Il lato cattivo

Page 1

Il lato cattivo/ Frammenti di teoria del comunismo. n.1, gennaio 2012 Non ci è facile dire cosa queste pagine vorrebbero essere, cosa vogliamo che siano. Ma costituendo queste pur sempre un “primo numero”, vale la pena almeno fare un tentativo. Qui si troveranno frammenti di teoria comunista, prodotti dal presente della lotta di classe e ad esso rivolti. Le formulazioni – nostre o altrui – alle quali daremo spazio, saranno contraddistinte tanto da un legame con l'immediato, quanto da una prospettiva generale ben precisa, che agiamo, che ci agisce, e che dunque ci sforziamo di comprendere: il comunismo come “questione” inaggirabile, sempre riemergente. Questo equivale a dire che: a) la contraddizione tra proletariato e capitale ha una storia, dunque è soggetta al cambiamento; b) la contraddizione tra proletariato e capitale è ineluttabile: è qui e pone il problema del suo superamento. Nel 2011 abbiamo avuto i tumulti in Nordafrica e la rivolta dei proletari “no future” in Gran Bretagna; si potrebbe proseguire parlando della Grecia, del Cile, delle lotte operaie nelle “officine del mondo” (Cina, Bangladesh etc.) e di altro ancora. Ci sono l'approfondirsi della crisi capitalista e delle lotte dell'immenso proletariato mondiale, come espressioni di una crisi sociale montante. C'è lo spettro della guerra in sottofondo. Aggiungiamo un dato. Ci sono individui e gruppi, all'interno del “sottosuolo” proletario, che si sforzano di comprendere le caratteristiche generali e i limiti delle lotte di oggi, e di individuare in esse i frangenti che prefigurano il superamento di tali limiti – in altri termini, il percorso odierno dalle lotte quotidiane alla rivoluzione. L'esistenza e la rapida proliferazione di questi poli convergenti su scala mondiale, testimonia – a dispetto della loro apparente irrilevanza – l'apertura, con un nuovo ciclo di lotte di classe, di un simultaneo ciclo di produzione teorica, che sta trovando la propria strada in mezzo ad un disorientamento pluridecennale, che le pretese soluzioni – opposte e speculari – delle ortodossie rivificate e delle erranze teoriche, non sono ovviamente riuscite a dileguare. Questa multiforme produzione teorica si contraddistingue per almeno tre tesi comuni: 1) la fallacia dell'affermazione del proletariato come contenuto della rivoluzione comunista, e la crisi irreversibile del movimento operaio come elemento consustanziale alla ristrutturazione del capitalismo mondiale seguita al ciclo di lotte del ventennio 1960-80; 2) la comprensione del processo rivoluzionario a venire come autonegazione del proletariato, dissoluzione delle classi, trasformazione dei rapporti sociali in senso immediatamente comunistico – senza transizione socialista; 3) il comunismo come fine dell'economia e produzione di individui immediatamente sociali. Oggi più di ieri, di fronte allo scacco dell'ideologia del capitale – della sua più che trentennale autocelebrazione – c'è la tentazione di dire: «Ecco, vedete – ve 1


lo avevamo pur detto, e alla fine la Storia ci ha dato ragione – stiamo tornando al '17!» Eppure noi rimaniamo poco convinti: la crisi del presente non equivale alla riproposizione del passato. Ma allora si tratta di individuare le discontinuità storiche e di spiegarle; si tratta di dire, insomma, in cosa la rivoluzione non può più essere la stessa e perché. Se la prospettiva della comunizzazione non è cascata dal cielo, se non è il bizzarro parto intellettuale di Tizio o di Caio, se infine non è una parola d'ordine politica che si contende con altre concorrenti il cervello della massa proletaria, allora si tratta di mostrare in cosa risiede la sua “necessità”. A partire da questa esigenza fondamentale si tenterà qui, di volta in volta, di problematizzare aspetti diversi della lotta di classe attuale. Per questo fatidico primo numero – oltre ad un certo numero di traduzioni – abbiamo redatto un breve testo di carattere molto generale, con l'intento di sintetizzare il percorso di un anno e più di pratica teorica, il cui titolo – “Lavori” in corso – è più significativo di quel che si potrebbe supporre: ciò che si condensa nello spazio delimitato di queste pagine, non è lo sforzo di forgiare una dottrina infine conclusa, che bisognerà in seguito calare politicamente nella realtà della lotta di classe; è l'attività di un cantiere materialista, sempre aperto sul presente perché da esso prodotto. È proprio quest'immagine del cantiere permanente a rappresentare forse al meglio il processo rivoluzionario stesso: non realizzazione (dello Spirito, dell'Idea) né disvelamento (della Verità, del Verbo), ma produzione storica.

“Lavori” in corso

Questo è un primo bilancio teorico delle attività svolte insieme fino ad ora. È il tentativo di rendere sommariamente conto delle questioni con le quali ci siamo misurati, del modo in cui le abbiamo affrontate, delle risposte – più o meno provvisorie – che siamo stati in grado di apportarvi. Non partendo da una lettura preesistente, dall'adesione a una dottrina particolare, ci siamo trovati giocoforza gettati sul cammino di una (ri)elaborazione che deve costantemente ritornare su se stessa per misurare la propria solidità. Questo percorso non può essere lineare: come in un labirinto, possiamo ad un tratto ritrovarci in un vicolo cieco, e allora dobbiamo tornare indietro, tentare vie differenti. Siamo costantemente esposti al rischio dell'impasse. Tale debolezza non è di carattere soggettivo; è una difficoltà che la critica di segno anticapitalista (e coloro che se ne fanno portatori), porta oggi con sé, per così dire “costitutivamente”, lacerata com'è tra la tentazione di un ritorno ad un marxismo “duro e puro” e le varie erranze teoriche post-anni '70. Il margine che si apre tra questi due scivolamenti – che equivale, nella teoria in senso stretto, allo scarto reale tra la necessità, per il proletariato, di dover agire come una classe, e il suo diniego di questa stessa appartenenza di classe – è il luogo in un cui si fa la teoria comunista oggi. Ci torneremo sopra.

La cesura La “crisi” è ormai sulla bocca di tutti. Agli albori del nostro dibattito, si è trattato immediatamente di inquadrare il fenomeno. Si è posta la necessità di una chiave interpretativa di riferimento, come degli occhiali per mettere meglio a fuoco. Utilizzando una sorta di ammodernamento della teoria dei 2


“cicli lunghi” di Kondrat'ev – i “cicli sistemici di accumulazione” di Arrighi e Silver, integrati con altri elementi teorici della Scuola francese della Regolazione – eravamo spinti a vedere nelle crisi del capitalismo, soprattutto delle fasi di riassestamento del normale corso dell'accumulazione: periodicamente il sistema non riesce più a riprodursi tale qual'è, va incontro a dei limiti (che sono però relativi), dunque è costretto a darsi una veste nuova, una differente configurazione che può abbisognare di un tempo anche lungo per imporsi, dovendo coinvolgere diversi livelli – l'organizzazione del lavoro, l'innovazione del prodotto e del mezzo di produzione, i settori di punta, i “compromessi sociali”, gli equilibri geopolitici – i quali giungono con traiettorie e ritmi ineguali al punto di convergenza. La lotta di classe, lungi dall'essere favorita dal quadro di decomposizione del ciclo di accumulazione anteriore, riprende allorché la sua ristrutturazione si compie, mettendo in movimento una nuova figura centrale proletaria: l'artigiano proletarizzato nel 1871, l'operaio professionale negli anni '20, l'operaio-massa negli anni '60 etc. «Ad una determinata composizione tecnica della forza-lavoro, condizionata dalla configurazione concreta che il processo lavorativo di volta in volta assume, corrisponde necessariamente un sistema di comportamenti sociali che, prescindendo da condizionamenti socio-politici secondari, può essere considerato tipico, nel senso che tende a riprodursi in tutte le situazioni in cui siano contemporaneamente date le determinazioni fondamentali». (Lapo Berti, “Astrattizzazione del lavoro”, in Sergio Bologna, La tribù delle talpe, Milano, 1978). È quando il ciclo di accumulazione ha appena iniziato a flettersi – dunque non al suo climax, né al momento di più intensa crisi – che il proletariato diviene più aggressivo e tende a minare le basi stesse dell'accumulazione. L'utilità (vedremo se vera o presunta) di questo schema risiederebbe nella possibilità di prevedere, sulla base di un'analogia retrospettiva, il portato di una ristrutturazione, e individuare in tal modo le frazioni del proletariato che vengono messe maggiormente in movimento (o viceversa dissolte) da quest'ultima. A partire dall'inizio degli anni '70, i vari livelli a cui abbiamo accennato sono tutti entrati in crisi – crisi del fordismotaylorismo, crisi dello Stato keynesiano, crisi del mercato automobilistico, crisi dell'egemonia americana etc. – e da allora il modo di produzione capitalistico è entrato in una lunga e caotica fase di ristrutturazione, non ancora giunta a compimento; ma – adducendo come esempio la Grande Depressione (18731896), in particolare per quanto concerne il rigonfiamento della sfera finanziaria – l'idea di fondo era che, nella storia del capitale, una simile fase di “decantazione” fosse tutt'altro che inedita. All'epoca (autunno 2010), in uno scritto d'occasione rimasto inedito, appuntavamo: «[...] per quanto l'attuale crisi sia stata – e ancor più sarà – foriera di miseria e disgregazione sociale, non va esclusa la possibilità che essa rappresenti soltanto un passaggio verso un nuovo ciclo di espansione del capitale [...] Quel che è certo, reciprocamente, è che la ristrutturazione avviata negli anni Settanta non è giunta a compimento, e non ha messo capo, almeno per il momento, ad alcun modello di accumulazione alternativo al cosiddetto fordismo-keynesismo. «Ad ogni modo, le lotte che hanno punteggiato e che continuano a connotare la fase attuale (ormai ultratrentennale), malgrado si siano espresse talvolta in forme radicali, hanno avuto un carattere quasi esclusivamente difensivo, settoriale e locale; sono state, per lo più, una mera risposta all'attacco portato dal capitale, su scala mondiale, alle condizioni di “vita” e di lavoro dei proletari (occupazione, salario diretto e indiretto etc.) [...] l'azione delle burocrazie sindacali volta a neutralizzare, là dove si presentano, le spinte verso un superamento della dimensione corporativa e locale, si innesta sull'inerzia 3


generale della classe, dove prevale, se non l'apatia, la tendenza a considerare i problemi in un'ottica strettamente settoriale o, peggio, aziendale [...]» (F. B., Sul senso della nostra presenza..., inedito). Il difetto principale di questa analisi è di assumere determinate caratteristiche, specifiche della contraddizione tra proletariato e capitale in una determinata fase storica (il “compromesso fordista”, 1945-1975) e in un determinato luogo del mondo (USA ed Europa, principalmente), per retrofletterle sulla storia precedente e proiettarle sul presente e sul futuro, sopravvalutando la coerenza dell'insieme come elemento funzionale del modo di produzione capitalistico e come obbiettivo, consapevole o meno, della sua ristrutturazione. Si assume un modello di ristrutturazione “compiuta” al quale si raffronta la situazione attuale, dando per scontato che una ristrutturazione debba necessariamente compiersi in un certo modo: l'archetipo della ristrutturazione ideale diviene preponderante sul capitalismo realmente esistente. «Gli anni '80 sono gli anni della sconfitta operaia [...] Il lavoro alla catena viene progressivamente sostituito dai bracci meccanici del robot. È la fine dei gruppi omogenei e della rigidità operaia, la fine lenta ma irreversibile della fabbrica fordista quale luogo di grandi concentrazioni operaie e della contiguità fisica degli operai tra di loro. La cooperazione degli operai in fabbrica mediata, come era stato fino ad allora, dalla macchina, si rovescia nella cooperazione delle macchine tra loro mediata ora dai singoli operai [...] una rottura storica di tale radicalità e profondità da dissolvere nel nulla la visibilità operaia [...]» (cfr. Raffaele Sbardella, Astrazione e movimento reale, in “Vis-à-vis” n. 7, 1999). È però di un'evidenza stringente che le difficoltà già presenti all'epoca nell'individuazione di un sostituto dell'operaio-massa, non abbiano, nel corso dei 10 anni successivi, accennato a diminuire, ma siano perfino aumentate: «[...] l'identità della passata composizione di classe è disgregata e muta, quella della nuova non accenna ad emergere» (ibid.). Sul versante dell'accumulazione, dal 2007 ad oggi, le cose non hanno poi fatto che peggiorare, e andando al sodo, vi è stata semplicemente una ripresa accelerata di processi di ristrutturazione già in corso dagli anni '70: attacco sistematico al costo della forza-lavoro, delocalizzazioni, ulteriore diffusione della “flessibilità”, intensificazione dello sfruttamento, distruzione del salario indiretto, tendenziale eliminazione dei contratti nazionali di riferimento e di ogni garanzia. Tutto questo ci ha costretti a considerare la fase attuale non per come dovrebbe essere ma per come effettivamente è, prendendo la ristrutturazione permanente e la fine dell'identità operaia non come fenomeni transitori in vista di qualcos'altro che deve venire, ma come la forma specifica in cui si è ristrutturata la lotta di classe. L'utilità di una periodizzazione del modo di produzione capitalistico, risiede appunto nella possibilità di individuare delle rotture storiche. Come hanno recentemente chiarito i compagni di Endnotes (cfr. The history of subsumption, in “Endnotes” n. 2, aprile 2010), ciò permette di sfuggire alla metafisica implicita di una teoria della lotta di classe, all'interno della quale ogni singola determinazione storica verrebbe volatilizzata in una filosofia della storia, sia essa una teleologia o un eterno ritorno dell'uguale. Di fronte all'autocelebrazione post-modernista del capitale, in molti, nel milieu anticapitalista, hanno comprensibilmente puntato a sottolineare l'invarianza del modo di produzione capitalistico, già evidenziata da Marx: «La vera, specifica funzione del capitale in quanto capitale è [...] la produzione di plusvalore, e questa [...] non è altro che produzione di pluslavoro, appropriazione di lavoro non pagato all'interno del processo di produzione reale; pluslavoro che si esprime, si materializza, in plusvalore». (Il Capitale, cap. VI inedito). Fermo restando che 4


tutto ciò – a quasi 150 anni di distanza dalla pubblicazione del primo libro de Il Capitale – è ancora perfettamente vero, rimane il fatto che il capitale non è una cosa ma un rapporto sociale che ha una storia, così come ha una storia la contraddizione proletariato-capitale che lo sostanzia. Se registriamo come fatti acquisiti il tramonto del movimento operaio e dei suoi programmi, dobbiamo egualmente essere disposti ad ammettere non solo che la prospettiva di cui ci facciamo portatori abbia avuto una genesi storica – fin qui nulla di clamoroso – ma anche che questa stessa genesi non sia stata casuale, ma si sia data in un momento storico ben preciso, in modo del tutto interdipendente dal tramonto del movimento operaio. Gli anni '70 del Novecento segnano una cesura storica senza precedenti. Inizialmente essa appare unicamente come conclusione di una fase espansiva e quindi come espulsione di forza-lavoro dal processo produttivo, “de-integrazione dei lavoratori”, “peggioramento delle condizioni della classe operaia”. Ma è la contraddizione fra proletariato e capitale intesa come un tutto complesso e articolato, a trasformarsi. Da un lato, l'integrazione dei sindacati allo Stato nel contesto di crisi, determina una divaricazione tra sindacalismo ed esistenza formale dei sindacati: l'autorganizzazione diviene difensiva, il riformismo prende le armi (Brigate Rosse etc.). Dall'altro, per il proletariato diviene sempre più difficoltoso fissare un'identità che sussuma sotto di sé tutte le altre identità particolari. È così, ad esempio, che il femminismo si afferma non più come rivendicazione di uguaglianza ma, al contrario, come affermazione di una differenza irriducibile: «Noi rimettiamo in discussione il socialismo e la dittatura del proletariato. La forza dell'uomo è nel suo identificarsi con la cultura, la nostra nel rifiutarla. Sputiamo su Hegel. Siamo contro il matrimonio. [...] La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante. Comunichiamo solo con donne». (Manifesto di Rivolta Femminile, in Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, 1974). La stessa messa a punto (implicita o esplicita), da parte della teoria rivoluzionaria, delle nozioni di autonegazione del proletariato e di immediatezza del comunismo, operata – in modo differenziato e caotico, ma anche simultaneo e convergente – da un certo numero di individui e gruppi che partecipavano alle lotte di classe del periodo in Europa e negli USA, non può essere interpretata né come la verità finalmente disvelata del movimento rivoluzionario, né come semplice errore o deviazione – ciò che in entrambi i casi equivarrebbe ad assegnare alla teoria un'esistenza indipendente che certamente non possiede – ma come un'espressione tra le altre di una discontinuità nella produzione di teoria, che fa tutt'uno con una discontinuità nella contraddizione di classe.

Lotte quotidiane e produzione teorica Anche il più incauto difensore dell'invarianza del marxismo e del programma comunista è costretto ad ammettere, per non ricadere nell'aborrito idealismo, che la teoria del proletariato non è cascata dal cielo. Essa è dunque un prodotto dei conflitti di questo mondo. D'altro canto, costui, difendendo l'“invarianza”, difenderà l'immutabilità di un corpus che deve essere preservato piuttosto che rielaborato; ciò, al fine di conservarlo “puro” per il Gran Giorno, al fine di difenderlo dall'inquinamento del mondo borghese: «Il disinfestamento a cui dedichiamo il novanta per cento della povera opera nostra non si completerà che in un avvenire lungo e continuerà molto dopo di noi: è quello che combatte l'epidemia di tutti i luoghi e di tutti i tempi, ovunque e ognora pericolosa, dei revisori, aggiornatori, contemplatori, innovatori. [...] si tratta di individuare il virus e applicarvi l'antibiotico, che cocciutamente ravvisiamo nella continuità della linea, nella fedeltà ai princìpi, 5


nel preferire novecentonovantanove volte su mille la rimasticazione catechistica all'avventura della nuova scoperta scientifica - che richiede ali di aquila, e a cui si sente chiamata dal destino ogni zanzara.» (Amadeo Bordiga, Il marxismo dei cacagli, in “Battaglia Comunista” n. 8, 1952 ). Come se le lotte, dopo aver suscitato l'apparizione del Verbo, dopo aver forgiato la Dottrina, avessero smesso, dall'oggi al domani, di fare ciò che avevano fatto fino a quel momento: produrre teoria. Come se non fossero, da quel giorno, che alla ricerca del Logos smarrito. Il tempo si incaricherebbe dell'onere di effettuare la sintesi: le lotte si dirigeranno esse stesse, necessariamente, verso la loro teoria, ovvero la teoria già costituita che esse “ricercano” e che esse “apprendono” poiché l'hanno prodotta. Non ci va meglio se ci volgiamo a ciò che scrisse sull'argomento l'eterodossa Internazionale Situazionista: «Contrariamente ai micro-partiti che non cessano di andare a cercare gli operai, con lo scopo fortunatamente diventato illusorio di disporne, noi attenderemo che gli operai siano condotti dalla loro lotta reale fino a noi; e allora noi ci porremo a loro disposizione» (“Internationale Situationniste”, n. 11, 1967). Questa concezione della teoria come corpus definito e preesistente, è all'opera ogni volta che l'IS tenta di esplicare il senso della propria produzione teorica, compresa come infusione di coscienza alle tendenze incoscienti delle lotte. La pratica ricercherebbe una verità che la teoria detiene, ed è attraverso di essa che questa pratica arriverebbe a compiersi. La teoria esiste e la lotta di classe viene a congiungersi con essa. La lotta di classe non viene essa stessa concepita come produttrice di teoria: la teoria esiste già. È evidente che questa concezione è una contraddizione in termini, poiché non si può sostenere, da un lato, che la teoria si forma nel corso della lotta di classe e, contemporaneamente, che essa è un insieme di verità costituite che il proletariato deve fare proprie. Allora, delle due l'una: o si concepisce la lotta di classe senza teoria – ciò che non è mai esistito e mai esisterà – ammettendo che ciò in cui quest'ultima ha un ruolo da giocare possa esistere senza di essa, e che la formulazione della teoria comunista non ha nulla a che vedere con la lotta di classe; oppure si concepisce la lotta di classe come produttrice di teoria, e la teoria comunista come un forma particolare di teoria prodotta dalla lotta di classe. Avanziamo su questa seconda ipotesi. Le lotte di ogni giorno producono incessantemente una teoria in senso lato, che può essere orale, scritta, buona, pessima, enunciata verbalmente o meno; ma poiché le lotte non sono fatte né da muti né da decerebrati, è un fatto che questa produzione incessante esista in ogni lotta. Il “problema” è che la quasi totalità delle lotte in una fase non rivoluzionaria, sono lotte quotidiane su obbiettivi d'interesse immediato per i proletari che le fanno, lotte che – siano vittoriose o sconfitte – nascono e muoiono nel magma della riproduzione del modo di produzione capitalistico. Ed è qui che inizia la produzione di teoria in senso stretto: si creano, in questo magma della riproduzione del capitale, dei punti di coagulo, costituiti da individui singoli o da gruppi, attraverso i quali viene conservata e rielaborata la teoria in senso lato che le lotte producono costantemente. In questi punti di coagulo, la rielaborazione è una critica, consapevole o meno, della dispersione della teoria prodotta dalle lotte nella riproduzione del capitale, dunque una teoria del movimento d'insieme delle lotte di ogni giorno. Di qui, la formazione di varie correnti, che possono essere più o meno in rapporto a ciò che definiamo “rivoluzione”, che egualmente possono essere più o meno consapevoli della relazione che intrattengono con le lotte quotidiane dalle quali traggono il “materiale” che poi rielaborano; nondimeno queste correnti “dipendono” tutte da questo corso quotidiano, e non potrebbero esistere senza di esso. È dunque qui che 6


noi stessi ci situiamo. Ora, la peculiarità del momento attuale è che, in contrasto con la fase storica precedente, in cui le modalità di svolgimento della lotta di classe erano quelle del movimento operaio e dei suoi programmi, e dunque della rivoluzione come affermazione del lavoro sul capitale, le correnti teoriche odierne sono in gran parte ancora sconquassate dalla scomparsa di un'identità operaia forte, e si misurano costantemente col fatto che i comportamenti di classe della maggioranza dei proletari non sono affermativi di un'appartenenza di classe, ma esprimono al contrario un rapporto negativo con tale appartenenza. In ciò, si trova la ragion d'essere di varie elaborazioni che, a partire dalla fine degli anni '70, hanno tutte teorizzato, in modi anche molto diversi, il superamento della contraddizione tra proletariato e capitale nel quadro del capitalismo stesso: l'anarchismo insurrezionalista (cfr. Alfredo M. Bonanno, Anarchismo e società post-industriale, 1993), il Gruppo Krisis (cfr. Ernst Lohoff, La fine del proletariato come inizio della rivoluzione, in “Invarianti”, n.29 e 30, 1997), o ancora, ad un livello più mainstream, Giorgio Agamben con i suoi filosofemi sulla “piccola borghesia planetaria” e la “singolarità qualunque” (cfr. La comunità che viene, 1992), solo per citarne alcune. Sebbene il più delle volte queste teorizzazioni siano prive della necessaria fondatezza, esse non vanno squalificate e denunciate come “deliranti” o “piccolo-borghesi”: ciò non ci spiega affatto perché esse esistano. Gli sviluppi problematici della teoria rivoluzionaria contemporanea derivano tutti, in ultima istanza, dall'impossibilità, per il proletariato, di opporre al capitale ciò che esso è all'interno del modo di produzione capitalistico come fondamento della rivoluzione. Le “officine del mondo” dell'Estremo Oriente (soprattutto la Cina) hanno costituito, fino ad oggi, una significativa eccezione a tutto ciò; ma fino a un certo punto. In primo luogo, l'acuirsi della crisi mondiale, rendendo palesi i prevedibili limiti dell'esportazionismo cinese, sta già modificando in profondità il carattere delle lotte proletarie quotidiane, giocoforza sempre più rivolte alla conservazione del posto di lavoro piuttosto che ad ottenere aumenti salariali. In secondo luogo, se alla fine degli anni '90 l'attacco alla “ciotola di ferro per il riso” (metafora per la garanzia del posto di lavoro) nelle aziende statali non ebbe conseguenze catastrofiche, fu proprio grazie allo sviluppo dell'esportazionismo e dei subappalti; prese dentro a questo sviluppo, le lotte della nuova generazione hanno in effetti ottenuto aumenti salariali talvolta notevoli, ma in un contesto di crescita regionale, inscritta all'interno di una nuova divisione internazionale del lavoro basata sulla compressione salariale – non di una espansione generale del modo di produzione, come in Europa negli anni '60. Il sogno di un neo-fordismo keynesiano dagli occhi a mandorla, amico del popolo e perfino dell'ecosistema, e in grado di dare nuove prospettive al capitalismo mondiale grazie alla guida illuminata del PCC, è esistito solo nella testa di qualche intellettuale occidentale (cfr. Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, 2007; Loretta Napoleoni, Maonomics, 2010). Gli operai cinesi – forse avvertiti dall'esempio giapponese degli anni '80-'90 sulle possibilità di durata del boom – hanno tentato di agguantare quanto era in loro potere; oggi, sempre più, si troveranno – come in Italia o in Francia – di fronte alla minaccia della delocalizzazione, e con margini di resistenza ristretti, che sono, in fin dei conti, sempre più simili in qualunque angolo del pianeta.

Autorganizzazione e autoattività Nell'autunno 2010 – sull'onda del movimento studentesco che sarebbe poi sfociato nella grande manifestazione del 14 dicembre a Roma – andava 7


diffondendosi, negli ambienti militanti a noi più prossimi, una sorta di strano mantra dell'autorganizzazione. In seguito ad alcune nostre discussioni, circolò sul web uno scritto nel quale è rintracciabile una prima analisi critica dell'autorganizzazione, considerata come «una mera forma, un involucro privo di vita, del tutto indifferente rispetto al proprio contenuto. Qualsiasi cosa può essere “auto-organizzata”, incluso il proprio sfruttamento! Basti pensare alla storia del movimento cooperativo; oppure ai diversi tentativi di autogestione della produzione che hanno punteggiato la storia del movimento operaio: dall'occupazione delle fabbriche torinesi, nel 1919-20, fino al più recente caso della Zanon, in Argentina. Lo stesso movimento dei Consigli, nella Germania del Primo dopoguerra, autentico focolaio di rivoluzione in quegli anni, si collocava per lo più in una prospettiva di autogestione del capitalismo. [...] Pensare che l'autorganizzazione rappresenti la “panacea di tutti i mali”, significa peccare di “formalismo” e attribuire a una forma organizzativa delle virtù salvifiche che non possiede e non possiederà mai». (cfr. F. B., Critica della forma-sindacato e limiti dell'autorganizzazione proletaria). Nel gennaio 2011, nel nostro testo di presentazione, scrivevamo sull'autorganizzazione una cosa abbastanza diversa: «Gli operai non sono scomparsi [...] è piuttosto [...] quell'insieme di costumi, luoghi, miti e riti che caratterizzavano la vita (e la riproduzione materiale) della forza-lavoro del passato, ad estinguersi. Per questo, ancor meno di ieri, la rivoluzione potrebbe essere oggi l'estensione di un contropotere già esistente, l'affermazione di ciò che i proletari sono all'interno della società del capitale [...] La rivoluzione non è più quella. L'autorganizzazione è il suo primo momento. Ma questa ha cessato di essere il principio di qualsivoglia rifondazione societaria, non è più la prefigurazione della comunità futura; l'autonegazione del proletariato non può che esserne il superamento». In questi due passaggi emergono due differenti concezioni dell'autorganizzazione: nel primo essa viene considerata come forma pura e a-storica, sempre valida, da cui semplicemente non è il caso di attendersi ciò che non può dare; nel secondo, essa viene invece storicizzata come forma appropriata ad un contenuto specifico: l'autorganizzazione dei produttori in vista della società futura dei “produttori associati”. L'ipotesi sottesa al secondo passaggio citato, è che la ristrutturazione post-anni '70 abbia portato ad uno sconvolgimento così forte nella composizione di classe del proletariato, e in generale nei rapporti di classe, da distruggere non solo il movimento operaio “ufficiale”, ma anche – per usare l'espressione di KarlHeinz Roth – “l'altro movimento operaio”, quello dell'autonomia e dell'autorganizzazione – che trovava anch'esso la propria ragion d'essere in un proletariato che, pur mutando periodicamente nella composizione di classe (migrazioni, salto tecnologico etc.), era sempre in grado di trovare una nuova stabilizzazione interna. Con l'avvento della ristrutturazione senza fine, la composizione di classe è costantemente sconquassata da immani ondate migratorie, dal carattere diffuso del processo produttivo, da una fascia sempre più estesa di sottoccupazione che va a dileguare il rigido confine tra impiego e disoccupazione etc. Gli stessi motivi che impediscono la ricomposizione di una classe costantemente in subbuglio, impediscono allo stesso tempo che possa emergere e generalizzarsi una figura “dominante”, analoga a quella dell'operaio professionale degli anni '20 e dell'operaio-massa degli anni '60; per questo motivo, le ipotesi sul “proletario informatico” come nuova figura centrale, formulate a partire dagli anni '70, non hanno mai trovato la minima conferma nella realtà. La conformazione ondivaga, variabile, ultra-segmentata e dissestata della classe, non potrà ricomporsi – paradossalmente – se non nella comunizzazione, ovvero nell'attimo in cui la classe sarà sul punto di 8


dissolversi definitivamente. Per quanto concerne i rapporti di classe, autorganizzazione e autoattività non sono proprietà inerenti a una pretesa natura rivoluzionaria del proletariato; sono forme storiche (=potenzialmente cadùche) di attività di classe, che presuppongono la capacità della classe di istituire un certo rapporto con se stessa, per mezzo di un tessuto di autonomia già esistente, che si estende in progressione dalle lotte quotidiane alla rottura rivoluzionaria (capitalizzazione delle lotte, continuità organizzativa etc.). «La storia non registra che intervalli fuggitivi nel corso dei quali il proletariato può acquisire la sua completa autonomia di fronte allo Stato capitalista» (Piombo, mitraglia, prigione: ecco come risponde il Fronte Popolare agli operai di Barcellona che osano resistere all'attacco capitalista, in “Bilan” n. 41, maggio-giugno 1937). Tutto ciò non ha più alcun fondamento. Oggi, quando agiscono in quanto classe, i proletari non esperiscono affatto l'essere classe per sé, cioè l'autonomia, ma l'essere classe per il capitale, l'essere in tutto e per tutto presso il capitale. Oggi, in Italia, in Francia, negli USA, quando gli operai lottano, generalmente (e giustamente) lo fanno per mantenere il posto di lavoro, per evitare la dismissione dello stabilimento o la delocalizzazione; lo spirito della lotta è allora questo: senza queste mura, senza queste macchine, noi non siamo niente. Non è questione di “integrazione”, ossia dell'esistenza o meno di un'aristocrazia operaia, se è vero che la crisi attuale si sta già incaricando di bastonare a dovere i “figlioli prodighi” della classe; al contrario, la proletarizzazione montante e la miseria non elimineranno, ma renderanno anzi più visibile questa caratteristica delle lotte attuali, che si può riassumere così: non esiste più alcuna differenza tra essere-operai ed essere-operai-per-il-capitale. O si smette, nella comunizzazione, di essere operai, oppure si rimane operai per il capitale; fino alla comunizzazione, non vi sarà che la società attuale. Intendiamoci: la possibilità della lotta rivoluzionaria è senz'ombra di dubbio un portato della lotta rivendicativa di ogni giorno; il punto è come. Se è vero che – scomparsa ogni autonomia – la difesa della condizione proletaria è indistinguibile dalla riproduzione del capitale, allora tale difesa (sia essa vittoriosa o perdente), presa in sé e per sé, non è portatrice di alcunché. D'altra parte, se il rapporto tra le lotte quotidiane e la rivoluzione non è più di transcrescenza ma di rottura, ciò implica anche che non esistono lotte offensive o difensive in quanto tali. Esistono dei momenti di “frattura” – che possono sopraggiungere anche nell'ambito delle lotte reputate più difensive – in cui questa identità (essere-operai = essere-operai-per-il-capitale) sembra implodere; sono questi i momenti in cui si prefigura ciò che sarà la comunizzazione. Quando dei proletari, spinti dall'andamento della lotta, sono costretti a mettere essi stessi in questione la loro rivendicazione iniziale, ovvero ad agire contro di essa, oppure a non rivendicare più nulla, allora si apre una crepa nel fatto di agire come una classe – una crepa che porta con sé la rimessa in causa dell'appartenenza di classe, come fosse un'oggettività estranea contro la quale la lotta è andata a scontrarsi, e che solo l'autonegazione in quanto classe può abbattere. Dal 1848 all'inizio della ristrutturazione senza fine negli anni '70 del Novecento, l'autonegazione del proletariato è rimasta subordinata alla sua affermazione in quanto classe; da ciò il carattere “lavorista” delle misure di transizione socialista: generalizzazione della condizione proletaria a tutti gli strati della società, riduzione della giornata lavorativa, retribuzione per mezzo dei buoni di lavoro. «La società comunista comincia appena ad emergere e respinge l'antica: essa riconosce solo il lavoratore, e rifiuta l'ozioso come non-umano [...] Si ha, in un certo senso, la formazione di un Gemeinwesen [una comunità, 9


ndt] fondato sul lavoro. Nel capitalismo era il capitale che mediava l'esistenza dell'uomo, mentre ora essa è mediata dal lavoro». (Jacques Camatte, Il Capitale Totale. Il “capitolo VI” inedito de Il Capitale e la critica dell'economia politica, 1976). Ironia della storia, sarà lo stesso autore di queste righe – consumata la rottura col bordighismo ufficiale – ad intravvedere la caducità del programma e i tratti della nuova fase: «Nel periodo di dominio formale del capitale, la rivoluzione si manifestava all'interno stesso della società: lotta del lavoro contro il capitale; oggi essa [...] si leva contro il capitale e contro il lavoro, si tratta di una lotta contro il capitale e contro il lavoro, come due aspetti della stessa realtà. In altri termini il proletariato deve lottare contro il proprio dominio al fine di [...] distruggere sia il capitale sia le classi. [...] Non c'è più da realizzare nessun socialismo inferiore, e la fase di dittatura del proletariato si riduce alla lotta per la distruzione della società capitalista, del potere del capitale» (ibid., Prefazione). Incapace di articolare teoricamente il nuovo rapporto intercorrente tra le lotte quotidiane del proletariato e il comunismo – ossia tra l'“essere immediato” (conservatore) della classe e il suo “essere mediato” (rivoluzionario), compresi l'uno come una mistificazione e l'altro come un'essenza da disvelare, un dover-essere – non deve stupire la deriva successiva di Camatte, dall'abbandono della teoria delle classi e del valorelavoro al neo-gnosticismo, passando per la scoperta di Freud e della psicanalisi, per giungere infine al primitivismo: «Oh Uomo, quale sbaglio separarti dalla Natura!»

Prefigurazione del processo rivoluzionario nelle lotte quotidiane La struttura che accomuna tutte le lotte di classe particolari della fase attuale, risiede nel conflitto tra il carattere irrimediabilmente “riformistico” delle lotte e il fatto che, in via tendenziale, ogni rivendicazione è delegittimata e non può essere soddisfatta. Il superamento di questa situazione contraddittoria non avverrà quando il proletariato “comprenderà” – magari grazie all'intervento dei “rivoluzionari” – che questo mondo non offre più nulla e dunque non ha più senso rivendicare alcunché, non essendo rimasta altra via fuorché la rivoluzione. Non essendo la classe in grado di esprimere un'autoattività, la rivoluzione non può darsi come “campo rivoluzionario” già esistente, ma solo come superamento dei limiti delle lotte attuali. Nell'attività militante di coloro che – divisa la realtà fra volontà cosciente e corso oggettivo del mondo – credono di essere già “al di là” delle “illusioni riformiste” della maggioranza dei proletari, può manifestarsi effettivamente una prefigurazione di questo superamento, che sarà la rimessa in causa della riproduzione del proletariato in quanto classe; ma solo come una tra molte altre, e in un certo senso suo malgrado. L'attività militante è del tutto interna al corso quotidiano della lotta di classe; non si aggiunge ad esso dall'esterno, ma – prigioniera com'è del feticismo del capitale – non può nemmeno stagliarsi al di sopra o al di là di questo corso quotidiano, come forse vorrebbe. Il feticismo, che l'attività militante non può comprendere che come “illusione” (da cui si crede al riparo) e come “menzogna” da smascherare, è un momento necessario della lotta di classe, finanche nel corso della rottura rivoluzionaria: nessuna rivoluzione si fa contro la formula algebrica del saggio di profitto. L'affermazione teorica del comunismo si dà come individuazione e critica dei limiti necessari delle lotte attuali, non come critica delle ideologie. Come comprese Althusser, l'ideologia non fa altro che interpellare gli individui in quanto soggetti, dunque in quanto semplici volontà contrapposte al corso 10


oggettivo; la critica “radicale” delle ideologie, prefiggendosi di smascherare la Menzogna per mostrare la Verità, rimane dunque essa stessa ideologica. I frangenti delle lotte attuali in cui si prefigura ciò che sarà la comunizzazione, sono quelli in cui la contraddizione della rivendicazione – allo stesso tempo “necessaria” e “inutile” – si tende a tal punto da aprire una frattura nell'azione di classe stessa, dentro la lotta. In questi frangenti è una frazione del proletariato – partendo dalla difesa della propria riproduzione come classeper-il-capitale – a mettere in questione praticamente questa stessa riproduzione. Ne è stata un'illustrazione recente (maggio-giugno 2011) la pratica degli operai del Bangladesh che – rivendicando maggiore salario – sono stati “costretti” ad attaccare i mezzi di produzione, dando fuoco alle fabbriche dove lavoravano. Anche le lotte operaie del 2009, in Francia, hanno presentato caratteristiche similari: l'ondata di licenziamenti dovuti a dismissioni e riduzioni di organico – a cui si è aggiunta l'impotenza di tutti i sindacati (compresi quelli di base) nell'imporre dei negoziati, rifiutati da parte padronale – ha condotto una minoranza operaia sul terreno dell'azione illegale (sequestrando manager, minacciando di scaricare materiale tossico nell'ambiente etc.), la quale è riuscita in tal modo a riaprire le trattative e a strappare quasi sempre degli indennizzi molto maggiori rispetto a quelli stabiliti per legge. Diversamente da coloro che, trovandosi in una situazione analoga, hanno rimesso in funzione i macchinari e hanno continuato a lavorare senza il vecchio padrone, nella speranza di trovarne uno nuovo, questi proletari hanno evidentemente puntato tutto sulla possibilità di posticipare al massimo il momento del ritorno sul mercato del lavoro. Le lotte contro il CPE in Francia del 2006, il movimento studentesco del 2010 in Italia (in particolare la manifestazione di Roma del 15 dicembre) e quello del 2011 in Cile, hanno egualmente vissuto la rimessa in questione delle tipiche rivendicazioni corporative studentesche, da parte di una minoranza di studenti che – stanca di difendere l'istituzione universitaria, “ghetto d'oro in un mare di merda” – non poteva fare altro che, paradossalmente, continuare a lottare senza rivendicare più nulla. «Dopo l’ennesima riforma scolastica, gli studenti avevano già avviato un percorso di lotte, ma la rabbia che oggi è esplosa a Roma va ben oltre quella degli studenti contro il DDL Gelmini, e oltre anche a quella dei cittadini contro le politiche di questo governo. È la rabbia di tutte quelle persone, quelle individualità, che hanno preso coscienza che è l’intero sistema economico, politico e sociale a dover saltare via. Non a caso sono state scelte le banche, le vetrine dei negozi, le macchine di lusso, i blindati delle forze dell’ordine e i palazzi del potere come obiettivi principali su cui sfogare anni di oppressione». (Assemblea di Scienze Politiche Occupata – Bologna, Oggi la capitale, domani il capitale, volantino, dicembre 2010). Le parole di questo volantino mostrano come le rotture della fase attuale ne prefigurino il superamento, ma ne facciano ancora, allo stesso tempo, totalmente parte: la “frattura” manda in pezzi la rivendicazione studentesca, ma ricrea immediatamente altri limiti e altre problematiche (il capitale inteso come una cosa, la questione della presa di coscienza, l'individuo come soggetto rivoluzionario etc). Anche le numerose rivolte senza rivendicazioni degli ultimi 15 anni che hanno avuto il proletariato delle metropoli occidentali come principale protagonista – pur significative – non sfuggono a questo quadro. Coloro che contrappongono gli “esclusi” agli “inclusi” (o il proletariato eccedentario agli operai di fabbrica) non comprendono la portata della ristrutturazione capitalistica, in particolare il fatto che la cosiddetta “flessibilità” tenderà a fare sempre più labili i confini tra esercito industriale attivo ed esercito industriale di riserva, aumentando la sovrappopolazione 11


“fluttuante” che entra ed esce dalla produzione di plusvalore (cfr. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIII). Questo fatto si ripercuote già oggi nell'avvicendarsi degli attori delle rivolte: se a Los Angeles nel 1992 (e ancora in Francia nel 2005) a sollevarsi è soprattutto un massa segregata di disoccupati cronici, il dicembre greco del 2008, ed anche i riots inglesi dell'agosto 2011, presentano una composizione sociale molto più variegata e difficilmente definibile. «Lavoro alla mattina, “insurrezione” alla sera», questa formula lapidaria, tratta da un comunicato di precari in occupazione alla Facoltà di Economia dell'Università di Atene, evidenzia al meglio la peculiarità della fase: anche degli “onesti lavoratori” possono – scoperta dell'acqua calda – essere dei rivoltosi; eppure la loro capacità di incidere sulla produzione di plusvalore risulta ancora alquanto limitata. Del frazionamento interno al proletariato si è già detto; aggiungiamo qui che la massiva incorporazione delle donne nella forza-lavoro mondiale non ha smesso di crescere dall'inizio degli anni '60 ad oggi; è prevedibile che col montare delle lotte, tale fenomeno, data l'assenza di un'identità operaia forte che possa dominare le contraddizioni di genere, sarà produttivo di una forte rivendicazione identitaria di genere da parte delle donne, che determinerà a sua volta ulteriori divisioni. Se ciò dovesse verificarsi, l'affermazione dell'identità di genere nel corso quotidiano della lotta di classe confermerebbe l'impossibilità che vi possa essere una unità di classe preliminare al processo rivoluzionario. Ciononostante, qualunque femminismo – tendente in quanto tale ad affermare un'identità di genere e quindi a riprodurla, riproducendo così il rapporto di genere – si troverà, presto o tardi, di fronte alla necessità dell'autonegazione, che si prefigurerà anch'essa in una serie di rotture all'interno del femminismo stesso. Ogni tentativo di riformare o eliminare il rapporto di genere senza attaccare i rapporti di produzione, si rivelerà fallimentare; il separatismo non potrà in nessun caso rappresentare una soluzione. Sfruttamento e genere possono essere soppressi solo simultaneamente, ma il rapporto tra i due è ineguale. La riproduzione del genere come «riproduzione delle condizioni di produzione» (Althusser) può essere messa in crisi solo da un violento attacco ai rapporti di produzione, fattore decisivo per l'avvio di un processo rivoluzionario. Il proletariato non può portarsi su questo terreno “spontaneamente”, grazie alla semplice crescita quantitativa delle lotte proletarie per la difesa della condizioni di vita e di lavoro, né vi può essere portato da un'entità politica esterna; solo una generalizzazione di “fratture” come quelle fin'ora descritte, di cui solo alcune frazioni si faranno carico, imporrà al resto del proletariato in lotta l'attacco alla propria riproduzione come classe all'interno del sistema capitalistico.

Comunizzare il mondo Rapporti sociali determinati plasmano un mondo a loro immagine e somiglianza e producono, tra l'altro, i bisogni individuali e sociali ed i modi di soddisfarli: «Se l'uomo si distingue dagli altri animali per l'illimitatezza e l'estensibilità dei suoi bisogni, d'altro canto non esiste un animale capace di contrarre nello stesso incredibile grado i suoi bisogni e di limitarsi, come lui, al minimo delle condizioni di vita, in breve non esiste un animale che possieda lo stesso talento ad irlandesizzarsi.» (Karl Marx, Pagine preparatorie per Il Capitale, s.d.). In questo passo possiamo leggere allo stesso tempo la realtà ristretta dei rapporti sociali attuali e, in negativo, le possibilità di un'auto-produzione senza fine di rapporti tra individui immediatamente sociali. Ad ogni modo, non sarà l'integrità del programma o, ancor peggio, dell'ideale, a disfarci della merda che il mondo così com'è oggi ci rifila o ci nega, ma un processo in cui la 12


trasformazione degli individui – dell'attività, dei bisogni – sia identica alla trasformazione delle circostanze. «Il soggetto alternativo all'esistente non si trova già dato, ma è solo l'esito di una trasformazione di sé che si dà nella prassi stessa di trasformazione [...]» (Roberto Finelli, Classi, fantasmi e postmodernità, in “Vis-à-vis”, n. 8, 2000). Tale processo non sarà armonioso ma conflittuale, e potrà esacerbare all'estremo le tensioni fra le classi, e all'interno del proletariato stesso. Almeno in un primo momento, solo la maggioranza dei senza riserve e una frazione minimale della piccola borghesia (soprattutto i più giovani, gli studenti declassati etc.) saranno in sintonia con la comunizzazione, mentre il resto degli strati intermedi vi vedrà una minaccia alla conservazione della propria condizione sociale; perciò una parte di essi raggiungerà immediatamente la controrivoluzione aperta (ad esempio, costituendo degli organi para-statali di repressione), mentre un'altra troverà riparo nelle file del democratismo radicale. Sarà necessario mandare in rovina tutta questa gente che – come la storia si è più volte incaricata di dimostrare – tenterà fino all'ultimo di mantenere il proprio status, e naturalmente l'approfondirsi della crisi, unitamente alle sollevazioni selvagge nelle metropoli – al loro carattere anti-mercantile e distruttivo – aiuterà in questo senso. I rapporti di produzione capitalistici si prolungano nella divisione fra città e campagna, nell'urbanistica, nelle tecnologie, nei saperi etc. La comunizzazione dei rapporti fra individui coinciderà dunque con uno sconvolgimento radicale del paesaggio e della distribuzione degli umani sulla crosta terrestre, dei procedimenti di produzione e dei modi di interazione con l'ambiente circostante – sia come attività che come coscienza sociale; tutto ciò si dipartirà dall'eliminazione dell'impresa e del mercato come luoghi circoscritti e separati dalla riproduzione immediata della vita materiale, così come dall'eliminazione del denaro (e dunque del salario) come elemento mediatore tra sfere di vita separate. Come già rimarcato, il passaggio decisivo sarà dunque l'attacco ai rapporti di produzione. Dalla sollevazione argentina del 2001 fino ad oggi, passando per l'insurrezione in Cabilia (Algeria) dello stesso anno e le sommosse nelle banlieues francesi del 2005, fino al dicembre greco del 2008, ai recenti tumulti in Nordafrica e alla rivolta nel Regno Unito dell'estate 2011, il vero limite di tutte queste esplosioni sociali – al di là delle differenti estensioni – non è stata una presunta debolezza nell'attacco alla macchina statale; è stata l'incapacità di rivolgersi ai rapporti di produzione che ha sempre permesso allo Stato di reagire e riorganizzarsi con facilità. Sovente l'autorganizzazione si è rivelata essere il surrogato prodotto dalla lotta per supplire a questa incapacità: così è successo in Cabilia nel 2001, e gli avvenimenti che vanno sotto il nome di “Primavera Araba” hanno mostrato una difficoltà analoga – difficoltà che, più di ogni altra cosa, spiega la deriva democratoide delle iniziali rivolte del pane proletarie. Naturalmente, per i proletari egiziani, tunisini e libici non cambierà assolutamente nulla, dato che – vi siano o meno i Gheddafi o i Mubarak di turno al potere – continueranno a menare la solita vita da schifo; ma confidiamo che non mancheranno di esprimere (assai poco democraticamente) questo loro convincimento, di qui a breve. L'attacco ai rapporti di produzione diviene radicale con la presa collettiva dei mezzi di produzione, in gran parte messi a riposo dalle astensioni di massa dal lavoro. Non a caso evitiamo il concetto di appropriazione: «I rapporti sociali capitalistici sono inscritti nella materia, incorporati negli strumenti tecnologici di cui facciamo uso nel lavoro e nel tempo libero, incistati nella forma delle abitazioni e nell'urbanistica, così come nei saperi e nelle relazioni interpersonali» (Il Lato Cattivo, Chi siamo, cosa 13


vogliamo, a chi ci rivolgiamo, volantino, gennaio 2011). La presa dei mezzi di produzione è fin da subito una trasformazione che toglie, ove possibile, ai mezzi di produzione il loro carattere materiale capitalistico; è una distruzione di quelle “forze produttive” che non si prestano a tale trasformazione. Il movimento di comunizzazione può realizzare tale presa proprio perché non è il movimento dei “produttori associati”, non è la forza-lavoro che fa la rivoluzione per poi tornare al lavoro. Ad ogni modo, non è facile sostenere l'esistenza di un luogo del pianeta, per il quale sia necessario uno sviluppo delle forze produttive come precondizione materiale del comunismo. Si può dire allora che la comunizzazione sia una dittatura del proletariato? Sì e no. Come già accennato, la ristrutturazione del modo di produzione capitalistico ha minato in profondità le condizioni che davano un fondamento alle forme già esperite della lotta di classe, ed al senso stesso di una dittatura di classe. Nonostante le differenze tra aree geo-storiche e la loro influenza su queste forme, si può escludere, ad esempio, un revival dei consigli operai – stile Russia '17 o Germania anni '20 – in una qualunque parte del globo; i momenti organizzativi che si daranno, saranno più probabilmente di carattere territoriale – considerata anche la rilevanza dell'esercito industriale di riserva su scala internazionale. In secondo luogo, la distruzione della struttura verticale della fabbrica fordista e la conseguente diffusione globale dell'outsourcing, ha paradossalmente aumentato la vulnerabilità del sistema ai blocchi della produzione: date anche le ridotte scorte di magazzino caratteristiche del justin-time, se alla Fiat – che ormai si occupa perlopiù di assemblaggio – non arrivano più le componenti a causa di uno sciopero nell'azienda che le produce, gli operai cosa assembleranno? Proprio a causa della polverizzazione del tessuto produttivo sul territorio e della fine della connessione dell'accumulazione capitalistica alle aree nazionali – tipica invece del “compromesso” fordista-keynesiano – l'inizio di un processo rivoluzionario in un punto qualunque del globo, troverà un'immediata diffusione su scala mondiale o sarà stroncato sul nascere. L'assenza di rivendicazioni potenzialmente unificanti renderà vano, per qualsiasi aggregazione permanente definitasi “rivoluzionaria”, l'intento di capitalizzare le lotte su basi programmatiche. D'altra parte, «la rivoluzione è un problema di forza, non di forma» (Danilo Montaldi): come la maggior parte degli atti della lotta di classe, il carattere del processo rivoluzionario su scala mondiale rimane antidemocratico e di dittatura sociale – benché non di classe in senso stretto, in quanto accelerata decomposizione di tutte le classi. Il feticismo sociale prodotto dagli odierni rapporti sociali di produzione, implica l'opposizione rigida di un'oggettività meccanica avente leggi proprie – una sorta di «seconda natura [...] determinabile soltanto quale riepilogo di necessità constatate» (György Lukàcs, Teoria del Romanzo) – ad una soggettività presuntivamente “libera” e autodeterminata dalla propria “volontà”. Questa opposizione feticistica deriva dalla contraddizione fra proletariato e capitale, ovvero tra i mezzi di produzione esistenti come capitale, da un lato, e la compravendita di forza-lavoro per mettere in funzione questi mezzi – alla quale gli individui capitalisti e proletari partecipano “liberamente”, come soggettivazione di funzioni contingenti alla classe di appartenenza – dall'altro. Non si tratta, per la teoria del comunismo, di negare l'economia e le sue leggi come realtà separate, ma di considerare queste realtà non più come la base su cui si svolge la contraddizione di classe, ma come un momento della sua riproduzione. «Si può e si deve dissolvere ogni legge economica in un momento del rapporto contraddittorio tra proletariato e capitale: la caduta tendenziale del saggio di 14


profitto, il concetto generale di ristrutturazione del capitale, il capitale come contraddizione in processo» (Sur la critique de l'objectivisme, in “Théorie Communiste”, n. 15, febbraio 1999). Non possiamo più figurarci la rivoluzione – alla maniera, marxista o meno, comunque hegeliana e umanista – come la vittoria del Soggetto sull'Oggetto, dell'Uomo sui suoi Prodotti, della Libertà sulla Necessità. Nel gioco come nella guerra, l'opposizione è un fatto banale. La contraddizione è un fenomeno complesso, poiché implica l'unità come precondizione trascendentale del conflitto. Il superamento della contraddizione strutturante l'odierno modo di produzione, determinerà un cambiamento tale che le stesse nozioni correnti di soggettività e oggettività, libertà e necessità, attività e condizioni, saranno ridefinite o soppresse. In tutto questo, la “natura” del proletariato, se compreso come un soggetto autonomo rispetto al capitale, rimane un enigma: le due “soluzioni” prodotte dal movimento operaio – Lenin: il proletariato, lasciato a se stesso, non è in grado di spingersi oltre il sindacalismo; l'“estremismo”: il proletariato è naturalmente rivoluzionario, ma pervertito dal riformismo, dalla burocrazia, dai partiti etc. – hanno entrambe colto due aspetti immediati della classe, ma fermandosi a questo livello di empirìa, non hanno potuto fare altro che alimentare ed esasperare una problematica impossibile a risolversi. «La massa è sempre ciò che deve essere a seconda delle circostanze, ed è sempre in procinto di diventare qualcosa di totalmente diverso da ciò che sembra essere». (Rosa Luxemburg, Lettera a Mathilde Wurm, 16/2/1917). Parafrasando questa formula si potrebbe dire che il proletariato è ad ogni momento, in rapporto alle circostanze, semplicemente ciò che deve essere. Noi allo stesso modo, in esso.

Che cos'è Blaumachen I due testi che seguono – La produzione storica... e L'epoca delle rivolte è iniziata... – sono stati redatti dal gruppo greco Blaumachen e vengono proposti qui in traduzione italiana. Blaumachen (sul web: blaumachen.gr) si è formato a Salonicco nel giugno 2005. La parola che dà il nome al gruppo, è una traccia lasciata dalle lotte proletarie nella lingua tedesca; il significato equivale a “fare buco”, nel senso di “saltare il lavoro”. Gli individui coinvolti in questo progetto hanno partecipato insieme a diverse lotte sociali e, dal gennaio 2004, alla vita del collettivo Tristero. La necessità di porre all'ordine del giorno l'abbattimento della società capitalistica, li ha condotti oltre Tristero: «Come soggetti contrapposti all'oggettiva realtà del capitalismo, partiamo dall'assunto del lavoro, del valore e del profitto come determinanti fondamentali della vita odierna. Il capitale, ben lungi dall'essere una cosa, è invece un rapporto sociale e crediamo di poter contribuire alle lotte sociali solo attraverso una comprensione della realtà in termini di classe. La teoria, quale critica concreta della totalità del mondo capitalistico, è un'arma nella nostra lotta contro il capitale, ed è pratica nella misura in cui affermiamo che l'abbattimento del capitale è la soluzione pratica ai nostri problemi» (Introduction to Blaumachen). Blaumachen pubblica l'omonima rivista cartacea, di cui sono usciti fin'ora cinque numeri; dal 2011 partecipa alla redazione di “SIC” (sul web: communisation.net), rivista internazionale per la comunizzazione. 15


La produzione storica della rivoluzione nella fase attuale

[12/2010, firmato: Woland. Apparso in traduzione inglese su blaumachen.gr e in francese su «SIC», n.1 dicembre 2011]

La ristrutturazione del capitale e la forma attuale del rapporto di capitale Lo sviluppo storico della contraddizione tra proletariato e capitale sotto la sussunzione reale, ha condotto oggi alla fase di crisi di un rapporto di capitale sempre più – e in forma sempre più accelerata – internazionalizzato. La forma attuale del rapporto di capitale e la sua crisi, sono state prodotte dalla ristrutturazione che seguì la crisi del 1973. I punti principali dell'analisi dell'odierno rapporto di capitale sono i seguenti: a) il rapporto di capitale è stato ristrutturato a tutti i livelli. La ristrutturazione fu la “risposta” alla caduta del saggio di profitto dopo il 1964 (di primo acchito negli Stati Uniti). Essa fu allo stesso tempo una controrivoluzione, cioè un contrattacco della borghesia contro il proletariato. I suoi risultati furono la fine del movimento operaio, la distruzione degli argini nazionali e regionali tanto alla circolazione del capitale, quanto alla riproduzione della classe operaia, e la fine del capitalismo di Stato. b) Un elemento essenziale della ristrutturazione fu l'accelerata internazionalizzazione del capitale a partire dal 1989. c) Dopo il 1982, sempre più capitale è stato “investito” nella sfera finanziaria. Il capitalismo ristrutturato ha integrato l'attacco al valore della forza-lavoro come elemento funzionale, strutturale e permanente. Questo processo, caratteristico del periodo attuale (quello successivo al 1973), non potrà mai arrivare a compimento. Il capitale non è un opposizione, ma una contraddizione tra classi. La classe operaia non è un soggetto autonomo, indipendente dalla produzione di valore. Le caratteristiche della ristrutturazione sono allo stesso tempo il ciclo di lotte dentro e contro il capitalismo ristrutturato (un ciclo che fino ad oggi ha prodotto lotte svoltesi principalmente al di fuori del processo di valorizzazione in “Occidente”, rivolte del pane nei paesi poveri e scioperi selvaggi in Asia). Considerando il presente, possiamo parlare di lotte legate alla mancata riproduzione del proletariato, che viene rimessa in questione dalla ristrutturazione stessa. Il fatto che le lotte del ciclo attuale (ristrutturazione) non costituiscano un progetto politico, è un elemento strutturale del processo storico che definisce il contenuto della rivoluzione futura nella nostra epoca. Il punto focale, oggi, è la questione della crisi nella riproduzione del rapporto di capitale (crisi finanziaria che si trasforma in crisi del debito, la quale a sua volta diviene crisi monetaria o crisi di sovranità nazionale etc.). Il capitale è oggi costretto a imporre una seconda fase della ristrutturazione già iniziata negli anni '80. 16


La contraddizione della ristrutturazione: soluzione alla “crisi del 1973” e causa della crisi attuale La ristrutturazione è un processo senza fine, poiché la sua fine sarebbe una contraddizione in termini: capitale senza proletariato. È un processo di “liquidazione della classe operaia”. La tendenza di questa fase della sussunzione reale è la trasformazione della classe operaia da soggetto collettivo, che si relaziona collettivamente alla classe capitalista, a somma di proletari individualizzati, ognuno dei quali si rapporta individualmente al capitale, senza l'intervento di un'identità operaia e di organizzazioni dei lavoratori che rendano la classe operaia un “partner sociale” riconosciuto, la cui partecipazione al tavolo della contrattazione collettiva sarebbe accettata. È un processo di continua frammentazione della classe, che nel corso del tempo ha espulso una parte notevole del proletariato dal processo di valorizzazione. Inoltre, questo processo non ha fine in quanto il punto terminale sarebbe la produzione di plusvalore senza capitale variabile – sarebbe il capitale senza proletariato. Questo processo si traduce in un bisogno continuo di capitale già ristrutturato affinché si perpetui la ristrutturazione stessa. La natura contraddittoria di questo processo conduce alcune frazioni del capitale e del movimento proletario a concettualizzare l'intero periodo attuale come una crisi del keynesismo – ciò che è legato alla comprensione della rivoluzione come uno sviluppo delle lotte di classe rivendicative e della ricomposizione della classe come classe per sé. Ciò che rese vincente il keynesismo fu allo stesso tempo il suo limite, che produsse la crisi dei tardi anni '60. Il legame salario-produttività pone la rivendicazione salariale come tema centrale della lotta di classe. Un altro aspetto del medesimo processo fu la tendenza all'aumento della composizione organica del capitale (che è anch'essa un'espressione feticistica della lotta di classe sotto la sussunzione reale). Lo sviluppo di queste tendenze, sulle quali si basò l'accumulazione del capitale negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, portò infine all'ondata di lotte del “1968” e alla “crisi del 1973”. Il capitale si dovette ristrutturare, al fine di aumentare il saggio di sfruttamento e di ridurre, o almeno ritardare, l'impatto inevitabile della crescente composizione organica del capitale sul saggio di profitto. Gli elementi “keynesiani” dell'accumulazione dovettero essere modificati, e questa trasformazione fu il contenuto della ristrutturazione al suo inizio. Un aspetto preponderante della ristrutturazione, quale essa si sviluppò, fu la decomposizione del movimento operaio, accettato fino ad allora (ovviamente “accettato” in seguito alla produzione storica di lotta di classe). Dinamiche e limiti del corrente modello di accumulazione: le dimensioni fondamentali della ristrutturazione La ristrutturazione ebbe certamente successo. L'aumento del saggio di sfruttamento del lavoro su scala mondiale, fu il risultato dell'attacco alla classe operaia nei paesi sviluppati e dell'accresciuta internazionalizzazione del capitale, vale a dire dello sfruttamento intensivo della forza-lavoro nei (o proveniente dai) paesi meno sviluppati. Risparmî in capitale costante furono realizzati attraverso la generalizzazione della produzione just-in-time e la degradazione della catena di montaggio rigidamente fordista. In questa nuova fase della sussunzione reale, ogni aspetto del rapporto di capitale è stato trasformato, e questa trasformazione è manifesta nello sviluppo dell'attuale ciclo di lotte: lotte di disoccupati, lotte nell'industria dell'educazione, 17


movimento anti-globalizzazione, movimento di azione diretta, lotte sul salario nei centri dell'accumulazione in Oriente, lotte contro l'espropriazione dei terreni comuni in Asia. Queste lotte non sono la risultante della ristrutturazione, ma piuttosto parte di essa, e in definitiva sono la ristrutturazione della lotta di classe stessa. La ristrutturazione, quale approfondimento della sussunzione reale e accelerazione dell'internazionalizzazione del capitale, ha spostato l'epicentro del conflitto sul terreno della riproduzione del rapporto di capitale. Il contenuto della ristrutturazione vittoriosa fu anche responsabile del corso del modello di accumulazione che essa ha prodotto, fino alla crisi attuale. La prima dimensione della ristrutturazione è stata la progressiva decomposizione delle componenti più solide del proletariato che avevano dato forma al movimento di massa dei lavoratori dell'era keynesiana. Questa dimensione ha preso consistenza attraverso: a) la continua trasformazione della composizione tecnica del capitale attraverso le tecnologie dell'informatica e della comunicazione, che permisero di disintegrare la struttura verticale del processo produttivo, con il conseguente tramonto dell'“operaio-massa”; b) la continua trasformazione del processo lavorativo, che permise la graduale imposizione di una negoziazione sulla forza-lavoro a un livello individuale, e perciò un controllo individualizzato sulla manodopera da parte dei padroni; c) il crescente numero di attività riproduttive spostate dal settore statale a quello capitalistico privato, ovvero la riduzione del salario differito, ciò che si tradusse in un aumento del numero di donne nelle file dei salariati; d) la crescente importanza della repressione nella riproduzione sociale del capitale. Ciò che viene evidenziato nel punto c), ha trasformato in notevole misura il rapporto di genere ed eroso la famiglia nucleare, e perciò ha scompaginato le gerarchie e gli equilibri interni al proletariato. Questo elemento ha cambiato in modo significativo le relazioni inter-individuali all'interno del proletariato. La posizione di chi ricopre il ruolo sociale riproduttivo (che appartiene principalmente – ma non esclusivamente, nella fase attuale – alle donne) è peggiorata ulteriormente in seguito alla ristrutturazione del capitale. All'interno della dialettica del “lasciare che le donne diventino lavoratrici e allo stesso tempo costringerle a diventare tali”, l'aspetto più importante è il secondo. Via via che la famiglia nucleare si sfalda, il fardello delle donne raddoppia. Sempre di più esse tendono ad assumere contemporaneamente un ruolo riproduttivo e uno produttivo. La ristrutturazione ha approfondito la messa in questione del ruolo riproduttivo femminile e reso inevitabile l'identità tra distruzione del rapporto di genere e distruzione dello sfruttamento. Questa dinamica è la produzione storica dei limiti di tutte le varianti del femminismo, le quali, nonostante abbiano ragione a criticare il rapporto di genere di matrice capitalista, finché rimangono sul terreno del femminismo e non superano se stesse (superamento che si può produrre all'interno delle lotte), rimangono incapaci di affrontare la questione di genere nella sua totalità. La seconda dimensione della ristrutturazione è stata la sempre più spinta internazionalizzazione del capitale. Dal 1989, l'internazionalizzazione (la quota di scambi internazionali sulla quantità complessiva degli scambi) ha avuto a che fare principalmente con la ricollocazione della produzione dagli stati sviluppati a quelli “in via di sviluppo” della zona occidentale del pianeta e dell'Estremo Oriente, ad eccezione della Cina (e con i flussi di lavoratori migranti verso quelli che erano i centri della produzione). Da allora, con la 18


fine del capitalismo di Stato, il processo di internazionalizzazione si è sistematicamente esteso al precedente “blocco dell'Est” e alla Cina. Questo processo è inestricabilmente connesso all'incremento del capitale finanziario, che è la parte del capitale che definisce i processi di internazionalizzazione e monitora i livelli di profittabilità, con la funzione di far circolare il capitale e investirlo nella maniera presuntivamente più profittevole. Risulta allora comprensibile come lo sviluppo e la ristrutturazione di questo settore del capitale, con tassi di cambio fluttuanti e un enorme aumento del denaro circolante, abbia permesso a sempre più frazioni della classe capitalista di realizzare profitti attraverso la speculazione finanziaria. Entrambi questi aspetti della ristrutturazione (frammentazione della classe operaia a tutti i livelli e internazionalizzazione attraverso l'incremento del capitale finanziario) hanno permesso al capitale di superare la grande crisi degli anni '70. Entrambi sono stati egualmente elementi-chiave del processo di accumulazione che ha condotto alla crisi attuale: la trasformazione del processo lavorativo e i rapidi cambiamenti nella composizione tecnica del capitale hanno portato a un relativo (quando non assoluto) abbassamento dei salari nei paesi sviluppati. La crescente integrazione della riproduzione della classe operaia nel capitale ha portato a un'elevata domanda di servizi da parte del proletariato (salute, educazione etc.), alla quale il capitale non può venire incontro in maniera adeguata, a causa dei limiti della produttività intrinseci al settore dei servizi. Solo in questo senso si può affermare che esiste una distanza tra i “bisogni sociali” e lo sviluppo capitalistico. L'imposizione dei Programmi di Aggiustamento Strutturale (Structural Adjustment Programs - SAPs) si è tradotta in un afflusso di manodopera a basso costo dai paesi non sviluppati a quelli sviluppati. La conseguenza è stata l'accelerata creazione di una popolazione eccedente (“eccedente” dal punto di vista del capitale) da un capo all'altro del pianeta. Contemporaneamente, questa popolazione eccedente è stata costretta a riprodursi attraverso l'economia informale. Perciò, isole di “Terzo Mondo” sono emerse nei centri metropolitani del “Primo Mondo”, e zone a sviluppo simil-occidentale sono emerse nei “paesi in via di sviluppo”. La spremitura globale degli strati intermedi del proletariato e l'esclusione di coloro che appartengono agli strati più bassi, stanno, in ogni caso, trasformando fulmineamente le città in teatri di esplosive contraddizioni. Già dalla metà degli anni '90, era chiaro che le caratteristiche a cui si doveva la dinamicità dell'accumulazione la stavano allo stesso tempo minando. Nel 1997, la crisi in Asia si estese alla Russia tramite sconvolgimenti nel mercato petrolifero, e portò poi al collasso di Long Term Capital Management (primo collasso di un gigante dei fondi di investimento). La crisi nel Sud-Est asiatico mostrò come il saggio di sfruttamento in questi centri dell'accumulazione, non fosse più abbastanza alto perché la riproduzione allargata del capitale globale avesse luogo, e accelerò il trasferimento massivo di strutture produttive in Cina. Il crollo del settore delle nuove tecnologie rappresentò apparentemente l'ultimo sforzo di investimenti massivi con aspettative di sostenuta profittabilità, attraverso il risparmio di capitale costante. Dopo il 2001, ciò che gradualmente divenne evidente, fu che la riproduzione della classe operaia era possibile solo compensando la diminuzione del salario con i prestiti. Una parte consistente del proletariato, al fine di mantenere il suo precedente livello di riproduzione, si è indebitata individualmente presso le banche, mentre il futuro della sua riproduzione collettiva si scopriva ipotecato da fondi pensione (che sono “investitori istituzionali”) trascinati in pesanti giochi finanziari (CDSs). Il salario ha cessato di essere la misura unica del livello di 19


riproduzione della classe operaia, ovvero quest'ultimo ha teso a sganciarsi dal salario. “Too big to fail” = “too big to move on”: la crisi della riproduzione del capitale sociale complessivo e il suo sforzo di imporre una seconda fase della ristrutturazione Il capitale, con la sua mobilità e il suo continuo sforzo nell'ottimizzare il processo di valorizzazione attraverso complesse stime e modelli di calcolo, tenta disperatamente di evitare, il più a lungo possibile, ogni negoziazione con il proletariato sul prezzo della forza-lavoro. La forza-lavoro viene vista oggi solo come un costo e non è considerata come un fattore di crescita, tramite, ad esempio, l'espansione del mercato. In un capitalismo sempre più globalizzato, ogni frazione regionale o nazionale del proletariato tende ad essere vista come parte del proletariato globale, del tutto intercambiabile con ogni altra frazione di esso. L'esistenza stessa del proletariato è vista come un male inammissibile. Essendo il capitale nient'altro che valore in processo, e dipendendo la sua riproduzione allargata dal plusvalore che può estrarre solo dallo sfruttamento del lavoro, questa tendenza rappresenta un'impasse, ora definita come popolazione proletaria eccedente a livello globale. Il capitale tende a ridurre il costo della forza-lavoro, una tendenza che si avvia verso l'omogeneizzazione di questo costo su scala globale (ovviamente il necessario zoning del capitale agisce anche come forte controtendenza, che potrà quantomeno ritardare questo processo). La produttività tende a sganciarsi del tutto dal salario e la valorizzazione del capitale a disconnettersi dalla riproduzione del proletariato; ma, d'altra parte, nell'approfondirsi della sussunzione reale, il capitale tende ad essere l'unico orizzonte di questa riproduzione. Il capitale si sbarazza della forza-lavoro, ma allo stesso tempo la forza-lavoro può essere riprodotta solo all'interno del capitale. L'esplosione di questa contraddizione nella crisi attuale della ristrutturazione, produce la necessità di una nuova (seconda) fase di ristrutturazione del capitale e forma la dialettica tra limiti e dinamiche dell'odierna lotta di classe. La soluzione a tale situazione (dal punto di vista del capitale) definisce l'inizio di un nuovo attacco al proletariato. Qualora la crisi sia temporaneamente risolta, essa sarà comunque ricordata come il primo passo verso una seconda fase della ristrutturazione del capitalismo contemporaneo (considerando la prima fase quella che va dai tardi anni '70 ad oggi). La crisi finanziaria assumerà presto le forme di una crisi della sovranità nazionale, e in questo sviluppo si prefigura la tendenza all'autonomizzarsi di una “Internazionale Capitalista”. Lo Statonazione, in quanto meccanismo di base della riproduzione del capitale, attraversa una grave crisi. Le sue conseguenze spingono verso la cristallizzazione di nuovi meccanismi internazionali, che prenderanno pieno controllo dei flussi della forza-lavoro migrante in vista di una nuova divisione del lavoro. Questi meccanismi tenteranno anche di gestire il processo, necessario al capitale, della trasformazione del rapporto tra estrazione di plusvalore assoluto e relativo, fenomeno già esistente ma ora in via di accelerazione. Ancor di più, avrà luogo uno sforzo per imporre alla maggioranza del proletariato una rotazione maggiore tra disoccupazione e lavoro precario, così come la generalizzazione del lavoro informale; lo sforzo sarà volto, inoltre, a coordinare la transizione verso una riproduzione del proletariato eccedente basata sulla repressione. Questo processo assumerà le forme di un impegno ad accelerare la globalizzazione e, fatto ancor più rilevante, il suo zoning, non solo in termini di scambi internazionali, ma principalmente nei termini di una circolazione controllata della forza-lavoro. 20


Con l'imposizione di nuove misure di austerità (un approfondimento della ristrutturazione), che sono oggi la posta in gioco della lotta di classe in Europa, un circuito internazionale di capitali fluidamente circolanti può continuare a esistere in questa forma, per quanto possa essere alimentato da aree nazionali o sub-nazionali, nelle quali una repressione sempre maggiore si renderà necessaria alla riproduzione del capitale. Sempre più capitale verrà trasferito nel settore finanziario; sempre più capitale verrà concentrato in questa forma; sempre più speculazione sarà prodotta. Il processo produttivo verrà accantonato, al fine di rimandare la svalutazione del capitale finanziario – oggi necessaria, ma considerevolmente dolorosa – o di far sì che abbia luogo senza scosse. La situazione che potrebbe venirsi a creare sarà ben lungi dall'essere stabile, poiché, in fin dei conti, sarà principalmente basata sull'estrazione di plusvalore assoluto, i cui limiti sono anch'essi assoluti. Rispetto al periodo attuale, la crisi si svilupperà maggiormente su base locale, e tenderà a una crisi globale più profonda di quella odierna. Per un altro verso, c'è la possibilità che la crisi attuale, nel suo sviluppo, possa portare a duri conflitti inter-capitalistici, che potrebbero sfociare in un collasso del mercato mondiale e in un tentativo di ritornare alle valute nazionali e al protezionismo. Perché una simile trasformazione abbia luogo, è necessaria una massiccia devalorizzazione del capitale, ovvero l'eliminazione di una grossa fetta del capitale finanziario. Nel quadro di questo spettro di misure, che sembrano essere più o meno all'ordine del giorno per la maggior parte degli Stati europei, la Grecia rappresenta la prima tappa nella strategia capitalista volta all'imposizione di una seconda fase di ristrutturazione. Il fatto che una minoranza del proletariato precario si sia rivoltata nel dicembre 2008, rende il luogo e il tempo scelti per l'inizio dell'attacco su scala mondiale molto rischiosi. Il rischio si è manifestato direttamente durante le proteste del 5 maggio 2010, le quali hanno lasciato presagire che il tentativo di imporre una seconda fase della ristrutturazione, sarà probabilmente conflittuale e potrà essere foriero di ribellione. La crisi del rapporto salariale La crisi attuale è una crisi esistenziale del lavoro, che si manifesta logicamente come crisi del contratto di lavoro. La “crisi del contratto di lavoro” diventerà una crisi generale del lavoro salariato attraverso la tendenza strutturale alla delegittimazione delle rivendicazioni salariali. La continua riduzione dei salari, la generalizzazione della precarietà e la formazione di un proletariato costantemente espulso dal processo di produzione del valore, definiscono lo spazio delle rivendicazioni difensive. Questo fatto, insieme alla diminuzione in percentuale della forza-lavoro disponibile mobilitata dal capitale, definisce il contenuto della crisi del rapporto salariale come crisi della riproduzione del proletariato, e dunque crisi della riproduzione del rapporto di capitale. Il tentativo di imporre una seconda fase della ristrutturazione è in effetti una dichiarazione di guerra del capitale globale contro il proletariato globale, a cominciare dall'Europa. È una “continuazione della guerra con altri mezzi”, meno intensiva di una guerra convenzionale, ma con un più alto potenziale di riuscita. Questa “continuazione della guerra con altri mezzi” metterà in questione il ruolo stesso del lavoro salariato come mezzo di riproduzione del proletariato globale. Ovviamente, questo processo avanzerà e si esprimerà in modi differenti in ogni paese, a seconda della sua posizione nella gerarchia capitalistica globale. In ogni caso, la generalizzazione di “scenari di guerra” (e 21


di lotta di classe) su scala mondiale, è molto importante. Repressione come riproduzione sociale Nell'era keynesiana dell'accumulazione del capitale, la spesa pubblica includeva il costo della riproduzione della forza-lavoro, ovvero sanità, pensioni e sussidi, educazione, repressione. Nel capitalismo ristrutturato la strategia è incentrata sulla riduzione della spesa pubblica, attraverso la privatizzazione di numerosi settori legati al pubblico. In realtà, e principalmente a causa di una popolazione che invecchia, ma anche di una più lenta imposizione della ristrutturazione in Europa (ciò che è dovuto allo zoning capitalistico) e della crescita del capitale finanziario/assicurativo negli USA, la spesa totale (pubblica e privata) per l'assistenza sanitaria e le pensioni, è aumentata in tutti i paesi sviluppati (“The Economist”, 29/06/2010). Oggi, nel bel mezzo di una crisi del debito pubblico, tutte queste spese, ad eccezione di quelle per la repressione, sono delegittimate. C'è una costante riduzione del salario differito, e perciò la valorizzazione del capitale tende a disconnettersi dalla riproduzione della forza-lavoro. Lo spazio pubblico delle città, che è l'espressione spaziale della libertà del cittadino-lavoratore, tende a scomparire, poiché considerato pericoloso e capace di facilitare improvvise esplosioni di scontento. L'esclusione della gioventù dal mercato del lavoro, definisce questa come categoria sociale pericolosa (e man mano che la crisi si approfondisce, ciò vale egualmente per i teen-agers). Specificamente in Grecia, questi timori stanno crescendo all'interno della borghesia. «Anche il governo è ora a conoscenza del fatto che gli episodi antisistemici, specialmente fra persone giovani, tendono a straripare ben oltre i limiti del quartiere di Exarchia. Moltissimi giovani sono inclini a impegnarsi e a partecipare a gruppi molto aggressivi» (To Vima, giornale quotidiano, 27/06/2010). Per tutte queste ragioni, la richiesta di avere un salario, che è già un tema centrale nella lotta di classe su scala mondiale, sarà in futuro il terreno su cui i conflitti di classe si intensificheranno. Questo tema creerà rotture all'interno delle lotte, che metteranno in questione lo stesso contenuto rivendicativo delle lotte.

Lotte attuali del proletariato globale Il contenuto della rivoluzione che si afferma in ciascun periodo storico, incluso quello della fase attuale di ristrutturazione – che, per la sua stessa natura, non può essere portata a compimento – si prefigura nelle lotte quotidiane del proletariato. Ciò si deve al fatto che le lotte sono un elemento costitutivo del rapporto di capitale; sono conflitti tra i poli della contraddizione che trasformano continuamente la contraddizione stessa (lo sfruttamento). La rivoluzione può essere unicamente un prodotto di questa contraddizione, ed è trasformazione del capitale oppure la sua abolizione: il superamento dello sfruttamento. L'odierno rapporto di sfruttamento produce le lotte di un proletariato frammentato, la cui riproduzione è sempre più precaria. Sono queste le lotte di un proletariato adeguato al capitalismo ristrutturato. Lo lotte rivendicative quotidiane nella fase attuale, sono considerevolmente differenti dalle lotte dei precedenti periodi storici. Le rivendicazioni proletarie non costituiscono più un programma rivoluzionario, come accadeva fino all'inizio della ristrutturazione, durante il “periodo del '68”. Ciò non si deve ad una “debolezza soggettiva” o ad una “mancanza di coscienza” da parte della 22


classe operaia. La struttura odierna del rapporto di capitale si manifesta nel fatto che il proletariato, nelle sue lotte, affronta, anche nei pochi casi in cui le sue rivendicazioni sono accettate, la realtà del capitale quale è oggi: ristrutturazione e intensificata internazionalizzazione, precarietà, assenza di un'identità operaia e di interessi comuni, difficoltà nella riproduzione della vita, repressione. Il fatto che le lotte proletarie, a prescindere dal loro livello di combattività, non possano invertire questo corso e costruire un nuovo tipo di regolazione keynesiana, non è un segno di debolezza, ma un contenuto-chiave della struttura attuale del rapporto di capitale. La conseguenza di quello che precede, è la produzione, interna alle lotte quotidiane, di pratiche che oltrepassano il quadro rivendicativo – pratiche che nel corso della lotta rivendicativa immediata, mettono in questione la rivendicazione stessa. Tali pratiche sono le rotture prodotte all'interno di importanti lotte di classe (le lotte contro il CPE in Francia nel 2006, lo sciopero generale del 2009 nei Caraibi, il movimento contro i licenziamenti sempre del 2009, il movimento degli studenti americani del 2009-10, le rivolte nei centri di detenzione per immigrati in Italia nell'autunno 2009, le rivolte del pane in Algeria, Sud Africa, Egitto degli anni recenti, le rivolte per il salario in Bangladesh, Cina o Malesia, le rivolte contro l'espropriazione delle terre in Cina) e/o di lotte senza rivendicazioni (come quelle del novembre 2005 in Francia, del 2008 in Grecia, le rivolte spontanee in Cina). Guardando alla lotta di classe globale, si può osservare che le pratiche summenzionate si stanno moltiplicando. Nell'attuale ciclo di lotte, la rivoluzione si produce come superamento dei limiti di questo stesso ciclo. A partire dalle dinamiche prodotte dalla moltiplicazione di “rotture all'interno delle lotte rivendicative”, la classe operaia si va ricomponendo, non come classe per sé, ma come classe contro il capitale e dunque, allo stesso tempo, contro se stessa.

La comunizzazione come prodotto storico della contraddizione capitale-lavoro Oggi ci troviamo in una fase di crisi del capitalismo ristrutturato. Le lotte sul salario nei centri dell'accumulazione in Asia si diffondono rapidamente, mentre il proletariato dei paesi sviluppati sta vacillando sotto i colpi dell'attacco borghese, volto a imporre la seconda fase della ristrutturazione. Gli sviluppi del fronte della lotta di classe in aree differenti di conflitto sono sempre storicamente e logicamente interconnessi. Oggi, le lotte attorno alla riproduzione nei centri sviluppati sono collegate, attraverso un processo di feedback, alle lotte sul salario nei centri primari dell'accumulazione; in altre parole, l'aspetto più importante dell'attuale zoning del capitale globale, noto come ChinAmerica, tende alla destabilizzazione. Questo processo contraddittorio di crisi condurrà a conflitti sempre più forti tra i proletari esclusi dal processo produttivo (e che rimarranno tali a causa della crisi), quelli che vi restano precariamente, e il capitale – e allo stesso modo a conflitti inter-capitalistici. La già esistente messa in discussione dell'identità operaia, assumerà le fattezze di un conflitto diretto contro il capitale e ci saranno (all'interno del movimento proletario) nuovi tentativi di politicizzare e delimitare le lotte all'interno della realtà capitalistica. Il movimento di superamento della società capitalista troverà i propri limiti al suo stesso interno. Questi limiti sono le pratiche organizzative in vista di una società alternativa (ovvero un nuovo tipo di organizzazione della società basata su specifici rapporti di produzione) fuori o contro il capitale. 23


Una caratteristica significativa della fase attuale, è il fatto che il rapporto di capitale produce repressione in quanto elemento necessario alla propria riproduzione. In ciò risiedono la forza e i limiti dell'attuale lotta di classe. La tendenza della riproduzione sociale ad assumere la forma della repressione, crea una distanza incommensurabile tra i poli del rapporto di capitale. Il contenuto del conflitto è necessariamente legato alla repressione, ovvero all'aspetto più importante della riproduzione di un proletariato sempre più eccedentario. In tale conflitto, il proletariato si troverà sempre più ad affrontare la sua propria esistenza come capitale. La forza delle lotte sarà allo stesso tempo la loro debolezza. Tutte le ideologie e le pratiche d'avanguardia (proletaria), tutte le ideologie e le pratiche politiche (proletarie) convergeranno su un approccio anti-repressione, che crea la possibilità di un altra, forse l'ultima, forma di riformismo del periodo attuale. Le espressioni più radicali e allo stesso tempo riformiste della lotta di classe odierna, saranno pratiche di azione diretta. Le pratiche di azione diretta che sono emerse come rottura radicale all'interno del movimento antiglobalizzazione, hanno dato consistenza all'identità del militante proletario individuale – appartenente al proletariato disoccupato o sempre più precarizzato. Le pratiche di azione diretta si manifestano in molte forme (sindacalismo radicale, movimenti cittadini, lotta armata), che variano considerevolmente e nella maggior parte dei casi coesistono conflittualmente, e che sono prodotte direttamente, senza mediazioni, dall'odierna esistenza contraddittoria del proletariato. L'azione diretta esprime oggi il superamento delle identità di classe e la produzione dell'identità individualistica del militante, basata sull'attitudine morale del proletario in lotta potenzialmente sconfitto – ciò che è del tutto ragionevole, dal momento che ciò che è in gioco nelle lotte all'interno del capitalismo ristrutturato, è unicamente la decelerazione dell'attacco portato dal capitale. Le stesse “vittorie” non creano euforia per nessuno. La realtà attuale tende ad assumere la forma di una onnipresente repressione. Ciò produce l'identità del militante in lotta contro tutte le forme di repressione, le quali sono in realtà manifestazioni della riproduzione del rapporto di sfruttamento. Il sindacalismo radicale è necessariamente orientato ad offrire protezione contro i licenziamenti e assicurare compensazioni, dato che rivendicare aumenti salariali significativi è oggi senza senso (il caso dei centri di accumulazione dell'Estremo Oriente è una significativa eccezione, dato che i salari sono qui ben al di sotto di quello che è il livello di riproduzione nei paesi sviluppati). I movimenti locali di cittadini sono orientati verso la protezione della libertà di movimento e di comunicazione, contro i tentativi dello Stato di ghettizzare e militarizzare lo spazio metropolitano, e attraverso le proprie azioni, ad ottenere il mantenimento del salario differito (l'ideologia principale di queste frazioni del movimento è la “decrescita”). Queste due tendenze convergeranno nel prossimo futuro, mano a mano che la crisi dispiegherà i propri effetti. L'approfondirsi della crisi porterà a pratiche di “auto-riduzione” e a scontri con le forze repressive nei quartieri. Questo è il punto di convergenza tra i movimenti locali e il sindacalismo radicale, tra le lotte nel processo di produzione e quelle fuori di esso. Coloro che si richiamano alla “lotta armata” sono orientati verso la presunta punizione di alcune frazioni della borghesia, qualcosa di simile ad una protezione autoorganizzata contro il super-sfruttamento. Questa forma di azione diretta promuove una specifica strategia di scontro militare tra alcuni piccoli raggruppamenti e lo Stato, che può portare solo in un vicolo cieco. Coloro che sono coinvolti nel movimento d'azione diretta, riflettono, nella 24


loro presunta non-appartenenza alla classe (classe che giudicano “passiva” e/o “riformista”), la messa in questione della contraddittoria situazione proletaria. In tal modo, ciò che essi esprimono nelle loro lotte è il puntolimite di questa fase, cioè il punto in cui il proletariato è diventato eccedente. Le componenti del movimento dai toni più perentori si definiscono “rivoluzionarie” laddove non vi è ancora rivoluzione, e trovano rifugio nel concetto di “coscienza” (tutto il discorso sulla necessità che la coscienza individuale sia “cambiata fondamentalmente”) per sfuggire a questa contraddizione; costruiscono nelle loro lotte rapporti immediati (“da compagni”), producendo poi tutta un'ideologia su questi rapporti – qualcosa del tipo “rivoluzione subito” – ignorando il fatto che il comunismo non è un fatto locale o riguardante piccoli gruppi di persone. Costoro tendono a contrapporsi agli operai che hanno un lavoro (relativamente) stabile, in quanto “privilegiati”, o anche perché rappresenterebbero “la vera classe operaia con la sua coscienza piccolo-borghese”. Essi tendono inoltre a pensare se stessi come non appartenenti organicamente alla classe, poiché precari o disoccupati. L'altra faccia della medaglia è che le frazioni del sindacalismo radicale tendono a relazionarsi ai lavoratori precari come al soggetto sociale che si deve unire in quanto “classe per sé”, e a comprendere le loro azioni come altrettanti sforzi verso tale unità. Il superamento sarà prodotto a partire dai limiti attuali. La messa in questione della condizione proletaria attraverso le pratiche di azione diretta (che si manifesta come contraddizione, ovviamente) prefigura il superamento di questa condizione all'interno della lotta proletaria stessa: la futura abolizione del proletariato in quanto classe. Questo è il motivo per cui le pratiche del movimento di azione diretta vengono adottate nelle rotture che emergono all'interno delle lotte attuali; questo è il motivo per cui queste pratiche sono state fatte proprie e superate dai rivoltosi del dicembre 2008 [in Grecia]. Ovviamente, le lotte odierne sono ancora interne ai limiti del ciclo attuale, ma la produzione specifica di questi limiti (la rivendicazione di continuare a esistere, senza mettere in questione i rapporti di produzione) prefigura la dinamica del suo superamento. Il solo modo attraverso cui la lotta di classe può andare oltre se stessa, è la produzione di rotture multiple nel corso di lotte irrimediabilmente riformiste. Vi sarà una moltiplicazione di pratiche di rottura dentro queste lotte. Tali pratiche faranno necessariamente avanzare le lotte, che saranno necessariamente lotte per la riproduzione della vita contro il capitale. Ogni sforzo teso a “unificare” le lotte di differenti frazioni del proletariato in una lotta comune, che avvantaggerebbe i pretesi interessi comuni della classe (cioè ogni lotta per l'unità di classe), è una manifestazione del limite generale della dinamica odierna della lotta di classe. L'unica generalizzazione che si possa produrre è una generalizzazione di pratiche, che metterà in questione ogni stabilizzazione possibile di una “vittoria proletaria”. Queste pratiche, attraverso la loro diversità e gli intensi conflitti che produrranno all'interno delle lotte stesse, esacerberanno la crisi in cui la riproduzione del proletariato si trova già, e metteranno simultaneamente in questione la condizione proletaria per la totalità del proletariato, ovvero l'esistenza della società capitalista in quanto tale.

25


L'epoca delle rivolte è iniziata...

[23/2/2011, firmato: Agenti del caos. Distribuito ad Atene e Salonicco durante le manifestazioni per lo sciopero generale]

«Nulla brucia come un pozzo di petrolio. E i rivoltosi hanno la tendenza ad appiccare il fuoco... » (Dichiarazione di un economista alla TV araba Al-Jazeera)

La fase transitoria della crisi: dalla ristrutturazione alla rivolta Giorno dopo giorno, il vento della rivolta che sta spazzando l'Africa e il Medio Oriente, soffia sempre più forte. Uno dopo l'altro, i paesi dell'area occupano le prime pagine della stampa internazionale. Il copione è sempre lo stesso: scontri tra manifestanti e polizia e/o milizie para-statali, emanazione di regimi tendenzialmente totalitari. Malgrado gli sforzi dello Spettacolo mondiale, volti a dissimulare il carattere proletario di queste rivolte e a mettere l'accento sulle loro contraddizioni interne, presentandole come semplici movimenti «per la democrazia» o come scontri tra i sostenitori di questo o quel politico locale, non ci sono dubbi: ci troviamo di fronte a uno scontro di classe. Da una parte, i proletari impugnano pietre, bottiglie incendiarie e bastoni; dall'altra, sbirri armati fino ai denti, in preda al panico, sparano nel mucchio, uccidendo indiscriminatamente. I rivoltosi occupano edifici, bloccano strade, incendiano automobili, attaccano le prigioni per liberare i detenuti, sabotano le infrastrutture, mentre il capitale si appresta a imporre la propria dittatura in forme ancora più dure. Tuttavia, i regimi di transizione avranno non poche difficoltà a stabilizzare la situazione, trovandosi di fatto nell'impossibilità di soddisfare anche soltanto una delle rivendicazioni fondamentali che gli insorti avanzano riguardo alle proprie condizioni di vita. L'Egitto e la Libia ci offrono, al momento, le espressioni più importanti dell'attuale fase insurrezionale della crisi: l'Egitto, in virtù del suo ruolo economico e geopolitico nel quadro della concorrenza inter-capitalistica mondiale; la Libia (sorvolando sulla questione del petrolio), a causa della repentina perdita di controllo della situazione da parte dello Stato, che sta seminando il panico a livello internazionale. La crisi dell'attuale regime di accumulazione, frutto della ristrutturazione degli anni '70 e '80, smentisce il successo della ristrutturazione stessa. Nella misura in cui il capitalismo è un sistema di rapporti contraddittori, è precisamente l'approfondirsi del cosiddetto neo-liberismo a produrre l'attuale crisi storica. Ogni modello di accumulazione, per quanto appaia a prima vista stabile, implica lo sviluppo di una dinamica interna contraddittoria, che conduce all'innesco della crisi. Il successo del capitalismo ristrutturato, o in altri termini la sussunzione dell'intera esistenza del proletariato al capitale, ha assoggettato fino all'estremo la riproduzione del proletariato (e pertanto del capitale nel suo complesso) all'andamento dell'economia, rendendola più vulnerabile alla 26


crisi rispetto a qualsiasi epoca storica precedente. Oggi, ci troviamo in una fase transitoria della crisi capitalistica mondiale che ha avuto inizio nel 2008. In questo quadro, il capitale finanziario mondiale cerca di evitare la propria svalorizzazione immediata, imponendo una nuova fase draconiana della ristrutturazione all'intero pianeta. Le conseguenze di questo tentativo sono visibili ovunque, nonostante l'intensità e i caratteri dell'attacco subìto dal proletariato varino da paese a paese: in primo luogo, secondo il posto occupato da ciascuno Stato all'interno della gerarchia capitalistica mondiale; in secondo luogo, in relazione allo stadio di volta in volta raggiunto dalla prima fase della ristrutturazione; infine, e soprattutto, in funzione della storia della lotta di classe in ciascuna regione. Nel mondo intero (fatta eccezione per la Cina), la ristrutturazione implica una diminuzione del salario diretto e indiretto (prestazioni non monetarie sotto forma di servizi forniti dallo Stato), l'interdizione di fatto della rivendicazione salariale, l'aumento dei prezzi dei generi di prima necessità – dovuta, da un lato, al meccanismo oggettivo della crisi e, dall'altro, al fatto che vi sono frazioni del capitale che speculano apertamente sui prezzi degli alimenti di base, approfittando, tra l'altro, del crollo della produzione di cereali che si è avuto quest'anno. Una conseguenza specifica di questo genere di speculazione, è che la parte maggiormente svalorizzata del proletariato mondiale non ha più, letteralmente, di che mangiare. «I prezzi sono aumentati al punto che, se compro qualche limone per la mia gola irritata, rimarrò al verde per il resto del mese» – ha dichiarato un lavoratore del Ministero dei Trasporti egiziano. Nel pieno della tempesta della crisi economica, ogni sostegno statale alla sopravvivenza della forza-lavoro eccedente viene meno, con il risultato che il lavoro nero e la miseria si diffondono. I proletari, per sopravvivere, sono costretti a lavorare (soprattutto in nero); ma allo stesso tempo, a causa della crisi, diventa impossibile trovare un impiego o vendere la propria forza-lavoro a un prezzo che sia sufficiente a garantire la propria riproduzione elementare. Il proletariato esige di sopravvivere e chiede di conseguenza la riduzione del prezzo delle derrate alimentari, posti di lavoro e aumenti salariali – questo è il tributo che paga alla fame. Attraverso le sue rivendicazioni, esso chiede disperatamente ai capitalisti, di salvare il capitalismo! Allorché i proletari chiedono un lavoro stabile e un salario “decente”, non fanno che dire ai capitalisti: «Voi avete bisogno di noi! Senza di noi non ci può essere estrazione di plusvalore, non ci può essere capitale». Da parte sua, il capitale rende noto, attraverso le sue pratiche, che non può permettersi il lusso di lasciare che il proletariato sopravviva: esso rende esplicito con ogni mezzo, che una parte (cospicua) del proletariato è di troppo; e inoltre – e questo è l'aspetto più importante – che il suo progetto di rilancio dell'accumulazione, non implica la reintegrazione di quella parte del proletariato che rappresenta ormai una popolazione strutturalmente eccedentaria. Ne consegue che, storicamente, le rivendicazioni salariali dei proletari sono prodotte come necessarie e, al contempo, non hanno alcuno sbocco (e questo, a un livello non congiunturale, ma strutturale!). La rivolta di questo proletariato eccedente e senza futuro, si scontra con la forma più scoperta e brutale del dominio del capitale: la repressione. La via d'uscita dalla crisi perseguìta dai capitalisti, non prevede il coinvolgimento di questa sovrappopolazione proletaria; ed è precisamente in virtù di questo fatto, che la polizia diventa la forma generale della riproduzione del capitalismo contemporaneo. Ovunque, nel mondo, i proletari vivono la loro precaria situazione sotto forma di un'asfissia. La povertà e la ghettizzazione definiscono il quadro di questa situazione. Ne sono esempi evidenti Frontex (la polizia di frontiera 27


dell'Unione Europea), l'analoga forza poliziesco-militare dispiegata dagli Stati Uniti lungo il confine con il Messico, le baraccopoli operaie cinesi presidiate dall'esercito, le gated communities latino-americane e le immense favelas che fanno loro da contraltare; senza dimenticare la versione greca di tutto ciò: la barriera di 12,5 Km costruita lungo il fiume Evros, al confine con la Turchia. L'intero pianeta evolve lentamente, ma irresistibilmente, verso un regime di apartheid: i bantustan del XXI secolo sono destinati alla classe operaia. Questa dinamica della repressione, sul piano urbanistico, determina l'asfissia dei proletari e, al contempo, mette in discussione uno dei presupposti fondamentali del capitalismo: la libera vendita della forza-lavoro. Al Cairo, questo tipo di urbanismo si è realizzato a ritmi forsennati (analoghi ai tassi di crescita economica) nel corso degli ultimi dieci anni. La dittatura del valore e dell'Economia, in tutte le regioni dell'Africa e del Medio Oriente dove oggi il proletariato si ribella, assume anche la forma politica della “democrazia dittatoriale”. La ragione per cui queste rivolte preoccupano tanto le borghesie di tutto il mondo, è che la dittatura democratica, il totalitarismo, anche nei paesi maggiormente sviluppati, cattura sempre di più l'immaginazione delle classi dominanti, quale unico mezzo in grado di imporre la seconda fase della ristrutturazione. Le manifestazioni e le sommosse, in tutti questi paesi, hanno origine sul terreno della riproduzione; il problema è se esse si estenderanno o meno a quello della produzione, al cuore del capitalismo. Gli scioperi che hanno seguìto la caduta del dittatore socialista Mubarak, sembrano andare in questa direzione. Ovunque, i capitalisti guardano con angoscia a questo fazzoletto di mondo, con il dito pronto sul grilletto, poiché gli Eldorados si sono all'improvviso trasformati in trappole mortali, in regioni instabili e dall'avvenire incerto. Gli “immensi vantaggi concorrenziali” si sono trasformati, pressoché da un giorno all'altro, in un “pericolo incontrollabile”. I subappalti, il turismo, la costruzione di infrastrutture, l'industria tessile, e soprattutto il petrolio e le vie commerciali (Suez, Golfo Persico), sono investiti dalle fiamme della rivolta proletaria. Dopo la Tunisia, l'Egitto e la Libia, paesi dove la rivolta è ancora in corso, in Bahrein, Iran e Algeria, lo Stato pratica la prevenzione attraverso l'assassinio. Il regime greco cerca di prevenire la rivolta che si avvicina in due modi distinti: da una parte, si prepara all'instaurazione ufficiale di una dittatura (eventualmente, attraverso le elezioni); dall'altra, preso nelle contraddizioni dei suoi antagonismi interni, tenta di incanalare le reazioni dei proletari verso uno sbocco populista/nazionalista di destra o, in caso di ulteriori complicazioni, di sinistra. I funzionari del capitale finanziario mondiale, che detengono provvisoriamente il potere all'interno dello Stato greco, sperano ora, dopo i successi conseguiti sul terreno della riduzione dei salari, di avere il tempo necessario per svendere il patrimonio dello Stato. Questa liquidazione non è altro che un tentativo di valorizzare il capitale potenziale che si trova immobilizzato nel sistema finanziario greco e (soprattutto) europeo, ed è minacciato da una massiccia svalorizzazione. Di contro, i proletari rifiutano questa svendita, poiché comprendono che essa equivale a un'ulteriore riduzione del loro salario indiretto e, più in generale, a un deterioramento delle loro condizioni di vita. Essi rifiutano di pagare il biglietto dei mezzi di trasporto e i pedaggi, occupano edifici, cercano di ampliare in tutti i modi possibili gli effetti della crisi, anche se per il momento soltanto all'interno della sfera della circolazione e della riproduzione. Gli scioperi scoppiati nei settori colpiti dalla ristrutturazione, non sono stati all'altezza dell'offensiva capitalistica: il sindacalismo, in quanto mediazione, spara qui le sue ultime 28


cartucce. La storia è gravida di possibilità. Qualunque strategia il capitale sceglierà di applicare in Grecia, si rivelerà un'arma a doppio taglio. L'instaurazione di una dittatura implica il rischio che il virus della ribellione attraversi il Mediterraneo, facendo impallidire, al confronto, i fatti del dicembre 2008, con tutto ciò che ne conseguirebbe per gli altri paesi europei. D'altro canto, un rallentamento della ristrutturazione rischierebbe di far perdere allo Stato greco il treno dell'integrazione nell'Europa politicamente unificata, relegandolo nella «terza zona» del capitale, con il risultato di mettere in pericolo gli interessi dei settori più importanti del capitalismo greco. In ogni caso, per i proletari che vivono in Grecia, esiste soltanto una strada percorribile, qualunque sia lo scenario che si delineerà: una lotta di classe sempre più dinamica. È possibile che non si avranno, in tempi brevi, altri scioperi-farsa come quello del 23 febbraio; ma i fronti di lotta si moltiplicheranno giorno dopo giorno, e l'irruzione della rivolta non potrà essere contenuta a lungo. Incentrate sulla difesa dell'esistenza stessa di un salario e, più in generale, su una reazione al deterioramento degli standard di vita, le lotte rivendicative del proletariato, attraverso il loro sviluppo e il loro palese fallimento, si orientano verso una rottura con il proprio contenuto rivendicativo. Tale rottura si annuncia già oggi in casi come quello di Keratea, e apparirà come un carattere specifico di tutti gli scontri a livello locale. Il contenuto delle rotture renderà impossibile un'unificazione politica e, dunque, una mediazione efficace all'interno dei conflitti. Ad esempio, la repressione che probabilmente colpirà il movimento «Non pagheremo la loro crisi», potrebbe portare lo scontro fino al punto in cui venga messa in questione l'esistenza stessa dei mezzi di trasporto. Questo sviluppo dinamico delle rotture non potrà giungere a compimento e stabilizzarsi in una serie di conquiste per la classe operaia, ma potrà soltanto rappresentare l'inizio di un processo rivoluzionario.

Un dibattito sull'insurrezionalismo

[Il primo testo qui pubblicato è apparso anonimo su comunizacion.org nel giugno 2011, con il titolo: Una vez màs: debate sobra la comunizaciòn. Sono seguìte, nel mese successivo, la traduzione francese, apparsa su dndf.org, e la replica di Amer Simpson, pubblicata sul medesimo sito web senza titolo particolare]

Nell'aprile 2010 si è svolto un breve ma sostanziale dibattito tra il curatore di questo sito [comunizacion.org, ndt] e gli editori della fanzine “Comunismo Difuso”. Al centro della discussione era la portata della teoria della comunizzazione, soprattutto in relazione ad alcune correnti vicine all'anarchismo insurrezionalista. In effetti, qualche partigiano dell'ideologia insurrezionalista rivendica in certo modo di essere l'“espressione pratica” della teoria della comunizzazione. I più cauti, come il “Comité Invisible”, suggeriscono che se un gruppo condivide un'abitazione e pubblica testi contro il sistema, esprimerebbe già la comunizzazione in atto. Altri, più esagitati, si limitano ad assemblare parole 29


che “suonano” loro bene, lasciando intendere che gli “attacchi” insurrezionalisti sarebbero in sé azioni comunizzatrici. Esistono fondamentalmente due modi di approcciare questo errore: 1) Scavare nella storia della corrente comunizzatrice, per verificare se quest'ultima condivide un origine comune con l'insurrezionalismo anarchico o se, in qualche punto, ci sia stato un rapporto con gruppi appartenenti a questa tendenza, e in cosa sia consistito questo rapporto. Per un approccio generale a questa storia, consiglio la lettura de Le roman de nos origines. Allo scopo di comprendere in modo specifico le tortuose relazioni tra le idee comunizzatrici e il movimento insurrezionalista italiano, è necessario leggere Apocalisse e sopravvivenza di Francesco Santini. 2) Stigmatizzare l'errore ogni volta che si manifesta, che sia per ignoranza o per omissione. È questo, oggi, ancora una volta il caso. A un anno di distanza dal dibattito citato, un nuovo progetto che va sotto il nome di “Desvío Editorial”, ha messo in circolazione un libro dal titolo Hacia la Comunidad Humana: Comunización y Revolución Social. La confezione del volume è ben riuscita, poiché include non soltanto alcuni testi prodotti dalle più importanti espressioni della corrente comunizzatrice, come la rivista “Troploin”, ma anche un articolo di Anselm Jappe, il quale, pur non appartenendo a questa tendenza, integra opportunamente queste teorie, aiutando a collocare le idee comunizzatrici nel più ampio contesto teorico della critica dell'economia politica marxiana. Se ci si fosse limitati a questo, mi sarei accontentato di rallegrarmi per la diffusione di questi testi in forma di libro, mantenendo un rispettoso silenzio su un'iniziativa fin qui assai pertinente. Ma c'è di più. L'inclusione nel volume di un testo del “Comité Invisible”, e soprattutto il commento contenuto nella “Nota editoriale”, dove si insinua una parentela tra la corrente comunizzatrice e l'insurrezionalismo italiano, mi costringe ancora una volta a contestare la surrettizia associazione tra queste due correnti. Sotto il nome di “comunizzazione” va un insieme estremamente eterogeneo di teorie e proposizioni pratiche, tra le quali l'insurrezionalismo anarchico occupa un posto dubbio, o peggio. La genealogia della “corrente comunizzatrice” – i cui primi riferimenti espliciti datano dall'inizio degli anni '70 – ha pochi rapporti con l'anarchismo, poiché essa appartiene al lignaggio marxista delle frazioni comuniste di sinistra che si staccarono dalla Terza Internazionale, e la cui attitudine nei confronti degli anarchici ha sempre oscillato tra il disprezzo e la diffidenza... I situazionisti, che possono essere considerati gli antecedenti diretti della corrente comunizzatrice, espressero un punto di vista molto più aperto rispetto al tipo di anarchismo rappresentato, ad esempio, dalla Colonna di Ferro; tuttavia essi non rinunciarono a criticare – come Debord ne La società dello spettacolo – l'individualismo anarchico come qualcosa di semplicemente “ridicolo”. Su un altro versante, si potrebbe rintracciare tutt'al più qualche connessione precaria, che porta invariabilmente a una rottura o a una distanza tra comunizzatori e anarchici: è questo il caso del MIL, che intrattenne rapporti con il gruppo parigino di Jean Barrot (“Le Mouvement Communiste”) e che manifestava apertamente le sue simpatie per l'anarchismo di Durruti e di Quico Sabaté; ma l'atteggiamento del MIL nei confronti de “Le Mouvement Communiste” fu alquanto segnato dalla diffidenza e da un opportunismo dichiarato. Altri casi, forse più emblematici, si trovano nel testo già citato di Francesco Santini sull'esperienza gruppuscolare italiana. A questo si limitano i rapporti tra la corrente 30


comunizzatrice e l'anarchismo. Per quanto riguarda i gruppi contemporanei che hanno condotto un'attività “comunizzatrice” – soprattutto in Francia e in Inghilterra – se una cosa distingue l'attività di questi gruppi, è proprio la discrezione e la pazienza, qualità che possono corrispondere a quelle di alcune tendenze dell'anarchismo sociale, ma che sono molto lontane dallo stile spaccone e dall'imprudenza dell'insurrezionalismo italiano. In effetti, tra la corrente comunizzatrice e l'insurrezionalismo, non esiste soltanto un'evidente differenza di stile; ciò che soprattutto li distingue, è la loro maniera di comprendere praticamente e teoricamente il capitalismo e il significato dell'essere anticapitalisti. Mentre i comunizzatori cercano e tentano dei modi di esistenza antagonisti al sistema, gli insurrezionalisti non fanno che esaltare spasmodicamente la loro propria deriva esistenziale, innamorati come sono dei due tratti che distinguono la loro personalità, e quella di tutti gli uomini mercantilizzati: l'impazienza e l'individualismo. Su un piano più generale, mentre la corrente comunizzatrice tende a situarsi storicamente, facendo dipendere la propria prospettiva da un insieme di possibilità pratiche, l'insurrezionalismo non fa che agitarsi attorno ad alcune nozioni pragmatiche e immediatiste, senza che le sue pubblicazioni abbiano mai teorizzato la comunizzazione, o anche soltanto qualche cosa che vi si avvicini. Basta leggere Alfredo Bonanno, la sua eminenza teorica, per rendersene conto. Perché allora insistere a collegare due prospettive così differenti? La ragione è che l'insurrezionalismo è del tutto sprovvisto di qualsivoglia base teorica solida (ciò che assomiglia di più a questa base, sono le idee di Bonanno sulla fine delle classi sociali e le interminabili idiozie di Pombo da Silva). E siccome nessun movimento può appoggiarsi esclusivamente al proprio martirologio, l'insurrezionalismo ha finito per chiedere aiuto alla teoria della comunizzazione, per fabbricare l'immagine fittizia di un movimento provvisto di un'autentica base teorica. La realtà è che non esiste alcun punto di contatto tra la teoria comunizzatrice e l'insurrezionalismo. Tutt'al più si può parlare di un'assimilazione superficiale della prima da parte del secondo. Qualcuno interessato alla questione, potrà dimostrare facilmente che gli insurrezionalisti sono i soli a compiacersi di indossare gli abiti delle teorie della comunizzazione. Sul versante della corrente comunizzatrice – che io sappia – non vi sono né individui né gruppi che simpatizzino per l'insurrezionalismo; né esistono elementi teorici che possano offrire un sostegno alle pretese degli insurrezionalisti. “Desvío Editorial” ha voluto lavare il bambino nell'acqua sporca del cesso. In effetti, assumere come punto di partenza il fatto che i movimenti anticapitalisti hanno abbandonato l'orbita del marxismo-leninismo per abbracciare l'influenza dell'insurrezionalismo italiano, significa cadere in errore fin dalla prima pagina, lasciando briglia sciolta all'ingenuità magniloquente che caratterizza Ai ferri corti... Il declino del marxismoleninismo ha certamente aperto la strada a un'infinità di pratiche e di teorie anticapitaliste, che hanno assunto grande vigore; tuttavia l'insurrezionalismo italiano è lungi dal poter essere annoverato tra le migliori di esse. La ristrutturazione delle logiche politico-organizzative dei movimenti anticapitalisti è un fatto. Nondimeno, questo cambiamento può difficilmente essere attribuito a una pratica che è incapace di produrre la sua propria spiegazione, che adotta in modo incongruente teorie che rifiuta di discutere, e che a malapena sopravvive grazie alla visibilità mediatica che gli garantiscono i suoi attentati all'esplosivo. 31


È ben più probabile che, in modo impercettibile, le intense discussioni della corrente comunizzatrice stiano facendo il loro corso ed esercitino la loro influenza in seno ai movimenti anticapitalisti, proprio perché coinvolgono persone che non cedono alla disperazione e che hanno saputo mantenere vive le qualità che da sempre distinguono i rivoluzionari: modestia, serenità, visione d'insieme e senso storico dell'azione. *** Una risposta di Amer Simpson Per stabilire se la corrente comunizzatrice «condivide un'origine comune con l'insurrezionalismo anarchico», occorre uscire da quadro nel quale l'autore dell'articolo pone la questione.

I Non esistono pratiche che in sé possano rispondere a tutte le situazioni che non si sono ancora presentate; la rivoluzione è la coincidenza della trasformazione degli individui e delle circostanze: l'auto-trasformazione. La corrente insurrezionalista parte dal principio che la sua pratica attuale, che risponde alle circostanze attuali, abbia per natura (!) un'essenza rivoluzionaria. La trasformazione dell'individuo precede dunque le circostanze... Si tratta né più né meno di costruire l'ideologia della scelta, vale a dire che per gli insurrezionalisti le condizioni presenti si scindono in due aspetti: si pongono allo stesso tempo come un'oggettività materiale costrittiva e una soggettività che si trova di fronte all'alternativa se partecipare o meno alla società intesa come costrizione. È sul rifiuto di partecipare che la corrente insurrezionalista fonda la rivoluzione, ma la fonda separando le condizioni presenti del capitalismo dall'attività del proletariato, come se non esistesse alcun rapporto tra i due o, piuttosto, come se tale rapporto non fosse il fondamento stesso di queste due realtà, là dove il contenuto di ciascuna non è che il rapporto dell'una – il proletariato – la cui esistenza coincide totalmente con la riproduzione del capitale – all'altra. L'individuo e la società sono infatti i due punti fissi del medesimo rapporto: lo sfruttamento di una classe da parte dell'altra; ed è l'insieme di questo rapporto che si trasforma nella lotta. Dunque, non solamente gli individui che coscientemente decidono di agire sulle circostanze, né soltanto le circostanze che agiscono inconsapevolmente sugli individui, bensì il rapporto è ciò che produce queste due realtà. La distruzione delle categorie del capitale implica necessariamente una trasformazione dei comportamenti proletari, ma questa trasformazione non è un presupposto più di quanto sia un risultato.

II La corrente insurrezionalista è una produzione teorica allo stesso titolo dell'insieme degli altri atti e discorsi che sono prodotti dal corso quotidiano della lotta di classe. Infatti, è la lotta a produrre la sua teoria, attraverso l'insieme delle pratiche che cercano di rispondere a una situazione particolare, all'interno di una congiuntura che detta il ritmo della lotta stessa. La produzione capitalistica produce storicamente il proprio superamento, ma lo produce in quanto pluralità di lotte disperse dentro le categorie del capitale, essendo ciascuna il contenuto della fase attuale della lotta di classe. Le lotte sono dunque teoriche: sono esse che producono l'insieme dei contenuti che 32


le differenti correnti ideologiche traducono in maniera più o meno adeguata. Nessuno è in grado di fornire una risposta complessiva, ma soltanto una risposta adeguata ad alcuni problemi particolari sulla base di una prospettiva generale. In queste condizioni, tutti hanno qualcosa da dire, poiché tutti si confrontano con la medesima situazione a partire da posizioni differenti. Ecco perché la corrente insurrezionalista è coinvolta e messa a confronto con le lotte tanto quanto la corrente comunizzatrice.

III La corrente insurrezionalista appartiene alla sua epoca (esattamente come la corrente comunizzatrice), vale a dire che essa cerca di rispondere alle questioni poste dal ciclo attuale della lotta di classe: la riproduzione del capitale è identica alla riproduzione del proletariato in quanto classe. Questa identità nella riproduzione complessiva del rapporto di classe, costringe i proletari in lotta a porre le loro proprie attività di classe – ciò che essi sono in quanto classe del lavoro di fronte al capitale – come qualcosa che devono rimettere in questione e superare. Vi è la necessità di abolire la propria riproduzione in quanto classe, poiché essa è al contempo la riproduzione del capitale come orizzonte insuperabile e costrizione esteriore. È all'interno di questa dinamica che tutti e tutte siamo implicati; dinamica che produce all'interno delle lotte uno scarto tra il fatto di agire in quanto classe e il fatto che tale «agire in quanto classe» riproduce le condizioni presenti dello sfruttamento. Tuttavia, per gli insurrezionalisti, questa dinamica esprime qualche cosa di più che la semplice realtà attuale della lotta di classe. Il problema appare quando questa dinamica si autonomizza rispetto al corso quotidiano della lotta, e diventa una metodologia generale slegata da ogni circostanza particolare; detto altrimenti, la pratica insurrezionalista prende se stessa per la dinamica del ciclo di lotte, anziché percepirsi come una delle sue tante espressioni. È in virtù di questa sostituzione che gli insurrezionalisti sono in grado di produrre la propria attività – quella in cui «un gruppo condivide un'abitazione e pubblica dei testi contro il sistema» – e di parlarne come se si trattasse della «comunizzazione in atto», o ancora della rivoluzione immediata, nella quale la dinamica dell'attuale ciclo di lotte – il fatto di agire in quanto classe per difendere la propria riproduzione e, allo stesso tempo, di essere costretti a rimetterla in causa e dunque agire contro questa stessa riproduzione – diventa un'alternativa tra due pratiche concorrenti: quella che accetta e quella che rifiuta la società come costrizione. È dunque a partire dalla scelta di rifiutare la costrizione a riprodursi in quanto classe all'interno della società capitalistica, che la corrente insurrezionalista esprime il contenuto del ciclo di lotte attuale, ma in una forma ideologica, che le permette di esistere come gruppo distinto dal resto della classe e di riferirsi alla propria pratica per definire la rivoluzione.

IV Il problema della corrente insurrezionalista – se esiste – non è dunque la ricerca di una teoria corrispondente alla sua pratica – là dove si suppone che «l'insurrezionalismo è del tutto sprovvisto di qualsivoglia base teorica» e che, «incapace di produrre la sua propria spiegazione, [...] adotta in modo incongruente teorie che rifiuta di discutere e [...] a malapena sopravvive grazie alla visibilità mediatica che gli garantiscono i suoi attentati all'esplosivo» –; e non è nemmeno il fatto che l'insurrezionalismo e la corrente comunizzatrice possiedono una differente maniera «di comprendere praticamente e 33


teoricamente il capitalismo e il significato dell'essere anticapitalisti», e che di conseguenza non esiste «alcun punto di contatto tra la teoria comunizzatrice e l'insurrezionalismo», se non una «assimilazione superficiale» da parte del secondo di ciò che la prima ha sin qui prodotto; né il problema sono, a maggior ragione, «l'impazienza e l'individualismo» di questa corrente, la sua mancanza di «modestia, serenità, visione d'insieme e senso storico dell'azione», o ancora una «deriva esistenziale […] attorno ad alcune nozioni pragmatiche e immediatiste» – nulla di tutto ciò vale a spiegare perché questa corrente esiste. Perché, in tutta evidenza, questa corrente – non fosse che per la sua stessa pratica – è e resta una teoria ristretta di ciò che le lotte producono come teoria d'insieme, una risposta particolare alla questione generale posta dalla nostra epoca: come una classe, in virtù della sua collocazione all'interno del processo di sfruttamento, possa, attraverso la propria attività di classe, abolire le classi e dunque abolire ciò che costituisce la sua stessa esistenza e la sua riproduzione in quanto classe.

V Secondo l'articolo al quale rispondo, la corrente insurrezionalista sarebbe sorta dal movimento autonomo italiano degli anni '70 – allo stesso modo in cui la corrente comunizzatrice sarebbe nata dai gruppi che hanno tentato di superare le contraddizioni delle sinistre comuniste (la cosiddetta ultragauche) negli stessi anni – e trarrebbe quindi origine dalla disfatta del movimento operaio seguìta alla crisi rivoluzionaria degli anni '60 – dalla repressione dei movimenti contestatari, dalla distruzione dei bastioni operai, dalla delocalizzazione, dal subappalto, dalla deregolamentazione del lavoro, dall'integrazione a livello di massa dei giovani e delle donne nel mercato del lavoro, dalla individualizzazione amministrativa della manodopera e dei suoi diritti sociali, dal disimpegno dello Stato etc. – in breve, da tutto ciò che riguarda direttamente o indirettamente la fine dell'identità operaia e la riproduzione del proletariato come massa di individui proletarizzati piuttosto che come classe. Da questo punto di vista, la corrente insurrezionalista, tanto nella sua pratica quanto nel suo discorso, farebbe così parte del movimento che ha espresso quella critica del programmatismo (nel quale sia l'ultragauche che i situazionisti si sono dibattuti) che sfocerà nella teoria della comunizzazione e nei suoi dibattiti. Ma la ragione per cui ne fa parte, non ha niente a che vedere con il fatto che sotto il concetto di comunizzazione si trova «un insieme estremamente eterogeneo di teorie e proposizioni pratiche», anche equivoche o pessime; la ragione è che questa corrente – presa in un movimento più ampio – è parte di un altro “insieme” che è l'epoca nella quale siamo tutte e tutti imbarcati e che determina l'insieme delle azioni e dei discorsi propri delle lotte di classe attuali.

VI Da un punto di vista storico, è meno la corrente insurrezionalista che ciò che rappresenta, a risultare interessante. Ma per capire il contesto nel quale si inscrive questa corrente, occorre comprendere brevemente (me ne scuso!) in cosa consista la ristrutturazione del modo di produzione capitalistico che ha fatto nascere e ha permesso alla corrente comunizzatrice di esistere come tale. Ciò che è visibilmente manifesto a partire dalla ristrutturazione degli anni '70-'80, è che il riconoscimento del proletariato in quanto classe all'interno della riproduzione del capitale – tutto ciò che definiva la classe operaia come interlocutore nella compravendita della forza-lavoro e 34


all'interno del processo di produzione – è venuto meno. A partire da questo momento, la rivoluzione non si pone più negli stessi termini, poiché tutto ciò che permetteva al proletariato di costituirsi – a partire da se stesso – in classe autonoma di fronte e contro il capitale (autorganizzazione), è diventato riproduzione del capitale, o meglio riproduzione del proletariato all'interno delle categorie del capitale. Oggi non esiste più un'identità operaia, la borghesia non ha più bisogno di riprodurre il proletariato come all'epoca del “compromesso fordista”, cioè come una forza collettiva a cui riconoscere un certo potere all'interno dell'impresa ed egualmente nel governo, a causa del suo potere d'acquisto, del suo ruolo di consumatore, divenuto indispensabile allo sviluppo capitalistico dopo la crisi rivoluzionaria degli anni '20. In effetti, a quell'epoca, la produzione capitalistica, divenuta più intensiva grazie all'introduzione della catena di montaggio (fordismo) e dell'organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo), costringe i capitalisti a vendere una maggiore quantità di merci per poter realizzare la trasformazione del plusvalore in capitale addizionale. Per fare ciò, le classi capitaliste imperialiste sono storicamente costrette – oltre a fare la guerra – a integrare la classe operaia non soltanto all'interno della produzione, ma anche nella sfera del consumo, e infine a farsi carico della riproduzione allargata del proletariato (keynesismo) nei rispettivi territori nazionali. Si viene così a determinare una situazione in cui per chiudere il ciclo della valorizzazione del capitale (capitale/produzione di plusvalore/merce/capitale addizionale), i capitalisti devono riconoscere formalmente la classe operaia come un attore interno allo sviluppo capitalistico di ciascuna nazione. È questa situazione che permette ai sindacati e ai partiti operai di diventare potenti interlocutori dei capitalisti e, di conseguenza, al proletariato di essere riconosciuto, in quanto classe operaia, all'interno della riproduzione del capitale. È altresì questa situazione che consente ai regimi fascisti di instaurarsi in alcuni paesi non proprio trascurabili da un punto di vista geopolitico. Ma la necessità, per il capitale, di integrare la riproduzione del proletariato nella sua propria riproduzione, sulla base del riconoscimento di una classe del lavoro organizzata sindacalmente e politicamente su scala nazionale, è storicamente un “compromesso” che i capitalisti saranno costretti a smantellare durante la crisi degli anni '60-'70; questa ristrutturazione avrà come obiettivo quello di andare oltre i limiti che tale “compromesso” ha accumulato a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ora che questo “compromesso” non è più necessario, la riproduzione del proletariato all'interno della riproduzione del capitale non ha più bisogno di confermare alcuna identità di classe, alcun “potere operaio”, alcuna base sulla quale i proletari possano organizzarsi per costruire, contro il capitale, una fase di transizione verso il comunismo. Quest'epoca – questo ciclo di lotte – è definitivamente chiusa.

VII La comunizzazione è il prodotto di un nuovo ciclo di lotte che pone l'identità della riproduzione delle classi come un limite che appare nell'attività rivoluzionaria del proletariato. Dato che la riproduzione del capitale – che implica necessariamente la riproduzione del proletariato in quanto forzalavoro sempre disponibile in rapporto ai mezzi di produzione – non conferma più alcuna identità di classe capace di ostacolare la riproduzione complessiva del processo di sfruttamento, ne risulta che la vita dei proletari, tutto ciò che essi sono in quanto appartenenti a una classe, è diventata in quanto tale riproduzione del capitale, ma come qualcosa che è loro estraneo e li divide in permanenza. La maggioranza dei proletari non si identifica più alla 35


classe come a qualche cosa di proprio, ma come a una costrizione esteriore, un obbligo sociale per guadagnarsi di che vivere. Gli insurrezionalisti non sfuggono a questa realtà, anche se talvolta credono di farlo. Non si sfugge alla costrizione per mezzo di una scelta; la costrizione è piuttosto ciò che appare nella lotta, allorché i proletari pervengono a porre le loro attività – ciò che sono in quanto classe del lavoro, di fronte e contro al capitale – come qualche cosa che deve essere rimesso in causa e superato; e questo per la semplice ragione che la lotta è l'unico momento in cui si produce lo scarto che permette di parlare della riproduzione del proletariato come di una costrizione. Sono le lotte a essere teoriche. È negli scioperi “suicidi”, nella distruzione delle fabbriche da parte degli operai, nel movimento dei disoccupati che rifiutano di lavorare, nelle lotte degli studenti che non rivendicano nulla, nei rivoltosi che distruggono il proprio quartiere etc., che la riproduzione del proletariato appare come limite della lotta, costrizione da superare – e non dentro una pratica che si autonomizza dalle lotte per farsi contemplare come “rottura”.

VIII Esiste un rapporto tra le rivolte e la corrente insurrezionalista, che permette a quest'ultima di ricavarsi una nicchia dove esistere. Ma per cogliere tale rapporto, occorre capire in che modo il contenuto della rivolta coincida non tanto con la situazione particolare che la provoca e la collega a un luogo e a un torto precisi, ma con l'epoca in cui questa situazione particolare si inscrive, ciò che fa sì che una rivolta – allo stesso titolo di uno sciopero – produca una teoria peculiare a quest'epoca. Il contenuto attuale della sommossa si trova nell'identità della riproduzione del proletariato all'interno della riproduzione del capitale in quanto processo di sfruttamento. Nel momento in cui la riproduzione del capitale non riproduce più alcuna identità di classe, la sommossa è molto più appropriata allorché si manifesta una rivolta collettiva che concerne tutti gli aspetti della vita, e nella quale tutta l'esistenza del proletariato in quanto classe sta di fronte ai proletari come insieme di costrizioni materiali da distruggere, istituzioni corrotte da saccheggiare, simboli della propria miseria da bruciare. Le rivolte sono in qualche modo una maniera di scioperare per coloro che non hanno un luogo di lavoro come punto di applicazione della propria collera. La rivolta è divenuta un elemento teorico dell'attuale ciclo di lotte, poiché il corso quotidiano della lotta di classe non attraversa più solamente la produzione, ma l'insieme delle categorie sociali che riproducono il proletariato come classe in rapporto reciproco e contraddittorio col capitale. Questa teoria della rivolta come momento privilegiato dell'assalto contro la società – per la semplice ragione che esso investe la totalità della vita quotidiana – è già stata sviluppata dai situazionisti, e ha seguito il suo corso fino ai giorni nostri (si pensi alla teleologia delirante della «Bibliothèque des Émeutes» o alla sparate di «Tiqqun» sul Comitato Invisibile e il Partito Immaginario). Ma una teoria della rivolta non è una teoria della rivoluzione. Fuori dal corso quotidiano delle lotte, la rivolta non è nulla. La sommossa, in se stessa, non può essere concepita che sotto il concetto di “debordamento”, poiché tutte le identità sociali vi risultano temporaneamente sospese, trasformando coloro che partecipano alla rivolta in rivoltosi che attaccano le condizioni presenti; dico temporaneamente perché, fuori dal momento della rivolta, coloro che vi prendono parte ritrovano sempre la normalità delle condizioni presenti e delle loro identità sociali. La rivolta non ha alcuna possibilità di permanenza – non più di ciò che viene vissuto durante la rivolta stessa –, ma in questo breve 36


lasso di tempo, la costrizione alla riproduzione del proletariato in quanto classe, si manifesta in ciò che viene distrutto, saccheggiato, bruciato etc., cioè, più o meno, tutto ciò che riguarda la vita dei proletari nella loro miseria quotidiana. Ma dopo il dicembre 2008, la teoria della rivolta ha raggiunto i propri limiti: l'epoca delle rivolte non è già più la stessa.

IX Il rapporto che unisce e contemporaneamente separa la corrente insurrezionalista dalla rivolta, dipende dall'autonomia conferita al contenuto della rivolta stessa, ovvero al fatto di “agire in quanto classe” e al contempo di rimettere in causa questo “agire in quanto classe” all'interno dell'attività di lotta contro il capitale. La corrente insurrezionalista si rappresenta la dinamica del ciclo di lotte attuale come qualche cosa che le è proprio, o piuttosto qualche cosa che è possibile riprodurre a partire da determinate condizioni oggettive e soggettive. Questa corrente pone ciò che si manifesta nella lotta – cioè la riproduzione del proletariato in quanto vincolo esteriore – come una costrizione della società capitalistica, di fronte alla quale la rimessa in discussione della propria riproduzione in quanto classe diventa una scelta individuale tra il partecipare alla società oppure combatterla. Il problema di questo tipo di posizione, è che essa si distacca dal corso della lotta di classe e si pone di fronte alla lotta come la rottura personificata, “la comunizzazione in atto”; detto altrimenti, le pratiche volte a combattere la società sperimentate e acquisite finora all'interno di condizioni già note, diventano il bagaglio di esperienze sul quale questa corrente fonda e definisce la propria esistenza, in quanto strategia rivoluzionaria adeguata ad ogni situazione. Non è più la lotta a produrre la rottura, ma la rottura ad andare in soccorso della lotta; non sono più gli individui proletarizzati che vedono manifestarsi nella loro lotta contro il capitale la propria riproduzione in quanto costrizione, ponendo in tal modo ciò che essi sono all'interno di questa società e la società stessa, come qualche cosa che dev'essere rimesso in causa e superato attraverso la comunizzazione; ma sono alcuni individui coscienti del loro scontro con la società del capitale che, al di fuori delle lotte, si rappresentano questa società come una costrizione permanente, e immaginano di poter scegliere individualmente, nel quotidiano, il partito della sua rimessa in causa e praticare immediatamente la comunizzazione. Gli insurrezionalisti cercano dunque, né più né meno, di ricreare le condizioni della rivolta ovunque vi sia contestazione. Nell'epoca attuale, allorché le lotte sono appunto caratterizzate da una dinamica che le conduce a creare situazioni nuove, che esigono un superamento di ciò che è stato accumulato come patrimonio di esperienze passate, essi sperano di ritrovare nella rivolta il già conosciuto o – ancor più “avanguardisticamente” – di fare in modo che la propria presenza sia l'esempio in atto della rivolta. Questa corrente si richiama alla comunizzazione ritualizzando la rivolta come azione diretta: il danneggiamento, lo scontro con la polizia, il saccheggio etc.; o ancora ideologizzando la rivolta come alternativa: critica delle identità sociali, negazione della proprietà e della legalità, sperimentazione collettiva di nuovi rapporti tra gli individui; per dare infine vita a un'identità riproducibile e riconoscibile all'interno del corso quotidiano della lotta di classe: la corrente insurrezionalista.

X L'esperienza migliore non consiste nel saper prestare attenzione alle novità 37


che emergono nella lotta e nel lasciarsi alle spalle ciò che siamo stati. Se è vero che la rivendicazione non può più offrire alcunché di stabile e permanente – nella misura in cui non vi sono più alternative da costruire a partire da ciò che esiste – questo non significa che la rivolta sia la sola forma di lotta adeguata al presente ciclo di lotte. Nondimeno, è questo che la corrente insurrezionalista sembra suggerire, nel momento in cui pone la rivoluzione come una pratica immediata, già pronta per ogni lotta, per ogni trasformazione delle circostanze. Ma una tale posizione non potrà reggere a lungo, allorché l'intensificarsi delle lotte coglierà di sorpresa e trascinerà questa corrente dentro un movimento di rivolta più ampio, dove il suo porsi all'interno della lotta come la “comunizzazione in atto” sarà rimesso in causa dal movimento stesso. La corrente insurrezionalista è oggi presente nelle lotte ed è probabilmente sulla linea di fronte di una barricata in fiamme; gli insurrezionalisti mangiano, discutono, prendono posizione e ridono insieme a coloro che combattono al loro fianco; ed è per questa ragione che tali posizioni esistono, ma sono al contempo messe a confronto con altre, discusse e talvolta si rivelano inadeguate alla situazione. La corrente insurrezionalista, come tutte le altre, sarà superata da nuove teorie, corrispondenti a nuove situazioni – come diceva Malatesta – per abbandonare infine essa stessa i suo vecchi abiti. «Scusate! Avete per caso visto passare l'insurrezione?» - «No, ma c'è una sommossa lì all'angolo della strada, che saprà sicuramente indicarvi la direzione per trovarla».

Glossario, parte I Autotrasformazione «La dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e dell'educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli uomini e che l'educatore deve essere educato. Essa è costretta quindi a separare la società in due parti, delle quali l'una è sollevata al di sopra di essa società. «La coincidenza del variare delle circostanze e dell'attività umana, o autotrasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria.» [Karl Marx, Tesi su Feuerbach, 1845]

Composizione del capitale «La composizione del capitale è da considerarsi in duplice senso. Dal lato del valore essa si determina mediante la proporzione in cui il capitale si suddivide in capitale costante ossia valore dei mezzi di produzione e in capitale variabile ossia valore della forza-lavoro, somma complessiva dei salari. Dal lato della materia, quale essa opera nel processo di produzione, ogni capitale si suddivide in mezzi di produzione e forza-lavoro vivente; questa composizione si determina mediante il rapporto fra la massa dei mezzi di produzione usati da una parte e della quantità di lavoro necessaria per il loro uso dall'altra. Chiamerò composizione del valore la prima e composizione tecnica del capitale la seconda. Fra entrambe esiste uno stretto rapporto reciproco. Per esprimere quest'ultimo, chiamerò la composizione del valore del capitale, in quanto sia determinata dalla sua composizione tecnica e in quanto rispecchi 38


le variazioni di questa: la composizione organica del capitale. Dove si parlerà della composizione del capitale senz'altra specificazione, si dovrà sempre intendere la composizione organica. «I numerosi capitali singoli investiti in un dato ramo della produzione hanno una composizione più o meno differente l'un dall'altro. La media delle loro composizioni singole ci dà la composizione del capitale complessivo di quel ramo della produzione. E infine la media complessiva delle composizioni medie di tutti i rami della produzione ci dà la composizione del capitale sociale di un paese [...]» [Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIII: “La legge generale dell'accumulazione capitalistica”, 1867]

Concreto-di-pensiero «Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni ed unità, quindi, del molteplice. Per questo, esso appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell'intuizione e della rappresentazione. Per la prima via, la rappresentazione piena viene volatilizzata ad astratta determinazione; per la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero. È per questo che Hegel cadde nell'illusione di concepire il reale come risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e si approfondisce in se stesso, mentre il metodo di salire dall'astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso. [...] Per la coscienza – e la coscienza filosofica è così fatta, che per essa il pensiero pensante è l'uomo reale, e quindi il mondo pensato è, in quanto tale, la sola realtà – il movimento delle categorie appare quindi come l'effettivo atto di produzione (il quale purtroppo riceve soltanto un impulso dal di fuori) il cui risultato è il mondo; e ciò è esatto in quanto – ma qui abbiamo di nuovo una tautologia – la totalità concreta, come totalità del pensiero, come un concreto del pensiero, è in fact un prodotto del pensare, del comprendere; ma mai del concetto che genera se stesso e pensa al di fuori dell'intuizione e della rappresentazione. L'insieme, il tutto, come esso appare nel cervello quale un tutto del pensiero, è un prodotto del cervello pensante che si appropria il mondo nella sola maniera che gli è possibile, maniera che è diversa dalla maniera artistica, religiosa, pratico-spirituale di appropriarsi il mondo.» [Karl Marx, Introduzione a Per la critica dell'economia politica, 1857]

Periodizzazione «A partire dagli anni '70 del Novecento, il modo di produzione capitalistico passa da una prima fase della sussunzione reale del lavoro al capitale a una fase ulteriore di questa. Per parlare della ristrutturazione attuale, noi ci riferiamo alla distinzione tra sussunzione formale e sussunzione reale tracciata da Marx nel Capitolo VI inedito de “Il Capitale”, nei Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, nelle Teorie sul Plusvalore e ne Il Capitale. «Nella storia del modo di produzione capitalistico, si possono distinguere due periodi principali. Questi due periodi sono: la sussunzione formale del lavoro al capitale e la sussunzione reale; la loro distinzione risiede nella differenziazione delle modalità di estrazione del plusvalore: plusvalore assoluto e plusvalore relativo. 39


«Non si tratta qui di una semplice differenza tecnico-economica, a seconda che l'uno o l'altro dei due modi di estrazione del plusvalore sia dominante; è l'insieme dei rapporti sociali, l'insieme della contraddizione tra proletariato e capitale, a essere differente. La sussunzione formale, storicamente precedente, si caratterizza per il fatto che il capitale domina un processo lavorativo che gli preesiste: il plusvalore non può essere estorto se non allungando la giornata lavorativa o moltiplicando le giornate lavorative simultanee. Ciò significa egualmente che il modo di produzione capitalistico non domina l'insieme della società, e precisamente non domina le branche che producono le merci che entrano nel valore della forza-lavoro: la riproduzione della forza-lavoro non è un momento del ciclo proprio del capitale. Questa situazione si accompagna a una bassa composizione organica del capitale; il capitale stesso fa del fattore lavoro l'elemento determinante della valorizzazione, contrariamente alla situazione in cui la crescita della produttività è il mezzo dominante per accrescere il pluslavoro. La valorizzazione del capitale è una costrizione al pluslavoro alla quale il proletariato si sottomette nel primo momento dello scambio salariale: la compravendita della forza-lavoro. «Il carattere salariato del lavoro non è specificato se non in questo primo momento. Nel secondo (il consumo del lavoro da parte del capitale), non vi è differenza tra produrre più valore la cui riproduzione non costa nulla e produrre valore in generale. Produrre plusvalore è allora necessariamente produrre più valore totale, e non abbassare il valore delle merci che entrano nella riproduzione della forza-lavoro. Stante ciò che è il plusvalore assoluto, produrre più valore che non costa la propria riproduzione, che è la specificità del lavoro salariato, non ha ancora una manifestazione differente dall'essere semplicemente produttore di valore. Nel secondo momento dello scambio, la forma specifica del lavoro salariato si confonde con la semplice capacità del lavoro di essere creatore di valore (da qui la rilevanza, in tutte le teorie del socialismo come periodo di transizione, della contabilità del lavoro, del sistema dei buoni, della conservazione della merce, fatta eccezione per ciò che concerne la forza-lavoro). «Con la sussunzione formale, il dominio del capitale si risolve in una costrizione al pluslavoro, senza che il lavoro stesso sia interamente specificato come lavoro salariato, senza che il processo di lavoro sia un processo adeguato al capitale (ossia, nel quale l'assorbimento del lavoro vivo da parte del lavoro morto sia il fatto del processo di lavoro stesso – sviluppo del macchinismo), senza che le forze sociali del lavoro (cooperazione, divisione del lavoro, scienza) siano oggettivate nel capitale fisso. «Il capitale, nel suo rapporto al lavoro, si pone esso stesso come potenza esteriore. Ne consegue che il proletariato, nella sua contraddizione al capitale, consideri quest'ultimo come costrizione, e la rivoluzione come la propria liberazione, la propria affermazione. La lotta di classe ha per contenuto l'affermazione del proletariato, il suo ergersi a classe dominante, la produzione di un periodo di transizione, la formazione di una comunità fondata sul lavoro creatore di valore. Il proletariato è già, nella contraddizione che lo oppone al capitale, l'elemento positivo da svincolare. Il proletariato è in effetti allora in grado di opporre al capitale ciò che esso è presso il capitale, ovvero è in grado di liberare dal dominio capitalistico la situazione di classe dei lavoratori, e di fare del lavoro la relazione sociale tra tutti gli individui, la loro comunità. Ciò riconduce a voler basare sul valore un modo di produzione. «Con la sussunzione reale del lavoro al capitale, nella quale l'estrazione 40


relativa di pluslavoro è il punto centrale, si dissolve tutto ciò che faceva della condizione proletaria qualcosa da svincolare. La riproduzione della forzalavoro perde ogni autonomia in rapporto alla riproduzione del capitale, il lavoro non è più l'elemento dominante del processo di lavoro immediato, il processo di produzione diviene adeguato all'assorbimento del lavoro vivo da parte del lavoro morto, l'unità sociale dei capitali è fissata dallo scambio ai prezzi di produzione, ovvero in modo tale che la differenza tra capitale variabile e capitale costante sia negata, e la difesa della condizione proletaria non è più che un momento dell'autopresupposizione del capitale. Il lavoro è totalmente specificato come lavoro salariato. «Nella ristrutturazione attuale del modo di produzione capitalistico, [...] le modalità di estrazione del plusvalore relativo, della riproduzione della forzalavoro, del rapporto dei capitali tra loro, sono messe a soqquadro. La produzione di plusvalore relativo ha creato un mondo a propria immagine, nel quale nessuna specificazione sociale, storica o geografica, conservata e/o prodotta, viene ad ostacolare la riproduzione del capitale e la rimessa in causa costante delle sue condizioni. La mondializzazione della riproduzione del capitale non è la causa di questa ristrutturazione, né la sua dinamica interna, essa non è che la forma che deve necessariamente rivestire il contenuto di questa ristrutturazione in quanto trasformazione del rapporto di sfruttamento e della sua riproduzione. Essa non è, tuttavia, solamente una caratteristica tra le altre di questa ristrutturazione, essa ne è il contenuto come forma.» [Théo Cosme, Moyen-Orient 1945-2002. Histoire d'une lutte de classes, 2002]

(...soltanto una) Teoria «Solo nella misura in cui il pensiero appare come realtà, come momento del processo complessivo, esso può andare dialetticamente al di là della propria fissità, assumere il carattere del divenire. [...] Il pensiero e l'essere non sono quindi identici nel senso che essi si “corrispondono” reciprocamente, si “riflettono” l'uno nell'altro, procedono “parallelamente” o arrivano a “coincidere” (queste espressioni sono soltanto delle forme dissimulate di un rigido dualismo): la loro identità consiste piuttosto di uno e di uno stesso processo dialettico storico-reale. Ciò che la coscienza del proletariato “riflette” è quindi il positivo ed il nuovo che scaturisce dalla contraddizione dialettica dello sviluppo capitalistico. [...] «Marx dice che “per conoscere una determinata epoca storica noi dobbiamo andare al di là dei suoi limiti” e, se si tratta della conoscenza del presente, ciò costituisce un'operazione spirituale del tutto eccezionale. L'intero mondo circostante economico, sociale e culturale deve allora essere sottoposto ad una considerazione critica nella quale – ed è questa la cosa decisiva – il punto archimedico della critica, il punto a partire dal quale tutti questi fenomeni diventano comprensibili può avere, rispetto alla realtà del presente, solo il carattere di un'istanza: esso è quindi qualcosa di “irreale”, è “soltanto una teoria”; mentre per la conoscenza storica del passato, il presente stesso costituisce questo punto di avvio. [...] l'istanza proletaria non fa altro che conoscere ed esprimere chiaramente la direzione, la tendenza ed il senso del processo sociale, ed è perciò attivamente rivolta al presente in nome di questo processo.» [György Lukács, Storia e coscienza di classe, 1922]

41


Indice/ Editoriale...............................................................1 “Lavori” in corso....................................................2 Che cos'è Blaumachen...........................................15 La produzione storica della rivoluzione.................16 L'epoca delle rivolte è iniziata...............................26 Un dibattito sull'insurrezionalismo.......................29 Glossario, parte I..................................................38

http://illatocattivo.blogspot.com il.lato.cattivo@gmail.com

42


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.