sulle teorie della crisi

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SULLE TEORIE DELLA CRISI Alcuni riferimenti alle tesi sulle cause del crollo economico del capitalismo di Antonio Pagliarone

L’analisi marxista della società capitalista è oggi più che mai necessaria in quanto il sistema non è mai stato tanto frainteso quanto nelle attuali condizioni della sua esistenza. Paul Mattick

Occorre precisare che l’analisi marxiana delle crisi ha incontrato nel corso del tempo periodi di splendore alternati a fasi di totale misconoscimento. La cosa che sorprende di più è che nei periodi di lotta più o meno generalizzata il marxismo è stato completamente annacquato dalle tesi keynesiane mentre nei momenti di “pace sociale”, come quello attuale, le teorie marxiane classiche riassumono la dignità di un tempo. Possiamo affermare inoltre che lo stesso termine di “crisi” è stato talmente abusato da perdere ogni significato concreto.

Le teorie sulla crisi del capitalismo sono esplicitate prevalentemente nel Libro III del Capitale, libro che Marx aveva lasciato incompiuto e che Engels, dopo la sua morte, avrebbe dato alle stampe. È solo con la recente pubblicazione a cura del MEGA Institute del manoscritto originale del Libro III che è possibile misurare la portata degli interventi operati da Engels1 in funzione di una «sistematizzazione» della teoria marxiana sulle crisi capitalistiche2.

In ogni caso le tesi relative alle cause della “crisi” dei primi anni 70 sono riconducibili al modello marxiano classico relativo alla caduta tendenziale del saggio del profitto, piuttosto che alla vulgata sull’aumento improvviso del prezzo del greggio ad opera dell’OPEC che è stata messa definitivamente in discussione dagli ottimi studi fatti da Cyrus Bina sulla rendita differenziata e sulla dinamica delle riserve petrolifere (vedi Cyrus Bina La teoria della rendita petrolifera in Plusvalore n 9 Giugno 1991 e The Globalization of Oil 2006 (in www.countdownnet.info ) per non parlare della speculazione sui prezzi del petrolio attraverso contratti del tipo futures. Se tralasciamo le tesi keynesiane legate al tasso eccessivo di inflazione, una conseguenza piuttosto che la causa della crisi degli anni


70, criticate in maniera efficace da Paul Mattick nel suo Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista, si è potuto finalmente analizzare la dinamica della caduta tendenziale del saggio del profitto ad opera di un certo numero di studiosi marxisti del mondo anglosassone grazie all’utilizzo dell’evidenza empirica. Questi studi hanno sostanzialmente spiazzato le tesi relative alla sovraccumulazione’ o le numerose teorie basate sulla manifestazione ciclica di uno squilibrio fra domanda ed offerta di merci che porta di conseguenza ai due fattori legati alla crisi di realizzo e al sottoconsumo, tesi quest’ultima molto cara agli ambienti della sinistra sempre pronti a recepire i luoghi comuni più diffusi. Tutti gli intellettuali, e gli economisti accademici degli anni 70, avevano sposato l’ideologia keynesiana a tal punto da influenzare anche i piccoli movimenti sorti dopo l’esplosione momentanea del ’68, che facevano a gara per diventare i veri rappresentanti di una classe lavoratrice la quale vuole dal capitalismo tutto ciò che è possibile, guardandosi bene dal metterne in discussione le fondamenta.

Quindi il marxismo degli anni Sessanta e Settanta viene ormai associato nel bene e nel male al semplice intervento dello Stato nell’economia e alle più generali dinamiche della regolazione per cui erano diffuse le tesi che imputavano alle scelte di politica economica l’eventuale sviluppo o crisi del sistema capitalistico. Le teorie regolazioniste erano già presenti in Socialisme ou Barbarie ed espresse in una serie di articoli a partire dal n 31 nel 1960-61 con l’intervento di Paul Cardan Le mouvement révolutionnaire sous le capitalisme moderne (in italiano Capitalismo moderno e rivoluzione). Le tesi espresse dai barbaristi, esercitarono una certa influenza su Michael Aglietta, con il suo A Theory of Capitalist Regulation, New Left Books 1979, e su Robert Boyer, che con Fordismo e postfordismo. Il pensiero regolazionista Brossura. Università Bocconi 2007 ha anche introdotto il recente mito postfordista esaltato dalle tendenze più recenti provenienti dal vecchio operaismo italiano. Sono stati proprio i regolazionisti alla Socialisme ou Barbarie a teorizzare una evoluzione del capitalismo verso una forma in cui si manifestava un intervento sempre crescente dello stato che avrebbe portato alla burocratizzazione di tutte le attività economiche e sociali. Previsione rivelatasi totalmente fallace con i famosi anni 80 nei quali è stata spazzata via ogni forma di ideologia keynesiana. e con essa tutte le tesi del capitalismo burocratico.

Anche l’operaismo italiano sin dai sui esordi aveva adottato tesi regolazioniste espresse qua e là in una serie di interventi come R. Panzieri, Sull'uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in Quaderni Rossi, n. 1, 1961 ed in Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del "Capitale", in Quaderni Rossi, n. 4, 1964, sviluppate poi da M. Tronti ne La fabbrica e la società, in Quaderni Rossi n. 2, 1962 (ora in Operai e Capitale) e da A. Negri Crisi dello Stato Piano Opuscoli Marxisti Feltrinelli 1975 [rist. in "I libri del rogo", Roma, Derive Approdi, 2006] ed altri scritti come Marx sul ciclo e la crisi, Firenze, La Nuova Italia (Estr. da: Contropiano n. 2, maggio 1968). Per una critica all’ideologia dell’operaismo più in


generale vedi Il Romanzo delle nostre origini di Antonio Pagliarone nel volume Un Omaggio a Paul Mattick (disponibile nel sito www.countdownnet.info ).

Le ipotesi regolazioniste sono state criticate in maniera decisa da alcuni interventi ad opera di marxisti classici tra i quali possiamo citare John Weeks Le contraddizioni della competizione capitalistica una alternativa all’ipotesi regolazionista e dell’egemonia (di prossima uscita nel volume “Un Omaggio a Paul Mattick” Asterios Editore) e Paul Mattick Junior Critica alla Regolazione in Plusvalore n 11 Febbraio 1993. La prima recessione generalizzata del capitalismo moderno si è verificata nel 1971 dopo un periodo di sviluppo spettacolare, definito come Golden Age, seguito alla II Guerra Mondiale, che ha visto dal 1946 al 1970 tassi di crescita elevati e continuativi mai riscontrati in tutta la storia del capitalismo.

Nei primi anni 70 assistiamo ad un crollo che interessava non solo le economie più sviluppate ma anche quelle dei cosiddetti paesi emergenti e del Terzo Mondo. Ma la crisi più grave si è manifestata nel biennio 1974-75 cui ne sono seguite altre tre fino al 1991. Possiamo quindi affermare che nei paesi OCSE da quasi quarant’anni stiamo vivendo una fase di stagnazione con valori del PIL che non hanno mai più raggiunto i picchi dei mitici anni sessanta, fino ad arrivare al crash generalizzato che stiamo vivendo attualmente3. Se osserviamo la media della crescita del PIL nei paesi OCSE sul lungo periodo notiamo come il tasso medio nel periodo precedente il 1971-72 fosse superiore di ben tre volte la crescita annuale del periodo successivo.

La disoccupazione, che è rimasta sostanzialmente bassa in tutto il decennio degli anni 60, ha iniziato a salire pesantemente dopo il 1971-72 raggiungendo valori di circa 7 volte quella dell’intervallo che va dalla fine della guerra alla prima recessione. Parallelamente secondo i dati OCSE (National Accounts) sia gli incrementi di produttività sia i salari reali hanno conosciuto un declino nel periodo 1973-79 rispetto alla fase precedente 1960-72 e questi ultimi sono ristagnati a partire dal 1979. In sostanza il sistema capitalistico incontrava difficoltà crescenti nel garantire la riproduzione sociale tanto che il rapporto profitti-salari (ossia il saggio di sfruttamento) è andato sempre crescendo a partire dal 1970 come riporta il grafico 1 per la Gran Bretagna in Alan Freeman La contabilità nazionale misurata in grandezze di valore marxiane: il salario sociale e il saggio del profitto in Gran Bretagna (1950-1987) in Plusvalore n 11. Lo stesso Alan Freeman ha prodotto uno studio sulla Germania apparso in Plusvalore n 12 col titolo Il salario sociale in Germania ma tale fenomeno ha interessato tutte le economie maggiormente sviluppate come risulta dal saggio di A. Shaikh ed E.A. Tonak The Welfare State and the Myth of Social Wage uscito nel 1987 ed ora presente nel sito www.countdownnet.info.


Questo mutamento nell’andamento del rapporto profitti/salari è il risultato dei tentativi volti a sottrarre ai lavoratori i miglioramenti economici conseguiti negli anni 60 per effetto di una crescita economica associata alla quasi piena occupazione. Con la metà degli anni 70 vediamo poi aumentare sempre più il deficit di bilancio e la conseguente accumulazione del debito pubblico con una continua crescita dell’inflazione che in media ha raggiunto il 15% nell’area OCSE ed in Italia ha toccato punte superiori al 20%. Ma la cosa più interessante è stato il declino sul lungo periodo del saggio del profitto associato al declino del saggio di accumulazione in tutte le economie industrializzate come risulta dai grafici di Fig II, III, IV per USA, Giappone ed Europa riportati in Andrew Glyn I costi della stabilità: Le nazioni capitalistiche avanzate negli anni ottanta in Plusvalore n 12 (ora in www.countdownnet.info). Infatti il calo dell’accumulazione si ripercuote inevitabilmente sull’andamento del PIL che a sua volta decresce.

Interessanti sono i dati relativi agli incrementi dello stock di capitale fisso del periodo 1973-79 infatti Glyn afferma che:

La crescita dello stock di capitale privato é scesa del 5.4 % annuo del 1973 al 4.4 % del 1979; il declino piùpronunciato si é verificato in Giappone e il minore negli USA ... Il settore manifatturiero ha subito unadiminuzione ancor più acuta, specialmente in Europa dove il saggio di crescita dello stock di capitale si édimezzato fra il 1973 e il 1979 giungendo al 2 % annuo.

Poiché l’andamento dello stock di capitale4 è strettamente legato alla accumulazione viene così giustificato il declino di quest’ultima espresso nei grafici cui si è fatto riferimento ma affinché qualsiasi mutamento del saggio di accumulazione possa avere una qualche rilevanza rispetto alla redditività del capitale investito occorre eliminare l’ipotesi che il saggio di accumulazione sia automaticamente uguale al saggio del profitto; anzi perché la redditività del capitale possa aumentare occorre che si incrementi la differenza tra il saggio del profitto e quello dell’accumulazione a favore del primo così viene giustificato lo spostamento degli investimenti verso il settore finanziario iniziato proprio con la “crisi” dei primi anni 70. Il capitale è ahimè sottoposto ad un’ansia incurabile cioè non può fermarsi un momento, deve immediatamente essere reinvestito là dove la profittabilità è maggiore proprio per sopperire alla carenza di redditività. Marx considera che la caduta tendenziale del saggio di profitto "è, sotto ogni rispetto, la legge più importante della moderna economia politica, e la più essenziale per comprendere i rapporti più difficili. Dal punto di vista storico è la legge più importante. E’ una legge che, ad onta della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tanto meno espressa consapevolmente". Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica, Firenze, (Ed. La Nuova Italia, vol. II, p. 460).


Possiamo a questo punto porre sul tappeto la questione relativa ai fattori che hanno determinato la caduta tendenziale del saggio del profitto nei paesi avanzati sul lungo periodo affrontata da diverse angolature. Occorre premettere, se ce ne fosse ancora bisogno, che secondo la teoria marxiana il saggio di profitto, r, è dato dal rapporto tra plusvalore, Pv, e il capitale anticipato, a sua volta dato dalla somma del capitale costante, C, e del capitale variabile, V, ossia dall’ammontare dei salari:

Per Marx C/V costituisce la composizione organica del capitale e Pv/V il saggio di sfruttamento Evitando di considerare la teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto come una delle tante ideologie espresse dal marxismo volgare possiamo affermare che esistono due grandi ipotesi sui fattori che determinano la caduta di r :

1) I sostenitori del cosiddetto effetto “Profit Squeeze”, provocato dal capitale variabile, derivano dal dibattito iniziato con la critica di Otto Bauer alla Luxemburg, imputando la crisi capitalista ad un aumento eccessivo della popolazione rispetto alla produzione. Come sappiamo Henryk Grossman mise in luce la fallacità delle tesi di Bauer ma partendo dalle stesse premesse dimostrò nel suo La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Milano, Jaca Book, 1976, che il saggio del profitto si sarebbe azzerato sul lungo periodo5. Il metodo di Grossman venne valorizzato da Paul Mattick (vedi Introduzione a H. Grossman, “Marx, l’economia classica e il problema della dinamica”, Laterza, Bari, 1969) e tuttora studiato e sviluppato da alcuni studiosi marxisti tra i quali spicca Rick Khun Henryk Grossman and the Recovery of Marxism University of Illinois Press, Urbana and Chicago 2007. Una critica al modello di Grossman venne avanzata da Anton Pannekoek in un articolo apparso nel 1934 su Rätekorrespondenz n 1 (A. Pannekoek La teoria del crollo del capitalismo in D. Authier-J.


Barrot, «La sinistra comunista in Germania», Milano, La Salamandra, 1981). rimproverandolo di aver accettato il modello di Otto Bauer senza aver capito che lo stesso Grossman intendeva metterne in discussione proprio le premesse. Una tesi abbastanza particolare sui fattori che provocano una caduta dei profitti è quella sostenuta da Amadeo Bordiga nel suo Mai la merce sfamerà l'uomo. La questione agraria e la teoria della rendita fondiaria secondo Marx per la quale un eventuale declino dei profitti, che limitano l’accumulazione, verrebbe provocato dall’incremento della rendita. L’esistenza stessa della rendita sia in agricoltura, secondo la classica teoria ricardiana, sia nel settore che produce i beni necessari alla produzione costituirebbe il limite del capitalismo stesso insuperabile da qualsiasi altro fattore come la guerra o le scelte di politica economica. Poiché i prezzi dei beni alimentari e delle materie prime sono destinati, secondo questa tesi, ad aumentare indefinitamente, proprio per effetto dell’esistenza stessa dei rentiers (siano essi i proprietari della terra coltivabile o dei bacini da cui si estraggono le materie prime) il capitalismo è destinato ad entrare in una crisi permanente proprio perché appesantito dalla rendita che genererebbe una spinta salariale per rincorrere i costi della sua riproduzione e una limitazione dei profitti conseguibili. Le svariate tendenze della sinistra comunista si sono poi distinte nell’elaborare tesi conseguenti come quella degli scontri interimperialistici per la conquista di nuovi mercati secondo il modello luxemburghiano o abbracciando la teoria leninista secondo la quale uno sviluppo ineguale dei paesi capitalistici porterebbe quelli economicamente più avanzati adentrare in una fase imperialista nella quale la fusione tra capitale industriale, finanziario e lo Stato avrebbe come obiettivo uno scontro tra nazioni sviluppate per avere una “egemonia” e allo stesso tempo una aggressione nei confronti dei paesi più arretrati per il controllo delle materie prime.

Nei primi anni 70 oltre ad Ernest Mandel con i suoi interventi teorici piuttosto generici presenti in Che cos’è la teoria marxista dell’economia Samonà e Savelli 1972, gli economisti inglesi Andrew. Glyn, Bob Sutcliffe, Bob Rowthorn, R.Boddy – J.Crotty ipotizzavano che la crisi venisse provocata dall’aumento del capitale variabile sia sotto forma di incremento dei “salari” sia per effetto della piena occupazione, fattori questi che contrastando gli aumenti della produzione e della produttività generavano un inevitabile declino del saggio del profitto. Naturalmente vi era anche la variante che imputava alla lotta di classe (Boddy e Crotty) un ruolo determinante nel provocare la caduta dei profitti mentre l’economista marxista giapponese Makoto Itoh giustificava la caduta tendenziale con il progressivo esaurimento dell’esercito industriale di riserva.

2) La teoria dell’aumento della composizione organica (CCOO) del capitale prevede che la caduta tendenziale del saggio del profitto sul lungo periodo sarebbe imputabile al continuo aumento di quest’ultima ossia ad un incremento del capitale costante superiore agli incrementi di quello variabile o al limite con diminuzione di quest’ultimo. Questa ipotesi venne introdotta da Erich Preiser nel 1924 ma in seguito venne ripresa da


Maurice Dobb, Paul Mattick, David Yaffe, Anwar Shaikh, Chris Harman ed altri ed è caratterizzata anch’essa da diverse varianti. Ad esempio Shaikh in The Falling Rate of Profit and the Economic Crisis in the U.S. 1987 (consultabile nel suo sito) giustifica l’aumento relativo della composizione organica con la concorrenza tra i capitalisti in quanto ogni singolo tende ad operare investimenti nella direzione di un capitale fisso che garantisca aumenti di produttività così da far accrescere continuamente il rapporto capitale/prodotto netto tale da favorire ulteriori interventi analoghi tra gli altri concorrenti che determineranno ulteriori incrementi di produttività, mentre Chris Harman, seguendo più fedelmente Marx, imputa l’aumento della CCOO al fatto che il lavoro vivo non riesce ad aumentare allo stesso ritmo del lavoro morto ossia di quello incorporato nei mezzi di produzione. Esistono infine varianti alle due ipotesi come quella di Fred Moseley che imputa una diminuzione del saggio del profitto al continuo aumento del rapporto fra lavoro improduttivo e lavoro produttivo tale da determinare un saggio del plusvalore sempre inferiore alla composizione organica. Diego Guerrero nel suo Trabajo improductivo, crecimiento y terciarizaciòn (presente anche in inglese nel sito www.countdownnet.info ) ritiene importante operare una chiara distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo per poter effettuare rilevazioni corrette sulla dinamica del saggio del profitto.

Le tesi di Thomas Weisskopf, Samuel Bowles e David Gordon in linea generale prevedono una continua diminuzione del saggio del profitto in quanto gli incrementi della produttività nel settore che produce i benisalario, ossia quei beni che entrano direttamente o indirettamente nella produzione di lavoro, sono inferiori alla media con il conseguente aumento della quota dei salari rispetto al reddito. Un intervento critico ma molto importante sulle tesi relative alla caduta tendenziale del saggio del profitto è quello di Nobuo Okishio, che in Technical Change and the Rate of Profit, Kobe University Economic Review, 7, 1961 propone il suo famoso teorema attraverso il quale partendo da un apparato analitico adeguato tende a dimostrare che l’innovazione tecnologica può determinare un accrescimento del saggio del profitto in antitesi alla teoria marxiana.

In conclusione possiamo riferirci ad ipotesi intermedie tra le quali la tesi di Paolo Giussani espressa in Accrescimento della Composizione Organica del Capitale e Profit Squeeze 1998 (in www.countdownnet.info ) in cui l’autore dimostra teoricamente la possibile azione combinata dei due fattori che agirebbero alternatamene ma occorrerebbe una verifica empirica che comprovasse la ipotesi di partenza. Nel corso degli ultimi decenni si è sviluppata, specie all’estero, una corrente marxiana che si basa sull’evidenza empirica come verifica delle tesi e che in Italia è stata fatta conoscere, per quanto a un pubblico molto ristretto, dalla rivista «Plusvalore» e recentemente attraverso il sito www.countdownnet.info che ha curato la pubblicazione del volume Ma il capitalismo si espande ancora? Asterios Trieste 2008.


3) Le dinamiche della crisi finanziaria Secondo la teoria marxiana le dinamiche che porterebbero ad una crisi finanziaria sono legate all’andamento del sistema del credito come risulta dalla sezione V del III Libro del Capitale. L’introduzione del denaro come mezzo di pagamento comporta una divaricazione tra la vendita e l’acquisto di una merce cosicché la prosecuzione del processo di accumulazione viene garantita dalla disponibilità di capitale creditizio che nel tempo va a costituire un sistema “a sé”, separato dal capitale produttivo. Ma tale capitale creditizio determina inevitabilmente lo sviluppo di un reddito da ”interesse" totalmente separato dal reddito da “profitto” caratteristico del capitale produttivo che quindi potrebbe risultare insolvente alle scadenze relative al capitale preso a prestito specie in condizioni di caduta della redditività, insolvenza che a sua volta si ripercuote sul sistema creditizio. La carenza di liquidità comporta di conseguenza un crollo del credito che agirebbe da volano negativo proprio per l’effetto della continua domanda crescente di denaro. Ciò comporta un aumento del saggio di interesse che, se supera il saggio del profitto, va appunto a rallentare la disponibilità di denaro creditizio mentre aumentano le insolvenze e così via fino al manifestarsi di una crisi finanziaria con conseguente deflazione e chiusura delle attività produttive. Molti keynesiani ritengono che il semplice intervento delle banche centrali attraverso un aumento immediato della moneta circolante possa risolvere la carenza di liquidità e far ripartire il processo dimenticando che in condizioni di crash finanziario l’unica necessità di credito per il capitale produttivo è quella che permette di sopperire al debito accumulato. La teoria di Marx è stata arricchita dagli interventi di Makoto Itoh sullo sviluppo della speculazione relativa all’aumento artificioso dei prezzi dovuto al loro ammassamento realizzato da soggetti che traggono un utile. Questo tipo di speculazione sui prezzi richiede sempre più capitale creditizio che comporta un innalzamento del tasso di interesse anche a livelli superiori al tasso del profitto schiacciato, secondo Itoh, dal profit squeeze creando difficoltà nei pagamenti del debito a scadenza. Martin Wolfson nel suo Financial Crisis: Understanding the Postwar U.S. Experience (M.E. Scarpe 1995) ha fuso la teoria di Minsky sulla “fragilità finanziaria”, legata per qualsiasi motivo alle insolvenze e quindi all’incessante aumento del debito da parte dei soggetti economici, e quella di Marx sul declino della redditività del capitale. Infine la tesi di Ray Canterbery imputa le crisi finanziarie ad un “effetto casinò” basato da una sottostima degli effetti finanziari oggetto della dinamica speculativa. La tendenza dei governi alla detassazione va interpretata come una propensione a favorire la disponibilità di sempre maggiori risorse da indirizzare verso le attività speculative che divengono così il fulcro attorno al quale ruota tutta l’economia. Gli asset finanziari divengono sempre più entità a se stanti senza alcun legame con l’economia reale cosa che comporta una lievitazione dei tassi di interesse e la dissoluzione della liquidità con la conseguente fragilità ed un “effetto casinò” con gravissime conseguenze per il sistema bancario. Per maggiori chiarimenti vedi Paolo


Giussani “Problemi delle crisi finanziarie”Milano 1995 in www.countdownnet.info. Una tesi particolare sulla dinamica del “Capitale fittizio”, secondo la definizione di Marx, ossia del capitale sottoforma di asset finanziari e della perdita di dominio delle economie avanzate, come quella degli Stati Uniti, che si manifesta con un crollo delle divise monetarie è quella espressa da Loren Goldner nel suo Capitale fittizio e crisi del capitalismo Ponsinmor 2007.

Una bibliografia generale sulle teorie moderne delle crisi

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Note

1. A tale proposito vedi M. Heinrich, Engels Edition of the Third Volume of Capital and Marx’s Original Manuscript, «Science & Society», 1996-97, Vol. 60, n. 4, pp. 452466, ora disponibile in italiano grazie alla traduzione di Francesco Aloe nel volume “Un omaggio dovuto a Paul Mattick” di prossima uscita presso Asterios editore 2. Per esempio, famosi sono i passi sull’«immiserimento crescente» divenuti, con quelli sulla sovrapproduzione od il sottoconsumo, «luoghi comuni» tra i più frequentati dal militantismo marxista del secolo scorso.


3. Per una analisi del crash finanziario subito attualmente dall’economia globale si possono segnalare i testi di Paolo Giussani La crisi dell’economia, Mondializzazione. L’arcano globale 2002; L'indebitamento del settore finanziario americano 2004 ( reperibili nel sito www.countdownnte.info . Il vestito nuovo del capitalismo 2009 apparso in italiano e tedesco nel n 84 della rivista Wildcat ed anche nel loro sito www.wildcatwww.de/it/itindex.htm. Infine Antonio Pagliarone Mad Max Economy Sedizioni Milano 2008. Per le edizioni Asterios di Trieste è in preparazione una raccolta di interventi sulla crisi di numerosi autori marxisti. 4. Bisogna precisare che le rilevazioni statistiche degli stock di capitale fisso sono poco credibili. Poiché l’ammontare del capitale fisso costituisce un fattore fondamentale per l’accumulazione e quindi della crescita economica ma anche della sua crisi, l’inaffidabilità dei dati statistici rilevati portano ad essere inconsistenti le critiche operate nei confronti della tesi della CCOO dei Profit Sqeezer, dei sottoconsumisti, dei keynesiani e postkeynesiani. (verdi oltre). 5. Un ottima analisi del modello di Grossman la troviamo in P. Giussani Lo schema numerico del "crollo" del capitalismo di Henryk Grossmann di prossima uscita nella raccolta “Un Omaggio a Paul Mattick” Asterios Editore e presente nel sito www.countdownnet.info


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