emilia romagna, la fine del piccolo mondo antico

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Emilia Romagna: la fine del piccolo mondo antico…. note sulla crisi Gli effetti della crisi in Italia, pur mantenendo un tratto omogeneo, assumono caratteristiche peculiari se rapportate ai diversi territori. Proveremo ad analizzare l’Emilia, un territorio metropolitano omogeneo, che attraverso la sua arteria stradale principale sviluppa un contesto urbano unitario, arrivando a costituire una vera e propria area metropolitana (1). Partiamo da questa considerazione di area metropolitana in quanto oggi le diverse aree metropolitane del paese assumono tratti indipendenti, in quanto hanno un diverso legame con le sovrastrutture nazionali e sovra-nazionali (Italia, UE) (2). Le attuali dinamiche della crisi stanno investendo e mandando in pezzi anche gli ultimi echi di quello che fu il “modello emiliano”, fiore all’occhiello della politica delle sinistre, una applicazione regionale di una economia mista fondata su meccanismi di integrazione sociale orizzontale e verticale. Il modello emiliano, partito negli anni 50, si innestava dentro una tradizione di sinistra che vedeva in questa regione l’apparizione delle prime amministrazioni socialiste ad inizio 900 con una forte impronta mutualistica. Tutto questo parallelamente alla nascita di una rete industriale e artigianale molto specializzata, che veniva coadiuvata da una serie di scuole tecniche professionali all’avanguardia per l’epoca. Non è un caso che le forme acute di lotta di classe si troveranno al di fuori del socialismo legalitario, e interesseranno soprattutto le campagne e il proletariato agricolo. Vale la pena ricordare che l’Emilia Romagna sarà una delle regioni dove il sindacalismo rivoluzionario si svilupperà maggiormente e in molte città nasceranno camere del lavoro direttamente legate all’Unione Sindacale Italiana. Il proletariato agricolo, legato principalmente alla figura del bracciante, che si può definire un precario ante litteram, sarà la figura principale del ciclo di lotta che investirà la regione dall’inizio 900 fino alla fine degli anni 20. Sarà però negli anni 50 che si innesterà quel modello ispirato dallo stesso Togliatti, che vedrà al centro lo sviluppo di una società fondata sui ceti medi produttivi, che riusciva dentro un meccanismo integratore a ordinare le sinergie tra borghesia(legata alla piccola media industria e agricoltura)-lavoratori e amministrazione, di fatto inglobando la maggioranza della popolazione (3). Vi era forse una delle più radicali applicazione keynesiane, che facevano del modello emiliano, un parente stretto del socialismo scandinavo, intriso tuttavia nelle mitologia iconografica sovietica. Questo meccanismo tagliava fuori chi si poneva in modo antagonista, e chi aveva vissuto il fenomeno della resistenza non solo come liberazione nazionale, ma come lotta di classe. Non va dimenticato che proprio in Emilia il confine tra guerra civile e guerra sociale in alcuni fenomeni si era sovrapposto. Al di là del giudizio di merito sulla lotta partigiana e sul ruolo anti-classista dell’antifascismo è significativo osservare come tutta una serie di figure politiche che avevano provato a praticare la guerra sociale verranno dileggiate, rinnegate o colpite. La crisi partita negli anni 70 non avrà un impatto così massiccio se rapportato alle ristrutturazione che investì il vecchio triangolo industriale. La già avviata flessibilità produttiva propria dell’industria emiliana (basata su un produzione con un livello tecnologico medio-alto e con una dimensione aziendale contenuta, ma a rete sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro), la maggiore capacità di autofinanziamento (un sistema già integrato tra sistema di credito bancario e aziende su base regionale) e un’ampia rete di servizi permetterà a questo modello di rilanciarsi e di svilupparsi ulteriormente fino alla fine degli anni 90. Se in questi ultimi anni abbiamo assistito ad un lento declino, provocato dai meccanismi di crisi internazionale, che ha messo a dura prova gli assetti produttivi e dei servizi in Emilia, è solo recentemente che si assiste a meccanismi inediti di de-integrazione sociale, con un aumento


costatante della disoccupazione (e una sempre più evidente difficoltà a fare carico al monte ore della cassa integrazione), con una crisi del sistema industriale e della stessa rete di servizi. La compattezza sociale che faceva da cornice a quel modello è messa a dura, e quindi di fatto si manda in pezzi gran parte di quelle utopie inter-classiste proprie della tradizione politica di sinistra di questa regione. Non stiamo parlando di una catarsi, ma di crepe che iniziano a farsi più evidenti. Esiste ancora una tenuta sindacale, la stessa FIOM nel settore industriale sta crescendo, ed esiste ancora quella sovrastruttura politico-sociale legata ai vari corpi intermedi della sinistra che permette un controllo capillare del territorio. Ma rimane evidente che oggi assistiamo ad un aumento costante di una porzione sociale che viene de-integrata con processi legati ad una generale precarizzazione del lavoro che si riversa nel sociale (abitazioni, servizi alla persona, ecc…). Nella 2010 le persone in cerca di lavoro hanno raggiunto la cifra di 117.000, un valore che supera di circa 19.000 unità (pari a +19,1%) il dato del 2009 e che appare circa doppio rispetto a quelli rilevati nel corso del biennio 2007-2008. Sul piano generale si può parlare di una disoccupazione che oscilla tra il 7-10%. In queste statistiche ufficiali (Banca d’Italia) non sono conteggiati i lavoratori scoraggiati (simpatica definizione borghese per definire chi è escluso) e quelli in CIG. Oggi in regione vi è un disoccupato di lunga durata su ogni tre disoccupati mentre un giovane su tre è disoccupato a livello complessivo. La probabilità di trovare lavoro per i giovani subisce anche in questo caso una polarizzazione, aumenta in modo significativo con la laurea ma diminuisce verticalmente se si è solamente in possesso di un diploma d’istruzione superiore (è da due anni che si assiste ad un drastico calo delle iscrizioni all’Università, se si prende il dato bolognese). L’aumento della disoccupazione femminile nel solo primo trimestre del 2010 raggiunge le 24.000 unità. I dati censiti dello scorso anno 2010 parlano nella sola Bologna di 22 milioni e 369mila ore di cassa integrazione autorizzate, il 53% in più rispetto al 2009, che del resto aveva visto moltiplicarsi per 6 le ore di cig rispetto al 2008. Si arriva a parlare oggi di impossibilità di utilizzo della stessa CIG se si avranno questi meccanismi di crescita esponenziale previsti per il 2012. L’attuale recessione, provocata dalla crisi non ha fatto altro che acuire la quantità di lavoro fornita individualmente dai lavoratori (aumento dei ritmi) con una riduzione delle retribuzioni per occupato. I lavoratori con meno di 20 anni vedono la paga della loro giornata di lavoro ridursi nel corso del 2009 da 44,33 a 43,83 euro (-1,1% in termini nominali e -1,9% in termini reali), quelli di età compresa tra i 20 e i 24 anni da 56,17 a 55,92 euro (-0,4% in termini nominali, -1,2% in termini reali). Utilizzando i microdati ISTAT sulle retribuzioni, risulta che, rispetto al 2009, sono diminuite drasticamente le retribuzioni d’accesso dei giovani alla ricerca della prima occupazione. Le rilevazioni INPS disponibili fino al 2009 confermano che la soglia che divide i lavoratori che hanno dovuto fronteggiare serie difficoltà occupazionali e retributive durante la recessione e lavoratori che sono stati colpiti in misura più tenue si situa intorno ai 35 anni. Sotto i 35 anni gli occupati sono passati da 118mila a 96mila. Nella pratica in due anni 30mila posti di lavoro sono andati letteralmente in fumo. Non solo. Quei pochi che vengono assunti entrano nel mercato del lavoro direttamente come precari. Ormai solo il 14% dei nuovi contratti sono a tempo indeterminato. Contro il 30% del 2007. Un dimezzamento che di fatto rende il tempo indeterminato un miraggio per tutti, giovani e vecchi che siano. A fare la parte del leone sono i contratti a termine, 1 su 2, per il resto si tratta di co.co.co, co.co.pro o altre forme contrattuali marginali. E se il lavoro diminuisce, ad aumentare sono le persone che cercare lavoro per la prima volta, magari dopo anni di inattività. Nel 2010 sono state più di 7mila i nuovi iscritti agli uffici di collocamento. Segno che la crisi sta spingendo chi prima non ne aveva bisogno a cercare di arrotondare le entrate familiari. L’Emilia Romagna rimane comunque la nona regione europea per occupati nel settore manifatturiero ed è una delle regioni più popolose della comunità europea. Con più di 400.000


aziende (una ogni 10 abitanti), ripartite tra Agricoltura 68.945, Industria 125.400 16,1 e Servizi 234.246. Più del 98% delle imprese ha meno di 50 addetti, l’impresa media ha 3.5 addetti (5.4 nell’industria, 2.6 nei servizi, 1.2 in agricoltura).

Per la prima volta dopo un lungo periodo di forte espansione nel 2009, si ha avuto una forte contrazione del volume del commercio internazionale L’interscambio commerciale ha fortemente risentito della crisi in atto (-25,4%).cosa che si è particolarmente sentita in Emilia Romagna visto la sua vocazione all’export. Nei primi tre mesi del 2011 i prestiti per le imprese in sofferenza sono cresciuti del 19.2% a Bologna e del 19.7% in tutta la regione. Dati ancora più impressionanti se si passa dalle percentuali ai crudi numeri. A metà 2011, dice il rapporto Ires, le sofferenze bancarie delle imprese toccavano il miliardo e mezzo, più del doppio rispetto al 2008. Se questo è il quadro generale, assistiamo ad una disperata rincorsa della vecchia sinistra nel difendere la bontà di un simile modello, facendosi paladina di un nuovo patto per i produttori, incapace di vedere l’estrema connessione che esiste tra sistema finanziario e produttivo che si tramuta nei processi di speculazione e stagnazione economica. Riproponendo ideologicamente meccanismi di integrazione, ma nei fatti attuando e subendo meccanismi de-integrativi. I vari centri studi del PD regionale sembrano tutti riscoprire una vocazione laburista classica, un po’ come quello che sta succedendo al labour inglese che dopo la vocazione new labour oggi parla di blue labour… dove questo parlare, al di là del fastidio e contorsionismo, è ancor più inutile dentro gli attuali contesti di accumulazione capitalista. La crisi che sta investendo l’Emilia, e il suo specifico assetto sociale, apre tuttavia meccanismi inediti se visti dentro un punto di vista di classe, in quanto rompe quel meccanismo di statalizzazione/integrazione di classe, che di fatto aveva annullato ogni possibile autonomia di classe. Non è un caso che la stessa epopea settantasettina, che ha avuto un importante epicentro a Bologna, riguardava non tanto i meccanismi legati alla de-integrazione, ma all’asfissia dello stesso meccanismo integratore proprio del modello emiliano, che voleva omogeneizzare tutto. Non vogliamo in questa sede stroncare i presupposti di quel movimento, alcuni tratti hanno avuto delle intuizioni notevoli se viste in un arco storico, non ultima la critica anti-economica che esprimevano al gigantismo produttivista capitalistico, tuttavia erano una minoranza e questo li portava a collocarsi, nel loro agire, unicamente su un piano di riproduzione sociale. Oggi si assiste invece ad un meccanismo contrario, dove si creano delle vere e proprie eccedenze sociali, che vengono create dai meccanismi capitalistici stessi. Dove viene intaccato non solo l’assetto della riproduzione sociale ma lo stesso meccanismo produttivo. La compattezza comunitaria sociale, che annullava ogni possibile autonomia di classe, ma che permetteva anche se comunque sotto gli assetti della produzione capitalista, una più equa ripartizione, inizia a franare. Se vista nei suoi tratti immediati questa dinamica può essere letta come una sciagura (rapportata ai meri valori reddituali), ma se leggiamo questo dato come l’uscita dalla gabbia, possiamo scorgervi


dopo tanti anni la possibilità finalmente che a livello potenziale la classe possa agire autonomamente e quindi capace di provare ad uscire dalla sua preistoria agendo direttamente non dentro l’economia politica ma come forza per la critica dell’economia politica. Esistono situazioni in cui si può esplicitare un’attività rivoluzionaria e altre in cui questo è impossibile. Le une e le altre dipendono dai rapporti di forza che si stabiliscono in un dato momento e questo sono a loro volta condizionati dalla situazione economica. Non vogliamo dire che il lavoro politico fatto fin qui, da tutte quelle minoranze che si sono poste da un punto di vista di classe fosse inutile, ma fortemente marginale si (e ultra marginali se rapportate al contesto emiliano). Solo quando esiste una situazione oggettivamente rivoluzionaria, un’azione rivoluzionaria è possibile. Una situazione simile nasce dalle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, dall’inevitabilità della crisi. La teoria, l’attivismo, esistono anche nei momenti in cui è impossibile metterli in pratica. Agisce in anticipo su una prassi rivoluzionaria futura e nel frattempo trova la sua verifica nello sviluppo effettivo del capitale e nell’intensificazione dell’antagonismo di classe, ma rimangono comunque schiacciati. Qui stava la forza e l’efficacia, non solo militare, esercitata dal PCI in Emilia rispetto all’estremismo storico, l’essere stato capace di essere un agente stesso di quel meccanismo di integrazione che ha contraddistinto il processo di accumulazione capitalista, rendendo sterile ogni opposizione. Se la teoria rivoluzionaria ha per oggetto l’abolizione del capitale e non può trovare che in quest’ultima la sua piena conferma. D’altra parte la prassi rivoluzionaria che si sviluppa dentro la lotta di classe e rispetto ai meccanismi stessi dell’accumulazione capitalista, non risponde ai problemi particolari che incontra in un dato momento, poiché le circostanze cambiano continuamente e portano a situazioni imprevedibili. Tali misure sono dettate dalla situazione rivoluzionaria che sorge spontaneamente, solo l’azione può dare alla teoria la forma che le permette di corrispondere alla prassi. E’ la situazione rivoluzionaria stessa che agisce sulla coscienza di classe, e può rompere ostacoli organizzativi, culturali ecc... Può apparire fantasioso utilizzare queste terminologie, ma per evitare di essere schizzoidi con la realtà occorre capire e dare il peso adeguato alle parole che si utilizzano. I meccanismi di crisi che stanno investendo la stessa Emilia, aprono un orizzonte diverso a tutti coloro che si pongono in modo rivoluzionario rispetto al presente, ben più radicale di quello che si sviluppo 30 anni fa. Detto questo rimaniamo convinti che è inutile propagandare la rivoluzione come se fosse un problema di cattiva pubblicità o convinzione, ma occorre capire dove esistono all’interno della lotta di classe quei meccanismi dove la classe può esercitare e non unicamente subire i processi di de-integrazione e quindi l’affermazione di nuovi rapporti sociali. Si ha una classe operaia industriale multietnica, una popolazione giovanile che sta subendo una inedita polarizzazione sociale, una popolazione anziana in crescita a cui non corrisponde una rete di servizi che la possa contenere. Un mondo dei servizi che non riesce più a contenere da un punto di vista occupazionale l’emorragia del mondo industriale e dove la presenza dei working poor assume un tratto generale. Come ricordato in precedenza stiamo tratteggiando tendenze e non una catarsi immediata. In questo contesto ciò che rappresenta la sinistra (vecchia e nuovista…) diventa al di là della mitologia e della storia, un ostacolo e per certi versi un nemico vero e proprio, poiché legge questa fase con occhi del passato, sognando un piccolo mondo antico che non esiste più…

Alcuni compagni/e di Bologna della redazione di “Connessioni per la lotta di classe” http://connessioni-connessioni.blogspot.com/ Note


1)Si deve comunque escludere la costa romagnola, che a caratteristiche peculiari visto il mercato legato al turismo. 2)La crisi italiana nel mondo globale, economia e societĂ del Nord, Einaudi, 2010 3)P.Togliatti, Ceto medio e emilia rossa, Edizioni La lotta, 1953


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