MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ
6 EURO TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB
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Confronti | febbraio 2018
Iran tra sanzioni e riforme
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ANNO XLV NUMERO 2 Confronti, mensile di religioni, politica, società, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Mariangela Franch, Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Piera Rella, Ilaria Valenzi. DIRETTORE
Claudio Paravati CAPOREDATTORE
Mostafa El Ayoubi IN REDAZIONE
Luca Baratto, Alice Corte, Antonio Delrio, Franca Di Lecce, Filippo Gentiloni, Adriano Gizzi, Giuliano Ligabue,
Michele Lipori, Rocco Luigi Mangiavillano, Anna Maria Marlia, Daniela Mazzarella, Carmelo Russo, Luigi Sandri, Stefania Sarallo, Lia Tagliacozzo, Stefano Toppi. COLLABORANO A CONFRONTI
Stefano Allievi, Massimo Aprile, Giovanni Avena, Vittorio Bellavite, Daniele Benini, Roberto Bertoni, Dora Bognandi, Maria Bonafede, Giorgio Bouchard, Stefano Cavallotto, Giancarla Codrignani, Gaëlle Courtens, Biagio de Giovanni, Ottavio Di Grazia, Jayendranatha Franco Di Maria, Piero Di Nepi,
Monica Di Pietro, Piera Egidi, Mahmoud S. Elsheikh, Giulio Ercolessi, Maria Angela Falà, Pupa Garribba, Daniele Garrone, Francesco Gentiloni, Gian Mario Gillio (direttore responsabile), Svamini H. Giri, Giorgio Gomel, Bruna Iacopino, Teresa Isenburg Domenico Jervolino, Maria Cristina Laurenzi, Giacoma Limentani, Franca Long, Maria Immacolata Macioti, Anna Maffei, Cristina Mattiello, Lidia Menapace, Adnane Mokrani, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Silvana Nitti, Enzo Nucci,
Paolo Odello, Enzo Pace, Nicola Pedrazzi, Samuele Pigoni, Gianluca Polverari, Paolo Ricca, Carlo Rubini, Andrea Sabbadini, Brunetto Salvarani, Iacopo Scaramuzzi, Daniele Solvi, Francesca Spedicato, Debora Spini, Valdo Spini, Patrizia Toss, Gianna Urizio, Roberto Vacca, Vincenzo Vita, Cristina Zanazzo, Luca Zevi.
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L. Basili, M.Cionti, L.Cirica, S.Corradino, M.Introvigne, M.Simoncelli, R.Šoryte.
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le immagini
Le foto in apertura delle sezioni sono state fatte durante il seminario itinerante di Confronti “Sulle frontiere della pace più difficile” in Israele e Territori palestinesi dal 27 dicembre 2017 al 5 gennaio 2018 e sono state scattate da Michele Lipori.
Yad Vashem, militari in visita al memoriale della Shoah.
Confronti | febbraio 2018
UN VIAGGIO DI CONFRONTI
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il sommario
il sommario GLI EDITORIALI
Un’agenda per il nuovo Parlamento Confronti 6
Quale spazio per la libertà d’informazione?
Stefano Corradino 7
Biotestamento: il diritto di morire con dignità Luciano Cirica 8
I SERVIZI MEDIO ORIENTE 10 Turbamenti e scenari
al tempo di Trump Luigi Sandri
GEOPOLITICA 16 Iran: la sfida delle riforme
e delle sanzioni
Mostafa El Ayoubi 19 «È necessario collaborare con l’Iran (intervista a) Alberto Negri POLITICA
21 La piccola vendetta lombarda
e altre storie tristi Paolo Naso
AMBIENTE
23 La società civile contro i
cambiamenti climatici
(intervista a) Maria Grazia Midulla CONFLITTI 26 Come il mercato delle armi
alimenta le guerre
Maurizio Simoncelli BRASILE 29 Lettera da San Paolo Teresa Isenburg STORIA 31 1968: fu vera gloria? Roberto Bertoni LIBERTÀ RELIGIOSA 33 La Chiesa di Dio Onnipotente
sbarca in Europa
Massimo Introvigne 35 Il dramma dei rifugiati
e le pressioni cinesi Rosita Šorytė
LE NOTIZIE
LE RUBRICHE
I LIBRI
Diritto d’asilo
Diario africano Il Niger laboratorio terroristico jihadista
Le “finestre sul mondo” di Aldo Comba
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Società 38
Sanità 39
Chiesa cattolica 39
Ora di religione 40
Informazione 40
Enzo Nucci 42
Filosofia e società Si può fare a meno della nozione di tempo? Samuele Pigoni 43
Spigolature d’Europa In vista del 2019 le carte si rimescolano Adriano Gizzi 44
Piera Egidi Bouchard 45
Segnalazioni 46
LE IMMAGINI
Iran tra sanzioni e riforme Michele Lipori copertina
Un viaggio di Confronti
Michele Lipori 3
invito alla lettura
A ottant’anni dalle leggi razziali Claudio Paravati
N
el 1938 ci siamo macchiati in questo Paese, sotto il Ventennio fascista, della promulgazione delle vergognose leggi razziali. A ottant’anni da allora – e con un razzismo sempre più diffuso nel Paese, in certi casi persino “sdoganato” da esponenti politici di rilievo – è importante riflettere su questioni certamente difficili da risolvere: come costruire una memoria condivisa? In che modo la storia può trasformarsi in un sapere in grado di promuovere forze sociali e culturali vitali e, per così dire, vaccinate? A tal proposito come Confronti abbiamo sostenuto con convinzione la seconda edizione della “Corsa per la memoria - Run for Mem”, una delle iniziative dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, svoltasi a Bologna il 28 gennaio scorso in collaborazione, tra gli altri, con la sinagoga locale. È solo una delle tante iniziative che si sono tenute tra fine gennaio e inizio febbraio. Un’idea, questa della “corsa cittadina” che tocca varie tappe storicamente significative, che ci piace per vari motivi. Uno su tutti: portare i cittadini di oggi in quei luoghi della propria città che oramai sono sovente ignorati; vie che spesso sono poco più di un nome di riferimento stradale, magari per qualche locale nuovo aperto in zona. Insomma orientarsi nella storia non è più, per motivi anche generazionali, un’azione quotidiana. Eppure quei luoghi sono, per l’appunto, anche luoghi della memoria, e di una memoria dolorosa, che devono servire, come è scritto sulla locandina dell’evento, «per ricordare insieme la Shoah e conoscere la strada verso il futuro». Ecco perché il tema di fondo rimane, ed è parte della partita che abbiamo di fronte per i prossimi anni. Come sapremo raccontare quella storia, e quella memoria? Come attivare meccanismi, cinghie di trasmissione, per generazioni che faticano ad orientarsi, sotto molti punti di vista, in un mondo tanto fluido? Noi abbiamo creduto che fosse importante imprimere in qualche maniera una testimonianza. Ecco perché, grazie alla professionalità della nostra redattrice Lia Tagliacozzo, abbiamo prodotto ed editato un docu-film composto di quattro testimonianze d’eccezione: quelle di Edith Bruck, Pupa Garribba, Aldo Pavia e Nando Tagliacozzo. Titolo del film: “Le date della memoria”. Crediamo che imprimere queste testimonianze e renderle fruibili in un prodotto culturale quale è il nostro nuovo dvd possa essere un modo di riprendere queste storie, raccontarle nuovamente, oggi, nell’anno della tecnologia “fast”, del tutto e subito, della notizia da leggere e dimenticare; ma anche della post-verità e della notizia falsa – fake news – con tutto ciò che questo nuovo assetto comunicativo comporta dal punto di vista dell’antico, e mai sorpassato, dilemma del nostro rapporto con i fatti, con la storia, con la verità. La proposta è semplice: che noi comunità allargata di Confronti, lettori, lettrici e amici, attiviamo una campagna di incontri e dibattiti a partire da questo lavoro. Perché la via è semplice in fondo: sempre, di nuovo, percorrerla. Perché i compagni di strada cambiano di continuo, e la via stessa, alla fine, si rinnova. Abbiamo la responsabilità di percorrerla, di correre per la memoria.
gli editoriali
Un’agenda per il nuovo Parlamento N
on sappiamo quale, dopo le elezioni del 4 marzo, sarà la maggioranza che sosterrà il prossimo Governo, e il suo premier. Possiamo però esprimere una desiderata agenda a Camera, Senato ed esecutivo prossimi venturi. È ben ovvio che l’attuazione dell’auspicato programma dipenderà dall’alleanza che vincerà le elezioni e, dunque, i nostri desideri e sogni potrebbero svanire di fronte ad una maggioranza tenacemente refrattaria ad essi. Perciò, esprimendo speranze, vorremmo che chi ci legge, se è d’accordo, contribuisca – con il suo voto – a farle fiorire.
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SENZA SAPERE COME SARÀ COMPOSTO IL NUOVO PARLAMENTO E CHI SARÀ IL PROSSIMO PREMIER, QUI SUGGERIAMO LORO UN’AGENDA DEI LAVORI E LEGGI AUSPICABILI PERCHÉ L’ITALIA DIVENTI UN PAESE PIÙ MODERNO, DEGNO E GIUSTO.
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Migranti. Anche nella prossima legislatura la questione “migranti” sarà una delle questioni aperte per il Parlamento e per il Governo. Sappiamo bene che, se vince una certa alleanza, alcune aperture degli ultimi governi saranno chiuse. In ogni caso, riteniamo che sia necessaria una politica non “populista” per affrontare un problema complesso, e la cui soluzione – che implica diritti e doveri di chi accoglie e di chi è accolto – avrà conseguenze importanti sul futuro dell’Italia, e sulla sua demografia, ma anche sull’Africa e sul Medio Oriente.
Ius soli. Per obiettive difficoltà, o forse per calcoli elettorali sulla convenienza o meno di affrontare il problema, il varo della legge sullo Ius soli è stato differito alla prossima legislatura. Ma che, dopo il 4 marzo, l’approvazione di quel progetto sia messa a calendario in Parlamento, è un’ipotesi assai incerta. O, magari, la legge sarà messa ai voti, ma scardinata e bocciata. In quest’eventualità non ci perderemo d’animo; continueremo, senza quella legge, a tener vivo l’argomento, per contribuire a cambiare – impresa difficile! – l’umore di un paese che avrebbe tutto da guadagnare, in civiltà e sul piano culturale e sociale, da una normativa come quella predisposta. Legge sulla libertà religiosa. Il pluralismo religioso in Italia è una constatazione che tutti possiamo fare: una volta dominava incontrastata la Chiesa romana; le altre Chiese e religioni erano una modesta, o infima minoranza. Oggi – queste le statistiche del Cesnur a dicembre 2017 – pur rimanendo i cattolici, e anche gli agnostici, in gran maggioranza, i cristiani ortodossi (soprattutto rumeni ed ucraini) sono 1,7 milioni; i protestanti – storici ed evangelical 680mila; i musulmani due milioni; 292mila i buddhisti, 192mila gli induisti, ebrei 41.200... Tuttavia, non vi è una legge che regoli in modo adeguato diritti-doveri di questa massa di persone. Sapranno il nuovo Parlamento, e il nuovo esecutivo, affrontare la questione? Pace a Gerusalemme. L’Italia, da sola, ha ben poche possibilità di influire sui governi mediorientali per risolvere gli intricati – e spesso drammatici – nodi che caratterizzano i paesi di quell’area del mondo. Però il nostro paese potrebbe contribuire fortemente a che l’Europa si
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assuma più impegnative responsabilità, per favorire una pace giusta tra israeliani e palestinesi e mediare sulla questione di Gerusalemme. Perciò auspichiamo che il prossimo Parlamento e il prossimo Governo, ciascuno nell’ambito del suo raggio d’azione, lancino una grande iniziativa, come Italia e come paese dell’Unione europea, per concretizzare a Gerusalemme e dintorni l’attesa riconciliazione. Conosciamo tutti l’intrico di nodi da sciogliere, tanto più dopo che – malgrado le proteste palestinesi – il presidente statunitense Donald Trump, ignorando le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu, il 6 dicembre ha riconosciuto Gerusalemme capitale d’Israele, decidendo di spostare là, da Tel Aviv, l’ambasciata Usa in Israele. L’Italia politica del dopo 4 marzo dovrebbe essere in prima fila, con l’Europa, per sbrogliare questa matassa. Armamenti atomici. Per ragioni decise dall’Alleanza atlantica, di cui l’Italia è parte, nelle basi di Aviano (Pordenone) e di Ghedi (Brescia) sono custodite una settantina di testate nucleari. È sicuro che, oggi, quelle armi micidiali siano necessarie alla difesa del paese? Le risposte a questa domanda sono molte, variegate e inconciliabili, anche perché esse implicano un dibattito sul “Chi è” della Nato. Vorrà, il nuovo Parlamento, discutere a fondo del problema, o esso rimane tabù? Ricordiamo che il 7 luglio del 2017 l’Assemblea generale dell’Onu approvò – malgrado l’opposizione delle potenze nucleari – il Nuclear Ban Treaty, il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, che il 20 settembre successivo è stato sottoposto alla firma dei vari paesi. L’Italia, finora, non lo ha firmato.
gli editoriali
«L
e sottoscritte candidate e candidati si impegnano a portare l’Italia in Europa anche nel settore delle telecomunicazioni e a levare dalle spalle dell’Italia quella maglia nera che rappresenta una delle vergogne nazionali. Per queste ragioni ci impegniamo a porre nell’agenda del prossimo Governo e Parlamento: la risoluzione del conflitto di interessi, l’introduzione di una rigorosa normativa antitrust, la liberazione della Rai dal controllo di Governo e forze politiche, l’eliminazione dai codici delle norme potenzialmente lesive del diritto di cronaca, la difesa della libertà della rete e della sua neutralità». L’8 febbraio 2013, presso la Federazione nazionale della stampa italiana, Articolo21 invitò ad un confronto pubblico numerosi candidati di diversi schieramenti alle imminenti politiche per presentare il documento approvato all’assemblea di Acquasparta (del novembre 2012) e farlo proprio, impegnandosi sui temi della libertà di informazione a partire dai primi cento giorni, e prendere parte a un gruppo interparlamentare di Articolo21. Il documento fu sottoscritto da oltre quaranta candidati e circa un quarto di loro fu poi eletto in Parlamento. A distanza di cinque anni, alla vigilia delle elezioni politiche che si terranno il 4 marzo, intendiamo riproporre lo stesso confronto invitando i candidati più sensibili al tema della libertà d’informazione ad assumersi, qualora fossero eletti, un impegno preciso per portare all’attenzione del Parlamento temi e criticità tutt’altro che risolte.
Poco o nulla è stato fatto sulle questioni che un lustro fa abbiamo sottoposto agli aspiranti deputati e senatori. A cominciare dalla risoluzione del conflitto di interessi, che rimane una grave anomalia italiana e che necessita di una legge ben più severa di quella firmata da Franco Frattini, ministro del secondo governo Berlusconi. Il diritto di cronaca è sancito dalla Costituzione, ma è ancora quotidianamente limitato e minacciato. Per questa ragione è indispensabile una legge adeguata per contrastare il fenomeno delle cosiddette querele temerarie, vere e proprie intimidazioni preventive: con la richiesta di un risarcimento milionario si cerca di scoraggiare definitivamente il giornalista ad occuparsi di un determinato filone di inchiesta. L’autonomia del servizio pubblico radiotelevisivo dal condizionamento di governi e partiti continua ad essere un tema all’ordine del giorno. È da molto tempo – quantomeno dalla nascita di Articolo21, datata 2001 – che movimenti e associazioni sensibili alla libertà di espressione (centinaia di migliaia le firme raccolte negli anni) chiedono per la Rai un avvicinamento al modello Bbc, al fine di garantire qualità ed assoluta indipendenza dalla politica. Ma quel modello è più lontano ad ogni legislatura... La difesa della libertà della rete è un imperativo categorico per evitare che lo strapotere delle multinazionali e delle lobby economiche e finanziarie condizioni o addirittura manipoli le nostre scelte o determini i nostri destini. Ma
Stefano Corradino
sul web c’è una battaglia culturale altrettanto importante da compiere: quella contro la distorsione delle notizie e l’imbarbarimento dell’informazione.
IN VISTA DELLE ELEZIONI DEL 4 MARZO, ARTICOLO21 INVITA I CANDIDATI PIÙ SENSIBILI AL TEMA DELLA LIBERTÀ D’INFORMAZIONE AD ASSUMERSI L’IMPEGNO DI PORTARLO ALL’ATTENZIONE DEL PROSSIMO PARLAMENTO. Non è solo una questione di fake news (che vanno doverosamente contrastate). È l’hate speech il fenomeno più preoccupante, in rete e non solo. Quel linguaggio dell’odio che si scaglia brutalmente contro le minoranze e le diversità. Una falsa foto-notizia che ritrae un esponente politico ad un funerale (il fotomontaggio di Boschi e Boldrini al funerale di Riina) si può facilmente smentire, ma è molto più difficile contrastare chi proclama la superiorità di una razza sull’altra o chi getta continuamente fango su coloro che cercano solo condizioni di vita migliori. L’articolo 21, quindi, ma anche l’articolo 3 e tutti gli altri. I 70 anni della Costituzione andrebbero onorati da un Parlamento composto da donne e da uomini STEFANO protesi verso la sua CORRADINO difesa e l’attuazio- giornalista a Rainews24 ne dei suoi principi e direttore di Articolo21. fondamentali.
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Quale spazio per la libertà d’informazione?
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gli editoriali
Biotestamento: il diritto di morire con dignità C
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on la nuova legge sul Biotestamento sarà possibile decidere il livello di dignità nel momento della morte, avendo la possibilità – aspetto fondamentale – di poter scegliere in anticipo i trattamenti medici da ricevere o da non ricevere, nella fase finale della vita. Una legge, dunque, di libertà e di responsabilità, perché non obbliga nessuno, ma dà a tutti la possibilità di autodeterminare le proprie e soggettive volontà, nel rispetto delle leggi attuali e con possibilità sempre di ripensamento. Di fronte alla morte imminente e/o inevitabile, è solo la persona (o un suo fiduciario) che deve decidere il livello di informazione e di trattamenti sanitari da ricevere o da rifiutare. In questa decisione avrà il conforto dei medici, della famiglia, delle persone di fiducia, degli psicologi, e nel caso di minori ci saranno i genitori, il tutore o il giudice tutelare nei casi controversi Ma se si esclude questo caso dei minori, alla fine spetterà solo alla persona morente la decisione finale.
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Questa legge in realtà sancisce un diritto già espresso nella Costituzione, all’articolo 13 (libertà personale) e all’articolo 32 («nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario») e tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, nel rispetto dei già citati principi costituzionali e dei diritti fondamentali europei, sempre dichiarati ed enunciati, ma non sempre applicati, sopratLUCIANO CIRICA tutto finora nel presidente caso del fine vita Ospedale non consapevole. Evangelico Betania di Napoli. Colma, nel no-
stro paese, un lungo ritardo, mentre nel resto dell’Europa da anni esistono già normative analoghe. In Germania, per esempio, il testamento biologico è entrato in vigore dal 2009, ma le chiese, cattolica e protestanti, già nel 1999 avevano firmato un documento congiunto (della Conferenza episcopale tedesca e del Consiglio delle Chiese evangeliche in Germania ) sul “Testamento biologico cristiano”. Ma anche le Chiese evangeliche in Italia, da sempre, sono impegnate nel campo della bioetica e, prima dell’attuale legge, avevano attivato sportelli per raccogliere i testamenti biologici. Del resto, lo stesso papa Francesco – nel recente messaggio al Word Medical Association – ha dichiarato, a proposito di fine-vita, che «se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte». Questa legge, infatti, oltre ad aiutare il malato a non essere più solo in questa difficile e spesso drammatica decisione, ribadisce l’attenzione alla terapia del dolore e al divieto di ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e nel ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati, fino a ipotizzare il ricorso alla sedazione palliativa profonda (che non è eutanasia), sempre con il consenso del paziente. La legge prevede anche la possibilità (ma non l’obbligo) di rinunciare alla nutrizione e alla idratazione artificiali, considerati – in accordo con le linee guida scientifiche – come trattamen-
Luciano Cirica
ti sanitari e non semplice sostegno. Del resto già oggi il paziente in forza dell’articolo 53 del Codice deontologico nedico può rifiutarsi consapevolmente di alimentarsi, mentre il medico non può assumere iniziative costrittive né collaborare a procedure coattive di alimentazione o nutrizione artificiale.
COSA PREVEDE LA LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO APPROVATA DEFINITIVAMENTE A METÀ DICEMBRE. L’IMPEGNO DELLE CHIESE EVANGELICHE IN ITALIA, CHE GIÀ DA TEMPO AVEVANO ATTIVATO SPORTELLI PER RACCOGLIERE I TESTAMENTI BIOLOGICI. Gli Ospedali evangelici italiani, Betania di Napoli e Internazionale di Genova, hanno sottoscritto di recente una dichiarazione congiunta a favore del biotestamento, precisando che le strutture sanitarie evangeliche non “obietteranno”, ma che anzi applicheranno la normativa in tutte le sue parti. «Come credenti evangelici – è scritto nella dichiarazione – aperti alla condivisione dei propri convincimenti, ma contrari all’imposizione delle proprie convinzioni, riteniamo che la vita, nelle sue diverse fasi, anche quelle segnate dalla malattia, possa essere vissuta come un dono, al quale ci si deve rapportare responsabilmente, esercitando discernimento e libertà di scelta.
i servizi
Panorama di Tel Aviv (da Giaffa).
i servizi
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MEDIO ORIENTE
Turbamenti e scenari al tempo di Trump Luigi Sandri
Dopo la decisione del presidente sul trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, l’Olp sospende il suo riconoscimento di Israele. Se vacilla la tesi dei “Due Stati”, pur ribadita dall’Onu e dal papa, utopiche a molti – ma non a tutti – appaiono altre ipotesi, come quella di uno Stato binazionale dove ciascuno è a casa là dove è.
L’
insostenibilità della situazione attuale e, insieme, la difficoltà di uscirne in modo costruttivo e condiviso rende particolarmente intricata la situazione sociale e politica a Gerusalemme e dintorni: e questo sia per i vincitori – al momento – cioè il governo d’Israele guidato da Benjamin Netanyahu (più il capo della Casa Bianca, Donald Trump), che per i vinti – al momento – cioè l’Autorità nazionale palestinese guidata dal presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen). Uno status quo che non durerà in eterno, anche se ciò sarebbe auspicato dai vincenti.
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L’OLP: «SOSPENDIAMO IL RICONOSCIMENTO DI ISRAELE»
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Il 6 dicembre scorso – per qualche flash sugli ultimi eventi, si veda Confronti 1/2018 – Trump annunciò la decisione di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, così riconoscendo l’intera città capitale d’Israele come nel 1980 proclamata dalla Knesset, il Parlamento israeliano. Ma per le risoluzioni dell’Onu tale decisione fu, ed è, illegale, perché esse considerano la parte est della città territorio “occupato” da Israele (nella Guerra dei sei giorni del 1967); perciò il suo status definitivo deve essere deciso con i palestinesi, che rivendicano quella parte come capitale del loro costituendo Stato. Il 18 dicembre il veto statunitense aveva bloccato una risoluzione del Consiglio di sicurezza [Cs] dell’Onu, che di fatto condannava la Casa Bianca; ma tre giorni dopo – con 128 sì (tra cui quello dell’Italia), 35 astensioni (tra cui sette paesi est-europei) e 9 no – l’Assemblea generale delle Nazioni Unite condannava la scelta di Trump. Mentre si rallegravano per la “vittoria” all’Onu, i dirigenti di al-Fatah, il partito di Abbas, e quelli di HaLUIGI SANDRI mas (il Movimento di resiredazione stenza islamico che controlla Confronti.
la Striscia) erano furenti contro The Donald, ma divisi sulla possibile risposta. In concreto, che fare? Tra dicembre e gennaio a Gerusalemme-est e in Cisgiordania vi sono state tensioni, e anche scontri, con vittime palestinesi; ma nell’insieme contenuti, e certo non quella nuova intifada (rivolta) auspicata da Gaza. L’impressione – che ci è sembrata confermata da quanto abbiamo visto e ascoltato in un viaggio che Confronti ha organizzato attorno a Capodanno in Israele e Territori palestinesi – è che un senso di frustrazione, d’impotenza e di stanchezza predomini tra la gente palestinese, indignata verso gli Usa e Israele ma, anche, scettica sulle capacità della loro dirigenza di affrontare una situazione tanto complessa, e volgerla a favore dei palestinesi. O, forse, il fuoco arde sotto la cenere, e la pentola potrebbe scoppiare da un momento all’altro.
i servizi
MEDIO ORIENTE
Israele ha però affermato di accettare solo la mediazione degli United States. Intanto Abbas precisa: alla violenza di Israele «noi non ci opporremo con il terrorismo e la violenza. Continueremo a porre, in modo pacifico, le nostre domande, fino a che non otterremo i nostri diritti». E ricordando la dichiarazione di Balfour, il ministro degli Esteri inglese che nel 1917 prometteva agli ebrei un “national home”, egli ha aggiunto: «Da un secolo dobbiamo affrontare una grande cospirazione coloniale per impiantare in Palestina un corpo estraneo a beneficio dell’Occidente; un progetto coloniale che non ha rapporto con l’Ebraismo». Singolare affermazione – quest’ultima – per la quale Abbas è stato accusato, in Israele, di antisemitismo. ISRAELE RIAFFERMA LA SUA POLITICA
Il 9 gennaio un commando palestinese ha assassinato Raziel Shevach, un rabbino residente a Chavat Gilad, un “avamposto”, cioè un insediamento costruito in Cisgiordania senza i necessari permessi delle stesse autorità israeliane; alcuni giorni dopo uno dei responsabili è stato ucciso, altri arrestati. Ai funerali del religioso – molto partecipati – dalla folla si è levato un grido: «Vendetta!». Al che il ministro dell’Educazione, Naftali Bennett (il leader di Habayit Hayehudi, la Casa ebraica, in pratica il partito dei coloni), ha risposto: la sola vera vendetta è: «Creare più insediamenti». In effetti, galvanizzati dalla decisione di Trump, vari politici israeliani sostengono ora l’opportunità di costruire migliaia di nuove case in Cisgiordania; e il Likud – il partito di Netanyahu – prospetta l’annessione degli insediamenti ad Israele. A proposito di Territori, il caso di una ragazza palestinese ha invece avuto eco anche in Occidente. La sedicenne Ahed Tamimi, vestita in jeans e maglietta, in dicembre vicino a Ramallah aveva affrontato nel cortile di casa un soldato schiaffeggiandolo (poco prima i soldati avevano sparato alla testa di un suo cugino quindicenne). La scena, ripresa forse da un cellulare, è finita nel web, suscitando clamore. Malgrado la giovane età, l’adolescente era stata incarcerata e, a metà gennaio, quando ci si attendeva il rilascio, la pena era stata confermata fino a fine mese – quando era atteso il processo – , perché lei è considerata un pericolo per la vita dei militari. E così Ahed è diventata un simbolo della resistenza palestinese all’occupazione israeliana. Sul fronte israeliano accadono però fatti anche di altro segno. Susan Silverman, una rabbina “progressive” di origine statunitense, ad un incontro organizzato dai “Rabbini per i diritti umani” ha chiesto ai centotrenta presenti se fossero disposti a nascondere in casa rifugiati eritrei che il governo intende ricacciare in patria (dove gli interessati richiano di finire in mano ai trafficanti di esseri
Confronti | febbraio 2018
Gerusalemme, tomba di Davide.
È in tale contesto che, riunito a Ramallah (Cisgiordania), il 14 e 15 gennaio, il Consiglio centrale palestinese (Ccp) dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina ha incaricato il comitato esecutivo dell’Olp di «congelare il riconoscimento dello Stato di Israele fino a che questo non riconosca lo Stato di Palestina nei confini del 1967, annulli l’annessione di Gerusalemme-est e cessi le sue attività di colonizzazione [con gli insediamenti]». Nel discorso al Ccp, e poi in una conferenza, il 17 gennaio, al Cairo, alla prestigiosa università di alAzhar, Abbas ha fatto precisazioni importanti per chiarire la posizione palestinese: «Oggi gli accordi di Oslo sono morti, uccisi da Israele». Preparati in Norvegia ma firmati nel settembre 1993 a Washington, quegli accordi intendevano avviare un processo che, entro cinque anni, avrebbe dovuto portare alla pace tra israeliani e palestinesi... «Gerusalemme è la porta della pace e della guerra, e Trump deve scegliere... Ogni volta che arriva una nuova Amministrazione americana, contraddice la precedente. Come possiamo aver fiducia che questa grande nazione si comporti da mediatore tra noi e Israele? Non possiamo fidarci e non l’accetteremo come mediatore...». Gli Usa, «scegliendo di violare la legge internazionale e accordi bilaterali, hanno sfidato gli arabi, gli islamici e i popoli del mondo». E allora, quale alternativa? Secondo Abbas occorrerebbe affrontare il processo di pace in un quadro internazionale, analogamente alle linee stabilite per i negoziati sulla questione nucleare con l’Iran dai 5+1 (le cinque potenze – Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia e Usa, che hanno il diritto di veto al Cs – più la Germania).
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i servizi
Gerusalemme, chiesa ortodossa dell’assunzione di Maria.
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MEDIO ORIENTE
umani); tutti hanno assentito. Attualmente sono trentatremila questi “irregolari”, arrivati in Israele attraverso traffici di beduini; ma da quando nel 2012 Netanyahu ha fatto costruire nel Sinai un muro al confine con l’Egitto, l’esodo si è fermato. Un eritreo – raccontava in proposito il Corriere della sera del 19 gennaio – è giunto in Israele, commosso dopo aver letto il Diario di Anna Frank. Per invogliarli ad andarsene, il governo ha offerto a ciascuno di loro tremila euro, e il biglietto aereo per una nazione africana; ma essi temono di essere là poi di nuovo “venduti”. Sulla vicenda, trentacinque scrittori israeliani – tra essi Amos Oz, David Grossman, Abraham Yehoshua, Etgar Keret, Zeruya Shalev – hanno scritto al premier e alla Knes-
set: «Vi imploriamo di fermare la deportazione di uomini e donne che portano le cicatrici sul corpo e sull’anima. La nostra storia come popolo ebraico si rivolta nella tomba, e voi avete il privilegio di interrompere questa vergogna». IL PAPA: «UNA PACIFICA COESISTENZA DI DUE STATI»
Nel suo messaggio natalizio urbi et orbi, Francesco aveva detto: «In questo giorno di festa invochiamo dal Signore la pace per Gerusalemme e per tutta la Terra Santa; preghiamo perché tra le parti prevalga la volontà di riprendere il dialogo e si possa finalmente giungere a una soluzione negoziata che consenta la pacifica coesistenza di due Stati all’interno di confini concordati tra loro e internazionalmente riconosciuti». Analoghe parole dirà il pontefice l’8 gennaio, nel discorso di inizio anno al Corpo diplomatico accreditato in Vaticano: «Un pensiero particolare rivolgo a Israeliani e Palestinesi, in seguito alle tensioni delle ultime settimane. La Santa Sede... invita a un comune impegno a rispettare, in conformità con le pertinenti Risoluzioni delle Nazioni Unite, lo status quo di Gerusalemme, città sacra a cristiani, ebrei e musulmani. Settant’anni di scontri rendono quanto mai urgente trovare una soluzione politica che consenta la presenza nella Regione di due Stati indipendenti entro confini internazionalmente riconosciuti». Infine, il 10 gennaio, in una lettera ad Ahmad AlTayyib, Grande imam di Al-Azhar, che aveva invitato il papa alla Conferenza internazionale a sostegno della Città santa prevista nello stesso Centro una settimana dopo, Bergoglio insisteva sulla necessità di rispettare «la natura peculiare di Gerusalemme, il cui significato va oltre ogni considerazione circa le questioni territoriali. Solo uno speciale statuto, anch’esso internazionalmente garantito, potrà preservarne l’identità, la vocazione unica di luogo di pace alla quale richiamano i Luoghi sacri, e il suo valore universale, permettendo un futuro di riconciliazione e di speranza per l’intera regione».
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DUE STATI? UNO STATO BINAZIONALE? UNA CONFEDERAZIONE?
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Per quanto le Nazioni Unite, il papa, l’Unione europea e molti altri insistano sulla soluzione “Due popoli, due Stati”, una domanda s’impone: è davvero fattibile un “vero” Stato palestinese (non un “Bantustan”), con una Cisgiordania disseminata di centocinquanta insediamenti? E se, in un ipotetico trattato di pace, i maggiori “settlements” contigui, o abbastanza vicini agli attuali confini tra Israele e West Bank, diventassero territorio di Israele, potrebbero mai i palestinesi accettare un moncherino di Stato?
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MEDIO ORIENTE
premier, Netanyahu, che non intende accettare un vero Stato palestinese, e ancor meno, che la sua capitale sia Gerusalemme-est. E dunque, i “Due Stati”? L’attuale governo di Israele intende mantenere lo status quo: espandere gli insediamenti e nel contempo favorire, nei limiti della permanente occupazione militare e coloniale della Cisgiordania, un qualche (relativo!) miglioramento del welfare dei palestinesi, sperando così di calmarli e, insieme, perpetuare l’esistente... purgatorio: no allo Stato palestinese, sì a qualche limitata autonomia palestinese. Quanto allo Stato, rimangono vigenti queste parole di Bennett: «Abbiamo dato ai palestinesi uno Stato a Gaza, ed essi lo hanno trasformato in un Afghanistan nel cuore di Israele. Non ripeteremo l’errore».
DOPO LA DECISIONE DI TRUMP SU GERUSALEMME, MENTRE AL-FATAH E HAMAS PROTESTANO, LA GENTE PALESTINESE SEMBRA STANCA, SFIDUCIATA E POCO VOGLIOSA DI “INTIFADA”. E allora? Di fronte all’aggrovigliarsi delle contraddizioni, uno come Yehoshua ha cambiato opinione e – si veda la versione italiana di HuffPost del 21 settembre 2017 – ora sostiene l’ipotesi dello Stato binazionale. Egli rimprovera le due dirigenze, israeliana e palestinese, di aver «perso molte occasioni» per fare la pace; constata che sarebbe di fatto impossibile “sloggiare” gli insediamenti; e, respingendo tutte le obiezioni alla sua nuova tesi, conclude: «L’ebraismo è molto forte, anche troppo. Troverebbe i modi per far valere le proprie ragioni in uno Stato binazionale». mediorientale, con una Siria lungi dall’essere pacificata, e con la Turchia che a metà gennaio ha attaccato l’enclave curda di Afrin in Siria. D’altronde, il “come” rispondere alla sfida di Trump-Netanyahu, di nuovo divide al-Fatah e Hamas, rendendo precaria la loro “riconciliazione” dell’ottobre scorso. Né si vede che cosa vogliano fare, per essi, i “fratelli arabi e musulmani” (a meno che non sia il radicale ridimensionamento dei sogni dei palestinesi proposto da Muhammad bin Salman, il principe ereditario saudita, “filo-israeliano”). Intanto, il vicepresidente statunitense Mike Pence il 22 gennaio alla Knesset, in un discorso su sfondo biblico – la terra di Israele Dio l’ha data agli ebrei – che ha fatto infuriare i deputati arabi, ha assicurato che entro il 2019 l’ambasciata del suo paese sarà spostata a Gerusalemme. E Abbas, deciso a non incontrare un uomo di Trump, lo stesso giorno, a Bruxelles, ha chiesto all’Ue il formale riconoscimento dello Stato di Palestina. Una speranza flebile flebile.
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D’altra parte, è realistico immaginare che Israele abbandoni (quasi) tutti gli insediamenti, costati milioni e milioni di dollari? Proprio partendo dal fatto che una serie di “fatti compiuti” rende l’ipotesi “Due Stati” estremamente ardua – certo, non impossibile, se ci fosse una gigantesca volontà politica di pagare il prezzo di questa pace, ora non all’orizzonte – ogni tanto balenano altre soluzioni. Una è quella di uno Stato binazionale: cioè sia in Israele che nei Territori ognuno è a casa sua, in un unico paese. Questa ipotesi, però, suscita molte obiezioni. Anzitutto: se è vero che di qua e di là del fronte vi sono persone aperte a questa soluzione, molte altre, timorose del “nemico”, vi si oppongono visceralmente. Poi ci sono ragioni demografiche: oggi gli abitanti di Israele sono 8,5 milioni, di cui 7 ebrei e 1,2 arabi; i palestinesi dei Territori (Gaza e Cisgiordania), più quelli di Gerusalemme-est, sono 5 milioni. Dunque, in tale ipotetico Stato gli ebrei sarebbero sì maggioranza: ma per poco. Infatti, i palestinesi hanno una maggior crescita demografica, e in un paio di decenni in... “Isra-stina” gli ebrei sarebbero minoranza; fine, dunque, dei sogni sionisti: tante battaglie per niente! Una “correzione” dell’ipotesi immagina la futura “Isra-stina” quasi una Svizzera mediorientale, composta cioè da vari Cantoni, ciascuno dei quali con grande autonomia, e con un governo centrale che guida l’economia, la politica estera e la difesa. Anche quest’ipotesi, però, scuote alle radici il sionismo. Se poi si ipotizza un Israele che, “abbandonata” Gaza all’Egitto, semplicemente annetta la Cisgiordania, gli arabi in esso avrebbero eguali diritti degli ebrei o vivrebbero in regime di apartheid? E il mondo arabo (più Turchia e Iran) assisterebbe inerte ad una tale “soluzione”? Insomma, oggi come oggi le ipotesi diverse da quella dei “Due Stati” appaiono fantapolitiche. Però... tra due o tre decenni chissà come si evolverà la storia, e ciò che oggi appare assurdo potrebbe diventare realistico. Ma già nel 2014 illustri personalità – tra esse gli scrittori Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua; il premio Nobel per l’economia (2002) Daniel Kahneman; l’ex presidente della Knesset, Avraham Burg, e l’ex ministro dell’Educazione, Yossi Sarid – più altri ottocento cittadini israeliani, firmavano un appello al Parlamento europeo perché riconoscesse lo Stato di Palestina. «È un atto di incoraggiamento soprattutto per il negoziato – spiegava Yehoshua – e anche perché Abu Mazen continui nelle trattative... Alle prossime elezioni Netanyahu deve lasciare. È ora che si formi un blocco di centrosinistra per impedire uno Stato binazionale e dire basta agli insediamenti». Vennero le elezioni, nel marzo 2015: il centrosinistra fu di nuovo sconfitto, con un ritornato
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Immagini scattate durante il recente seminario itinerante di Confronti Sulle frontiere della pace piÚ difficile (Š Michele Lipori).
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Iran: la sfida delle riforme e delle sanzioni Mostafa El Ayoubi
A fine dicembre i cittadini iraniani erano scesi in piazza per protestare contro il carovita e la politica di austerità del Governo Rohani, ma la protesta è degenerata in violenza e la reazione delle forze dell’ordine non si è fatta attendere. Il bilancio è di centinaia di arresti e decine di morti, compresi alcuni poliziotti.
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Iran è stato per diversi giorni, a partire dal 28 dicembre scorso, sotto i riflettori dei media per via delle manifestazioni di piazza che hanno coinvolto diverse città del Paese, tranne Teheran che è stata partecipe solo marginalmente. Inizialmente i motivi delle proteste erano legati alle condizioni di vita dei cittadini, scesi in campo per contestare la politica di austerità dell’attuale Governo di Hassan Rohani, che ha portato al progressivo aumento dei prezzi dei prodotti di prima necessità. A simbolizzare il malcontento è stato il rincaro delle uova. Inoltre i manifestanti hanno scandito slogan contro gli istituti di credito privati, alcuni dei quali avevano dilapidato i soldi dei piccoli risparmiatori. Ma, subito dopo i primi raduni, queste manifestazioni si sono trasformate in scontri con le forze dell’ordine a causa di atti di vandalismo contro proprietà pubbliche e private e di violenza contro la polizia che ha reagito, per stanare i manifestanti facinorosi, con altrettanta violenza. Ciò ha provocato decine di morti tra cui alcuni poliziotti e l’arresto di centinaia di persone. In questa fase gli slogan dei manifestanti erano contro l’intero establishment iraniano, ivi compreso il guardiano della rivoluzione islamica, Ali Khamenei, e l’intero regime teocratico degli ayatollah. E la singolarità di queste proteste violente è il fatto che gran parte di esse avvenivano di notte e i protagonisti erano in maggioranza giovani maschi. Il premier Rohani aveva subito riconosciuto la legittimità delle proteste pacifiche e le difficoltà economiche delle classi meno abbienti colpite dal taglio delle sovvenzioni ai prodotti alimentari e agli idrocarburi. Ma ha condannato quella parte violenta considerandola fuorilegge. IRAN Mostafa El Ayoubi Alberto Negri (intervista)
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Con il suo arrivo al potere nel 2013, Rohani – che fa parte del clan “riformista” aperto al dialogo con l’Occidente, in contrapposizione a quello “conservatore” di cui fa parte l’ex presidente Ahmadinejad – ha messo in atto una politica economica liberista con diverse iniziative di liberalizzazione e di tagli alla spesa pubblica. Il Fondo monetario internazionale, che predilige e spesso impone questo tipo di politica economica, ha elogiato il Governo iraniano per i risultati ottenuti. Negli ultimi tre anni la crescita del Pil si aggira intorno al 6% e il rapporto debito/Pil è contenuto al 34%. Ma questa politica di austerità ha provocato molti danni in termini di welfare sociale: tasso di disoccupazione complessivo intorno al 12% e quello giovanile al 30%; tagli drastici alle sovvenzioni passati dal 27% del Pil nel 2008 al 3,4% nel 2016; secondo un rapporto della Banca mondiale; ciò ha portato ad un notevole rialzo de prezzi dei prodotti di prima necessità e dei combustibili, mettendo in grande difficoltà la classe dei lavoratori che alla fine aveva deciso di manifestare pacificamente e legittimamente per chiedere provvedimenti urgenti al riguardo. Ma tafferugli provocati da gruppi estranei alla gente che rivendicava i propri diritti sacrosanti ha minato la genuinità delle proteste, che cominciavano così ad assomigliare sempre di più a quella sommossa popolare del 2009, il cui obiettivo era quello di provocare un cambio di regime in Iran. Memori del caos che essa provocò, centinaia di migliaia di iraniani, uomini e donne, hanno sfilato per le strade delle più importanti città del Paese a sostegno dell’establishment e della Repubblica islamica, chiedendo delle riforme ma MOSTAFA EL AYOUBI condannando la piega che caporedattore hanno preso le recenti ma- Confronti.
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Sinagoga di Teheran.
GEOPOLITICA
Durante la recente crisi politica Rohani aveva accusato gli Usa, l’Arabia Saudita e Israele di fomentare direttamente o indirettamente quella parte violenta delle proteste con l’intento di destabilizzare il suo Paese. La troika da egli indicata è in effetti in un intenso conflitto geopolitico con l’Iran sin dal 1979, anno dell’instaurazione della Repubblica islamica, per il timore che questo Paese diventasse un’influente potenza regionale, quindi potesse compromettere i suoi interessi nel Medio Oriente. USA, ARABIA SAUDITA E ISRAELE VERSUS IRAN
Il presidente americano aveva in effetti accusato il Governo iraniano di «violazione dei diritti umani», dichiarandosi vicino al popolo iraniano. Ma nello stesso tempo ha usato le recenti manifestazioni come pretesto per ventilare possibili nuove sanzioni economiche contro Teheran. E ciò rappresenta una grande contraddizione: come ben si sa, le sanzioni portano regolarmente ad impoverire la popolazione e non l’establishment del Paese “sanzionato”; e l’Iran è sotto embargo economico imposto dagli Usa da circa 39 anni. Ciò stride palesemente con le dichiarazioni del presidente Usa circa la sua solidarietà con gli iraniani, intesi come popolo. Inoltre se Trump si considera un filantropo nei confronti degli iraniani e auspica la loro libertà, perché li ha messi nella lista nera – con il pretesto della prevenzione contro il terrorismo – dei cittadini di sei Paesi a maggioranza musulmana? Vi sono tanti cittadini iraniani che non si sentono liberi a casa propria! L’attuale inquilino della Casa Bianca considera l’Iran il principale sponsor del terrorismo: «L’Iran è lo stato che più di tutti al mondo sponsorizza il terrore, con numerose violazioni dei diritti umani», ha scritto in un tweet il 31 dicembre scorso. E ciò
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nifestazioni e denunciando il tentativo orchestrato dall’estero di destabilizzazione del Paese. Nel giugno 2009, in occasione delle elezioni presidenziali che riconfermavano Ahmadinejad per un secondo mandato, scoppiò una rivolta a Teheran – guidata da giovani della classe borghese – battezzata dai media occidentali e da molte organizzazioni internazionali con il nome di “rivoluzione verde”. Lo scopo di quell’evento fu di provocare la caduta del regime e «l’instaurazione della democrazia» auspicata dalle grandi potenze occidentali, Stati Uniti in primis, che sostennero – mediaticamente, diplomaticamente e anche finanziariamente – i gruppi di opposizione al regime teocratico al potere. Lo schema di quella rivolta fu lo stesso di quello utilizzato precedentemente in altri Paesi: la “rivoluzione delle rose” in Georgia nel 2003, quella “arancione” in Ucraina nel 2004, quella dei “tulipani” in Kirghizistan nel 2005 e anche la “rivoluzione dei cedri” in Libano sempre nel 2005. Sono sostanzialmente dei colpi di Stato soft contro i governi che non ruotano nell’orbita d’influenza Usa. In effetti i primi tre Paesi sopra indicati, in seguito a quelle “rivoluzioni”, sono passati dal clan russo a quello americano. Di norma sono le Ong umanitarie, come la Ned e la Usaid, finanziate dell’establishment americano, i media mainstream e i social network a fungere da cavallo di Troia per rovesciare i governi “nemici”. Nel 2009 tale operazione non ebbe successo in Iran. Ahmadinejad fu riconfermato per altri quattro anni a capo del Governo. I 30 anni di embargo e sanzioni economiche e otto anni di guerra per procura (1980-1988) affidata da Washington a Saddam Hussein non fecero altro che rafforzare il nazionalismo iraniano, sia laico che religioso.
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