non lasciare posto alle speranze, non c’è nulla che faccia presagire una pars construens. Ma è un testo che spiazza e disorienta, che mette spalle al muro la realtà: ben venga anche la rabbia allora, se c’è arte in grado di sostenerla, forme in grado di sublimarla in canto di protesta. Ci sono domande che sorgono spontanee, si presentano come spin off obbligati per chi ascolta questo brano; riportano l’attenzione all’oggi, ai giorni che viviamo adesso, a tutte le cose davanti alle quali una persona vorrebbe dire: “non ci sto!”, le stesse cose a cui non sempre riusciamo a dire no, a trasformarle in qualcosa di diverso. Sono domande, queste, che restano impresse e fanno incazzare la gente. Chiedono risposte vere, però, chiedono una presa di coscienza. Chi riuscirà a cantare con pari lucidità gli scheletri nell’armadio del nostro Paese? Chi avrà coraggio di esporsi a tal punto da non lasciare nel limbo comodo e omertoso del “non detto” lo schifo di questi giorni, la crisi e la disoccupazione, la nostra incapacità di sentirci a proprio agio con l’aggettivo “italiano” appiccicato addosso?
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POESIE E RACCONTI 58 58 58 59
Troppo freddo per piangere - poesia Senza teste e senza mani - poesia Senza - poesia L’ultimo Cicerone - racconto
TROPPO FREDDO PER PIANGERE di Tommaso De Beni
Senza nulla togliere al gelo che dentro te coltivi, la rabbia ti brucia negli occhi e il vento soffiava anche mentre morivi. Troppo freddo per piangere, troppo freddo perché gli angeli scendano oggi qui a darci una mano, a noi popolo sovrano e supino. Chissà se le urla serviranno a sciogliere il ghiaccio e intanto un vento che soffia così non si sa mai cosa può portare.
SENZA TESTE E SENZA MANI di Antonio Lauriola
Scarnificato dal giogo del vivere civile tra uomini in divisa e bastoni e urla scelte il tempo si è bucato passa oltre il sogno... Ci guardiamo intorno come cieche talpe soffocate dal cemento mentre rea tu chiami di un consapevole lamento. Bruciano in cielo vetri e colli e polsi non più guarniti da umane carni: senza teste e senza mani s’ingrigiano d’asfalto. Fuggiamo la vergogna di una terra incriminata.
SENZA
di Chiara Pasin
Ora annuso quest’aria sporca del profumo tuo slavato dentro il puzzo della strada che strattona via da te che non hai mai forse capito quanto il tuo fumo da ubriaco fosse ormai troppo lontano dai miei occhi blu cobalto troppo stanchi troppo pieni di parole per esserti tristi
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L’ULTIMO CICERONE di Massimo De Beni Il modulo guida scese dolcemente sulla piazza, sibilando e sollevando nugoli di polvere. Tutto intorno edifici in rovina, travi contorte, macerie e cumuli di metallo che forse un tempo erano stati veicoli; in lontananza, sotto il cielo plumbeo, si stagliava come un colosso una grande costruzione circolare che sembrava ancora più antica di tutto il resto. Il ricognitore automatico modello X11 uscì dal modulo procedendo adagio, come se avesse paura di far implodere il pianeta calpestandolo con le sue esili zampe metalliche. La telecamera integrata nel suo modulo visivo aveva già cominciato a documentare l’esplorazione, che sarebbe stata monitorata in tempo reale dall’equipaggio della nave madre, in orbita polare a 800 Km dalla superficie. Il punto di atterraggio della sonda non era stato scelto a caso: da quella piazza, al centro di una piccola penisola dell’emisfero settentrionale, proveniva infatti l’unica debole fonte di energia ancora attiva sul pianeta, che per il resto, pur dimostrando chiaramente di essere stato abitato in passato, non registrava né forme di vita né emissioni di alcun tipo. Verso il centro della piazza, accanto a cumuli di polvere e di cenere, al centro di quella che pareva una fontana ormai prosciugata, un osservatore accorto poteva riconoscere un oggetto metallico dalla forma familiare, bipede, dotato di braccia indipendenti e sormontato da un grosso casco in vetro che lasciava intravedere l’elettronica al suo interno. Uno spettatore umano l’avrebbe forse scambiato per un giocattolo: la struttura tubolare degli arti, la rozzezza del tronco e la fisionomia appena abbozzata davano all’oggetto un’aria di innocuo servilismo, più che di minaccioso pericolo. Tuttavia il ricognitore, unico solitario essere in movimento in quel mondo distrutto, non poteva comprendere simili considerazioni, non come l’equipaggio organico della sua nave almeno. Si avvicinò all’oggetto artificiale scavalcando il bordo della fontana in rovina e attivando i suoi strumenti diagnostici. L’essere veniva alimentato da una batteria a fissione nucleare, situata al centro del torace; era quella la fonte di energia percepita in precedenza, ma ormai pareva spento per sempre, consumato dal tempo e dalla forza degli elementi. X11 si avvicinò ulteriormente per esaminare il rudimentale schema elettronico alieno. In quel momento l’oggetto si riaccese. “...IAZZA NAVONA SI TROVA NEL LUOGO DOVE L’IMPERATORE DOMIZIANO FECE COSTRUIRE UNO STADIO PER OSPITARE I GIO...” X11 fece un balzo all’indietro, atterrando malamente. Se non fosse stata una sonda robotica di ultima generazione, qualcuno avrebbe potuto dire che si fosse spaventata. La stranezza più evidente tuttavia stava nel fatto che il suo traduttore riusciva a comprendere quel linguaggio alieno, riconoscendolo come una variante della lingua latina, parlata millenni addietro nel suo mondo d’origine. X11 regolò il suo modulatore vocale ed ordinò con tono perentorio all’oggetto al suo cospetto di identificarsi. L’essere non si mosse, ma interruppe la sua descrizione di piazze e imperatori. “AUTOMA DIDATTICO SN-CCR2036-S91ASX02”, disse con tono amichevole, “SARO’ LA VOSTRA GUIDA IN QUESTA SPLENDIDA GIORNATA DI SOLE”. Poi imperterrito “E’ PREGATO DI NON SOSTARE NELLA FONTANA...!”. Evidentemente l’oggetto possedeva una forma di intelligenza primitiva ancora attiva e che prevedeva interazioni esterne, anche se i suoi servomotori ormai erano completamente inerti. X11 era dotato di un emulatore di connessioni neurali (NCE), frutto di secoli di ricerca sull’intelligenza artificiale, e poteva reagire in maniera efficace a qualsiasi stimolo esterno, deducendo, pianificando e operando anche nelle condizioni più estreme. Da quando la sua nave era salpata, cinque anni prima, alla ricerca di nuovi mondi da colonizzare, spettava alle sonde come lui compiere le prime ispezioni planetarie.
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Anche in questo caso valutò in maniera autonoma la situazione, e decise di interrogare ulteriormente quello strano personaggio. “SN-CCR2036-S91ASX02... Interrompi l’elaborazione corrente... Spiega la situazione attuale del pianeta e chiarisci la mancanza di esseri viventi!”. L’automa si interruppe come ordinato e rimase a lungo in silenzio; dal suo interno provenivano strani ronzii, probabilmente lo sforzo per riattivarsi lo aveva danneggiato irreparabilmente. X11 si voltò per tornare alla sua navetta, ma venne sorpreso una seconda volta dalla voce del robot, che si era fatta ora più seria e più cupa. “GRANDE FU LA RISONANZA DEL CONFLITTO CHE SI OPPOSE ALLA RAGIONE. LE BOMBE SONO CADUTE SULLE CITTA’, LE ARMATE DI MACCHINE E UMANI HANNO MARCIATO PER LE STRADE CON L’ORDINE DI STERILIZZARE E DISTRUGGERE. UN TEMPO I SOPRAVVISSUTI VAGAVANO PER LA PIAZZA, QUALCUNO SI FERMAVA PER UNA PIACEVOLE CHIACCHERATA. MA DA CENTO... OTTANTA... QUATTRO... ANNI NON REGISTRO MOVIMENTO NELL’AREA DI MIA COMPETENZA. TALI INFORMAZIONI SONO SALVATE NELLA MIA BANCA DATI, E POSSONO ESSERE SCARICATE SU DISPOSITIVO RIMOVIBILE SOLO PER OGGI A 5 EURO E 99 CENTESIMI”. Poi con una voce severa e metallica aggiunse “E’... VIETATO... SOSTARE... NELLA... FONTANA...!”. X11 non comprese l’ultima parte del racconto, ma la cosa non gli procurò grande disturbo. Piuttosto, non riusciva a capacitarsi di come un’intera popolazione senziente potesse estinguersi, anche a fronte di un conflitto globale. “Che fine fecero quegli ultimi supersiti? Rispondi SN-CCR2036-S91ASX02!”. “SIETE PREGATI... DI USCIRE... DALLA FONTANA... O VERRANNO PRESI... PROVV...!”, sentenziò l’automa con un ultimo lamento, poi si spense per sempre. Dall’ammasso di vetro e metallo non proveniva più nessuna emissione di energia. Solo allora X11 spostò i suoi scanner sui mucchi di polvere all’interno della vecchia fontana accanto al vecchio automa: i sensori ne indicavano un’origine organica.
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