CAM#07: La Città dei Senza

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editoriale Padova. La città del Santo senza nome, del Caffè senza porte, del Prato senza erba, come recita un famoso motivo. E ancora, del Capitello senza colonna, della Chiesa senza facciata, dello Zodiaco senza bilancia… Padova la Città dei Senza, i cui simboli storici sembrano voler esprimere per primi un senso di vuoto e di mancanza. Di una città senza spazi, prospettive, progettualità, futuro. La redazione di ConAltriMezzi ha voluto dedicare questo numero al luogo dove tutto ha avuto inizio, in collaborazione con LogOut, realtà locale attenta alle tematiche sociali, e Repeat legata alla scena musicale indipendente, nell’intenzione di creare una rete di collaborazioni, eventi ed opinioni. Ne è risultata una panoramica critica nella quale misurare il grado di salute della vita sociale e culturale di questa città. E l’abbiamo fatto muovendoci in una direzione: interrogando esponenti del panorama culturale padovano. Scrittori come Massimo Carlotto, Ferdinando Camon, Matteo Righetto, fondatore del movimento Sugarpulp, il professor Giorgio Tinazzi, dell’Università di Padova, delegato del rettore alle politiche culturali; giovani artisti come Antonio Guiotto e Alex Bellan; e poi ancora: la libreria Laformadelibro, Andrea Ragona, presidente di Legambiente Padova, l’ASU (Associazione Studenti Universitari), Green Records, Jole Film e cinema Torresino. A ciascuno abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza, raccogliendo opinioni, critiche e consigli. L’esigenza di allestire un numero interamente dedicato a questa città è diventata sempre più forte da quando ConAltriMezzi, realtà indipendente sempre più innervata nel tessuto culturale di questo territorio, si è resa conto delle potenzialità inespresse di una città ricca di iniziative ma sprovvista di consapevolezza. CAM#07 risponde quindi alla necessità di aggregare visioni critiche, di creare un dibattito sulle opportunità che (non) offre questa città, sulle promesse mancate, sulle realtà positive, sulle difficili prospettive a cui le nuove generazioni (non) possono far riferimento, tra università, lavoro, svago, cultura e integrazione. CAM#07: La Città dei Senza, rappresenta per noi una sfida che non ha la pretesa di fornire una disamina esaustiva ed assoluta sull’argomento, ma che desidera avviare una strategia comune attraverso la creazione di una rete virtuosa di scambi. Infine, le ultime pagine di questo numero saranno dedicate alla narrativa, e in esse vi presenteremo i brevi racconti che abbiamo scelto, tra i tanti che hanno partecipato al bando promosso attraverso la rete. Prossimamente la redazione integrerà quest’uscita con contributi video che condividerà sul web, attraverso il proprio blog, www.conaltrimezzi.com, in modo da dilatare il più possibile un dibattito che noi riteniamo cruciale per il bene della nostra città. A voi.


indice Hanno contribuito a questo numero: Alberto Bullado Emanuele Caon Alice Campagnaro Giulia Cupani Tommaso De Beni Valeria di Iasio Antonio Lauriola Alessandro Macciò Serena Maule Valeria Nanci Paolo Radin Nicola Rampazzo Isacco Tognon

Magazine layout: Alberto Bullado

Logo:

Chiara Tovazzi

Stampa:

Sergio Pigozzi

Contributi fotografici:

Francesco Berti Chiara De Notaris Igor Verdozzi Martina Inselvini

Special thanks:

Davide De Munari Sergio Pigozzi Radar Festival Staff Pietro Berselli e la troupe de l’Appeso Produzione I ragazzi dell’Asu Giorgio Tinazzi Andrea Ragona Ferdinando Camon Massimo Carlotto Matteo Righetto Giacomo Brunoro Laformadelibro Antonio Guiotto Alex Bellan Francesco Bonsembiante Ezio Leoni Giulio Repetto Giovanna Zoccarato Francesco Berti Sandro & Sergio ... e tutti coloro che ci seguono. CAM#07: La Città dei Senza, in collaborazione con:

attualità

altre arti

Padova, istruzioni per l’uso di Serena Maule

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L’arte non è campanilista intervista a cura di Paolo Radin

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Eccellenza italiana di Emanuele Caon

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Arte e collettività intervista a cura di Paolo Radin

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Padova città della conoscenza di Nicola Rampazzo

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Parola al professore intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

Jolefilm, Cinema e Nord Est intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

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Lo spazio per studiare di Alice Campagnaro

Le luci della Città intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

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Senza di noi intervista a cura di Serena Maule

Green Records, Grey City intervista a cura di Alberto Bullado

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Il confine invisibile di Alice Campagnaro

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Una città senza un’idea intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

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letteratura Quello che non ho di Giulia Cupani La città se ne frega intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon Lo scrittore del conflitto intervista a cura di Alberto Bullado e Giulia Cupani

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Letteratura senza paura intervista a cura di Alberto Bullado e Giulia Cupani

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Un’altra libreria intervista a cura di Tommaso De Beni

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racconti Saliva le scale di Giovanna Zoccarato

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La neve a Padova di Francesco Berti

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Bianco come il potere di Antonio Lauriola

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poesie Una nuova Resistenza - Il delitto di Alessandro Macciò 17 - 7 - 21 di Valeria Di Iasio

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Pendolare - Non si vedono gli dei Serata di pioggia in città di Tommaso De Beni

Prossimamente nuovi articoli, interviste ed approfondimenti su www.conaltrimezzi.com. Cam#07: la Città dei Senza presto si potrà anche “vedere” sul nostro canale YouTube.

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ATTUALITà Padova: La Città dei Senza. Questo è il fil rouge di CAM#07 e di conseguenza la domanda più ricorrente è: cosa manca a Padova? Ovviamente questo interrogativo serve anche per scovare i lati positivi della città, per verificare cosa ci sia di interessante. O anche per capire se il vero problema sia ciò che manca oppure il disperato tentativo di riempire dei buchi in maniera caotica e disorganizzata. Un’altra domanda potrebbe essere: che cos’è Padova? Per noi è soprattutto un centro universitario, ecco perché abbiamo cercato - in collaborazione con LogOut - attraverso articoli e interviste, di capire quale sia lo stato di salute dell’Università di Padova, il suo rapporto con il mondo del lavoro, con gli studenti e con la città stessa. Ai ragazzi dell’Asu e del movimento Senza di noi Padova Muore abbiamo chiesto proprio questo: com’è la vita di uno studente universitario qui da noi?

Inoltre abbiamo toccato argomenti come la condivisione del sapere, l’integrazione, lo spazio dedicato alle aule studio, dando la parola anche a chi l’università la vive dall’altro lato, come il prof Giorgio Tinazzi. E poi c’è la città, con la sua storia, la sua particolare collocazione geografica e con tutte le sue dinamiche interne, dal problema della sicurezza a quello della viabilità. Di questo ci parla Andrea Ragona di Legambiente in un’interessantissima intervista a tutto campo. In queste pagine tenteremo inoltre di capire quale sia la specificità di Padova rispetto ad altre città, anche se ovviamente La Città dei Senza non è estranea ad alcune cecità politiche su scala nazionale, che riguardano per esempio le risorse energetiche, l’immigrazione, la gestione dei centri storici, la difficoltà per i giovani ad inserirsi nel mondo del lavoro.

immagine di Chiara De Notaris


indice attualità Padova, istruzioni per l’uso di Serena Maule

Eccellenza italiana di Emanuele Caon

Padova città della conoscenza di Nicola Rampazzo

Parola al professore intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

Lo spazio per studiare di Alice Campagnaro

Senza di noi intervista a cura di Serena Maule

Il confine invisibile di Alice Campagnaro

Una città senza un’idea

intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

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PADOVA, ISTRUZIONI PER L’USO Possiamo parlare di partecipazione dei cittadini? In che modo a Padova l’apporto degli abitanti contribuisce allo sviluppo della città? articolo di Serena Maule

immagine di Martina Inselvini

Partecipazione a singhiozzo e difficoltà nel contribuire alla crescita della città: luci e ombre dell’associazionismo culturale

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l curioso che cercasse informazioni sulla città di Padova, troverebbe sul sussidiario odierno, Wikipedia, che si tratta di un comune capoluogo di provincia di circa 215mila abitanti, sede di un’antica e prestigiosa Università, di un importantissimo interporto, di un reliquiario di rilevanza spirituale mondiale; la città si è sviluppata su un territorio pianeggiante solcato da vari corsi d’acqua, in un clima di fertile umidità costante. Per farsi un’idea di come funziona Padova si può invece consultare il sito Padovanet – rete civica del comune, che incasella in varie sezioni il vasto repertorio di punti d’interesse del cittadino, che va dalle informazioni spicciole e amministrative (come il pagamento dell’IMU), ai numeri dei giornalini scolastici degli istituti superiori, alla presentazione delle rassegne teatrali al Teatro Verdi. Ecco, navigare un po’ attraverso questo portale può portare a fare un paragone con l’organizzazione e lo svolgersi della vita cittadina nel reale.

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Ad esempio, alla pagina cultura e tempo libero oltre all’elenco dei luoghi fisici deputati (biblioteche, cinema, musei), con una voce a parte per il centro S.Gaetano di via Altinate, ci sono le conferenze, i corsi, le iniziative varie e – inspiegabilmente, o forse no – il Padova Wi-fi (internet serve per passare il tempo su FB o per sapere gli orari delle mostre evidentemente). Alcune delle voci presenti nelle varie directory si possono trovare anche alla pagina delle attività culturali nella sezione giovani, o nel sito autonomo del Progetto Giovani dove ne vengono presentate di ancora diverse. Questa giustapposizione lineare di proposte a volte ordinate in senso cronologico, a volte per tipologia (fotografia) è, certo sensatamente, limitata alle sole iniziative organizzate o talvolta variamente patrocinate dal Comune di Padova stesso, che ha inoltre anche un sito apposito da usare come punto di riferimento o vetrina: padovaCultura. Dallo stesso Padovanet

posso però anche passare alla sezione noprofit che si chiama Rete delle associazioni, e pescare le attività delle oltre 400 associazioni iscritte all’area tematica “culturale” del Registro Comunale delle associazioni che appaiono ovviamente in elenco continuo. Essere iscritti al Registro è per le associazione senza scopo di lucro il canale per ottenere qualche supporto dal comune, come uno spazio, la pubblicità di un’iniziativa, il patrocinio, un contributo economico. Le richieste di questo tipo si rivolgono direttamente al gabinetto del Sindaco, ma si possono ottenere anche passando per qualche assessore del settore, attraverso le assemblee di area tematica, che riuniscono una volta l’anno le associazioni per proporre e chiedere finanziamenti (si noti che in seconda convocazione, che avviene un’ora dopo la prima, l’assemblea ha validità qualunque sia il numero delle associazioni presenti – anche due). Patrocinatori delle attività proposte da gruppi e associazioni sono anche i sei Consigli di Quartiere, che sono gli organi di decentramento deputati a stimolare la conoscenza, il dibattito e la collaborazione dei cittadini riguardo ai problemi della vita sociale e amministrativa della città. Possiamo parlare di partecipazione dei cittadini? In che modo a Padova la voce degli abitanti contribuisce allo sviluppo della città? Attraverso il voto, certo. E

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infatti nella pagina Partecipazione del sito del Comune si dà largo spazio ai momenti elettorali e agli eletti, ma ciò che viene annoverato alla voce Percorsi di partecipazione è alquanto imbarazzante: oltre al rimando ai giornalini degli studenti medi, si scopre l’esistenza di un certo progetto di ricerca denominato Free writing, pro-

stri fondatori, del direttivo dell’associazione studentesca principale della città, ed essere stata strettamente in contatto con la lista universitaria che ha vinto le ultime elezioni. Chissà da dove pensano che dovrebbero arrivare queste libere proposte se non si interpellano le realtà che già esistono e si muovono in città.

Buona parte degli abitanti della città partecipa ad attività culturali, ma sembra che ad un certo fervore alla base non corrisponda la capacità di recepire i contributi mettendo in moto un processo di miglioramento dell’atmosfera cittadina. mosso dalla Fondazione Menato con lo scopo - sentite! - di: «creare in maniera condivisa il futuro della città», attraverso una mail e una pagina FB (che conta lo stesso numero di simpatizzanti di quella di LogOut). Dichiarano che i primi risultati saranno presentati nel prossimo autunno; personalmente, li attendo con curiosità, visto che fino ad oggi non mi era giunta voce di tale opportunità, pur facendo parte di una realtà come LogOut, che ha nella partecipazione uno dei pila-

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Effettivamente a Padova funziona così: associazioni e cittadini si possono barcamenare a organizzare molte iniziative, in maniera certo autonoma, ma nella mancanza totale di un progetto definito sulla città non c’è lo spazio per lo sviluppo e il cambiamento che sia una conquista culturale di tutta la cittadinanza. Le attività dei cittadini che vogliono fare qualcosa per Padova sono ben tollerate e anche a volte ben accolte dall’amministrazione con pacche sulle spalle e sorrisi,

ma non si vede nulla all’orizzonte oltre il solito tran tran, a parte qualche segnale luminoso come l’istituzione della Consulta degli Stranieri. Se il contributo del mondo universitario alla progettazione ideale della città si limita al dibattito sulle pagine del Mattino, o alla partecipazione di qualche docente a qualche Fondazione, risulta evidente che lo scambio può essere pregevole ma poco proficuo. Il clima che si respira a Padova è proprio questo: buona parte degli abitanti della città partecipa ad attività sociali, culturali, politiche, ma sembra che ad un certo fervore alla base non corrisponda la capacità di recepire e coagulare i contributi mettendo in moto un processo definito di miglioramento dell’atmosfera cittadina. Per creare un nuovo clima che faccia respirare meglio, bisogna creare correnti d’aria, aprire porte e finestre, non predisporre condotti di ventilazione autoreferenziali e paralleli. Le zanzariere usiamole per tenere fuori i ronzii di chi svolazza nel suo solito torpore, e facciamo diventare agenti le voci che ci giungono da sotto le finestre; intanto, scendiamo e andiamo al concerto di stasera con loro.

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eccellenza italiana Uno sguardo d’insieme allo status della nostra Università: dati e statistiche riguardanti l’occupazione, il numero di laureati, le prospettive e le aspettative degli studenti. articolo di Emanuele Caon

immagine Google

L’Università di Padova e le prospettive occupazionali dei suoi laureati

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olendo valutare il grado di qualità dell’università di Padova è fondamentale interpellare gli studenti e sentire la loro l’opinione in merito alla soddisfazione per i servizi che questa eroga; ma non basta: bisogna anche analizzare la capacità dei neolaureati di trovare un’occupazione, e, soprattutto, di trovarne una “buona”. È doveroso, quindi, fare alcune precisazioni sull’università patavina, considerata in alcuni settori una delle eccellenza italiane (cfr. con la Grande guida delle università 2011-2012 presentata da «La Repubblica»). Nel settore universitario, esiste in Italia un grande divario tra Nord e Sud, e l’università padovana risulta quindi avvantaggiata, ma è interessante dare uno sguardo agli atenei stranieri: confrontando la media dei risultati OECD con quelli italiani, ci si accorge ben presto che parlare di eccellenza in Italia è quasi ridicolo. Se poi il confronto viene limitato alle università di eccellenza europea, l’immagine che si ottiene sulla condizione di quelle italiane è sconfortante, almeno per chi ha a cuore la salute dell’istruzione

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pubblica. Si pensi ad esempio che la Spagna, la quale vive una situazione economica forse più critica di quella italiana, investe il 79% in più per ogni laureato. Nel nostro Paese i laureati sono pochi, nella fascia tra i 25 e i 34 anni il numero dei laureati è di 20 su 100 (contro una media OECD di 37), la Francia ne ha 43 e il Regno Unito 45. I dati raccolti sui paesi membri dell’OECD mostrano come gli investimenti italiani nell’istruzione universitaria siano tra i più bassi, superiori solo a quelli dell’Ungheria e della Repubblica Slovacca. Anche il settore di Ricerca e Sviluppo, considerato cruciale per competere nei mercati a livello internazionale, è il meno finanziato tra i Paesi europei più avanzati: in Italia viene investito l’1,26% del PIL, in Svezia 3,62%. Oltre al problema di avere così pochi finanziamenti per l’università e un numero così basso di lauree, si aggiunge quello della scarsa richiesta da parte del mercato del lavoro di laureati, ovvero di personale specializzato e qualificato. Prima di giustificare questo fenomeno con la facile etichetta della crisi economica, è im-

portante precisare che in Italia, nel 2011, la domanda di laureati ha rappresentato il 12,5% di tutte le assunzioni previste, mentre negli Stati Uniti le previsioni per il decennio 2008-2018 stimano il fabbisogno di laureati per il 31% sul totale delle assunzioni. Questo fenomeno è causato non solo dalla tipologia delle imprese italiane, medio-piccole e a conduzione familiare, ma soprattutto dalla scarsa specializzazione tecnologica delle imprese e dal basso livello di istruzione degli imprenditori. È ormai accertato e generalmente riconosciuto che all’aumentare del livello di istruzione dei titolari d’azienda e del livello tecnologico utilizzato nella produzione, la domanda di laureati aumenta. In particolare nelle imprese in cui il titolare possiede la laurea il numero dei laureati assunti è del triplo rispetto alle altre. In Italia, delle persone tra i 55 e i 64 anni, solo una su dieci è laureata: la metà esatta della media dei paesi OECD. Il ritardo italiano è quindi un problema antico, le cause degli scarsi investimenti nell’istruzione universitaria e dello scarso impiego di laureati vanno ricercate in un livello di istruzione piuttosto basso. Consapevole di avere solo accennato ai problemi dell’università italiana, vorrei ora stringere l’attenzione su Padova. Per fare una valutazione dell’università patavina, mi concentrerò sulla capacità dei neolaureati di trovare un occupazione a sei mesi dal conseguimento della laurea, col fine di valutare la capacità di

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inserimento degli studenti nel mondo lavorativo nel breve periodo e quindi la capacità dell’università di formare lavoratori appetibili per il mercato del lavoro. I dati a cui mi riferisco sono tratti dalle ricerche del Progetto Agorà dell’università di Padova, risultati usciti nella pubblicazione Dal Bo all’Agorà. Il capitale umano investito nel lavoro a cura di Luigi Fabbris, e in questa ricerca il termine “occupato” non ha lo stesso valore assegnato da AlmaLaurea (la quale considera occupato chi ha lavorato anche solo un’ora con compenso, senza riferimento specifico alla durata del lavoro) o dall’Istat (che considera occupato chi svolge, in una settimana di riferimento, almeno un’ora di attività lavorativa retribuita, in proprio o alle dipendenze, non per forza regolarizzata da un contratto). Il termine “Occupato” si riferisce a chi dedica la maggior parte del suo tempo ad un’attività lavorativa, a prescindere dal numero di ore, dal tipo di contratto o anche dall’eventuale svolgimento contemporaneo di altre attività formative. In poche parole è lo stesso intervistato a dichiararsi occupato. Questo comporta delle discrepanze con i dati raccolti dalle altre ricerche (ricerche tra l’altro in linea con la prassi degli istituti di ricerca europei), ma garantisce una migliore coerenza. Secondo questa ricerca il numero di occupati a sei mesi dal conseguimento della laurea è pari al 58%; di questi il 54,7% ha intrapreso la sua prima attività lavorativa, il 19,6% ha cambiato lavoro dopo essersi laureato e il 25,7% ha mantenuto l’occupazione che svolgeva durante gli studi. I laureati Padovani sembrano fortemente legati alla realtà veneta, sia perché la regione assorbe neolaureati, sia per una sorta di localismo che ne riduce la mobilità; infatti tra gli studenti dell’Università di Padova il 73,7% trova lavoro nella provincia di residenza, e se a questi sommiamo il numero degli occupati nella stessa regione, il loro numero supera il 90%. Solitamente gli studenti che sono disposti a cambiare provincia, regione o residenza per motivi lavorativi sono gli stessi che hanno dovuto farlo per motivi di studio. I laureati sono generalmente soddisfatti circa l’autonomia, l’indipendenza (92,6%) e la possibilità di acquisire professionalità lavorando (90,3%), ma si dichiarano più mesti nel pensare alle prospettive di guadagno (73,2%) e di carriera (70,9%). La soddisfazione per il proprio lavoro conosce delle differenze in base alle aree disciplinari di appartenenza e in una scala decrescente di soddisfazione seguono quest’ordine: Ingegneria, Scienze della vita (Medicina, Veterinaria, Farmacia, Agraria), Scienze MM.FF.NN, Scienze sociali (Economia, Giurisprudenza, Sc. Statistiche, Sc. Politiche). A chiudere

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questa speciale classifica ci pensano gli studenti di area umanistica. Ci sono però alcuni fattori che aumentano le capacità del giovane laureato nel trovare lavoro; ad esempio aver svolto un’attività lavorativa prima del conseguimento della laurea aumenta del 34% la possibilità di trovare un’occupazione e l’aver rifiutato una proposta lavorativa aumenta del 7% la possibilità di trovare un buon lavoro; ciò significa che le persone che ricevono maggiori offerte avranno più possibilità di trovare un lavoro interessante. I “mammoni” sono penalizzati: chi non esce di casa vede le sue possibilità di trovare un’occupazione ridursi del 5%. La famiglia ha un ruolo importante nella possibilità di trovare lavoro, pari al 4,6% per chi ha il padre che svolge un’attività in proprio; la condizione lavorativa della madre non sembra invece incidere sulla probabilità di occupazione a sei mesi dalla laurea. Tentando di definire in poche righe il peso della famiglia sulle scelte dello studente e sul suo ingresso nel mondo del lavoro, si può dire che l’alto tasso d’istruzione della famiglia è uno stimolo a pro-

laurea e i fattori che aumentano le probabilità di trovare un’occupazione non sempre sono quelli che favoriscono la ricerca di un “buon” lavoro. Ne sono un esempio gli studenti lavoratori, che se da un lato sono favoriti nella ricerca di un’occupazione, poiché conoscono già il mondo del lavoro e le sue regole, dall’altro sono invece sfavoriti nella ricerca di un lavoro di qualità. Un esempio opposto riguarda l’influenza del tempo impiegato nel terminare gli studi, che incide negativamente sulla possibilità di trovare occupazione, ma positivamente su quella di trovare un buon lavoro. Una precisazione va fatta per le neolaureate: sfavorite rispetto ai colleghi maschi nel trovare un impiego, non lo sono invece per quanto riguarda le capacità di trovare un buon lavoro. Le ragazze tendono a preferire studi di carattere sociale e umanistico, studi che sono sfavoriti nel breve periodo dal mercato. Ma la loro tendenza a dedicare tempi più lunghi agli studi e ad ottenere migliori risultati scolastici, sta dando risultati positivi nella loro immissione nelle posizioni ritenute “alte” del mercato del lavoro.

Nel nostro paese i laureati sono pochi (20 su 100 tra i 24 e i 35 anni): la Francia ne ha 43, il Regno Unito 45. In Italia gli investimenti nell’Università sono tra i più bassi in Europa: superiori solo a quelli dell’Ungheria e della Repubblica Slovacca. seguire gli studi e che la professione dei genitori, in particolare del padre, è solitamente una spinta per il giovane laureato nel voler ricercare un buon lavoro. Diversamente da quanto si crede comunemente, il voto di laurea non ha grande incidenza sulla capacità di trovare occupazione a sei mesi dal conseguimento del titolo di studi, mentre risulta penalizzante aver impiegato più tempo di quello previsto per ottenere la laurea (-7%). Ha un effetto positivo l’esperienza di stage (la possibilità di trovare lavoro aumenta infatti del 5,2%), mentre chi ha svolto l’esperienza Erasmus ha meno possibilità di trovare un impiego rispetto agli altri laureati (-7,6%), probabilmente per il fatto che l’Erasmus solitamente allunga il periodo necessario per conseguire la laurea. Incidono negativamente nella ricerca di occupazione anche le attività considerate fonte di distrazione dall’obiettivo finale di laurearsi, come ad esempio il fare politica nell’università o svolgere altre attività, di ricerca ad esempio, non direttamente funzionali al raggiungimento della laurea.

Fonti > > > >

www.almalaurea.it www.miur.it www.istat.it Dal Bo all’Agorà. Il capitale umano investito nel lavoro, a cura di Luigi Fabbris, Cleup, 2010

Solo il 44% dei laureati di Padova trova un lavoro soddisfacente a sei mesi dalla

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PADOVA città della conoscenza Conoscenza ed informazione come motori di una nuova economia: una possibile via d’uscita dalla crisi, che si sta delineando come una vera e propria nuova Rivoluzione Industriale. articolo di Nicola Rampazzo

immagine di Chiara De Notaris

Crisi e terza Rivoluzione Industriale. Proposte e vie d’uscita per il futuro della città

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scire dalla crisi: nel presente e nelle prospettive di una città come Padova che è (stata) motore di sviluppo economico ed è, con la sua provincia, tra le prime dieci in Italia per produzione di ricchezza in termini assoluti, è imprescindibile capire le coordinate della crisi che stiamo attraversando e che innesca una vera e propria rivoluzione culturale, tanto da imporre nuovi paradigmi. Parlare di “saperi” a Padova oggi ha certo a che fare con l’Università, ma è la Conoscenza come bene comune a dover fondare un modello di sviluppo condiviso che ci conduca fuori dall’impasse in cui ci troviamo. Sembra perciò opportuno fornire qualche indicazione per orientarsi in questa congiuntura. «Message is the Media». Con queste quattro parole, frutto del rovesciamento della celeberrima definizione di Marshall McLuhan «Media is the Message», Manuel Castells descrive la rivoluzione copernicana operata dalla nascita delle

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ICT (Information and Communication Technologies). Il cambiamento non sta, come troppo spesso si crede, nel modo di comunicare, ossia in ultima analisi nel come si comunica, quanto piuttosto nel cosa si comunica. Gli ultimi vent’anni hanno visto cambiare innanzitutto il contenuto della comunicazione globale, la sua apertura e il suo repentino divenire un grande racconto plurale. Sempre più spesso, quando mi capita di cercare di spiegare come funziona il web ai non addetti ai lavori, mi trovo di fronte al problema che internet viene percepito come una delle tante piattaforme. Invece la rivoluzione digitale è un contenuto. Fenomeni come la nascita dell’etica hacker all’interno delle controculture nordamericane degli anni ‘60 e ‘70 e il suo costruire la geografia di quel mondo simbolico che oggi chiamiamo internet c’entrano più con il “cosa” comunichiamo. La nostra vita, i nostri pensieri, i nostri interessi, le battaglie politiche, molte nostre transazioni economiche, alcune nostre

relazioni, l’attività della nostra azienda e molte altre cose stanno accadendo in quell’altrove che è prima di tutto un nuovo universo simbolico. Lo spostamento dell’attività umana nello spazio dell’immateriale è stato osservato da Jeremy Rifkin sin dal 2000 ne L’era dell’accesso e si riferisce precisamente a questo spostamento di baricentro dal mondo materiale verso il mondo immateriale. Non intendo qui come attività immateriale solo il web ma anche e soprattutto l’esplosione del problema della finanza speculativa che dobbiamo leggere proprio come adattamento storico del capitalismo novecentesco a questo processo di dematerializzazione. Algoritmi sempre più complessi regolano oramai le nostre vite nel bene, come nel caso di certo web “virtuoso e democratico”, e nel male, come per la crisi finanziaria che lega il futuro di milioni di persone a quel grandissimo algoritmo fuori controllo che è la finanza globale. È una rivoluzione che Jeremy Rifkin, dopo un’intensa analisi durata una decina di anni a partire proprio da L’era dell’accesso, chiama Terza Rivoluzione Industriale. Per questo credo che anche l’attuale crisi economica vada letta certamente come crisi ciclica dell’economia capitalista ma non tanto simile a quella del 1929, quanto a quella del 1873, o meglio ancora a un mix delle due. Se è infatti vero che l’attuale situazione è figlia dell’assenza di regole e del dominio

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di decenni dell’economia di mercato sugli apparati statali è altresì vero che corrisponde, come quella del 1873, ad una rivoluzione industriale. Inoltre questa terza rivoluzione industriale non sta solo innovando il modo del produrre, ma sta letteralmente cambiando il paradigma di sviluppo.

La conoscenza è un bene comune Lo stadio di questa rivoluzione industriale e della relativa crisi economica che stiamo vivendo vede l’affermarsi di una serie di parole d’ordine: ecologia, green economy, beni comuni. In particolare mi pare importante soffermarsi sulla questione dei beni comuni che in Italia vengono riconosciuti soprattutto quando materiali. È curioso invece notare che la letteratura e le prassi che riguardano i beni comuni hanno raggiunto i più alti gradi di applicazione soprattutto nelle attività immateriali legate al mondo della conoscenza. La competitività economica dell’Open Source2, la nascita e l’estrema diffusione delle licenze GPL nel campo del software libero, l’affermarsi delle licenze Creative Commons per la proprietà intellettuale sono solo alcuni indicatori di un dominio (o di un non-dominio) che giorno dopo giorno erode le certezze del capitalismo dell’informazione per come si è configurato a fine degli anni ‘70 del Novecento. In La conoscenza come bene comune Elinor Ostrom sottolinea come i beni comuni immateriali, come la conoscenza, siano per natura illimitati e infiniti, a differenza di quelli materiali che sono invece limitati ed esauribili, e come di conseguenza sia necessario promuovere la loro diffusione e il loro utilizzo da parte del più alto numero possibile di persone. Il liberismo, a questo proposito, si comporta invece in modo schizofrenico, cercando di recintare i beni immateriali con copyright e limitazione dell’accesso universitario, per esempio, e trattando invece i beni materiali come se fossero infiniti e illimitati. Serge Latouche ha inquadrato molto bene l’esito di questo comportamento nella catastrofe ecologica, oltre che economica, che giorno dopo giorno sembra avvicinarsi. Per fermare questo processo e non cadere nel baratro è necessario che tutte le comunità nazionali e locali lavorino per il ribilanciamento del rapporto tra uso dei beni comuni materiali e immateriali così da favorire uno sviluppo umano.

Padova. Muoviamoci verso la conoscenza, che è anche la nostra libertà

è la costruzione di un rapporto virtuoso tra tessuto sociale e produttivo e luoghi di produzione del sapere che starà alla base di un nuova definizione della geografia economica globale. nità e tratteggiare un orizzonte verso cui muoversi: quello della conoscenza. La storia e la natura di Padova ne fanno necessariamente uno dei luoghi più adatti per sperimentare a livello europeo vie di uscita dalla crisi economica proprio nel senso dello sviluppo di nuove economie che partano dal principio della conoscenza come bene comune. Perché se è vero che il motore della nostra economia è l’informazione, la stessa è anche l’unità di misura della conoscenza, che a sua volta è l’unità di misura del sapere. Ed è quindi la costruzione di un rapporto virtuoso tra tessuto sociale e produttivo e luoghi di produzione del sapere che starà alla base di un nuova definizione anche della geografia economica globale e dell’opportunità di diventare centro o rimanere relegati al ruolo di periferia, con tutto quello che questo significa nei periodi di depressione economica. Per questo oggi più che mai è necessario aprire un cantiere sull’orizzonte politico di una Padova “Città della Conoscenza” che veda le forze migliori della società, dell’economia e del sapere del nostro territorio collaborare per costruire la transizione verso un nuovo modello di sviluppo ecologico e informazionale. Questa strada, per quanto difficile, è l’unica che realisticamente sembra portare oltre la crisi economica. In questo spazio mi limito delineare alcune questioni che nei

prossimi mesi e anni necessariamente dovremmo affrontare: • • • •

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maggiore integrazione dell’Università nei processi politici, sociali ed economici della città; inclusione della popolazione studentesca all’interno dei processi decisionali cittadini; abbattimento delle barriere economiche e sociali di accesso al sapere e rafforzamento del diritto allo studio; interdisciplinarità ed abbattimento delle barriere tra sapere scientifico e sapere umanistico che a oggi sono un forte blocco allo sviluppo economico e sociale; trasferimento sano di conoscenza tra Università ed Imprese e viceversa; forte investimento in ICT, connettività ed attività economiche legate al mondo delle nuove tecnologie.

La lista potrebbe continuare, o meglio, ogni singola voce potrebbe contenerne altre e delineare così un programma politico. Ma per farlo dobbiamo mettere in atto un processo di partecipazione collettiva alla gestione della città che fuoriesca dalle risacche della vecchia politica che governa il nostro Paese e alzi la testa per guardare al nostro futuro. La libertà, come sempre, non è un regalo ma va conquistata giorno dopo giorno.

Bibliografia > The Rise of the Network Society, The Information Age: Economy, Society and Culture, Vol. I. Cambridge, MA; Oxford, UK. Blackwell. 1996. > The Power of Identity, The Information Age: Economy, Society and Culture, Vol. II. Cambridge, MA; Oxford, UK. Blackwell, 1997. > End of Millennium, The Information Age: Economy, Society and Culture, Vol. III. Cambridge, MA; Oxford, UK. Blackwell, 1998. > L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Jeremy Rifkin, Mondadori, 2000. > La Terza rivoluzione industriale. Come il “Potere laterale” sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo, Jeremy Rifkin, Mondadori, 2011. > Understanding Knowledge as a Commons: From Theory to Practice, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2006. Traduzione italiana: La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Bruno Mondadori, 2009.

L’analisi di cui sopra vuole descrivere un contesto in cui leggere la vita e lo sviluppo della nostra città e della nostra comu-

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parola al professore ConAltriMezzi ha intervistato il professor Giorgio Tinazzi, docente di Storia e Critica del Cinema dell’Università di Padova e delegato del Rettore alle attività culturali. intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

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Uno sguardo interno all’Università: questa volta abbiamo dato parola al professor Tinazzi, delegato alle attività culturali

C

i piacerebbe partire dal celebre proverbio: “il Prato senza erba, il Caffè senza porte, il Santo senza nome”... Padova come “città dei senza”, che da sempre esprime un senso di vuoto, di mancanza. Lei si sente d’accordo con questa interpretazione? Cosa dovrebbe esserci che invece non c’è in questa città? Sarebbe forse opportuno partire da quello che c’è per capire cosa manca. Devo dire che ci sono delle iniziative che andrebbero valorizzate. Innanzitutto andrebbe rivisto il rapporto con i giovani, visto che gli studenti rappresentano da soli un quarto della popolazione, poi bisognerebbe irrobustire il rapporto tra università e città, che per antica tradizione ha sempre conosciuto dei punti di positività, ma anche di frizione e difficoltà. Io mi posso anche riferire a quest’iniziativa che gestisco da una quindicina d’anni, cioè quelli che con uno slogan abbiamo definito Incontri al Bo. Nella sede centrale dell’università organizziamo periodicamente degli incon-

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andasse in progressiva decadenza e oggi stiamo drammaticamente vivendo l’impatto con una legge balorda e prevalentemente votata ad impoverire ed emarginare l’università pubblica.

tri con personalità dello spettacolo, della cultura: scrittori, registi, etc. L’iniziativa è rivolta ai docenti, agli studenti, ma anche alla cittadinanza e l’accoglienza è generalmente ottima. L’altro episodio recente di cui credo sia importante parlare è la Fiera delle parole, inaugurata a Padova l’anno scorso e che si ripeterà anche quest’anno. Padova è una città che ha un forte potenziale, sviluppato solo parzialmente.

Quali sono i motivi che dovrebbero convincere le giovani generazioni a rimanere a Padova piuttosto che ad andarsene? O viceversa: qual è il motivo per cui questa città sarebbe meglio lasciarla? Non è necessario ipotizzare che l’unica via d’uscita sia lasciarla: ci possono essere delle ragioni per restare. Padova può vantare ancora una buona università. Certo, l’impoverimento delle risorse ad essa destinate fa sì che ci sia la cosiddetta fuga dei cervelli, così come in tutte le altre città d’Italia. Ma la colpa è di chi investe nell’università risorse eccessivamente scarse, a vantaggio di altre iniziative.

Come vede l’università rispetto al passato? Migliore o peggiore? Non crede che stia perdendo un ruolo culturale all’interno della città che le dovrebbe essere proprio? Qui il discorso diventa necessariamente politico. L’università ha subito dei cambiamenti radicali negli ultimi venti anni, è stata rivoltata, come è logico che fosse, essendo stata fino agli anni Sessanta un’università di élite ed essendo diventata, com’era opportuno che fosse, un’università di massa. Il ministro Gelmini ha operato affinché l’università pubblica

A noi sembra che i corsi e i seminari organizzati dall’università non guardino molto alla cultura contemporanea. È d’accordo? E se sì, perché? In questo caso è difficile fare discorsi di carattere generale. Io mi posso riferire alle facoltà umanistiche, ovvero all’ambito meno produttivo, che più risente dello smantellamento progressivo dell’università pubblica. Poi ci sono degli alti e bassi: le facoltà umanistiche, come quelle scientifiche, offrono delle punte alte: docenti, ricercatori e studenti possono offrire, insieme, qualcosa che sia in sin-

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tonia con il mondo contemporaneo. Poi ci sono anche punte basse, cioè sacche di inerzia. Da alcune interviste che abbiamo realizzato sono giunte delle critiche all’università, accusata di non sapere o non volere interagire con la vita culturale della città. Le sembra che l’università si adoperi per uscire dal semplice ambito accademico ed entrare attivamente nella vita culturale collettiva? Sinteticamente: l’università fa, ma può fare di più. Credo che la spinta vada in questa direzione. C’è la volontà, per così dire, “politica” dell’università di aprirsi ulteriormente. Poi c’è anche una certa sordità della città: l’università può rispondere a delle esigenze, ma non può crearle. Questa è anche una città mercantile, di piccola imprenditoria. Quante sono le collaborazioni dell’imprenditoria padovana con l’università? Poche. Lo studente universitario è prevalentemente visto come un soggetto portatore di denaro. Cosa fa la città, nel suo complesso, perché questo studente si senta parte attiva della comunità nella quale vive? Poco. Parlando specificamente dell’insegnamento cinematografico, perché l’università non cerca di coinvolgere attivamente registi e produttori padovani? Posso riferirmi ai miei quarant’anni di

dere se si può fare di più. Però ricordo un’esperienza molto positiva che è stata il seminario di montaggio tenuto da Roberto Perpignani, cioè uno dei più importanti montatori italiani. Con Jolefilm abbiamo dei cordialissimi rapporti che cercheremo di sviluppare. Secondo lei la gestione Zanonato è attenta alle attività culturali della città? Sì, c’è un notevole interesse. Tra l’altro l’apertura del centro culturale Altinate San Gaetano è stata un’occasione per sviluppare una serie di iniziative che credo andrebbero coordinate, perché sono troppo sparpagliate. In questo caso è il Comune che dovrebbe farsi carico del coordinamento delle iniziative. Poi bisognerebbe potenziare i rapporti con l’università, che esistono già per quanto riguarda la gestione dei servizi, ad esempio. Sarebbe bello se ciò avvenisse anche nel settore culturale. Ci sono delle aperture, ma ci sono anche delle chiusure. Non è un rapporto facile in questo momento, ma le premesse potrebbero esserci. Quindi la risposta sulla giunta Zanonato è: sì, ma… Perché questa chiusura da parte di Padova nei confronti degli studenti: danno così fastidio? Il flusso studentesco è forte e quindi è inevitabile che provochi qualche disagio, però anziché lamentarsi dei disagi

“Andrebbe rivisto il rapporto con i giovani, visto che gli studenti rappresentano da soli un quarto della popolazione. C’è la volontà ‘politica’ dell’università di aprirsi ulteriormente. Poi c’è anche una certa sordità della città.” esperienza. Nel mio corso e nell’università sono stati ospiti quasi tutti i grandi registi italiani, questa è una tradizione della nostra università. Se lei guarda il nostro libro degli Incontri al Bo, si accorgerà che da Antonioni a Rosi a De Oliveira e Mastroianni, sono venuti tanti grandi registi e attori. Certo, si è trattato di un unico incontro: bisognerebbe ve-

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bisognerebbe trovare un modo per farli scemare. Si fa poco in questa direzione. A parte gli episodi un po’ folclorici, i disagi non sono poi così gravi, e tali episodi non c’entrano nulla col rapporto tra studenti e cittadinanza. Gli studenti sono un’altra cosa, lo vedo lavorandoci assieme tutti i giorni. Bisognerebbe che questi disagi, inevitabili vista la mole di

studenti, venissero risolti, evitando di continuare a lagnarsi. L’università riesce a fare pressioni affiché la politica stia attenta alla vita culturale e agli studenti che vivono in città o non è capace di avere un peso politico? Ci prova, ma ci riesce solo parzialmente. Sarebbe assurdo che l’università non provasse ad avere peso politico, dato che è una delle più antiche e più grandi d’Italia, è il più grande centro culturale della città ed offre anche dei servizi. Questo dovrebbe indurre le istituzioni a prestarle attenzione. C’è un po’ di sordità reciproca, anche ci sono alcuni segnali forti. Forse l’università potrebbe anche premere di più. Si può sempre fare di più. Dal punto di vista professionale e occupazionale: lei crede che l’Università di Padova offra delle opportunità ai giovani studenti che vogliano lavorare nel settore culturale? Questo è un problema generale molto importante e quindi non si può isolare Padova dal contesto nazionale in cui c’è una disoccupazione giovanile altissima. Però farei solo una precisazione: per mercato del lavoro non si deve intendere solo l’inserimento produttivo che dia immediati risultati economici. Ci può essere anche un inserimento in settori che non sono immediatamente produttivi. La cultura è anche un bene economico, quando l’Italia capirà questo le cose cambieranno. Volendo trarre delle conclusioni, potremmo dire che certe critiche all’università possono essere giuste ed altre invece vanno respinte? Fino a che punto la colpa è degli scarsi mezzi e quanto invece pesa la mancata volontà dell’università di aprirsi? Per carità, io accetto tutte le critiche che vengono fatte all’università e riconosco che possano esserci delle forze drenanti. Ci dovrebbe essere maggiore apertura. La scarsità delle risorse, però, è un fatto che da qualche tempo a questa parte fa un po’ la differenza.

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lo spazio per studiare La questione delle aule studio a Padova, degli spazi offerti agli studenti, una componente fondamentale di questa città, e qualche esperimento positivo di autogestione. articolo di Alice Campagnaro

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La questione delle aule studio a Padova e degli spazi offerti agli studenti. Qualche esperimento positivo di autogestione.

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sufficiente passeggiare per Padova, entrare in un bar o in un negozio, per rendersi conto di quanto sia importante il contributo degli studenti all’economia di questa città. Gli iscritti all’università sono, infatti, circa 67.000, di cui molti fuori sede che devono sostenere tutti i costi della vita in città: l’affitto, le bollette, le spese quotidiane. Spesso svolgono lavori saltuari o stagionali, nella maggior parte dei casi senza un contratto regolare. Per tutti le tasse universitarie sono esose, e quest’anno il loro aumento va di pari passo con la diminuzione dei servizi dovuta ai tagli al Diritto allo studio. Gli studenti vivono, per forza di cose, gran parte della loro giornata fuori casa. Gli anni dell’università sono decisivi per provare a scegliere, tra le molte strade possibili, quella che si vorrebbe fosse la propria, per costruire un percorso immaginario e tentare di realizzarlo, per trattenere dentro di sé il sogno, in una zona

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nascosta, al riparo dalla lucida coscienza delle difficoltà, della crisi economica o della propria incapacità. Sono anni preziosi per sperimentare, conoscere, spaziare, allargare il proprio orizzonte e guardare il mondo secondo un’altra prospettiva; “scordarsi le rotaie verso casa”. In questi anni di formazione è (o dovrebbe essere) ovviamente fondamentale lo studio della materia a cui un giorno abbiamo scelto di dedicarci per passione o convenienza. È, infatti, proprio in questi anni che si può imparare a studiare in modo consapevole e non a limitarsi a una sterile collezione di nozioni necessarie a superare gli esami, e il modo di studiare non è indipendente dal luogo in cui si studia. I fuori sede, che condividono la casa, spesso anche la camera, con altri, per studiare sono in molti casi costretti a cercare degli spazi alternativi e collettivi, come biblioteche e aule studio. Ma la scelta dell’aula studio non è solo la conseguenza di situazioni abitative claustrofobiche:

nasce anche dal piacere di studiare insieme agli altri. è un modo per condividere le conoscenze e la passione per la materia; discutere del pregio di un libro, dell’esattezza di un calcolo, dell’interpretazione di una poesia. Condividere la conoscenza significa anche capire qual è il suo potere sociale. Non solo appropriarsi di competenze, ma appropriarsene in modo che vadano a costituire in senso strutturale ogni individuo e tutti gli individui considerati collettivamente: competenze in grado di costruire, migliorare, pensare la società. Tutto questo può nascere, per esempio, se in una torrida giornata di luglio gli studenti si trovano a ripassare per la sessione estiva approfittando del refrigerio dell’aria condizionata. È evidente, però, che gli spazi resi disponibili a questo scopo non sono sufficienti: l’Ateneo di Padova offre sette aule studio, per un totale di circa 1200 posti. Di queste, solo tre sono aperte fino a sera tarda, e le stesse (Jappelli, Paolotti e Tito Livio) consentono di studiare anche il sabato e la domenica. Episodio limite, ma emblematico, quello dello scorso 13 giugno, quando a causa della festa del Patrono tutte le aule studio di Ateneo sono rimaste chiuse, tranne tre, creando non pochi disagi agli utenti, dato che ci si trovava in piena sessione d’esame. Caso a sé è costituito dall’aula studio Paolotti, familiarmente conosciuta come Pollaio, l’unica gestita direttamente da-

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gli studenti. L’attuale Pollaio, situato nel complesso Paolotti in via Belzoni, esiste solo dal 2010; ma la storia dell’aula studio autogestita è molto più antica. La prima sede, che consisteva di due locali (Ufficio studenti e Biblioteca studenti) era situata all’interno del Dipartimento di Fisica, e la sua occupazione risale al ‘68. Nel 1992 il Dipartimento di Chimica iniziò a sollevare obiezioni riguardo all’utilizzo dei locali di Fisica, che vennero quindi chiusi. Agli studenti venne quindi concessa un’altra aula studio in via Marzolo (chiamata “Pollaio” perché in origine il Dipartimento di Biologia ci teneva gli animali destinati agli esperimenti). Nel 2006, a causa di nuove pressioni da parte del Dipartimento di Chimica, fu aperta una trattativa tra studenti e Università per concordare il trasferimento in un altro stabile: il Paolotti in via Belzoni. Nel 2010 inizia la fase più recente, riguardante il “nuovo Pollaio”. L’università infatti approfittò del trasferimento per assegnare in gestione il locale al delegato del Rettore responsabile delle aule studio di Ateneo, estromettendo da ogni decisione la Facoltà di Scienze e il Dipartimento di Fisica, con i quali erano stati presi gli accordi. Per questo, dopo aver tentato invano di interloquire con i responsabili dell’Università, gli studenti decisero di occupare nuovamente la sede in via Marzolo, cosa che avvenne il 5 gennaio 2011. A questo punto l’Ateneo, messo alle strette, decise di concedere l’autogestione dell’aula del Paolotti, purché il Consiglio degli Studenti se ne assumesse oneri e responsabilità. L’esperienza, iniziata ad agosto 2011, prosegue tuttora con successo. L’ateneo dovrebbe appoggiare simili esperienze di autogestione, anziché ostacolarle: uno spazio autogestito crea socialità e consapevolezza; studiare in uno spazio autogestito significa riuscire ad attribuire allo studio un significato più profondo e

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Padova conta circa 67.000 iscritti all’università. L’Ateneo offre sette aule studio, per un totale di circa 1200 posti. Perché ostacolare la formazione di spazi autogestiti? Essi creano socialità e consapevolezza, attribuendo allo studio un significato più profondo e compiuto. compiuto. Solo attraverso la gestione di se stessi, in ogni senso, si può giungere al senso di sé e al senso del proprio essere in un contesto più ampio: l’università, la cit-

tà, il mondo. Ché un senso, sia pure precario, è indispensabile provare a trovarlo, anche e soprattutto di fronte alla realtà della crisi che attraversa il nostro tempo.

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senza di noi Abbiamo intervistato Alessandro Calissi, uno degli organizzatori del movimento “Senza noi Padova muore” e membro dell’ASU (Associazione Studenti Universitari) fondata nell’84 con l’obiettivo di promuovere un’interazione positiva tra studenti e città. intervista a cura di Serena Maule

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Quali sono i problemi per gli studenti che vivono in città e quali sono le loro iniziative per risolverli?

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u ti occupi del progetto “Senza di noi Padova muore” dell’Associazione Studenti Universitari. Di che cosa si tratta? Quando è nato il progetto? Di cosa vi occupate? Il progetto è nato dall’impressione che ci sia un muro tra studenti e cittadini, quindi l’idea che guida questo progetto è quella di decostruire le logiche che si sono venute a creare per cui la vita cittadina e la vita universitaria scorrono in parallelo senza incrociarsi e innescare invece una logica di integrazione, incontro, un rapporto proficuo e non conflittuale tra gli studenti e i cittadini. So che avete aperto la campagna con alcune iniziative. Di cosa si trattava? Abbiamo deciso di partire dall’aspetto economico perché in un periodo di crisi come questo è quello che pesa di più sulle persone. Partendo da un’analisi sulla rilevanza economica degli studenti abbiamo deciso di marchiare le banconote

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imprimendo il timbro di “Senza noi Padova muore” sui soldi che ogni giorno passano dalle mani degli studenti alle tasche dei negozianti. Lo scopo era quello di far comprendere ai cittadini, attraverso anche una campagna di distribuzione di stampe e volantini, il ruolo che gli studenti hanno, potrebbero o dovrebbero avere, o che ancora non hanno, all’interno della città. E la questione degli spritz? Innanzitutto, è davvero una questione? È una questione strumentale, nel senso che l’amministrazione comunale ed altri soggetti come i comitati cittadini l’hanno sfruttata per etichettare il mondo giovanile e quindi anche gli studenti universitari. Il mondo degli spritz nell’immaginario collettivo riassume l’orizzonte di attività degli studenti. Essendo noi un’associazione di studenti universitari sappiamo bene che i loro interessi vanno ben oltre lo spritz e se possono esserci

problemi legati a concentrazioni eccessive di studenti in singoli posti in orario aperitivo è anche vero che mancano offerte culturali, o anche ludiche, che costituiscano un’alternativa valida all’aperitivo in piazza e che offrano momenti di aggregazione. Gli studenti si ritrovano negli spazi che sono disponibili. Quest’anno che attività avete proposto? Quest’anno abbiamo deciso di puntare su una campagna di sensibilizzazione, quindi attraverso un questionario di circa quindici domande siamo andati a intervistare i singoli cittadini nelle piazze, nei mercati, in Prato della valle e anche in quartieri come l’Arcella o il Portello che sono considerati periferici, ma che in realtà hanno un’alta popolazione studentesca. L’avete fatto da soli o avete cercato di ampliare i vostri orizzonti? Abbiamo capito che la questione dell’aggregazione culturale non riguarda solo ed esclusivamente gli studenti, ma è un problema sentito anche da altre fasce di popolazione. Attraverso chiacchierate informali siamo riusciti a contattare altre associazioni che si occupano di promozione culturale per chiedere il loro punto di vista sull’offerta culturale a Padova, il modello di offerta culturale padovana e gli spazi a disposizione per iniziative culturali non necessariamente istituzionali.

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Nella pratica quali provvedimenti potrebbero essere presi per coinvolgere di più gli studenti nella vita cittadina? Ci sono vari aspetti della vita degli studenti all’interno della città, che ovviamente non si limitano solo al momento della lezione frontale universitaria e ai servizi dell’università. Quello che interessa a noi è capire le esigenze degli studenti al di fuori dell’università. Per esempio la questione degli affitti, che come detto prima ha una rilevanza economica importante per la città. Il primo obiettivo che ci siamo posti è combattere il fenomeno del contratto in nero o addirittura dell’assenza di un contratto, per cui uno studente si ritrova a versare una quota mensile per pagare una singola stanza piuttosto che un appartamento senza avere nessun tipo di tutela e trovandosi quindi in balia del proprietario della casa. Ma questa non è l’unica battaglia perché anche le tipologie di contratto standard non vanno bene, gli studenti hanno bisogno di maggiore flessibilità. Un contratto che può essere di quattro anni più quattro per lo studente è troppo vincolante e impegnativo. Quindi abbiamo deciso come associazione di studenti universitari in collaborazione con il comune e con l’ESU, di stilare una forma di contratto più a misura di studente: un anno con possibilità di rinnovo annuale e garanzie come quella di non poter essere messo sotto sfratto se non con un ampio margine di preavviso. Ovviamente quello che chiediamo è una maggior promozione di questo tipo di contratto (che dà vantaggi anche ai proprietari) e far sì che divenga il più diffuso nella locazione degli stabili agli studenti. Come può il comune riconoscere uno studente non residente come interlocutore? Questo è un tema sensibile perché è uno dei motivi per cui secondo noi lo studente non viene considerato. Lo studente non vota, non ha voce in capitolo nelle scelte dell’amministrazione comunale e quindi come soggetto politico e sociale non ha peso. Quello che proponiamo noi è di

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“Lo spritz nell’immaginario collettivo riassume l’orizzonte di attività degli studenti. Essendo noi un’associazione di studenti universitari sappiamo bene che i loro interessi vanno ben oltre lo spritz.” coinvolgere gli studenti che vivono in città attraverso strumenti decentrati come il consiglio di quartiere. Quindi dare la possibilità agli studenti, non tanto di votare alle elezioni comunali, ma almeno di avere voce in capitolo e di intervenire come membri attivi nel consiglio del quartiere dove risiedono e magari proporre iniziative o campagne culturali. Gli studenti lavorano o pensano solo a studiare e a bere? Molti studenti, soprattutto ora con la crisi economica e con i tagli alle borse di studio hanno meno supporti per sostenere la propria carriera universitaria e sempre più spesso si ritrovano a dover lavorare per pagarsi l’affitto o i libri. Il problema del lavoro degli studenti è molto importante perché non esiste una forma contrattuale adeguata e spesso ci sono forme di lavoro nero. In questo modo lo studente non si vede riconosciuti i contributi o l’indennità per malattia e sottrae anche molto tempo allo studio. La nostra idea, rilanciata anche da Il sindacato degli studenti, era quella di promuovere un contratto ad hoc per gli studenti universitari, che prevedesse innanzitutto un tavolo di discussione tra il comune, l’università, gli studenti e i datori di lavoro (commercianti e imprenditori) in modo da trovare dei punti di contatto. La categoria dello studente lavoratore secondo l’università dovrebbe essere tutelata, ma purtroppo i parametri stessi dell’università e il lavoro nero consentono solo a pochissimi studenti di usufruire dei benefici dello status di studente lavoratore. Molto spesso è il contrario, cioè sono i lavoratori che decidono di intraprendere la carriera universitaria ad usufruire di questi benefici,

quando in realtà la figura in primo piano dovrebbe essere quella dello studente, perché altrimenti si disincentiva l’iscrizione all’università. Come valuti la tua esperienza di vita a Padova? Resterai a Padova in futuro? Padova come città, considerata la sua geografia e il suo patrimonio storico e culturale sicuramente mi è piaciuta molto. Più problematico è l’impatto con la componente sociale della città, mi riferisco soprattutto al rapporto tra studenti e cittadini. Soprattutto in questi ultimi due anni gli studenti hanno visto ridursi sempre di più gli spazi a disposizione, l’amministrazione comunale non ha mai offerto la possibilità di prevedere nuove forme di integrazione e promozione culturale gestite direttamente dagli studenti senza la mediazione delle istituzioni. Per quanto mi riguarda, la mia esperienza a Padova è stata positiva proprio perché ho trovato l’Associazione Studenti Universitari che è molto viva e si occupa della promozione culturale e del ruolo degli studenti all’interno della città. Ad oggi il clima non è ancora perfettamente favorevole a iniziative che scardinino le logiche istituzionali di aggregazione e promozione culturale. Molto probabilmente l’hanno prossimo non sarò più a Padova, ma non perché abbia odiato questa città, semplicemente ho avuto la possibilità di spostarmi in un’altra città per motivi di studio. Quindi Padova funziona come un trampolino di lancio? Speriamo che diventi un trampolino sempre migliore, o magari un tappeto di atterraggio.

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il confine invisibile La questione “sicurezza e degrado” tra cittadinanza, classe politica e comunità di immigrati. Cosa emerge da una città che quotidianamente esprime paradossi, esasperazioni ed inquietudini? articolo di Alice Campagnaro

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Uno sguardo all’“altra città” degli immigrati, tra politiche sull’integrazione e degrado mediatico

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lle quattro del mattino, la città sembra non conoscere confini. A quell’ora il tempo è quasi inesistente, sospeso tra il termine della notte, con il suo chiasso festoso e inquietante, e l’inizio dell’alba, quando il cielo schiarisce impercettibilmente e si annunciano i primi torpidi cenni di risveglio. Alle quattro del mattino la città intera dorme. Si dorme perlopiù in un comodo e caldo edificio, ma anche sulle panchine, o per terra. Si dorme al buio di una camera protetta da scuri o persiane, oppure proteggendosi gli occhi con un braccio, cercando di ignorare la luce impietosa dei lampioni e i rumori rari, per rubare un po’ di sonno ristoratore alla precarietà del giorno. Alle quattro del mattino, la stazione di Padova è immersa nel silenzio, rotto solo dal russare di chi non ha altro posto dove riposare qualche ora e si stende davanti alle entrate chiuse a chiave, ai piedi delle colonne, davanti alle transenne del can-

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tiere. Alcuni hanno cartoni e coperte, dal bozzolo che il loro corpo forma con i pochi averi spuntano ciuffi di capelli, una mano, un piede. Altri giacciono semplicemente per terra, sull’asfalto, raggomitolati, sembrano non possedere nulla se non quel corpo che li costringe a concedersi un po’ di riposo: sono tutti uomini, tutti giovani, hanno tutti la pelle scura. Tutti vestono un paio di jeans e una t-shirt. Per fortuna stanotte fa caldo e si può stare così, per terra, con una t-shirt. All’inizio del cavalcavia Borgomagno sembra di valicare un confine invisibile, oltre il quale la città presenta un volto radicalmente diverso. La zona della stazione, insieme al vicino quartiere Arcella, è una di quelle definite “degradate”, in cui i padovani hanno paura ad avventurarsi di sera. Il “degrado”, come amano chiamarlo i media, è dato principalmente dalla presenza di spacciatori, in gran parte stranieri. Con una certa frequenza si verificano, sempre tra gruppi di stranieri, liti

e regolamenti di conti causati dall’abuso di alcol, che sfociano non di rado in risse, e talvolta omicidi. La scorsa estate è stata segnata da episodi quasi quotidiani di questo tipo, specialmente in via Cairoli. Il Portello è un’altra zona di confini immaginari, considerata pericolosa e invivibile. Il susseguirsi, anche qui, di episodi di violenza, l’anno scorso ha indotto il parroco di Ognissanti a denunciare la “situazione irrespirabile” che si vive nel quartiere. La risposta delle forze dell’ordine al suo appello non si è fatta attendere: qualche giorno dopo trenta Carabinieri accompagnati da due camionette dell’esercito hanno setacciato i dintorni di via Belzoni, via Portello e via Tiepolo, perquisendo tutti i nordafricani in cui si imbattevano, prima di proseguire i controlli in Piazza delle Erbe. Il cittadino medio lamenta l’insicurezza delle “sue” strade e piazze, senza considerare che il consumo di alcol e droghe e la conseguente violenza sono l’aspetto evidente e molesto di vite vissute per strada eppure nascoste, prive di prospettive, mezzi di sostentamento, dignità; vite di estraneità, disordine e solitudine. Le risposte dell’amministrazione cittadina, negli anni, sono state a dir poco inadeguate. La presenza dell’esercito, che suggerisce un’impressione di saldo e marziale controllo della situazione, è una soluzione tanto scenografica quanto inutile. La Polizia è sempre più impotente, a

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causa dei continui tagli ai finanziamenti. Tra gli interventi programmati negli ultimi mesi c’è il prolungamento del sottopasso della stazione che alla fine dei lavori, previsti per il 2013, dovrebbe sbucare direttamente dall’altra parte di via Avanzo, evitando l’attuale passaggio pedonale in superficie. D’altra parte, alcuni politici padovani sembrano nutrire la strana convinzione secondo cui gli interventi infrastrutturali sono la panacea di tutti i mali: «Negli ultimi anni il tram Pontevigodar-

Cenolli, giovane presidente della consulta degli stranieri a Padova. Ma in base allo stesso sondaggio, sinonimo di sicurezza è avere un lavoro, un permesso di soggiorno e una casa; inoltre, reale soluzione al “degrado” sarebbe promuovere l’aggregazione delle diverse comunità per mezzo dei luoghi religiosi. Bizzarro punto di vista: chi avrebbe mai detto che l’integrazione (quella vera, concetto assai distante da quelli di tolleranza o assimilazione) e un’esistenza dignitosa sono pre-

Il cittadino medio lamenta l’insicurezza delle “sue” strade, senza considerare che il consumo di alcol e droghe sono l’aspetto evidente e molesto di vite vissute per strada, prive di prospettive, mezzi di sostentamento, dignità.

zere-Guizza, il cavalcavia Sarpi e il ponte Unità d’Italia hanno permesso al quartiere [Arcella] di saldarsi con il resto della città», ha affermato Piero Ruzzante, segretario cittadino del Pd. Ruzzante è anche convinto della necessità di realizzare la nuova Questura nell’area della stazione. I cittadini, dal canto loro, chiedono interventi anche più radicali: in Piazza Cavour - altro luogo, a detta di alcuni, in cui sbando e perdizione sono all’ordine del giorno - alcuni esercenti auspicano addirittura l’eliminazione delle panchine, perché attirano “sfaccendati” e “balordi”. Leggendo i dati raccolti da un sondaggio effettuato dalla Camera di commercio di Padova ad aprile di quest’anno, si scopre che gli immigrati provano lo stesso disagio dei cittadini autoctoni. «Come gli italiani, anche gli stranieri avvertono insicurezza in luoghi come le strade, il tram e gli autobus, a causa di fenomeni criminosi come lo spaccio e i furti» ha dichiarato Egi

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feribili a una vita di spaccio, espedienti, notti all’addiaccio? C’è un silenzio così totale, che il rumore dello scotch strappato con i denti echeggia con una forza spropositata nell’aria troppo dilatata. Mi sembra quasi un’assurdità, in questa situazione, vedere la volante della Polizia che passa a controllare che tutto sia in ordine. E paradossalmente, ora che sono le quattro del mattino, è tutto in ordine, tutto tace. Il panorama di immondizia e bottiglie spaccate a terra, un po’ ovunque all’intorno, verrà ordinatamente rimosso tra un paio d’ore da squadre di spazzini armati persino di un’idropulitrice. Ogni mattina la città si lava la faccia, scrollandosi di dosso la miseria di esistenze che pure ne costituiscono il tessuto, insieme ad altre, più regolari e più fortunate. Con il sole, come per incanto, la stazione torna ad essere solo una stazione, affollata di pendolari che si affrettano al lavoro o all’università.

Dati Regione Al 31 dicembre 2010, su un totale di 4.937.854 abitanti, gli stranieri residenti sono 504.677, pari al 10,2% del totale. Di questi, la maggioranza è nonUE: il 75,4%. Gli occupati sono 253.301, di cui 163.605 a tempo indeterminato. Secondo dati del 2009, 29.000 stranieri erano in cerca di lavoro, mentre 190.000 erano inattivi.

Comune Stranieri residenti il 1 gennaio 2011: 14795 maschi e 16138 femmine (su un totale di cittadini residenti di 214.062).

Provincia Stranieri residenti il 31 dicembre 2010: 91649 (quarta provincia dopo Verona, Treviso e Vicenza) 9,8% della popolazione residente.

Fonti Osservatorio Regionale Immigrazione, Istat Veneto Immigrazione (rapporto di maggio 2011).

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una città senza un'idea Che ne è delle politiche attuate nella nostra città? Iniziative che non sembrano esprimere una determinata idea di città, tra cemento, (in)sicurezza, e mancata valorizzazione dell’università. intervista a cura di Emanuele Caon e Tommaso De Beni

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Andrea Ragona, presidente di Legambiente Padova, parla di sostenibilità ambientale, sicurezza e carenze politiche di una città cresciuta senza idee.

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adova è detta “la città dei senza”: secondo te cosa manca a Padova? A Padova mancano molte cose, ma forse quello che manca di più è un’idea di città da parte di chi la governa. Troppo spesso gli interventi che vengono fatti sono spot, senza che ci sia un’idea di futuro, che invece dovrebbe essere alla base di ogni decisione presa per lo sviluppo della città. Spesso, ad esempio, sentiamo dire che bisogna costruire per le nuove coppie, per i giovani, perché a Padova non ci sono appartamenti. In realtà dall’ultimo censimento che abbiamo fatto risulta che ce ne sono centomila vuoti. Se ci fosse un’idea di città diversa si potrebbe partire ad esempio da questi immobili sfitti, cercando di riempirli senza andare a costruire delle nuove urbanizzazioni a casaccio. Si crede che la nuova costruzione, il nuovo cemento, porti di per sé un incremento positivo dell’economia, ma di fatto non è così. Legambiente ha espresso un candidato sindaco alle ultime amministrative:

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in un programma politico su Padova quale sarebbero i primi punti da realizzare? Io credo che le richieste si possano fare indipendentemente dall’essere canditati o meno. Ci sono delle linee guida, dei principi che noi abbiamo e che ogni giorno ribadiamo. Sicuramente un principio importante per Padova - che si sta sviluppando su tutto il territorio nazionale e che però qui è ancora visto molto male - è quello della cubatura zero, cioè dello stop al cemento. Ce n’è già a sufficienza, negli anni è stato costruito per molti più abitanti di quelli che ha Padova e di quelli che ha il Veneto, quindi bisogna smettere di costruire. È necessario, però, pensare anche all’economia e quindi riconvertire l’economia delle nuove costruzioni alla riqualificazione dell’esistente. Ciò si lega al problema dell’efficienza energetica: qui siamo avanti nell’installazione del fotovoltaico, Padova è infatti la terza città in Italia per numero di installazioni – in termini di kilowatt prodotti – pur essendo la dodicesima o tredicesima città per grandez-

za. Questo perché sono state fatte molte campagne per il fotovoltaico, di cui Legambiente è stata protagonista. Sulla produzione di energia verde stiamo andando bene, ma c’è ancora da lavorare molto sull’efficienza energetica e sugli sprechi. Un’altra delle tematiche fondamentali è quella della mobilità: mobilità alternativa, mobilità nuova, necessità di sfruttare di più il telelavoro per ridurre la quantità di persone che ogni giorno si muove. Con le nuove tecnologie questo è possibile, basta la volontà. Altra necessità sarebbe quella di finanziare di più il trasporto pubblico, che attualmente è molto penalizzato dal governo a Roma ma anche e soprattutto dalla regione Veneto. L’obiettivo, insomma, è dare delle alternative alle persone che per andare a lavorare oggi non possono che muoversi in macchina. Tu vivi a Padova da diverso tempo, quindi hai visto la città cambiare. Rispetto al passato, ci sono miglioramenti o peggioramenti? Sicuramente siamo un’eccellenza per quanto riguarda l’energia verde e il fotovoltaico: lì la città è migliorata molto, è un esempio virtuoso. Però è peggiorata sotto tanti altri punti di vista. Uno - non strettamente ambientale, ma che riflette il modo di intendere la città - è l’attività sociale. Negli ultimi anni non sono stati attuati piani in questo senso: l’unica politica sociale per i giovani è stata chiudere i bar, e si sente che il tessuto democratico

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si è, non dico sfaldato, ma è stato penalizzato da tutto questo. Il fatto di voler dare un’alternativa ai giovani, agli universitari, renderebbe Padova una città più ricca sotto molti punti di vista, ma l’amministrazione non sembra capirlo. La vivacità che c’era a Padova dieci anni fa sicuramente si è persa. Un esempio clamoroso penso sia il cosiddetto “fenomeno spritz”: da quando io vivo a Padova degli spritz si è sempre parlato male, però io ricordo bene com’era la situazione una dozzina d’anni fa. All’epoca lo spritz era un aperitivo che le persone prendevano tra le sette e le otto e mezza, tutti i giorni, di sera, e poi giravano per la città cercando qualcosa da fare e non c’era nessun problema di ordine pubblico. Da quando si è iniziato a voler fermare questo fenomeno, che era sostanzialmente un fenomeno di socializzazione, i problemi sono aumentati. C’è una politica miope, che vede dei problemi dove invece ci sono delle possibilità, perché dei giovani che si incontrano a fare aperitivo e parlano e sfuggono magari al dominio della televisione dovrebbero essere premiati e non penalizzati. Quanto può influire la cultura universitaria per modificare lo status quo esistente in questa città? In piazza dei Signori c’è una targa, quasi sparita, dedicata a degli studenti universitari che non ricordo bene in che secolo furono arrestati dalla polizia. Penso che il rapporto della città con l’università sia sempre stato questo. L’università rende Padova quello che è, ma la città non ha mai dato all’università quello che si è

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presa. Si prende la ricchezza economica portata dagli studenti, dai professori, dai tecnici amministrativi, però in cambio non dà niente, non concede nulla. Se avesse meno retaggi provinciali Padova potrebbe diventare una città molto più grande e importante di quel che è. Senza l’università Padova sparirebbe dalle cartine geografiche. Padova ha, come centri di aggregazione, soltanto le piazze e il centro storico, che sono accessibili a tutti senza dover pagare. La periferia di Padova invece è un po’ abbandonata a se stessa e ci sono pochissimi luoghi dove è possibile l’aggregazione. è vero, ma ci sono anche progetti paradigmatici e ben riusciti che dimostrano che è possibile declinare anche in periferia politiche virtuose. Penso ad esempio a Piazza Caduti della Resistenza, che è molto cambiata negli ultimi anni grazie alla collaborazione di tante realtà diverse e che per noi rappresenta l’idea di come in ogni quartiere dovrebbe essere. Noi chiamiamo tutto questo “pericentralità”: dev’esserci un centro aggregatore, ma poi ogni quartiere deve vivere con le sue associazioni, con le proprie realtà econo-

miche, altrimenti diventa solo un dormitorio invivibile e insicuro. Qual è la tua opinione sulla questione sicurezza, sulla quale sono state vinte le ultime campagne elettorali in Italia? Quello di “sicurezza” è un concetto che andrebbe spiegato. Dove le persone muoiono per un’alluvione, c’è senz’altro mancanza di sicurezza. Io credo di pensarla un po’ come un alto dirigente dei carabinieri, intervistato qualche tempo fa dopo che un tabaccaio in provincia di Padova ha sparato ad un ladro uccidendolo. Questo funzionario si è sostanzialmente rivolto alla gente sostenendo che, oggi, non c’è nessuna emergenza sicurezza. Ci sono molti meno reati denunciati rispetto ad alcuni anni fa, per cui non dico che il problema sicurezza non esista, però è servito per vincere le campagne elettorali creando una sensazione di insicurezza più forte di quella che è in realtà. Oggi siamo di fatto più sicuri di tanti anni fa, però la nostra percezione del fenomeno è molto diversa. Questo è un problema culturale che va affrontato alle radici, vanno trovati i responsabili che sono soprattutto coloro che, aiutati dai media, fomentano e soffiano sul fuoco solamente per avere qualche voto in più.

“A Padova mancano molte cose, ma forse quello che manca di più è un’idea di città da parte di chi la governa. C’è una politica miope, che vede dei problemi dove invece ci sono delle possibilità.”

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letteratura A uno sprovveduto viaggiatore che, per qualche circostanza, si trovasse a fare un giro per il centro di Padova, salterebbe all’occhio un fervore culturale degno di nota. Si dovrebbe accompagnarlo e mostrargli la realtà: dietro alle «decine di manifesti che annunciano convegni, giornate di studio, tavole rotonde e seminari» si nasconde una nebulosa di soggetti qualitativamente e quantitativamente variegati che orbitano intorno alle istituzioni. L’università, in particolare, solitamente ritenuta fonte di stimoli e di sostegno per la vita culturale di una città, mostra a Padova evidenti segni di autismo presentando una tendenza all’isolamento e all’alienazione del tutto incomprensibili. Non è questa la sede per ricercare l’origine del disturbo. Nelle pagine che seguono, invece, si è cercato di ascoltare la voce di alcuni degli attori principali della scena letteraria – in senso professionale – della città. Dopo alcune riflessioni sul distacco tra accademia e civitas, Giulia Cupani osserva lo stato dell’editoria locale sottolineando l’insensatezza della sua natura microscopica. L’ignoranza di una popolazione tanto orgogliosa del raggiunto avanzamento – comunemente nordestino – risulta evidente nelle parole di Ferdinando Camon che constata: «per chi fa letteratura tutte queste città in tutte queste regioni del Nord Est sono sottopotenzianti, non gli danno po-

tere» perché «non c’è un grande giornale, non c’è una grande casa editrice, non c’è una grande rivista.» Massimo Carlotto, dopo aver posto l’accento sulla crisi particolarmente evidente a Padova, non esita a marcare un inaspettato ottimismo: la centralità geografica della città, la chiusura dell’università, il fervore generazionale sono tutti fattori che possono giovare al mondo culturale. L’assenza di coordinamento, relazioni e consapevolezza, è uno dei punti posti in rilievo da Matteo Righetto e Giacomo Brunoro di Sugarpulp. Occorre restare e non abbandonare la nave perché «Padova non ha mai avuto la capacità di valorizzare il proprio patrimonio culturale, e questo vale sia per gli autori che per tutte le forme d’arte» ma, ha aggiunto Righetto, «il terreno è potenzialmente fertile ma non ancora seminato, è necessario restare per fare quello che nessuno ha fatto finora». Decisamente ottimisti sono, infine, i gestori della libreria indipendente Laformadelibro, soddisfatti del proprio lavoro e fiduciosi nelle potenzialità del territorio. Abbiamo raccolto numerose voci e ciascuno ha raccontato la propria esperienza. Ma nella diversità di opinioni si può evidenziare un fil rouge che segna la percezione di un bisogno: quello di costruire una rete per prendere forza e proiettarsi sull’esterno. È questa, forse, la vera assenza nel mondo letterario padovano.


indice letteratura Quello che non ho di Giulia Cupani

La cittĂ se ne frega

intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

Lo scrittore del conflitto intervista a cura di Alberto Bullado e Giulia Cupani

Letteratura senza paura intervista a cura di Alberto Bullado e Giulia Cupani

Un’altra libreria intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

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quello che non ho Una città senza riferimenti editoriali autonomi, che non vivano all’interno delle aule universitarie: una realtà distaccata dal resto della cittadinanza. Due universi vicini ma ancora troppo lontani. articolo di Giulia Cupani

immagine di Igor Verdozzi

Assenze, miopie, paradossi e opportunità perdute dell’universo culturale padovano

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escrivere il mondo culturale padovano, anche dopo anni di permanenza in questa città, è un’operazione che si rivela sempre più difficile di quel che potrebbe sembrare a prima vista, meno scontata e lineare, e apre più interrogativi di quelli che riesce a risolvere. La vita culturale padovana, infatti, da un lato sembra essere quanto di più lontano possa esistere da quello che ci si aspetta da una “città senza”: gli eventi, giudicandoli da un punto di vista puramente numerico, si moltiplicano e attirano pubblico, ottengono in molti casi il sostegno degli enti pubblici, hanno visibilità e riescono spesso a crescere nel tempo. Gli spazi – che sembrano essere il “senza” più impellente e preoccupante per la città – sono da tempo al centro di un dibattito che testimonia quanto sia sentita come necessaria la presenza di luoghi dedicati alla cultura e che rende quindi evidente la presenza di un pubblico che, almeno in potenza, è ampio e partecipe, e che potrebbe aumentare se solo venissero fatte scelte politiche e gestionali volte a favorire la partecipazione. A Padova ci sono

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cinema, stagioni di prosa, librerie aperte e - ad entrarci nei giorni giusti - non poco affollate. Accanto a tutto questo, per di più, vive il grande mondo dell’Università, con i suoi sessantamila studenti e una capacità di proporre eventi che è evidente al solo mettere piede nella sede di un qualsiasi dipartimento: non c’è bacheca che non si pieghi sotto il peso di decine di manifesti che annunciano convegni, giornate di studio, tavole rotonde e seminari organizzati da una miriade di soggetti diversi – dalla minuscola associazione autogestita al rettorato - e relativi ai più diversi argomenti. Insomma: a Padova sembra esserci ogni cosa. Le condizioni di partenza, le circostanze ambientali, la presenza dell’Ateneo: tutto fa pensare a una città capace di essere propositiva, brillante, colma di possibilità e di prospettive per chiunque. In realtà, però, qualcosa interviene a incrinare questo quadro apparentemente perfetto, e la situazione, a guardarla più da vicino, risulta meno idilliaca e, invece, segnata da problemi che sono atavici e ormai consolidati dal passare del tempo. In primo luogo, il mondo

culturale cittadino sconta e soffre un costitutivo, e irragionevole, distacco dal mondo accademico. L’Università di Padova e la città di Padova in quanto tale vivono un rapporto di simbiosi a cui, per forza di cose, non possono sottrarsi, ma che non riesce a trasformarsi in una vera coabitazione costruttiva, capace di creare occasioni e opportunità per tutti. Gli esiti di questa convivenza con l’Ateneo che sembra sempre accettata in qualche misura a denti stretti, come una forzatura inevitabile e indiscutibile ma non pienamente metabolizzata, sono evidenti soprattutto a livello sociale, e di conseguenza politico, ma hanno un influsso anche nella proposta culturale, e quindi nel mondo della cultura in senso lato: l’Accademia resta confinata nelle sue stanze, con la sua utenza, le sue proposte rivolte tutte verso l’interno e un circuito proprio che raramente riesce a comunicare con la realtà cittadina. Dall’altra parte, in un circolo vizioso in cui è difficile scindere responsabilità e cause, anche la città tende a proporre poco o nulla al mondo dell’Università, concentrando le sue forze in altre direzioni, e le due posizioni restano sempre più fissate in una dinamica difficile da smuovere. Ognuno parla al suo mondo, disinteressandosi completamente di quella che potrebbe essere, in entrambi i casi, una controparte vitalizzante e utile, e che in questo modo si trasforma in una sorta di

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è significativo che in una città delle proporzioni e della statura di Padova nessun editore riesca a mettere radici e a portare avanti una proposta editoriale coerente e spendibile sul mercato.

è un “senza”, quello che segna il rapporto tra città e ateneo, peculiare e – a guardarlo alla luce della razionalità, del buonsenso, dell’ottimizzazione delle risorse – quasi inspiegabile: senza collaborazione, senza confronto, senza scambio di energie e di risorse, la città di Padova vive accanto alla sua Università rifiutando tenacemente di mescolarsi ad essa.

non universitarie che fino a pochi anni fa erano attive a livello cittadino hanno dovuto cedere il campo alla crisi del mondo editoriale italiano: in un periodo di tempo relativamente breve, e con scarsissima consapevolezza di questo da parte della città, quasi tutti gli editori padovani hanno chiuso i battenti o sono stati assorbiti da realtà più grandi, contribuendo in questo modo alla creazione di un mercato sempre meno aperto e sempre più dominato dalla presenza di pochi gruppi editoriali egemoni.

Il rapporto tra Ateneo e città è perfettamente simboleggiato, volendo scendere in un campo più ristretto, dal mondo dell’editoria cittadina, altro universo “invisibile” segnato da molti senza. A Padova, il mondo editoriale continua ad essere dominato dalla presenza di una costellazione di case editrici di piccole dimensioni, tutte legate al mondo dell’università, alla pubblicazione di testi molto specialistici o, più semplicemente, di testi d’esame. Questo contesto editoriale, per forza di cose attivo e al riparo dalla crisi e dal confronto con il mercato proprio perché legato a doppio filo con l’Università, si confronta, d’altra parte, con un deserto a livello di editoria generalista che va facendosi sempre più vasto e desolato con il passare degli anni. Le poche case editrici

Non è, ovviamente, un problema che riguarda solo la città di Padova, e le cause di questa dinamica vanno molto al di là della dimensione cittadina, ma è significativo che in una città delle proporzioni e della statura di Padova nessun editore riesca a mettere radici e a portare avanti una proposta editoriale coerente e spendibile sul mercato. Anche qui, l’Università garantisce la sopravvivenza almeno di una parte del settore della realizzazione e della vendita dei libri, ma il suo apporto finisce per essere quasi solo autoreferenziale: gli studenti comprano i testi per gli esami, i professori pubblicano dispense, ma al di là di questo non si riesce ad andare. I due universi coabitano ma non collaborano, rifiutando tenacemente di prendersi in considerazione a vicenda.

zavorra invisibile, impossibile da dimenticare ma insieme guardata attraverso le lenti di una sorta di cecità selettiva.

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In tutto questo un intero settore di produzione culturale – quello legato all’editoria – si avvicina al collasso senza che nessuno se ne renda conto, e ogni prospettiva di sviluppo futuro è inevitabilmente influenzata da questo. Una casa editrice di buon livello, capace di resistere sul mercato e di portare avanti una proposta editoriale di ampio respiro, potrebbe riuscire a tenere finalmente insieme molte delle proposte, delle idee, delle personalità che negli ultimi anni sono cresciute a livello cittadino e che, pur restando legate alla città, hanno dovuto rivolgersi all’esterno per trovare una possibilità di concretizzazione. Tuttavia, finché non esisterà una realtà del genere non c’è speranza che queste energie riescano ad organizzarsi spontaneamente attorno a un progetto comune. Questa considerazione non risponde, ovviamente, a un desiderio localista di “far restare a Padova quel che è di Padova”, ma nasce dalla sensazione netta che in questa città non manchino né le energie per portare avanti una proposta culturale significativa né le singole personalità che sarebbero in grado di farlo: manca, ed è un “senza” che pesa più di quanto si sia soliti ammettere, un punto di riferimento solido a livello editoriale e forse culturale in generale. Finché non ci sarà, il salto di qualità a cui questa città aspira resterà impossibile da compiere, per oggettiva mancanza di mezzi: potranno esserci – come già ci sono - singoli progetti di rilievo, ma il loro rapporto con la città resterà sempre ambiguo, incerto, irragionevolmente tortuoso. È, questo, un “senza” di cui pochi sembrano avere coscienza, in città.

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la città se ne frega Ferdinando Camon, scrittore, giornalista e poeta padovano, è uno degli intellettuali che ha meglio descritto i mutamenti sociali e culturali del nostro tempo, dal dopoguerra ai giorni nostri. Collabora con numerose testate nazionali ed internazionali. intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

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Ferdinando Camon - tradotto in ventidue paesi lamenta l’isolamento culturale di Padova e del Nord Est, un territorio incapace di “fare sistema”.

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artiamo dalla concezione di Padova come “Città dei senza”, un’etichetta che prende spunto dal detto padovano che potrebbe esprimere un senso di mancanza sociale e culturale più ampio. Secondo lei cosa manca alla nostra città? Cosa dovrebbe esserci e non c’è? Padova è una bella città. Quando io vado a Milano e poi torno, la prima cosa che faccio è partire da qui, che siamo nella zona Portello, la zona studentesca, dove cominciano i portici del ‘500, e vado verso la zona della vecchia libreria Draghi, verso il centro: piazza dei Signori, piazza Capitaniato, Palazzo della Ragione, perché ho bisogno di bellezza e Padova ne ha. Quindi è una città bella, dove si vive bene. È una città fatta per l’università, quindi ci vive bene chi lavora nell’università, con gli studenti. Chi fa cultura militante, come me, ci vive malissimo, perché la città non fa questa cultura, non è sensibile a questa cultura, non ha una grande casa editrice ed appartiene a una regione, il Veneto, che non fa sistema, perché non ha un giornale che faccia da collante, da

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collegamento tra città e città. Quindi è una regione sparpagliata in cui non ci si può collegare uno con l’altro fra chi scrive sui giornali o chi fa libri. Io non ho mai saputo cosa facesse Zanzotto, che pure abitava qui vicino, non so cosa faccia Magris, che pure sta in una delle tre Venezie, a Trieste, non so cosa facciano gli altri scrittori, neanche di Padova, come Mozzi. Insomma siamo isolati, apparteniamo a una regione senza centro, senza rete, senza collegamento, che non fa sistema. Perciò siamo dispersi. Chi fa questa cultura, chi scrive opere, romanzi, poesie, racconti, o scrive per i giornali qui non sta bene, la città se ne frega. Il sindaco secondo me è un bravo sindaco, ma è bravo per le strade, per le buche, per la manutenzione. Della cultura non gliene potrebbe fregar di meno. Ma è sempre stato così? Oppure assistiamo ad un impoverimento culturale progressivo? La città ha un’alta cultura specialistica. Credo che l’università sia una buona universi-

tà. Quando ricevo degli studenti sono studenti di ottima preparazione, di alto livello. Ma non ha collegamento col territorio. Non vive la vita di questa società e la società non ha cultura, non è acculturata. Non ha informazione, non è informata. Padova ha avuto un grande progresso, come tutte le città del Nord Est, ma questo progresso non è mai stato e non è un progresso culturale. I giovani della vostra età non sanno niente della vita dei padri e della storia che i padri hanno attraversato, quindi dalla seconda guerra mondiale ad oggi non sanno niente. È tutta una catena di vicende grandiose, specialmente qui. Perché qui ha battuto una storia di enormi proporzioni, molto feroce, molto eroica, molto grandiosa. Tutto questo nel cervello dei giovani, nei vostri cervelli, non c’è, è andato perduto. Pensa che ci sia uno scollamento tra città e università? Sì, c’è uno scollamento tra città e università, tra università e regione, tra università e territorio. L’università è un’acropoli sopraelevata, che fa un discorso rarefatto, elitario, per se stessa. Il corso di Lettere negli ultimi anni ha attivato un corso di scrittura creativa, forse è un modo per aggiornarsi un po’. So però che lei non vede di buon occhio questo tipo di corsi, o sbaglio? Io ritengo che i corsi di scrittura creativa abbiano una funzione, insegnino alla gente a scrivere, ma nel senso scolastico del termine. Non credo che uno diventi

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scrittore frequentando un corso di scrittura creativa. Io non ho mai permesso che un editore affidasse qualche mio libro a un editor e che questo editor correggesse anche una sola parola. Ogni parola fonda nelle pieghe dell’inconscio, in uno strato che neanche l’autore conosce e contiene quindi l’identità dell’autore. Un altro che ci metta la mano e che sostituisca la mia parola con un’altra, ci mette la sua paternità su quel libro, questo non è tollerabile. Quindi, i corsi di scrittura vanno bene perché uno impari a scrivere, scriva bene, capisca come scrive l’autore che lui preferisce. Un corso di scrittura perché uno diventi scrittore è una contraddizione in termini. Lei oggi consiglierebbe a un giovane di iscriversi a Lettere? Dunque, il consiglio che do io ai giovani che studiano e che devono scegliere una facoltà è questo: non scegliete la facoltà che darà più posti di lavoro, non scegliete la facoltà che vi darà un lavoro che vi darà più soldi, sono scelte perdenti. Scegliete la facoltà per la quale siete tagliati, perché voi non vi dovete laureare, vi dovete super-laureare, col 110, con la lode, con il massimo, dovete fare una tesi che sia un capolavoro e dovete fare un lavoro che vi piaccia. C’è un proverbio cinese, io l’amo molto, che dice: «fai tu un lavoro che ti piace? Non chiedere alla vita una gioia più grande.». Se uno è fatto per la parola, la scrittura, il testo antico e moderno, la spiegazione, l’interpretazione, non faccia il medico. Non è tagliato per fare il medico, sarà un pessimo medico. Quindi io dico agli studenti che gli conviene seguire gli studi per i quali sono tagliati. C’è anche in Dante questo consiglio: quando parla

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“Per chi fa cultura Padova è penalizzante, il Veneto e il Nord Est lo sono. Non ci sono grandi riviste, case editrici, giornali: restare qui significa fregarsi, indebolirsi, rimanere fuori dal giro.” di Firenze si lamenta del fatto che uno che è fatto per fare il prete faccia un’altra professione. Ognuno deve seguire la professione per la quale è nato. Sul piano personale, il fatto di vivere a Padova, ha influenzato ed influenza in qualche modo la sua produzione? Certamente. Padova è penalizzante, il Veneto è penalizzante, tutte e tre le Venezie, che adesso si chiamano Nord Est, formano un complesso territoriale e sociale in cui la scrittura è fortemente penalizzata e indebolita. Non c’è un grande giornale, non c’è una grande casa editrice, non c’è una grande rivista. Le case editrici di Padova son tutte universitarie, fanno collane per gli istituti. Non c’è una casa editrice che faccia letteratura militante, che traduca le letterature straniere. C’era la Alet, che è nata bene. Adesso ho sentito che è stata venduta e per me è stata una brutta notizia. Io mi ero occupato di alcuni libri della Alet e di alcuni autori, recensendoli sulla «Stampa» di Torino, che ha un bel supplemento letterario che si chiama Tuttolibri ed esce il sabato. Ho sentito che la Alet è stata venduta, si vede che i conti non tornavano e il proprietario non se la sente di tirare ancora avanti. Quindi qui chi fa scrittura non ha potere, non ha strumenti d’intervento, non ha una cassa di risonanza. La Liguria ha un’ottima Rai Tre,

lì son nati registi, di cinema e di teatro. La Rai Tre del Veneto è come se non ci fosse, non serve a nulla. Non ha nessun consulente, se non alcuni amici degli amici. Non c’è un grande giornale che non entri nella mazzetta dei governi, dei senatori. Io scrivo sulla «Stampa» di Torino, mando le mie opinioni lì e presento i miei libri lì. Ma uno scrittore che vive a Padova e che manda gli articoli in un giornale di Torino è un emigrante, è come un operaio che non trovando da lavorare qui va alla Fiat o all’Alfa Romeo. Quindi per chi fa letteratura tutte queste città in tutte queste regioni del Nord Est sono sottopotenzianti, non gli danno potere. Allora perché restare? Perché non andarsene? Si può vivere qui. Quando io ho cominciato a scrivere mi sono detto: resto a Padova a patto che si verifichino tre condizioni e cioè: avere un grande editore nazionale, avere un grande giornale nazionale ed avere cinque o sei grandi editori internazionali. Raggiunte queste condizioni posso stare qui, ma non consiglio a nessuno di farlo. Star qui vuol dire fregarsi, indebolirsi, non avere potere d’intervento, essere fuori dal giro.

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lo scrittore del conflitto Massimo Carlotto è scrittore, drammaturgo e sceneggiatore. Tra i suoi libri si ricorda la saga dell’Alligatore e Arrivederci amore, ciao. Il suo ultimo romanzo è Respiro Corto, edito da Einaudi. intervista a cura di Alberto Bullado e Giulia Cupani

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Massimo Carlotto e la sua visione di Padova: una città di crisi, in una terra preda di una nuova criminalità “cristallizzata”.

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artiamo dalla concezione di Padova come “Città dei Senza”, un’etichetta che parte dal famoso proverbio e che secondo noi arriva a rappresentare qualcosa di molto più generale, un senso di vuoto che coinvolge la vita della città. Condivide questa opinione? Cosa manca a Padova? Devo dire che io non ho mai considerato Padova “senza”. Ho sempre visto Padova “con” un sacco di cose, e lo vedo anche oggi. Certo, ovviamente “manca tutto”, ma questo è legato al nostro essere un Paese che attraversa una crisi, e questa circostanza ha una ripercussione ben precisa sulla città. Non possiamo andare a inventarci una realtà diversa. Da un punto di vista specifico la lista sarebbe lunghissima, ma non sono questioni che riguardano in particolare Padova, che è una città “con”, come lo sono del resto tutte le città. A proposito dell’essere una città “con”, parlando specificamente di Padova, a suo giudizio cosa sta emergendo in que-

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sto periodo nella nostra città? Quali sono i fenomeni più significativi? Sta emergendo la crisi. E lo sta facendo in maniera molto chiara e lampante: si stanno definendo anche tutti i suoi effetti collaterali sulla vita della gente, in primo luogo la precarietà. Basti pensare alla dimensione di Padova come città universitaria: la profonda crisi legata all’università sta emergendo ora in tutto il suo splendore. Questo è lo specifico di questo periodo. A questo proposito credo che l’unica cosa che manca davvero alla città in questo momento sia il “conflitto”. Padova è ancora una città di crisi, non è ancora una città di conflitto. Ma senza conflitto non si supera la crisi. E parlando di esperienze positive, invece, cosa sta emergendo in città? C’è qualcosa di nuovo che sta nascendo, magari a livello culturale e nel suo ambito specifico, quello della letteratura? Ci sono molte cose interessanti che stanno emergendo: nel mio ambito l’abbiamo

visto in particolare con l’esperienza di Sugarpulp, ma ci sono ad esempio anche molte micro-esperienze a livello musicale che sono assolutamente interessanti. Anche il comune riesce a organizzare iniziative che funzionano molto bene – penso ad esempio a Universi Diversi – quindi ci sono cose davvero positive. Quello che manca, secondo me, è un equilibrio nella gestione della soddisfazione dei bisogni culturali: alcuni settori – come ad esempio quello teatrale, ma non solo – sono stati realmente impoveriti. C’è poco spazio, anche perché ci sono pochi fondi, per poter sviluppare delle esperienze artistiche, in particolare da parte dei giovani. Spostandoci più sul piano personale: il fatto di aver vissuto a Padova, di esserci tornato, ha dato qualcosa alla sua attività specifica di scrittore oppure l’ambiente non ha influenzato la sua produzione? L’ambiente influenza sempre, inevitabilmente. La cosa positiva di Padova è il suo essere un luogo strategico dal punto di vista geografico: da qui è possibile muoversi molto più agevolmente rispetto a quel che si può fare vivendo in un’isola, per quanto mi riguarda. Anche dal punto di vista degli scambi culturali questo ha un’influenza, che è forte e positiva. E la presenza dell’università ha un ruolo in tutto questo, o resta qualcosa di sganciato? L’università ha un peso enorme, in questa città. Non si può vivere a Padova e

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occuparsi di cultura senza guardare costantemente all’università, che è qualcosa di fondamentale dal punto di vista strategico. A noi, invece, l’università e la città sembrano ancora due cose molto slegate… Da un certo punto di vista è sempre stato così. Questa separazione io la ricordo già negli anni Settanta, non c’è mai stata una situazione diversa da questa. Ma questo non è qualcosa di completamente negativo. L’autonomia, il punto di vista diverso fornito dall’università, è sempre stato un valore aggiunto per questa città, e anzi, guai se le due cose si fossero fuse di più. Padova è anche una città pessima, per tutta una serie di ragioni… meglio che l’università ne stia lontana. Secondo lei quali sono i motivi che dovrebbe convincere una persona a rimanere a Padova piuttosto che ad andarsene? Padova è sempre stata un laboratorio, nel bene e nel male, e l’idea di vivere in una città-laboratorio, per chi investe nella formazione di se stesso, è qualcosa di importante. Io ho viaggiato abbastanza, ho vissuto anche in grandi città universitarie, e devo dire che Padova non ha nulla da invidiare a nessuno, da questo punto di vista. E lei vede una relazione tra quello che è il mondo culturale della città e la città in quanto tale? Oppure, come succede con l’università, i due piani viaggiano separati? Non è mai esistita, e non esisterà mai in questo tipo di contesto, una relazione tra

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questi due mondi. È qualcosa che non è dato: la frattura che c’è tra mondo economico e processo produttivo da una parte e cultura dall’altra è così definita, in questa società, che non può essere colmata. E questo è un problema del Veneto, o magari dell’Italia? Questo è un problema del mondo, assolutamente: funziona così dappertutto. Andando più nello specifico della sua

re al nostro tipo di sistema carcerario, che è chiaramente qualcosa di vendicativo. Parlando del rapporto tra crimine e globalizzazione, lei più volte ha descritto il Nord Est come una terra di confine, una terra di traffici illeciti piuttosto consistenti. Secondo lei quali sono, a questo proposito, i fenomeni più rilevanti che caratterizzano la vita sociale di Padova e dintorni? Il fenomeno più rilevante è dato dal fatto che questo sistema economico, il Nord Est,

“Non ho mai considerato Padova una città ‘senza’, ma con un sacco di cose. Quello che manca è il ‘conflitto’. Padova è ancora una città di crisi, ma senza conflitto non si supera la crisi.” opera letteraria: molto spesso nei suoi romanzi la giustizia viene sostituita dalla vendetta. Non si respira, insomma, un’aria positiva, per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia. Secondo lei noi, generazione “senza futuro”, contro chi o contro che cosa dovremmo vendicarci? Come generazione, nei confronti dei padri e del loro tradimento. C’è stato un vero tradimento generazionale, nei confronti dei figli in generale, in questa società ma soprattutto in questo territorio. Rispetto alla giustizia, io in realtà non faccio un discorso esattamente di questo tipo: il mio è un modo per dire che la giustizia è sempre vendetta. Lo è sempre stata e lo è ancora, per come è amministrata in questo paese. Basta pensa-

ha spalancato le porte a un nuovo tipo di criminalità. In questo senso il Nord Est viene studiato, oggi, nelle università di tutto il mondo, come un laboratorio – ritorniamo al concetto del laboratorio – della nuova criminalità nata dalla globalizzazione. La cosa più pericolosa, secondo me, è la zona grigia che si è creata e che è abitata da tutta una serie di professionisti che sono diventati nei fatti il terziario del crimine. Questi professionisti si muovono soprattutto in tre ambienti, che sono poi gli ambienti fondamentali della nostra società, ovvero quello della politica, quello dell’imprenditoria e quello della finanza.

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letteratura senza paura Matteo Righetto: autore di Savana Padana e Bacchiglione Blues, fondatore del movimento Sugarpulp, ideatore del progetto didattico Scuola Twain. Giacomo Brunoro: direttore editoriale de La Case Books, ha lavorato per anni in radio oltre ad aver collaborato con la casa di produzione Push Pull e con la casa editrice digitale Good Mood Edizioni. intervista a cura di Alberto Bullado e Giulia Cupani

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Intervista doppia a Matteo Righetto e Giacomo Brunoro: due “barbabietole” doc del movimento letterario Sugarpulp.

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osa pensi della concezione di Padova come “Città dei Senza”? È un’etichetta che corrisponde a qualcosa di vero? E se sì, cos’è che manca a questa città? Matteo Righetto: Un parco giochi acquatico! Scherzi a parte, parlando di cultura secondo me mancano due cose fondamentali: un po’ di collaborazione e di coraggio, mentre trovo che in questa città ci siano molto individualismo, viltà, mancanza di desiderio di uscire allo scoperto e di osare, facendo cose che possono in qualche modo andare in controtendenza, iniziative impopolari, ma che mirino ad essere culturalmente interessanti. Giacomo Brunoro: Secondo me quello che manca è soprattutto la consapevolezza. Padova ha tutto quello che servirebbe per fare un salto di qualità, anche a livello nazionale, ma i padovani sono i primi a non essere al corrente dell’importanza storica e culturale, ma anche puramente geografica, di questa città. Padova è il centro del Veneto, tra Treviso, Vicenza, Venezia e, scendendo più sud, Bologna. Stiamo quindi parlando di una città che si trova in una situazione

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strategica ottimale. Abbiamo molte risorse, basta pensare all’università e a tutte quelle realtà importanti legate al mondo dell’impresa, tuttavia manca la consapevolezza di poter essere protagonisti anche a livello nazionale, non solo come singoli, ma anche come squadra. Quali fenomeni positivi stanno emergendo, in città, in questo periodo? M.R.: Ovviamente non posso non parlare di Sugarpulp, a mio avviso una realtà culturale e letteraria che sta facendo dei passi da gigante. Il fatto di ideare e riuscire a realizzare sostanzialmente senza fondi un festival letterario di caratura internazionale in questa città non credo sia cosa da poco. G.B.:Le realtà emergenti secondo me sono tante, ma sono parcellizzate e in questo momento fanno molta fatica a farsi spazio. Questo perché, all’ostilità del sistema-paese nei confronti dei giovani e delle nuove idee, che c’è da sempre, oggi si aggiunge un momento strutturalmente molto delicato, che è quello della crisi, sotto gli occhi di tutti. Ciò non toglie che ci siano moltissime realtà po-

sitive: non cito Sugarpulp, perché ne faccio parte, ma ci sono tante altre piccole iniziative che sono essenziali all’interno di grandi strutture e che magari sono meno evidenti perché tendono a rimanere in seconda linea. Per tornare al discorso di prima: manca un po’ di voglia, da parte di queste realtà, di mettersi in gioco in primo piano, di dire “mi muovo dalla seconda linea, mi espongo”. Rispetto al passato, credi che dal punto di vista delle iniziative culturali, ci sia un miglioramento? M.R.: Io penso che i fermenti ci siano sempre stati. Credo, però, che trent’anni fa ci fosse una maggiore volontà, un maggior piacere nell’associarsi, nel fare le cose insieme, nel fare cultura intesa come incontro di opinioni e confronto di idee. Oggi, invece, mi pare di osservare che ci sia molto egoismo, molto più desiderio di coltivare il proprio orticello, di sviluppare le proprie idee e basta, senza incontrarsi, senza confrontarsi e senza mettere sul tavolo quello che potrebbe essere utile anche agli altri. G.B.: Io per natura tendo a non fare paragoni con il passato. Il luogo comune del “si stava meglio quando si stava peggio” non mi piace: credo che si siano create regole e contesti diversi rispetto al passato, quindi ragionare con schemi che andavano bene un tempo oggi non ha più senso. Sicuramente una volta era più facile trovare spazi, ma d’altra parte era molto più difficile sviluppare un certo tipo di idee. Penso di poter dire che una in passato ci fosse più

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inventiva, perché le fonti di informazione erano minori. Oggi abbiamo talmente tanti stimoli che tendiamo a perdere di vista le cose veramente interessanti. Come diceva Borges a proposito della biblioteca infinita: avere tutti i libri del mondo equivale a non averne nessuno. Nel possedere troppi input, troppe idee, si rischia di perdere di vista l’insieme. Internet e la “rivoluzione digitale” hanno comportato esattamente a questo, rendendo ogni informazione accessibile con un clic. A questo punto diventa davvero importante il lavoro di selezione. In questo caso rientra in campo il valore del territorio e delle persone che ne fanno parte – perché internet e la rete, non va dimenticato, sono sempre fatti da persone. Il territorio è ciò che consente di operare una selezione filtrata attraverso le tue esigenze di singolo.

mai avuto la capacità di valorizzare il proprio patrimonio culturale, e questo vale sia per gli scrittori che per tutte le altre forme d’arte. Una ragione, per un giovane padovano, per lasciare la città? E quale invece un motivo per rimanerci? G.B.: Questa è la mia esperienza: durante l’università ho fatto un anno di Erasmus in Spagna, dopodichè ho vissuto per quasi dieci anni a Milano. Una città che, ovviamente, non è New York, tuttavia vivere lontani da casa mi ha servito per moltissime ragioni: la prima è senz’altro l’aver maturato “la giusta distanza”, che consente di capire davvero qual è il valore del proprio territorio. Personalmente, ho scelto di tornare a Padova perché ho capito che in questa città c’era una qualità aggiunta di

“Un autore Sugarpulp non deve avere paura. Deve amare le scritture forti e il politicamente scorretto. Deve preferire il forte raccontare che il bello scrivere.” Nel tuo ambito professionale, quanto offre Padova ai giovani emergenti? G.B.: Da questo punto di vista Padova forse offre poco. Tuttavia, occupandomi di comunicazione e di editoria digitale, sono abituato a cercare in prima persona le cose che mi interessano e che mi servono, senza per forza di cose attendere che siano le istituzioni o la città a offrirmele. Insomma, cerco di sfruttare al meglio quello che ho, senza lamentarmi di quello che non c’è, altrimenti ci si limita al solito gioco della lamentela fine a se stessa e si fa fatica ad andare oltre. Bisogna conquistarsi gli spazi, anche facendo fatica, senza ottenere i risultati sperati. Tuttavia trovo inutili le solite comparazioni: “in Svezia le cose funzionano meglio”. Noi siamo a Padova ed è in questo territorio che dobbiamo operare. Volendo fare un esempio, penso allo Sugarpulp Festival dello scorso anno, che è stato realizzato senza un solo euro di contributi statali. L’obiettivo è anche quello di dimostrare che non è vero che la cultura può vivere solo grazie alle sovvenzioni: bisogna lavorare per far sì che una realtà culturale sia autosufficiente. Da questo punto di vista, gli Stati Uniti ci insegnano che la cultura può essere un grande strumento di found raising e di sostenibilità. M.R.: Nell’ambito della narrativa temo che Padova offra poco. Si tratta di un fenomeno abbastanza paradossale, perché di autori padovani ce ne sono eccome. E spesso sono nomi di grandissimo spessore: vedi Antonia Arslan, Giulio Mozzi, Romolo Bugaro, Massimo Carlotto… Tuttavia non c’è mai stato qualcosa che li abbia saputi collegare, mettere insieme, creando delle strutture e delle occasioni di incontro. Padova non ha

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cui forse non mi sarei mai reso conto se non mi fossi allontanato. Una volta tornato con un’esperienza diversa – che io consiglio a tutti di fare, proprio come esperienza di vita, dato che staccarsi dalla realtà consolidata innesca sempre dinamiche virtuose – possiedi una marcia in più, un approccio diverso. Si sommano l’imprinting locale e quello che hai appreso altrove. La rete dà infinite possibilità di conoscenza, ma vivere in un luogo lontani da casa è un’esperienza imparagonabile. M.R.: I motivi per andarsene sono quelli che ho già detto detto e penso che in fondo i motivi per rimanere non siano poi così diversi. Proprio perché il nostro territorio è potenzialmente fertile, ma non ancora seminato. Perciò penso che sia necessario rimanere qui per fare quello che nessuno ha fatto finora. Venendo più specificatamente a Sugarpulp, potete raccontarci un po’ l’origine del vostro progetto, i suoi obiettivi, la sua storia? G.B.: Sugarpulp è nato un paio di anni fa come sito web e come movimento letterario creato da Matteo Righetto e Matteo Strukul, i quali hanno convogliato attorno al loro portale un gruppo di amici, tra cui il sottoscritto, che credevano nel messaggio di fondo del progetto. Questo messaggio è secondo me qualcosa di molto forte, che trova la sua forza proprio nel fatto di essere estremamente semplice: la letteratura dev’essere intesa come forma di divertimento e soprattutto deve avere la forza di raccontare la tua terra, il tuo territorio. Da qui abbiamo cercato di impostare una forte

azione in rete, attraverso i social network e il nostro sito, sforzandoci da subito anche di uscire dalla dimensione virtuale per creare dei momenti di aggregazione che fossero reali, concreti. Così sono nate le prime presentazioni in libreria. Poi abbiamo creato qualcosa di nuovo, e sono nati gli Sugarspritz, momenti ludici in cui si può incontrare un autore anche andando al di là della semplice presentazione del libro. Da questo, siamo arrivati ad organizzare il primo Sugarpulp Festival, l’anno scorso, una manifestazione concepita fin da subito con una mentalità internazionale, soprattutto per quanto riguarda gli ospiti. Abbiamo deciso di cogliere questa sfida, mantenedo una forte impostazione propositiva: l’obiettivo era quello, per tornare a quello che si diceva prima, di evitare di lamentarsi e piangersi addosso. Abbiamo cercato di fondare tutto il movimento su un’impostazione solare, divertente, cool… Insomma: lo scopo è sempre stato quello di rendere la letteratura – alta o bassa che sia, i canoni sono tanti – un momento ludico nel senso positivo del termine. Come deve essere un autore Sugarpulp? M.R.: Nel nostro sito esiste una sorta di decalogo-manifesto in cui si spiega molto bene questo punto. In poche parole un autore Sugarpulp non deve aver paura, deve amare le scritture forti e il politicamente scorretto. Deve preferire il forte raccontare che il bello scrivere. Inoltre, dev’essere un autore che ama un territorio, qualsiasi esso sia: dal Texas alla Luisiana, dal bellunese alla Puglia. quello che conta è il legame che intercorre con il territorio. Dicci tre aggettivi per definire un romanzo Sugarpulp. G.B.: Divertente, territoriale, sregolato. C’è questo motto, nel vostro sito: “più uno scrittore è dei suoi posti, più sono le possibilità che diventi universale”. Secondo voi come si passa da una letteratura di genere territoriale a una letteratura popolare di più ampio respiro? M.R.: Nei decenni passati, anche nel secolo scorso, molti classici hanno dimostrato esattamente questo: a livello internazionale sono proprio le narrazioni legate al piccolo territorio a risultare più affascinanti e anche più vendibili come romanzo-mondo. Pensiamo, tanto per dire, a Verga, che è un autore fondamentale nella letteratura internazionale, e al suo modo di rappresentare determinati aspetti e dettagli di una realtà assolutamente limitata e regionalistica. Per chiudere: un’anticipazione sul prossimo Sugarpulp Festival. G.B: Il Festival si terrà dal 28 al 30 settembre. Parlando di autori, tornerà Tim Willocks, e poi ci saranno alcune chicche europee e un pool di italiani molto interessanti, tra cui Alan D. Altieri. E anche molto fumetto.

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un'altra libreria Laformadelibro di via XX Settembre nasce dall’esperienza dell’associazione culturale Rossoprofili e in collaborazione con l’agenzia Laformadelviaggio. Un libreria in cui è ancora possibile leggere e godere della compagnia di un librario (figura professionale semiestinta nel nostro Paese). intervista a cura di Tommaso De Beni

immagine Google

Abbiamo fatto una chiacchierata con Fabio e Lucia de Laformadelibro: cosa ne pensano di Padova sul piano della promozione culturale?

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adova è davvero la “Città dei Senza”? Fabio: Padova da un certo punto di vista è la città dei senza, ma in fondo questo dà anche un senso di libertà perché vuol dire che c’è uno spazio libero per fare qualcosa. Noi partendo da questo spazio vuoto abbiamo cercato di capire quali potevano essere le esigenze ancora non soddisfatte in questa città e quindi anche gli spazi di vitalità, di desideri, anche dal punto di vista culturale. Anche per questo è nata questa libreria che vuole essere fondamentalmente un luogo di incontro che possa ospitare sia realtà di livello nazionale del panorama letterario, sia realtà locali, alle quali prestiamo molta attenzioni, soprattutto per quanto riguarda i giovani. Cosa sta emergendo di interessante a Padova dal punto di vista letterario? Lucia: Dal punto di vista letterario secondo me emergono tante cose interessanti. Da quando abbiamo aperto questo posto, per esempio, abbiamo scoperto che

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ci sono tantissimi giovani che scrivono e tantissime persone riunite in blog o riviste. Forse prima non lo sospettavamo. Pensate che l’amministrazione comunale sia attenta alla promozione culturale? F: L’amministrazione comunale è attenta nel senso che negli ultimi anni si è visto un notevole impegno. Ovviamente ci sono delle difficoltà da un punto di vista economico e anche di immagine, nel senso che a volte l’amministrazione deve per forza puntare su determinati aspetti, dare un certo taglio, in modo che quello che viene organizzato abbia anche un riscontro. Quindi, a torto o a ragione, punta tutte le sue risorse comunicative su un determinato aspetto, è anche comprensibile e in alcuni casi positivo perché in questo modo ci sono più probabilità che quelle iniziative abbiano una certa risonanza e vengano seguite. Un altro aspetto positivo degli ultimi anni è stato la creazione di grandi contenitori cultu-

rali che magari a volte non hanno una forma così incisiva, perché raccolgono tante esperienze diverse, però almeno riescono a dare a realtà diverse tra loro una possibilità di comunicazione che viene anche finanziata dal comune. Pensate che l’università influenzi la cultura della città? L: Sicuramente sì. Il numero degli iscritti all’università è molto elevato, in rapporto alle persone che abitano a Padova. La difficoltà è far sì che ciò che viene creato all’interno dell’università poi riesca ad uscire ed arrivare alle persone. All’interno di una fucina culturale come è l’università di Padova le iniziative, le manifestazioni e le pubblicazioni sono tantissime, poi magari manca un po’ il gioco interno-esterno. Noi abbiamo collaborato diverse volte in diversi ambiti con l’università, quindi c’è la volontà di farlo. Che difficoltà incontra chi vuole fare promozione culturale a Padova? L: Diversi tipi di difficoltà. In primis i cittadini che a volte non sono così desiderosi di partecipare alle attività proposte. C’è anche una difficoltà nella comunicazione, come diceva prima Fabio ogni ente tende a pubblicizzare le sue cose interne. Quindi il problema è sensibilizzare le persone, che comunque secondo me hanno una cultura dinamica, si dice che sono di più le persone che scrivono che quelle che leggono.

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“Il punto su cui bisognerà concentrarsi sarà quello di lavorare in rete, cioè far crescere sempre di più un intreccio di collaborazioni che arricchisca il panorama e unifiche le forze.” Padova sarebbe meglio lasciarla o rimanere? Perché lasciarla? Perché rimanere? F: Io essendo padovano non ho intenzione di lasciarla. Come dicevo prima parlando dei senza, penso che Padova sia ancora un buon terreno, con degli spazi incolti, quindi dei vuoti da colmare e proprio per questo c’è spazio per lavorare e per sperare di riuscire a fare qualcosa di significativo dal punto di vista culturale. Credo che il punto su cui bisognerà concentrarsi sia quello di lavorare in rete, cioè far crescere sempre di più un intreccio di collaborazioni che arricchisca il panorama e che unifichi le forze dal punto di vista della comunicazione. Com’è nata questa libreria? F: La formadelibro è nata da un’esperienza precedente che è l’associazione culturale Rossoprofili e che esiste ancora, ha sede qua attaccata alla nostra libreria. Che quindi nasce dall’esperienza di alcuni anni di lavoro associativo a contatto con la gente, con i padovani, con particolare attenzione alle manifestazioni artistiche. La prima radice si può dire sia proprio l’università, perché è l’ambiente dal quale sono usciti quelli che hanno fondato la libreria e con il quale continuano ad operare in vario modo e a vario titolo. La realtà associativa e quella universitaria ci hanno permesso di conoscere profondamente il mondo di Padova e dei giovani. Che tipo di libri vendete? F: Le sezioni principali sono quelle di letteratura italiana e straniera, quella di arte, dove c’è un po’ di tutto (fotografia, architettura), molto importante è la se-

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zione dedicata al viaggio con un vasto assortimento di guide, ma anche di libri che aprono finestre sull’offerta enogastronomica di determinati territori, sulla possibilità di abbinare letture al viaggio, in modo da calarsi da un punto di vista culturale nel paese che si va a visitare. Poi sicuramente importante è la sezione dell’usato che caratterizza la nostra libreria, perché di solito nelle altre librerie, salvo rare eccezioni, non è presente. C’è quindi la possibilità di scambiare libri usati. L: Un’altra cosa che potrebbe differenziarci dalle altre librerie è la vendita di alcuni libri artigianali, d’artista, che andiamo a scovare nelle case editrici indipendenti, si tratta di libri particolari che non si trovano dappertutto. F: Poi c’è da ricordare anche che siamo dentro il circuito dell’università, quindi con Cartateneo c’è uno sconto studenti del dieci percento. Organizzate anche iniziative culturali? F: Quasi ogni giorno ci sono degli eventi. Per esempio è molto frequentato il martedì pomeriggio, in cui ci sono incontri con artisti, curatori di mostre, storici dell’arte, autori di libri d’arte. Poi ci sono le altre rassegne di quest’anno, ogni anno ovviamente la stagione cambia. L: Incontri con gli autori del territorio o che si sono rivolti a noi, ma anche autori affermati come Molesini o Michela Murgia. Poi le rassegne con le case editrici, come la padovana La Gru, che ormai è molto nota ed ha spiccato il volo, la

Cleup, che voi ben conoscete, le quali ci hanno chiesto di organizzare mini rassegne per presentare i loro autori. F: Poi ultimamente è nata una collaborazione con il Progetto Giovani, abbiamo collaborato nelle loro rassegne, in futuro potrebbero esserci anche degli appuntamenti loro qui da noi, in occasione della Fiera delle parole, per esempio. L: Per la prossima stagione abbiamo contattato i finalisti del premio Strega e del premio Campiello. F: Oltre ovviamente alla presentazione del libro di Grom. L: Naturalmente, quello del gelato. Pensate che Padova dia la possibilità ai giovani di inserirsi nell’ambito culturale in senso lavorativo? F: Non c’è una domanda di riserva? (ride) Sicuramente quello del lavoro in ambito culturale è la sfida più difficile, anche per noi stessi che abbiamo messo in piedi questa realtà. Si naviga a volte con fatica, a volte a vista, certamente con coraggio. È un ambito difficile, ci vuole molta pazienza, bisogna sapersi accontentare di piccole cose, però vogliamo sperare che la costanza premi anche chi vuole operare nell’ambito della cultura, sia a livello letterario che giornalistico. L: Devo dire che la nostra libreria è una mosca bianca in positivo, è una piccola realtà che però nel 2010, per esempio, ha potuto assumere tre giovani persone, io e le mie colleghe, che lavorano in ambito culturale. Il discorso sarebbe lunghissimo, il mondo del lavoro è intricato, però alcuni ce la fanno. Non che sia semplice, Padova non è certo il luogo dove tu arrivi e automaticamente lavori nel mondo della cultura, però si può riuscire a crearsi un proprio itinerario.

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altre arti Possibile immaginarsi Padova senza arte? No. Non una città con quella storia, con quel passato e con questo presente. Non una città universitaria, attraversata da così tante voci ed esperienze. Ci siamo quindi interrogati quali tra queste riuscire ad intercettare, quali fenomeni focalizzare tra il caos babelico e dispersivo del capoluogo di provincia, mantenendo il dovuto interesse sia per l’arte contemporanea, sia per il cinema, risorsa fondamentale che spesso viene relegata in secondo piano, come se fosse convinzione comune che il Nord Est non possa esprimere delle narrazioni sul grande schermo. Per questo motivo ci siamo rivolti a due giovani artisti padovani, Antonio Guiotto ed Alex Bellan, entrambi reduci del progetto SuperFluo. Assieme a loro abbiamo cercato di capire lo stato di

salute dell’arte contemporanea a Padova, tra partecipazione della cittadinanza ed opportunità per i giovani artisti. Dopodiché ci siamo rivolti a Francesco Bonsembiante, produttore di Jolefilm, importante luogo di ritrovo per artisti e filmaker, e ad Ezio Leoni, presidente del circolo The Last Tycoon, responsabile dell’attività del cinema Torresino. Due interviste grazie alle quali potrete farvi un’idea sulle complicate dinamiche relative alle iniziative culturali della nostra città anche per quanto riguarda il cinema. Infine la testimonianza di Giulio Repetto, titolare e fondatore di Green Records, negozio di skate e street wear e in passato etichetta indipendente legata alla produzione di musica punk e hardcore a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90.


indice altre arti L’arte non è campanilista intervista a cura di Paolo Radin

Arte e collettività

intervista a cura di Paolo Radin

Jolefilm, Cinema e Nord Est intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

Le luci della Città intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

Green Records, Grey City intervista a cura di Alberto Bullado

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l'arte non è campanilista Antonio Guiotto: giovane artista padovano, ironico, citazionista e poliedrico, ex membro fondatore del progetto SuperFluo, ha esposto in mostre di tutta Italia, le più recenti curate da Renato Barilli. intervista a cura di Paolo Radin

immagine di ConAltriMezzi

Antonio Guiotto ci parla della sua esperienza, del rapporto che ha con Padova, del suo livello culturale e dello status dell’arte contemporanea in questa città.

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osa ti ha dato in passato Padova? Cosa ti sta dando? Cosa supponi ti potrà ancora dare? In passato Padova mi ha dato della amicizie, degli incontri interessanti e delle opportunità, delle occasioni, anche se non molte, come per esempio “mamma” – G.A.I. (Giovani Artisti Italiani N.d.R). Ciò che Padova mi sta dando è qualche sorpresa, perché Padova ha la capacità di stupire. In città accadono delle cose, certo non molte, ma qualcosa c’è, in fondo Padova è piccola, non è né Torino, né Milano. In futuro spero che Padova continui a stupirmi e se possibile che lo faccia ancor di più. Perché hai scelto di rimanere a Padova? Per quali motivi restare in città e invece per quali andarsene? Io son rimasto a Padova perché ci vivo. Per una questione di comodità. Perché quando sarebbe stato il tempo di andar via, non avevo la possibilità di farlo. Adesso, arrivato ai trentanni, è difficile rimettere in discussione tutto trasferendomi. Ma in

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realtà, oggi, il problema della distanza è diventato relativo: con i mezzi di comunicazione odierni puoi instaurare rapporti a lunga distanza senza doverti muovere da casa. Infatti non vivo sempre e solo a Padova e da qui non mi muovo, qua ho il mio piede a terra, il mio laboratorio, il mio studio, qua ho la possibilità di lavorare, ma quando ho bisogno di cercare qualcosa esco, vado fuori. Bisognerebbe andarsene da Padova per vivere quelle esperienze che in città non si possono esperire. Padova in questo senso è uguale a tutte le città piccole, non offre moltissime occasioni, quindi andare in città più grandi potrebbe rivelarsi estremamente stimolante. Ma questo non significa che città grandi e ricche di opportunità siano preferibili a città piccole per viverci: anche andarsene da grandi città ha il suo senso: andarsene dal proprio posto fa bene a priori, perché consente di confrontarsi e conoscere nuove realtà. Argomento centrale della rivista sarà l’analisi dei “senza” della città, recupe-

rando un po’ chiave canzonatoria e polemica del famoso proverbio. Secondo te cosa manca a Padova? A Padova manca tutto quello che non c’è a Padova. In ogni città manca sempre qualcosa. A Milano manca la tranquillità, qua invece resti assopito, addormentato, ma almeno hai la tranquillità. A Padova manca un punto di vista differente, la volontà di fare, mancano i mezzi e, manca una mentalità culturale, che andrebbe adeguatamente sviluppata. Ma queste non sono carenze esclusive di Padova, fanno parte anche di altre città. Inoltre bisogna dire che se noi volessimo vivere in un posto in cui c’è tutto, mancherebbe il desiderio di andar via, di andare oltre per cercare e scoprire quelle cose che nel proprio luogo non si trovano. Mancherebbe una dimensione di ricerca che reputo fondamentale. Hai appena accennato ad una mancanza di mentalità. Che opinione hai del panorama culturale padovano? Ci sono tantissime cose che non funzionano dal punto di vista culturale. L’intero panorama ha delle potenzialità, Padova ha le capacità per ospitare eventi, anche importanti, ha la capacità di sorprendere, però tutto è ancora molto bloccato, statico, fermo. Mancano le proposte, manca la volontà di investire, ma anche la capacità di farlo oculatamente. Il comune (la realtà che dovrebbe essere promotrice per eccellenza degli eventi culturali) oltre ad avere pochi mezzi, spesso non ha ne l’interesse,

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né la cultura per aumentare il livello della città. Il comune, culturalmente parlando, non ha occhi, non ha uno sguardo rivolto verso ciò che accade fuori Padova, non c’è la curiosità di capire e di cercare. Ciò è dimostrato dallo scarso rilievo ed interesse di molti eventi organizzati. Spesso il comune si fa promotore di iniziative solo perché “strane” e in quanto tali le ritiene “arte contemporanea”, cosa che nel 90% dei casi non è. Certo, ci sono stati eventi di rilievo, ma solo rari casi, come la mostra di Zaha Hadid, o il monumento all’11 settembre di Daniel Libeskind. Un altro esempio è il caso del centro San Gaetano. Sono stati spesi milioni per metterlo a posto e per farlo diventare un polo museale che avesse un certo peso. Ma tutto ciò è stato gettato alle ortiche nel momento in cui è stata inaugurata la prima mostra dedicata alla fotografia degli amici degli alpini, o una cosa del genere. In questo modo si è ucciso un luogo che aveva delle potenzialità; un centro che avrebbe comunque avuto vita breve, considerato che non ha un direttore artistico o qualcuno che gestisca la programmazione ar-

come voi ad esempio, ma spesso queste realtà sono dei piccoli focolai, effimeri, che rimangono accesi solo per il periodo in cui lo studente rimane a Padova a studiare, che per forze di cose è limitato. Ci si incontra, si fa qualcosa, ma quando si finiscono gli studi si abbandona tutto. Ma d’altronde è anche vero che non è compito dello studente incrementare la capacità culturale della città. È bello che ci sia tale volontà da parte vostra, ma è anche vero che il dovere di fare qualcosa dovrebbe venire dall’alto, dalla giunta comunale, dal sindaco, dall’assessore alla cultura o dell’assessore alle politiche giovanili, che tentano, è vero, di fare qualcosa ma, come detto sopra, spesso non ci riescono. Che rapporto c’è tra Padova e l’arte contemporanea? Non c’è nessun rapporto tra Padova e l’arte contemporanea, perché un rapporto presuppone che ci sia uno scambio che, in questa città, non c’è. Si intravvedono dei focolai, ma sono effimeri ed isolati. Padova non spicca sullo scenario nazionale e internazionale dell’arte perché gli eventi

“La vita culturale padovana non incide in nessun modo sulla società civile. Se vuoi realizzare qualcosa sotto il profilo culturale ti devi rimboccare le maniche: se le realtà non ci sono, occorre inventarsele.” tistica delle mostre. Al di là del comune il mondo della cultura a Padova si limita a piccole associazioni culturali che si trovano tra di loro e fanno cose, si divertono e si lamentano... Ma Padova ha la fortuna di trovarsi vicino a Venezia, città culturalmente più dinamica, cosa che fa sì che qualcosa qui arrivi comunque, se non altro di rimbalzo. La cultura tende ad essere vista solo come un costo per la società. Cosa non necessariamente sbagliata: la cultura non deve portare forzatamente guadagni, però può farlo, solo che ci vogliono dei meccanismi, dei ragionamenti che né a Padova, né tanto meno in Italia, siamo in grado di elaborare. La vita culturale padovana non incide in nessun modo sulla società cittadina, non sta facendo crescere la città e se vuoi realizzare a Padova qualcosa sotto il profilo culturale ti devi rimboccare le maniche: se le realtà non ci sono occorre inventarsele, un po’ come abbiamo fatto, io, Nicola Genovese ed Alex Bellan con SuperFluo. Quanto influisce e quanto dovrebbe influire l’università sul contesto culturale padovano? Non credo che l’università in sé aumenti la capacità culturale della città. Nell’università spesso si creano delle realtà che si aggregano nel tentativo di fare qualcosa,

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organizzati sono spesso di bassa qualità e di respiro limitato. A volte vi sono degli eventi che non sono di respiro locale, ma non sono di respiro contemporaneo, non sono cose d’impatto, dei pugni in pancia, sono solo giochini, cosette viste e riviste. Poi in senso generale, non solo a Padova, ma anche a Venezia stessa, c’è un certo passatismo ed anche uno scarso interesse accademico verso l’arte contemporanea. Padova offre opportunità formative e professionali per un giovane artista? Zero, non offre nulla, niente. Ma è anche vero che non esistono delle vere e proprie opportunità formative per un artista. Se vuoi fare il medico, fai medicina; se vuoi fare l’avvocato, fai giurisprudenza; ma se vuoi fare l’artista, il musicista, o lo scrittore, le scuole, i corsi, possono darti solo la possibilità di crearti dei contatti e di confrontarti con qualcuno, ma non ti danno né una formazione vera e propria né uno sbocco professionale; lo sbocco professionale te lo devi creare da solo in base alle tue capacità, nessuno può insegnarti come dovresti fare l’artista. Se io come artista non sono diventato famoso, la responsabilità non va rintracciata in Padova ed in una sua eventuale mancanza di opportunità professionali o formative, ma in me stesso. Sono io come artista a

non essere così bravo a promuovere me stesso, o forse perché non realizzo opere sufficientemente interessanti da essere notate da una vasta platea, o forse a causa della mia scelta di vivere ai margini del “giro”. Padova, la città, non c’entra nulla. Quali sono a suo avviso i prodotti più rilevanti e stimolanti del contesto culturale Padova? Il contesto padovano ha visto nascere moltissimi artisti di livello, come Manuel Scano, Alex Bellan e Nicola Genovese, senza dover per forza citare Maurizio Cattelan. Al di là degli artisti Padova ha visto nascere moltissime altre realtà culturali di rilievo, ad esempio una casa di produzione cinematografica (La Jolefilm di Marco Paolini), validi attori e registi, basti pensare a Mazzacurati, danzatori, oppure “I Carichi sospesi” che fanno delle cose interessanti soprattutto in ambito di teatro e danza, o il “Teatro delle Maddalene”. Anche musicalmente ci sono molti gruppetti che si organizzano e fanno cose interessanti. Senza considerare il G.A.I. e il Progetto Giovani che svolgono una funzione importante nella promozione culturale. E poi ci sono anche SuperFluo, la Lanterna Magica, che organizza interessanti corsi di fotografia, e la Fondazione March, anche se opera nell’ambito delle imprese e delle aziende. Queste realtà hanno la possibilità di emergere a livello nazionale o internazionale? Sì, hanno la possibilità di emergere a livello nazionale e molte ci sono riuscite. Non trovo nessun senso nel voler essere il migliore artista padovano, o il miglior artista rispetto ad un determinato contesto. Un artista deve voler essere tale per il genere umano, per se stesso, non per gli amici, i parenti, i rivali o, come in questo caso, la gente di Padova. Poi se vieni riconosciuto nella tua città ben venga, ma non deve diventare l’obiettivo del tuo percorso artistico: l’artista non deve mai essere mai campanilista.

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arte e collettività Alex Bellan: giovane artista padovano profondamente legato all’idea che l’arte debba avere una funzione sociale. Ex membro fondatore del progetto SuperFluo, ha esposto in mostre di tutta Europa le più recenti curate da Renato Barilli. intervista a cura di Paolo Radin

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Padova, la mancanza di una rete sociale e il distacco tra cultura e cittadinanza attraverso lo sguardo del giovane artista Alex Bellan.

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n giudizio su Padova. Cosa ti ha dato in passato la città? Padova è stata un bacino nel quale mi sono mosso e ho fatto i primi passi e ho sviluppato delle esperienze che ho cercato di condividere. Padova offre opportunità formative e professionali per un giovane artista? Non molte. Ci sono delle realtà che offrono qualche possibilità iniziale. ConAltriMezzi è stato media partner dell’edizione 2011 di “Nuovi Segnali”. Anche tu hai partecipato all’evento qualche hanno fa. Come l’hai trovato? È stata una buona occasione formativa e professionale? È stato un primo passo, un’occasione per esprimere il proprio lavoro nella misura del tempo e dello spazio che hai a disposizione. Quanto c’è di Padova in quello che fai? Direi che l’influenza di Padova, nel suo

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contesto, si fa sentire. Credo che, volente o nolente, nel momento in cui operi in un determinato contesto ne assorbi i bisogni e le necessità. Il contesto influisce sul numero e sulle qualità delle azioni, ti spinge a fare determinate scelte che poi determinato il tuo percorso. Anche il contesto culturale padovano ha condizionato il mio lavoro, tanto nel bene che nel male, tanto negli aspetti positivi che negativi. Per quali motivi restare a Padova e per quali motivi andarsene? I legami che si creano a volte sono forti anche per i motivi più banali. Ma non escludo la possibilità di formare legami anche altrove. Padova ha rappresentato un anello di giunzione e di dialogo che mi ha permesso di condividere e confrontare delle esperienze, crescere e maturare convinzioni, tuttavia spostarsi e andarsene è una pratica necessaria. è importante esplorare altre situazioni, altri limiti, altre possibilità, cercare nuove

occasioni di confronto anche con realtà più estreme e difficili. Padova non è un contesto completamente vuoto, ci sono realtà ancora più difficili dove creare dei rapporti, e spesso, proprio nella loro difficoltà, questi contesti possono rivelarsi ricchi di stimoli diversi. è importante conoscere e sfruttare nuovi scenari da utilizzare come palestre, in cui allenare ed affinare “muscoli” che molto spesso lasciamo in disuso. Argomento centrale della rivista sarà l’analisi dei “senza” della città, recuperando un po’ chiave canzonatoria e polemica il famoso proverbio, secondo te cosa manca a Padova? Di senza ce ne sono molti e forse se ne parla fin troppo. Al di là di capire quali siano queste mancanze, bisognerebbe cercare di capire che meccanismi innescano questi vuoti, perché molto frequentemente proprio dalla mancanza si creano dei meccanismi che possono diventare malsani. Questi vuoti generalizzati, a diversi livelli del tessuto sociale, possono legittimare persone a sfruttarli, sviluppando meccanismi che potrebbero rivelarsi ancora più dannosi di quanto già non sia la mancanza in sé, accelerando un processo di desertificazione sociale. Credo che la strada da percorrere risieda nella possibilità di una progettualità collettivita che, con un certo senso di responsabilizzazione, attivi dialoghi di messa in condivisione di pratiche possibili, sviluppando reti che vadano ad ope-

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rare su vari livelli per intrecciarsi con il tessuto sociale. Queste mancanze e questa mancanza di una rete sociale, sono caratteristiche tipiche di Padova? O sono comuni a tutta la realtà italiana? In senso generale, dell’Italia. Abbiamo vissuto per molto tempo con un senso di piccole realtà autoreferenziali, di micro universi. è una nostra caratteristica che dovremmo cercare di riconsiderare, non per un istinto di sopravvivenza, ma per qualcosa di più elevato, per senso etico. Cercare di avere uno sguardo più globale e collettivo della realtà, senza soffermarsi al proprio piccolo orticello, giusto? Sì. Molto spesso però si urla alla necessità di abbracciare obiettivi collettivi, celando un’individualità tesa a sfruttare disponibilità altrui. Lo sguardo globale forse necessita di maggiore sincerità. Come giudicheresti il contesto culturale padovano? Ci sono senz’altro dei vuoti, dei punti sgonfi che meriterebbero di venir colmati con azioni concrete di incoraggiamento per sviluppare nuove aperture contagiose e diffuse. Dal punto di vista universitario, come in altri ambienti, credo vi siano innumerevoli disponibilità, ma come spesso capita le energie propositive vengono avvilite ed emarginate. Nel contesto in cui ci troviamo, realizzare qualcosa è sempre più difficile, c’è una mancanza di strutture disponibili a dare quei minimi supporti per produrre anche progetti non particolarmente significativi, quindi alla fine l’interesse, la disponibilità tendono a disperdersi in un senso quasi di abbandono. La cultura molto spesso viene percepita come un lusso che non possiamo permetterci. Questo contesto difficile e “poco disponibile” è prerogativa del sistema padovano o una caratteristica più generalizzata dell’Italia? È una caratteristica generalizzata. Credo comunque ci siano contesti mol-

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to più difficili di quello padovano, in quanto a Padova vi sono alcune risorse, per quanto poche, mentre vi sono altri territori che risentono molto di più della desertificazione sociale di cui parlavo sopra. Quindi, il panorama culturale padovano incide in qualche modo nella società della città? C’è un evidente disinteresse della società padovana verso alcuni aspetti legati alla cultura, non avendo mai sperimentato determinate emozioni e risultati positivi, si pensa che la condizione sia normale e completa e che non si possa concepire o sperimentare altro. La cultura è una risorsa pertanto dovrebbe essere sfruttata in modo consapevole, in quanto trainante per tutta una serie di vitalità, anche da un punto di vista economico. Molto spesso preferiamo tagliare l’albero e vendere il legno, piuttosto che aspettare e raccoglierne i frutti.

originare nuove modalità di approccio nei confronti di ciò che ci circonda. Quali sono a tuo avviso le realtà di maggior interesse del panorama culturale padovano? Vi sono alcune situazioni che, pur entro i loro limiti, alimentano una serie di possibilità e visioni. Ad esempio la Fondazione March realizza un buon lavoro che mette in connessione artisti ed aziende. Dall’altra parte c’è anche il G.A.I. (Giovani Artisti Italiani N.d.R.) che da una possibilità a tutti di parlare e di esprimersi, di fare una prima esperienza, anche curatoriale, nell’ambito dell’arte. Le espressioni culturali padovane hanno respiro nazionale/internazionale o sono di respiro prettamente locale? Se vi sono realtà emerse sulla scena internazionale, io non me ne sono accorto. Credo che vi siano dei limiti, manca ancora una capacità di abbracciare un tessuto più ampio che ci permetta

“Nella società padovana si avverte un evidente disinteresse verso alcuni aspetti legati alla cultura. C’è la necessità di nuovi equilibri sociali ed economici che possano promuovere comunità della conoscenza e non universi in competizione.” A Padova che rapporto c’è tra la cultura e l’arte del passato e la cultura e arte contemporanea? Il forte legame con l’indiscussa ricchezza culturale del nostro paese, in termini di beni artistici e storici, tende a volte ad ostruire la definizione e il proliferare di nuovi linguaggi, un po’ per abitudine, un po’ per noia, un po’ perché c’è troppo. In tal senso le dinamiche e gli approcci contemporanei appaiono talvolta sacrificabili anche in conseguenza di un’educazione ingabbiata nelle glorie artistiche del passato, che con difficoltà si apre al contemporaneo spesso banalizzato e non riconosciuto nella sua professionalità. Ritengo che l’arte sia un’energia in tal senso e che possa saper

di metterci a confronto con colleghi e con realtà dell’estero. Credo sia una via che meriterebbe di essere percorsa. C’è necessità di nuovi equilibri sociali ed economici che possano promuovere comunità della conoscenza e non universi in competizione. Molto spesso quando si raggiungono determinati risultati si evita di condividerli. Questa mancanza, per quanto comprensibile, fa sì che non si riesca a creare un tessuto di possibilità e di scambio dinamico reciproco che permetta di far conoscere determinate esperienze anche all’estero. Cosa che in altri contesti, anche se più limitati per mezzi e risorse, avviene.

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Jolefilm, cinema e nord est Francesco Bonsembiante è il produttore di Jolefilm, luogo di ritrovo per artisti e filmaker che vogliono produrre cinema e documentari d’autore, arrivando ad importanti traguardi come i riconoscimenti riscossi da Io sono Li di Andrea Segre. intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

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La produzione cinematografica in Veneto, la lentezza dei padovani, l’inefficenza dell’università, le carenze dell’amministrazione comunale: il parere di Francesco Bonsembiante, produttore di Jolefilm.

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n questo numero ci occuperemo di Padova partendo dal detto che la vede come “città dei senza”. Condivide questo detto? Cosa manca a Padova? Devo stare attento a quello che dico. Io ovviamente parlo della parte che mi compete, cioè la cultura, lo spettacolo e soprattutto il raccontare le cose. Credo che a Padova manchi proprio il racconto delle proprie eccellenze e qualità. È una città che ha in molti settori, come il cinema, delle eccellenze di livello nazionale, che però non sono condivise e percepite perché c’è uno scollamento tra le istituzioni: il comune va da una parte, l’università va da un’altra, gli artisti vanno per conto loro, le società che si occupano di valorizzare la cultura sono un po’ lasciate sole, e ce ne sono parecchie nel territorio, che secondo me costituiscono una delle realtà più interessanti dell’imprenditoria innovativa. Quindi manca un sistema di coesione e di armonia tra le varie istituzioni. 
Cosa invece non manca? Cosa sta emergendo di interessante in ambito cultura-

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le e più specificamente in ambito cinematografico? In ambito cinematografico secondo me Padova oggi è un’eccellenza in Italia. Il terreno culturale, anzi colturale in cui emergono questi ragazzi è molto forte. C’è un catering del cinema, c’è un Dams e soprattutto c’è questa grande molla iniziale che purtroppo è finita negli anni ‘70 che era il Cuc cinema 1, che era un’istituzione dell’università. Da lì sono partiti tutti quelli che oggi gestiscono il cinema in Italia: limitandoci a Padova parlo di Carlo Mazzacurati, Umberto Contarello, Enzo Monteleone, io stesso. Veniamo tutti da quella matrice. Questa prima rottura dello stagno ha fatto sì che molti hanno continuato e quelli che sono venuti dopo hanno trovato il terreno fertile. Oggi sono molti i trentacinquenni di grande qualità e anche moltissimi ragazzi giovani. Quest’anno ai David di Donatello era un piacere vedere che tra i candidati c’era Contarello come miglior sceneggiatore, io come miglior produttore, Andrea Segre come miglior film, Andrea Prandstaller, che è padovano, come miglior documentario. Questi

sono segnali concreti che c’è una qualità che va perseguita, c’è un vivaio forte sul quale e con il quale bisogna lavorare. 
Rispetto al passato secondo lei assistiamo ad un impoverimento dell’offerta culturale della città? Io credo sinceramente che da un lato sia giusto aprire le porte a tutti, nel senso che il dilettante o semiprofessionista ha il diritto di far vedere i suoi lavori, dall’altro questo non può essere la totalità di quello che viene fatto, per cui credo fermamente che ci vorrebbe un po’ più di coraggio nell’alzare il livello delle mostre e delle manifestazioni che vengono fatte. Questo vale per le mostre, per il cinema, per il teatro. Io credo per esempio che le eccellenze che esistono in Veneto nel mondo del teatro avrebbero dovuto essere interpellate per la direzione del Teatro Stabile del Veneto, la quale è stata data a un persona di indubbia qualità qual è Alessandro Gassman, però avendo qui gente del calibro di Marco Paolini e Natalino Balasso forse andava fatta una riflessione per alzare il livello del talento. 
Sul piano personale, il fatto di vivere e operare a Padova ha influenzato in qualche modo la sua attività? Sì, l’ha influenzata molto. Io mi sono laureato in storia del cinema però per motivi personali non sono andato dopo la laurea a Roma. Mi sono fermato qui, per molti anni ho fatto quest’esperienza delle piccole imprese del Nord Est per

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cui ho assorbito appieno ruoli e gestione d’impresa acquisendo capacità che non avevo. Da quasi quarant’anni ho deciso di coniugare le due cose: la passione per il cinema e il fare impresa. Questo è stato possibile solo perché sono rimasto qui, se fossi andato a Roma sarei entrato nei meccanismi clientelari che affossano la forza creativa della narrazione. 
Quali sono i motivi per rimanere a Padova e quali sono i motivi per cui varrebbe la pena lasciarla? Parto dai motivi per cui bisognerebbe lasciarla: per me il problema non è Padova, ma questo paese. L’ampiezza culturale e gli stimoli che i progetti internazionali danno a voi giovani vi portano ad andare, magari, sei mesi a Monaco o a Londra, e così ci si rende conto di quali sono i motivi per cui varrebbe la pena lasciare questo paese. D’altra parte però, siccome io sono un combattente, vale la pena restar qui perché credo molto nella persona veneta e nella persona padovana. Ci sono ancora molti spazi per fare questo lavoro. Secondo lei l’università influenza il mondo culturale padovano?
 No. Questa risposta è breve. (risata)

Perché no?
 Perché non c’è dialogo. Io mi sento frequentemente con il professor Brunetta, il professor Tinazzi (i miei professori), ma non c’è dialogo con l’università. Io trovo quasi surreale che Carlo Mazzacurati non abbia mai avuto un seminario con gli studenti: vive a Padova, è uno dei più grandi registi italiani ed è come se vivesse in un’altra città. Quindi secondo lei la responsabilità è dell’università? Totalmente. Esiste una società come la nostra che produce Marco Paolini. Non è possibile che il Dams non chiami qui tutti i giorni, non ci chieda di parlare coi ragazzi, di dialogare, è una follia. Invece il comune, e in particolare l’assessorato alla cultura, è attento secondo lei alle esigenze e agli sviluppi del mondo culturale della città? Se devo rispondere sinceramente, devo dire che non seguo l’attività dell’assessorato alla cultura di Padova, non so cosa faccia. Ma non nel senso che non ne sono informato, nel senso che non capisco che cos’è. Non riesco a capire perché si usi il termine cultura per definire le cose che vengono fatte. Come ho detto prima, va benissimo aprire le porte a tutti, però trovo che le

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punte di cultura vengano ignorate. C’è un ragazzo che si chiama Antonio Carnemolla, che fa il giocoliere in giro per Padova. È bravissimo, raccoglie dei fondi e con quelli fa dei cortometraggi che vincono festival in giro per il mondo. Non è mai stato visto dall’assessorato alla cultura. Mettersi a disposizione della cittadinanza, in modo democratico da una parte, ma populista dall’altro, credo sia molto rischioso. 
Che rapporto c’è tra la vita culturale della città e la città stessa? (Risata) Questa è una domanda molto divertente. C’è un rapporto lento, tipicamente veneto. Il padovano è lento, fa fatica a muoversi, il passaparola stesso è lento. Questa lentezza, coi ritmi che ci sono invece nella visione cinematografica, pro-

ché noi siamo riusciti a far venire questi talenti straordinari nei loro ruoli specifici. D’altra parte abbiamo selezionato dei giovani dalle grandi risorse umane, prima ancora che tecniche, e abbiamo capito che il dialogo poteva funzionare. Poi bisognerebbe dire due parole sulla film commission in Veneto: qui abbiamo un problema molto serio, cioè la mancanza di una film commission che funzioni. Ci sono regioni d’Italia come il Piemonte, la Puglia, il Friuli e le province autonome di Trento e Bolzano che negli anni hanno investito denari perché arrivassero in un territorio delle produzioni. È chiaro che un produttore, italiano o americano che sia, tra girare in Friuli, in Piemonte o in Veneto non gli cambia tantissimo, solo che da una parte ci sono fondi e dall’altra no. Que-

“Non seguo l’attività dell’assessorato alla cultura di Padova, non so cosa faccia. Ma non nel senso che non ne sono informato, nel senso che non capisco che cos’è.” voca uno strano scollamento. Padova è la quinta città in Italia per incassi nel cinema, che è un numero clamoroso, un risultato eccezionale. Questo per due motivi: la presenza di sessantamila studenti universitari, e il grande talento di Luca Protto, il gestore di Astra e Multiastra. Il Portoastra non è un multisala classico e conosce una forte risposta di pubblico. Quindi il rapporto tra città e cultura esiste, ma è troppo lento e fa fatica ad essere reciproco.

 Si riesce a fare produzione a Padova o si fa fatica? Noi l’abbiamo fatta. Perché siamo vecchi, abbiamo tante relazioni e conoscenze. Abbiamo un curriculum forte e questo ci ha permesso di dialogare con i più grandi talenti italiani nella produzione e di lavorare con giovani ragazzi. Abbiamo realizzato un mix produttivo molto particolare: avevamo capireparto, si chiamavano così, che erano circa venti David di Donatello che giravano per Chioggia. Perché c’era Bigazzi direttore della fotografia, Zannon fonico in presa diretta, Leonardo Scarpa scenografo, e c’erano i costumi di Maria Rita Barbera. Tutti i ruoli chiave erano coperti da gente di grande esperienza, tutti over cinquanta e nessun padovano. Però hanno un curriculum che fa spavento. Accanto a questi abbiamo messo dei giovani padovani e questo mix ha funzionato per-

sta scelta incide poi sul cineturismo, che è scientificamente misurato, ed è questo che i politici non riescono a capire: il Veneto è un posto incredibile, è un set naturale. In cento chilometri hai il mare, la laguna, i colli, le montagne, la pianura, i boschi, le ville, le città medievali, hai tutto, ma non esiste che un americano venga a girare qui.

 Pensa che i giovani abbiano la possibilità di inserirsi nel lavoro in ambito culturale? Io ti rispondo per quanto riguarda l’ambito cinematografico: i giovani devono farsi la residenza a Bolzano o a Torino, perché la troupe deve essere locale rispetto alla produzione e all’ambientazione. Se tu sei un macchinista di Vicenza non puoi lavorare in Piemonte o in Puglia, perché è chiaro che per un produttore è più semplice prendere un macchinista del luogo, mentre invece il direttore della fotografia, per esempio, è di solito uno con molta esperienza, che quindi può venire anche da fuori. Questa mancanza di film commission provoca un tappo enorme dal punto di vista del lavoro in generale. Però prima o poi i talenti in questo paese vengono fuori.

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Le luci della città Ezio Leoni, presidente del circolo The Last Tycoon e responsabile dell’attività del cinema Torresino, ci parla delle dinamiche relative alle iniziative culturali della nostra città. Dalle grandi manifestazioni alla mancata coordinazione tra vertici ed università. intervista a cura di Tommaso De Beni ed Emanuele Caon

immagine di Francesco Berti

Una città concentrata sui grandi eventi che non cresce per mancanza di coordinamento e che soffre la poca collaborazione con l’università.

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osa ne pensi di Padova come “città dei senza”: cosa manca alla nostra città? Cosa dovrebbe esserci e non c’è? A livello culturale, direi che manca un festival cinematografico di rango, come invece c’è in tutte le città importanti, anche se in realtà un piccolo festival di corti, il River Film Festival, sta muovendo i primi passi e sta crescendo. Il problema di Padova è che ha un pot pourri di associazioni e di attività che veramente riempie un po’ troppo la città, e in ambito culturale l’attenzione è molto concentrata sui grandi eventi. A Padova c’è Zed, che organizza eventi al teatro Geox e richiama pubblico da tutto il Triveneto e non solo, ma così le attività locali certe volte perdono risonanza e si accavallano. Quindi non direi che Padova è una città “senza”: piuttosto forse manca una politica di coordinamento, anche se adesso ci si sta muovendo in questo senso perché si sta tentando di creare un Assessorato alla Partecipazione che si occupi anche di unire le varie realtà culturali cittadine.

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Cosa sta emergendo in questo periodo a Padova? Quali sono i fenomeni più significativi? Credo sia significativa la forza che hanno le attività teatrali e musicali – al di là del fatto che io amo il cinema. Sono cose che hanno un bell’impatto a livello padovano perché tra il Centro d’Arte che fa i concerti jazz, il Teatro degli Inutili che è riuscito a crearsi un suo pubblico, il Porsche live che fa concerti la mia sensazione è che ci sia più attività creativa, teatrale e musicale rispetto a un tempo. Il cinema invece, forse perché è più commerciale, fa fatica a crearsi uno spazio di rappresentanza grande. Noi, ad esempio, abbiamo una rassegna che si chiama Cinema Invisibile e riusciamo a raccogliere un pubblico di trenta persone. Non sono poche, per una rassegna di queste dimensioni, però è chiaro che i numeri del jazz e del teatro sono diversi. A livello cinematografico in questi anni c’è stato un aumento a livello di offerta, anche se poi sulla qualità a volte si possono avere dei dubbi. Sicuramente ci sono proposte continue, nei quartieri fanno di tutto - anche bei titoli - ma a

volte sono proposte fatte solo per dire “ci siamo”. Spostandoci sul piano personale, il fatto di vivere a Padova ha influenzato in qualche modo la sua attività? Non direi “influenzato”, perché io a Padova ho vissuto da studente e da persona adulta e stando qui inevitabilmente ho vissuto a latere alcune cose. Penso che se avessi vissuto a Roma forse avrei avuto altre occasioni e fatto scelte diverse, perché lì il cinema ha tutt’altro peso, però a posteriori non rimpiango di essere rimasto qui. Io sono contento di essere rimasto a Padova, ma non direi che la città mi ha influenzato: spero piuttosto di averla influenzata io, soprattutto negli anni in cui c’era poca proposta culturale - gli anni Ottanta per esempio – e in cui ho lavorato molto sul cinema d’essai. In quel momento credo ci fosse davvero bisogno del mio lavoro. Forse adesso c’è meno bisogno di me perché ci sono molte altre persone che si occupano di questo, quindi potrei anche andare in pensione. Quali sono i motivi che dovrebbero convincere una persona a rimanere a Padova? E viceversa, qual è il motivo per cui questa città sarebbe meglio lasciarla? Io in questo momento sono dell’idea che si dovrebbe lasciare l’Italia, più che Padova. Ho tre figli che vivono tutti e tre all’estero, e sono molto contento per loro. Io stesso se non avessi avuto un lavoro legato alla lingua, come l’insegnante, sa-

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“Non direi che Padova è una città ‘senza’: piuttosto forse manca una politica di coordinamento. A livello di associazionismo ognuno occupa il suo angolino di mondo.” rei andato all’estero. Non credo che Padova sia una città peggiore di altre città del Veneto, anche se forse altre città più piccole - come Vicenza e Treviso - hanno fatto dei salti di qualità rispetto a quello che erano a quello che sono adesso molto più evidenti rispetto a Padova. Padova ha sempre avuto una storia ricca e l’ha consolidata, ma non ha potuto crescere più di tanto rispetto al passato. Forse negli anni avrebbe dovuto trovare un rapporto più intimo e più forte con l’università e con gli studenti, e non limitarsi a sfruttarli. Secondo lei l’università influenza il mondo culturale padovano? Meno di quanto dovrebbe. Quando sono cresciuto io a Padova c’era il CUC, Centro Universitario Cinematografico, poi Cinema 1, ma io ho avuto un percorso personale abbastanza a latere, non l’ho vissuto in maniera molto forte. Altri della mia generazione - come i professori Brunetta e Tinazzi - sono stati dentro al CUC, e poi c’è stato un personaggio come Tortolina, che ha avuto un’importanza fondamentale per la città. Oggi come oggi, però, il CUC è sparito: organizza qualcosa ogni tanto, adesso fa la rassegna gay perché non la fa nessuno, e ricomparirà in estate con un’altra rassegna, però il peso culturale che aveva il CUC di una volta, legato all’università, oggi non c’è più. Noi come circolo (The last Tycoon, N.d.R.) abbiamo preso in parte il posto del CUC, però non siamo riusciti ad avere lo stesso

rapporto con l’università, che ogni tanto organizza delle belle rassegne, ma le fa per se stessa. Adesso noi siamo riusciti, e questo mi fa molto piacere, a organizzare assieme all’università una rassegna di cinema inglese in lingua inglese, con sottotitoli in inglese. L’iniziativa però non è partita dai corsi di cinema ma dalla facoltà di Scienze Politiche, che lo fa soprattutto per fare imparare la lingua ai suoi studenti. Le sembra che da parte della città ci sia uno sforzo per trovare dei punti di contatto con l’università? Dunque, ai vertici forse sì, nel senso che il timbro dell’università di Padova ha un peso culturale forte. Io ho visto molti movimenti in cui il comune, e la provincia anche, hanno cercato di rapportarsi con l’università. A livello invece di associazionismo padovano ognuno occupa il suo angolino di mondo, l’università c’è, ma non mi sembra che ci sia una grande interazione tra il vertice e la base. Questo è un difetto proprio di Padova, secondo me: gli adulti padovani non si rendono molto conto della realtà studentesca. Sono due enti un po’ staccati. Rispetto a una volta però mi sembra di vedere più attenzione verso gli studenti. Ci sono prezzi e attività più attenti a loro. Una volta c’era solo il cinema Mignon che faceva gli spettacoli per gli studenti alla domenica mattina, e io ero sempre là. Certo che sul cinema, che è il mio ambiente, l’avanzata dei dvd e di

internet non ha avuto un impatto positivo, ha cambiato completamente l’utenza. Forse il problema è anche come contattare gli studenti: io non ho ancora trovato il modo corretto per entrare in contatto la popolazione universitaria. Secondo lei la gestione Zanonato è attenta alle attività culturali e le supporta? Zanonato demanda tutto a Colasio, l’Assessore alla cultura. Ultimamente, però, alcune iniziative che Colasio non ha preso in considerazione le ha seguite Zanonato, che tra l’altro è una persona di mondo, che va a vedersi gli spettacoli di cinema, è un appassionato da sempre, e quindi è abbastanza attento a questo ambito, forse addirittura più dell’assessore stesso che invece è molto più concentrato sull’arte. Tra i vari cinema della città esiste una rete che permette di programmare eventi di più ampio respiro oppure ognuno lavora in maniera isolata? Padova, a livello cinematografico, è una città forte: quando esce un film i riferimenti in Italia sono alcune città, e tra queste c’è Padova, e non Venezia o Rovigo. Padova ha un buon meccanismo cinematografico: c’è un’agenzia molto buona che gestisce il rapporto tra i produttori e la distribuzione. Il fatto che l’agenzia sia la stessa per quasi tutta la città permette che alcune realtà si colleghino tra loro, per esempio Astra e Portoastra, che fanno capo allo stesso ente di riferimento. Lo stesso succede tra Mpx, Excelsior e Rex. Poi ci sono Lux e Torresino che fanno rete tra di loro, e infine c’è il Piccolo Teatro, che è una realtà a sé stante, che riesce a fare tutto, non solo cinema ma anche musica e teatro. Però in questo senso parliamo solo di collegamenti commerciali, non culturali: attività forti a livello culturale che leghino le varie sale non ci sono.

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green records, grey city Intervista a Giulio Repetto: titolare e fondatore di Green Records, negozio di skate e street wear e in passato etichetta indipendente legata alla produzione di musica punk e hardcore. intervista a cura di Alberto Bullado

immagine di ConAltriMezzi

L'esperienza di una delle poche realtà musicali underground operative a Padova a cavallo tra gli anni ’80 e ’90.

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Padova, “la città dei senza”, che cosa manca? Se parliamo del mio campo, manca uno skatepark o comunque delle strutture, degli spazi attrezzati per i ragazzi che praticano questo sport, visto che al momento non c’è niente di tutto questo. Ed è da diversi anni che la situazione è sempre la stessa. Tutte le strutture che ci sono state a Padova, da metà anni ’80 in poi, sono sempre state costruite ed autogestite da chi andava in skate. Più in generale, Padova è sempre stata carente di spazi per suonare, per organizzare concerti o attività di questo tipo. E non mi sembra che negli anni la situazione sia cambiata. Non c’è proprio niente di nuovo, di emergente e positivo in questa città? Nel campo dello skate e di quello che vengono definiti “action sport” non c’è nulla di nuovo e positivo perché manca di fatto qualsiasi struttura. Infatti i ragazzi, soprattutto quelli più giovani, dopo un pri-

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mo approccio si demotivano facilmente. Da questo punto di vista non vedo nulla di positivo ed emergente. Mancano punti di aggregazione che non siano luoghi di fortuna. Per quanto riguarda la scena musicale, che è il secondo aspetto che ci interessa, anche in questo caso non vedo grosse novità, almeno per quello che ne posso sapere io. Come semplice cittadino c’è qualcosa che ti ha impressionato positivamente? Il fatto che qualcuno voglia cercare di rivitalizzare alcuni spazi del centro storico, com’è successo con il Cinema Altino, o con l’ex Macello. Trovo positivo che si stia cercando di recuperare questi luoghi attraverso iniziative che coinvolgano i giovani, ma mi sembrano tutte iniziative spontanee, che non hanno dietro un appoggio dell’amministrazione. Da questo punto di vista non ci sono cose che mi impressionano come cittadino. Non che ne abbia viste in passato: allora la situazione non era molto diversa da adesso.

Un motivo da dare alle giovani generazioni per rimanere a Padova e uno invece per andarsene. Una ragione per rimanere? Motivazioni affettive: perché ci si è nati, perché è la propria città. Al di là di questo aspetto, la cosa positiva di Padova è che nella sua assenza di opportunità c’è comunque spazio per tutti. Volendo, per una persona che ha delle idee e che ha voglia di realizzare qualcosa, lo spazio c’è, perché ad ogni modo si tratta di una città non così piccola da non poter accogliere delle nuove idee. Tutto sta nell’iniziativa personale e nell’impegno che ognuno ci mette. A parte queste ragioni non ci sono altri motivi particolari per rimanere a Padova. Spostandoci sul piano personale, tu hai fatto molto esperienze all’estero: cosa ti ha fatto tornare a Padova anziché rimanere, che so, negli Stati Uniti? Scelte di tipo pratico ed affettivo, nonché lavorative, che poi portano a dover rispettare tutta una serie di impegni e ad assumere delle abitudini che difficilmente si riesce a cambiare. Nonostante tutto, Padova rimane una città abbastanza vivibile rispetto ad altre parti d’Italia. Io non sono originario di queste zone, ma ci ho vissuto per molti anni, e anche se ho suonato tanto all’estero sono sempre tornato, perché le condizioni erano comunque buone per quello che volevo fare. Del resto stiamo parlando di un territorio con un relativo benessere, dove è possibile avviare un certo tipo di attività commerciale.

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Torniamo indietro nel tempo: come nasce Green Records? L’etichetta nasce dalla passione per la musica, mia e di altri ragazzi, che negli anni ’80 seguivano il punk e l’hardcore. Una delle caratteristiche principali di questo genere musicale è il coinvolgimento personale: far parte della scena. Il nostro contributo consisteva nell’aiutare i gruppi a prodursi, a fare i concerti, ad organizzare i tour, e a quel punto fondare l’etichetta è stata una scelta abbastanza naturale, perché all’epoca mancava qualcuno che producesse le band di un certo genere musicale, così abbiamo iniziato a farlo noi. Prima stampando le magliette e le demo tape, poi da lì siamo passati ai dischi, ai cd e ai concerti. Infine abbiamo aperto il negozio e la distribuzione. Che ricordi hai della scena underground anni ’90 a Padova? Come etichetta i nostri riferimenti, purtroppo, erano spesso al di fuori di Padova. Paradossalmente Green Records è sempre stata più conosciuta in altre città, proprio perché questa zona, dal punto di vista musicale, non ha mai avuto gruppi che si sono affermati a livello nazionale. Stessa cosa si può dire per la mancanza di spazi in cui si potrebbe coltivare una data scena indipendente. La nostra realtà è rimasta sempre un po’ scollegata dal resto di Padova, è come un’isola che ha trovato la propria ragione di esistere grazie al seguito che ha avuto in altre città o addirittura fuori dall’Italia. Per queste ragioni i miei ricordi sono legati a luoghi lontani da Padova. In questa città non c’è mai stato grande fermento. Si facevano concerti punk e hardcore nei centri sociali, la scena degli anni ’80-’90 aveva poco a che fare con l’esplosione degli anni 2000, quando i Nofx richiamavano ventimila persone. Ai nostri concerti arrivavano una cinquantina di ragazzi o poco più: eravamo l’underground dell’underground. Una scena quindi che non andava molto al di là di coloro che la vivevano in prima persona. Dopodiché cos’è successo? Ho perso mano a mano interesse. Ero legato molto alla musica, alla scena, e soprattutto alle persone che frequentavano e creavano quell’ambiente. Ragazzi che sono cresciuti, che sono andati via, che hanno cominciato a dedicarsi ad altre cose. Il discorso è anche di carattere generazionale. Per queste ragioni la scena si è disgregata, si sono sciolti i gruppi e di pari passo è sparita anche la nostra etichetta. Anche se in realtà Green Records non è mai scomparsa del tutto, perché abbiamo

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continuato a produrre qualcosa, malgrado la scena a cui facevamo riferimento, di fatto, non ci fosse più. Quindi l’etichetta si è poi riconvertita in negozio. In realtà esiste un filone del punk e dell’hardcore che ha sempre avuto una forte connessione con lo skate, a cominciare dai primi anni ’80 negli Stati Uniti. Io che seguivo quella scena, andando spesso in California, ho vissuto questo binomio tra musica e skate, due cose per me inscindibili e che si sono evolute assieme. Quando i vecchi supporti come vinili e cd hanno cominciato a venire meno a causa del diffondersi dell’mp3, l’unico modo per rimanere dentro un certo ambiente a livello professionale era quello di cominciare a vendere un altro tipo di articoli. Per questo ci siamo trasformati in un negozio

tanti a livello nazionale. E questo è molto strano. C’è stato il punk, il periodo delle posse, gruppi hip hop che venivano fuori da ogni centro sociale, da ogni città d’Italia: ma a Padova niente. Stessa cosa per quanto riguarda il metal. Qualche ragazzo forse è riuscito ad emergere in ambito pop o indie-rock. Poi, ripeto, magari non sono a conoscenza di altre realtà, mi piacerebbe essere smentito. Sembra che a Padova sia sempre mancato qualcosa capace di dare il “la” ad un certo sviluppo artistico. Non ho mai capito da cosa dipenda questa carenza. Cosa diresti a coloro che hanno in mano le chiavi della città? Quello che dico da sempre. Negli anni ho avuto a che fare con diversi assessori che si sono avvicendati, di schieramento in schieramento: le risposte che ricevo sono

“La scena degli anni ’80-’90 aveva poco a che fare con l’esplosione degli anni 2000. Si facevano concerti punk e hardcore con una cinquantina di ragazzi o poco più: eravamo l’underground dell’underground.” di skate: in questo modo ho sempre potuto valorizzare una mia passione. Del resto anche in precedenza tenevo delle tavole e un po’ di abbigliamento, quindi si è trattato di un passaggio piuttosto graduale. Ad un certo punto non aveva più senso tenere i dischi, ad eccezione di qualche produzione dell’etichetta. Che gruppi locali avete prodotto in passato? Nel Nord Est, i principali sono i With Love, che hanno riscosso un seguito discreto. Inizialmente abbiamo stampato delle cassette dei nostri gruppi o di amici, tra cui un demo tape di un gruppo hip hop misconosciuto di Padova, che si chiamava Sacco e Vanzetti Syndicate. L’ultimo 45 giri che abbiamo prodotto è quello dei The Dancers, gruppo di Padova/Venezia. Altri gruppi della zona non me ne vengono in mente. Spero di non aver dimenticato qualcuno…

sempre le stesse. I soldi non ci sono, certe iniziative non possono essere inserite tra le nostre priorità: fondamentalmente perché non le ritengono molto interessanti. Parlo di aree dedicate allo skate che poi funzionerebbero come centri di aggregazione, nel quale fare anche concerti e organizzare altri tipi di eventi. A volte mi sembra quasi ridicolo ritrovarmi oggi a dovermi battere per le stesse cose di vent’anni fa, anche se ora la mia età e i miei interessi vanno al di là dello skatepark. Però non vedo nessuno che abbia voglia di portare avanti queste battaglie. Noi abbiamo un’associazione di ragazzi che formulano sempre le solite richieste, io continuo a far notare a chi di dovere che a Padova non c’è niente del genere, ma niente da fare. Se poi penso a come vengono buttati via i soldi in certe iniziative…

Nella tua esperienza ventennale non hai avvertito una carenza alla base della nostra scena musicale? La scena musicale padovana, per quanto ne so, non ha mai espresso gruppi impor-

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racconti e poesie


indice racconti e poesie Saliva le Scale racconto di Giovanna Zoccarato

La neve a Padova racconto di Francesco Berti

Bianco come il potere

racconto di Antonio Lauriola

Una nuova Resistenza di Alessandro Macciò

Il delitto di Alessandro Macciò

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di Valeria di Iasio

7 di Valeria di Iasio

21 di Valeria di Iasio

Pendolare di Tommaso De Beni

Non si vedono gli dei di Tommaso De Beni

Serata di pioggia in città di Tommaso De Beni

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saliva le scale Saliva le scale come non faceva da chissà quanto tempo. Lentamente, come accadeva ormai negli ultimi anni. Si appoggiava al corrimano per aiutarsi a salire, e lo sentiva freddo sotto la sua mano, ruvido e troppo spesso perché le dita potessero agganciarsi bene. Per tutta la sua vita ci era passato di fianco, veloce, scalando i gradini a due a due senza neppure vederlo. E ora che aveva bisogno di lui, quel corrimano si lasciava prendere da quelle mani macchiate dal tempo e dall’inchiostro, offrendo tutti i suoi appigli, senza rinfacciare nulla. Veniva voglia di ringraziarlo, un corrimano così. Le scale erano scale di biblioteca, le mani erano mani di un vecchio professore di Metrica in pensione ormai da anni, curvo di lentezza e di endecasillabi scanditi. Brutta cosa la vecchiaia, pensava. Blocca le ginocchia e rallenta il respiro. La biblioteca della Facoltà di Lettere, a Palazzo Maldura, era luminosa del sole di maggio: il professore la amava in questa stagione quasi di esami, e trovava un po’ commovente che la studiosa intelligenza dei giovani ed il colore dei fiori sbocciassero nelle stesse settimane. Andò verso il suo solito posto, quello vicino all’alta vetrata, con passo strascicato. Non insegnava più, non aveva più suoi studenti a riconoscerlo nei corridoi tra gli scaffali, eppure non mancava mai di passare in biblioteca, almeno una volta al giorno, anche solo per un’ora delle sue mattinate, un po’ nostalgiche come sanno essere la mattinate dei vecchi. Gli piaceva camminare vicino alle mensole e agli scaffali per sentire l’odore di carta rilegata e gli piaceva scorrere con il dito il dorso dei libri in fila, che allineati si sostenevano l’un l’altro. Sceglieva un volume, un titolo che amava, un autore che gli sfuggiva, un libro che andava riletto, un libro che fosse in armonia con il suo stato d’animo, che non stridesse con i suoi pensieri: non si poteva che leggere Sbarbaro, in una giornata uggiosa e grigia d’autunno, o Fortini, quando ci si vuole ricordare quanto possano le parole. Si appoggiava il libro al fianco, sottobraccio, e si sedeva al suo tavolo preferito da cui poteva vedere le cupole azzurre della chiesa del Carmine. E leggeva, leggeva, scorrendo le pagine con gli occhi usi ed esperti. Si poteva vederlo sorridere, aggrottare le ciglia, sfogliare le pagine rapidamente alla ricerca di un passo che all’improvviso gli si era mostrato famigliare o che un tempo aveva imparato a memoria. E magari lo trovava sottolineato da una matita non sua, scarabocchiato da un’altra grafia, e si sorprendeva di quanto fosse

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un racconto di Giovanna Zoccarato

strano che gli uomini, così diversi e lontani tra loro, sottolineassero le stesse parole, si riconoscessero nelle stesse rime, cercassero disperatamente in fondo la stessa verità, la stessa bellezza. E poi, dopo il giusto tempo nella giusta mattinata nostalgica, chiudeva il libro. Ripercorreva le scale in discesa: gran brutta cosa la vecchiaia, pensava, neppure in discesa ti lascia affrettare il passo. Dopo il tacito ringraziamento al corrimano, usciva nella sua Padova. Vi era arrivato appena ventenne e non l’aveva più lasciata. Aveva viaggiato tanto, ma in ogni angolo di mondo la cercava, e alla fine vi ritornava sempre. Se la conosci bene, se la sai ascoltare, Padova sa essere casa. È una di quelle città che sa vivere di mercato del mattino, di piazze fresche di sera, di teatro e di musica. Vive negli annunci in bacheca di stanze in affitto, nella folla fitta alle fermate del tram, nei cortei e nei regali di Natale dei negozi del ghetto. Vive di anse di fiume placido, vive nella povertà immigrata e sognante. Lui a Padova era cresciuto, dividendo i pantaloni con il fratello maggiore in una stanza umida e polverosa di una delle prime case studenti, al Portello. A Padova aveva studiato, aveva pensato, aveva manifestato, aveva sognato, aveva compreso, aveva amato. Aveva conosciuto Teresa in quella che per lui era una delle più intime piazze della città, Piazzetta San Nicolò. Signorile nella sua umiltà, nobile nel ritaglio di cielo che resta come corona tra gli alti palazzi. Silenziosa, lascia dietro l’angolo tutti i rumori del mondo. Lei era seduta per terra davanti alla chiesina, con una camicetta rossa un poco stropicciata; stava leggendo assorta. Lui la vide un giorno che aveva fretta e rallentò il passo. Affascinava, quell’esile figura che stava a suo agio sui ciottoli del sagrato, non curante di essere seduta in una posizione che obbligava le bici a deviare la loro corsa per scansarla. Quando i suoi occhi la trovarono, capì che non era una cosa da lasciar perdere. Si era sempre fidato del suo amore per la bellezza, della sua propensione a cercare la grazia, e decise di farlo anche stavolta. Lei alzò distrattamente lo sguardo, con i capelli scuri che disegnavano il profilo del capo sulla pietra alle sue spalle, e notò un giovane uomo spettinato e smarrito che la fissava. Per la sua grande umiltà, per la modestia che le apparteneva in modo deciso e inscalfibile, si spostò, sedendosi in un posto più aderente al muro della chiesa, perché il suo pensiero (e i suoi pensieri erano spontanei, e candidi come le pietre che si usano per costruire le

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chiese) fu di essere troppo nel mezzo, di occupare troppo spazio. Poi sorrise, forse del pensiero sciocco, forse di lui. E sorridendo Teresa chiudeva gli occhi, che avevano la cortesia di socchiudersi per non ferire con la loro luce. Lui seppe che una donna che sorride ad occhi chiusi in questo modo onesto, e che nel vuoto di una piazza battuta dal sole si sposta di lato per fargli posto, lui avrebbe potuto amarla per sempre. E così fu. Camminava, il vecchio professore, ciondolando il passo di lato, ma non tornava subito a casa, perché esistevano altre soste che la ritualità di cui è fatta la vecchiaia gli imponeva. Così, dopo essere stato in biblioteca, quasi a memoria e senza cercare la strada, ogni giorno andava a trovare la moglie; era sepolta nel cimitero ebraico vicino a via Beato Pellegrino. Teresa non aveva nient’altro che una pietra con il suo nome inciso, il professore non aveva saputo trovare altre parole che potessero parlare del loro amore: delimitarlo, sigillarlo. Ogni giorno lui andava a salutarla, parlava con lei, pensava con lei e le leggeva una poesia, una di quelle dei libri che amava tenere in tasca. Un lunedì, nel giorno in cui dieci anni prima un battito del cuore più forte degli altri l’aveva portata via, le lesse Hikmet, sapendo che era Padova la loro Parigi che già bruciava, con l’ostinato e puntuale sconforto di sapere che ormai loro non avrebbero fatto a tempo. Gli piaceva quel cimitero, gli piaceva il silenzio eterno che si respira in tutti i cimiteri. Ad aver pazienza, pensava, sembrerebbe di poter sentire il rumore dell’erba che cresce. Poi si

dirigeva verso casa, cercando in tasca il rumore delle chiavi. Abitava da tempo a due passi dal Prato, in una di quelle case signorili ed affrescate che vien da chiedersi come siano dentro se solo all’esterno sono così belle. Non era vicina alla sua biblioteca, ma gli piaceva sforzarsi di coprire ogni giorno quella distanza trascinando i piedi per le vie del centro: camminare tra la gente era una delle cose che lo faceva sentire ancora parte del mondo. Sapeva godersi il tragitto, sapeva osservare la sua città che cresceva e si trasformava giorno dopo giorno, sapeva riconoscere tra tante le biciclette degli amici, che cercava con lo sguardo ai crocicchi per poterli salutare. E prima di arrivare a casa passava davanti alla Basilica del Santo, rossa dei suoi mattoni, con la sua piazza sempre così affollata di piccioni e pellegrini. Sapeva di incenso, la soglia della chiesa, lisa di secoli di suole e di preghiere. Sapeva di silenzio e ginocchia piegate. A lui piaceva varcarla, forse per la serenità e per la forza che gli entravano nell’animo quando sentiva di credere in qualcosa di più alto, di più capace; o forse entrava lì dentro solo per guardare un’altra volta la luce muta delle candele che illuminavano la penombra. E quando arrivava a casa si sentiva fortunato, quasi felice, per aver potuto dedicarsi anche quel giorno a ciò che amava, per essere entrato nei suoi templi a onorare ciò che al mondo c’è di sacro, nella sua città ad un tempo docile e ribelle, come una donna innamorata.

la neve a padova La neve a Padova mi ha sempre stupito, come qualcosa di “fuori posto”, qualcosa che in una città come questa non può capitare. Guardo il piazzale della stazione e mi sembra di non riconoscerlo, non da qui in alto, non in mezzo a questa bufera, sembra quasi bello, sembra spogliarsi delle sue ferite e di quel senso d’emarginazione d’ogni stazione. Le persone viste da qui sono piccolissime e sembrano annaspare, mi ricordano le città che creavo da bambino nel giardino di casa mia. Se qualcuno tirasse su il naso ora forse mi vedrebbe all’undicesimo piano: un uomo alla finestra immobile.

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un racconto di Francesco Berti

La torre Belvedere, non sapevo si chiamasse così questo grattacielo verde che si affaccia sul piazzale della stazione. Guardandolo pensavo a quei vecchi film di fantascienza che ci mostrano un futuro che per noi ha ormai il sapore del passato. Non riesco a muovermi, l’appartamento ha grandi finestre e la luce grigia di questa giornata rende tutto più duro, quasi tagliente. L’uomo che viveva qui è morto, e io ne sento per la prima volta l’odore, perché immagino che questo odore sia il suo, o almeno della sua vita qui. Guardo il letto, un semplice materasso appoggiato a dei

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bancali, le lenzuola stropicciate, forse sforzandomi potrei riconoscere la sagoma del suo corpo, una lampada e un paio di libri, una mappa di Padova tutta stropicciata e piena di scritte, un appendiabiti a vista di quelli dei negozi, qualche vestito e una seggiola in un angolo, due paia di scarpe, tutto qui, non c’è molto di più nelle altre stanze. Luca Moris, così si chiamava, o meglio questo era il nome che aveva nei suoi documenti. Ma niente che riguardi lui, a dire il vero, sembra essere reale, se non il mio numero di telefono scritto su una agenda vuota, una di quelle vecchie agende con la copertina in pelle verde. Immagino che alla polizia sia sembrata la cosa più ovvia chiamarmi per chiedermi informazioni sullo strano suicidio di quello strano uomo. Sembra non essere mai esistito, nessun documento, nessun lavoro, nessun amico, un vicino perfetto, più che silenzioso, invisibile. La prima volta che l’ho visto è stato alla stazione di polizia, una foto scattata sul tavolo dell’obitorio, un uomo giovane dai capelli castano biondi dalla folta barba, su un viso pallido con le palpebre arrossate, si intuiva che il suo corpo era massiccio. Sembrava dormire, ma si dice spesso questo dei morti, no? Niente mi sembra strano in questi giorni, neppure la telefonata della padrona di casa di Luca. Mi invita da lei per un caffè, non mi chiedo neppure come abbia avuto il mio numero di telefono. La signora Ines è una donna non più giovane, avrà sulla sessantina, i capelli curati e tinti di un improbabile rosso, un trucco forse un po’ pesante ma accurato. “Prego, si accomodi”. Ci sediamo in un piccolo salotto evidentemente usato solo per ricevere, come si faceva una volta. “Il signor Moris era una persona a modo, mai un ritardo nei pagamenti, mai una lamentela dei vicini, era sempre così silenzioso, chi lo avrebbe detto che sarebbe finita così”. I suoi occhi cerulei sembrano perdersi oltre la grande finestra che dà su un piccolo giardino innevato. “Mi scusi, le sembrerà strano che io l’abbia invitata qui, ma Luca... il signor Moris” si affretta a correggere, temendo una eccessiva intimità con qualcuno che non c’è più, “il mese scorso mi ha pagato l’affitto per quattro mesi e mi ha chiesto di darle una copia delle chiavi e una lettera, mi disse che avrei dovuto chiamarla ieri perché avrebbe avuto bisogno delle chiavi per fermarsi a casa sua un paio di giorni”. Appoggia la piccola tazza a fiori rosa sul tavolino, fruga in una piccola borsa nera che aveva tenuto a fianco e ne estrae delle chiavi e una busta da lettere, rimane qualche secondo a guardarle nelle sue mani, quasi incerta sul da farsi. “Prenda!” mi allunga le chiavi e sento per un attimo il calore delle sue mani sfiorare le mie “Luca voleva così, si prenda tutto il tempo necessario, d’altronde non saprei a chi restituire la caparra lo

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consideri suo per i prossimi mesi”. Ho comprato tutto il necessario per pulire, guanti di plastica gialli, sacchi della spazzatura, spazzole e detersivi. Comincio dal frigorifero, poi il piano di cottura e il pavimento della cucina. Non che ci sia molto da ripulire per la verità. Perché sto pulendo questo appartamento? Io non lo conoscevo, ma non riesco a non pensare che sia un atto dovuto, io ero il suo unico contatto con la realtà. Appoggio la lettera al centro del tavolo di formica verde in cucina, non me la sento di cambiare o pulire la camera da letto, sento che cancellerei l’ultimo contatto che ho con lui, l’unica possibilità che ho per provare a capirlo. Metto su un caffè e fumo una sigaretta aprendo appena la finestra, la luce è sempre tagliente, e l’aria fredda mi fa rabbrividire per un secondo. Oggi non guarderò la lettera. Nel bagno, accanto al suo spazzolino ora c’è il mio, sul bordo dello specchio c’è una foto di Luca, di quelle in bianco e nero delle macchinette della stazione , quattro scatti quasi uguali: reclina solo la testa lievemente. Sono passate due settimane, la busta mi aspetta pazientemente sul tavolo ma ancora non mi sento pronto. Domani, ecco, ho deciso. Mi fermerò... a dormire qui questa notte e domani aprirò la busta. Entro nella stanza da letto, non c’ero più entrato da quel primo giorno, non è un pensiero razionale a spingermi, non è niente quello che succede; è solo il mio corpo che si muove. Mi tolgo i vestiti e indosso una sua maglietta e dei suoi pantaloni di una tuta da ginnastica grigia. Mi sono grandi ma va bene cosi, sento il suo odore e mi sembra di ricordarlo, lo trovo famigliare, accendo un’altra sigaretta seduto in cucina, fuori continua a nevicare, domani è un tempo troppo lontano per poter aspettare. Apro la busta. Due polaroid. Una è una vista della porta del Portello di sera, si vedono due ragazzi ma non riesco a riconoscerne i loro volti, tengono una bici tra di loro e sembrano intimi, l’altra è una palazzina dell’ospedale di Padova, anche questa presa di sera, si vedono le finestre di due piani illuminate e si intravedono le porte degli ascensori. Entrambe le foto hanno un numero scritto a penna sul bordo inferiore, due e tre. Se è un messaggio non lo capisco. Attacco le polaroid sul muro del letto e mi stendo lì a pensare, mi rintano sotto il grande piumino e guardo fuori la neve cadere. Senza rendermene conto mi addormento. Nel sonno rivedo mia madre, e la nostra piccola casa, una via di casette basse, abitate per lo più da anziani, avevamo un piccolo giardino davanti casa con delle ortensie rosa, mi facevano pensare a dei palloncini e mi aspettavo prendessero il volo da un momento all’altro. Nel sogno sono in braccio a mia madre e guardiamo un bambino poco più grande di me camminare in giardino, si china a raccogliere un

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fiore giallo, che ai miei occhi è gigantesco, e me lo porge ridendo, e io mi sento felice mentre mia madre mi sussurra all’orecchio. Mi sveglio scoprendo che sto piangendo, ho voglia di tornare a casa dei miei. Nel volto di mia sorella rivedo tracce del volto di nostra madre, mi accoglie sorridendo. Le racconto del sogno e le chiedo se si ricorda delle piante di ortensie nel nostro giardino. “Certo che me le ricordo, da qualche parte ci deve essere anche una foto, aspetta un attimo” scompare in camera per ricomparire con un vecchio album fotografico. I vecchi album di fotografie mi hanno sempre intristito, mentre guardo tutte quelle persone in posa sorridere non posso fare a meno di chiedermi se hanno poi avuto la vita che speravano. Ritrovo noi bambini, i nostri nonni e il cane che avevo da bambino e poi eccola li, “eccola” dice mia sorella felice. è una polaroid di casa nostra, una grande ortensia piena di fiori, mia madre sulla porta di casa con me in braccio e un bambino con l’aria fiera da piccolo ometto davanti al cancello del giardino. Quando mia sorella me la passa vedo quel pic-

colo numero scritto sull’angolo in basso a destra, il numero uno. Non dico niente, che cosa potrei dire, non le ho raccontato niente di Luca, della casa, della mia ossessione, le chiedo se può darmi la foto, la saluto stringendola forte come se qualcosa stia per accadere, lei lo sente e mi chiede se va tutto bene, le dico di si sorridendo per tranquillizzarla. Corro a casa; è strano, ma ora è quella casa mia. Attacco la foto mancante vicino alle altre, ora tutto mi sembra chiaro. Apro la mappa della città e riconosco ogni singolo luogo segnato. E’ la mappa della mia vita. Al portello ho dato il mio primo bacio, la palazzina dell’ospedale è quella dove fui ricoverato dopo un incidente in moto, la mia università, il mio posto di lavoro, ogni luogo che ha avuto un senso per me è stato riportato in quella mappa, lui è sempre stato vicino a me, ma io non ho saputo ricordare il suo sguardo, ne ho saputo riconoscere in quel bambino dall’aria fiera il giovane uomo dell’obitorio. All’improvviso mi sento solo, incredibilmente solo, mentre guardo la neve cadere.

bianco come il potere Vi osservo da sempre, sapete? Voi, con quegli sguardi indiscreti dietro le vostre – com’è che le chiamate? – le vostre macchine fotografiche. Passeggiate impettiti e colorati lungo gli argini e mi basta fare un passo o darmi una spinta sull’acqua perché vi voltiate a spiarmi cercando di carpire il mio segreto. Ve ne state là inebetiti a indicarmi e tormentarmi con i vostri complimenti e le risa stupide dei vostri cuccioli. Povere bestie. Mi ricordo di voi sin da quando, nei miei primi giorni di vita, attraversando rapidamente il ponte Molino, rubavate momenti di intimità ai miei genitori: maestosi e candidi, stretti nell’abbraccio che avete eletto a simbolo d’amore, avrebbero desiderato soltanto un po’ pace. Loro, signori del grande lago, strappati alla propria terra per dare luce alle vostre anime. Vi guardavo, nascosto tra l’erba di quel tratto di fiume dai vostri sguardi e dai mille nemici di questa città. Ero troppo piccolo per capire il ruolo dell’uomo ma già intuivo il potere di quelli sull’altro lato dell’acqua. No, non parlo dei germani. Quei pennuti rumorosi e

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un racconto di Antonio Lauriola

così inclini alla socialità non hanno mai brillato per intelligenza: dategli un tozzo di pane, un po’ d’acqua in cui sguazzare, la possibilità di procreare ad ogni primavera e li avrete ai vostri piedi. Proprio sopra le loro penne, lungo il lato più curato di quel tratto d’argine, anatre mute, enormi uccelli dal piumaggio verde e bianco si godevano la tranquillità della propria posizione. Ciò che più m’inquietava e suggestionava erano i loro grossi becchi rossi, sempre silenziosi ma pronti allo scontro al primo pretesto. Naturalmente non godevano presso di voi del prestigio dei miei genitori ma quaggiù, tra acqua, erba e fango, il loro re era divino. Circondato dalle numerose concubine, frivole come oche molli sul muretto di pietre e cemento, doveva preoccuparsi solo di dar ordini alla sua scorta personale – un brutto ceffo dal piumaggio nero come l’asfalto – e ai volatili dal becco affusolato che, per lui, osservavano la città. Col tempo imparai a riconoscere il loro linguaggio, i codici della loro comunicazione. Un tuffo in acqua del re, un battito d’ali e tre immersioni del collo, ad esem-

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pio, facevano partire un piccolo stormo di gabbiani alla volta di Porta Portello dove qualche vecchio dei vostri e un paio di giovani orientali avevano lanciato esche uncinate ai pesci; o ancora: una nuotata verso sud in compagnia di tre femmine, mentre il papero della scorta costeggiava l’altra riva, spingeva una mezza dozzina di germani ad attirare l’attenzione del cane liberato dal guinzaglio. Ero ancora grigio all’epoca in cui – mio padre lontano, costretto a esibirsi nello stagno di un umano venuto a prenderlo col suo carro a motore – per la prima volta, vidi il re delle anatre ergersi sulle zampe, lì nel punto più elevato dell’altra riva, e spalancare le ali in direzione di mia madre accovacciata a copertura del mio giaciglio. Sentii il suo corpo vibrare per un istante e poi premere con forza sul mio per cacciarmi nella buca in cui ero stato covato per un mese. Caddi all’indietro, goffo sulle zampe, e quando allungai il collo in cerca del becco famigliare fui investito da grossi schizzi d’acqua e fango e piume bianche e morbide: il nobile cigno da cui ero nato si batteva contro un nemico che non riuscivo a riconoscere. Non dimenticherò mai le code nude come vermi che spingevano nell’acqua per tenere in equilibrio i grassi corpi ricoperti dall’ispida pelliccia; i lunghi incisivi incorniciati da baffi affilati. Non dimenticherò mai la prima volta che vidi dei ratti sotto la luce dell’alba. Avevano macchiato di rosso le belle penne di mia madre. Curvò il bel collo nella mia direzione per aiutarmi a uscire dalla tana. La seguii risalendo la corrente fino ai piedi della curiosa struttura della Specola. Dal becco alla sommità del capo, l’unica luce che vidi tra il nero delle piume fu il riflesso di un pulcino terrorizzato dalla propria impotenza. Dopo tre giorni, le infezioni provocate dai tagli avevano stremato la sua resistenza: si appartò tra le tavole di un piccolo relitto di barca e mi lasciò. Rimasto solo, riuscii a sopravvivere nascondendomi tra le piante, negli anfratti e tra i gruppi di germani con i loro pulcini: ero un brutto anatroccolo dal finale incerto. Vivevo in una città troppo affollata e, più il mio corpo cominciava a mostrarsi bianco, più imparavo a catalogarne i suoi abitanti: i germani e le altre anatre comuni, senza aspirazioni, fissi nella propria routine, illusi dalla mostra dei propri colori; gabbiani e gabbianelle, orgogliosi della propria velocità, padroni di nulla se non del

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proprio guano; i ratti, tanto vergognosi da uscire allo scoperto solo di notte, attirati dalla spazzatura e dalla polvere chiara che voi gli regalate per controllarne la morte. Soprattutto, ho conosciuto quelli che il re delle anatre non aveva mai considerato, quelli della cui forza mi sarei servito per arrivare dove sono ora. I piccioni, popolo di sporchi mendicanti, storpi e infetti, ratti alati capaci di raggiungere ogni angolo senza destare il minimo sospetto: che li troviate docili o ripugnanti, lasciate che vi volino accanto e vivano tra le vostre case; offrite loro cibo e poi li scacciate come lebbrosi. Non hanno un sovrano, i piccioni. E non amano l’autorità. Ma se li chiudete in una gabbia ne faranno il proprio nido. E voi, arroganti uomini, siete più occupati a guardarvi dai loro escrementi che a seguire il corso del canale. Le nutrie, immondi mammiferi abbandonati a uno stadio incerto dell’evoluzione. Anche i vostri gatti temono la loro mole: non un anatra nera – vi dico – ma una muta di nutrie vi faccia da scorta. Dominano, col buio, le acque della città senza il bisogno di nascondersi come i ratti. Credono di poter fare quel che vogliono in virtù della propria stazza. Ma sanno che senza un potere a cui sottomettersi sarebbero le prime vittime del vostro ‘ordine’. Infine voi, esseri umani, sazi di una civiltà in caduta libera. Guardate con meraviglia il mio mondo e disprezzate il Piovego e i suoi abitanti. Protetti dai vetri delle vostre auto o dai cancelli delle vostre tane vi costruite le gabbie in cui vivete e vi esibite con l’unico scopo di umiliarvi l’un l’altro fingendovi branco. Siete greggi. E spedite le vostre pecore nere tra gli abitanti di quaggiù. Io le accolgo e imparo i loro nomi: Alex il bulgaro, Aziz l’egiziano, Barbara l’italiana; e poi Mauro, Spillo, Luigi, Abel e le altre vittime della vostra gerarchia. Sovrani, ratti, pennuti e umani: non siamo così distanti, sapete? Con i piccioni vi distraggo. Con le nutrie vi spavento. Con un manto bianco e un becco d’oro vi soggiogo. E se – per caso – passeggiando in riviera verso il ponte Molino, vi imbatteste in un’anatra muta impettita tra le sue simili, pensate a me, alla storia del pulcino grigio e orfano che schiacciò un re, la sua guardia nera e le sue molli mogli. Quando vi fermate a guardarmi indicandomi ai vostri piccoli, puntate un indice anche al campanile lassù. Professate loro l’eterno potere del bianco.

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una nuova resistenza

il delitto

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di Alessandro Macciò

di Alessandro Macciò

di Valeria Di Iasio

Gli uomini hanno escluso se stessi dalle città che hanno progettato: singolare dimenticanza, in questa vorticosa danza di manifesti elettorali e camion gravi di bancali.

Voglio sapere i nomi di chi l’ha concepito, e di coloro che (dopo, si spera, un arduo travaglio) l’hanno partorito: mostruoso torreggia l’ammasso di cemento e opaco vetro che incombe cupo, sporgendo, sulle rachitiche manciate di erba e terra, e dichiara guerra agli esili poggioli della palazzina adiacente. Sembra un immenso cubo di Rubik: se solo ne avesse i colori!

Musica. La gente parla di gelati e dell’onda del mare. Un giro di jazz si suona. Uno intenso spigolo in alto sole di sera. Ed un palpito che non si sa come dire ed è già passato. Poesie Padovane dei ciottoli, del meriggio che quasi sera è. Ed un passo incantato a scatti va presso, preso da-a una parola. Chiaroscuri di un ramo verde fanno vuoto, con piccole foglie prendono la mente la portano alla brezza. Li scioglie. Io sono un poeta che guarda l’indietro, una gomma masticata uno scheletro dentro una riviera cittadina che trascina dal sogno alla quotidianità. Sappiatelo che sono dell’Europa e qui solo a casa posso sentirmi. Mi inchino umilmente stupefatta al suo che “di inesauribile segreto”.

Persa in partenza la scommessa, su queste strade, di camminare: la pazienza può traghettarti sul ciglio dove il marciapiede, misterioso, scompare, stanco dei pesi che non ha - eccetto il tuo. Resta solo una scia di gesso, e la curiosità ti avanza in bilico sopra l’abisso d’asfalto, abbastanza comunque per scorgere la pensilina degli autobus, in lontananza: la consolazione concessa a chi si nutre di miraggi. Ipotizzare ove conduca, e come, somiglia a un’impresa: si va per feline carcasse al nuovo tempio della spesa. Gli uomini hanno escluso se stessi, ed è forse questo il motivo per cui disegnano a vernice sagome di se stessi, a terra: bianchi promemoria per dire «non ti scordare che sei vivo!» Se il cupo budello oltrepassi di ponti e pilastri, se scarti lo sghembo profilo dell’hotel e al palasport volti le spalle, soave appare una contrada che non avresti mai pensato:

Voglio sapere, ovvio, il nome dell’Architetto: raccogliere le prove, sfogliare le carte del progetto fino a carpirne il più recondito movente. Voglio sapere, anche, i nomi del Dirigente Tecnico che ha dato il suo beneplacito, dei Direttori di Banca che hanno plaudito soddisfatti, della modella che raggiante ha eseguito il taglio del nastro, dell’Imprenditore che accettò il lavoro e dei suoi operai che hanno finto di non vedere quale scempio le loro mani si preparavano a innalzare: non solo di pochi mandanti si sostenta il delitto, ma di un esercito di sicari. Quando ti abbatteranno, mostro di vetro, solo i mendicanti ti rimpiangeranno: trovano di notte riparo nel tristo deserto dei tuoi porticati.

vedi gli orari delle messe, le casette a schiera, e ripensi quel che sorge a breve distanza. L’impressione, forte, è di stare dentro una nuova Resistenza, e il nemico preme alle porte i superstiti.

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pendolare

di Valeria Di Iasio

di Valeria Di Iasio

di Tommaso De Beni

Scrivo con un feticcio odi al primo folle d’Europa: elogio senza gloria. E come ho già detto, vani sforzi e vani edonismi. Consolazioni di postuma fama magre, che anche Petrarca è morto ed è facile al fuoco la carta; non farei rimproveri su giacche, né su scarpe: contemplazione sola. Vedo quanto è inutile affermare che si farebbe invidia a uomini e a dei. Ironia. Dovrei per far capire quel che intendo pubblicare una biografia. Pagine bianche tra dita interdette, buchi di giochi e naturalezze. Lacrime non smettono di sprecare quelle carissime gemme di sangue. Lì, l’inesprimibile.

Rigidità ormai sciolte di notte sul balcone. Tuoni illuminanti Padova e il cuor diviso (per la metrica è il cuore). Magici segni al buio tracciati. Sono una città a dodici porte e invidie interne di un marmoreo corpo per un cristallo puro.

La corriera sonnolenta delle sette meno un quarto picciol scarto di tempo e di memoria, Dio te n’abbia in gloria, lenta alle nove meno un quarto la corriera sonnolenta -ora sveglia corre verso il sole che abbaglia e fa ritorno, s’è fatto giorno, è giorno fatto ormai. Un mendicante a Padova brucia un armadio.

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non si vedono gli dei

serata di pioggia in città

di Tommaso De Beni

di Tommaso De Beni

Ponte Molino ha un buco nella mia testa e nel mio stomaco today mentre evito di farmi schiacciare dal bisonte metallico e più avanti getto uno sguardo a sinistra verso L’Uomo Ragno, e poi verso destra ai ragazzini scherzosi che passano davanti al mendicante fuori dal Carmine (e c’è anche la statua di uno famoso) mentre senza mai fermarmi m’immergo nell’afrore di Kebab e lo supero. Il primo numero della nuova via è un palazzo antico pieno di studenti nuovi, ha un nome che non fa sperare, se dura male. Più avanti lungo questa via c’è un convento di suore, spesso se ne vedono passare, del resto pellegrino è il nome. Tra queste suore una volta c’era anche una zia di mio padre. Di lei si ricorda il cimitero che qui a Padova è grande come un paese. Una volta i controllori passavano almeno una volta al mese. A un certo punto mi fermo, l’aria puzza, in giro non si vedono gli dei.

Bagnati di pioggia i volti indifferenti e nervosi della fretta patavina, stolti numi osservano la vita scorrere così, dall’alto della loro vaga luce e qui invece stiamo noi, tra asfalto e neon, vivi nella sera, loro più di noi, sulla scia di chi non si volta, di chi non aspetta, lo sguardo ci conduce ad includere altre vite frettolose nella nostra, forse più triste, ma non tanto diversa; la bufera non imperversa, non fa paura, acqua abbondante, sì, ma blanda, grigia, monotona come la città vista coi miei occhi.

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Padova. La città del Santo Senza Nome, del Prato Senza Erba, del Caffè Senza Porte. Già dai suoi simboli Padova manifesta una mancanza, un senso di vuoto e precarietà. Cammini per la città, la tua città, e ti guardi attorno, con occhi attenti, prudenti. Ti lasci distrarre da un passante, da una siepe in fiore, dalla chitarra di un’artista di strada. E realizzi un sentimento di privazione. Non t’accontenti più di non poter andare al cinema in centro, o alla tua mensa preferita. Dove vivi? Che nome ha questa folla? Cosa ti manca? Ecco lo sguardo di sette fotografi, che raccontano attraverso la lente delle loro riflessioni, delle loro emozioni, la Padova che hanno conosciuto, fatta di pregi e di lacune, di domande e di risposte, che pongono altre domande. Reportage fotografici che raccontano storie, o meglio, che indagano con occhio critico una realtà sociale, culturale, collettiva, che muta ogni giorno, che tende a decomporsi e a rinnovarsi. Questa è la loro Padova. La loro Città dei Senza. Questa mostra fotografica, che ospiterà sette percorsi autonomi di sette diversi giovani fotografi, è stata concepita come progetto parallelo a CAM#07: La Città dei Senza e si propone come esposizione collettiva itinerante di artisti. Per questa ragione la mostra seguirà, d’ora in avanti, le prossime presentazioni della rivista. Seguici sui nostri canali, blog e social network per rimanere informato sulle novità di questa nostra iniziativa

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\\ PADOVA SENZA LETTO \\ Giulia Agostini Ho fotografato quattro persone mentre dormivano in questa città dove per ciascuna di loro, manca forse una delle cose più importanti che io qui mi limito a chiamare letto. Una signora cleptomane che dorme quasi ogni giorno sul divano della Feltrinelli e quando non dorme, ascoltandola parlare di tutti i libri che ha studiato, ci si chiede dove può aver perso il suo letto. Una clochard che dorme di fronte al Prato senza erba sulla sedia di un caffè dove ormai è di casa ed il gestore le offre quasi sempre una tazza di schiuma per colazione. “La camera sconosciuta, sgradevole, il letto dubbio. Io sono affezionato al mio letto più che ad ogni altra cosa: il letto è il santuario della vita; gli si affida la propria carne nuda, stanca, perchè la rianimi e la riposi nel candore delle lenzuola e nel calore delle coperte; nel letto noi godiamo le ore più dolci dell’esistenza; le ore d’amore e quelle di sonno.” Guy De Maupassant. Tecnica: stampa analogica, rullino Kodak Portra 400 asa 35mm color, carta opaca, 30x40. www.giuliaagostini.com giuliasdream@yahoo.it


\\ PADOVA SENZA CINEMA \\ Francesco Berti Mi sono trasferito a Padova 15 anni fa. Ho visto chiudere uno dopo l’altro i cinema di questa città, sostituiti da locali alla moda o catene di abbigliamento, nei migliori dei casi, o abbandonati a se stessi nei peggiori. L’Altino, perché così si chiama (non c’è mai stato bisogno di specificare che era “il cinema Altino”), è sempre stato il mio cinema preferito; ne amavo l’architettura e quell’aria anni ‘70. Sembra essere l’esempio di una “occasione perduta” da parte della città. Da molti viene chiesto di salvare tale cinema famoso anche per la sua architettura (opera di Quirino De Giorgio), ma sembra sia più facile murarne l’entrata e concentrasi sulla costruzioni di “grandi” opere . Rimane poi da chiedersi se le grandi opere siano per la città o per pochi uomini. Tecnica: stampa su pannelli, formato 20x30 e 30x45. www.francescoberti.com akinoit@yahoo.it


\\ PADOVA SENZA VIA MARZOLO \\ Chiara De Notaris A Padova gli studenti sono vita. Gli studenti a Padova vivono di servizi. Senza servizi gli studenti muoiono. Senza studenti Padova muore. In via Marzolo, una mensa ed una casa dello studente sono morte. Cammino per questa strada e il vuoto è attanagliante. “Senza via Marzolo” e gli studenti non se ne accorgono, al vuoto ci si abitua. Si passa accanto alla morte e si scatta una foto. Tecnica: stampa lambda, opaco, bianco e nero, formato 30x45. chiaradn@gmail.com


\\ PADOVA SENZA VOLTO \\ Damiano Ermenegildo Il volto è una delle principali chiavi di lettura dell’essere umano. Ne dice i sentimenti, ne fa trasparire emozioni, speranze, illusioni. I soggetti delle mie foto hanno, però, il volto celato, irriconoscibile. Sono dei senza volto, non perché non abbiano storie da raccontare, bensì perché, perdendo la loro soggettività, divengono portavoce delle storie di tutti, delle emozioni, speranze, illusioni della cittadinanza intera. Nel momento in cui non conta più la loro individualità, le idee di ognuno si evolvono in una sfera più ampia e divengono il simbolo dei pensieri di molti. I senza volto, per questo, siamo tutti noi. Tecnica: stampa su carta lucida, formato 50x23. www.demall.tumblr.com ermenegildodem@gmail.com


\\ PADOVA SENZA ARTE \\ Zaira Menin Arte. Stavo pensando a te, a chi viene da te ispirato e vive per esprimerti. Riflettevo sull’arte che incontriamo ogni dì, un’ arte senza dimora, che abita le nostre strade animandole di magia senza chiedere nulla in cambio. Un’arte che ci arriva diretta, facendoci tornare il sorriso quando siamo tristi. A voi che amate fare questo dico grazie, siete un regalo semplice ma prezioso. Tecnica: stampa lambda, opaco, formato 30x45 e formato 13x19. zaira.menin@yahoo.it


\\ PADOVA SENZA unità \\ Valeria Nanci Una cartina di Padova tagliata a pezzi e una visione d’insieme, di dettagli, pezzi di Padova, di persone, di case, di cose, d’incontri. Frammentarietà e confusione, come la nostra quotidianità, una ricerca di sensi, di percorsi, di strade, come orientarsi su una cartina. La mia non è una denuncia, né una critica diretta a qualcosa o a qualcuno, ma uno sguardo sincero, il racconto di una città, così com’è, come tutti la vedono e nessuno si ferma a guardare: è la mia visione, le persone che ho incontrato, il paesaggio che ho abitato. Cartografia, fotografia, grafia: il racconto nasce da un dettaglio, l’emozione da una visione d’insieme. Tecnica: collage di foto, un quadro 40x50 e tre quadretti 13x19. www.valenanci.tumblr.com valeria_nanci@libero.it


\\ PADOVA SENZA GENTE \\ Riccardo Testolin Dici Padova, dici gente: le aule studio piene, i bar che non ci si siede, le lezioni seduti a terra, la mensa che bisogna mangiare alledue, le strade che non ci si passa, le segreterie che la giornata è andata, la bici che non sai dove metterla, il mercato che non si attraversa, il Ghetto il mercoledì sera, le piazze dei tempi che furono, il Prato del Bottellòn, l’ Agriparty che non si fa più, la Casa delle Palme, la Golena, i Bastioni, il Macello. Com’ è Padova senza gente? A me pare carina. Tecnica: stampa lambda, opaco, colore, formato 30x45. riccardo.testolin@gmail.com


redazione : Alberto Bullado

Emanuele Caon Giulia Cupani Tommaso De Beni Caterina Di Paolo Antonio Lauriola Valeria Nanci Paolo Radin Isacco Tognon

consulenti : Mirko Ruzza - webmaster e consulente media

Chiara Tovazzi - graphic designer e consulente creativa

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